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0 CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA Nona Commissione – Tirocinio e Formazione Professionale Incontro di studio sul tema: Il processo complicato Roma, 4-6 aprile 2011 Meccanismi processuali di instaurazione del simultaneo processo (iniziali e successivi, volontari e coatti, d’iniziativa del giudice e di iniziativa di parte) Relatore: Dott. Luciano Guaglione Cons. Corte d’Appello di Bari

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CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA

Nona Commissione – Tirocinio e Formazione Professionale

Incontro di studio sul tema: Il processo complicato Roma, 4-6 aprile 2011

Meccanismi processuali di instaurazione del simultaneo processo (iniziali e successivi, volontari e coatti, d’iniziativa del giudice e di iniziativa di parte)

Relatore: Dott. Luciano Guaglione

Cons. Corte d’Appello di Bari

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SOMMARIO

1. Premessa: a) gli scopi del simultaneus processus ed il valore dell’effettività; b) ambito dell’indagine; c) tipi di litisconsorzio.

2. Il litisconsorzio necessario (art. 102 c.p.c.): a) Inquadramento sistematico. b) L’indivi-duazione delle fattispecie (il litisconsorzio secundum tenorem rationis; il litisconsorzio ne-cessario connesso ad ipotesi di legittimazione straordinaria ad agire; il litisconsorzio necessario propter opportunitatem; il litisconsorzio unitario (o cumulo necessario); c) Rilievo del difetto di integrità del contraddittorio necessario e ordine del giudice di integrazione. d)Effetti dell’ottemperanza o meno all’ordine di integrazione del contraddittorio.

3.Il litisconsorzio facoltativo (art. 103 c.p.c.): inquadramento; pluralità di rapporti processuali tra loro scindibili; litisconsorzio facoltativo proprio ed improprio; le ragioni di opportunità; separazione ed estromissione. 4.L’intervento (litisconsorzio successivo): a) Inquadramento. b) L’intervento volontario (art. 105 c.p.c.): tipologie (principale, adesivo autonomo e adesivo dipendente). c) La costituzione del terzo interveniente. d)L’intervento coatto su istanza di parte (art. 106 c.p.c.): chiamata per comunanza di causa e per garanzia (propria ed impropria). I meccanismi di ingresso nel pro-cesso del terzo chiamato ex art. 106 c.p.c. La chiamata del terzo nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo. e) L’intervento coatto per ordine del giudice (art. 107 c.p.c.): l’onere a carico delle parti e le conseguenze dell’inottemperanza (differenza dall’art. 102 c.p.c.). Il presupposto della comunanza della lite e l’insindacabilità del potere discrezionale del giudice in sede di impugnazione.

5. Effetti della connessione sulla competenza: a) In caso di connessione soggettiva. b) In caso di connessione oggettiva. c) Nei casi di connessione c.d. qualificata o pregiudizialità-dipen-denza (accessorietà, garanzia, accertamento incidentale, compensazione, riconvenzione).

6. Modalità di realizzazione del simultaneus processus nel caso di proposizione di cause connesse in separati processi: a)innanzi ad uffici giudiziari diversi; b) davanti allo stesso ufficio giudiziario.

7. La connessione di cause assoggettate a riti diversi (art. 40 c.p.c.).

8. Le complicazioni processuali nel processo sommario di cognizione.

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1. Premessa. a) Gli scopi del simultaneus processus ed il valore dell’effettività. I diritti azionabili nel processo civile presentano molte volte aspetti di connessione tra loro

che suggeriscono o impongono il c.d. simultaneus processus, su più cause e/o tra più parti, e

ciò all’evidente scopo di realizzare obiettivi di economia processuale e di non contraddit-

torietà dei giudicati (o coordinamento tra le decisioni) che l’ordinamento si prefigge.

Il processo diventa in tal modo complicato sotto il profilo soggettivo e/o oggettivo, il che

pone delicati problemi di coordinamento tra detti obiettivi e l’esigenza di ragionevole durata

del processo, che si traduce nella realizzazione del valore dell’effettività, coperto da garanzia

costituzionale (art. 111 Cost.).

Il compito che mi è stato assegnato è quello di scandagliare i vari istituti processuali per

mezzo dei quali è possibile la costituzione del processo simultaneo. Sarà allora inevitabile

distinguere tra processi con più parti (su una stessa causa o su più cause) e processi con più

cause tra due sole parti. Sarà inoltre necessario analizzare i meccanismi iniziali e successivi di

costituzione del simultaneo processo, distinguendo altresì quelli volontari e coatti, d’iniziativa

del giudice e di iniziativa di parte.

Occorre tener presente anche che per favorire il cumulo di cause connesse il legislatore, per

lo meno nelle ipotesi in cui i nessi tra le diverse cause sono più intensi, prevede delle deroghe

agli ordinari criteri di competenza, volte a consentire appunto la trattazione delle cause

innanzi ad un unico giudice.

b) Ambito dell’indagine.

L’indagine sarà condotta avendo, come modello di riferimento, il processo ordinario di

cognizione, rispetto al quale la regolamentazione normativa è ovviamente completa ed ana-

litica.

Non mancheranno cenni ad analoghe problematiche sul versante dei processi sommari (in

particolare il nuovo processo sommario di cognizione), al quale il legislatore mostra sempre

maggior attenzione al fine di realizzare obiettivi di effettività e di economia di giudizi.

Ciò premesso, mi pare che le questioni principali da affrontare possono per comodità

inquadrarsi in due gruppi:

a) ipotesi di connessione generate dalla partecipazione al processo di più parti;

b) ipotesi di connessione tra cause in essere tra le medesime parti: ambito quest'ultimo che, almeno

tendenzialmente, comprende le ipotesi di cd. connessione per subordinazione (in realtà v'è qui

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anche l'ipotesi della causa di garanzia ex art. 32 c.p.c, che presuppone la partecipazione al giudizio

anche di un terzo soggetto).

c) Tipi di litiscorsorzio.

La pluralità di parti dà luogo al c.d. processo litisconsortile, che può essere caratterizzato

dalla presenza di più attori (litisconsorzio attivo) o di più convenuti (litisconsorzio passivo)

ovvero di più attori e più convenuti (litisconsorzio misto).

Rispetto al momento in cui si verifica la pluralità di parti, il litisconsorzio può essere:

- originario: se il processo viene instaurato fin dall’inizio, con l’atto introduttivo, con una

pluralità di parti (parliamo propriamente di litisconsorzio necessario o facoltativo);

- successivo: se alle due parti originarie se ne aggiungono altre durante il corso del processo

(e ciò per effetto di intervento, chiamate in causa ovvero riunione di due o più cause).

2.Il litisconsorzio necessario (art. 102 c.p.c.). Innanzitutto esaminiamo il caso del litisconsorzio necessario, che si ha quando la decisione

non può essere pronunciata che in confronto di più parti, sicchè queste devono agire o essere

convenute nello stesso processo (art. 102 c.p.c.)1.

Il meccanismo processuale di attivazione del simultaneus processus è in questo caso l’atto

introduttivo del giudizio (salvo, come vedremo, l’ordine d’integrazione successivo).

a)Inquadramento sistematico.

L’orientamento tradizionale e più risalente in dottrina2 considera l'eventuale necessità della

presenza di più parti nel processo (o litisconsorzio necessario) quale corollario della regola

1 A livello di bibliografia essenziale, v. BALENA, Istituzioni di diritto processuale civile, Bari, 2009; COSTANTINO, Contri-buto allo studio del litisconsorzio necessario, Napoli 1979; ID., voce Litisconsorzio, in Enc. giur. Treccani, XLX, Roma 1990; DENTI, Appunti sul litisconsorzio necessario, in Riv. dir. proc., 1958, 14; ID., Sentenza «inutiliter data e litisconsorzio necessario, in Giur. it., 1961, 1, 629; FABBRINI, Contributo alla dottrina dell'intervento adesivo, Milano 1964; ID., L'opposizione ordinaria del terzo nel sistema dei mezzi di impugnazione, Milano 1968; ID., voce Litisconsorzio, in Enc. dir., XXIV, Milano 1974; FRASCA, Note sui presupposti del litisconsorzio necessario, in Riv. dir. proc, 1999, 399 e 745; MENCHINI, Il processo litisconsortile, Milano 1993; PROTO PISANI, Opposizione di terzo ordinaria, Napoli 1965, 608; ID., Dell'esercizio dell'azione, in Commentario del c.p.c. diretto da Allorio, I, 2, Milano 1973, 1098; ID., Appunti sul litisconsorzio necessario e sugli interventi, in Riv. dir. proc, 1994, Ì52; RONCO, Studio sul litisconsorzio alternativo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2004, 905; TARZIA, Appunti sulle domande alternative, in Riv. dir. proc, 1964, 253; ID., Il litisconsorzio facoltativo nel processo di primo grado, Milano 1972; TOMEI, Alcuni rilievi in tema di litisconsorzio necessario, in Riv. dir. proc., 1980, 669; ZANUTTIGH , voce Litisconsorzio, in Digesto disc. priv., sez. civ., XI, Torino 1994. 2 v. CHIOVENDA, Sul litisconsorzio necessario, in Saggi di dir. Proc. Civ., II, Roma, 1931, p. 427 ss; ID., Isti- tuzioni, I, cit., p. 165; REDENTI, Il giudizio civile con pluralità di parti, Milano, 1960, e in Dir. proc. civ., II, Milano, 1953, p. 11 e ss.): in questo senso, CALAMANDREI. Istituzioni. II, p. 106; COSTA, L'intervento in causa,

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della legittimazione ad agire ; più precisamente un fenomeno di legittimazione ad agire ne-

cessariamente congiunta, determinata dalla contitolarità (affermata ) del rapporto sostanziale

che si fa valere, salvo poi vedere in quali casi, in concreto, la suddetta pluralità di soggetti del

rapporto sostanziale rende effettivamente necessaria la partecipazione al processo di tutti

costoro e salvi, ancora, taluni casi nei quali la necessarietà del litisconsorzio è disposta dalla

legge per sole ragioni di opportunità.

Altro indirizzo interpretativo3 riconduce l’istituto in discorso alla legittimazione necessaria-

mente congiunta per la plurisoggettività del rapporto sostanziale affermato.

Si sostiene infatti che, salvi taluni casi in cui la legge introduce la necessarietà del litiscon-

sorzio per ragioni di opportunità, il rapporto sostanziale che si fa valere è effettivamente unico

e tale inscindibilità della situazione giuridica sostanziale con pluralità di soggetti viene tra-

sportata nel processo.

b)L’individuazione delle fattispecie.

Orbene, tenuto conto che solo in alcuni casi è la legge che prevede espressamente la

necessità del litisconsorzio (es. domanda di divisione, che va proposta nei confronti di tutti i

coeredi o condomini ex art. 784 c.p.c.; domanda proposta in via surrogatoria dal creditore, che

deve citare anche il suo debitore diretto ex art. 2900, co. 2, c.c.), la dottrina più avveduta

(VERDE, BALENA) suole distinguere tre diversi gruppi di ipotesi in cui trova applicazione

l’art. 102 c.p.c.:

-Litisconzorzio secundum tenorem rationis, determinato dalla deduzione di un rapporto

(unico) plurisoggettivo.

Il criterio guida per affermare la necessità o meno del processo litisconsortile (ed evitare

una pronuncia inutiliter data) è offerto dalla oggettiva utilità della sentenza, e quindi dalla

verifica che la pronuncia su un rapporto sostanziale plurilaterale non può essere efficace,

neppure tra i partecipanti al giudizio, se non in quanto resa nei confronti di tutti i sog-

getti (ipotesi che si verifica soprattutto nei giudizi costitutivi relativi a stati o rapporti

plurilaterali).

Quando, invece, nonostante la plurisoggettività del rapporto, la pronuncia su di esso può

utilmente regolare i rapporti tra alcuni di quei soggetti lasciando impregiudicata la posizione

Torino, 1953, p. 24 ss.; ANDRIOLI, Commento, I, p. 2S3 ss.; FAZZALARI , Litisconsorzio necessario e filiazione legittima, in Giur. compl. Cass. civ., 1946, I, 45 ss; LIEBMAN, Manuale 4,1, p. 91. 3 Cfr. VERDE, Profili del processo civile, Napoli, 1991, p. 265; MANDRIOLI, Corso di diritto processuale civile, Torino, 2002, p. 350.

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degli altri, allora il litisconsorzio non è necessario (es. azione di condanna del creditore nei

confronti di uno solo dei condebitori solidali: in tal caso la condanna di uno solo di essi non

sarebbe certo inutiliter data).

In realtà il parametro della oggettiva utilità della sentenza non sempre si presta ad essere

apprezzato in termini assoluti, il che spiega perchè le soluzioni offerte dalla giurisprudenza

appaiono talora ispirate da un certo empirismo, quanto meno in alcuni settori.

La giurisprudenza è tutt'altro che rigida sia sulla determinazione dell'ambito dell'istituto

sia nella individuazione dei casi di effettiva necessarietà del litisconsorzio, nonché nella

determinazione delle conseguenze dell'eventuale esclusione dei litisconsorti. In sostanza, pur

continuando a ripetere la formula tralatizia secondo cui il litisconsorzio è necessario quando il

rapporto è plurilaterale e la pronuncia nei confronti di alcuni soltanto dei soggetti sarebbe

inutiliter data (v. ad es. Cass. 11 aprile 2000, n. 4593; Cass. 24 settembre 1994 n. 7861), in

pratica limita la portata di questa affermazione, talora sostenendo che questa inutilità non

sopravvive al giudicato (Cass. 20 gennaio 1986 n. 360; ma contra Cass. 14 ottobre 1988 n.

5566), talora limitando la portata del principio alle sentenze costitutive (Cass. 16 ottobre 1976

n. 3538) e comunque escludendolo per le sentenze di mero accertamento (Cass. 26 febbraio

1986 n. 1214; Cass. 10 gennaio 1980 n. 228; Cass. 15 giugno 1981 n. 3878). In ogni caso,

introduce costanti correttivi, ad es. escludendo che la necessarietà sussista ogni qual volta si

abbia il consenso o la non opposizione degli assenti dal giudizio, nonché riferendosi, più o

meno esplicitamente, al criterio (piuttosto evanescente, anche se utile sul piano pratico)

dell'interesse del terzo pretermesso ed infine escludendo la necessarietà del litisconsorzio

quando è possibile l'accertamento incidentale del diritto del terzo (Cass. 24 gennaio 1985, n.

325; ma contra la Cass. 6 novembre 1989 n. 4613, in Foro it., 1991,1,584 con nota contraria di

FRASCA, che ha ritenuto la necessarietà del litisconsorzio in un caso in cui un terzo opponeva

la sua qualità di subconduttore, nei confronti dell'asserito sublocatore, trascurando che

l'asserito rapporto di locazione fosse accertabile incidentalmente) o nei confronti del terzo,

con potenzialità di conflitto solo logico (Cass. 21 marzo 1990 n. 2327).

I punti sui quali si registrano gli indirizzi più univoci in giurisprudenza riguardano, dunque,

le azioni costitutive e quelle di condanna.

Per quel che concerne le prime, si ritiene che esse, avendo come obiettivo una modificazione

giuridica, esigano sempre la partecipazione al processo di tutti i contitolari del rapporto sul

quale tale modificazione dovrebbe operare , non essendo concepibile che gli effetti lato sensu

costitutivi del provvedimento perseguito dall'attore si producano per alcuni soltanto di essi.

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Ciò significa che vi è litisconsorzio necessario allorchè venga proposta una domanda costi-

tutiva relativamente ad un rapporto plurisoggettivo: si pensi, ad es., ad una domanda di costi-

tuzione di servitù coattiva a carico di un fondo appartenente pro indiviso a più proprietari, o di ese-

cuzione in forma specifica (ex art. 2932 cc.) dell'obbligo di concludere un contratto tra più

soggetti; oppure alla domanda di divisione espressamente menzionata dall'art. 784, per la parte in

cui si riferisce alla necessaria partecipazione di tutti i coeredi o condomini.

___________________________________

GIURISPRUDENZA Al di fuori dei casi in cui la legge espressamente impone la partecipazione di più soggetti al giudizio instaurato nei confronti di uno di essi, ricorre un'ipotesi di litisconsorzio necessario solo allorquando l'azione tenda alla costituzione o al mutamento di un rapporto plurisoggettivo unico oppure all'adempimento di una prestazione inscindibile , incidente su una situazione inscindibilmente comune a più soggetti, di modo che, se pronunciata in assenza del contraddittorio di tutte le parti interessate, l'emananda sentenza sia priva di alcuna pratica utilità; pertanto, non sussiste un'ipotesi di litisconsorzio necessario allorché il giudice proceda in via meramente incidentale e con effetto limitato alle parti in giudizio ad accertare una situazione giuridica che riguardi anche la parte in esso non presente, dal momento che tale accertamento può ben compiersi e produrre i suoi effetti tra dette parti del processo, senza chiamare in giudizio l'altra, la quale, in quanto pretermessa, non subisce alcun pregiudizio dall'accertamento incidentale, inidoneo a costituire giudicato nei suoi confronti. (Sulla base dell'enunciato principio, la S.C. ha escluso la necessità del litisconsorzio in un giudizio volto al pagamento di una somma di denaro richiesta da un contraente nei confronti dell'altro sulla base di un negozio, tra gli stessi stipulato, che aveva modificato un precedente contratto, al quale aveva partecipato anche un altro soggetto) (Cass. civ., sez. I, 23 settembre 2003, n. 14102; conf. Cass. civ., 26 luglio 2006, n. 17027).

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Quanto alle azioni di condanna, poi, sembra altrettanto certo che esse, tenuto conto della

natura normalmente bilaterale degli obblighi dedotti in giudizio, non possano dar luogo, di

regola, ad ipotesi di litisconsorzio necessario, se non nei casi in cui l'esecuzione del provve-

dimento richiesto, avendo ad oggetto una prestazione indivisibile, dovrebbe inevitabilmente

operare in pregiudizio di un diritto reale inscindibilmente comune a più soggetti: quando, ad es.,

la condanna riguardi la demolizione di un manufatto oggetto di comunione.

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GIURISPRUDENZA La domanda di demolizione di corpi di fabbrica abusivamente costruiti su un immobile acquistato da coniugi in regime di comunione legale, deve esser proposta nei confronti di entrambi, litisconsorti necessari, ancorché non risultino dalla nota trascritta nei registri immobiliari né detto regime, né l'esistenza del coniuge, non trattandosi di questione concernente la circolazione dei beni e l'anteriorità dei titoli, bensì di azione reale, che prescinde perciò dall'individuazione dell'autore materiale dei lamentati abusi edilizi. La eventuale violazione del contraddittorio è deducibile anche per la prima volta in sede di legittimità, se risultante dagli atti e non preclusa dal giudicato sulla questione (Cass. civ., sez. II, 26 aprile 2010, n. 9901).

La domanda di demolizione del muro di confine illegittimamente costruito dal confinante, ove proposta nei confronti del proprietario del fondo contiguo a quello attoreo, ha natura reale; qualora il confinante sia coniugato in regime di comunione legale sussiste il litisconsorzio necessario con il coniuge, in quanto l'eventuale accoglimento della domanda inciderebbe sul contenuto del diritto di

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proprietà dell'immobile e sulle facoltà di godimento e di disposizione di esso, di cui sono titolari entrambi i comproprietari del bene, a prescindere dall'autore dell'opera illegittimamente realizzata (Cass. cv., sez. II, 1 aprile 2008, n. 8441). La gronda del tetto di uno stabile condominiale costituisce bene comune, in quanto, essendo parte integrante del tetto e svolgendo una funzione necessaria all'uso comune, ricade tra i beni che l'art. 1117 n. 1 c.c. include espressamente tra le parti comuni dell'edificio; ne consegue che l'azione del condomino diretta alla demolizione della stessa, perché abusivamente eseguita da altro condomino, va proposta nei confronti di tutti i partecipanti del condominio, quali litisconsorti necessari (Cass. cv., sez. II, 15 maggio 2007, n. 11109). ______________________________________________

Considerevoli dubbi permangono, invece, circa le azioni di mero accertamento.

Se si muove dal presupposto che tali azioni hanno come unico obiettivo quello di fare certezza

circa l'esistenza di un diritto o di uno status dell'attore, contestato dal convenuto, oppure circa

l'inesistenza di un diritto che quest'ultimo abbia vantato nei confronti dello stesso attore, non

dovrebbe esservi ragione per escludere la possibilità che la domanda, pur riguardando, even-

tualmente, un rapporto plurisoggettivo, si rivolga esclusivamente nei confronti dell’autore

dell’indebita contestazione.

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GIURISPRUDENZA Nelle azioni di mero accertamento non è necessaria la partecipazione al giudizio di tutte le parti del rapporto sostanziale, in quanto non comportano alcuna modifica della situazione giuridica dipendente dal diritto controverso, essendo l'inscindibilità connessa solo alle azioni costitutive (Cass. civ., sez. II, 20 novembre 2002, n. 16327).

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A tale principio corrisponde, del resto, il consolidato orientamento giurisprudenziale secondo

cui tanto l'azione confessoria quanto quella negatoria servitutis escludono, di per sé (salvo che

non implichino anche la condanna ad un facere indivisibile), la necessità del litisconsorzio (attivo

o passivo) allorché il fondo (preteso) dominante o servente appartenga in comunione a più

soggetti.

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GIURISPRUDENZA In materia di procedimento civile, l'actio confessoria o l'actio negatoria servitutis diretta - nell'ipotesi che il fondo dominante o quello servente o entrambi appartengano pro indiviso a più proprietari - soltanto a far dichiarare, nei confronti di chi ne contesti o ne impedisca l'esercizio, l'esistenza della servitù o a conseguire la cessazione delle molestie, non dà luogo a litisconsorzio necessario, nè dal lato attivo nè da quello passivo. Solo qualora sia domandato anche un mutamento dello stato di fatto dei luoghi, mediante la demolizione di manufatti o di costruzioni, che incida su di un rapporto inscindibilmente comune a più soggetti, l'azione deve essere esperita nei confronti di tutti i proprietari, giacché solo in tal caso la sentenza, ove non avesse efficacia nei confronti di tutti, risulterebbe ineseguibile e, pertanto, inutiliter data (Cass. civ., sez. II, 7 giugno 2002, n. 8261). ____________________________________________________

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In altre ipotesi, riguardanti per lo più l'accertamento del diritto di proprietà su immobili, la stessa

giurisprudenza, tuttavia, approda spesso a conclusioni tutt'altro che coerenti con tale principio (v.

Cass. civ., 17 marzo 2006, n. 6056); probabilmente in considerazione dell'opportunità che la

sentenza di accoglimento della domanda sia poi concretamente trascrivibile in favore e/o contro

tutti gli interessati.

Contraddittoria appare, altresì, la soluzione adottata per alcune azioni di accertamento tipiche

concernenti l'efficacia di contratti stipulati fra più parti: così, ad es., si suole affermare la necessità del liti-

sconsorzio per l'azione di simulazione, assoluta o relativa (v. Cass. civ., 2 marzo 2007, n. 4901), mentre

per l'azione di nullità la si nega in generale (Cass. civ., 20 maggio 1997, n. 4462), tranne che in alcuni

casi (v. Cass. civ., sez. II, 21 maggio 2008, n. 12850).

___________________________________________

GIURISPRUDENZA In tema di condominio degli edifici, l'azione di accertamento della proprietà comune, in quanto ha ad oggetto la contitolarità del diritto di proprietà in capo a tutti i condomini, è relativa a un rapporto sostanziale plurisoggettivo unitario, dando luogo a un'ipotesi di litisconsorzio necessario fra tutti i condomini; infatti, il giudicato si forma ed è opponibile nei confronti dei soli soggetti che hanno partecipato al giudizio; d'altra parte, poiché non è applicabile ai rapporti assoluti la disciplina specifica dei rapporti obbligatori, non è estensibile alla specie il criterio dettato in materia di obbligazioni indivisibili dall'art. 1306 c.c., in virtù del richiamo di cui all'art. 1317 c.c., secondo cui gli effetti favorevoli di un sentenza pronunciata nei confronti di uno o di alcuni dei diversi componenti dell'obbligazione solidale o indivisibile si comunicano agli altri (Cass. civ., sez. II, 17 marzo 2006, n. 6056). La fattispecie della simulazione, sia essa assoluta o relativa, integra una ipotesi di litisconsorzio necessario tra le parti del contratto solamente nel caso in cui il relativo accertamento risulti proposto in via principale, e non anche quando ad esso si proceda in via meramente incidentale, nell'ambito di un altro e diverso procedimento volto ad una pronuncia che non incida direttamente sul patrimonio del contraente pretermesso, ma sia destinata a produrre i suoi effetti unicamente tra le parti del processo (Cass. civ., sez. II, 2 marzo 2007, n. 4901; conf. Cass. civ., sez. II, 13 febbraio 2008, n. 3474). Nella simulazione relativa della compravendita per interposizione fittizia dell'acquirente, non è indispensabile la presenza in giudizio del venditore, in qualità di litisconsorte necessario nella controversia promossa dal terzo creditore nei confronti dell'acquirente dissimulato e dell'acquirente interposto, ove il contratto sia stato integralmente eseguito nei confronti del venditore medesimo e sia, conseguentemente, escluso ogni suo interesse a conservare quale contraente la persona interposta, anziché la persona reale, partecipe effettiva del negozio (Cass. civ., sez. II, 7 luglio 2009, n. 15955). In tema di azioni di accertamento della nullità, la sentenza resa nei confronti di alcuni soltanto dei legittimi contraddittori non è mai inutiliter data, per cui va esclusa la violazione del contraddittorio, non vertendosi in ipotesi di litisconsorzio necessario (Cass. civ., sez. II, 20 maggio 1997, n. 4462). Il regolamento di condominio cosiddetto contrattuale, quali ne siano il meccanismo di produzione ed il momento della sua efficacia, si configura, dal punto di vista strutturale, come un contratto plurilaterale, avente cioè pluralità di parti e scopo comune; ne consegue che l' azione di nullità del regolamento medesimo è esperibile non nei confronti del condominio (e quindi dell'amministratore), carente di legittimazione in ordine ad una siffatta domanda, ma da uno o più condomini nei confronti di tutti gli altri, in situazione di litisconsorzio necessario (Cass. civ., sez. II, 21 maggio 2008, n. 12850). ________________________________________

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-Il litisconsorzio necessario connesso ad ipotesi di legittimazione straordinaria ad agire.

Il secondo gruppo di fattispecie nelle quali si è soliti affermare la necessità del liti-

sconsorzio riguarda le ipotesi di legittimazione straordinaria ad agire, che ricorre quando, in

casi tassativi di sostituzione processuale, non si è in presenza di un rapporto unico con più

soggetti, ma di rapporti distinti.

Il paradigma, a questo riguardo, può essere offerto dall'azione surrogatoria, per la quale l'art.

2900, 2° co., c.c. espressamente prevede che il creditore, qualora agisca giudizialmente nei

confronti del debitor debitoris, debba obbligatoriamente citare «anche il debitore al quale intende

surrogarsi»; oppure dall'art. 1012, 2° co., c.c., che impone all'usufruttuario, il quale agisca in

confessoria o in negatoria servitutis, di chiamare in giudizio anche il proprietario del fondo.

Autorevole dottrina ritiene, infatti, che tali disposizioni siano espressive di un principio

generale, secondo cui, ogniqualvolta agisca un soggetto investito di legittimazione straor-

dinaria, debba considerarsi litisconsorte necessario anche il legittimato ordinario (o so-

stituito), cioè il vero titolare del rapporto dedotto in giudizio dal sostituto processuale.

In questi casi è in gioco non tanto la «utilità» della sentenza invocata dall'attore - che ben

potrebbe operare, in caso di accoglimento della domanda, quanto meno in favore del titolare del

rapporto rimasto estraneo al giudizio - quanto, semmai, l'interesse del convenuto ad ottenere un

giudicato che faccia stato in ogni caso anche nei confronti del legittimato ordinario-sostituito.

-Il litisconsorzio necessario propter opportunitatem.

Il terzo gruppo di fattispecie riguarda i casi in cui è imposta la partecipazione al processo dei sog-

getti titolari di un rapporto giuridico diverso da quello oggetto del giudizio, ma ad esso stretta-

mente collegato, di solito per ragioni di pregiudizialità-dipendenza.

Anche in questi casi si tratta di rapporti giuridici distinti, facenti capo a parti diverse, sicché la

partecipazione necessaria allo stesso processo di tutti i rispettivi titolari discende da ragioni di

mera opportunità, connesse all'intento di conseguire - solitamente a tutela di taluno dei titolari

del rapporto dipendente - un accertamento uniforme ed incontrovertibile del rapporto

pregiudiziale, evitando così il rischio di un contrasto di giudicati.

Così, ad es., nell’ipotesi di azione diretta del danneggiato nei confronti dell'assicuratore di

responsabilità civile, accordata dall'art. 144 d.lgs. n. 209/2005, la legge impone che nel

giudizio promosso contro l’assicuratore sia citato anche il «responsabile del danno» (ossia, per

giurisprudenza costante, il proprietario del veicolo danneggiante). La ragione è nel fatto che,

quantunque l’impresa assicuratrice risponda per contratto, intanto può essere condannata in

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quanto venga provata la responsabilità in capo al proprietario del veicolo, nei cui confronti

peraltro la stessa impresa assicuratrice può anche successivamente agire in rivalsa.

Altre fattispecie, che si ritengono peraltro tipiche e tassative, sono rinvenibili negli artt.

784 c.c. (nella parte in cui si riferisce alla necessaria partecipazione dei creditori opponenti

alla divisione) e 247 c.c. (giudizio di disconoscimento di paternità, nel quale sono litisconsorti

necessari il presunto padre, la madre ed il figlio).

____________________________________

GIURISPRUDENZA Nel giudizio instaurato dal danneggiato per il risarcimento del danno da incidente stradale direttamente nei confronti dell'assicuratore ai sensi dell'art. 18 l. n. 990/69, è litisconsorte necessario, a norma dell'art. 23 della stessa legge, il responsabile del danno, intendendosi per tale il proprietario del veicolo assicurato. Ne consegue che in situazione di litisconsorzio necessario o causa inscindibile, indipendentemente dalla natura del litisconsorzio, sostanziale o processuale, l'impugnazione proposta da uno dei litisconsorti soccombenti osta al passaggio in giudicato della sentenza impugnata nei riguardi degli altri litisconsorti (Cass. civ., sez. III, 22 aprile 2009, n. 9553). _________________________________________

- Il litisconsorzio unitario (o cumulo necessario).

Ai tre gruppi di ipotesi di litisconsorzio necessario, parte della dottrina (VERDE, MENCHINI) ne

aggiunge un quarto, che definisce litisconsorzio unitario (o cumulo necessario), la cui disciplina si

colloca a metà strada tra il litisconsorzio necessario e quello facoltativo.

Il caso paradigmatico è costituito della impugnazione delle deliberazioni assembleari delle

società di capitali: ai sensi degli artt. 2377 ss. c.c., ciascuno dei soci assenti o dissenzienti può

impugnare per conto suo la deliberazione, ma le impugnazioni proposte contro la medesima

delibera devono essere istruite congiuntamente e decise con unica sentenza (art. 2378, co. 5,

c.c.). Come per il litisconsorzio facoltativo, le azioni sono indipendenti, ed il giudice non deve

ordinare l'integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri soci che non abbiano

proposto l'impugnazione, anche se legittimati alla stessa.

Come per il litisconsorzio necessario, tuttavia, le impugnazioni proposte devono neces-

sariamente essere trattate in un unico processo e, non essendo consentita la separazione, decise

con unica sentenza.

______________________________

Va segnalato che, in base al d.lgs. n. 546 del 1992 (art. 14), l'istituto del litisconsorzio necessario nel processo tributario "si configura come fattispecie autonoma rispetto a quella del litisconsorzio necessario, di cui all'art.. 102 cod. proc. civ., poichè non detta come quest'ultima, una norma in bianco, ma positivamente indica i presupposti nella inscindibilità della causa determinata dall'oggetto del ricorso. Sulla base di questi presupposti, un'ipotesi di litisconsorzio tributario, ai sensi del citato art. 14, si configura ogni volta che, per effetto della norma tributaria o per l'azione esercitata dall'ammi-nistrazione finanziaria, l'atto impositivo debba essere o sia unitario, coinvolgendo nella unicità della

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fattispecie costitutiva dell'obbligazione una pluralità di soggetti, ed il ricorso, pur proposto da uno o più degli obbligati, abbia ad oggetto non la singola posizione debitoria del o dei ricorrenti, bensì la posizione inscindibilmente comune a tutti i debitori rispetto all'obbligazione dedotta nell'atto autoritativo impugnato, cioè gli elementi comuni della fattispecie costitutiva dell'obbligazione" (Cass. 1052/2007). _______________________________________

c)Rilievo del difetto di integrità del contraddittorio necessario e ordine del giudice.

Il difetto di integrità del contraddittorio è rilevabile d’ufficio dal giudice in ogni stato e

grado del processo. Tale facoltà trova però un limite nel giudicato che si sia formato sulla

questione, sia pure con effetti circoscritti a coloro che hanno partecipato alla causa (cfr. Cass.

civ., 11 settembre 2000, n. 11916).

Ove sia la parte a sollevare l’eccezione di non integrità del contraddittorio, essa è tenuta non

solo ad indicare le persone che devono partecipare al giudizio quali litisconsorti necessari e a

provarne l’esistenza, ma anche a dimostrare i presupposti di fatto che giustificano l’inte-

grazione.

_____________________________________________ GIURISPRUDENZA La non integrità del contraddittorio è rilevabile, anche d'ufficio, in qualsiasi stato e grado del procedimento e, quindi, anche in sede di giudizio di legittimità, nel quale la relativa eccezione può essere proposta, anche per la prima volta, nel solo caso in cui il presupposto e gli elementi di fatto posti a fondamento della stessa emergano ex se dagli atti del processo di merito, senza la necessità di nuove prove e dello svolgimento di ulteriori attività; in tal caso, tuttavia, la parte che eccepisce la non integrità del contraddittorio ha l'onere non soltanto di indicare le persone che debbono partecipare al giudizio quali litisconsorti necessari e di provarne l'esistenza, ma anche quello di indicare gli atti del processo di merito dai quali dovrebbe trarsi la prova dei presupposti di fatto che giustificano la sua eccezione (Cass. civ., sez. II, 16 ottobre 2008, n. 25305). _______________________________________________ La mancata partecipazione di tutti i soggetti, quando è necessaria, condiziona il potere-

dovere del giudice di pronunciarsi sul merito.

Quando c'è litisconsorzio necessario, la causa è unica e va proposta (o riunita) dinanzi ad un

unico giudice, il quale (in mancanza di una distribuzione della competenza per materia e per

valore) non può che essere quello preventivamente adito, dovendo disporre l'integrazione del

contraddittorio.

___________________________________

Diverso è il caso della causa unica, erroneamente incardinala dinanzi a giudici diversi per singoli segmenti, che deve essere trattata necessariamente dinanzi ad un solo giudice. In questo caso non si tratta di riunire cause connesse, ma di ricomporre l'unicità della causa: la frammentazione processuale è l'effetto della patologica scomposizione della causa che deve essere ricomposta in un unico alveo processuale. E' il caso in cui i litisconsorti necessari abbiano iniziati percorsi processuali separati (Cass. 1052/2007). ___________________________________________

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In applicazione di tale principio l’art. 102, co. 2, c.p.c. prevede, in caso di difetto di parteci-

pazione congiunta di tutte le parti, l’ordine del giudice di integrare il contraddittorio in un

termine perentorio, ossia di chiamare a partecipare al processo – già pendente – coloro che

dovrebbero parteciparvi, ma che vi sono fuori4.

La Suprema Corte ha chiarito che l’ordine di integrazione, che sarebbe opportuno impartire

il più presto possibile (alla prima udienza, a seguito delle verifiche preliminari), può in realtà

intervenire anche nel corso del giudizio, e perfino in fase decisoria.

_____________________________________

GIURISPRUDENZA Qualora il giudizio venga promosso contro alcuni soltanto dei litisconsorti necessari, a norma dell'art. 102, comma 2, c.p.c. il giudice deve ordinare l'integrazione del contrad-dittorio in un termine perentorio da lui stabilito, non solo all'udienza di prima comparizione, come previsto dall'art. 180, comma 1, c.c., ma anche nel corso del giudizio e, quindi, anche quando la non integrità del contraddittorio venga rilevata in sede di decisione della causa. Ne consegue che è errata la sentenza con la quale il giudicante, rilevata la non integrazione del contraddittorio, ne faccia discen-dere l'inammissibilità della domanda, anziché l'adozione del provvedimento ordinatorio imposto dall'art. 102, comma 2, c.p.c. (Cass. civ., sez. III, 2 luglio 2010, n. 15690). __________________________________________ Quid iuris se il giudice non rileva il difetto di integrità del contraddittorio e pronuncia

sentenza sul merito? Orbene, le conseguenze della violazione dell’art. 102 c.p.c. in primo

grado non sono particolarmente gravi, perché il vizio può essere fatto valere in sede di impu-

gnazione e dar luogo, ai sensi dell’art. 354 c.p.c., alla declaratoria di nullità della sentenza ed

al ritorno della causa innanzi al giudice di primo grado.

Il vero problema si pone allorchè il vizio non è denunciato con l’impugnazione e la sen-

tenza sul merito, pronunciata a contraddittorio non integro, passa in giudicato.

Si suole in genere parlare, in questa ipotesi, di sentenza inutiliter data, e cioè improduttiva

di effetti nei confronti di tutti (non soltanto quindi nei confronti del litisconsorzi pretermessi

ma anche nei confronti delle parti tra le quali è stata pronunciata).

Parte della dottrina5 condivide tale soluzione limitatamente alle ipotesi di l.c.n. secundum

tenorem rationis (non essendo concepibile che la pronuncia produca effetti solo nei confronti

di taluno dei contitolari del rapporto inscindibile oggetto di decisione), mentre negli altri casi

non vi sarebbe ragione per escludere che la sentenza - malgrado il giudicato - esplichi gli ef-

fetti cui risulti idonea rispetto alle parti che hanno partecipato al giudizio (es. danneggiato ed

assicuratore, non potendo invece vincolare il responsabile-assicurato rimasto estraneo, nell’e-

ventuale giudizio di rivalsa successivamente proposto nei suoi confronti dall’assicuratore).

4 Cfr. MANDRIOLI, Corso , cit., p. 352. 5 V. BALENA, Istituzioni dir. proc. civ., cit., p. 209.

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d)Effetti dell’ottemperanza o meno all’ordine di integrazione del contraddittorio.

Se a tale ordine viene data puntuale esecuzione , il processo prosegue regolarmente nella

forma litisconsortile, producendo l’integrazione effetti processuali e sostanziali.

______________________________________

GIURISPRUDENZA In ipotesi di litisconsorzio necessario, l'integrazione del contraddittorio prevista dal comma 2 dell'art. 102 c.p.c. ha effetti di ordine sia processuale che sostanziale, nel senso che essa interviene a sanare l'atto introduttivo viziato da nullità per la mancata chiamata in giudizio di tutte le parti necessarie ed è altresì idonea a interrompere la prescrizione e a impedire la decadenza anche nei confronti delle parti necessarie originariamente pretermesse (Cass. civ., sez. un., 22 aprile 2010, n. 9523). ____________________________________________

Viceversa la mancata ottemperanza all’ordine di integrazione nei confronti del litiscon-

sorte pretermesso determina l’estinzione del processo, in virtù del disposto dell’art. 307, co.

3, c.p.c. La formale declaratoria di estinzione non è più condizionata dalla tempestività della

eccezione formulata dalla parte interessata prima di ogni altra difesa; per effetto della modi-

fica del 5° co. dell’art. 307 c.p.c. (introdotta dall’art. 46 l. 69/2009, applicabile ai giudizi

iniziati dal 4 luglio 2009) “l’estinzione opera di diritto ed è dichiarata, anche d’ufficio, con

ordinanza del giudice istruttore ovvero con sentenza del collegio”.

e) Il litisconsorzio in fase di gravame.

La struttura litisconsortile del processo deve essere riproposta in fase di gravame.

Pertanto, nel caso in cui la parte che propone l'impugnazione non provveda a notificarla alle

altre parti, all'omissione deve porre rimedio, ex art. 331 c.p.c., il giudice dell'impugnazione

stessa, cui, salva la decisione finale, non è consentito di eludere "in limine" tale disposizione

con un diverso apprezzamento della situazione processuale, essendo, per contro, tenuto in

ogni caso a disporre l'integrazione del contraddittorio per il solo fatto che la parte chiamata a

partecipare al precedente grado o fase del giudizio non sia stata citata in quello d'impugna-

zione. Qualora l'integrazione del contraddittorio non sia stata disposta nel giudizio d' appello,

tale omissione determina la nullità dell'intero procedimento di secondo grado, rilevabile anche

d'ufficio in sede di legittimità, con la conseguenza che la Corte di cassazione è tenuta a ri-

mettere, ai sensi del combinato disposto degli art. 331 e 383 c.p.c., le parti dinanzi al giudice

d' appello per un nuovo esame della controversia, previa integrazione del contraddittorio nei

confronti della parte pretermessa6.

6 Cfr., ex plurimis, Cass. civ., sez. II, 27 febbraio 2008, n. 5131.

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______________________________ GIURISPRUDENZA L'azione con la quale si chiede, nei confronti dei comproprietari dell'immobile confinante, la rimozione, o comunque l'arretramento a distanza legale, di opere assunte come abusivamente eseguite, dà luogo ad un litisconsorzio necessario passivo e, quindi, in appello determina la configurazione di una ipotesi di cause inscindibili ai sensi dell'art. 331 c.p.c.; ne consegue che la mancata citazione in appello di uno dei litisconsorti costituisce un vizio rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del processo (Cass. civ., sez. III, 11 febbraio 2009, n. 3338; conf. Cass. civ., sez. II, 23 febbraio 2009, n. 4382).

L'obbligatorietà dell'integrazione del contraddittorio nella fase dell'impugnazione, al fine di evitare giudicati contrastanti nella stessa materia e tra soggetti già parti del giudizio, sorge non solo quando la sentenza di primo grado sia stata pronunciata nei confronti di tutte le parti tra le quali esiste litisconsorzio necessario sostanziale e l'impugnazione non sia stata proposta nei confronti di tutte, ma anche nel caso del cosiddetto litisconsorzio necessario processuale, quando l'impugnazione non risulti proposta nei confronti di tutti i partecipanti al giudizio di primo grado, sebbene non legati tra loro da un rapporto di litisconsorzio necessario, sempre che si tratti di cause inscindibili o tra loro dipendenti (art. 331 c.p.c.), nel qual caso la necessità del litisconsorzio in sede di impugnazione è imposta dal solo fatto che tutte le parti sono state presenti nel giudizio di primo grado. Ne consegue che, in entrambe le ipotesi, la mancata integrazione del contraddittorio nel giudizio di appello determina la nullità dell'intero procedimento di secondo grado e della sentenza che lo ha concluso, rilevabile d'ufficio anche in sede di legittimità. (Nella specie, la S.C. ha cassato con rinvio la sentenza di appello che, in un caso di dipendenza di cause, determinato dalla contestazione tra più soggetti circa l'individuazione dell'unico obbligato a seguito di successione a titolo particolare nel diritto controverso, non aveva provveduto ad integrare il contraddittorio nei confronti di una delle parti, già presente in primo grado e non estromessa, sulla cui posizione di legittimata passiva si discuteva) (Cass. civ., sez. III, 26 gennaio 2010, n. 1535). Nel giudizio di appello relativo a cause inscindibili, qualora uno dei destinatari dell'impugnazione sia deceduto, è nulla la notificazione dell'atto di integrazione del contraddittorio effettuata in persona del chiamato all'eredità che non abbia assunto la qualità di erede o vi abbia rinunciato prima della notifica stessa, in quanto la legitimatio ad causam non si trasmette dal de cuius al chiamato all'eredità per effetto della semplice apertura della successione, ma soltanto a seguito dell'acquisto della qualità di erede, gravando su chi agisce in giudizio l'onere quanto meno di dedurre che tale acquisto si è verificato. Ciò non comporta peraltro l'inammissibilità dell'impugnazione, in quanto il carattere perentorio del termine di cui all'art. 331 c.p.c. non consente di escludere, in base ad un adeguato bilanciamento tra il diritto di difesa dell'effettivo destinatario dell'impugnazione ed il pari diritto del notificante, la possibilità di assegnare un nuovo termine per la notificazione, a condizione che la parte onerata alleghi l'impossibilità di osservare il primo termine per causa a lei non imputabile e chieda l'assegnazione di un nuovo termine per provvedere alla notifica (Cass. civ., sez. I, 12 settembre 2008, n. 23543).

_____________________________________

3. Il litisconsorzio facoltativo (art. 103 c.p.c.)

Si verifica quando per ragioni di convenienza pratica, più azioni vengono esercitate nello stesso

processo; in questo caso la legge non impone ma consente che più soggetti agiscano o siano con-

venuti nello stesso processo.

In caso di litisconsorzio facoltativo, il processo è soltanto formalmente unico, poiché alla pluralità

delle parti che agiscono o sono convenute nello stesso processo corrisponde una pluralità di rappori

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processuali tra loro scindibili che, perciò, rimangono indipendenti, di guisa che le vicende proprie di

ciascuno di essi, singolarmente considerato, non possono interferire e comunicarsi agli altri.

Queste ragioni di opportunità, che consigliano di esercitare nello stesso processo azioni di-

verse, sono indicate nell’art. 103 c.p.c. e trovano fondamento nella connessione tra le azioni,

che consente il cumulo soggettivo di cause, rimessa alla volontà dell’attore.

In base al citato articolo il litisconsorzio facoltativo può essere di due tipi:

1) proprio: più persone possono agire o essere convenute nello stesso processo a condizione che

fra le cause proposte esista connessione per l'oggetto (petitum) o per il titolo (causa petendi);

2)improprio: quando la decisione dipende, totalmente oppure soltanto parzialmente, dalla

soluzione di identiche questioni (di fatto o di diritto).

_________________________________

Parte della dottrina (VERDE, BALENA) distingue il litisconsorzio facoltativo in «originario» e

«successivo». Il primo, regolato dall'art. 103 c.p.c, si ha quando il processo, pur non essendo imposta una

partecipazione plurima, nasce fin dall'inizio con più di due parti.

Il litisconsorzio facoltativo «successivo», desunto interpretativamente dagli artt. 105 ss. c.p.c, si ha quando

un soggetto interviene, senza che la legge ne imponga la presenza, o viene chiamato in un processo già

iniziato da altre parti e sia destinatario o autore di nuove domande.

______________________________________

In questi casi il meccanismo processuale d’instaurazione del simultaneus processus è l’atto

introduttivo del giudizio ovvero un successivo atto di intervento o di chiamata o un provve-

dimento del giudice di riunione di cause connesse ex art. 274 c.p.c.

Le ragioni di opportunità pratica che consigliano il simultaneus processus vengono

solitamente ravvisate (nel litisconsorzio da connessione propria) nelle specifiche esigenze di

evitare il formarsi di giudicati contraddittori e di realizzare un’economia di attività processuale7;

nel caso del litisconsorzio da connessione impropria, invece, viene in evidenza la più generica

esigenza di favorire “soluzioni armoniche”8.

Nel litisconsorzio facoltativo i diritti che fungono da situazioni legittimanti costituiscono

l’oggetto di distinte controversie, sia pure riunite in un unico processo. Poiché più sono i

rapporti dedotti in giudizio, le controversie conservano la loro identità e la loro autonomia9

(essendo la presenza di più parti nell’ambito dello stesso processo un dato meramente

occasionale) e possono essere decise in modo differente. Un'ipotesi tipica di litisconsorzio

facoltativo, attesa la scindibilità delle cause, è ravvisabile nelle obbligazioni solidali.

7 Cfr. SATTA, Commentario, I, p. 184; TARZIA, L’estensione degli effetti degli atti processuali nel litiscon-sorzio facoltativo, in Riv. dir. proc., 1970, p. 23). 8 V. REDENTI, Dir. proc. civ., II, p. 87). 9 cfr. MENCHINI, Il processo litisconsortile, I, Milano, 1993, p. 124 ss.; 192 ss.

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__________________________________

GIURISPRUDENZA In tema di azione di responsabilità promossa (nella specie, dal commissario della società in liquidazione coatta amministrativa) contro amministratori e sindaci, ai sensi degli art. 2393 e 2394 c.c., si versa in un ipotesi di litisconsorzio facoltativo poiché la predetta responsabilità per fatti di mala gestio configura un'ipotesi di obbligazione solidale passiva; pertanto, il creditore, come è libero di agire in giudizio contro uno qualsiasi dei condebitori, cosè è libero di riassumere il processo, instaurato nei confronti di tutti i coobbligati e successivamente interrotto (nella specie, per la morte di alcuni appellati), nei confronti di uno soltanto di essi, senza necessità di disporre l'integrazione del contraddittorio nel giudizio di impugnazione (art. 331 c.p.c.); ne consegue che, se si verifica una causa di estinzione con riguardo ad uno soltanto dei rapporti processuali (nella specie, per la mancata riassunzione nei confronti degli eredi della parte deceduta), questa non si estende all'intero processo ma dev'essere dichiarata unicamente con riferimento a quel rapporto (Cass. civ., sez. I, 25 luglio 2008, n. 20476). Nell'ipotesi di obbligazione solidale passiva non si verifica la inscindibilità delle cause a norma dell'art. 331 c.p.c., in quanto, potendo il creditore ripetere da ciascuno dei condebitori l'intero suo credito, è sempre possibile la scissione del rapporto processuale, il quale può utilmente svolgersi anche nei confronti di uno solo dei coobbligati. Pertanto, quando uno dei condebitori solidali non propone impugnazione autonoma entro i termini di legge, il giudice non è tenuto a ordinare l'integrazione del contraddittorio e la sentenza passa in giudicato nei confronti del condebitore non impugnante (Cass. civ., sez. lav., 22 maggio 1987, n. 4671; conf. Cass. civ., sez. I, 25 luglio 2008, n. 20476). _____________________________________

La scindibilità dei rapporti è confermata dal fatto che il giudice può disporre, nel corso

dell'istruzione o nella decisione, la separazione delle cause, se vi è istanza di tutte le parti,

ovvero quando la continuazione della loro riunione ritarderebbe o renderebbe più gravoso il

processo, e può rimettere al giudice inferiore le cause di sua competenza (art. 103, co. 2, c.p.c).

Oltre che per effetto di separazione, il litisconsorzio può venir meno, prima della fine del

processo, a seguito della estromissione, consistente nel metter fuori causa una parte senza

pronunciare nei suoi confronti (esempio: ad es., nelle chiamate in garanzia).

Il litisconsorzio in fase di gravame (art. 332 c.p.c.).

Per l’ipotesi in cui in fase di gravame l’impugnazione venga proposta soltanto da alcune

parti o nei confronti solo di alcuna di esse, provvede l’art. 332 c.p.c. in base al quale il giudice

ne ordina la notificazione alle altre parti, nei cui confronti l’impugnazione non è preclusa o

esclusa.

Le conseguenze dell’inottemperanza all’ordine di notifica non sono così gravi come quelle

prescritte dall’art. 331 c.p.c., stante la scindibilità delle cause; ai sensi del 2° co. dell’art. 332

c.p.c., il processo rimarrà sospeso fino alla scadenza dei termini previsti dagli artt. 325 e

327, co. 1°, c.p.c.

__________________________________________

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GIURISPRUDENZA Nel caso in cui la vittima di un sinistro stradale convenga cumulativamente in giudizio l'assicuratore del responsabile, il proprietario ed il conducente del veicolo, quest'ultimo non è un litisconsorte necessario, e la domanda eventualmente proposta nei suoi confronti è scindibile dalle altre. Pertanto, se la sentenza di primo grado venga impugnata solo nei confronti dell'assicuratore e del proprietario, ed il giudice d' appello ordini la notificazione del gravame anche al conducente, tale ordine deve ritenersi impartito in base all'art. 332 c.p.c., e non in base all'art. 331 dello stesso codice, con la conseguenza che, in caso di inottemperanza a tale ordine, non può essere pronunziata l'estinzione dell'intero giudizio, ma, in applicazione del comma 2 del suddetto art. 332, il giudizio sulla domanda diretta deve essere definito in base all' appello (Cass. civ., sez. III, 3 luglio 2008, n. 18242). _________________________________________

In conclusione: il fenomeno del litisconsorzio (ossia della presenza di più parti nel processo)

si realizza in concreto all’inizio del processo, allorchè per consapevolezza della necessarietà

del litisconsorzio oppure nell’esercizio della facoltà di cui all’art. 103 c.p.c., più parti agi-

scono o sono convenute nello stesso processo. Abbiamo anche visto che l’attuazione del

litisconsorzio necessario può avvenire anche in un momento successivo, a processo già

instaurato, mediante l’ordine del giudice di integrazione del contraddittorio ex art. 102 c.p.c.

4. L’intervento (litisconsorzio successivo). a)Inquadramento. Il litisconsorzio successivo può realizzarsi anche (a prescindere da un ordine di integrazione

del contraddittorio) attraverso l’intervento di un terzo in un processo già pendente inter alios,

partecipazione che può assumere le forme dell’intervento volontario o coatto.

Con l’intervento il terzo assume la qualità di parte dando luogo ad un ampliamento sog-

gettivo del giudizio e, sovente, anche ad un ampliamento dell’oggetto del processo in conse-

guenza delle domande proposte dall’interveniente o nei suoi confronti, oggettivamente con-

nesse a quella originaria.

La legge prende in considerazione il fenomeno dell’intervento non sotto il profilo fattuale,

naturalistico (per cui chiunque può spiegare un intervento, ancorchè privo del potere di inter-

venire), bensì sotto quello della legittimazione ad intervenire (o ad essere chiamato).

In tal senso il codice di rito distingue due ipotesi, riconoscendo al terzo, in presenza di certe

condizioni, la legittimazione attiva ad intervenire spontaneamente (intervento volontario ex

art. 105 c.p.c.) ovvero la legittimazione passiva a subire l’intervento, ossia ad essere chiamato

su istanza di parte ex art. 106 c.p.c. o iussu iudicis ex art. 107 c.p.c. (intervento coatto).

In tutti questi casi, che attuano un litisconsorzio facoltativo successivo, la legittimazione

all’intervento del terzo (o alla sua chiamata) si fonda su una connessione oggettiva (quanto

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meno affermata) tra l’azione in corso e quella che il terzo vuole esercitare o che si vuole eser-

citare contro di lui10.

b)L’intervento volontario (art. 105 c.p.c.): tipologie.

L’intervento volontario (dovuto all’iniziativa spontanea del terzo) può assumere tre forme:

- Intervento principale: si realizza quando il terzo interveniente afferma un diritto proprio in

contrasto sia con l'attore, sia col convenuto, un diritto autonomo con quello già dedotto in giudizio e

con esso incompatibile (si parla, per questo, di intervento ad opponendum o ad escludendum).

Esempio: nel giudizio in cui Tizio rivendica la proprietà di una cosa nei confronti di Caio, Sem-

pronio interviene sostenendo che la cosa è sua, avendone acquistato la proprietà in base ad un titolo

autonomo (es. per usucapione). Una volta intervenuto, si realizza un «liticonsorzio facoltativo suc-

cessivo».

L’interesse che spinge il terzo all’intervento non è certo il timore di essere pregiudicato da

una sentenza eventualmente resa inter alios (che non potrebbe tangere la sua sfera soggettiva

per i noti limiti dell’efficacia del giudicato né limitare la sua libertà di azione sul piano giu-

ridico); la decisione di intervenire subito (anzichè agire successivamente con azione autonoma

o con opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c.) è retta piuttosto da ragioni di economia pro-

cessuale oppure, in qualche caso, dall’esigenza di evitare le conseguenze indirette dell’acco-

glimento della domanda tra le parti originarie, che potrebbe rendere più difficile di fatto la

successiva realizzazione del proprio diritto (trattasi quindi di un pregiudizio pratico determi-

nato da ragioni diverse dall’estensione degli effetti della sentenza).

-Intervento adesivo autonomo (o litisconsortile): si realizza quando il terzo interveniente, pur

facendo valere un diritto autonomo nei confronti di taluna delle parti originarie, assume una posi-

zione uguale o parallela (e quindi del tutto compatibile) a quella di altra parte; egli, comunque, è in

una situazione diversa da quella delle parti originarie, sicché la sua difesa, pur coincidendo con

quella di una delle parti, rimane distinta da essa.

Esempio: il comproprietario di un fondo (Tizio) ha proposto un’azione confessoria o negatoria

servitutis nei confronti di Caio; Sempronio, altro comproprietario interviene (essendone legit-

timato) per far valere il suo diritto, identico a quello di Tizio, contro Caio proponendo analoga

domanda.

10 v. MANDRIOLI, Corso di diritto processuale civile, cit., p. 356.

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La connessione, in tali ipotesi, può riguardare il solo titolo oppure il titolo e l’oggetto della

domanda originaria.

Anche qui l’interesse che muove l’interveniente è di ordine pratico, dovendosi escludere in ogni

caso che egli possa essere pregiudicato, de iure, dalla decisione che dovesse essere pronunciata

inter alios.

Proprio perché la sua attività processuale non è legata a quella della parte che ha iniziato il

giudizio, l'interventore adesivo autonomo può proporre domande nuove o impugnare auto-

nomamente la sentenza, stante l'autonomia del diritto fatto valere.

-Intervento adesivo dipendente (o semplicemente adesivo): che è quello del terzo che non fa

valere nel processo un proprio diritto (né propone, quindi, una sua domanda), ma avendo inte-

resse alla vittoria di una delle parti in causa, partecipa al giudizio per sostenere le ragioni di

tale parte (per non subire gli effetti, sia pure riflessi, di una sentenza sfavorevole).

Esempio: il subconduttore interviene nella causa di sfratto promossa dal locatore nei con-

fronti del conduttore, per sostenere le ragioni di quest'ultimo, poiché i suoi diritti dipendono

dalla posizione del conduttore.

Il 2° comma del’art. 105 c.p.c. pone in evidenza la necessità che l’intervento sia sorretto

anche in questo caso da “un proprio interesse” del terzo.

Poiché l'interveniente adesivo non fa valere un diritto proprio, in quanto, pur proponendo

una domanda propria, si limita, con essa, a chiedere l'accoglimento di una domanda altrui,

sorge il dubbio se l'interveniente adesivo eserciti un'azione, ed in particolare se e dove si

possa rinvenire il suo interesse ad agire. Probabilmente, l'interesse al quale la legge si riferisce

(nel far dipendere la legittimazione all'intervento di cui trattasi) con le parole «... quando vi ha

un proprio interesse», non è l'interesse ad agire nel senso tecnico di affermazione di un diritto

proprio ed eventualmente di una sua lesione, ma è semplicemente l'espressione della generica

aspettativa di un vantaggio che il terzo può ripromettersi dall'accoglimento della domanda

della parte adiuvata; vantaggio certamente riconducibile ad una posizione di diritto sostan-

ziale del terzo, ma, appunto per ciò, non autonomo, e rilevante solo per il suo collegamento

con la posizione della parte adiuvata. Se questo è vero, se ne può desumere che proprio

nell'esplicita configurazione della legittimazione, compiuta dalla norma in esame, sta l'attri-

buzione della titolarità di un'azione sui generis perché secondaria o subordinata, nel senso

che è fondata su un interesse ad agire caratterizzato dal suo riferimento ad un diritto altrui,

come posizione di vantaggio riflesso sul piano sostanziale11.

11 Cfr. MANDRIOLI, Diritto processuale civile, cit., I, p. 361.

20

Per tale situazione di dipendenza processuale i poteri dell'interventore «ad adiuvandum»

sono limitati all'espletamento di un'attività accessoria e subordinata a quella svolta dalla parte

adiuvata, potendo sviluppare le proprie deduzioni ed eccezioni unicamente nell'ambito delle

domande ed eccezioni proposte da detta parte (Cass. civ., 4 luglio 1994, n. 6309) e non potendo

proporre impugnazione autonoma se la parte adiuvata vi abbia rinunciato (Cass. civ., 16

ottobre 1998, n. 10237).

c)La costituzione del terzo interveniente.

In base all’art. 267 c.p.c. “per intervenire nel processo a norma dell’art. 105 c.p.c., il terzo

deve costituirsi presentando in udienza o depositando in cancelleria una comparsa formata a

norma dell’art. 167 con le copie per le altre parti, i documenti e la procura.

Il cancelliere dà notizia dell’intervento alle altre parti, se la costituzione del terzo non è

avvenuta in udienza”.

Dunque, il meccanismo processuale di instaurazione del litisconsorzio successivo è in tal

caso costituito da un atto (volontario) di intervento modellato formalmente sulla falsariga di

una comparsa di costituzione ex art. 167 c.p.c.

A norma dell’art. 268, co. 1, c.p.c. “l’intervento del terzo può aver luogo sino a che non

vengano precisate le conclusioni”. Dunque, l’allargamento della compagine soggettiva e la

stessa complicazione oggettiva del processo (per via dell’introduzione di una domanda

diversa, salvo che nell’ipotesi di intervento adesivo) è possibile durante tutto il corso del

giudizio sino all’udienza di precisazione delle conclusioni.

__________________________________

Stabilisce, poi, il 2 co. dell’art. 268 c.p.c. che “il terzo non può compiere atti che al momento dell'intervento non sono più consentiti ad alcuna altra parte, salvo che comparisca volontariamente per l'integrazione necessaria del contraddittorio”. L'articolo, nella sua attuale formulazione per effetto della novella del 1990, ha sollevato molti dubbi interpretativi in dottrina ed in giurisprudenza (sull'argomento, v. PROTO PISANI, La nuova disciplina del processo civile , Napoli, 1991, p. 259 ss.; LUISO, in Consolo, Luiso, Sassani, La riforma del processo civile , Napoli, Milano, 1996, p. 226 ss.; ZOPPELLABI, Le nuove preclusioni e l'intervento in causa, in Riv. trim. dir. e proc. civ ., 1902, p. 875 ss). Con riferimento, in particolare, alle ipotesi di intervento principale e litisconsortile autonomo, la Suprema Corte, nella necessità di non limitare eccessivamente le potenzialità difensive dell'interve-niente e di evitare così una sostanziale abrogazione degli artt. 105 e 268, ha ritenuto che la formulazione della domanda costituisce l'essenza stessa dell'intervento principale e litisconsortile, sicché la preclu-sione sancita dall'art. 268 c.p.c. (per la quale il terzo intervenuto nel processo non può svolgere quell'attività istruttoria preliminare e probatoria che la fase eventualmente avanzata del procedimento non consente alle altre parti) non si estende all'attività assertiva del volontario interveniente, nei cui confronti non è operante il divieto di proporre domande nuove che vincola le parti originarie (artt. 167 e 183 c.p.c). (Cass. 14 maggio 1999, n. 4771, in Giust. civ., Rep. 2000, voce Intervento in causa e liti-sconsorzio , n. 21).

21

In senso sostanzialmente difforme, si è ritenuto che, una volta individuata nell'udienza ex art. 183 c.p.c. la preclusione all'intervento principale o litisconsortile autonomo, al di fuori dell'ipotesi in cui intervenga volontariamente per l'integrazione necessaria del contraddittorio, al terzo restano precluse quelle attività che non sono più consentite alle parti, con l'impossibilità, dunque, per il terzo che intervenga all'udienza di trattazione di proporre domande nuove, tra le quali devono considerarsi le pretese analoghe a quelle dell'attore formulate dal terzo nel proprio interesse, nonché, afortiori, la domanda surrogatoria ex art. 2900 c.c. (Trib. Monza 12 settembre 1998, in Giust. civ., Rep. 2000, voce Intervento in causa e litiscon-sorzio, n. 20). Sicuramente a sostegno dell'uno e dell'altro orientamento possono portarsi diverse argomentazioni. Va infatti sicuramente osservato che il sistema delle preclusioni esiste, è codificato, e, dunque, un terzo che voglia intervenire nel processo, quando questo è in fase avanzata, dovrebbe accettarlo nello stato in cui lo stesso si trova, anche perché, diversamente argomentando, si avrebbe un rallentamento della definizione della causa, che è proprio ciò che la normativa sulle preclusioni mira ad evitare. Non può, peraltro, trascurarsi di osservare che comunque il terzo interveniente principale, o litisconsortile autonomo, proprio per la natura dell'intervento, potrebbe, sconsigliato dall'intervenire nel giudizio dalle maturate preclusioni, promuovere un autonomo giudizio per far valere le proprie pretese, e che ratio della prevista possibilità dell'intervento principale o litisconsortile è sempre quella di concentrazione in un'unica causa del contenzioso relativo ad una determinata pretesa, in rispondenza, sempre, al principio di economia processuale. ______________________________________________

d)L’intervento coatto su istanza di parte (art. 106 c.p.c.).

L’intervento coatto differisce da quello volontario in quanto non avviene spontaneamente, ma

attraverso il meccanismo (impropriamente definito “coatto”) della citazione in giudizio. Non si

tratta di una coazione fisica e neppure giuridica; in realtà, l’interveniente coatto entra nel

processo non per sua scelta, ma in quanto convenuto in un giudizio già in corso tra altri soggetti.

Il codice di rito distingue due figure di intervento coatto: quello ad istanza di parte e quello per

ordine del giudice.

L'attore od il convenuto possono chiamare nel giudizio un terzo, al quale ritengono comune la

causa, o dal quale pretendono di essere garantiti.

L’art. 106 c.p.c. distingue due tipi di chiamata in causa:

- l’intervento coatto su istanza di parte in senso proprio: si ha quando una delle parti ritenga

la sua causa comune ad un terzo.

Con la generica espressione «comunanza di cause» si individuano le ipotesi in cui vi sia

connessione oggettiva per oggetto (petitum) o titolo (causa petendi) fra il rapporto sostanziale

dedotto in giudizio e quello che fa capo al terzo. In sostanza si tratterebbe di chiamare in causa que-

gli stessi terzi che avrebbero potuto spiegare intervento principale o adesivo autonomo (e per

alcuni anche nel caso di intervento adesivo dipendente)12.

12 L’ammissibilità della chiamata, ai termini dell’art. 106 c.p.c., del terzo che si trova in una situazione giuri-dicamente dipendente è contestata da molti autori: v. ANDRIOLI, Lezioni, I, p. 478; COSTA, Intervento (dir. proc. civ.), in Enciclopedia del diritto, XXII, Milano, 1972, p. 467; in senso favorevole, v. tuttavia LIEBMAN, Ma-

22

Così il terzo che potrebbe intervenire in via principale per rivendicare la proprietà della cosa

contesa tra le altre due parti, ben potrebbe essere chiamato in giudizio da una di queste due parti per

contestare le sue pretese (c.d. chiamata del terzo pretendente).

Così pure, il terzo comproprietario (Sempronio) del fondo che - nell’esempio di intervento liti-

sconsortile – avrebbe potuto intervenire per far valere il suo diritto identico a quello dell’altro com-

proprietario (Tizio) in azione confessoria o negatoria servitutis nei confronti di Caio, ben potrebbe

essere chiamato a partecipare al giudizio dall’una o dall’altra parte.

Un classico caso di chiamata “per comunanza” è quello che si verifica quando il convenuto nega

di essere il vero soggetto passivo del rapporto (pur essendo stato affermato tale nella domanda) indi-

cando un terzo quale legittimato: l’una e l’altra parte possono avere interesse a chiamare in causa

questo terzo, il quale, peraltro, ben avrebbe potuto intervenire spontaneamente.

Più specificamente le ragioni pratiche che possono indurre l’una o l’altra parte a chiamare in causa

un terzo che, pur potendo intervenire, non è intervenuto, sono particolarmente evidenti laddove si

ponga mente al fatto che la chiamata del terzo, con la conseguente acquisizione della qualità di

parte da parte di quest’ultimo, consente che la sentenza conclusiva del processo sia efficace an-

che nei suoi confronti, risultato non conseguibile con una semplice litisdenunciatio, prevista in al-

cuni casi dalla legge (v., ad es., art. 1586 c.c., art. 1777, co. 2, c.c.) per mettere il terzo in condizione

di poter intervenire.

E' opportuno, peraltro, ricordare che, ai fini della chiamata di terzo in causa è rilevante

non già che tale comunanza ci sia effettivamente, e neppure che la stessa sia valutata in via

preventiva dal giudice, come è invece previsto per l'intervento ordinato a norma dell'art. 107

c.p.c, ma, solo, che la parte lo ritenga sussistente13

- la chiamata in garanzia: ricorre quando il convenuto chiama in causa il proprio garante per es-

sere coadiuvato nella difesa e, in caso di soccombenza, per esercitare nei suoi confronti l'azione di

regresso.

L'art. 106 c.p.c. si riferisce alla chiamata in garanzia vera e propria, che ricorre quando il rapporto

dedotto in giudizio e quello facente capo al terzo siano fondati sullo stesso titolo (es. garanzia per evi-

zione nella vendita), ma non esclude la chiamata in garanzia impropria davanti al giudice com-

petente, sia per l'azione principale che per quella di regresso, per ragione di opportunità, sussistendo

un vincolo di subordinanzione logica o di pregiudizialità-dipendenza tra le due cause, anche se fon-

data su due titoli diversi (ad es. l’appaltatore chiamato dal committente a rispondere dei difetti del-

nuale4, I, p. 100; PROTO PISANI, Dell’esercizio dell’azione, in Comm. cod. proc. civ., diretto da Allorio, Torino, 1973, p. 1181 ss.; MANDRIOLI, Diritto proc. civ., cit., p. 364. 13 v. Cass. civ., sez. lav., 30 ottobre 1981, n. 5736.

23

l’opera, che a sua volta chiami il fornitore della materia prima con cui le opere sono state eseguite),

quindi distinte e scindibili.

_______________________________

GIURISPRUDENZA In materia di procedimento civile, la chiamata in causa del terzo, ai sensi dell'art. 106 c.p.c., può essere disposta perché questi risponda, in luogo del convenuto, oppure sia condannato a rispondere di quanto il convenuto sarà eventualmente tenuto a prestare all'attore: nel primo caso, quando l'affermazione della responsabilità dell'obbligato principale e del garante trovano fondamento negli elementi costitutivi della medesima fattispecie, la garanzia si definisce "propria"; nel secondo caso, quando la responsabilità dell'uno e dell'altro traggono origine da rapporti o situazioni giuridiche diversi, ed è esclusa l'esistenza di ogni legame tra il preteso creditore ed il garante, la garanzia si definisce "impropria", che tale è anche quando il convenuto in giudizio designa un terzo come responsabile di quanto lamentato dall'attore (Cass. civ., sez. III, 8 agosto 2002, n. 12029). Nel caso di chiamata in causa per garanzia impropria - che si verifica allorché colui che sia stato convenuto in giudizio dall'attore intende essere rilevato dal garante di quanto sia eventualmente condannato a pagare - l'azione principale e quella di garanzia sono fondate su due titoli diversi, con la conseguenza che le due cause sono distinte e scindibili, sussistendo tra loro un vincolo di subordinazione logica o di pregiudizialità-dipendenza, che può venire meno, agli effetti processuali, nella fase della impugnazione. Qualora, pertanto, manchi da parte del convenuto rimasto soccombente l'impugnazione della pronuncia sulla causa principale, il giudicato che si forma sulla stessa non estende i suoi effetti al chiamato in garanzia impropria in ordine al rapporto con il chiamante, ed il chiamato può impugnare la statuizione sul rapporto principale solo nell'ambito del rapporto di garanzia e per i riflessi che la decisione può avere su di esso (Cass. civ., sez. III, 22 gennaio 1987, n. 577).

______________________________________

Secondo la giurisprudenza di legittimità, quando il convenuto chiama in causa il terzo deducendo

che questi è il soggetto tenuto a rispondere alla pretesa dell'attore (in qualità di unico obbligato),

la domanda di quest'ultimo si estende automaticamente al terzo, pur in mancanza di apposita

istanza, dovendosi individuare il vero responsabile nell'ambito di un rapporto oggettivamente unico14.

Parte della dottrina non condivide tale estensione automatica, reputando necessaria - ai fini dell’ac-

certamento con efficacia di giudicato del rapporto facente capo al chiamato - la formulazione di una

esplicita domanda nei suoi confronti15.

Tale principio non è applicabile nel caso della chiamata in garanzia (propria o impropria), attesa

l'autonomia sostanziale del rapporto confluito nel processo per effetto di detta chiamata)16.

________________________________________ GIURISPRUDENZA Quando la chiamata in causa di un terzo ex art. 106 c.p.c. non ha per contenuto una mera domanda di garanzia, ma è diretta ad affermare la legittimazione passiva del terzo chiamato rispetto alla domanda attorea, questa si estende automaticamente anche al terzo, producendosi per l'effetto un cumulo alternativo di domande (Cass. civ., sez. lav., 22 settembre 2003, n. 14040).

La domanda principale dell'attore si estende automaticamente al chiamato in causa dal convenuto, quando la chiamata del terzo sia effettuata per ottenere la liberazione dello stesso convenuto dalla pretesa attorea, individuandosi il terzo come l'unico obbligato nei confronti dell'attore, in posizione

14 v. Cass. civ., 31 luglio 2002, n. 11371; Cass. civ., 21 marzo 2003, n. 4145.

15 Cfr. BALENA, Istituzioni, cit., p. 218. 16 v. Cass. civ., 12 maggio 2003, n. 7273; Cass. civ., 28 marzo 2003, n. 4740.

24

alternativa con il convenuto ed in relazione alla medesima obbligazione dedotta nel giudizio. Viceversa, l'estensione automatica della domanda dell'attore al terzo chiamato dal convenuto non opera quando il chiamante faccia valere nei confronti del chiamato un rapporto diverso, ed in particolare, ove l'azione abbia natura risarcitoria, qualora venga dedotto un titolo di responsabilità del terzo differente ed autonomo rispetto a quello invocato dall'attore. (Nella fattispecie, relativa alla domanda del proprietario di un terreno per i danni causati dai lavori stradali eseguiti dall'impresa commissionata da un comune, la S.C. ha cassato la sentenza della corte di merito che aveva condannato solidalmente al risarcimento anche il direttore dei lavori, invece chiamato in causa dal comune a titolo di garanzia) (Cass. civ., sez. III, 21 ottobre 2008, n. 25559. Conf. Cass. civ., 8 giugno 2997 n. 13374). _____________________________________________ I meccanismi di ingresso nel processo del terzo chiamato ex art. 106 c.p.c.

Alla chiamata del terzo nel processo, a norma dell'articolo 106 c.p.c, la parte provvede,

secondo il disposto dell'art. 269 c.p.c, mediante citazione a comparire nell'udienza fissata dal

giudice istruttore ai sensi di detto articolo, osservati i termini dell'articolo 163-bis.

Il convenuto che intenda chiamare un terzo in causa deve, a pena di decadenza, farne

dichiarazione nella comparsa di risposta (tempestiva) e contestualmente chiedere al giudice

istruttore lo spostamento della prima udienza, allo scopo di consentire la citazione del terzo

nel rispetto dei termini dell'articolo 163-bis c.p.c.

E' evidente la finalità della norma, volta ad evitare che la chiamata del terzo in giudizio

possa importare lo slittamento della prima udienza. Il giudice istruttore, entro cinque giorni

dalla richiesta, provvede con decreto a fissare la data della nuova udienza. Il decreto è

comunicato dal cancelliere alle parti costituite. La citazione è notificata al terzo a cura del

convenuto.

La giurisprudenza esige - ai fini dell’ammissibilità dell’istanza di chiamata – sia la costitu-

zione tempestiva del convenuto che la richiesta di differimento della prima udienza di com-

parizione.

___________________________________________

GIURISPRUDENZA Il convenuto per poter legittimamente formulare, ai sensi del combinato disposto degli art. 167, comma 3, e 269 c.p.c., l'istanza di chiamata in causa di un terzo deve necessariamente costituirsi tempestivamente , ovvero nel rispetto del termine fissato dall'art. 166 dello stesso codice di rito, di modo che in caso di tardività della costituzione deve conseguire la declaratoria di inammissibilità della predetta richiesta. Ai fini dell'osservanza di detto termine, stante l'esplicita previsione contenuta nello stesso art. 166 c.p.c., per il suo computo a ritroso deve aversi riguardo (in via esclusiva) all'udienza indicata nell'atto di citazione e non (anche) a quella eventualmente successiva, cui la causa sia stata rinviata d'ufficio, ai sensi dell'art. 168 bis, comma 4, c.p.c., in ragione del calendario delle udienze del giudice designato (Cass. civ., sez. II, 28 maggio 2007, n. 12490). A norma del combinato disposto di cui agli art. 269 e 167, c.p.c., il convenuto al fine di operare la chiamata in causa del "terzo", a pena di decadenza, ha l'onere di costituirsi in giudizio venti giorni

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prima dell'udienza di prima comparizione, chiedendo lo spostamento di tale udienza al fine di consentire la citazione del "terzo" nel rispetto dei termini di cui all'art. 163 bis c.p.c. (Trib. Bari, sez. IV, 8 aprile 2008, n. 892).

____________________________________________

In presenza di una richiesta correttamente formulata (nei tempi e nei modi), dottrina e giuri-

sprudenza, per un verso, escludono generalmente che il giudice abbia alcun potere discre-

zionale in ordine alla decisione di chiamare in causa il terzo e, pertanto, che possa negarla17.

Non si può trascurare a riguardo che la stessa Corte Costituzionale18, investita della q.l.c.

dell'art. 269, comma 2, c.p.c., nella parte in cui non prevede, diversamente da quanto previsto

per l'attore, la necessità di alcuna autorizzazione per la chiamata in causa ad istanza del

convenuto, ha ritenuto infondata la questione prospettata dinanzi a sé, chiarendo che l'in-

sindacabile facoltà per il convenuto di estendere l'ambito soggettivo del processo si riconnette

alla circostanza che l'attore per primo ha la facoltà di convenire in giudizio qualunque sog-

getto, senza limitazioni di sorta, di talché le parti sarebbero in una condizione di perfetta pa-

rità.

Per altro verso, si suole riconoscere al giudice il potere di rifiutare la fissazione una nuova

prima udienza per la costituzione del terzo, in ossequio ad esigenze di economia processuale e

di ragionevole durata del processo.

_________________________________________________

GIURISPRUDENZA La chiamata in causa di terzi non è soggetta ad alcuna autorizzazione qualora a voler chiamare in causa il terzo sia il convenuto, purché nel costituirsi tempestivamente in giudizio egli ne faccia espressa dichiarazione e chieda il differimento dell'udienza di prima comparizione al fine di provvedere alla citazione del terzo indicato nel rispetto dei termini di cui all'art. 163 bis c.p.c.; ne deriva che il giudice non ha alcun potere discrezionale quanto alla chiamata in causa del terzo e può soltanto fissare la nuova udienza, anche se dalla violazione di tali regole processuali non può farsi discendere la nullità degli atti del processo e della sentenza, potendo il convenuto agire in manleva in un nuovo processo nei confronti del terzo (Trib. Milano, 10 maggio 2005).

In tema di chiamata in causa di un terzo su istanza di parte, al di fuori delle ipotesi di litisconsorzio necessario di cui all'art. 102 c.p.c., è discrezionale il provvedimento del giudice di fissazione di una nuova udienza per consentire la citazione del terzo, chiesta tempestivamente dal convenuto ai sensi

17 Cfr., tra gli altri, in dottrina CAPPONI, L'intervento e la chiamata dei terzi, in VACCARELLA-CAPPONI-CECCHELLA, Il processo civile dopo le riforme , Torino, 1992, 136. Naturalmente il giudice dovrà comunque esercitare un controllo in ordine alla tempestività ed alla ritualità dell'istanza proposta dal convenuto (cfr. MARELLI, L'intervento dei terzi, in Le riforme della giustizia civile a cura di TARUFFO, Torino, 2000, 333). In giurisprudenza, v. Trib. Milano, 10 maggio 2005. Tuttavia la Suprema Corte ha avuto modo di precisare che “Fuori dalla ipotesi di litisconsorzio necessario ex art. 102 c.p.c., il provvedimento del giudice di merito che concede o nega l'autorizzazione a chiamare in causa un terzo ai sensi dell'art. 106 c.p.c. coinvolge valutazioni assolutamente discrezionali che, come tali, non possono formare oggetto di appello e di ricorso per cassazione” (Cass. sez. un., 23 febbraio 2010, n. 4309). 18 v. Corte cost., 3 aprile 1997, n. 80.

26

dell'art. 269 c.p.c., come modificato dalla l. 26 novembre 1990 n. 353; conseguentemente, qualora sia stata chiesta dal convenuto la chiamata in causa del terzo, in manleva o in regresso, il giudice può rifiutare di fissare una nuova prima udienza per la costituzione del terzo, motivando la propria scelta sulla base di esigenze di economia processuale e di ragionevole durata del processo (Cass. civ., sez. un., 23 febbraio 2010, n. 4309). __________________________________________________ Qualche dubbio è stato manifestato con riferimento alla sussistenza della possibilità per il

convenuto, qualora sia nei termini di cui all'art. 163 bis c.p.c., di citare direttamente il terzo

in giudizio, senza fare l'apposita istanza al giudice. In realtà ci sembra che una tale possi-

bilità, pur nel silenzio del legislatore sul punto, possa sussistere, in quanto discende diret-

tamente dalla richiamata premessa, cioè a dire dall'assenza di un potere discrezionale del

giudice rispetto alla tempestiva decisione del convenuto di chiamare in causa un terzo nonché

dal rispetto di esigenze di economia processuale19.

_____________________________________

GIURISPRUDENZA Nel sistema vigente, ai sensi del combinato disposto del comma 3 dell'art. 167 c.p.c. e del comma 2 dell'art. 269 c.p.c, se il convenuto vuole chiamare in causa un terzo deve farne dichiarazione, a pena di decadenza , nella comparsa di risposta e chiedere al giudice lo spostamento della prima udienza al fine di consentire la citazione del terzo nel rispetto del termine a comparire. La convenuta, costituendosi tempestivamente in giudizio, ha citato direttamente i terzi "alla prima udienza, che il giudice aveva differito a norma del V comma dell'art. 168 bis c.p.c. e lo ha fatto nel rispetto del termine a comparire. Tale modalità di citazione del terzo non determina nullità alcuna dell'atto di chiamata di terzo. Infatti, lo scopo previsto dalla norma (art. 269 c.p.c.), che è quello di consentire al convenuto la chiamata in causa del terzo nel rispetto del termine a comparire, è stato raggiunto. Nessuna decadenza si è prodotta a carico della società convenuta, che, costituendosi tempestivamente in giudizio venti giorni prima dell'udienza, ha citato direttamente i terzi per l'udienza differita dal giudice. Infine, poiché il meccanismo previsto dall'art. 269 comma 2 c.p.c. ha carattere di automaticità, dovendo il giudice differire l'udienza per consentire la chiamata del terzo a condizione unicamente che la chiamata sia tempestiva, la citazione diretta del terzo non priva l'ufficio di alcun potere autorizzativo circa l'istanza di chiamata (Trib. Milano, sez. X, 12 maggio 2009, n. 6338). _________________________________________________

Un problema particolare si pone allorché la parte, decaduta dalla facoltà di chiamare in causa il

terzo, o per non averne fatto richiesta nella comparsa di risposta, o per non aver fatto richiesta

dello spostamento dell'udienza, tenti di rimediare instaurando altro autonomo giudizio nei

confronti del terzo, chiedendone poi la riunione al primo (ipotesi non peregrina, considerato che

i tempi di esaurimento dei processi sono ben lungi dall'avvicinarsi a quelli rapidi avuti di mira dal

legislatore della riforma del 1990).

19 In senso favorevole, v., tra gli altri, LUISO, Commento sub art. 269, in Commentario alla riforma del pro-cesso civile a cura di CONSOLO-LUISO-SASSANI, Milano, 1996, 237; CAPPONI, L'intervento e la chiamata dei terzi, cit., 137-138; TAVORMINA, in Corr. giur., 1991, 49. Cfr., in giurisprudenza, Trib. Reggio Calabria 24 ottobre 2003; Trib. Milano, sez. X, 12 maggio 2009.

27

Invero, potrebbe ritenersi, in tal caso, che, a prescindere dal fatto che la riunione dovrebbe

ritenersi inammissibile, in quanto volta ad aggirare la preclusione maturata, comunque la stessa

dovrebbe ritenersi già di per sé esclusa dal fatto che le due cause, salvo casi particolari, fini-

rebbero per trovarsi in uno stadio differente della trattazione, onde la riunione rallenterebbe la

decisione di quella previamente introdotta.

Va tuttavia segnalato che la giurisprudenza mostra una certa elasticità e tolleranza in pre-

senza di queste situazioni operando il più delle volte la riunione delle cause.

L'attore può invece chiamare in causa un terzo soltanto ove una tale esigenza sia sorta in

virtù delle difese spiegate dal convenuto20: a ciò consegue che in questo caso l'attore deve, a

pena di decadenza, chiederne l'autorizzazione al giudice istruttore nella prima udienza (art. 269,

co. 3, c.p.) e la chiamata in causa deve essere autorizzata dal giudice, il quale dovrà valutare

la sussistenza dei presupposti di cui all'art. 106 c.p.c., nonché del «nesso genetico» tra

l'interesse dell'attore alla chiamata del terzo e le difese svolte dal convenuto21.

A tal proposito si è opportunamente sottolineato che un tale nesso sussiste nell'ipotesi in cui

l'esigenza di chiamare in causa il terzo si ricolleghi ad una circostanza dedotta dal convenuto

a fondamento di una sua eccezione nei confronti dell'attore, di talché non sarà sufficiente

che si tratti di una circostanza cui pure il convenuto faccia riferimento nella comparsa di ri-

sposta, ma priva di rilievo, in sé, per l'accoglimento o il rigetto della domanda dello stesso

attore22.

In coerenza con quanto rilevato in ordine ai presupposti della chiamata in causa del terzo ex

art. 106 c.p.c., un tale nesso genetico può derivare, innanzitutto, da una contestazione della

propria legittimazione passiva da parte del convenuto ovvero della titolarità del diritto fatto

valere in giudizio in capo allo stesso attore. Infine dalle difese del convenuto potrebbe sorgere

l'interesse dell'attore a proporre una domanda in garanzia23.

La perentorietà della prescrizione imposta dall’art. 269, co. 3, c.p.c. (l'attore deve, a pena di

decadenza, chiedere al g.i. l'autorizzazione a chiamare in causa un terzo entro la «prima u-

dienza») sembra precludere all’attore la possibilità di esercitare la facoltà successivamente

all'udienza di prima comparizione, perché ciò determinerebbe la necessità di ripetere l'atti-

vità precedente a seguito dell'intervento del terzo.

20 In tal senso v. anche, in sede di merito, Trib. Roma 15 novembre 1996, in Banca borsa tit. cred., 1998, II, 197, secondo la quale la disciplina processuale introdotta dalla riforma, operata dalla l. n. 353 del 1990, agli artt. 183, comma 4, e 269, comma 3, c.p.c. preclude all'attore la possibilità di chiamare in causa un terzo a meno che la necessità della chiamata non scaturisca dalle difese del convenuto oppure si tratti di litisconsorzio necessario.

21 BALENA, L'intervento di terzi, in La riforma del processo di cognizione, Napoli, 1994, p. 248. 22 Così ATTARDI, Le nuove disposizioni sul processo civile, cit., 109. 23 Cfr. LUISO, Commento sub art. 269, cit., p. 237; cfr. inoltre TARZIA, Lineamenti del processo civile di cognizione, cit., p. 143-144

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Sennonchè in dottrina qualche autore (nel vigore del previgente testo degli artt. 180 e 183

c.p.c., risultante dalla controriforma del 1995 mossa dalla volontà di tutelare maggiormente la

posizione del convenuto) ha sostenuto che ad un'interpretazione più elastica della locuzione

in esame può pervenirsi applicando la rimessione in termini di cui all'art. 184 bis 24 (oggi

generalizzata dall’art. 153 c.p.c.); altri ha sottolineato che una interpretazione restrittiva

porterebbe alla contraddizione di consentire alle preclusioni di «strangolare» il processo

nonché a quella di ritenere una parte decaduta dall'esercizio di un certo potere processuale

prima che lo stesso sia sorto25.

La Suprema Corte - in quel contesto temporale - ha più volte affermato il principio secondo il

quale la chiamata in causa di un terzo non può essere autorizzata dal giudice dopo la prima

udienza, che va individuata con riguardo a criteri non meramente cronologici, ma sostanziali,

tale potendosi ritenere quella in cui si procede all'effettiva trattazione della causa; e ciò

neanche se l'interesse della parte ad ottenere la partecipazione del terzo al giudizio sia sorto nel

corso dello svolgimento del processo ed a seguito della difesa avversaria e dell'istruttoria

espletata26.

Certamente il ritorno al sistema delineato originariamente dalla l. n. 353 del 1990, realizzato

dalla l. n. 80 del 2005 (con la eliminazione della distinzione tra udienza di prima compa-

rizione ed udienza di trattazione), fa venir meno qualsivoglia dubbio in ordine alla «prima

udienza» nella quale, stando alla lettera del comma 3 dell'art. 269 c.p.c., l'attore deve, a pena

di decadenza, chiedere al g.i. l'autorizzazione a chiamare in causa il terzo, ma non risolve il

maggior problema che, come si è detto, è posto da una tale disposizione, cioè a dire quello

legato alla paradossale situazione che si determina ogni qual volta l'interesse dell'attore alla

partecipazione del terzo al processo sorge successivamente poiché il convenuto si difende in

un certo senso soltanto in un dato momento. Probabilmente l'unica soluzione offerta dall'or-

dinamento in simili casi, posta l'evidente iniquità del sistema, è quella della rimessione in

termini ex art. 153 c.p.c.

In ogni caso il giudice istruttore, se accoglie l’istanza dell’attore, fissa una nuova udienza allo

scopo di consentire la citazione del terzo nel rispetto dei termini dell'articolo 163-bis. La

citazione è notificata al terzo a cura dell'attore entro il termine perentorio stabilito dal giudice.

24 Così BALENA, L'intervento di terzi, cit., p. 248.

25 v. LUISO, Commento sub art. 269, cit., p. 238-239. 26 Cfr., ex plurimis, Cass. 12 maggio 2000, n. 6092, in Giust. civ., Rep. 2000, voce Intervento in causa e litisconsorzio.

29

La parte che chiama in causa il terzo deve depositare la citazione notificata entro il termine

previsto dall'articolo 165, ed il terzo deve costituirsi a norma dell'articolo 166.

Nell'ipotesi prevista dal terzo comma, restano ferme per le parti le preclusioni ricollegate

alla prima udienza di trattazione, ma i termini eventuali di cui al 6° comma dell'articolo 183

c.p.c. sono fissati dal giudice istruttore nella udienza di comparizione del terzo.

______________________________________

GIURISPRUDENZA In tema di intervento nel processo di un terzo su istanza di parte, ai sensi dell'art. 106 c.p.c., rientra nei poteri discrezionali del giudice istruttore autorizzare o non autorizzare la chiamata in causa, ma non anche autorizzare la chiamata tardiva e imporre al terzo chiamato di accettare il contraddittorio nello stato in cui la controversia si trova, così ledendone il diritto di difesa, sicché, se il terzo non presti adesione a tale stato ed eccepisca in via principale l'irritualità della chiamata difendendosi nel merito solo in via subordinata, le disposizioni sulle modalità e i termini della chiamata in causa di un terzo di cui agli art. 167 e 269 c.p.c. non sono suscettibili di deroga (Cass. civ., sez. III, 24 aprile 2008, n. 10682). ______________________________________________ Alcuna conseguenza particolare si verifica ove la parte autorizzata alla chiamata del terzo

non provveda concretamente a citarlo: il processo proseguirà tra le parti originarie.

La chiamata del terzo nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo.

Per quanto riguarda i procedimenti di opposizione a decreto ingiuntivo, la Suprema Corte,

intervenendo a risolvere una vexata quaestio, oggetto in passato di pronunce contrastanti nella

giurisprudenza di merito, ha da tempo ritenuto che, in tema di procedimento per ingiunzione, per

effetto dell'opposizione, non si verifica alcuna inversione della posizione sostanziale delle parti

nel giudizio contenzioso, nel senso che il creditore mantiene la veste di attore, l'opponente

quella di convenuto, e ciò esplica i suoi effetti non solo nell'ambito dell'onere della prova, ma

anche in ordine ai poteri ed alle preclusioni di ordine processuale rispettivamente previsti per

ciascuna delle due parti; conseguentemente, la Corte ha statuito che il disposto dell'art. 269

c.p.c, che disciplina le modalità della chiamata di terzo in causa, non si concilia con il

procedimento instaurato tramite l'opposizione al decreto, dovendo in ogni caso l'opponente

citare unicamente il soggetto che ha ottenuto detto provvedimento, non potendo le parti

originariamente essere altre che il soggetto istante per l'ingiunzione di pagamento ed il soggetto

nei cui confronti la domanda è diretta, onde l'opponente (cui è altresì preclusa, nella qualità di

convenuto sostanziale, la facoltà di chiedere lo spostamento dell'udienza, nonché quella di

notificare l'opposizione a soggetto diverso dal creditore procedente in ingiunzione), deve

necessariamente chiedere al giudice, con lo stesso atto di opposizione, l'autorizzazione a

30

chiamare in giudizio il terzo al quale ritiene comune la causa sulla base dell'esposizione dei

fatti e delle considerazioni giuridiche contenute nel ricorso per decreto ingiuntivo27.

Il principio costituisce ius receptum anche nella giurisprudenza di merito28.

_______________________________________

GIURISPRUDENZA In tema di procedimento di ingiunzione, l'opponente - debitore, che mantiene la posizione naturale di convenuto - qualora intenda chiamare in causa un terzo, ha l'onere di chiederne l'autorizzazione al giudice, a pena di decadenza con l'atto di opposizione, non potendo né convenirlo in giudizio direttamente con la citazione né chiedere il differimento della prima udienza, non ancora fissata. Il giudice è tenuto a pronunciarsi sulla chiamata alla prima udienza di comparizione, disponendo, a seguito dell'istanza, la fissazione di nuova udienza per la "vocatio in ius" del terzo (Trib. Varese, sez. I, 5 febbraio 2010).

Nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, è inammissibile la chiamata diretta in causa del terzo da parte dell'opponente, per la peculiarità insita nello stesso giudizio introdotto dall'opposizione a decreto ingiuntivo. Infatti, pur se la posizione dell'opponente si atteggia come quella di un convenuto sostanziale, a tale tipo di giudizio non può applicarsi il disposto dell'art. 269 c.p.c., con la conseguenza che l'opponente deve limitarsi a citare in giudizio il soggetto che ha ottenuto il decreto ingiuntivo nei suoi confronti, limitandosi a richiedere al Giudice l'autorizzazione a citare il terzo al quale ritenga comune la causa, sulla base dell'esposizione dei fatti e delle considerazioni giuridiche contenute nel ricorso per decreto (Trib. Bari, sez. II, 18 ottobre 2010, n. 3119). _____________________________________________

Quanto alla possibilità di chiamata del terzo da parte dell’opposto, giova ricordare che la

struttura del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo assegna all'opposto la veste formale

di convenuto e sostanziale di attore. In ossequio a tale principio, va riconosciuta al solo

opponente la facoltà di chiamare in causa un terzo con le modalità di cui al comma 2 dell'art.

269 c.p.c., essendo l'opposto soggetto ai limiti sanciti dagli art. 269, comma 3, e 183, comma

5, c.p.c. Peraltro è necessario, affinché possa essere chiamato il terzo, che la relativa richiesta

di sia esaminata in prima udienza, nel contraddittorio delle parti; risulti dipendente dalle

difese dell'opponente e sia oggetto di valutazione discrezionale del giudice29 .

27 v. Cass. civ., 27 giugno 2000, n. 8718; Cass. civ., sez. III,1 marzo 2007, n. 4800; Cass. civ., sez. II, 19 ottobre 2009, n. 22123). 28 v., oltre le massime citate per esteso, pure Trib. Torino, 26 febbraio 2008 (in Giur. merito, 2009, 2, 401, con nota di Giordano) secondo “cui l'attore-opponente può chiamare un terzo in causa senza necessità di richiedere alcuna autorizzazione al giudice o di instare per il differimento della prima udienza a tal fine, non essendovi alcuna norma che vieti all'opponente di evocare nel giudizio, quali convenuti in senso formale, soggetti diversi ed ulteriori rispetto alla parte che ha richiesto ed ottenuto l'ingiunzione”. 29 V. in tal senso, Trib. Trani, 27 aprile 2005, in Giurisprudenzabarese.it, 2005. Relativamente al giudizio in-nanzi al giudice di pace si segnala Giudice di pace Bari, 28 marzo 2008, n. 1717, secondo cui “In merito alla chiamata in causa di un terzo, nel giudizio dinanzi al giudice di pace valgono regole parzialmente diverse da quelle dinanzi al tribunale. Infatti, benché rimanga ferma per l’opponente la prescrizione imposta dall'art. 269 c.p.c., al creditore opposto, che può costituirsi in giudizio con comparsa scambiata direttamente nell'udienza di comparizione e può persino costituirsi deducendo a verbale senza necessità di comparsa scritta, è consentito di chiedere senza formalità di chiamare un terzo in causa purché la domanda sia proposta entro la prima udienza. La chiamata, tuttavia, non va disposta in ogni caso ma, a norma dell'art. 106 c.p.c., quando la causa è comune al terzo oppure se il chiamante pretende di essere garantito dal chiamato”.

31

e) L’intervento coatto per ordine del giudice (art. 107 c.p.c.).

Il giudice può disporre l’intervento quando ritiene che il processo si debba svolgere nei

confronti di un terzo al quale la causa sia comune.

Contrariamente a quanto potrebbe desumersi dall’espressione letterale della norma, in realtà

l’ordine di intervento non è diretto al terzo, ma alla parte che deve provvedere alla chiamata

mediante citazione, con le modalità di cui all’art. 270 c.p.c.

Che si tratti di un onere gravante sulle parti lo conferma lo stesso art. 270 c.p.c., laddove (2°

co.) precisa le conseguenze della mancata attuazione dell’ordine: la cancellazione della causa

dal ruolo. E dunque se l’onere della chiamata grava su entrambe le parti, in pratica l’ordine

sarà ottemperato dalla parte – c.d. parte più diligente – che ha interesse alla prosecuzione del

giudizio, che di regola è l’attore.

La fattispecie in esame va tenuta distinta da quella di cui all’art. 102 c.p.c., nella quale

l’integrazione del contraddittorio non è solo opportuno, ma necessario.

In altri termini, nell’ipotesi ex art. 102 c.p.c. la necessità del litisconsorzio deriva senz’altro

dalla legge e costituisce il presupposto dell’ordine del giudice; viceversa nel caso dell’art. 107

c.p.c. la necessità del litisconsorzio è solo conseguenziale all’ordine del giudice, poiché prima

di tale ordine non sussiste affatto (o meglio, esiste solo una facoltà di allargare la compagine

soggettiva, che il giudice esercita discrezionalmente a fronte della legittima alternativa di

lasciare la posizione del terzo ad un eventuale altro giudizio)30.

Anche le conseguenze dell’inosservanza dell’ordine sono diverse: nel caso dell’art. 102

c.p.c. si verifica l’immediata estinzione del giudizio, mentre nell’ipotesi dell’art. 107 c.p.c.

soltanto la cancellazione della causa dal ruolo.

La formula che la legge adopera per indicare il presupposto, in presenza del quale il giudice

può ordinare l’intervento, è più circoscritta di quella indicata nell’art. 106 c.p.c., facendo

riferimento solo alla comunanza della lite (per la quale valgono le considerazioni già svolte

innanzi) e non pure alla garanzia.

Le ragioni pratiche che suggeriscono il simultaneus processus possono essere varie (economia

dei giudizi, garantire uniformità di decisione su rapporti connessi, tener conto dell’interesse del

terzo a tutelare le sue ragioni coinvolte nel processo) e comportano l’esercizio, da parte del

30 v. LIEBMAN, Manuale4, cit., p. 103; PROTO PISANI, Dell’esercizio dell’azione, cit., p. 1191.

32

giudice, di un potere discrezionale – che implica valutazioni di opportunità – insindacabile in

sede di impugnazione.

____________________________________________ GIURISPRUDENZA La chiamata in causa di un terzo ai sensi dell'art. 107 c.p.c. è sempre rimessa alla discrezionalità del giudice di primo grado, involgendo valutazioni circa l'opportunità di estendere il processo ad altro soggetto, onde l'esercizio del relativo potere, che determina una situazione di litisconsorzio processuale necessario, è insindacabile sia da parte del giudice di appello, che del giudice di legittimità. Ne consegue che il giudice di appello non può far altro che constatare la rituale dichiarazione di intervenuta estinzione del giudizio da parte del giudice di primo grado, ove non si sia provveduto alla riassunzione del processo, con l'integrazione del contraddittorio nei confronti del terzo, nel termine di un anno dall'ordinanza di cancellazione della causa dal ruolo pronunciata a seguito dell'inottemperanza all'ordine di chiamata in causa.

La norma dell'art. 354 c.p.c. - la quale dispone che il giudice d'appello deve rimettere la causa al primo giudice quando riconosca che nel relativo giudizio doveva essere integrato il contraddittorio - si riferisce solo all'ipotesi di litisconsorzio necessario ex art. 102 c.p.c., in cui la violazione del precetto darebbe luogo ad una sentenza inutiliter data per oggettiva inidoneità a produrre i propri effetti, destinati a coinvolgere tutti i soggetti di una determinata situazione sostanziale, necessariamente plurilaterale; tale situazione non si configura nell'ipotesi di chiamata in causa di un terzo jussu judicis ai sensi dell'art. 107 c.p.c. che, pur dando luogo ad un litisconsorzio necessario di natura processuale, risponde ad esigenze di economia processuale (comunanza di causa) discrezionalmente e insindacabilmente valutate sotto il profilo dell'opportunità dal giudice di primo grado, cui è consentito di revocare, anche tacitamente, l'ordine di intervento. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto infondato il motivo di ricorso che, in controversia avente ad oggetto la costituzione di un rapporto di lavoro pubblico, lamentava l'omessa considerazione da parte del giudice di appello della violazione dell'ordine di chiamare in causa gli iscritti in graduatoria e la conseguente violazione del contraddittorio nel giudizio di primo grado, ritenendo che, se disposto l'intervento jussu judicis e rimasto inosservato l'ordine giudiziale, il giudice di merito non aveva cancellato la causa a norma dell'art. 270, comma 2, c.p.c., l'ordine doveva ritenersi tacitamente revocato) (Cass. civ., sez. lav., 6 settembre 2007, n. 18709). ________________________________________

5. Effetti della connessione sulla competenza.

Il fenomeno della connessione (consistente nella coincidenza di taluni degli elementi di

identificazione di due o più azioni) - preso in considerazione dall'ordinamento come ragione

di opportunità che le cause connesse siano decise in un unico processo - può dar luogo a

modificazioni della competenza, in quanto il giudice competente per una delle cause con-

nesse potrebbe non esserlo anche per l'altra o le altre.

____________________________________________

A parte il codice di rito disciplina i fenomeni della litispendenza (pendenza della stessa causa o, se si preferisce, di due cause identiche innanzi a uffici giudiziari diversi) e della continenza di cause (pen-denza, davanti a giudic i diversi, di due cause che hanno le stesse parti e la stessa causa petendi, ma petitum parzialmente coincidente, nel senso che il petitum di una di esse (es. pagamento di capitale ed

33

interessi) è più ampio e tale da contenere il petitum dell’altra (pagamento del capitale): in tali casi il legislatore si preoccupa di evitare sprechi di attività processuale e, soprattutto, il rischio di giudicati contrastanti favorendo la concentrazione delle cause innanzi ad un solo giudice attraverso i criteri della prevenzione e dell’assorbimento (art. 39, co. 1 e 2, c.p.c.). _________________________________________________

Occorre perciò esaminare se ed in che limiti l'opportunità generica di trattare insieme le

cause connesse può dar luogo concretamente a deroghe alle regole della competenza.

In linea di massima si può dire che queste deroghe sono possibili con riguardo alla com-

petenza per territorio ed a quella per valore, ma non anche con riguardo alla competenza per

materia.

Come si ricorderà, la connessione può essere soggettiva (coincidenza di entrambi gli ele-

menti soggettivi o persone) oppure oggettiva (coincidenza di uno o tutti gli elementi og-

gettivi: petitum e causa petendi).

a) In caso di connessione soggettiva.

La connessione soggettiva dà luogo, in relazione alla opportunità di trattare insieme più

domande – anche non altrimenti connesse - contro la stessa parte, alla possibilità del cumulo

oggettivo: possibilità contemplata in via generale dall'art. 104 c.p.c.

Detta norma già contiene una regola che tocca il tema della competenza, ossia il richiamo

all'art. 10, 2° comma, c.p.c. che, appunto con riguardo a queste ipotesi di cumulo, stabilisce

che, agli effetti della competenza per valore, le diverse domande si sommano tra loro: ciò che

può determinare una modificazione della competenza per valore.

Va preso atto che questa è l'unica regola dettata dalla legge con riguardo alle modificazioni

della competenza per ragioni di connessione puramente soggettiva, sicchè il cumulo oggettivo

di cui all'art. 104 è possibile soltanto quando, sotto ogni altro profilo diverso da quello del

valore, sussista la competenza del medesimo giudice31 (va tuttavia osservato che, per quanto

riguarda la competenza per territorio, di solito sussiste la comunanza del foro generale senza

bisogno di deroga, mentre, d'altra parte, opera la generale facoltà di deroga di cui all'art. 28

c.p.c, nei limiti ivi previsti, sicché, in pratica, il limite insormontabile riguarda essenzialmente

la competenza per materia e quella funzionale).

b) In caso di connessione oggettiva.

31 V. MANDRIOLI, Diritto processuale civile, cit., p. 263; Cass. civ., 14 gennaio 2000, n. 347, in Giur. it., 2000, 1362.

34

Questo tipo di connessione dà luogo alla possibilità del cumulo soggettivo, contemplata

genericamente dall'art. 103 c.p.c. Per rendere concretamente attuabile questa generica possi-

bilità, la legge detta una serie di regole contemplanti possibili deroghe di competenza in

relazione, appunto, alla connessione oggettiva.

Nel caso della connessione oggettiva propria la realizzazione del simultaneus processus è

favorita attraverso una (modesta) deroga agli ordinari criteri della sola competenza

territoriale: l’art. 33 c.p.c., infatti, stabilisce che “le cause contro più persone che a norma

degli articoli 18 e 19 dovrebbero essere proposte davanti a giudici diversi, se sono connesse

per l’oggetto o per il titolo possono essere proposte davanti al giudice del luogo di residenza

o domicilio di una di esse …”.

Dunque, poiché l'attuazione del cumulo oggettivo può concretarsi nel convenire più persone

nello stesso processo, la norma in argomento consente in pratica all'attore di scegliere tra i

diversi fori generali dei diversi convenuti, mentre, per quanto riguarda la competenza per

valore, il processo cumulativo si svolgerà dinanzi al Tribunale, se competente per una delle

cause32.

La norma fa dunque riferimento ai soli fori generali (delle persone fisiche o delle persone

giuridiche) e lascia intendere che la deroga sia ammessa esclusivamente in danno del foro

generale di un convenuto ed in favore del foro generale di altro convenuto; non anche, ad

es., quando per una delle cause valga un foro speciale esclusivo oppure per attuare il cumulo

dinanzi al foro speciale applicabile a taluna soltanto di esse.

Mentre buona parte della dottrina sostiene un’interpretazione estensiva dell’art. 33 c.p.c.33,

la giurisprudenza di legittimità si attiene per lo più alla interpretazione letterale34, ammet-

tendo peraltro la derogabilità del foro convenzionale esclusivo ex art. 29 c.p.c.

__________________________________________

GIURISPRUDENZA In tema di competenza territoriale, il foro convenzionale, anche se pattuito come esclusivo, può subire deroga nel caso di connessione oggettiva, ai sensi dell'art. 33 c.p.c. Ne consegue che la parte che sostenga l'incompetenza del giudice adito in virtù della convenzione che ha attribuito la competenza ad altro giudice in modo esclusivo, ha l'onere di eccepire l'insussistenza di una ragione di competenza nei confronti di quest'ultimo in base ai criteri degli art. 18 o 19 c.p.c., richiamati dall'art. 33 ai fini dell'operatività della relativa ragione di modificazione della competenza (Cass. civ., sez. III, 4 marzo 2002, n. 3109).

32 Cfr. TARZIA, L’istituzione del giudice unico di primo grado e il processo civile, in Riv. dir. proc., 1999, p. 625. 33 cfr. BALENA, Istituzioni dir. proc. civ., cit., p. 167. 34 V., ad es., Cass. civ., 14 luglio 2000, n. 9396 secondo cui “La modificazione della competenza per territorio, nel caso di cumulo soggettivo di cause connesse per l'oggetto o per il titolo, incide, per espressa previsione normativa (art. 33 c.p.c.), non suscettiva di interpretazione estensiva, soltanto sul foro generale delle persone fisiche o delle persone giuridiche (rispettivamente, art. 18 e art. 19 c.p.c.), nel senso che consente l'attrazione soltanto a favore di uno dei suindicati fori generali e non anche a favore di fori speciali operanti nei riguardi di una delle parti convenute”.

35

In tema di competenza per territorio, il foro stabilito dalle parti dà luogo ad un'ipotesi di "competenza derogata" per effetto di convenzione e non già di competenza inderogabile, sicché, anche in caso di foro esclusivo ex art. 29 c.p.c., la competenza stessa può essere derogata per ragioni di connessione, con la conseguenza che, in caso di cumulo soggettivo, l'attore ha facoltà di adire il giudice del luogo in cui ha sede il convenuto proponendo, innanzi ad esso, contro altri soggetti, anche le cause che, siano connesse con la prima per oggetto o titolo, senza limitazioni derivanti dall'eventuale pattuizione, con tali soggetti, anche in via esclusiva, di una deroga alla competenza territoriale (Cass. civ., sez. III, 22 ottobre 2004, n. 20635).

In applicazione del principio di buona fede processuale, la mera enunciazione dell'avvenuta stipu-lazione con la parte convenuta di una clausola convenzionale che prevede l'attribuzione della com-petenza per territorio ad un foro esclusivo non è sufficiente ad invocarne l'operatività ai fini della radicazione della competenza, essendo necessario altresì che la parte esplicitamente dichiari di volersi avvalere di tale clausola, e cioè di voler introdurre il giudizio presso il foro adito proprio sulla base di essa; detta regola trova applicazione in modo ancor più pregnante in caso di cumulo soggettivo ai sensi dell'art. 33 c.p.c., potendo in tal caso radicarsi la competenza territoriale dinanzi al giudice adito anche in base a criteri validi solo per alcuni dei convenuti, con la conseguenza che, se la parte attrice ha omesso di allegare espressamente la propria volontà di avvalersi della clausola derogatoria, spetta ai convenuti l'onere di contestare la competenza non solo con riguardo al foro adito, ma anche in relazione criteri di cui agli art. 18, 19 e 20 c.p.c., che ben potrebbero trovare applicazione. In difetto di tale contestazione, l'eccezione di incompetenza va reputata incompleta e, quindi, non proposta (Cass. civ., sez. III, 5 giugno 2009, n. 13032). _________________________________________________

Nel caso invece di connessione oggettiva impropria non è prevista alcuna deroga agli

ordinari criteri di competenza, sicchè la realizzabilità del simultaneus processus presuppone che

sia individuabile uno stesso ufficio giudiziario competente per tutte le cause.

c) Nei casi di connessione c.d. qualificata o pregiudizialità-dipendenza.

Accanto alle ipotesi di connessione c.d. per coordinazione, vanno esaminate le ipotesi di

connessione c.d. qualificata tra cause in essere tra le medesime parti, ambito comprendente le

ipotesi di c.d. connessione per subordinazione di una causa all’altra (previste dagli artt. 31,

34, 35 e 36 c.p.c.), per lo più inquadrabile nello schema della pregiudizialità-dipendenza (oltre

che l’ipotesi della causa di garanzia ex art. 32 c.p.c., ove il vincolo è di subordinazione, ma

che presuppone la partecipazione al giudizio anche di un terzo soggetto).

In ogni caso la pregiudizialità-dipendenza dà luogo ad una connessione particolarmente

intensa, cui corrisponde, laddove le cause non vengano trattate congiuntamente, un rischio

piuttosto alto di giudicati (logicamente) contraddittorii, legato all'eventualità che l'esistenza del

(medesimo) rapporto pregiudiziale venga affermata in un processo e negata nell'altro.

In considerazione di ciò, le disposizioni in esame tendono a favorire il simultaneus processus

attraverso deroghe agli ordinari criteri di competenza; può dirsi in linea di principio che la con-

36

nessione in questi casi consente – oltre alla modificazione della competenza per territorio - anche

la modificazione della competenza per valore, mentre non permette mai deroghe ai criteri consi-

derati tradizionalmente più «forti», e cioè alla competenza per materia o per territorio cd. fun-

zionale35. Oggi tuttavia, dopo l’istituzione del giudice unico in primo grado (conseguente alla

soppressione delle preture), gli ostacoli alla trattazione congiunta, in ipotesi di connessione

“qualificata”, sono divenuti meno consistenti (non solo per il nuovo regime di rilevabilità

dell’incompetenza ex art. 38 c.p.c.) soprattutto per quanto concerne la competenza verticale,

poiché, se gli ordinari criteri della materia e/o valore dovessero attribuire una causa al giudice

di pace e l’altra al tribunale, opererebbe la vis attractiva a favore della competenza del giudice

togato. Ne deriva che, prescindendo dalle ipotesi di competenza della corte d’appello in primo

(ed unico) grado, l’impedimento alla realizzazione del simultaneus processus potrebbe venire

solo dalla competenza per territorio inderogabile ex art. 28 c.p.c.

-Connessione per accessorietà (art. 31 c.p.c.).

L’accessorietà è il rapporto che intercorre tra due cause connesse oggettivamente (ma anche

soggettivamente), nel senso che la decisione di una di esse (quella c.d. accessoria) dipende

dalla decisione dell’altra (quella c.d. principale).

Il legislatore non definisce il concetto di accessorietà, che in genere viene inteso in modo

alquanto empirico: accessoria è, pertanto, la domanda che (dal punto di vista del risultato

avuto di mira dall’attore) ha un rilievo secondario rispetto alla domanda principale ed il cui

accoglimento è subordinato all’accoglimento di quest’ultima.

Esempi: domanda (principale) di restituzione di una somma (capitale) data a mutuo e do-

manda (accessoria) di pagamento degli interessi; domanda (principale) di risoluzione del con-

tratto di locazione e domanda (accessoria) di rilascio del bene locato.

In presenza di tale rapporto l’art. 31 c.p.c. consente che la causa accessoria possa essere

proposta davanti al giudice territorialmente competente per la domanda principale (con

conseguente spostamento della competenza territoriale della domanda accessoria). Agli effetti

del valore le due domande si sommano, ai sensi dell’art. 10, co. 2, c.p.c.

________________________________________

35 Cfr. MANDRIOLI, Diritto proc. civ., cit., p. 264-265; BALENA, Istituzioni dir. proc. civ., cit., p. 171, il quale peraltro rileva che “Oggi, tuttavia, dopo l'istituzione del giudice unico in primo grado e la conseguente soppres-sione delle preture, gli ostacoli alla trattazione congiunta, in presenza di una connessione «qualificata», sono divenuti assai meno frequenti, in ispecie per quel che concerne la competenza «verticale», tenuto conto che se i criteri (ordinari) della materia e/o del valore dovessero attribuire una causa al giudice di pace e l'altra al tribunale, l'art. 40, 6° co., farebbe prevalere senz'altro la competenza del giudice «togato».

37

GIURISPRUDENZA La controversia di lavoro non può attrarre quella previdenziale nella competenza territoriale in quanto, pur sussistendo accessorietà fra le due domande, tuttavia il principio di cui all'art. 31 c.p.c. non può trovare applicazione quando la cognizione della domanda accessoria sia attribuita alla competenza "funzionale" per materia e per territorio di un determinato giudice; pertanto, non potendosi determinare uno spostamento di competenza, va sospeso il processo accessorio in attesa della definizione di quello principale. Qualora un lavoratore proponga, con lo stesso atto introduttivo, alcune domande contro il datore di lavoro, per l'adempimento di obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro (nella specie, riconoscimento di qualifica superiore, pagamento delle relative spettanze retributive, costituzione di rendita vitalizia per omesso versamento di contributi assicurativi), nonché altre domande contro il medesimo datore di lavoro, ed in contraddittorio degli enti previdenziali, per l'adempimento di obblighi contributivi nei confronti di questi ultimi, i criteri per l'individuazione del giudice del lavoro territorialmente competente, fissati, rispettivamente per le une e le altre domande, dagli art. 413 comma 2 e 444 comma 3 c.p.c. non possono trovare deroga per ragioni di connessione od accessorietà , sicché, ove tali criteri portino all'affermazione della competenza territoriale di giudici diversi, le relative cause vanno separate, salva la sospensione di quella la cui definizione postuli la decisione dell'altra (Cass. civ., 17 novembre 1980, n. 6136). ______________________________________________

-Connessione per garanzia (art. 32 c.p.c.)

L’art. 32 c.p.c. prende in considerazione l’azione di garanzia, con la quale una parte fa

valere il suo diritto (sostanziale ) di essere, appunto, «garantita» da un terzo36, ossia risarcita

delle conseguenze della sua eventuale soccombenza: tipico l'esempio del compratore che,

convenuto in giudizio da un soggetto che si vanta proprietario della cosa, ha diritto di essere

garantito dal venditore (art. 1483 c.c.; in questo caso, anzi, la legge configura addirittura un

onere di «chiamata in causa» del venditore garante: art. 1485 c.c.).

E’ evidente che in tali casi il diritto alla garanzia dipende in senso lato, sul piano sostanziale,

anche dall’esistenza del diritto vantato dal terzo nei confronti del garantito; un’eventuale

azione autonoma di garanzia (esercitata dopo la conclusione del giudizio principale promosso

dal terzo con la soccombenza del garantito) comporterebbe il rischio (per il garantito) che il

garante (venditore) – rimasto estraneo al primo processo e, quindi, non vincolato dalla relativa

decisione – possa rimettere in discussione, nel secondo processo, anche il diritto del terzo.

L'opportunità che la causa introdotta dalla cd. chiamata in garanzia sia trattata insieme con

la causa principale sta nell'evidente interesse del garantito ad ottenere una pronuncia contro il

garante (venditore), contemporaneamente all'eventuale (poiché altrimenti la garanzia non

opererebbe) pronuncia contro di lui.

Per questa ipotesi, dunque, l'art. 32 c.p.c. consente la proposizione della domanda di garan-

zia innanzi al giudice competente per la causa principale con conseguente possibile deroga

della competenza per territorio. Se però la domanda eccede la competenza per valore del

36 È per l'appunto questa titolarità in capo ad un «terzo», ossia ad un soggetto diverso da quelli della domanda originaria, che distingue questa figura da quella dell'accessorietà.

38

giudice adito (ossia del giudice di pace), questi rimette entrambe le cause al giudice superiore

assegnando alle parti un termine perentorio per la riassunzione37.

Va, d'altra parte tenuto presente che la suddetta particolare possibilità di derogare alle regole

della competenza non sussiste nei casi di cd. garanzia impropria, che si verifica quando la

domanda di garanzia, anziché dipendere dal medesimo titolo, dipende da un titolo diverso da

quello dedotto con la domanda principale e connesso solo in via di fatto (tipico l'esempio di

vendite successive della stessa merce). In questi casi il cumulo di cause (come pure la chiamata

del garante nel giudizio) sarebbe ammesso, ma senza alcuna deroga rispetto agli ordinari

criteri di competenza.

Su tale posizione la giurisprudenza di legittimità è consolidata, mentre in dottrina qualche

autore solleva perplessità, sia perché l’art. 32 c.p.c. non prevede alcuna distinzione sia,

soprattutto, perché la connessione tra la domanda principale e quella contro il garante, nel

caso di garanzia c.d. impropria, non presenta aspetti qualitativamente differenti da quelli che

caratterizzano la garanzia propria, definibili in termini di pregiudizialità-dipendenza38.

______________________________________________

GIURISPRUDENZA In tema di competenza per territorio, con riferimento alla proposizione dell'a-zione di garanzia, poiché si ha garanzia propria quando la causa principale e quella accessoria abbiano lo stesso titolo, ovvero quando ricorra una connessione oggettiva tra i titoli delle due domande, e si configura invece la garanzia cosiddetta impropria quando il convenuto tenda a riversare su di un terzo le conseguenze del proprio inadempimento in base ad un titolo diverso da quello dedotto con la domanda principale, ovvero in base ad un titolo connesso al rapporto principale solo in via occasionale o di fatto, gli ordinari criteri di competenza territoriale, quali stabiliti dalla legge o contrattualmente indicati dalle parti, non rimangono derogati dalla chiamata in causa del soggetto da cui il chiamante pretenda di essere garantito a titolo diverso (garanzia impropria) da quello dedotto in giudizio. (Poiché, nella specie, la domanda principale era fondata su di un contratto concluso a Genova, e quella di garanzia - impropria - dal convenuto proposta nei confronti del terzo chiamato, su di un distinto e autonomo contratto, concluso a Napoli, la S.C., in sede di regolamento di competenza avverso la sentenza del tribunale di Genova che aveva dichiarato la propria competenza sulla domanda di garanzia, per averla invece qualificata come propria, ha dichiarato la competenza del tribunale di Napoli sulla detta domanda di garanzia impropria) (Cass. civ., sez. III, 24 gennaio 2007, n. 1515; conf. Cass. civ., 21 maggio 2004, n. 9774). ________________________________________________

- Connessione per pregiudizialità (art. 34 c.p.c.).

37 Così dispone ora il testo modificato (dal D.Lgs. 19 febbraio 1998 n. 51) dell'art. 32 c.p.c., che in precedenza contemplava la possibile deroga anche della competenza per valore (ciò che, dopo la soppressione dell'ufficio del pretore, avrebbe determinato un possibile sproporzionato superamento dei limiti di competenza del giudice di pace). 38 In tal senso, v. BALENA, Istituzioni dir. proc. civ., cit., p. 173.

39

Ricorre tale ipotesi allorchè, proposta una causa, venga sollevata dal convenuto un’ecce-

zione pregiudiziale e questa – per legge (si pensi a questione concernente allo steso delle

persone) o per esplicita domanda delle parti – debba essere decisa con efficacia di giudicato

(e cioè ad ogni effetto e non incidenter tantum)39.

E’ questa propriamente la domanda di accertamento incidentale (cui fa riferimento la ru-

brica dell’art. 34 c.p.c.), in presenza della quale (oppure automaticamente ove sia la stessa

legge ad esigere la decisione con efficacia di giudicato) la questione pregiudiziale diventa

causa pregiudiziale, la quale viene a cumularsi a quella principale originaria (che in realtà

dipende dalla decisione dell’altra).

_________________________________________

GIURISPRUDENZA La "esplicita domanda di una delle parti", occorrente, ai sensi dell'art. 34 c.p.c., per la trasformazione della questione pregiudiziale in causa pregiudiziale, non esige un'apposita istanza ma è pur sempre necessario che essa risulti in modo inequivoco dalle deduzioni e conclusioni della parte interessata. (Nella specie la S.C. ha cassato la sentenza del giudice di pace che, in un giudizio per il pagamento della quota per spese di gestione di una cooperativa, aveva accertato la perdita della qualità di socio senza che alcuna delle parti ne avesse fatto domanda, e, decidendo nel merito, ha qualificato l'accertamento come meramente incidentale) (Cass. civ., sez. I, 5 giugno 2007, n. 13173). __________________________________________

A fronte di una terminologia codicistica non sempre univoca, in quanto talora (ad es.

nell'art. 279, 2° comma n. 2) il legislatore riserva l'espressione «pregiudiziali» alle questioni

di rito per qualificare «preliminari» le pregiudiziali di merito, giova precisare che qui ci

riferisce alle sole pregiudiziali di merito e non pure alle pregiudiziali di rito (attinenti alla

sussistenza di presupposti processuali o condizioni dell’azione).

Bisogna allora tener presente che con l'espressione «questioni pregiudiziali» si intendono

quelle questioni (di merito) che, pur potendo costituire oggetto autonomo di una decisione

(nel senso chiovendiano del perseguire autonomi e diversi beni della vita) si inseriscono,

come un passaggio obbligato, nell'iter logico-giuridico, che conduce alla decisione sulla do-

manda principale, condizionandone l’accoglimento o il rigetto40.

39 Sull’argomento, v. tra gli altri, MONTESANO, La sospensione per dipendenza di cause civili e l'efficacia dell'accertamento contenuto nelle sentenze, in Riv. dir. proc., 1983, p. 387 ss.; GIALLONGO, Sole in tema di sospensione, pregiudizialità e connessione, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1985, p. 616 ss.; GARBAGNATI, Questioni pregiudiziali (dir. proc. civ.), in Enciclopedia del diritto, XXXVII, Milano, 1987, p. 69 ss.; MONTESANO, Questioni e cause pregiudiziali, in Riv. dir. proc., 19S8, p. 299 ss.; TRISORIO LIUZZI, La sospensione del processo civile di cognizione, Bari, 1987, p. 522 e ss.; DENTI, Questioni pregiudiziali, in Dig. disc. priv., sez. civ., XVI, Torino, 1997, p. 158 ss. 40 Cfr. MANDRIOLI, Diritto proc. civ., I, cit., p. 271. Restano così escluse le questioni «che non possono tra-sformarsi in controversie» (così FRANCHI, Della competenza per connessione sub artt. 33, 327, in Commentario al codice di procedura civile, diretto da Allorio, Torino, 1973, p. 333), come le questioni di mero

40

Così ad es., rispetto ad una domanda di alimenti da padre a figlio, è evidentemente pregiudi-

ziale la questione relativa alla sussistenza del rapporto di paternità, ove sia contestato.

__________________________________________

GIURISPRUDENZA La questione pregiudiziale idonea ad incidere sulla competenza del giudice adito, ai sensi dell'art. 34 c.p.c., postula non solo che sia investito un punto costituente un antecedente logico necessario, di fatto o di diritto, rispetto alla decisione della controversia principale, ma anche che tale punto assuma rilievo autonomo, in quanto destinato a proiettare le sue conseguenze giuridiche, oltre il rapporto controverso, su altri rapporti, al di fuori della causa, con la formazione della cosa giudicata a tutela di un interesse che trascende quello inerente alla soluzione della contro-versia nel cui ambito la questione è stata sollevata (Cass. civ., sez. III, 12 luglio 2005, n. 14578; conf. Cass. 6 marzo 2001, n. 3248; Cass. 1 aprile 1995, n. 3839.). ________________________________________________

Dunque, in presenza di tale situazione (e della necessità che la questione pregiudiziale

debba esser decisa con efficacia di giudicato), l'art. 34 c.p.c. detta la regola (in tema di com-

petenza) secondo cui “se la questione pregiudiziale appartiene per materia o valore alla

competenza di un giudice superiore” quest’ultimo attrae nella propria competenza anche la

causa principale: in tal modo il giudice (inferiore) adìto deve rimettere entrambe le cause al

giudice superiore (assegnando alle parti un termine perentorio per la riassunzione), affinchè si

realizzi il simultaneus processus innanzi a lui.

Ove invece la causa pregiudiziale appartenga alla competenza per materia o valore dello

stesso giudice adìto (con la domanda principale) o di un giudice inferiore, non si avrà alcuno

spostamento di competenza.

Questa disciplina, per un verso, conferma che la trattazione congiunta di cause connesse per

pregiudizialità-dipendenza non trova ostacoli nella diversa competenza per territorio (dero-

gabile) prevista per le singole cause e, per altro verso, che - al di fuori di questa ipotesi di ac-

certamento incidentale - la questione pregiudiziale viene risolta dal giudice incidenter tan-

tum (e cioè ai soli fini della decisione sulla domanda, senza che la pronuncia sul punto possa

essere fatta valere ad alcun altro fine o possa vincolare il giudice di altro processo nel quale la

medesima questione venga riproposta). Il che assume grande importanza dal punto di vista si-

stematico ai fini dell’esatta determinazione dell’oggetto del processo (che, di regola, rimane

circoscritto alla domanda, senza estendersi alle questioni pregiudiziali) e, correlativamente,

della portata del giudicato.

_________________________________________

fatto o di mero diritto (cd. pregiudizialità in senso meramente logico: v. Cass. 6 marzo 2001, n. 3248), così come restano escluse le questioni prive di relazione causale con la decisione (Cass. 4 gennaio 1986, n. 60).

41

GIURISPRUDENZA Qualora nel giudizio per la risoluzione di un contratto di locazione per inadempimento del conduttore, proposto dal locatore davanti al tribunale competente per valore, vi sia necessità di accertare l'entità del canone dovuto ma nessuna delle parti richieda su tale punto un accertamento da far valere con efficacia autonoma di giudicato, la relativa questione non costituisce oggetto di una causa pregiudiziale che, ai sensi dell'art. 34 c.p.c., debba essere rimessa al giudice funzionalmente competente ex art. 45 l. 27 luglio 1978 n. 392, e di essa può conoscere il tribunale adito, "incidenter tantum", al solo fine della decisione sulla domanda di risoluzione (Cass. civ., sez. III, 21 luglio 2003, n. 11320). L'art. 295 c.p.c. impone la sospensione del processo nei casi in cui deve essere risolta una controversia "dalla cui definizione dipende la decisione della causa" e questo nesso di dipendenza postula che la questione pregiudiziale debba essere decisa con efficacia di giudicato da un giudice diverso da quello chiamato a pronunciarsi sulla causa pregiudiziale, mentre in ogni altro caso la questione pregiudiziale deve essere decisa incidentalmente dal giudice della causa pregiudicata ai sensi dell'art. 34 c.p.c., non essendo la pendenza di un altro processo di per sè sufficiente a privare il giudice del potere di esa-minarla, anche se ecceda i limiti della sua competenza, al limitato effetto di ricercare un antecedente logico della decisione che deve emettere sull'oggetto principale del processo. Qualora due giudizi tra le stesse parti abbiano riferimento al medesimo rapporto giuridico ed uno dei due sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l'accertamento così compiuto in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe le cause, formando la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza con autorità di cosa giudicata, preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto, anche se il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che hanno costituito lo scopo e il "petitum" del primo. Deve tuttavia escludersi che alle stesse conclusioni possa giungersi quando, come nel caso di specie, tra i due giudizi non vi sia identità di parti, tenuto conto dei principi che regolano l'efficacia soggettiva del giudicato, circoscrivendola ai soggetti posti in condizione di intervenire nel processo e a coloro che ad essi subentrano per successione o per atti tra vivi così come stabilito dall'art. 2909 c.c., tant'è che una soluzione diversa sarebbe, non solo contraria a quest'ultima disposizione, ma, come puntualizzato dal giudice delle leggi, lesiva dell'art. 24 cost. (Cass. civ., sez. trib., 4 giugno 2001, n. 7506). _______________________________________________

-Connessione per compensazione (art. 35 c.p.c.).

L’art. 35 c.p.c. fa riferimento all’ipotesi in cui venga sollevata un’eccezione di compen-

sazione ed il controcredito venga contestato dall’attore; in tal caso il legislatore, per ragioni di

opportunità, esclude la risoluzione incidenter tantum della questione ed impone che la stessa

sia decisa con efficacia di giudicato (trattasi, in definitiva, di una ipotesi di accertamento

incidentale ex lege) 41.

Sorge in tal caso una causa pregiudiziale, che si cumula a quella originaria e può esorbitare

la competenza del giudice adìto.

41 cfr. Balena, Istituzioni dir. proc. civ., cit., p. 176, il quale sottolinea che, per contro, se il controcredito non è contestato dal’attore, l’eccezione resta tale e non amplia l’oggetto del giudizio né sposta la competenza, ri-manendo possibile un accertamento meramente incidentale. Nello stesso senso, v. MENCHINI, I limiti oggettivi del giudicato, cit., p. 335, MERLIN, Compensazione e processo , II, Milano, 1994, p. 6 ss.).

42

La norma prevede che se la causa pregiudiziale (avente ad oggetto il controcredito) eccede

la competenza per valore42 del giudice adìto, costui deve rimettere “tutta la causa” (o me-

glio il cumulo delle due cause) al giudice superiore (richiamando l’art. 35 la soluzione già

indicata nell’art. 34 c.p.c.).

Se ne ricava implicitamente, a-contrario, che se è lo stesso giudice adìto a poter decidere

sul controcredito contestato il simultaneus processus si realizzerà innanzi a lui.

La stessa norma offre però anche una soluzione alternativa (scissione degli accertamenti),

nel senso che “se la domanda principale è fondata su un titolo non controverso o facilmente

accertabile” – che, in pratica, non richiede una complessa attività istruttoria – il giudice adìto

può decidere su di essa (una sorta di condanna con riserva) e rimettere al giudice superiore

la sola decisione sull’eccezione di compensazione, subordinando se del caso l’esecuzione

della sentenza alla prestazione di una cauzione (onde neutralizzare il rischio che il convenuto,

costretto subito a pagare, allorchè successivamente consegua l’accertamento del controcredito

opposto in compensazione, non riesca a conseguire il rimborso dall’attore).

Di alcune particolari questioni affrontate dalla Suprema Corte si dà contezza nella finestra

di giurisprudenza che segue.

_____________________________________

GIURISPRUDENZA Il carattere funzionale ed inderogabile della competenza del giudice che ha emesso il decreto ingiuntivo, in ordine all'opposizione proposta a norma dell'art. 645 c.p.c. comporta che la competenza medesima non possa subire eccezioni per situazioni di connessione, sia che questa si presenti nei termini ampi e generici dell'art. 40 c.p.c., sia che si tratti delle speciali ipotesi di connes-sione previste dagli art. 34, 35 e 36 c.p.c.; ne deriva che, quando nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo venga eccepito in compensazione un credito eccedente i limiti di valore del giudice adito, questi non può rimettere al giudice superiore tutta la causa, ma deve rimettergli solo la decisione relativa all'eccezione di compensazione e trattenere quella concernente l'opposizione a decreto ingiun-tivo, salva l'eventuale sospensione di tale ultima causa a norma dell'art. 295 c.p.c. (Cass. civ., sez. II, 21 dicembre 1992, n. 13550; conf. Cass. civ., sez. III, 25 febbraio 1999, n. 1640). In tema di opposizione a decreto ingiuntivo da decidere secondo equità dinanzi al giudice di pace, qualora l'opponente, nel sollevare eccezione di compensazione, opponga un credito eccedente la competenza per valore del giudice medesimo introducendo, così, una controversia che non può essere decisa secondo equità, la connessione tra le cause comporta che l'intero giudizio deve essere deciso secondo diritto. Ne consegue che la sentenza del giudice di pace che, funzionalmente competente a decidere sull'opposizione al decreto ingiuntivo, abbia deciso su entrambe le domande, pur essendo incompetente a decidere sulla causa connessa, è impugnabile con l'appello e non con il ricorso per cassazione, che, se proposto, va dichiarato inammissibile (Cass. civ., sez. III, 2 aprile 2009, n. 8028; conf. Cass. civ., 12 dicembre 2006, n. 26527).

Allorquando in un giudizio di primo grado avente ad oggetto l'accertamento di un credito venga eccepita in compensazione l'esistenza di un controcredito, oggetto di altro giudizio fra le stesse parti

42 La formulazione della norma non è felice, perché anche questa particolare forma di connessione, al pari di quella di cui all’art. 34 c.p.c., consente la deroga alla sola competenza per territorio semplice e a quella per va-lore di un giudice inferiore, non anche alla competenza per materia o funzionale.

43

pendente in secondo grado, il giudice del primo giudizio deve risolvere la situazione di connessione sulla base dei principi emergenti dall'art. 35 c.p.c. opportunamente adattati alla situazione di pendenza dei due giudizi in gradi diversi e, pertanto, non potendo far luogo alla rimessione del giudizio avanti al giudice di secondo grado deve, qualora il credito oggetto della domanda principale proposta avanti di lui sia fondato su titolo non controverso o facilmente accertabile, decidere su tale domanda e far luogo a condanna con riserva dell'eventuale accertamento del controcredito eccepito in compensazione nel giudizio di secondo grado, mentre, ove la domanda principale non presenti delle caratteristiche, deve disporre la sospensione del giudizio in attesa della definizione di quello pendente in secondo grado sul controcredito. La adozione di un provvedimento di sospensione senza che risulti compiuta la necessaria valutazione fra tali alternative consente alla Corte di cassazione, investita del regolamento di competenza sull'ordinanza di sospensione, di procedervi e, in presenza dei presupposti della condanna con riserva, di caducare il provvedimento (Cass. civ., sez. III, 10 novembre 2006, n. 24098). ______________________________________________

-Connessione per riconvenzione (art. 36 c.p.c.)

L’art. 36 c.p.c. prende, infine, in considerazione le “domande riconvenzionali che dipen-

dono dal titolo dedotto in giudizio dall’attore o da quello che già appartiene alla causa come

mezzo di eccezione”, le quali possono essere cumulate alla domanda principale per essere

trattate e decise nello stesso processo innanzi al giudice adito dall’attore, purchè non ecce-

dano la sua competenza per materia o valore.

In caso contrario l’art. 36 c.p.c. richiama l’applicabilità delle disposizioni dei due articoli

precedenti (34 e 35 c.p.c.): dunque, attrazione delle due cause al giudice superiore o deci-

sione separata del giudice adito sulla domanda principale, se fondata su titolo non contro-

verso o facilmente accertabile, con rimessione al giudice superiore della sola causa concer-

nente la riconvenzionale.

__________________________________________________ GIURISPRUDENZA Qualora sia proposta dinanzi al giudice di pace una domanda risarcitoria, deducendosi l'installazione illegittima di una linea elettrica di passaggio, per una somma da ritenersi rientrante nella competenza ordinaria per valore dello stesso giudice, e venga formulata dalla parte convenuta una rituale domanda riconvenzionale di accertamento dell'acquisto per usucapione della servitù di elettrodotto, di natura immobiliare e da considerarsi pregiudiziale rispetto a quella prin-cipale, l'intera controversia, ai sensi degli art. 34 e 36 c.p.c., e non operando alcun criterio di compe-tenza funzionale del giudice di pace con riferimento alla domanda principale, deve considerarsi appar-tenente alla competenza del tribunale dinanzi al quale deve, perciò, essere rimessa (Cass. civ., sez. II, 11 maggio 2010, n. 11415; conf. Cass. civ., 19 marzo 2007, n. 6520). In tema di competenza, ove il giudice di pace, adito con domanda rientrante nella sua competenza per materia (nella specie, relativa al rispetto delle distanze legali nella piantagione di alberi), sia investito, in via riconvenzionale, di una domanda eccedente la sua competenza per valore o per materia (nella specie, di accertamento di usucapione), egli è tenuto, non operando la "translatio iudicii" a norma dell'art. 36 c.p.c., a trattenere la causa principale, separando la causa riconvenzionale per la quale non è competente; né possono assumere rilevanza, in contrario, le disposizioni del sesto e del comma 7 del novellato art. 40 c.p.c., poiché esse non prevedono l'ipotesi in cui le predette domande siano proposte sin dall'inizio davanti al giudice di pace, nel qual caso rimane ferma la competenza funzionale e inderogabile del medesimo per la causa principale *.

44

* Nella motivazione si legge testualmente che non può “assumere alcuna rilevanza in contrario la disposizione del novellato art. 40 c.p.c., comma 6, secondo la quale, se una causa di competenza del giudice di pace sia connessa per i motivi di cui agli artt. 31, 32, 34, 35 e 36 cod. proc. civ. con altra causa di competenza del tribu-nale, le relative domande possono essere proposte davanti al tribunale per essere decise nello stesso processo, né quella del comma 7 dello stesso articolo, che prevede che, se le cause connesse ai sensi del comma 6 sono proposte davanti al giudice di pace e al tribunale, il primo deve pronunciare anche di ufficio la connessione a favore del tribunale. Infatti, tali disposizioni non prevedono l’ipotesi in cui le predette domande siano proposte sin dall’inizio davanti al giudice di pace, rimanendo ferma, in tale ipotesi, in caso di riconvenzionale di competenza del giudice togato, la competenza funzionale e inderogabile del giudice di pace per la causa principale (Cass., n. 6595 del 2002). Quando in un giudizio dinanzi al giudice di pace avente a oggetto una domanda soggetta come tale a regola di decisione secondo equità viene proposta una domanda riconvenzionale di competenza del tribunale, la regola di giudizio - indipendentemente dalla concreta soluzione che possa avere la questione della sussistenza o meno della connessione ai sensi dell'art. 36 c.p.c. - diventa quella secondo diritto. Deriva da quanto precede, pertanto, che (nel regime anteriore all'attuale art. 339 c.p.c.), la sentenza resa dal giudice di pace su entrambe le domande, così come la decisione parziale resa separatamente sulla riconvenzionale per negare la connessione, con (irrituale) declaratoria di inammissibilità per tale ragione o con (rituale) rimessione al tribunale della riconvenzionale , e la successiva sentenza definitiva sulla principale (anche quando non sia stata fatta riserva contro la parziale ed essa sia divenuta definitiva), sono da intendere pronunciate secondo diritto, e, quindi, appellabili. Tale conseguenza si può escludere solo nel caso in cui il giudice di pace abbia risolto espressamente la questione del modo della decisione pronunciandosi sul punto e affermando che la regola di decisione sulla domanda principale è quella secondo equità. In questo caso il mezzo di impugnazione esperibile è il ricorso per cassazione. Quando, infine, dinanzi al giudice di pace sia proposta una domanda principale da decidersi secondo equità e una riconvenzionale da decidersi secondo diritto la competenza è dello stesso giudice di pace. Indipendentemente dalla concreta ricorrenza della connessione, analogamente la decisione su entrambe le domande o quelle separate su di esse sono da intendere rese - salvo che ricorra per la principale l'ipotesi sopra prospettata - sempre e comunque secondo diritto. (Nella specie l'attore aveva proposto domanda di danni per euro 1.032,91 e il convenuto in via riconvenzionale chiesto fosse accertato l'avvenuto acquisto, da parte sua, di una servitù, con rimessione dell'intera controversia al tribunale. Il giudice di pace dichiarata con sentenza non definitiva la propria incompetenza, ha accolto, con quella definitiva, la domanda principale. Impugnate entrambe le sentenze innanzi al tribunale, quest'ultimo (con sentenza del marzo 2008) ha dichiarato inammissibili entrambe le impugnazioni. In applicazione del principio di cui sopra ha accolto il ricorso per cassazione perché il tribunale avrebbe dovuto decidere su entrambi gli appelli) (Cass. civ., sez. III, 26 gennaio 2010, n. 1463).

_________________________________________________________

6. Modalità di realizzazione del simultaneus processus nel caso di proposizione di cause connesse in separati processi. Le disposizioni fino ad ora esaminate si riferiscono al fenomeno della connessione sotto il

profilo della facoltà della parte che agisce di cumulare le azioni connesse nello stesso processo;

e cioè concernono il momento anteriore all'inizio dell'unico processo nel quale vengono

esercitate insieme tutte le azioni connesse.

Esse vanno perciò coordinate con altre disposizioni dettate con riferimento ad un momento

successivo all'inizio del processo, che cioè si riferiscono allo stesso fenomeno da un altro

45

punto di vista: quello del giudice (o dei diversi giudici) al quale (o ai quali) siano già state

proposte le azioni connesse

a)Cause separatamente proposte innanzi ad uffici giudiziari diversi.

Se le cause connesse vengono istaurate separatamente dinanzi ad uffici giudiziari diversi,

l'art. 40 c.p.c. detta le condizioni (anzitutto che si tratti di una delle ipotesi di connessione cd.

qualificata di cui agli artt. 31-36 c.p.c.) affinchè la loro trattazione congiunta possa ancora

attuarsi attraverso la concentrazione dei più processi innanzi ad un solo ufficio.

Il comma 1 prevede che in tal caso «il giudice» dichiari la connessione con ordinanza, fis-

sando alle parti «un termine perentorio per la riassunzione della causa accessoria davanti al

giudice della causa principale, e negli altri casi davanti a quello preventivamente adito».

Il tenore letterale della norma depone nel senso che a spogliarsi della causa debba essere,

rispettivamente, il giudice della causa accessoria, nell'ipotesi di cui all'art. 31, e quello adito

successivamente, in tutti gli altri casi.

Davanti a tale giudice inoltre - in base al comma 2 - la connessione può essere eccepita, da

ciascuna delle parti, oppure rilevata d'ufficio solamente entro la prima udienza (183 c.p.c.); e

lo stesso giudice deve comunque rifiutare la dichiarazione di connessione quando «lo stato

della causa principale o preventivamente proposta» non consente «l'esauriente trattazione e

decisione delle cause connesse».

La disciplina si rivela alquanto lacunosa, giacché non chiarisce se il simultaneus processus

possa o meno realizzarsi anche quando l'ufficio giudiziario così individuato (il giudice della

causa principale o quello preventivamente adito) non sia competente rispetto a tutte le cause

connesse43.

E tuttavia il problema può considerarsi in gran parte ridimensionato per effetto della sop-

pressione delle preture e della peculiare disciplina che lo stesso art. 40 c.p.c. riserva alla con-

nessione fra cause di competenza del giudice di pace e cause di competenza del tribunale,

come si vedrà innanzi.

b)Cause separatamente proposte davanti allo stesso ufficio giudiziario.

43 In particolare: 1) quando, trattandosi di causa accessoria tra le stesse parti, il suo valore, sommato a quello della causa principale (art. 10, 2° co.), esorbiti la competenza del giudice adito per quest'ultima (v. l'art. 31); 2) quando, negli altri casi di connessione, il giudice preventivamente adito non sia quello «superiore», competente per materia o per valore, dinanzi al quale, ai sensi degli artt. 32, 34, 35 e 36, si sarebbe potuto instaurare ab initio il cumulo delle cause connesse.

46

Più semplice è la disciplina applicabile nell'ipotesi in cui le cause connesse siano proposte

separatamente dinanzi allo stesso ufficio giudiziario.

In questo caso, infatti, la concentrazione delle cause si realizza semplicemente attraverso la

loro riunione; che peraltro, a differenza di quella applicabile alle cause identiche (art. 273), è

qui meramente facoltativa, sicché il giudice che rileva la connessione ha pur sempre la

possibilità di valutare se il simultaneus processus sia o meno conveniente, anche in relazione

al rispettivo stato di avanzamento delle cause.

In concreto l'art. 274 c.p.c. prevede che, qualora le cause connesse pendano dinanzi allo

stesso giudice (inteso, stavolta, come magistrato-persona fisica o collegio giudicante), questi

possa, anche d'ufficio, disporne direttamente la riunione.

Se invece le cause connesse pendono davanti ad altro giudice o ad altra sezione dello stesso

tribunale, il giudice istruttore o il presidente della sezione che ne abbiano notizia devono

riferirne al presidente, il quale, sentite le parti, ordina con decreto «che le cause siano chiamate

alla medesima udienza davanti allo stesso giudice o alla stessa sezione per i provvedimenti

opportuni» (ossia per l'eventuale loro riunione).

__________________________________

Una particolare disciplina è prevista per i procedimenti rela tivi a controversie in materia di lavoro (art. 409), di previdenza e assistenza obbligatorie (art. 442) e a controversie dinanzi al giudice di pace, per le quali il legislatore mostra di essere ancor più sensibile alle esigenze di economia processuale per-seguite attraverso la trattazione congiunta delle cause connesse. Per esse, infatti, l'art. 151 disp. att. contempla una duplice deroga all'art. 274: in primo luogo sta-bilendo che la riunione sia obbligatoria, tranne quando «renda troppo gravoso o comunque ritardi eccessivamente il processo» (ovvero quando sussistano altre «gravi e motivate ragioni»), ogniqualvolta le cause si trovino «nella stessa fase processuale» (anche in grado di appello); in secondo luogo estendendo tale riunione (oltre che alle consuete ipotesi di cui agli artt. 31-36) anche alle cause connesse «soltanto per identità delle questioni dalla cui risoluzione dipende, totalmente o parzialmente, la loro decisione» (cioè alla connessione cd. impropria). ___________________________________

7. La connessione di cause assoggettate a riti diversi (art. 40 c.p.c.).

La trattazione congiunta delle cause connesse può trovare un ostacolo nella diversità del

rito44 previsto per una o alcune di esse.

44 Con l'espressione «rito» le disposizioni che stiamo per esaminare si riferiscono alla contrapposizione tra il rito ordinario e i diversi riti previsti dal codice e cioè, oltre al cd. rito del lavoro - che è quello che disciplina il processo del lavoro (artt. 409 ss.) e previdenziale (arti. 441 ss.), il rito camerale (proprio dei procedimenti in camera di consiglio) nonché (almeno stando alla relazione ministeriale), il giudizio di equità. Autorevole dottrina esclude l’applicabilità della disciplina dettata dall’art. 40 c.p.c. ai processi sommari: in tal senso, v. BALENA, Istituzioni dir. proc. civ., cit., p. 181.

47

Al fine di superare questo ostacolo, un tempo ritenuto insuperabile dalla dottrina e dalla giu-

risprudenza, la legge n. 353/1990 ha aggiunto tre commi all'art. 40 c.p.c. (rispettivamente 3, 4

e 5) che, sebbene limitatamente a particolari tipi di connessione qualificata (artt. 31, 32, 34,

35 e 36), consentono il simultaneus processus nonostante le differenze del rito.

Tale disciplina – che non si applica alla connessione oggettiva semplice di cui all’art. 33

c.p.c. – dimostra che il rito (a differenza di quel che si ritiene per la competenza) è sempre

suscettibile di deroga in presenza di un legame particolarmente forte tra più cause.

Orbene il 3° comma dell’art. 40 c.p.c., con riferimento alle ipotesi di connessione quali-

ficata prese in considerazione negli artt. da 31 a 36 (escluso solo l'art. 33 riferito alla dero-

gabilità della competenza per territorio per effetto del cumulo soggettivo)45 e sul presupposto

che almeno una di esse sia assoggettata al rito ordinario, dispone che, nei casi suddetti, «le

cause cumulativamente proposte o successivamente riunite, debbono essere trattate e decise

col rito ordinario, salva l'applicazione del solo rito speciale quando una di tali cause rientri

tra quelle indicate negli articoli 409 e 442» (ossia il rito previsto per le materie di lavoro e di

previdenza). In quest'ultima ipotesi è, dunque, il rito speciale, del lavoro o previdenziale, che

prevale su ogni altro rito, compreso quello ordinario; mentre nelle ipotesi di connessione tra

cause assoggettate al rito ordinario e cause assoggettate a riti diversi da quello del lavoro o

previdenziale, permane la vis attractiva del rito ordinario.

Il 4° comma prevede poi l'ipotesi che le cause connesse siano tutte assoggettate a diffe-

renti riti speciali (diversi da quelli di cui agli artt. 409 e 442 c.p.c.) e dispone che le cause

connesse siano trattate e decise «col rito previsto per quella di esse in ragione della quale

viene determinata la competenza» e, in subordine, «col rito previsto per la causa di maggior

valore».

Il 5° comma disciplina le conseguenze dell’eventuale violazione dei predetti criteri, sta-

bilendo che “il giudice provvede a norma degli artt. 426, 427 e 439”, e cioè deve disporre il

mutamento del rito (anche se il vizio venga scoperto in appello). Trattasi di disposizione di

rilievo, poiché dimostra che gli artt. 426, 427 e 439 c.p.c. (pur dettati per il processo del lavoro)

sono espressione di un principio di carattere generale, per cui l’errore sul rito non può avere

conseguenze fatali per il processo né essere causa di nullità degli atti in esso compiuti.

La legge 21 novembre 1991 n. 74 (art. 19) ha infine aggiunto all’art. 40 c.p.c. i commi 6 e 7

per disciplinare il simultaneus processus in caso di connessione tra cause di competenza del

tribunale e cause di competenza del giudice di pace.

45 Ciò comporta l'impossibilità di proporre più domande connesse solo soggettivamente a norma dell'art. 103, se per esse non sia previsto il medesimo rito: cfr. MANDRIOLI, Diritto proc. civ., cit., p. 276.

48

Il 6° comma dell'art. 40 prevede che, in caso di connessione «qualificata» tra cause spettanti

al giudice di pace e cause di competenza del tribunale (dunque nelle ipotesi contemplate dagli

artt. 31, 32, 34, 35 e 36, con esclusione della connessione oggettiva semplice ex art. 33), «le

relative domande possono essere proposte innanzi al tribunale affinché siano decise nello stesso

processo».

La prevalente dottrina ne deduce che il legislatore, derogando ai princìpi risultanti dagli

artt. 31 ss., ha inteso far prevalere senz'altro, in questo caso, la competenza del giudice

«togato», pur quando la competenza del giudice di pace sia determinata ratione materiae o si

tratti di competenza cd. funzionale46.

Qualora le cause venissero proposte, invece, separatamente, il giudice di pace dovrebbe

«pronunziare anche d'ufficio la connessione a favore del tribunale» (7° co.); il che parrebbe

significare che in questa ipotesi il rilievo della connessione non è soggetto alle limitazioni tem-

porali di cui all'art. 40, 2° co., ma resta consentito per tutta la durata del processo dinanzi al

giudice onorario.

8. Le complicazioni processuali nel processo sommario di cognizione.

Le esigenze di celerità connaturate al nuovo modello processuale deformalizzato mal si

conciliano con le complicazioni indotte dalla connessione soggettiva od oggettiva.

Il convenuto ha la possibilità di complicare il quadro processuale sia oggettivamente,

proponendo una domanda riconvenzionale, sia soggettivamente mediante la chiamata in

garanzia di un terzo47.

Come chiaramente si evince dall’art. 702-ter, comma 2°, c.p.c. la proponibilità della

domanda riconvenzionale (e di quella contro i terzi, da chiamare in giudizio) incontra gli stessi

limiti dettati per la domanda attrice. Il legislatore pone, dunque, una rigida condizione per la

realizzabilità del cumulo processuale (oggettivo, ovvero oggettivo e soggettivo), costituita dal

fatto che tutte le domande siano proponibili con il rito speciale, sulla base di quanto disposto

dal comma 1, parte prima, dell’art. 702-bis c.p.c.48.

46 La giurisprudenza, invece, prendendo particolarmente in considerazione l'ipotesi dell'opposizione a decreto

ingiuntivo, esclude che la norma in esame possa derogare alla competenza funzionale del giudice onorario (v. ad es. Cass. 20 settembre 2006, n. 20324, e 17 marzo 2006, n. 6054). 47 Su tale tematica, v. GUAGLIONE, Il nuovo processo sommario di cognizione, Roma, 2009, p. 242 ss. 48 Così MENCHINI, L’ultima idea per accelerare i tempi della tutela dichiarativa dei diritti: il processo sommario di cognizione, cit., § 2.

49

Considerato che le domande non rientranti «tra quelle indicate nell'art. 702 bis» sono quelle

riservate alla trattazione collegiale, la regola comporta l'inoperatività del simultaneus

processus fra queste cause e quelle soggette alla trattazione monocratica e perciò l'inapplica-

biità dell'art 281 novies c.p.c. che (per le controversie entrambe a cognizione piena), come

noto, prevede l'unificazione delle cause nel rito collegiale.

Se poi la domanda riconvenzionale esige un’istruttoria non sommaria, il giudice – ai

sensi del 4° comma dell’art. 702-ter c.p.c. - la separa, trattenendola comunque presso il suo

ufficio o rimettendola al giudice competente. In tal caso il procedimento sulla domanda

principale prosegue con le forme del rito speciale mentre l’ulteriore corso della causa

riconvenzionale sarà assoggettato alle forme del rito ordina-rio49.

A differenza, dunque, di quanto stabilito dall’art. 40 c.p.c., il quale favorisce il simultaneus

processus tra cause connesse soggette a riti diversi, in questo caso il legislatore opta per la

scissione del cumulo e per la trattazione separata delle controversie, ove il giudice ritenga

che una di esse possa seguire le forme del rito sommario, mentre l’altra debba essere

indirizzata verso la cognizione ordinaria. Tale meccanismo non desta problemi particolari,

qualora la connessione tra le cause sia tale che eventuali decisioni contrastanti non siano in

grado di provocare conflitti di giudicati (si tratta delle c.d. connessioni deboli, quali quella

causale e quella impropria); in tali ipotesi, la separazione inciderà negativamente solo in

termini di omessa realizzazione dell’economia processuale e di mancato coordinamento tra le

pronunce nella parte motivazionale. Per contro, più serie difficoltà si presentano allorchè il

collegamento tra le domande sia così intenso che eventuali statuizioni non coordinate

provochino conflitti di giudicati e diano vita a discipline non omogenee dei rapporti (è il caso

delle c.d. connessioni forti, quali quelle per pregiudizialità-dipendenza e incompatibilità); la

separazione delle cause ed il conseguente svolgimento di giudizi distinti comportano allora il

rischio di provvedimenti dai contenuti contrastanti e incompatibili50

In tal caso si prospetta un’alternativa: o si afferma l’inderogabilità della previsione norma-

tiva e si accettano le conseguenze negative della scissione e della trattazione separate delle liti

connesse, oppure si ritiene che la separazione non possa operare sicchè, in deroga a quanto

previsto dall’art. 702-ter, comma 4, c.p.c. il giudice ordina la trasformazione del rito non solo

49 Malgrado il silenzio della norma, la medesima regola deve ritenersi operare nei rapporti tra la domanda introduttiva e la domanda proposta contro terzi chiamati. 50 Per approfondimenti su queste tematiche, cfr. MENCHINI, Il processo litisconsortile. Struttura e poteri delle parti, Milano 1993.

50

per la causa riconvenzionale ma anche per quella principale, conservando il cumulo e

trattando l’intero processo con le forme del rito ordinario.

Quest’ultima ci pare la soluzione senz’altro preferibile perché, per un verso, tiene conto

dei riflessi che sul piano processuale provocano le interferenze esistenti tra i rapporti giuridici

sostanziali e, per altro verso, rispetta adeguatamente le esigenze difensive delle parti che

emergono in tali fattispecie. Per tali ragioni il principio, posto espressamente per la domanda

riconvenzionale, ci sembra estensibile anche alle altre ipotesi di cumulo (si consideri, ad

esempio, il caso della domanda sommaria di risarcimento dei danni da incidente stradale,

proposta dal danneggiato nei confronti del proprietario dell’autovettura e suscettibile di essere

trattata col rito sommario, e dell’azione di garanzia spiegata dal convenuto nei confronti del

conducente, che non si presti ad essere decisa con il medesimo rito: la separazione impe-

direbbe la coerenza tra le decisioni sulle due domande, che invece viene preservata dal muta-

mento del rito – da sommario in rito a cognizione piena - per entrambe)51.

Quanto alla partecipazione del terzo al procedimento, l’art. 702 bis, co. 5, c.p.c. si limita a

disciplinare l’ipotesi della chiamata in garanzia.

A tal fine il convenuto deve, a pena di decadenza, farne dichiarazione nella comparsa di co-

stituzione e chiedere al giudice lo spostamento dell’udienza (analogamente a quanto previsto

dall’art. 269 c.p.c. per il processo ordinario). Il giudice, con decreto comunicato dal can-

celliere alle parti costituite, provvede a fissare la data della nuova udienza assegnando un

termine perentorio per la citazione del terzo, che si costituisce in giudizio osservando forme e

termini identici a quelli fissati per il convenuto.

Suscita qualche perplessità questa possibile complicazione in senso oggettivo o soggettivo

di un procedimento che, per sua natura, nasce con caratteristiche di snellezza e semplifica-

zione al fine di assicurate la decisione in tempi ragionevoli.

Il punto è che questo è uno strano procedimento sommario, perché il suo esito non è

necessariamente un provvedimento a vocazione esclusivamente esecutiva, potendo invece

condurre all’accertamento del diritto con efficacia di cosa giudicata ai sensi dell’art. 2909 c.c.

Ed allora, sebbene l'art. 702 bis c.p.c. contempli soltanto la chiamata in garanzia52, appare

irragionevole precludere al convenuto l’altra possibilità offerta dall’art. 106 c.p.c., e cioè quel-

51 Concordano su tale soluzione MENCHINI, L’ultima idea per accelerare i tempi della tutela dichiarativa dei diritti: il processo sommario di cognizione, cit., § 3; LUISO, Il processo sommario di cognizione, cit., § 4; BOVE, Brevi riflessioni sui lavori in corso nel riaperto cantiere della giustizia civile, cit., § 17; GUAGLIONE, Il nuovo processo sommario di cognizione, cit., p. 259-260.

52 Secondo DE GIOIA – TEDESCHI, Il nuovo procedimento sommario di cognizione, Forlì, 2009, in aderenza alla sommarietà procedimentale, che connota ontologicamente il rito ex art. 702-bis c.p.c., la possibilità di esten-sione dell'ambito soggettivo dell'originario procedimento deve intendersi limitata alle sole ipotesi della c.d.

51

la di effettuare pure la chiamata del terzo “al quale ritiene comune la causa” (ad es., in caso

di contestazione della c.d. legittimazione attiva o passiva)53.

D’altro canto, non si può escludere che l’attore, a seguito delle difese del convenuto, possa

avvertire l’esigenza di effettuare a sua volta la chiamata di un terzo54: dovrà evidentemente

rilevarlo nell’udienza di comparizione ed allora sarà difficile che il giudice proceda per la via

sommaria a fronte dell’ampliamento soggettivo della controversia.

Alla medesima conclusione è pervenuta, invero, la scarna giurisprudenza edita in materia di

procedimento ex art. 19 D. Lgs. 5/2003 (oggi non più in vigore, per effetto dell’abrogazione

del rito societario), la cui cognizione sommaria, da restringersi tendenzialmente ad una sola

udienza per espressa previsione legislativa, è stata ritenuta incompatibile con l’integrazione

del contraddittorio, proprio per le finalità di snellezza e rapidità che sono il precipuo fine

dell’istituto introdotto dalla norma citata55.

garanzia propria, fondata sul medesimo titolo della domanda principale ovvero su altro ad esso oggettivamente connesso, e con esclusione della c.d. garanzia impropria (connessa alla domanda principale sulla base di titolo differente ovvero in via meramente occasionale o di fatto; sul punto, v. Cass. 24 gennaio 2007, n. 1515; Cass. 30 settembre 2005, n. 19208; Cass. 12 dicembre 2003, n. 19050; Cass. 8 agosto 2002, n. 12029; Cass. 4 giugno 1998, n. 5478) per la quale le ragioni della celerità procedimentale sono state reputate prevalenti su quelle di economicità sottese alla trattazione simultanea e congiunta. 53 Nello stesso senso, v. LUISO, Il processo sommario di cognizione, cit., § 1; CONSOLO, La legge di riforma, cit.; MENCHINI, L’ultima idea per accelerare i tempi della tutela dichiarativa dei diritti: il processo sommario di cognizione, cit., § 4; GUAGLIONE, Il nuovo processo sommario di cognizione, cit., p. 242; OLIVIE-RI, Processi velocizzati in linea con la Costituzione, cit., p. 46. Per contro nel procedimento cautelare uniforme rimane dubbia la configurabilità di un intervento del terzo su istanza di parte o per ordine del giudice ex artt. 106 e 107 c.p.c., in quanto la mera connessione tra la posizione soggettiva del terzo e quella di una delle parti (implicante l’esistenza di distinti rapporti scindibili, ancorché variamente collegati tra loro) non sembra sufficiente a giustificare la dilatazione dei tempi per la delibazione del ricorso cautelare, risultando preminente l’esigenza di celerità rispetto a quella della tutela di rapporti non direttamente o immediatamente incisi dal provvedimento richiesto. Sul punto, v. GUAGLIONE, Il processo cautelare, cit., p. 115. 54 A tale evenienza si riferisce il 3° comma dell’art. 269 c.p.c., nel processo ordinario di cognizione, prevedendo la necessità che l’attore ne faccia richiesta al giudice istruttore nella prima udienza di trattazione, e sempre che l’interesse all’intervento coatto del terzo sia ingenerato dalle difese svolte dal convenuto nella comparsa di risposta. Tali difese non si identificano con qualsiasi allegazione di parte quali-ficabile solo in senso lato come difesa – si pensi alla pura e semplice contestazione della domanda attorea – ma vanno individuate nelle questioni eventualmente sollevate dal convenuto circa la propria legittimazione passiva o, per converso, circa quella attiva dell’attore, ovvero nelle eccezioni in senso proprio proposte dal primo per contrastare la domanda di controparte. Come, pure, rientra senz’altro nella pre-visione in esame la proposizione di una domanda riconvenzionale del convenuto, che faccia sorgere nell’attore l’interesse a promuovere l’intervento coatto del terzo. 55 Cfr. Trib. Milano, 17 marzo 2005. Sul punto, non constano precedenti giurisprudenziali conosciuti in ter-mini; la decisione milanese pare, tuttavia, ampiamente condivisibile ed in linea con le soluzioni proposte dalla dottrina: così, in particolare, RONCO, nel suo commento all’art. 19 D. Lgs. 5/2003, in Il nuovo processo societario, a cura di Chiarloni, Bologna, 2004 584, il quale – onde chiarire quali attività processuali siano compatibili con il rito sommario – richiama, anzitutto, i valori della “particolare celerità” e del “rispetto del principio del contraddittorio” fatti propri dalla legge delega che ha preceduto l’emanazione del d. lgs. 5/2003, giungendo, infine, a ritenere che la chiamata in causa del terzo su istanza dell’attore in conseguenza delle difese svolte dal convenuto, sia incompatibile allorché volta ad ottenere l’ingresso del terzo nella fase sommaria del processo. In senso più generale, ma sostanzialmente conforme, v. anche ARIETA-DE SANTIS, Diritto pro-cessuale societario, Padova, 2004, 365, secondo cui , ai fini della verifica di compatibilità di cui all’art. 19, terzo comma, d.lgs. 5/2003, anche l’eventuale allargamento del giudizio che conseguirebbe alla chiamata in causa di un terzo può ostare alla trattazione della causa con il rito sommario.

52

Ma in questo quadro sorge un ulteriore dubbio circa la concreta possibilità per il terzo,

esposto al rischio di essere leso da una pronuncia resa inter alios, di utilizzazione delle tipiche

ipotesi d’intervento volontario previste nel giudizio ordinario di cognizione dall’art. 105 c.p.c.

Una corretta prospettiva di approccio alla problematica ci pare essere quella di ritenere che il

silenzio serbato al riguardo dal legislatore, coerente con la tecnica di regolamentazione non

analitica del procedimento sommario, non debba essere interpretato come sintomatico della

volontà normativa di escludere tout court l’ammissibilità della partecipazione al procedimento

dei terzi interessati, occorrendo invece trovare il giusto contemperamento tra l’esigenza di

speditezza, connaturale al modello procedimentale in esame, e l’esigenza di tutela del terzo,

che, ove si realizzi attraverso l’intervento nel giudizio, comporta necessariamente la dilata-

zione del tema del contendere ed un tendenziale allungamento dei tempi processuali. Pur con

tale doverosa precisazione, che potrebbe talvolta giustificare la prosecuzione del procedimento

nelle forme ordinarie a causa della complicazione soggettiva, non pare potersi ragionevol-

mente negare la trasferibilità, nell’ambito del nuovo procedimento sommario di cognizione, di

tutte le problematiche inerenti i diversi tipi d’intervento volontario disciplinati dall’art. 105

c.p.c. (principale, adesivo autonomo o litisconsortile e adesivo dipendente), in quanto la ratio

ad essi sottesa è collegata inscindibilmente agli effetti sul terzo di una futura decisione di me-

rito56.

Laddove la conoscenza della pendenza del procedimento sommario sia conseguita utilmente

e tempestivamente dal terzo, appare dunque legittimo, attesa la natura cognitiva del giudizio

(nel quale il ricorrente fa valere un diritto soggettivo), consentirne al medesimo l’accesso

onde far valere diritti incompatibili o connessi per il titolo o per l’oggetto, oppure per favorire

il ricorrente secondo lo schema tipico dell’intervento adesivo.

56 Cfr., in tal senso, MENCHINI, L’ultima idea per accelerare i tempi della tutela dichiarativa dei diritti: il processo sommario di cognizione, cit., § 4, secondo cui i terzi possono intervenire volon-tariamente in giudizio, oltre che essere chiamati in causa su istanza di parte o di ufficio, ferme restando le decadenze già maturate per il convenuto ai sensi del quinto comma dell’art. 702-bis; peraltro, poiché l’in-tervento determina la nascita di una lite complessa sotto l’aspetto oggettivo e soggettivo o, più raramente, dal punto di vista soltanto soggettivo, la complicazione processuale che ad esso può seguire potrà indurre il giudice a disporre il passaggio alla cognizione ordinaria, fissando l’udienza dell’art. 183 c.p.c. Per una soluzione più restrittiva in materia di intervento del terzo nel procedimento sommario cautelare, v. GUAGLIONE, Il processo cautelare, cit., p. 111 ss., secondo cui l’integrazione soggettiva del contraddittorio acquista significato laddove il terzo interventore lamenti la lesione di una propria posizione giuridica sostanziale che discenda direttamente dalla misura cautelare richiesta e non dal contenuto della futura sentenza di merito, con esclusione quindi delle ipotesi in cui il terzo non sia minacciato dagli effetti materiali ed esecutivi del provvedimento cautelare, perché l’interesse ad intervenire si collega invece all’accertamento del diritto cautelando; CONSOLO, Intervento del terzo nel giudizio cautelare, reclamo del terzo e pregiudizio da mera attuazione scorretta (da farsi valere in altro modo), in Giur. it., 1996, I, 2, c. 187 ss.; SALVANESCHI, La domanda e il procedimento, in Il processo cautelare, a cura di Tarzia e Saletti, Padova, 2008, p. 411; Trib. Catanzaro, 27 maggio 1997, in Giust. civ., 1998, I, p. 2653.

53

Quanto alla possibilità di una iniziativa d’ufficio per notiziare il terzo della pendenza del

procedimento, sembra opportuno auspicarla nei soli casi in cui, sulla scorta delle contrapposte

prospettazioni delle parti e delle eventuali acquisizioni probatorie ex art. 702-ter, comma 5°,

c.p.c., il terzo appaia titolare di una posizione giuridica identica e/o inscindibilmente connessa

a quella di una delle parti, tale da configurare i presupposti dell’art. 102 c.p.c.57. Negli altri

casi invece, nei quali l’accertamento del diritto non deve essere necessariamente condotto nei

confronti di più soggetti, ricorrendo la diversa ipotesi del litisconsorzio facoltativo ex art. 103

c.p.c, l’integrazione del contraddittorio non sembra opportuna, apparendo piuttosto preferibile

privilegiare la celere definizione del procedimento tra le parti originarie.

Rimane certamente impregiudicata, infine, la possibilità dell’intervento del terzo nel

giudizio d’appello, nei limiti segnati dall’art. 344 c.p.c.

LUCIANO GUAGLIONE

57 Analogamente nel rito cautelare, a favore dell’ammissibilità del litisconsorzio necessario, si sono espressi DINI e MAMMONE, I provvedimenti d’urgenza , cit., p. 457; VITTORIA, La tutela cautelare, Milano, 1998, p. 156; GUAGLIONE, Il processo cautelare, cit., p. 114, secondo cui “la necessità di integrare il contraddittorio deve essere valutata caso per caso, avendo riguardo all’oggetto delle domande spiegate nel procedimento. In sostanza, se l’attuazione del provvedimento cautelare comporta una concreta incidenza sulla situazione soggettiva di cui tutti i litisconsorti sono titolari, non v’è dubbio che la domanda di cautela debba essere proposta contro tutti. Al contrario, pur se l’accertamento del diritto deve essere condotto nei confronti di più soggetti, ma gli effetti del provvedimento cautelare incidono unicamente la sfera giuridica di alcuni di essi, non v’è necessità di estendere il contraddittorio anche ad altre parti”. Per la giuris prudenza, cfr. Trib. Roma, 26 gennaio 1996, in Foro it., 1996, I, c. 2540; Trib. Trani, 25 luglio 1995, in Giur. it., 1996, I, 2, c. 88.

54

Tanto in ipotesi di chiamata in giudizio della p.a. "iussu iudicis" per comunanza di causa ai sensi dell'art. 107 c.p.c., quanto nel caso di chiamata in garanzia della stessa a norma dell'art. 106 c.p.c., è inapplicabile la disposizione dell'art. 25 c.p.c. sulla competenza esclusiva del foro erariale a conoscere della controversia, in difetto di una esplicita richiesta della p.a. (Cass. civ., sez. I, 16 luglio 2005, n. 15093).

La facoltà di ciascuna parte di chiamare nel processo un terzo, al quale ritiene comune la causa (art. 106 c.p.c.), contiene una deroga implicita alle regole della competenza territoriale, in vista della prevalente esigenza di favorire un processo unico innanzi al giudice già investito della causa. La chiamata in causa ad istanza di parte ex art. 106 c.p.c. presuppone la proposizione di domande nei confronti dei terzi e non può essere richiesta a fini meramente istruttori. È sottratto al riesame da parte del giudice di appello tanto il provvedimento che respinge l'istanza di chiamata di terzi ai sensi dell'art. 106 c.p.c. quanto quello che tale chiamata autorizza; il riesame del provvedimento che autorizza è, tuttavia, sindacabile quando si faccia questione non dell'opportunità di esso ma della mancanza del presupposto cioè della comunanza di causa (Corte appello Milano, 12 maggio 1987). La sospensione del processo per pregiudizialità non è ammissibile allorché sia possibile la riunione e la decisione congiunta dei giudizi davanti al giudice della causa pregiudiziale o a quello della causa dipendente attraverso gli strumenti offerti dagli art. 34, 40, 274 c.p.c., atteso che il processo simultaneo è il mezzo più efficace per perseguire la speditezza e il coordinamento delle decisioni. (Nella specie, la Corte cass. ha annullato il provvedimento con cui, pendendo innanzi a sezioni diverse dello stesso tribunale due controversi, l'una di opposizione ad intervento in una procedura esecutiva e l'altra di opposizione al decreto ingiuntivo ottenuto per lo stesso credito, il giudice della causa di opposizione all'esecuzione aveva sospeso il processo pendente innanzi a sè). (Cass. civ., sez. III, 27 gennaio 2005, n. 1653, cfr.: Cass. 19 giugno 2004 n. 11463; Cass. 24 febbraio 2000 n. 2104.

In base al combinato disposto degli art. 34, 35 e 36 c.p.c., quando la domanda riconvenzionale ecceda la competenza per materia e per valore del giudice adito con la domanda principale, la remissione dell'intera causa al giudice competente per la riconvenzionale si impone solo ove quest'ultima implichi la soluzione di una questione pregiudiziale da risolvere con efficacia di giudicato, mentre in tutti gli altri casi il giudice adito ha il potere di scegliere tra la separazione delle due cause, rimettendo al giudice superiore solo quella relativa alla riconvenzionale, e la rimessione di entrambe al giudice competente per la riconvenzionale, secondo un apprezzamento discrezionale, il cui esercizio si estrinseca in una pronuncia di contenuto ordinatorio, che non costituisce decisione sulla competenza, e non è, pertanto, suscettibile di impugnazione attraverso il regolamento di competenza (Cass. civ., sez. III, 11 ottobre 2002, n. 14560). Nell'art. 40 c.p.c. è rinvenibile la dottrinale distinzione tra le categorie della connessione per coordinazione, ove la trattazione simultanea dei processi dipende dalla mera volontà delle parti per cui la separazione è sempre possibile col solo rischio di una contraddizione logica tra giudicati, e la connessione per subordinazione, in cui il pregiudizio che discende dalla mancata attuazione del "simultaneus processus" può tradursi nella impossibilità temporanea della trattazione e decisione di una delle cause o nell'eventuale conflitto di giudicati; tale schema, relativamente all'intersezione tra la cognizione contemporanea del giudice di pace e del tribunale, impone che allorché le cause non risultino connesse ex art. 31 (cause principali ed accessorie), 32 (principali e di garanzia), 34 (pregiudiziali e dipendenti), 35 (principali e di compensazione) e 36 (principali e riconvenzionali), c.p.c. ma solo per titolo ed oggetto, la connessione non può essere eccepita o rilevata oltre la prima udienza di trattazione (Trib. Verona, 27 maggio 2002)

55

Nel giudizio avente ad oggetto l'accertamento dei redditi di società ed associazioni, ove, in violazione dei principi del litisconsorzio necessario, si formino giudicati "parziali" relativi a singole posizioni, i rapporti fra il giudicato parziale e le posizioni dei soggetti nei cui confronti non si sia formato il giudicato debbono essere risolti in base ai principi del contraddittorio e del diritto di difesa per cui il terzo può trarre beneficio dal giudicato "inter alios", ma non esserne pregiudicato (Cass. civ., sez. un., 4 giugno 2008, n. 14815).