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CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA IX Commissione Incontro di studi L'IMPROCEDIBILITÀ E L'INAMMISSIBILITÀ DEI MEZZI DI IMPUGNAZIONE Angelo CONVERSO Corte d’Appello di TORINO ROMA 6 LUGLIO 2010

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CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA

IX Commissione

Incontro di studi

L'IMPROCEDIBILITÀ E L'INAMMISSIBILITÀ

DEI MEZZI DI IMPUGNAZIONE

Angelo CONVERSO

Corte d’Appello di TORINO

ROMA 6 LUGLIO 2010

Le impugnazioni civili

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ROMA 6 luglio 2010 1.‐ L'AMBITO DELL'INTERVENTO

L'argomento concerne le due specifiche sanzioni processuali incidenti sulle impugnazioni in

genere, esclusa ogni considerazione del merito. Quindi si dovrebbero considerare quelle sanzioni in

relazione a tutti i mezzi di doglianza, variamente denominati, che consistano in una domanda di

riesame, o su punti specifici o in via generale.

E così si dovrebbe valutare l'incidenza delle sanzioni su tutte le varie figure di riesame incluso

il reclamo, parola magica che – secondo il legislatore – parrebbe costituire di per sé una sorta

d'impugnazione di minor rango: qualcosa che «vista è decisa». Ovviamente senza necessità di

motivazione. In realtà nella categoria sempre più indefinita del reclamo, che comunque configura

un'istanza di riesame, propria di ogni impugnazione, entra una congerie di mezzi processuali che

volta a volta sono veri e propri appelli. Com'è nel caso del «reclamo» ex art. 18 L. fall., laddove si

censura la sentenza dichiarativa di fallimento, e che – quale che ne sia la denominazione –

costituisce un corposo gravame di merito ad ogni effetto. Ovvero il «reclamo» ex art. 22 L. fall.,

cioè la doglianza contro il provvedimento reiettivo dell'istanza di dichiarazione di fallimento, che

sarà pure deciso con un «decreto», ma che nondimeno richiede un riesame funditus delle censure

proposte. O ancora, il «reclamo» ex art. 26 L. fall., contro i provvedimenti del giudice delegato e

del tribunale, nel novero dei quali sono ricomprese le censure – sempre spinose – relative al

concordato preventivo (art. 162 L. fall.), normalmente anche più impegnative di qualsiasi appello

vero e proprio.

Ma entrerebbero nel perimetro delle impugnazioni anche i reclami in materia cautelare, e così

quelli di cui agli artt. 669 terdecies c.p.c.; in materia di decreto del giudice tutelare (art. 739 e 747

c.p.c.), ed anche in materia di decreto di fissazione di termini (art. 749 c.p.c.).

E poi – ovviamente – vengono in rilievo i mezzi tipici d'impugnazione: l'appello il ricorso per

Cassazione, la revocazione e l'impugnazione del lodo. Infine, e la cosa è assai poco stravagante

quando si concretizza, anche il giudizio di rinvio dalla Cassazione, posto che esso costituisce una

fase, quella di merito, del giudizio di legittimità1.

Ne esulerebbe – forse – solo l'opposizione a decreto ingiuntivo, mercé l'interpretazione

corrente che ne esclude la natura impugnatoria.

A questo punto è palese l'eterogeneità di quanto è contenuto nell'area dell'indagine, essendovi

ricompresi istituti che comportano latitudini devolutive sostanzialmente incomparabili e che

includono poteri del giudice di ulteriore istanza del tutto diversi. Basti pensare, da un lato, al

21 Rimando in argomento a CONVERSO, Il giudizio di rinvio, ne IL GIUSTO PROCESSO CIVILE, 1-2009, 117, ss.

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ROMA 6 luglio 2010 reclamo ex art. 18 L. fall., per il quale si afferma la permanenza, anche da parte della Corte

d’Appello, di un apprezzabile grado di officiosità, e, dall'altro, all'impugnazione straordinaria per

revocazione, che è strettamente vincolata, ex art. 395 c.p.c., a ipotesi tassative. Al pari

dell'impugnazione del lodo ex art. 830 c.p.c., anche più limitata in fase rescindente.

È chiaro che per dare un minimo di coerenza alla materia da trattare occorre, anzitutto,

delimitare il campo, intendendo il riferimento del tema alle impugnazioni in senso stretto, con

esclusione quindi, a priori, dei reclami di varia sorte. Ma una delimitazione siffatta non è

sufficiente, dal momento che includerebbe due tipi di impugnazione strutturalmente assai diversi:

quello di appello e quello di legittimità, nel quale ultimo la categoria dell'inammissibilità ha una

latitudine strutturalmente diversa da quella del grado di appello. E per la Cassazione vi sono

interventi dedicati.

In concreto, quindi, l'intervento si concentra sull'improcedibilità ed inammissibilità del grado

di appello, che normalmente è indicato come secondo grado di merito, ma tale non è in riferimento

all'impugnazione del lodo, oggetto di impugnazione solo di legittimità.

Quindi, la trattazione principale è dedicata all'appello vero e proprio, e sarà estesa, quanto ai

tratti differenziali, ai reclami in materia fallimentare, alla revocazione, con considerazioni a parte

per l'impugnazione del lodo.

Ma tutto questo non basta, a chiarire la struttura dell'intervento, che considererà dapprima le

due sanzioni in sé e per sé esaminate, affrontando poi le implicazioni sulle impugnazioni – sempre

intese nel senso ridetto – correlate. In sostanza, si tratta di rileggere il giudizio di appello

dall'angolo visuale dell'improcedibilità ed inammissibilità. Sempre avendo come stella polare il

precetto costituzionale del giusto processo di cui all'art. 111 Cost.

2.‐ LE DUE SANZIONI PROCESSUALI

Per una trattazione chiara su di una materia spesso nebulosa, occorre muovere da nozioni

precise per ciascuna delle due sanzioni processuali.

L'improcedibilità, anzitutto, è oggetto di una norma relativamente all'appello, l'art. 348 c.p.c.,

che ne regola solo i casi di ricorrenza, ma non ne dà la definizione.

Astraendo dalla disciplina specifica una nozione utile d'improcedibilità, si può affermare che

essa sanziona eventi realizzati od omessi successivamente all'instaurazione del

contraddittorio2.

Neppure per l'inammissibilità v'è una nozione esplicita nell'ordinamento processuale civile, ed

32 MANDRIOLI, Corso di diritto processuale civile, TORINO 1997, II, 375.

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ROMA 6 luglio 2010 occorre quindi dedurla dalla disciplina specifica.

Operando specularmente rispetto alla prima nozione, l'inammissibilità è predicabile di

fattispecie processuali non riconducibili al modello legale tipico3 dell'impugnazione considerata.

Ciò sia perché si tratti d'impugnazioni esulanti dal novero tassativo di quelle enunciate

dall'ordinamento (art. 323 c.p.c.), sia perché, seppure siano per qualche verso riconducibili ad esso,

non lo integrano compiutamente. Il che induce una nozione d'inammissibilità speculare a quella

di improcedibilità, intesa come sanzione per eventi antecedenti alla instaurazione del

contraddittorio4.

Un secondo criterio discretivo, di natura descrittiva utile comunque alla trattazione, fra le due

fattispecie è rinvenibile nella tassatività delle cause di improcedibilità rispetto alla non tassatività

di quelle di inammissibilità.

Quelle che ho denominato come sanzioni, e che tali processualmente sono, sono ricondotte

dalla dottrina alla più comprensiva categoria delle nullità5.

Ora la legge, a fronte del generale principio di sanabilità delle nullità ex art. 156 c.p.c., e

quindi di sanabilità di comportamenti successivi all'instaurazione del contraddittorio, laddove

prevede la rilevanza processuale di comportamenti siffatti non può se non configurare norme

eccezionali, che per ciò stesso sono tassative ex art. 14 prel. D'altra parte la riforma del 1990 ha

eliminato la fattispecie di cui al previgente testo dell'art. 348 c.p.c. afferente il mancato deposito del

fascicolo di parte, limitando per ciò stesso la sanzione ai soli casi in cui l'omissione rende

impossibile il giudizio di secondo grado. Ovvero – se si preferisce – la norma attribuisce valore

legale tipico di disinteresse al processo di appello per la parte appellante che ometta la costituzione

o la comparizione. Processo che è impedito in limine, anche d'ufficio per una ragione

costituzionalmente evidente: non sarebbe un processo giusto, ex art. 111 Cost., perché sarebbe

mirato solamente ad abusare dello strumento processuale6 in danno della controparte.

All'opposto in caso d'inammissibilità, in quanto lo scostamento dal modello legale tipico

presenta gradi di difformità indefinibili a priori, e che, quindi, debbono essere valutati caso per

caso, anche in relazione all'interesse della controparte. 3 Secondo MANDRIOLI, op. cit., II, 374, l'inammissibilità consegue alla «mancanza dei requisiti che la legge prevede per l'impugnazione». 4 Cfr. in questo senso CARBONE, Improcedibilità del ricorso principale e tardività dell'incidentale, in CORRIERE GIUR., 2008, 6, 753 ss. 5 MANDRIOLI, op. cit., II, 375. 6 Per l'esistenza e rilevanza dell'abuso del processo, ormai di ampia diffusione nella giurisprudenza, cfr.: CASS. CIV. sez. I, 26 settembre 2008, n. 24269, in motivazione; sul piano delle spese di lite, CASS. CIV. sez. I, 18 novembre 2009,

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ROMA 6 luglio 2010 Non è rilevante, invece, il canone di officiosità, posto che tanto per l'improcedibilità, ove è

previsto esplicitamente, che per l'inammissibilità, la sanzione processuale è applicabile d'ufficio.

Tracciata una distinzione netta fra le due sanzioni, occorre ancora precisare i rapporti fra le

due sanzioni, chiarendo che l'improcedibilità presuppone palesemente l’ammissibilità

dell’appello, con la conseguenza che la pronuncia sulla inammissibilità é logicamente e

giuridicamente prioritaria rispetto alla improcedibilità. A sua volta, l’improcedibilità é prioritaria

rispetto alla nullità dell’appello, la quale presuppone la procedibilità del gravame7.

Chiarito ciò che le distingue, si deve rammentare ciò che unisce le due sanzioni: la loro

rilevabilità d'ufficio, che si fonda proprio sul fatto che la loro sussistenza impedisce un processo

utile, e quindi giusto8.

A questo punto si deve considerare la disciplina di ciascuna di esse.

3.‐ L'IMPROCEDIBILITÀ, LE DUE FATTISPECIE

Giusta quanto s'è appena detto, logica vorrebbe che dapprima si trattasse dell'inammissibilità

e poi dell'improcedibilità. In realtà è comodo invertire la trattazione, attesa la tassatività delle

fattispecie e la minore – statisticamente parlando – ricorrenza della sanzione.

All'improcedibilità dell'appello provvede l'art. 348 c.p.c., nel testo vigente dal 30 aprile

1995:

«L'appello è dichiarato improcedibile, anche d'ufficio, se l'appellante non si costituisce in

termini.

Se l'appellante non compare alla prima udienza, benché si sia anteriormente costituito, il

collegio, con ordinanza non impugnabile rinvia la causa ad una prossima udienza, della quale il n. 24362, in motivazione; CASS. CIV. sez. I (Ord.), 3 maggio 2010, n. 10634; CASS. CIV. Sez. I, 26 aprile 2010, n. 9938; CASS. CIV. sez. I (Ord.), 9 aprile 2010, n. 8513; CASS. CIV. sez. V, 26 febbraio 2010, n. 4737. 7 MANDRIOLI, op. cit., II, 409. 8 «La rilevabilità delle nullità in ogni stato e grado del processo - con il limite del giudicato in caso di statuizione esplicita del giudice rimasta priva di impugnazione e, per il giudizio di cassazione, del rispetto del principio di autosufficienza del ricorso - resta ancorata al riconoscimento di un interesse pubblico che può investire la verifica della "potestas judicandi" - a cui vengono ricondotte, oltre alle ipotesi esplicitamente contemplate dalla legge, anche quelle comunque ascrivibili alla "potestas" in base a considerazioni di ordine sistematico, come il mancato rilievo del giudicato, l'improponibilità della domanda per carenza dei presupposti processuali, l'inammissibilità e improcedibilità dell'appello, la carenza di "legitimatio ad causam" - ovvero l'accertamento della mancanza del rapporto processuale - nelle ipotesi della carenza di "legitimatio ad processum" o del difetto, non sanato, del contraddittorio -, categorie alle quali non è riconducibile l'omesso rilievo della nullità del ricorso ai sensi dell'art. 414, n. 4, cod. proc. civ., che attiene all'interpretazione dell'atto introduttivo e del suo contenuto, compiuta, sia pure implicitamente, dal giudice di primo grado. Nel processo del lavoro, conseguentemente, la mancata esposizione degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto su cui si fonda la domanda è causa di nullità del ricorso introduttivo, che, ove non rilevata dal giudice di primo grado, è soggetta alla regola generale della conversione in motivi di impugnazione ex art. 161, primo comma, cod. proc. civ., con onere del convenuto di impugnare la decisione anche con riguardo alla pronuncia, implicita, sulla validità dell'atto, e nella cui assenza la dichiarazione officiosa di nullità e inammissibilità

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ROMA 6 luglio 2010 cancelliere dà comunicazione all'appellante. Se anche alla nuova udienza l'appellante non

compare, l'appello è dichiarato improcedibile anche d'ufficio».

Quindi la norma configura la fattispecie in relazione a due omissioni proprie di parte

appellante:

I. la mancata costituzione in termini;

II. la mancata comparizione alla prima udienza, seguita dalla mancata

comparizione alla udienza successiva.

In verità v'è una terza fattispecie di improcedibilità dell'appello, che è di tanto marginale

rilevanza, da essere di regola dimenticata. Intendo riferirmi all'ipotesi di acquiescenza, di cui all'art.

329, co. 1 c.p.c.: se una parte abbia fatto acquiescenza ad una statuizione, in tutto o in parte, su

quella l'eventuale appello è improcedibile. Si tratta di un'ipotesi nella pratica inesistente: in Italia

nessuno si sogna di fare acquiescenza ad alcunché; semmai si impugna anche quello che non

sarebbe impugnabile. Qui lo si ricorda solo per completezza di esposizione e per segnalare che la

sanzione opera sia nei confronti dell'appello principale che di quello incidentale.

Per vero è correlata al termine per impugnare, anche l'acquiescenza, prestata dalla parte

soccombente prima della scadenza del termine ed anzi prima della proposizione

dell'impugnazione9, ex art. 329, co. 1 c.p.c. Essa è particolarmente insidiosa quando si concretizzi

in atti incompatibili. Quando il giudice d’appello, motivando, chiarisca quali, e per quali ragioni,

siano incompatibili gli atti compiuti da una data parte, allora per quella l'appello sarà in tutto o in

parte improcedibile, pur se proposto in termini. È nota l'applicazione restrittiva data dalla

giurisprudenza alla fattispecie di acquiescenza, per la quale si nega tale qualificazione

all'adempimento di una sentenza esecutiva, pur prima del precetto10. In sintesi: non configura

della domanda da parte del giudice di appello dà luogo al vizio di ultrapetizione» (così CASS. CIV. sez. lav. 20 maggio 2008, n. 12746). 9 «L'acquiescenza alla sentenza, preclusiva dell'impugnazione ai sensi dell'art. 329 cod. proc. civ. (e configurabile solo anteriormente alla proposizione del gravame, giacché successivamente allo stesso è possibile solo una rinunzia espressa all'impugnazione da compiersi nella forma prescritta dalla legge), consiste nell'accettazione della sentenza, ovverosia nella manifestazione da parte del soccombente della volontà di non impugnare, la quale può avvenire sia in forma espressa che tacita: in quest'ultimo caso, l'acquiescenza può ritenersi sussistente soltanto quando l'interessato abbia posto in essere atti da quali sia possibile desumere, in maniera precisa ed univoca, il proposito di non contrastare gli effetti giuridici della pronuncia, e cioè gli atti stessi, siano assolutamente incompatibili con la volontà di avvalersi dell'impugnazione. Ne consegue che la spontanea esecuzione della pronunzia di primo grado favorevole al contribuente da parte della P.A., anche quando la riserva d'impugnazione non venga dalla medesima a quest'ultimo resa nota, non comporta acquiescenza alla sentenza, preclusiva dell'impugnazione ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 329 cod. proc. civ. e 49 D.Lgs.n. 546 del 1992, trattandosi di un comportamento che può risultare fondato anche sulla mera volontà di evitare le eventuali ulteriori spese di precetto e dei successivi atti di esecuzione» (così CASS. CIV. sez. V, 20 agosto 2004, n. 16460).

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10 «L'acquiescenza alla sentenza, preclusiva dell'impugnazione ex art. 329 cod. proc. civ., configurabile solo anteriormente alla proposizione del gravame, può essere ravvisata nelle sole ipotesi in cui l'interessato abbia posto in essere un comportamento inequivocabilmente incompatibile con la volontà di avvalersi del diritto di gravame. (Nella

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ROMA 6 luglio 2010 acquiescenza la mera esecuzione di una sentenza esecutiva, anche prima della notifica del

precetto11. Anche codesta situazione è marginale nella casistica processuale.

3.1.‐ La mancata costituzione tempestiva di parte appellante L’appellante deve costituirsi in termini,

depositando in cancelleria la nota di iscrizione a ruolo; il fascicolo contenente l’originale della

citazione d’appello; la procura; la sentenza di primo grado; i documenti ed il fascicolo di primo

grado, essendo stata soppressa la facoltà di un deposito successivo, con l’abrogazione del

previgente art. 348, co. 2 c.p.c.

La dottrina discute se esista ancora, ed in caso positivo quale sia, una sanzione per l’omessa

produzione del fascicolo di parte di primo grado. Secondo alcuni12 si tratta dell'improcedibilità;

secondo altri13 si tratta dell’inammissibilità. Ritengo condivisibile l’opinione secondo la quale

l’omessa produzione del fascicolo di primo grado determini semplicemente il rigetto nel merito14,

ove il fascicolo mancante contenga documenti o atti indispensabili alla decisione, non riferiti in

modo adeguato nella sentenza impugnata ovvero il cui contenuto non sia pacifico fra le parti. In

questi casi, l'art. 2697 c.c. funziona come regula iuris per la decisione di merito. Ciò dovendosi

tener conto del fatto che spesso l'omesso deposito non dipende dalla parte ma da notorie disfunzioni

di cancelleria, sicché si farebbe gravare sulla parte un'inefficienza di cui non ha alcuna

responsabilità. Senza parlare del prevedibile contenzioso che scaturirebbe in tema di responsabilità

per il mancato deposito. Quindi l'utilizzazione della regula iuris consente di ricostruire il fascicolo;

di recuperare copie dal fascicolo di controparte, etc. In sostanza: di minimizzare gli effetti della

perdita del fascicolo, con che la difesa impieghi un minimo di diligenza. A ciò dovendosi

aggiungere il principio di acquisizione della prova, secondo il quale la prova in atti giova a

prescindere dalla parte che l'ha prodotta.

La prima questione è quella del riferimento ai termini di costituzione di parte appellante, e

quindi al termine di cui agli artt. 347, co. 1 e 165 c.p.c., quindi entro i dieci giorni successivi alla

fattispecie, la Corte ha escluso il carattere univocamente indicativo della volontà di accettare la sentenza in riferimento alla richiesta del lavoratore - accompagnata da espressa dichiarazione di riserva dell'appello - del pagamento dell'indennità per licenziamento ingiustificato riconosciuta dal primo giudice ai sensi della legge n. 604 del 1966, escludendo anche l'oggettiva incompatibilità tra tale richiesta e l'invocazione in appello dell'applicabilità della tutela reale ex art. 18 della legge n. 300 del 1970)» (così CASS. CIV. sez. lav. 7 aprile 2005, n. 7207). 11 «L'aver dato esecuzione, prima della intimazione di precetto, a una sentenza munita di efficacia esecutiva non comporta acquiescenza alla medesima» (così CASS. CIV. sez. lav. 15 aprile 2004, n. 7219; conformi CASS. CIV. Sez. Lav., 2 agosto 2003, n. 11798). 12 CONSOLO, LUISO, SASSANI, La riforma del processo civile, MILANO 1991, p. 293-4; MANDRIOLI, op. cit., II, 410, nel senso che, costituendo il deposito del fascicolo di primo grado uno degli elementi costitutivi della costituzione di parte appellante, la sua omissione configurerebbe una mancata (regolare) costituzione. 13 ATTARDI, Le nuove disposizioni sul processo civile, PADOVA 1991, p. 153.

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14 così FERRI, L’appello, in Le riforme della giustizia civile, TORINO, 1993, p. 391; TARZIA, Lineamenti cit., p. 241, peraltro seguendo la giurisprudenza formatasi in materia giuslavoristica.

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ROMA 6 luglio 2010 notificazione dell'atto di appello. Il testo previgente, invece, consentiva a parte appellante la

costituzione sino alla prima udienza: la novella mette in evidenza la volontà di accelerazione del

giudizio di appello, perseguita.

Quindi, l’appellante deve costituirsi entro dieci – cinque in caso di abbreviazione dei termini

– giorni dalla notifica della citazione all’appellato. Ma nel caso in cui gli appellati siano più

d’uno, il termine si sdoppia: entro dieci giorni dalla prima notifica deve costituirsi omettendo il

deposito dell’originale della citazione d’appello; entro dieci giorni dall’ultima notifica deve

inserire nel fascicolo l’originale predetto completo delle relate di notifica15.

Il controllo di quei termini fa parte delle attività svolte dalla Corte nella prima udienza, in

sede di verifica della regolare costituzione del giudizio d’appello ex art. 350, co. 2 c.p.c.

Quid juris nel caso in cui la costituzione dell’appellante principale non rispetti il doppio

termine, in presenza di più appellati? Ovvero nell'ipotesi in cui, anche in presenza di un solo

appellato, la costituzione vi sia ma sia tardiva?

In punto dispone l’art. 348, co 1 c.p.c., che costituisce l’omologo, specifico ma diverso,

dell’art. 171 c.p.c. per il primo grado: l’appello principale é dichiarato improcedibile sin dalla

prima udienza e senza necessità di fissazione di una seconda16, mancando le condizioni perché il

15 «Nel caso di chiamata in giudizio di più convenuti, anche dopo l'entrata in vigore della l. 26 novembre 1990 n. 353 - volta a rendere ancora più celere l'esercizio del diritto del contraddittorio - il termine di dieci giorni per la costituzione dell'attore (art. 165, comma 1, c.p.c.) decorre dalla prima notifica dell'atto di citazione, conformemente alla lettera e alla "ratio" della norma (comma 2 dello stesso articolo), in base alla quale, entro dieci giorni dall'ultima notifica di esso, l'originale di tale atto va inserito nel fascicolo, il che da un lato presuppone il suo già avvenuto deposito, e perciò l'avvenuta costituzione - esibendo in visione al cancelliere originale della citazione (art. 74 disp. att. c.p.c.), se necessario per rilevare gli estremi della procura al difensore - e dall'altro giustifica tale disposizione, altrimenti superflua se anche la costituzione potesse avvenire entro lo stesso termine. Pertanto, se il giudizio di primo grado non è cancellato dal ruolo - anche nel caso di costituzione di qualche convenuto - e il giudice di secondo grado rigetta l'appello perciò proposto da un convenuto contumace in primo grado, e quindi non dichiara la nullità della sentenza e dell'intero procedimento, rimettendo le parti al primo giudice (art. 354 c.p.c.), la sentenza di secondo grado va cassata, con rinvio al giudice di primo grado affinché provveda alla cancellazione della causa» (così CASS. CIV. sez. II, 16 luglio 1997, n. 6481); «Nel caso di chiamata in giudizio di più convenuti, anche dopo l'entrata in vigore della legge 26 novembre 1990 n. 353 - volta a rendere ancora più celere l'esercizio del diritto del contraddittorio - il termine di dieci giorni per la costituzione dell 'attore (art. 165, primo comma, cod. proc. civ.) decorre dalla prima notifica dell'atto di citazione, conformemente alla lettera e alla ratio della norma (secondo comma dello stesso articolo), in base alla quale, entro dieci giorni dall'ultima notifica di esso, l'originale di tale atto va inserito nel fascicolo, il che da un lato presuppone il suo già avvenuto deposito, e perciò l'avvenuta costituzione - esibendo in visione al cancelliere originale della citazione (art. 74 disp. att. cod. proc. civ.), se necessario per rilevare gli estremi della procura al difensore - e dall'altro giustifica tale disposizione, altrimenti superflua se anche la costituzione potesse avvenire entro lo stesso termine» (così CASS. CIV. sez. I, 5 giugno 2007, n. 13163; conforme CASS. CIV. sez. III, 30 marzo 2010, n. 7628).

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16 «In tema di improcedibilità dell'appello, l'art. 348, primo comma, del codice di procedura civile, nel testo sostituito, con efficacia dal 30 aprile 1995, dall'art. 54 della legge 26 novembre 1990, n. 353, la mancata costituzione in termini dell'appellante nel termine di cui all'art. 165 cod. proc. civ. (da intendersi richiamato dall'art. 347 cod. proc. civ.), determina automaticamente l'improcedibilità dell'appello, restando esclusa sia, per il caso di mancata costituzione di entrambe le parti, l'applicazione del regime di cui all'art. 171, primo comma, in relazione all'art. 307, primo comma, cod. proc. civ., e, quindi la possibilità di una riassunzione del processo entro l'anno dalla scadenza del termine di cui

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ROMA 6 luglio 2010 processo abbia l'ulteriore corso. Con l’effetto immediato della non riproponibilità dell’appello, pur

se i termini non siano ancora scaduti, ex art. 358 c.p.c. La ragione della pronuncia immediata alla

prima udienza deriva dalla comparazione con la disposizione del secondo comma dell'art. 348

c.p.c., che prevede la fissazione della seconda udienza con la comunicazione solo se la parte

appellante si sia costituita.

La diversità di disciplina si fonda sulla ratio diversa dei due casi: nel primo, parte appellante

è talmente disinteressata al processo, da neppure costituirsi o da non costituirsi in termini; nel

secondo caso, parte appellante può esser mancata all'udienza per un mero disguido.

L'improponibilità è pronunciata dalla Corte d’Appello ha forma di sentenza17, posto che

l'ordinanza collegiale è prevista solo per la fissazione della seconda udienza nell'ipotesi di cui al

secondo comma. E poiché é stato abrogato il previgente quarto comma dell’art. 350 c.p.c., che

affidava al C.I. la decisione in merito all'inammissibilità o improcedibilità, con ordinanza. La ratio

è palese: occorre la sentenza perché l'effetto che ne scaturisce è definitivo, facendo passare, o

accertando l'avvenuto passaggio, in giudicato della prima sentenza. Senza possibilità di una nuova

impugnazione.

Ciò detto, si deve aggiungere che si tratta di una fattispecie di irrilevante influenza sul

processo, atteso che quando ciò accade, la ragione consiste nella perdita di interesse di parte

appellante per il giudizio di secondo grado, e quindi configura una forma di rinuncia indiretta agli

atti.

3.2.‐ La mancata comparizione alla prima udienza di parte appellante costituita La seconda ipotesi di

improcedibilità riguarda la fattispecie, di frequenza assai maggiore rispetto al caso precedente, della

mancata comparizione di parte appellante costituita, alla prima udienza.

all'art. 166 per la costituzione dell'appellato, sia, in ipotesi di costituzione dell'appellato nel termine di cui all'art. 166, l'applicazione dell'art. 171, secondo comma, dello stesso codice e, quindi, la possibilità della costituzione dell'appellante fino alla prima udienza, sia infine, per il caso di ritardata costituzione di entrambe le parti, una trattazione dell'appello. Infatti, il richiamo alle "forme" ed ai "termini" del procedimento avanti il tribunale, contenuto nell'art. 347, primo comma, cod. proc. civ., per quanto attiene alla costituzione dell'attore, deve ritenersi riferito esclusivamente al termine di cui all'art. 165 proc. civ., in quanto lo impone il tenore dell'art. 348 del codice di rito, che, stabilendo espressamente l'improcedibilità dell'appello per la mancata costituzione in termini e prevedendo una sanzione ricollegata all'inosservanza del termine per la costituzione dell'appellante, rende incompatibile - ai sensi dell'art. 359 cod. proc. civ. - che l'applicazione di tale sanzione possa essere posta nel nulla da un comportamento successivo dell'appellante, soggetto destinatario della sanzione (quale sarebbe la riassunzione) o dell'altra parte, cioè l'appellato (quale sarebbe la riassunzione o la sua costituzione tempestiva) o di entrambe le parti (che chiedessero di trattare la causa, in caso di ritardata costituzione di entrambe). L'applicazione della norma dell'art. 171, secondo comma, cod. proc. civ. resta possibile, invece, per il caso di costituzione tempestiva dell'appellante, consentendosi in tal caso la costituzione dell'appellato all'udienza (ferma l'applicazione del primo comma dell'art. 343, cod. proc. civ., in punto di decadenza dall'appello incidentale e salva in ogni caso l'applicazione del secondo comma di tale norma)» (così CASS. CIV. Sez. III, 24 gennaio 2006, n. 1322; conformi CASS. CIV. sez. III, 19 maggio 2006, n. 11760; sez. I, 14 dicembre 2007, n. 26257; sez. III, 18 luglio 2008, n. 19947; sez. III, 21 gennaio 2010, n. 995).

917 MANDRIOLI, op. cit., II, 409.

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ROMA 6 luglio 2010 In tal caso è necessaria la fissazione della seconda udienza, ex art. 348, co. 2 c.p.c., di cui

deve darsi comunicazione alla parte costituita ma assente. Se neppure alla seconda udienza parte

appellante compaia, nonostante la rituale comunicazione della precedente ordinanza, allora si

determina l’improcedibilità dell’appello.

Incertezza v'è frequentemente nel caso in cui parte appellata non compaia o non intenda

comparire e vi sia assenza di parte appellante, fra l'applicazione dell'art. 348, co. 2 c.p.c. ovvero

dell'art. 309 c.p.c., che nel testo attuale – giova ricordarlo – comporta, alla seconda udienza deserta,

che il giudice d’appello disponga sia la cancellazione della causa dal ruolo, sia l'estinzione del

processo, in ragione della novella del 2008, che ha modificato l'art. 181, co. 1 c.p.c. Si rammenti

che la novella richiamata è entrata in vigore il 22/8/2008, secondo la disposizione dell'art. 1, co.

4 lg. 6/8/2008, n. 133, che ha convertito con modificazioni il D.L. 25/6/2008, n. 112, quindi si

applica ai processi iniziati successivamente a tal data.

Il dubbio resta. Se si considera che la sentenza d'improcedibilità presuppone pur sempre

l'iniziativa di una parte, nel caso quella appellata, mentre il meccanismo di cui all'art. 309 c.p.c.

opera solo in assenza di alcuna iniziativa da entrambe le parti all'udienza. Se invece si privilegia

l'esigenza di celerità, sottesa al giusto processo, ex art. 111 Cost., allora si deve ritenere prevalente

la ratio decidendi della improcedibilità, da dichiarare anche in assenza di sollecitazioni di parte

appellata. Resta, indiscutibilmente, l'anomalia di una sentenza pronunciata dal giudice, con gli

effetti di cui si diranno. La prima soluzione si presenta come costituzionalmente orientata; la

seconda come utilmente orientata (alla statistica).

Si deve, invero, osservare che la generalizzata violazione del controllo sulla tempestività della

costituzione, tale per cui il giudice d’appello non rileva mai la mancata o tardiva costituzione di

parte appellante e quindi non applica l'art. 348, co. 1 c.p.c., ma sempre e solo il secondo comma,

porta ad una generalizzata moratoria illegittimamente concessa a parte appellante non comparsa,

tale da attenuare molto gli effetti della pronuncia di una sentenza ex officio.

4.‐ L'INAMMISSIBILITÀ, LA MOLTEPLICITÀ DEI CASI

La sanzione dell'inammissibilità, proprio per la sua latitudine, copre una molteplicità di casi,

tutti legati dal vizio originario che inerisce all'atto di appello a comparazione del modello normativo

di esso. In altre parole, la sanzione colpisce sempre vizi propri dell'atto di appello, principale o

incidentale che sia, vizi che la struttura peculiare del rito di appello non consente di sanare.

Giova rammentare come, dopo la riforma del 1990, quello proprio della Corte d’Appello sia

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ROMA 6 luglio 2010 un rito autonomo e distinto18, rispetto a quello di primo grado, a differenza di quanto accadeva in

precedenza, quando quello di appello era null'altro che un rito di primo grado adattato al secondo.

Il rilievo costituisce un dato normativo. L'art. 400 c.p.c., in materia di procedimento per

revocazione nei casi di cui all'art. 395 c.p.c., che – occorre rammentarlo - configurano ipotesi di

impugnazione ordinaria o straordinaria, e l'art. 394, co. 1 c.p.c., in materia di giudizio di rinvio

dopo la sentenza rescindente della Suprema Corte dispongono che il giudice della revocazione e

quello del rinvio applicano «le norme stabilite per il procedimento» dinanzi a loro. E poiché il

rinvio o la revocazione possono esser proposti sia dinanzi al Giudice di Pace, che dinanzi al

Tribunale, che dinanzi alla Corte d’Appello, ecco come quella precisazione, ripetuta, abbia un

significato preciso, riferendosi ai tre riti19 diversi che si applicano dinanzi a quei giudici.

L'autonomia del rito di appello rende il relativo giudizio estremamente più agile, rispetto a quello di

primo grado scandito da tempi rigidi, e modulabile sul caso concreto. Quindi con una velocità

potenziale che si infrange ineluttabilmente sul numero dei processi e sui vincoli della collegialità.

Quanto precede serve a mettere a fuoco l'importanza dell'atto di appello, perché su di esso, in

sostanza, la parte appellante, principale o incidentale, si gioca l'intero gravame di merito. Rispetto

al contenuto di questo atto si focalizza il primo controllo del giudice d’appello, sul piano

dell'ammissibilità, prescindendo dal merito.

Di conseguenza il discorso sull'inammissibilità è, in concreto, il discorso sull'atto di appello e

sui vizi che possono affliggerlo.

Vizi che possono essere enumerati:

a) il termine di proposizione dell'appello;

b) il luogo di formulazione dei motivi e delle eccezioni;

c) il contenuto dei motivi e la loro specificità;

d) l'eventuale conversione di motivi inammissibili;

e) i nova dedotti in grado di appello;

f) l'omessa integrazione del contraddittorio in cause inscindibili.

Ciascuna di queste ipotesi merita qualche considerazione specifica.

4.1.‐ Il termine d'appello Argomentare sui termini di appello, di cui agli artt. 325 e 327 c.p.c.

parrebbe del tutto superfluo, tanta è la loro notorietà. Sicché parrebbe sufficiente indicare la loro

violazione come una – la prima in ordine di controllo da parte del giudice d’appello – delle cause di

inammissibilità. 18 Cfr. CONVERSO, Il processo d'appello dinanzi alla Corte d’Appello, Parte I, in Giur. It., 1999, 661 ss., § 3.

1119 Uso il vocabolo in senso generico, per ricomprendervi le norme procedimentali proprie di ciascun giudice.

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ROMA 6 luglio 2010 Rammentando che, per i processi iniziati dopo il 4/7/2009, il termine c.d. lungo è di sei

mesi, a seguito della novella dello scorso anno. Ovviamente maggiorato di 45 giorni ove includa

una sospensione feriale dei termini, che – a differenza della previgente norma – non potrà che

essere fruita una sola volta.

4.1.1.‐ Le anomalie dei termini, l'opposizione di terzo e la correzione Appare opportuno rammentare

subito che vi sono due anomalie in ordine ai termini per impugnare: l'inesistenza di termini per

l'impugnazione; la proroga dei termini di cui agli artt. 325 e 327 c.p.c.

Esiste, infatti, un'impugnazione straordinaria che non ha termine di proposizione: si tratta

dell'opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c., sicché di essa non si potrà mai predicare

l'inammissibilità per violazione del termine. Ciò non esclude che possa essere inammissibile, ma

sarà solo in relazione all'ipotesi sub c), quando la sola prospettazione del mezzo escluda la

sussistenza di un pregiudizio.

Il secondo caso, certamente marginale ma non troppo, è previsto dall'art. 288, co. 5 c.p.c.: in

ipotesi di correzione della sentenza, è possibile l'impugnazione del capo corretto entro autonomi

termini, a seconda che sia o meno stata notificata l'ordinanza di correzione. Ovviamente nel caso di

avvenuta notifica, il termine sarà quello di cui all'art. 325 c.p.c. Ove la notifica non sia avvenuta,

allora varrà il termine di cui all'art. 327 c.p.c.

Occorre sottolineare come tali autonomi termini in tanto decorrono, in quanto l'istanza di

correzione sia stata accolta [relativamente alle parti corrette], non certo quando l'istanza sia stata

rigettata. Infatti, il subprocedimento di correzione non incide sul decorso ordinario dei termini per

l'impugnazione contro la sentenza nel suo insieme. Apre un nuovo decorso dei termini unicamente

in riferimento al capo corretto. Né si può ritenere che, insieme con la parte corretta, l'appello possa

involgere anche una parte non corretta, ma dipendente da quella corretta, perché, se la correzione è

realmente tale, e quindi concerne un errore materiale, non possono logicamente esservi altri capi di

sentenza dipendenti, che possano mutare di significato. Se una correzione siffatta è stata operata,

allora significa che non è stato eliminato un errore materiale, ma è stata mutata la decisione. E

quindi si tratta di un provvedimento abnorme.

4.1.2.‐ La sospensione dei termini per impugnare Ci si riferisce all'ipotesi, non rara tenuto conto

della durata dei nostri processi, della morte o perdita della capacità della parte, avvenuta durante il

decorso del termine per l'impugnazione.

In proposito occorre distinguere gli effetti a seconda dei due termini, quello breve e quello

lungo.

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ROMA 6 luglio 2010 Se è in corso il termine breve, la morte o la perdita della capacità, operando ope legis,

interrompe il termine stesso, sic et simpliciter. Solo nel caso di nuova notifica della sentenza agli

eredi, inizierà a decorrere nuovamente il termine breve (art. 328, co. 1 c.p.c.), altrimenti resta il

termine lungo.

Diversa è la disciplina in caso di termine lungo. Se la morte o perdita della capacità si verifica

dopo sei mesi dalla pubblicazione della sentenza, scatta una proroga di altri sei mesi per tutti gli

aventi causa (art. 328, co. 3 c.p.c.).

Giova ancora rammentare che identica disciplina vale per i casi di morte, sospensione,

radiazione del difensore20.

In realtà, a questo punto i problemi si aggrovigliano.

Il maldestro riformatore dell'art. 327 c.p.c., abbreviando il termine lungo a mesi sei, s'è

semplicemente dimenticato della norma in esame, che – sarebbe stato troppo logico – avrebbe

dovuto vedere dimezzato il termine dalla stessa previsto. Con il risultato per cui la morte o perdita

della capacità della parte o del suo difensore, che si verifichino oltre i sei mesi sono rilevanti

solamente nel caso in cui sul termine lungo semestrale incida una sospensione feriale. Solo in

questo caso la norma di cui all'art. 328, co. 3 c.p.c. può essere applicata. Nel caso in cui il semestre

si compia senza la sospensione dei termini, le fattispecie sono palesemente irrilevanti.

Resta da chiarire che cosa accada se la morte o perdita della capacità si verifichino prima dei

sei mesi dalla pubblicazione, perché codesta situazione ben può divenire rilevante anche in tema

di termine lungo semestrale. In tal caso, secondo un unico e remoto precedente21, si applicano i

termini normali d'impugnazione, inapplicabile essendo la norma, evidentemente ritenuta

eccezionale, di cui all'art. 328 c.p.c. Quindi si applica il termine lungo semestrale, con l'effetto che

sarà onere degli eredi – ove lo ritengano – appellare tempestivamente. Della razionalità di tal

soluzione v'è da dubitare in ipotesi di termine lungo annuale ed ancor più con il termine lungo 20 Così Corte Costituzionale 3 marzo 1986, n. 41. 21 «La morte della parte sopravvenuta prima del decorso di sei mesi dalla pubblicazione della sentenza di primo grado e della notificazione di questa al procuratore costituito della parte stessa, impedisce l'operatività dell'art. 328 cod. proc. civ., sia nella parte in cui dispone la proroga del termine annuale di impugnazione di cui all'art. 327 cod. proc. civ., sia in quella in cui prevede l'interruzione del termine breve di cui all'art. 325 cod. proc. civ. e l'onere della rinnovazione della notificazione della sentenza. In tale ipotesi resta, altresì, precluso il ricorso al combinato disposto degli artt. 299 e 359 cod. proc. civ., attinente alla diversa ipotesi in cui l'evento interruttivo intervenga dopo la proposizione dell'impugnazione, ma prima della costituzione ad opera della parte "medio tempore" deceduta e non incombe, infine, alcun obbligo sulla parte vittoriosa in primo grado, che sia eventualmente a conoscenza di detto evento, di rinotificare la sentenza a norma dell'art. 303, secondo comma, cod. proc. civ., in applicazione dell'art. 286, primo comma, cod. proc. civ., che concede una semplice facoltà e non pone alcun obbligo di effettuare una modifica in tal forma del provvedimento giudiziale. Pertanto, ove la sentenza come sopra notificata non venga tempestivamente impugnata nel suddetto termine ordinario da parte dell'erede del defunto, questi non può

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ROMA 6 luglio 2010 semestrale. Invero sul piano della costituzionalità, posto che un medesimo evento tanto

imprevedibile quanto ingovernabile non può comportare effetti tanto radicalmente diversi a seconda

che si verifichi fuori od entro un termine, che appare arbitrario, parrebbe irrazionale la

diversificazione. Non mi nascondo che appare arduo individuare la norma da impugnare, atteso che

sarebbe stato il legislatore, ove conoscesse il processi civile, intervenire con una norma di

contenuto positivo ad hoc. Sarebbe bastato, in difetto di migliore fantasia, portare a tre mesi il

termine di cui all'art. 328, co. 3 c.p.c.: i problemi sarebbero rimasti identici al passato, ma almeno si

sarebbe evitata una questione ulteriore.

Per ragione di affinità, pur se non determina un'inammissibilità ratione temporis, si deve

considerare il caso – oggi non infrequente – della cancellazione di una società dal Registro delle

imprese, ciò che determina la sua estinzione ipso iure. La norma è esplicita per le società di capitali

ex art. 2495 c.c., ma la giurisprudenza l'ha ritenuta applicabile a tutte le società, anche di persone e

retroattivamente22. Sul punto sono intervenute le Sezioni Unite, con una posizione più sfumata, ma

– pare – sostanzialmente con forme alla linea giurisprudenziale precedente23. Segnalato il problema,

ed almeno in rapporto alle società di capitali, la loro cancellazione comporta l'inammissibilità

dell'appello per l'avvenuta estinzione del soggetto legittimato.

In alternativa, si potrebbe pensare all'applicazione estensiva della fattispecie di nomina del

curatore speciale, di cui all'art. 78 c.p.c., non tacendosi che l'operazione appare oltremodo audace,

successivamente ritenersi legittimato - in tale veste - al ricorso per Cassazione avverso la sentenza di secondo grado, che, ove proposto, va dichiarato inammissibile» (così CASS. CIV. Sez. Lav., 18 gennaio 1984, n. 443). 22 «In tema d'interpretazione del nuovo diritto societario, la modifica dell'art. 2495 cod. civ., ex art. 4 d.lgs n. 6 del 2003, secondo la quale la cancellazione dal registro delle imprese determina, contrariamente al passato, l'estinzione della società, si applica anche alle società di persone, nonostante la prescrizione normativa indichi esclusivamente quelle di capitali e quelle cooperative ed, inoltre la norma, per la sua funzione ricognitiva, è retroattiva e trova applicazione anche in ordine alle cancellazioni intervenute anteriormente al 1 gennaio 2004, data di entrata in vigore delle modifiche introdotte dal citato d.lgs n. 6 del 2003, con la sola esclusione dei rapporti esauriti e degli effetti già irreversibilmente verificatisi. (Nella fattispecie la Corte ha ritenuto inammissibile la proposizione del ricorso per cassazione per inesistenza del soggetto proponente e conseguente difetto di rappresentanza processuale, trattandosi di società in nome collettivo cancellata dal registro delle imprese il giorno otto gennaio del 2003)» (così CASS. CIV. Sez. II, 15 ottobre 2008, n. 25192; conforme CASS. CIV. Sez. III, 13 novembre 2009, n. 24037).

14

23 «In tema di società, una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2495, secondo comma, cod. civ., come modificato dall'art. 4 del d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, nella parte in cui ricollega alla cancellazione dal registro delle imprese l'estinzione immediata delle società di capitali, impone un ripensamento della disciplina relativa alle società commerciali di persone, in virtù del quale la cancellazione, pur avendo natura dichiarativa, consente di presumere il venir meno della loro capacità e soggettività limitata, negli stessi termini in cui analogo effetto si produce per le società di capitali, rendendo opponibile ai terzi tale evento, contestualmente alla pubblicità nell'ipotesi in cui essa sia stata effettuata successivamente all'entrata in vigore del d.lgs. n. 6 del 2003, e con decorrenza dal 1° gennaio 2004 nel caso in cui abbia avuto luogo in data anteriore. (In applicazione di tale principio, le S.U. hanno confermato la sentenza impugnata, che aveva ritenuto valida, ai fini dell'esecuzione forzata, la notificazione del titolo esecutivo e del precetto eseguita, in data anteriore al 1° gennaio 2004, ad istanza di una società in nome collettivo precedentemente cancellata dal registro delle imprese, nonché la notificazione dell'opposizione agli atti esecutivi proposta dal debitore nei confronti della medesima società, anch'essa in data anteriore all'entrata in vigore del d.lgs. n. 6 del 2003)» (così CASS. CIV. sez. un., 22 febbraio 2010, n. 4060; conforme CASS. CIV. sez. III, 15 aprile 2010, n. 9032).

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ROMA 6 luglio 2010 dal momento che la norma, chiaramente, postula l'esistenza del soggetto da affidare al curatore

speciale, mentre nel caso di specie la società è ormai inesistente. Se si condivide tale obbiezione –

di notevole peso logico e giuridico – allora non resta se non la strada dell'inammissibilità

dell'appello.

4.1.3.‐ I termini in relazione al tipo di atto introduttivo dell'appello Ancora in relazione al termine di

proposizione dell'appello incide il fenomeno della conversione del mezzo di appello: la

farraginosità del sistema processuale prevede che l'appello sia proposto ora con il mezzo ordinario

della citazione, ora con il mezzo meno frequente del ricorso24. E, per soprammercato, si deve

rammentare che non sempre alla citazione od al ricorso di primo grado corrisponde l'identico

mezzo di appello25, dandosi di frequente il caso per cui ad un ricorso quale mezzo introduttivo in

primo grado, corrisponda una citazione in grado di appello. A tutto ciò deve aggiungersi, da ultimo,

un terzo profilo quello, che si ricollega alla pluralità di riti cui si è già fatto cenno, della ultrattività

del rito di primo grado, ovvero – se si preferisce – dell'apparenza di rito di primo grado26, da

cui deriva che è il rito di primo grado, corretto od erroneo che fosse, a determinare il mezzo di

appello.

Non deve essere confuso con i casi anzidetti quello in cui il primo grado debba essere

introdotto con un mezzo anomalo rispetto al rito del processo, rispondente solo a finalità di

facilitazione – usualmente fraintese – della parte nella proposizione dell'azione. Intendo riferirmi,

ad esempio, al caso dell'impugnazione delle deliberazioni condominiali (art. 1137, co. 2 c.c.),

vincolato ad un termine brevissimo di trenta giorni27. In codesta ipotesi, per consentire, da un lato la

tempestività dell'impugnazione, e dall'altro la facilitazione al rispetto del termine dalla parte

impugnante, la norma prevede che l'atto introduttivo sia un ricorso, pur se il processo che ne segue

sia un ordinario giudizio di cognizione. La ratio è evidente: il rispetto del termine è facilitato dal

fatto che la tempestività è fatta dipendere unicamente dalla diligenza della parte, la quale è

agevolata dal solo atto del deposito dell'impugnazione, senza dover subire i tempi incontrollabili

24 Ad esempio: il rito di lavoro (artt. 414 c.p.c.), di previdenza (art. 442 c.p.c.) e locazione, comodato ed affitto (art. 447 bis c.p.c.), nei quali casi il mezzo introduttivo dell'appello è sempre il ricorso (art. 434 c.p.c.). 25 Ad esempio l'appello rispetto ad un procedimento d'impugnazione di un'ordinanza-ingiunzione amministrativa, che è introdotto con citazione, pur se il primo grado sia proposto con ricorso (art. 22-24 lg. 24/11/1981, n. 689). 26 «In tema di impugnazione dei provvedimenti giurisdizionali, l'individuazione del relativo mezzo deve essere fatta esclusivamente in base al principio dell'apparenza, sulla base della qualificazione dell'azione compiuta dal giudice, indipendentemente dalla sua esattezza. Di conseguenza, nel caso di sentenza emessa in sede di esecuzione forzata, la stessa è impugnabile con l'appello se l'azione è stata qualificata come opposizione all'esecuzione, mentre è esperibile il ricorso per cassazione ai sensi dell'articolo 111 della Costituzione qualora l'azione sia stata definita come opposizione agli atti esecutivi» (così CASS. CIV. sez. III, 15 febbraio 2006, n. 3288).

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27 Il parallelo procedimento di impugnazione delle deliberazioni societarie, invece, deve esser proiposto con citazione, ex art. 2378 c.c.

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ROMA 6 luglio 2010 della notifica. Ma ciò non incide sull'appello, che è introdotto a mezzo di citazione, proprio in

ragione dell'ordinarietà del rito di primo grado. In realtà, in questo caso, l'introduzione del processo

con un mezzo processuale diverso da quello normativamente previsto, considerando i termini, può28

generare un effetto decadenziale sostanziale dal diritto di impugnare, così facendo divenire

definitivo l'atto sostanziale impugnato.

Questi tre profili, che possono presentarsi autonomamente o variamente intrecciati, incidono

tutti sull'ammissibilità o inammissibilità dell'appello, sotto il profilo del rispetto del termine per

impugnare.

Occorre chiarezza: nella prospettiva considerata, l'inammissibilità non dipende dal mezzo

d'impugnazione impiegato, ma dipende dal tempo di proposizione del gravame, che è quello

proprio di ciascun mezzo.

Seguendo un ordine logico, occorre chiarire il principio dell'ultrattività del rito di primo

grado29, che risponde ad un principio di chiarezza e soprattutto di certezza processuale: se fosse

possibile per la parte appellante di modificare il sistema di introduzione dell'appello, magari anche

correggendo l'errore del primo giudice, ne deriverebbe l'assoluta incertezza sulla tempestività di

proposizione del gravame, con la conseguente violazione del principio costituzionale del giusto

processo (art. 111 Cost.).

28 L'uso del termine potenziale dipende dal recente révirement della Suprema Corte in materia. Dapprima, con coerenza, sosteneva: «In tema di condominio di edifici la tempestività dell'impugnazione delle deliberazioni dell'assemblea dei condomini, che a norma dell'art. 1137 cod. civ. deve essere proposta con ricorso nel termine di trenta giorni dalla data della deliberazione stessa, va riscontrata con riguardo alla data del deposito di tale atto e non alla sua notificazione, che rimane estranea alla generale disciplina dell'instaurazione dei procedimenti contenziosi con la forma del ricorso nonché alla "ratio" e funzione dell'indicata impugnativa» (così CASS. CIV. Sez. II, 27 febbraio 1988, n. 2081; conforme CASS. CIV. Sez. II, 16 febbraio 1988, n. 1662). Dal 2004, con una interpretazione sostanzialmente abrogante, afferma: «In tema di condominio, l'impugnazione della delibera dell'assemblea può avvenire indifferentemente con ricorso o con atto di citazione, ma in quest'ultima ipotesi, ai fini del rispetto del termine di cui all'art. 1137 cod. civ., occorre tenere conto della data di notificazione dell'atto introduttivo del giudizio, anziché di quella del successivo deposito in cancelleria, che avviene al momento dell'iscrizione a ruolo della causa» (così CASS. CIV. sez. II, 11 aprile 2006, n. 8440; conformi CASS. CIV. sez. II, 27 luglio 2006, n. 17101; Sez. II, 30 luglio 2004 n. 14560).

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29 In materia di rito di locazione: «Per il principio dell'ultrattività del rito, ove la controversia, ancorché introdotta con ricorso, sia stata trattata in primo grado con rito ordinario in luogo di quello del lavoro al quale è assoggettata (nella specie: determinazione dell'equo canone ex art. 45 l. 27 luglio 1978 n. 392) debbono essere seguite le forme ordinarie anche per la proposizione dell'appello e dell'eventuale appello incidentale» (così CASS. CIV. sez. III, 21 ottobre 1998, n. 10425; conformi CASS. CIV. sez. III, 9 marzo 1995, n. 2754; Sez. III, 16 luglio 2002, n. 10278; sez. I, 18 settembre 2003, n. 13751; sez. III, 14 gennaio 2005, n. 682; sez. I, 30 agosto 2007, n. 18313); in materia di rito camerale: «Ove una controversia sia stata trattata in primo grado con rito ordinario, nonostante la previsione legislativa imponesse il rito camerale, l'appello, per il principio di ultrattività del rito, deve seguire le forme del giudizio ordinario. Ne consegue l'ammissibilità dell'appello, proposto con atto di citazione ad udienza fissa, anziché con ricorso, nei confronti della sentenza relativa all'ammissibilità dell'azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, ove il relativo giudizio di primo grado si sia svolto, nonostante la disposizione dell'art. 274 c.c., che prevede il rito camerale, nelle forme dell'ordinario giudizio dei cognizione» (così CASS. CIV. sez. I, 20 ottobre 2000, n. 13918).

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ROMA 6 luglio 2010 Da ciò la conseguenza: l'appello deve essere introdotto con il mezzo processuale coerente

al rito seguito in primo grado, pur se a rigore avesse dovuto esser proposto con un mezzo diverso.

Sicché l'impugnazione sarà tempestiva, e quindi sotto questo profilo ammissibile, se i termini di

proposizione del gravame siano quelli propri del mezzo obbligato. Il deposito in caso di ricorso; la

notificazione in caso di citazione.

Ma se il mezzo d'impugnazione sia stato quello erroneo in rapporto al rito di primo grado,

allora, al fine di conservare – nei limiti del possibile – gli effetti dell'impugnazione, entra in gioco il

principio di conversione del mezzo erroneo nel mezzo corretto, ma si deve verificare se i termini

di proposizione dell'impugnazione siano quelli propri del mezzo corretto30.

Ancora in ordine ai termini per l'impugnazione vengono in rilievo altre fattispecie. Quella

della notifica di un appello viziato in caso di una sentenza non notificata: la parte appellante ben

può proporre un successivo appello valido, nelle forme proprie del caso di specie, ma solo entro il

termine breve dell'art. 325 c.p.c., dal momento che quella prima notifica è stata equipollente alla

notifica della sentenza ex art. 285 c.p.c. Ancora, quello della notifica valida di un atto di appello

parziale, incidente solo su alcune statuizioni della sentenza di primo grado, non notificata. Ove

parte appellata intenda proporre appello incidentale su di un capo non investito dall'appello

principale e quindi potenzialmente suscettibile di passaggio in giudicato deve farlo entro i termini

brevi, in forza del medesimo principio di equipollenza.

Appare chiaro, a questo punto, come l'inammissibilità per violazione del termine valga ad

unificare ipotesi assai diverse fra di loro, ma tutte legate alla tempestività dell'appello.

Un ultimo rilievo, sempre in materia di termini correlati al mezzo d'impugnazione, concerne

l'abuso della sentenza ex art. 281 sexies c.p.c. Di tal forma di sentenza, il giudice di primo grado

fa abuso, nel senso che la impiega anche in procedimenti dotati di autonomi riti, come quello di

lavoro o di locazione, soprattutto in quest'ultimo. Accade normalmente, che il giudizio di primo

grado sia condotto nella più grande confusione e vaghezza, così non comprendendosi se il rito 30 «L'art. 4 comma 12 della legge n. 898 del 1970, come sostituito dall'art. 8 della legge n. 74 del 1987 - applicabile, ai sensi dell'art. 23 comma 3 di quest'ultima legge, alle sentenze di separazione personale pubblicate successivamente alla sua entrata in vigore - secondo il quale "l'appello è deciso in camera di consiglio", deve essere interpretato come introduttivo del rito camerale per l'intero giudizio di impugnazione, e non soltanto per la fase decisoria. La proposizione dell'appello, pertanto, si perfeziona con il deposito del ricorso in cancelleria nel termine perentorio di cui agli art. 325-327 c.p.c., mentre la notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell'udienza costituisce un momento esterno e successivo alla fattispecie processuale introduttiva del giudizio di impugnazione, diretto soltanto ad instaurare il contraddittorio. Tuttavia, ove l'appello sia stato proposto con citazione, anzichè con ricorso, è da escludere la nullità dell'atto di impugnazione, in applicazione del principio generale di conversione degli atti nulli, sempre che il deposito della citazione nella cancelleria del giudice adito sia avvenuto entro i termini perentori fissati dalla legge, non rilevando peraltro che in detti termini sia stata effettuata la notificazione all'appellato» (così CASS.

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ROMA 6 luglio 2010 seguito in primo grado sia quello ordinario o quello speciale. L'unica cosa certa è costituita dalla

pronuncia della sentenza secondo la norma citata. La quale – lo rende chiaro la rubrica del Capo III

bis – è sentenza propria del rito ordinario. Il che significa che il giudice di primo grado, quale

che sia il rito che abbia ritenuto di applicare, ha sicuramente ha concluso il giudizio con una

trasformazione del rito da speciale – ove mai l'avesse applicato – in ordinario. Applicando il

principio dell'ultrattività del rito di cui si è detto, la conseguenza è evidente: l'appello deve esser

proposto con citazione e non con ricorso.

È incomprensibile la ragione per cui, pur in presenza di riti speciali che disciplinano in modo

specifico e rapido le modalità di pronuncia della sentenza, e che quindi costituiscono altrettante

norme speciali escludenti il ricorso a quella forma di sentenza, si voglia ricorrere al tipo di sentenza

in esame, quando sarebbe sufficiente applicare le norme speciali per conseguire la rapidità che il

giudice di primo grado ritiene – a torto – di perseguire in quel modo. In realtà un risultato lo ottiene,

ma di segno contrario: la confusione della parte soccombente, che propone di regola l'appello con il

mezzo sbagliato: il ricorso, anziché con la citazione. E spesso viola i termini di cui si è detto, sicché

l'appello è inammissibile. Così la supposta velocità di decisione viene a privare la parte

soccombente dell'appello. Con quale vantaggio ognuno può giudicare.

In concreto: l'impugnazione è salva solo nel caso di mancata notifica della sentenza, quando

l'appello non sia proposto negli ultimi giorni di scadenza del termine.

4.2.‐ Il luogo di proposizione dei motivi e delle eccezioni La collocazione dei motivi di appello

principale e delle eccezioni proposte o riproposte é unicamente l’atto di appello; la collocazione

dei motivi di appello incidentale e delle eccezioni proposte o riproposte é unicamente la memoria

costitutiva. La citazione di appello deve essere notificata; la comparsa costitutiva contenente

l’appello incidentale deve essere depositata con la costituzione ex artt. 343-166 c.p.c., a pena di

decadenza. Ma anch’essa deve essere notificata alla controparte nel caso in cui la causa sia iscritta a

ruolo dall’appellato, senza che la controparte siasi costituita, ex art. 292 c.p.c., con effetti diversi a

seconda che la causa sia scindibile oppure no31. Ed altresì quando sia proposto nei confronti di una

CIV. sez. I, 8 maggio 1996, n. 4290; conformi CASS. CIV. sez. I, 19 gennaio 1998, n. 461; Sez. I, 27 febbraio 1998, n. 2247; sez. I, 4 marzo 1998, n. 2390).

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31 «La norma dell'art. 343 comma 1 c.p.c., secondo cui l'appello incidentale si propone nella prima comparsa o, in mancanza di costituzione in cancelleria, nella prima udienza o in quelle previste dagli art. 331 e 332 - senza che sia necessaria, quindi, la notifica dell'atto di impugnazione - è applicabile all'appello incidentale rivolto contro l'appellante principale o contro altra parte già costituita o che si costituisca prima del decorso dei termini d'impugnazione, ma non quando l'appello incidentale sia proposto nei confronti di parti non presenti nel giudizio di secondo grado. In tal caso, se l'impugnazione ha per oggetto una sentenza pronunciata in causa inscindibile o in cause tra loro dipendenti, il giudice deve assegnare all'appellante incidentale (che abbia tempestivamente proposto l'impugnazione con la comparsa o in udienza, nei confronti dell'appellante principale) il termine per integrare il

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ROMA 6 luglio 2010 parte appellata contumace.

Se tutto questo è ovvio32, non altrettanto è effettivamente praticato, sia pure distinguendo fra

vecchio e nuovo rito, sul presupposto che pendano ancora in grado di appello processi antecedenti

alla riforma del 1990.

Nel vecchio rito, stante la dispersione del processo in numero elevato di udienze33 ed il

proliferare di memorie, era usuale che i difensori spargessero a piene mani i motivi dovunque

capitasse, senza eccessive remore. In memorie aggiunte, nelle stesse conclusioni definitive, e,

soprattutto, nella comparsa conclusionale, che pareva essere il luogo d’elezione.

Nel nuovo rito il fenomeno é meno frequente, pur se non é affatto scomparso, dal momento

che la maggiore concentrazione del processo, impedisce tendenzialmente il profluvio di memorie,

ognuna delle quali ne impone, per debito d’onore, una successiva di contrario segno, e quindi

diminuisce grandemente le possibilità di ripensamenti e di nuovi motivi di appello.

In ogni caso, restano il luogo privilegiato di motivi nuovi ed inammissibili le conclusionali,

che - giova ricordarlo - debbono servire solo a meglio illustrare motivi di appello già

tempestivamente proposti, e ben possono contenere nuovi argomenti, ma non certo nuovi motivi di

doglianza.

In realtà, quello é il momento in cui le parti rivedono interamente la materia dell'appello, e,

spesso, solo allora si rendono conto di quali siano le censure (spesso quelle vere) da muovere alla

sentenza appellata. È ovvio come il corretto esercizio del potere di impugnazione imporrebbe che

l’atto di appello e la comparsa costitutiva fossero redatti con lo stesso impegno con cui é scritta la

conclusionale, sì da essere completi ed esaustivi sin dall'inizio, e quest’ultima potrebbe anche

scomparire senza danno alcuno, nella maggior parte dei giudizi di appello.

Il rilievo vale a porre in evidenza una seconda distinzione, rilevante in questa sede, fra motivi

sintetici, cioè che enunciano con precisione, ancorché non si diffondano nell’argomentazione, i

contraddittorio nei confronti degli avversi litisconsorti necessari, a norma dell'art. 331 c.p.c.; se, invece, l'impugnazione ha per oggetto una sentenza resa in cause scindibili, l'appellante incidentale deve provvedere alla notifica dell'impugnazione nei termini perentori di cui agli art. 352 o 327 c.p.c.» (così CASS. CIV. sez. I, 29 luglio 1994, n. 7127; conforme CASS. CIV. 16 marzo 1981, n. 1446). 32 «In tema di processo di appello, in ossequio al principio del "tantum devolutum quantum appellatum" di cui all'articolo 342 cod. proc. civ., il quale importa non solo la delimitazione del campo del riesame della sentenza impugnata ma anche l'identificazione, attraverso il contenuto e la portata delle censure, dei punti investiti dall'impugnazione e delle ragioni per le quali si invoca la riforma delle decisioni, i motivi debbono essere tutti specificati nell'atto di appello (con cui si consuma il diritto di impugnazione), sicchè restano precluse nel corso dell'ulteriore attività processuale sia la precisazione di censure esposte nell'atto di appello in modo generico, che la possibilità di ampliamenti successivi delle censure originariamente dedotte» (così CASS. CIV. sez. III, 24 marzo 2006, n. 6630; conformi CASS. CIV. sez. lav. 12 maggio 2008, n. 11673).

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33 Il che non era affatto imposto dalla disciplina del processo, ma derivava da una supina, e non disinteressata accettazione da parte del giudice, della prassi del rinvio, amata dai difensori.

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ROMA 6 luglio 2010 capi di sentenza censurati e le critiche mosse, e motivi generici, che sono privi di quella precisione.

I primi ben possono essere argomentati in prosieguo di processo, anche solo in conclusionale, e

sono ammissibili; i secondi non possono essere integrati da successivi atti processuali34, e se ciò

avvenga, sono inammissibili.

Il metodo dei rinvii è in sé inammissibile35, dal momento che contraddice il principio della

specificità dei motivi contenuti negli atti che debbono contenere l’impugnazione, salvo che la

pronuncia di primo grado sia stata solamente in rito, nel qual caso è sufficiente il richiamo di tutti i

motivi di merito di primo grado, non esaminati. Ed è inammissibile anche in riferimento alle

eccezioni che si intendono riproporre in appello: queste debbono essere chiaramente ed

univocamente enunciate36

Se il rinvio è genericamente fatto agli atti di primo grado, esso impone inammissibilmente al

giudice di supplire all'inattività della parte, dando contenuto e corpo alle critiche mosse

dall'appellante, così scegliendo, fra quelle di primo grado, le argomentazioni coerenti al fine. Il puro

e semplice rinvio generico a tutti gli scritti di primo grado, è ictu oculi inammissibile e non occorre

spendervi parola, anche se proporrà qualche problema sul piano della validità o meno dell’atto di

impugnazione. Del rinvio ad una memoria successiva di integrazione si é già detto, ed é del pari

inammissibile.

Un metodo di rinvio assai praticato, soprattutto in passato, é quello del rinvio in blocco alle

difese tutte contenute nella conclusionale di primo grado. Ed anche questo é inammissibile, perché

le censure mosse debbono necessariamente tener conto delle rationes decidendi della sentenza

impugnata. Ciò che non può avvenire con argomenti formulati prima che quella sentenza fosse

pronunciata. In questo caso manca l'essenziale relatio, che deve esistere fra argomentazioni della 34 «L'appellante, a differenza dell'appellato che non sia a sua volta appellante incidentale, deve prospettare tutte le censure, comprese quelle che attengono anche a mere eccezioni, con l'atto d'appello e nulla può aggiungere in prosieguo e, tanto meno, nella precisazione delle conclusioni, giacché tale atto consuma definitivamente il diritto di impugnazione, fissando i limiti della devoluzione della controversia in sede di gravame, in conseguenza dell'operatività della regola della specificità dei motivi» (così CASS. CIV. sez. II, 27 giugno 2002, n. 9378; conformi ex multis, CASS. CIV. sez. I, 20 settembre 2002, n. 13763; sez. II, 19 maggio 2000, n. 6512; sez. II, 18 aprile 2000, n. 4981; sez. III, 18 dicembre 1999, n. 14303; sez. lav., 21 ottobre 1995, n. 10958). Ciò in quanto il «il diritto di impugnazione si consuma con l'atto di appello che fissa i limiti della devoluzione della controversia in sede di gravame» (così CASS. CIV. sez. II, 27 ottobre 1995, n. 11193; conformi CASS. CIV. sez. Lav. 27 gennaio 1989, n. 498; sez. I, 8 settembre 1986, n. 5470; sez. II, 8 novembre 1985, n. 5462). 35 «Ancorché il richiamo per "relationem" a precedenti scritti difensivi non sia compatibile con l'onere di specificazione dei motivi di appello imposto dall'art. 342 cod. proc. civ., tuttavia detto richiamo deve ritenersi consentito allorché l'impugnazione investa una pronuncia per motivi di rito che abbia negato il diritto alla pronuncia di merito, poiché dall'accoglimento dell'impugnazione discenderebbe l'integrale devoluzione al giudice dell'appello del compito di decidere su tutte le questioni dedotte nel giudizio di primo grado» (così CASS. CIV. sez. lav., 1 luglio 2004, n. 12092; conformi CASS. CIV. sez. lav. 7 gennaio 2009, n. 59; sez. V, 8 marzo 2005, n. 5031; in realtà si tratta di un principio consolidato a decorrere da CASS. CIV. Sez. Un., 25 febbraio 1992, n. 2303).

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ROMA 6 luglio 2010 sentenza e censure formulate.

Diverso é il caso in cui il rinvio sia stato operato a specifiche argomentazioni, espressamente

individuate e contenute negli scritti di primo grado: ove il primo giudice abbia omesso di

considerarle; ovvero quando valgano a criticare specificamente le ragioni della sentenza; in ogni

caso quando possano portare ad un mutamento della decisione, ben possono essere semplicemente

richiamate senza necessità di una materiale ritrascrizione. Un rinvio siffatto è ammissibile, dal

momento che, diversamente, si censurerebbe non la genericità della doglianza o, peggio, la scelta di

quella utile, ma semplicemente una trascrizione materiale omessa.

La realtà processuale – ricorrendo alla memoria storica – in materia di memorie finali si è

radicalmente trasformata, non certo in ragione di alcuna riforma, che non v'è stata, ma assai più

semplicemente per l'abuso della funzione "copia & incolla" del p.c., che consente la confezione di

indigesti centoni di svariate decine di pagine (una buona memoria finale non è mai meno di 50

pagine), assai spesso prive di senso perché annegano quel paio di rilievi importanti in una marea di

illeggibili pagine, ottenuti mediante l'assemblaggio di passi, argomenti di osservazioni variamente

disperse negli scritti defensionali precedenti, prelevati ed incollati.

4.2.1.‐ L'imbroglio dell'art. 346 c.p.c. Una delle norme più chiare del rito di appello è certamente

l'art. 346 c.p.c., eppure è anche quello che genera un elevato numero di inammissibilità.

La norma esonera la parte vittoriosa dalla riesposizione pedissequa di domande ed eccezioni

«non accolte nella sentenza di primo grado», facultando la parte vittoriosa a semplicemente

riproporle. Pare incredibile la frequenza dell'erronea applicazione della norma.

In concreto: le domande ed eccezioni sono semplicemente riproponibili in presenza di due

condizioni:

la vittoria totale della parte che le ripropone;

il mancato accoglimento delle domande ed eccezioni riproposte.

Si tratta di quelle domande ed eccezioni non esaminate dal primo giudice, e quindi appunto

non accolte in favore della parte vittoriosa, perché ritenute, a torto o a ragione, dal primo giudice

assorbite e non decise, nel senso che il loro esame era precluso dalla ratio decidendi adottata nel

caso37.

36 cfr. specificamente CASS. CIV. sez. un., 24 novembre 1992, n. 12518 e CASS. CIV. 22 febbraio 1988, n. 1838.

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37 «Soltanto la parte vittoriosa in primo grado non ha l'onere di proporre appello incidentale per far valere le domande e le eccezioni non accolte e, per sottrarsi alla presunzione di rinuncia ex art. 346 cod. proc. civ., può limitarsi a riproporle mentre; la parte rimasta parzialmente soccombente in relazione ad una domanda od eccezione, di cui intende ottenere l'accoglimento, ha l'onere di proporre appello incidentale, pena il formarsi del giudicato sul rigetto della stessa» (così CASS. CIV. sez. un. 24 maggio 2007, n. 12067; conformi CASS. CIV. sez. II, 6 maggio 2005, n. 9400; sez. III, 23 settembre 2004, n. 19126, secondo la quale «Soltanto la parte totalmente vittoriosa in primo

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ROMA 6 luglio 2010 In questo caso – e solo in questo caso – la parte vittoriosa, appellata in secondo grado può

semplicemente riproporre le domande ed eccezioni suddette, ove sia convenuta dalla parte

soccombente ed appellante. Con la conseguenza, stabilita dalla legge, della decadenza dalla

domanda od eccezione non riproposta, e magari oggetto di répéchage in memoria conclusiva.

Di fronte a tale quadro esegetico si danno casi ricorrenti di inammissibilità.

Al primo si è già fatto cenno. La riproposizione, conformemente ai principi di diritto illustrati

in ordine al luogo delle doglianze, deve avvenire nel primo atto difensivo di parte appellata, cioè la

memoria di costituzione. Ma poiché non si tratta di appello incidentale, è tempestiva la

riproposizione anche se la costituzione – e quindi il deposito della memoria – avvenga alla prima

udienza. Di conseguenza la riproposizione successiva a quel momento è inammissibile, dal

momento che è già maturata la decadenza.

Il caso più ricorrente è quello bensì della vittoria totale di parte appellata in primo grado, ma

dopo che la sentenza appellata abbia già stabilito, in alcun capo, profili di responsabilità o

soccombenza della parte vittoriosa. Tipicamente ciò accade quando il primo giudice affermi la

responsabilità di una parte in punto an debeatur, e poi rigetti la domanda in punto quantum. A

questo punto la mera riproposizione delle difese in punto an è inammissibile, sia perché sul punto il

primo giudice quelle domande o eccezioni le ha accolte, sia perché quelli sono capi di sentenza

suscettibili di passaggio in giudicato. Sicché la parte vittoriosa, quei capi di sentenza a sé

sfavorevoli, ove intenda siano eliminati, deve farli oggetto non di una riproposizione, ma di un

appello incidentale condizionato. Semmai il giudice d’appello ritenesse fondato l'appello principale,

allora quei capi di sentenza dovranno essere riesaminati alla stregua delle censure proposte da parte

appellante incidentale.

Ove appello incidentale condizionato non vi sia, la conclusione sarà ineluttabile: se l'appello

principale risulta fondato, la statuizione di responsabilità resta coperta da giudicato, e quindi la

sentenza appellata deve essere totalmente riformata.

Ancora diverso è il caso – che pare peculiare di una società esercente un servizio pubblico

essenziale – che, in caso di vittoria con quelle dubitose modalità, domanda expressis verbis la

conferma della sentenza appellata, e nella parte motiva argomenta l'infondatezza della ritenuta

responsabilità in punto an. In tal caso l'appello incidentale è stato effettivamente proposto,

dovendosi interpretare complessivamente le incongrue conclusioni con il motivo di impugnazione

22

grado non ha l'onere di riproporre con appello incidentale le domande od eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado e, per sottrarsi alla presunzione di rinuncia di cui all'art. 346, cod. proc. civ., può limitarsi a riproporle nella comparsa di risposta e nelle successive difese»).

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ROMA 6 luglio 2010 esplicitato. A questo punto l'interpretazione ricostruttiva delle (evidentemente confuse) doglianze

deve confrontarsi con il termine di proposizione dell'appello incidentale, che, ex art. 343, co. 1

c.p.c., dev'esser avvenuta con una costituzione ex art. 166 c.p.c., e quindi venti o dieci giorni prima

dell'udienza. In realtà, la parte travolta dal proprio errore, concretato nella richiesta di conferma

della sentenza appellata, si costituisce all'udienza stessa. Sicché un appello incidentale

effettivamente proposto, e quindi ammissibile in via di qualificazione delle difese, diviene

inammissibile ratione temporis.

4.3.‐ Il contenuto dei motivi, loro specificità ed ammissibilità Il problema dei motivi, oggi, è assai

diverso da quello di un paio di lustri or sono, mercé la funzione informatica, appena ricordata, di

"copia & incolla": è quello della sovrabbondanza di allegazioni e pseudo argomentazioni

frastornanti, che motivi non sono, variamente ritagliate dagli atti di primo grado. Quando pure l'atto

di appello non consiste in un sontuoso pastiche di tutti gli scritti difensivi di primo grado di parte

appellante.

Sotto tale aspetto, è evidente che inammissibili sono tutti quei "motivi" inidonei,

astrattamente, a costituire una censura. Infatti, motivo di impugnazione è l'enunciazione, svolta

secondo le forme del modello di impugnazione del caso, delle ragioni della erroneità

dell'argomentazione della sentenza criticata38.

Il che porta all’osso della specificità dei motivi, secondo il disposto dell’art. 342, co. 1 c.p.c.

La specificità è una categoria logica di relazione, che trova il suo termine di riferimento

nella motivazione della sentenza impugnata39: un motivo di appello deve essere tanto specifico

38 «Il motivo d'impugnazione è rappresentato dall'enunciazione, secondo lo schema normativo con cui il mezzo è regolato dal legislatore, della o delle ragioni per le quali, secondo chi esercita il diritto d'impugnazione, la decisione è erronea, con la conseguenza che, in quanto per denunciare un errore bisogna identificarlo e, quindi, fornirne la rappresentazione, l'esercizio del diritto d'impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si concretino in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell'esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo. In riferimento al ricorso per Cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un "non motivo", è espressamente sanzionata con l'inammissibilità ai sensi dell'art. 366 n. 4 cod. proc. civ.» (così CASS. CIV. Sez. III, 11 gennaio 2005, n. 359; testualmente conformi CASS. CIV. sez. III, 12 marzo 2005, n. 5454; sez. III, 29 aprile 2005, n. 8975; sez. III, 22 luglio 2005, n. 15393; sez. III, 24 gennaio 2006, 1313; sez. III, 14 marzo 2006, n. 5444; sez. III, 17 marzo 2006, n. 5895; sez. III, 31 marzo 2006, n. 7607; sez. III, 6 febbraio 2007, n. 2540; sez. III, 28 agosto 2007, n. 18209; sez. III, 28 agosto 2007, n. 18210).

23

39 «La specificità dei motivi di appello esige che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell'appellante, volte ad incrinare il fondamento logico giuridico delle prime, ragion per cui alla parte volitiva deve sempre accompagnarsi una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice. A tal fine non è sufficiente che l'individuazione delle censure sia consentita, anche indirettamente, dal complesso delle argomentazioni svolte a sostegno dei motivi di appello, dovendosi considerare integrato in sufficiente grado l'onere di specificità dei motivi di impugnazione, pur valutato in correlazione con il tenore della motivazione della sentenza impugnata, solo quando alle argomentazioni in essa esposte siano contrapposte quelle

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ROMA 6 luglio 2010 quanto specifica é l'argomentazione svolta nella sentenza. Ciò sul presupposto che una ratio

decidendi (o più rationes decidendi) sia chiaramente evincibile dalla sentenza di primo grado.

L’esame della specificità dei motivi si incentra sulla valutazione della loro congruenza nei

confronti della ratio, ovvero delle rationes decidendi contenute nella sentenza appellata. In altre

parole: la valutazione di congruenza si amplia dalla specifica ratio decidendi censurata a tutte le

rationes decidendi che compongono il medesimo capo di sentenza, e che sorreggono la decisione

finale.

In questo caso si é in presenza di più motivazioni alternative: un motivo é specifico quando

vale – in astratto – a criticarle tutte e ciascuna, proprio in forza di quella relazione di congruenza di

cui ho appena detto. Con la conseguenza, invero assai frequente, che se solo una sia la ratio

decidendi (o: solo alcune siano) oggetto di critica, e la residua sia (ovvero: le residue siano) da sola

idonea a fondare la decisione impugnata, allora si deve concludere per la genericità dell'appello. E

quindi per l'inammissibilità del gravame in toto o del motivo considerato.

I problemi divengono molto più complessi quando la motivazione sia perplessa, poiché, in tal

caso ed in difetto di comprensione della linea argomentativa, parte appellante si affretta a censurare

periodo per periodo, con una parcellizzazione argomentativa tale da impedire sostanzialmente una

sintesi.

Ancora inammissibilità produce la carenza di interesse40, ex art. 100 c.p.c., alla doglianza od

dell'appellante in guisa tale da inficiarne il fondamento logico giuridico, come nel caso in cui lo svolgimento dei motivi sia compiuto in termini incompatibili con la complessiva argomentazione della sentenza, restando in tal caso superfluo l'esame dei singoli passaggi argomentativi. (Nell'affermare il suindicato principio la S.C., nel qualificare il motivo formalmente proposto per asserita violazione di legge come sostanzialmente prospettante la deduzione di una doglianza ex art. 112 e 345 cod. proc. civ., ha ritenuto essere stato dalla corte di merito correttamente giudicato inammissibile il motivo di gravame con il quale, nel censurare la declaratoria di inammissibilità della domanda pronunziata dal giudice di prime cure, l'appellante si era limitato a chiedere che il giudice dell'impugnazione emettesse pronunzia sul merito della domanda, a tale stregua omettendo di assolvere all'onere di investire la sentenza di primo grado con uno specifico motivo d'impugnazione sulla detta statuizione di inammissibilità, e di indicare perché la domanda era da considerarsi ammissibile, a tale stregua non evitando il formarsi del giudicato processuale interno)» (così CASS. CIV. sez. III, 31 maggio 2006, n. 12984; conformi CASS. CIV. sez. V, 9 aprile 2009, n. 8640, specificamente in materia tributaria; sez. III, 18 aprile 2007, n. 9244, nel senso che «nell'atto di appello, ossia nell'atto che, fissando i limiti della controversia in sede di gravame consuma il diritto potestativo di impugnazione, alla parte volitiva deve sempre accompagnarsi, a pena di inammissibilità del gravame, rilevabile d'ufficio e non sanabile per effetto dell'attività difensiva della controparte, una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice»; sez. III, 14 aprile 2006, n. 5445; sez. III, 24 novembre 2005, n. 24817, in motivazione, secondo cui «i motivi di gravame, per risultare idonei a contrastare la motivazione della sentenza impugnata, devono essere più o meno articolati, a seconda della maggiore o minore specificità nel caso concreto della medesima (v. Cass., 1 aprile 2004, n. 6403), potendo sostanziarsi pure nelle stesse argomentazioni addotte a suffragio della domanda disattesa dal primo giudice (v. Cass., 22 dicembre 2004, n. 23742)»; sez. III, 1 aprile 2004, n. 6403; Sez. I, 12 aprile 2001, n. 5493; Sez. Un., 29 gennaio 2000, n. 16).

24

40 «L'interesse all'impugnazione, il quale costituisce manifestazione del generale principio dell'interesse ad agire - sancito, quanto alla proposizione della domanda ed alla contraddizione alla stessa, dall'art. 100 cod. proc. civ. - va apprezzato in relazione all'utilità concreta derivabile alla parte dall'eventuale accoglimento del gravame, e non può consistere in un mero interesse astratto ad una più corretta soluzione di una questione giuridica, non avente riflessi

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ROMA 6 luglio 2010 all'impugnazione, sottesa spesso alla richiesta di censura di una argomentazione e non di una

statuizione, onde non v'è interesse ad un semplice mutamento di motivazione, ancorché quella

esposta sia effettivamente erronea. Detto altrimenti: l'impugnazione deve essere utile per

l'appellante, il che significa che deve portare ad un mutamento della statuizione in senso più

favorevole. Se tale risultato non può essere conseguito, per ciò stesso manca l'interesse alla

doglianza. Fermo restando il rilievo per cui è generica, e quindi inammissibile, la censura che non

colpisca l’intero arco argomentativo seguito dal giudice di primo grado, sul quale è fondata la

decisione assunta.

È sin troppo ovvio che inammissibile, ex art. 342 c.p.c., è il motivo generico, sia perché privo

di critiche alle argomentazioni della sentenza, sia perché – a volte capita – incluso solamente nelle

conclusioni, così da essere totalmente carente di alcuna argomentazione critica.

Un particolare aspetto dell'inammissibilità concernente i motivi sussiste in relazione

all'omesso deposito del fascicolo di parte, che nel testo previgente dell'art. 348 c.p.c. era fulminato

da improcedibilità. Si è già detto della scomparsa di tale sanzione con la riforma del 1990, ma non è

certo venuto meno il fatto storico dell'omesso deposito, che il giudice d’appello deve fronteggiare, e

che finisce per lo più in una statuizione di inammissibilità. Tale mancato deposito può comportare

l'assenza della sentenza impugnata in copia conforme ed integrale, con l'impossibilità di conoscere,

in tutto od in parte, il testo della pronuncia impugnata, non ricostruibile dagli atti e dalle allegazioni

della parte costituita. Ed allora in tal caso sussiste una genericità dei motivi di appello, ancorché

specificissimi ex se, per la carenza della necessaria relatio anzidetta, con la conseguenza

dell'inammissibilità per genericità dei motivi41. Ovvero, ma la conclusione non muta, inammissibile

sulla decisione adottata; sicchè è inammissibile, per difetto d'interesse, un'impugnazione con la quale si deduca la violazione di norme giuridiche, sostanziali o processuali, che non spieghi alcuna influenza in relazione alle domande o eccezioni proposte, e che sia diretta quindi all'emanazione di una pronuncia priva di rilievo pratico. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto inammissibile il motivo d'impugnazione avente ad oggetto l'omessa pronuncia da parte del giudice di appello in ordine alla censura con cui il ricorrente aveva fatto valere l'illegittimo riferimento del giudice di primo grado alle conclusioni da lui rassegnate in una memoria anteriore all'udienza di precisazione delle conclusioni, anzichè a quelle precisate in quest'ultima udienza, senza precisare il concreto pregiudizio che tale violazione di legge aveva arrecato all'esercizio dei suoi diritti nel processo)» (così CASS. CIV. sez. I, 19 maggio 2006, n. 11844; conformi CASS. CIV. sez. III, 6 aprile 2006, n. 8105; sez. I, 28 aprile 2006, n. 9877; sez. III, 26 luglio 2005, n. 15623; sez. III, 29 marzo 2004, n. 6202; sez. I, 27 gennaio 2006, n. 1755; sez. I, 8 agosto 2003, n. 11969; sez. II, 18 aprile 2001, n. 5702; sez. V, 8 settembre 2003, n. 13091; sez. III, 9 aprile 1999, n. 3472; Sez. III, 26 marzo 1999, n. 2895).

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41 «L'art. 348 cod. proc. civ., nella formulazione introdotta dalla legge 26 novembre 1990, n. 353, non contempla più la declaratoria di improcedibilità dell'appello in conseguenza della mancata presentazione nella prima udienza del fascicolo di parte e, quindi, della sentenza impugnata, né la possibilità di concedere all'appellante, che non abbia depositato detto fascicolo, una dilazione per giustificati motivi. Ne consegue che la mancanza in atti della sentenza impugnata, ancorché quest'ultima possa risultare indispensabile per ottenere una pronuncia di merito sul gravame, non implica comunque la declaratoria di improcedibilità dell'impugnazione, ma non consente neppure la rimessione della parte in termini per la sua produzione ovvero la rimessione della causa sul ruolo per consentirne

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ROMA 6 luglio 2010 è l'impugnazione in sé e per se considerata, in quanto non corrispondente al modello legale42. Ed è

la soluzione che mi pare preferibile.

La genericità-specificità dei motivi non deve essere riguardata solo in relazione alle

allegazioni esplicite di parte appellante, ma può accadere che vi siano motivi impliciti, non meno

specifici ed ammissibili di quelli espliciti. Un luogo topico di collocazione di questi ultimi é

rappresentato dalle capitolazioni di prove orali, ammissibili o meno che siano come mezzi di prova.

Tali capitolazioni spesso presuppongono o meglio implicano motivi di impugnazione altrettanto

specifici e utili di quelli espressi, e debbono di conseguenza essere considerati dal giudice di

appello, pur se le prove in cui sono incorporati siano inammissibili. Con l’effetto che, se essi

possono essere utili solo se supportati dalle prove non ammesse, allora dovranno essere rigettati nel

merito e non per inammissibilità. Il principio generale è quello secondo cui la specificità del motivo

di appello deve essere indagata con riferimento all'intero atto di appello, senza privilegiarne alcune

parti43.

4.4.‐ L'eventuale conversione dei motivi inammissibili L’ultimo tema in materia d'inammissibilità

dei motivi di appello, concerne le eccezioni implicite in un motivo inammissibile, eccezioni da

considerare senza limiti se si tratti di processo di vecchio rito; da considerare solo se eccezioni

improprie in caso di processo di nuovo rito. In queste ipotesi il giudice deve enucleare dal motivo

l'acquisizione, imponendo, pertanto, al giudice di appello l'emissione di una decisione di merito, ove questa sia possibile sulla base degli atti, ovvero, se il contenuto della sentenza impugnata non sia desumibile in modo inequivoco dall'atto di appello, di una decisione di inammissibilità per carenza degli elementi essenziali di tale atto e, segnatamente, della specificità dei motivi sotto il profilo della loro pertinenza alle "rationes decidendi"» (così CASS. CIV. Sez. II, 11 gennaio 2010, n. 238). 42 «L'art. 348 cod. proc. civ., nella formulazione introdotta dalla legge n. 353 del 1990, non contempla più la declaratoria di improcedibilità dell'appello in conseguenza della mancata presentazione nella prima udienza del fascicolo di parte e, quindi, della sentenza impugnata, e pertanto, in considerazione del principio di tassatività delle cause di improcedibilità, la mancanza in atti della sentenza impugnata, ancorché quest'ultima possa risultare indispensabile per ottenere una pronuncia di merito sul gravame, non implica comunque la declaratoria di improcedibilità dell'impugnazione, atteso che il giudice di appello è tenuto a una decisione di merito, ove questa sia possibile sulla base degli atti, ovvero, se il contenuto della sentenza impugnata non sia desumibile in modo inequivoco dall'atto di appello, a una decisione di inammissibilità per carenza degli elementi essenziali di tale atto, analoga alla dichiarazione di inammissibilità per genericità dei motivi» (così CASS. CIV. Sez. Lav., 28 gennaio 2009, n. 2171; conforme CASS. CIV. Sez. I, 2 luglio 2003, n. 10404).

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43 «L'indicazione dei motivi di appello richiesta dall'art. 342 cod. proc. civ. e, nel rito del lavoro, dall'art. 434 cod. proc. civ., non esige una parte espositiva formalmente autonoma ed unitaria, ma, in quanto funzionale all'individuazione delle censure mosse dall'appellante, può emergere anche indirettamente dalle argomentazioni svolte a sostegno dei motivi di impugnazione, ove questi forniscano gli elementi idonei a consentire l'individuazione dell'oggetto della controversia e delle ragioni del gravame. Inoltre, atteso il carattere devolutivo dell'appello e la mancanza in esso del principio di autosufficienza, tale requisito è soddisfatto mediante il rinvio circostanziato a singoli atti del processo, in modo da consentire al giudice, attraverso l'esame di tali atti (che si presumono noti), di acquisire gli elementi indispensabili per una precisa cognizione dei termini della controversa e dello svolgimento del processo» (così CASS. CIV. sez. lav. 20 agosto 2004, n. 16422; conformi CASS. CIV. sez. II, 5 aprile 2005, n. 7055; sez. III, n. 1 aprile 2004, 6403; sez. lav. 27 gennaio 2004, n. 1546, ma già CASS. CIV. 30 gennaio 1987, n. 887).

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ROMA 6 luglio 2010 inammissibile l’eccezione in essa implicita44 e, quando sia a sua volta ammissibile ex art. 345 c.p.c.,

pronunciare su di essa. Sempreché l'appello non verta su alcuna di quelle domande che non

consentono la proposizione di eccezioni45.

Così può darsi che un motivo di per sé generico, e quindi inammissibile, racchiuda al suo

interno un'eccezione impropria, ad esempio una questione di legittimazione processuale o

sostanziale; una decadenza rilevabile d'ufficio; un'eccezione di giudicato. In questi casi, si viene ad

avere un motivo di appello inammissibile, ma un'eccezione impropria ammissibile. Sempre che su

tale eccezione non vi sia stata una pronuncia del giudice di primo grado, perché in questo caso

occorre una impugnazione formalmente ammissibile, nel caso inesistente.

Tutto ciò se é perfettamente coerente con il rispetto di una pronuncia utile per le parti,

dimostra anche come la relatio fra argomentazione della sentenza impugnata - motivo di appello sia

oltremodo variegata, e richieda un'analisi di tutto rispetto, prima ancora che per la pronuncia di

merito, per la decisione sulla pretermissione della censura.

4.5.‐ I nova in appello Una causa rilevante d'inammissibilità è costituita dai nova, che debbono

esser considerati sotto un duplice aspetto: sia sotto il profilo della domanda o eccezione nuova, sia

sotto il profilo delle nuove prove.

Sulla domanda nuova non credo di dover spendere molte parole: è sin troppo noto in che cosa

consista una domanda giudiziale e quali ne siano gli elementi costitutivi, da comparare con quella, o

quelle, proposte originariamente. In questa sede basta sottolineare come non si debba confondere

una domanda nuova, cioè mai proposta, con una domanda ridotta, cioè proposta in appello come

riduzione di quella di primo grado. La prima è inammissibile, la seconda no, dal momento che

restringe, non amplia, il thema decidendum.

Non sembrerebbe necessaria neppure una speciale trattazione per le eccezioni ammissibili,

cioè solo quelle improprie, e inammissibili, cioè quelle proprie, se non ricordando la progressiva

44 cfr. CASS. CIV. 7 dicembre 1988, n. 6668 per il caso di contumace appellante, che proponga una riconvenzionale inammissibile; CASS. CIV. sez. II, 27 aprile 1993, n. 4932, per il caso in cui la parte che aveva proposto un’eccezione in primo grado formuli in appello una domanda inammissibile sulla base degli stessi fatti.

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45 come, ad esempio, nel caso di domanda ex art. 938 c.c. (CASS. CIV. sez. II, 17 giugno 1994, n. 5868); di domanda di maggior danno ex art. 1224 c.c. per il periodo intercorrente fra la sentenza di primo e quella di secondo grado, quando non sia stata proposta dinanzi al Tribunale (CASS. CIV. sez. I, 8 novembre 1995, n. 11600); di esercizio del diritto di ritenzione ex art. 1152 c.c. (CASS. CIV. 31 gennaio 1989, n. 601); «L'invocazione da parte del condividente che ha pagato un debito solidale dell'art. 1115 comma 3 c.c., onde conseguire nel giudizio di divisione un incremento della propria quota, pari al suo diritto verso gli altri condividenti, integra non una eccezione, ma una domanda volta all'accertamento del proprio diritto ed alla conseguente espansione della quota, che non può proporsi per la prima volta in appello per il divieto del "novum" di cui all'art. 345 c.p.c.» (così CASS. CIV. sez. II, 14 dicembre 1994, n. 10693); di risoluzione ex art. 1467 c.c. per eccessiva onerosità (CASS. CIV. 10 febbraio 1990, n. 955; sez. II, 30 gennaio 1995, n. 1090); di accertamento di estinzione di una servitù non più per prescrizione, come dedotto in primo grado, ma per cessazione dell’interclusione del fondo (CASS. CIV. sez. II, 4 giugno 1993, n. 6235).

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ROMA 6 luglio 2010 estinzione delle seconde a favore delle prime. Il che si traduce in un via via aumentato novero di

eccezioni proponibili ex novo in appello. Richiamo solamente il caso della c.d. exceptio soluti,

intorno alla quale usualmente le parti ingaggiano selvagge contese circa la sua ammissibilità. Del

tutto vanamente, perché la exceptio soluti … semplicemente non è un'eccezione: è una valutazione

del quadro probatorio acquisito, cioè è una mera argomentazione. Se dal quadro probatorio emerge

l'avvenuto adempimento, ciò significa solo che la parte postulante ha mancato all'onere della prova

in parte qua, quindi il giudice deve tener conto d'ufficio dell'onere della prova come regula iuris. In

altre parole: la prova, secondo il principio di acquisizione, ha una valenza oggettiva, dimostrando o

l'esistenza o l'inesistenza del debito. Quindi, la spendita di attività processuale in proposito è

semplicemente vana.

Il letto di Procuste del giudice di appello, in ordine ai nova, risiede nelle prove nuove: ormai

non v'è giudizio di appello che non ne contenga.

La situazione era dogmaticamente scorretta, ma processualmente chiara, e coerente con la

finalità acceleratoria del processo sanzionata dall'art. 111, co. 2 Cost., sino al 2005: erano

producibili senza limiti i documenti; erano inammissibili le altre prove, soprattutto quelle orali.

Ma, l'art. 345, co. 3 c.p.c. è norma di un'ambiguità esemplare: sono inammissibili nuove

prove salvo che siano giudicate dal collegio indispensabili. Il che val quanto dire che sono

ammissibili in appello le prove nuove indispensabili. La norma è ambigua perché verrebbe a

significare che in primo grado si possano o debbono ammettere anche le prove non indispensabili,

se vero è che in appello sono ammissibili solo quelle indispensabili. Oppure significa che esistono

gradi diversi di indispensabilità delle prove, fra il primo ed il secondo grado. Tutto ciò è

ovviamente assurdo sul piano logico, prima che confliggente con il principio del giusto processo ex

art. 111 Cost.

La realtà logica e giuridica è che sono indispensabili le prove rilevanti, e rilevanti sono sia

in primo che in secondo grado. Di conseguenza, l'art. 345, co. 3 c.p.c. afferma che in appello sono

ammissibili le prove rilevanti, cioè le stesse che tali sono in primo grado. E poiché l'indispensabilità

supera qualsiasi barriera formale, quale la producibilità o la decadenza in primo grado, significa che

è sufficiente dedurre in (o riservare all') appello prove indispensabili-rilevanti per spostare al

secondo grado un'istruttoria che avrebbe dovuto esser svolta in primo.

A fronte di una tal situazione sono intervenute le note sentenze "chiarificatrici" della

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ROMA 6 luglio 2010 Suprema Corte46, che hanno oscurato definitivamente il panorama. O per meglio dire hanno

introdotto il canone – a mio giudizio – assolutamente non condivisibile, costituito dalla

indispensabilità per convincimento del giudice.

In altre parole: l'indispensabilità finisce di essere la chiave mediante la quale il giudice di

appello sceglie chi intenda far vincere. Il che è esattamente quanto accade.

Con il risultato che l'ammissibilità, o l'inammissibilità, per indispensabilità, o meno, dalla

prova si trasferisce sull'impugnazione o sul motivo di appello da quella prova dipendente. Quindi si

è costruita un'inammissibilità per convincimento del giudice. Il che – mi si perdoni il bisticcio –

ritengo essere del tutto inammissibile, perché ciò è basato sul gioco aleatorio di mille fattori del

tutto estranei alla conformità della decisione a legge.

Osservo di passata che l'interpretazione giurisprudenziale della indispensabilità non è affatto

obbligata dalla norma, che ben può essere letta in chiave diversa, rispettosa dei principi di cui

all'art. 111 Cost., e delle esigenze di difesa della parte, senza peraltro sacrificare il principio di

progressione del giudizio fra i primi due gradi. Nel nostro ordinamento esiste un'altra applicazione

dell'indispensabilità della prova, ed è quella di cui all'art. 395, n. 3 c.p.c. Si tratta di quella prova

nuova, fondante il giudizio di revocazione, che da sola sia in grado di capovolgere la decisione

assunta. Codesta è sicuramente una prova indispensabile, che sarebbe illogico ed assurdo riservare

alla revocazione, quando la parte già ne disponga in secondo grado; possa produrla così da impedire

una non necessaria vicenda processuale ulteriore. Ma l'indispensabilità della prova in appello deve

essere calata nel quadro processuale proprio di quel grado, quindi è una indispensabilità specifica

dell'appello. Invero, la prova indispensabile dedotta in appello è un motivo di impugnazione,

quindi deve essere specifico, come s'è detto sopra. Quindi la prova indispensabile d'appello deve

dipendere dalla ratio decidendi enunciata dalla sentenza impugnata, secondo la relatio anzidetta.

A questo punto tutti i dati del problema tornano al loro posto: la prova di primo grado è

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46 «Nel rito ordinario, con riguardo alla produzione di nuovi documenti in grado di appello, l'art. 345, terzo comma, cod.proc.civ. va interpretato nel senso che esso fissa sul piano generale il principio della inammissibilità di mezzi di prova <nuovi> - la cui ammissione, cioè, non sia stata richiesta in precedenza - e, quindi, anche delle produzioni documentali, indicando nello stesso tempo i limiti di tale regola, con il porre in via alternativa i requisiti che tali documenti, al pari degli altri mezzi di prova, devono presentare per poter trovare ingresso in sede di gravame (sempre che essi siano prodotti, a pena di decadenza, mediante specifica indicazione degli stessi nell'atto introduttivo del giudizio di secondo grado, a meno che la loro formazione non sia successiva e la loro produzione non sia stata resa necessaria in ragione dello sviluppo assunto dal processo): requisiti consistenti nella dimostrazione che le parti non abbiano potuto proporli prima per causa ad esse non imputabile, ovvero nel convincimento del giudice della indispensabilità degli stessi per la decisione. Peraltro, nel rito ordinario, risultando il ruolo del giudice nell'impulso del processo meno incisivo che nel rito del lavoro, l'ammissione di nuovi mezzi di prova ritenuti indispensabili non può comunque prescindere dalla richiesta delle parti» (così CASS. CIV., sez. unite, 20 aprile 2005, n. 8203; conformi CASS. CIV. sez. I, 5 agosto 2005, n. 16526; sez. V, 13 gennaio 2006, n. 622; sez. III, 18 gennaio 2006, n. 824; sez. III, 20 gennaio 2006, n. 1120).

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ROMA 6 luglio 2010 rilevante in quanto indispensabile, secondo le prospettazioni date della parti; la prova di secondo

grado è indispensabile in quanto sia da sola idonea a rovesciare il decisum di primo grado, in tutto

od in parte; la indispensabilità di secondo grado non deve dipendere da negligenza, o peggio, della

parte, perché in tal modo si frazionerebbe illegittimamente l'unità della prova, ma deve essere

indispensabile in relazione alla ratio decidendi enunciata dalla sentenza di primo grado. Il che

vale a distinguere fra la prova nuova indispensabile della revocazione, che deve essere noviter

reperta, rispetto alla prova nuova indispensabile dell'appello, che, seppure disponibile anche in

primo grado, dipende dalla ratio decidendi della sentenza, così tornando al tema – squisitamente

d'appello – della specificità dei motivi, e quindi delle prove. Infine: l'indispensabilità delle prove in

appello è condizionata dalla loro specificità rispetto alla ratio decidendi.

4.6.‐ L'omessa integrazione del contraddittorio La sanzione di inammissibilità dell'intera

impugnazione è prevista esplicitamente per l'omessa integrazione del contraddittorio in cause

inscindibili, ex art. 331, co. 2 c.p.c.

In proposito v'è assai poco da dire.

Innanzitutto, occorre chiarire che l'applicazione dell'art. 331 c.p.c. presuppone l'omessa

chiamata in causa di alcuna parte che sia litisconsorte sostanziale o processuale47 ed abbia

partecipato al giudizio di primo grado, poiché solo in questo caso il giudice ha il potere di

provvedere alla integrazione ex officio in appello.

Ma in questo caso occorre che le notifiche effettuate, ancorché non tutte le parti appellate ne

siano state attinte, siano valide. La norma, invero, è applicabile nel solo caso in cui la «sentenza

non è stata impugnata nei confronti di tutte» le parti. Ora, una sentenza può dirsi impugnata

quando ovviamente il contraddittorio sia stato validamente instaurato almeno con alcuna delle parti

appellate. Ma non può dirsi impugnata quando alcuna delle notifiche effettuate sia nulla, o

inesistente, ovvero non ne sia provata la validità: in tale ipotesi l'art. 331 c.p.c. è inapplicabile e

30

47 «In tema di impugnazioni civili, l'obbligatorietà della integrazione del contraddittorio presuppone sempre che si tratti, ai sensi dell'art. 331 c.p.c., di cause inscindibili o tra loro dipendenti, e cioè che ricorra una ipotesi di litisconsorzio necessario sostanziale o che le cause, essendo state decise in primo grado in un unico processo, debbano rimanere unite nella fase di gravame, in quanto la pronuncia sull'una si estende in via logica e necessaria all'altra, ovvero ne costituisce il presupposto logico giuridico imprescindibile, come ad esempio tutte le volte in cui venga prospettata una responsabilità alternativa e nel caso di obbligazioni solidali interdipendenti, pur se derivanti da titoli diversi. Quando invece la decisione del giudizio di primo grado sulle domande promosse da soggetti diversi sia avvenuta all'esito di una autonoma valutazione dei rispettivi titoli dedotti in giudizio (del tutto distinti ancorché analoghi), tra le due cause cui quelle domande hanno dato vita non sussiste alcuna relazione di dipendenza e, quindi, non si rende obbligatoria l'integrazione del contraddittorio in sede di gravame» (così CASS. CIV. Sez. II, 13 agosto 2004, n. 15734; conformi CASS. CIV. sez. V, 26 ottobre 2007, n. 22523; sez. II, 17 ottobre 2007, n. 21832; sez. V, 19 gennaio 2007, n. 1225; sez. III, 6 marzo 2006, n. 4794; sez. I, 23 settembre 2005, n. 18674).

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ROMA 6 luglio 2010 l'appello è – tout court – inammissibile48, alla stregua del principio del giusto processo di cui all'art.

111 Cost. In concreto un contraddittorio, anche solo parzialmente, monco equivale ad un

contraddittorio inesistente in ipotesi di litisconsorzio, con la conseguenza dell'inammissibilità

dell'appello.

Per completare la panoramica relativa all'integrazione del contraddittorio si deve rammentare

l'equipollenza della riunione dei processi all'integrazione del contraddittorio, ciò nel caso in

cui più parti abbiano proposto appelli principali, alcuni dei quali destinati a divenire incidentali,

separati: in tale ipotesi la riunione necessaria ex art. 335 c.p.c. è equivalente alla integrazione del

contraddittorio, che non è più necessario disporre49, posto che nell'unico processo le parti

riassumono la posizione di vicendevoli contraddittori.

In caso di mancata impugnazione contro litisconsorti, quindi, il giudice d’appello deve

disporre l'integrazione, fissando un termine all'uopo, che è perentorio, sicché la sua inottemperanza

determina l'inammissibilità dell'appello (art. 331, co. 2 c.p.c.).

È raro che la parte, cui spetta, non integri il contraddittorio come disposto dal giudice di

appello, pur se, magari, protesti e ritenga erroneo l'ordine, tenuto conto della gravità della sanzione,

che determina il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado.

Si deve rammentare la perentorietà e la non rinnovabilità, a termine scaduto, del temine

fissato per l'integrazione, che sono le cause dell'inammissibilità dell'appello. Il termine, tuttavia, è

prorogabile a due condizioni: che l'istanza sia anteriore alla scadenza, e che sia fondata su di una

48 «L'art. 331 cod. proc. civ., in virtù del quale il giudice deve ordinare d'ufficio l'integrazione del contraddittorio quando l'impugnazione della sentenza pronunciata in cause inscindibili o dipendenti non sia avvenuta nei confronti di tutte le parti, trova applicazione solo quando l'atto di impugnazione sia stato notificato soltanto ad alcuni dei litiganti. Tale norma invece non si applica quando la parte impugnante abbia correttamente individuato tutti i contraddittori, ma poi abbia eseguito nei loro confronti una notificazione nulla, inesistente, oppure della cui validità non vi è prova agli atti. Pertanto, ove il ricorrente per cassazione ometta di depositare nei termini l'avviso di ricevimento della notificazione del ricorso effettuata a mezzo del servizio postale, non potendosi applicare in via analogica l'art. 331 cod. proc. civ. per difetto della "eadem ratio", ed alla luce del principio costituzionale della ragionevole durata del processo, di cui all'art. 111 Cost., l'impugnazione dev'essere dichiarata inammissibile, ferma restando la facoltà della parte interessata di invocare la rimessione in termini "ex" art. 184 bis cod. proc. civ., previa la debita dimostrazione che l'omessa produzione del suddetto avviso di ricevimento non è dipesa da propria colpa» (così CASS. CIV. Sez. III, 10 novembre 2008, n. 26889, conformi CASS. CIV. sez. III, 13 maggio 2009, n. 11053; sez. un. 14 gennaio 2008, n. 627; Sez. V, 19 gennaio 2007, n. 1225).

31

49 «Qualora taluna delle impugnazioni separatamente proposte da due o più parti soccombenti contro la medesima sentenza non risulti notificata ad un litisconsorte necessario, il quale abbia però a sua volta impugnato la decisione, l'obbligatoria riunione delle distinte impugnazioni ai sensi dell'art. 335 cod. proc. civ. esclude che debba ordinarsi l'integrazione del contraddittorio nei confronti del predetto litisconsorte, il quale, per effetto della disposta riunione, è già parte dell'ormai unitario giudizio, e dunque in condizione di contraddire sull'intera materia di lite» (così CASS. CIV. sez. I, 20 gennaio 2006, n. 1180; conformi CASS. CIV. sez. I, 31 agosto 2005, n. 17592; sez. III, 27 febbraio 2002, n. 2910).

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ROMA 6 luglio 2010 situazione di incolpevolezza della parte instante50.

Il giudice d’appello, tuttavia, non deve limitarsi a verificare che la notifica sia stata eseguita

nei termini prescritti, ma anche nel luogo deputato. Si deve infatti rammentare che la

domiciliazione del difensore permane solamente per la durata di un anno dalla pubblicazione

della sentenza appellata, quando la notificazione dell'atto di appello, in via ordinaria o per

integrazione, avvenga oltre tale termine, la notifica deve essere effettuata al domicilio della parte

personalmente. Diversamente, in caso di mancata costituzione del chiamato, la notifica sarà nulla e

l'integrazione sarà mancata, con la conseguente inammissibilità51.

Quando tali condizioni, enucleate dai principi del giusto processo, manchino, l'effetto

ineluttabile è quello dell'inammissibilità dell'appello.

5.‐ GLI EFFETTI DI IMPROCEDIBILITÀ ED INAMMISSIBILITÀ, ANCHE SULLE

IMPUGNAZIONI INCIDENTALI

Ci si deve chiedere quali siano gli effetti di una pronuncia di improcedibilità o inammissibilità 50 «Quando il giudice, anche in sede di legittimità, abbia pronunziato l'ordine di integrazione del contraddittorio in causa inscindibile e la parte onerata non via abbia provveduto (ovvero vi abbia ottemperato solo parzialmente, evocando in giudizio soltanto alcuni dei litisconsorti pretermessi), non è consentita l'assegnazione di un nuovo termine per il completamento della già disposta integrazione, poiché tale assegnazione equivarrebbe alla concessione di una proroga del termine perentorio precedentemente fissato, la quale è vietata espressamente dall'art. 153 cod. proc. civ. A tale regola, desumibile dal combinato disposto degli artt. 331 e 153 cod. proc. civ., è possibile derogare solo quando l'istanza di assegnazione di un nuovo termine (presentata anteriormente alla scadenza di quello in un primo tempo concesso) si fondi sull'esistenza, idoneamente comprovata, di un fatto non imputabile alla parte onerata o, comunque, risulti che la stessa non sia stata in colpa con riferimento all'ignoranza della residenza dei soggetti nei cui confronti il contraddittorio avrebbe dovuto essere integrato. (Nella specie, la S.C. ha dichiarato l'inammissibilità del ricorso, avendo escluso la circostanza da ultimo richiamata, poiché, nella pendenza del concesso termine di sessanta giorni, quando era ancora possibile al ricorrente completare altra forma consentita di notificazione secondo il modello di cui all'art. 143 cod. proc. civ., questa non era stata nemmeno tentata con richiesta all'ufficiale giudiziario in tal senso)» (così CASS. CIV. Sez. III, 15 gennaio 2007, n. 637; conforme CASS. CIV. Sez. II, 27 ottobre 2008, n. 25860, secondo la quale: «In tema di notificazioni, la perentorietà del termine d'integrazione del contraddittorio, concesso ex art. 331 cod. proc. civ., per provvedere, in fase d'impugnazione, alla notificazione al litisconsorte pretermesso, può essere prorogato in virtù dell'interpretazione costituzionalmente orientata della predetta norma processuale solo in presenza di una situazione di forza maggiore certa ed obiettiva che ne abbia impedito l'osservanza. Non ricorre tale condizione quando la parte abbia negligentemente richiesto la notificazione all'ufficiale giudiziario solo due giorni prima della scadenza in quanto il termine concesso dal giudice svolge anche la funzione di consentire le indagini anagrafiche eventualmente necessarie e di rimediare ad eventuali errori del procedimento di notificazione (nel caso di specie, la Corte ha ritenuto colpevole il comportamento della parte che aveva confidato in una indicazione anagrafica desunta da altro procedimento con la stessa parte svoltosi in epoca molto lontana)»). 51 «Nei giudizi di impugnazione, la notificazione dell'atto di integrazione del contraddittorio in cause inscindibili ai sensi dell'art. 331 cod. proc. civ., qualora sia decorso oltre un anno dalla data di pubblicazione della sentenza, deve essere effettuata alla parte personalmente e non già al procuratore costituito davanti al giudice che ha emesso la sentenza impugnata. Tuttavia la notificazione fatta al procuratore, integrando una mera violazione della prescrizione in tema di forma, e non già l'impossibilità di riconoscere nell'atto la rispondenza al modello legale della sua categoria, dà luogo a una nullità sanabile, ai sensi dell'art. 160 cod. proc. civ., con conseguente operatività dei rimedi della rinnovazione (artt. 162, 291 cod. proc. civ.) o della sanatoria (artt. 156, terzo comma, 157,164 cod. proc. civ.)» (così CASS. CIV. sez. un. 1 febbraio 2006, n. 2197; conformi CASS. CIV. sez. lav. 26 giugno 2009, n. 15050; sez. III, 1

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ROMA 6 luglio 2010 dell'impugnazione, cioè di una sentenza che ha un contenuto meramente in rito, non di merito.

L'art. 358 c.p.c. è chiaro: un appello dichiarato improcedibile o inammissibile non può

essere riproposto, anche se i termini non siano ancora scaduti. È l'attuazione del principio della

consumazione del diritto di impugnazione.

Ciò non significa che vi sia una preclusione assoluta alla riproposizione dell'impugnazione,

possibile a due condizioni: ovviamente che i termini per appellare non siano ancora decorsi, e

poi che il giudice d’appello non abbia dichiarato formalmente l'improcedibilità o

l'inammissibilità dell'originaria impugnazione. La norma, infatti, sancisce l'effetto conseguente

alla consumazione del diritto di impugnazione solo a seguito della declaratoria52 da parte del giudice

d’appello [dichiarato inammissibile o improcedibile].

In tali casi, di reiterazione dell'impugnazione, principale o incidentale, anteriormente alla

declaratoria di improcedibilità o inammissibilità, tuttavia, si profila un'altra fattispecie di

inammissibilità, questa volta per la seconda impugnazione, costituita dal termine. Si deve, infatti,

rammentare che, in assenza di notifica della sentenza ex art. 285 c.p.c., decorre il termine lungo di

appello, ma tale termine, per la parte notificante, si accorcia quello breve nel momento in cui

detta parte notifica l'appello inammissibile53, sicché l'appello ammissibile deve essere proposto

entro 30 giorni dalla notifica di quello inammissibile, ma non ancora dichiarato tale. Solo in questo

modo il secondo appello è ammissibile, quanto ai termini di impugnazione.

La seconda questione tocca i riflessi della statuizione espressa d'improcedibilità o

inammissibilità dell'appello principale sull'appello incidentale. Il tema è piuttosto spinoso, a fronte ottobre 2004, n. 19659; sez. I, 23 aprile 2004, n. 7746; sez. III, 21 novembre 2000, n. 15023; Sez. II, 22 aprile 1999, n. 4027). 52 «Stante l'espressa previsione degli artt. 358 e 387 c.p.c., la consumazione del potere di impugnazione presuppone l'esistenza di due impugnazioni della stessa specie nonché, al tempo della proposizione della seconda, una declaratoria di inammissibilità della precedente; pertanto non si ha consumazione del potere di impugnazione quando il suo esercizio sia stato preceduto da una impugnazione di diversa specie» (così CASS. CIV. Sez. Un., 15 novembre 2002, n. 16162; conformi CASS. CIV. Sez. I, 14 marzo 2007, n. 5927; sez. II, 14 maggio 2003, n. 7406; Sez. Lav., 23 gennaio 1998, n. 643; Sez. III, 20 giugno 1985, n. 3713; Sez. Lav., 19 gennaio 1985, n. 177; Sez. III, 3 novembre 1984, n. 5577). 53 «La notificazione dell'impugnazione equivale - agli effetti della scienza legale - alla notificazione della sentenza oggetto di impugnazione. Da ciò consegue che, ove il soccombente in primo grado proponga, avverso la relativa sentenza non notificata, una prima impugnazione davanti al giudice di appello e, successivamente, ritenendo la medesima sentenza ricorribile soltanto per cassazione, una seconda impugnazione mediante ricorso in sede di legittimità, quest'ultimo, in tanto può essere ritenuto ammissibile e tempestivo, in quanto sia proposto entro il termine breve decorrente dalla notificazione dell'originario atto di appello» (così CASS. CIV. sez. III, 29 gennaio 2010, n. 2055; conformi CASS. CIV. Sez. Lav., 7 settembre 1993, n. 9393; sez. I, 5 giugno 1998, n. 5548; Sez. III, 22 ottobre 2003, n. 15797; sez. I, 30 agosto 2004, n. 17411; sez. III, 18 maggio 2005, n. 10388; con specifico riferimento al grado di appello, Sez. III, 18 gennaio 2006, n. 835, secondo la quale «Nell'ipotesi in cui la stessa parte abbia proposto, avverso la medesima sentenza, due successivi appelli, il primo dei quali inammissibile, senza tuttavia che, alla data di proposizione del secondo gravame, detta inammissibilità sia stata dichiarata (realizzandosi, in tal caso,

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ROMA 6 luglio 2010 di una situazione di conflitto interno alla Suprema Corte.

Intanto, occorre distinguere fra inammissibilità ed improcedibilità dell'appello principale,

atteso che l'art. 334, co. 2 c.p.c. dispone solo in ordine alla inammissibilità, non anche alla

improcedibilità della principale impugnazione. Statuisce la norma che, in caso di inammissibilità

dell'impugnazione principale, inefficace diviene quella incidentale, senza distinguere fra

impugnazione incidentale tardiva o meno, pur se il comma sia inserito in un articolo titolato con

riferimento alle impugnazioni incidentali tardive.

La ratio della norma risiede nell'eccezionalità dell'automatica rimessione in termini per

l'appello incidentale tardivo: se tale appello è ammissibile anche oltre i termini di proposizione, lo è

solo per l'avvenuta alterazione dell'assetto degli interessi determinata dall'appello principale, donde

la conseguenza per cui se quest'ultimo è inammissibile anche quello incidentale diviene inefficace,

così ripristinandosi l'equilibrio che aveva generato la (temporanea) acquiescenza originaria di parte

appellante incidentale54.

In sostanza, verrebbe meno l'interesse per parte appellante incidentale all'appello incidentale.

Invero, se l'assetto degli interessi, conseguente alla sentenza di primo grado, era stato ritenuto

complessivamente soddisfacente dalla parte vittoriosa, ancorché non lo fosse integralmente, sicché

non aveva ritenuto di proporre appello principale acconciandosi all'incidentale solo a fronte

dell'iniziativa di controparte, nel momento in cui l'appello principale è dichiarato inammissibile si

ripristina l'equilibrio iniziale, e quindi l'interesse, generato unicamente dalla proposizione

dell'appello principale, viene meno. Non a caso la norma ha riferimento all'inefficacia dell'appello

incidentale, atteso che l'ammissibilità, ancorché esso sia tardivo, è stabilita ope legis, con l'anzidetta

rimessione in termini.

Tutto questo sarebbe lineare, se non si presentasse una situazione di conflitto

giurisprudenziale in ordine alla omologa vicenda di un appello incidentale tardivo, a fronte di un

appello principale improcedibile.

La giurisprudenza di legittimità s'era divisa fra una linea che estendeva la norma di cui all'art.

334, co. 2 c.p.c. anche alla fattispecie dell'improcedibilità, ed un'altra, restrittiva, che escludeva tale

applicazione estensiva.

l'effetto della consumazione dell'impugnazione), il termine per la proposizione della seconda impugnazione è quello breve, decorrente dalla notificazione della prima impugnazione»).

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54 In questo senso CARBONE, Improcedibilità del ricorso principale e tardività dell'incidentale, in CORRIERE GIUR. 2008, 6, 753.

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ROMA 6 luglio 2010 Per por fine al conflitto sono intervenute le Sezioni Unite nel 200855, che hanno svincolato i

due termini del problema. Mentre l'inefficacia dell'appello incidentale dipende dall'inammissibilità

dell'appello principale, l'improcedibilità di quest'ultimo non genera l'improcedibilità o l'inefficacia

derivata dell'incidentale. Il quale tuttavia diviene inefficace, non in forza dell'applicazione

analogica dell'art. 334, co. 2 c.p.c., ma - sostanzialmente – per il venir meno dell'interesse di parte

appellante incidentale alla propria impugnazione. Quindi, le Sezioni Unite non estendono

l'applicazione dell'art. 334, co. 2 c.p.c., oltre il caso regolato, ma utilizzano la ratio dell'inefficacia

dell'appello incidentale in quel caso, anche in questo.

La soluzione non pare entusiasmante, anche se si pone entro l'alveo interpretativo,

ripetutamente dichiarato dalla Suprema Corte in questi ultimi anni, incentrato su di una

applicazione diretta ed estremamente diffusa dei principi del giusto processo di cui all'art. 111 Cost.

in chiave – anche disinvoltamente – riformatrice. Ed infatti, qualche mese dopo l'intervento delle

Sezioni unite si è riaperto il conflitto, una pronuncia s'è allineata, ed un'altra ha fatto salvo l'appello

incidentale tardivo in caso di improcedibilità, così allineandosi a parte della dottrina56.

Se tutto ciò, da un lato, può apparire del tutto teorico, dal momento che – nella pratica – a

fronte di un appello principale improcedibile, parte appellata è pronta a rinunciare al proprio

appello incidentale pur di conseguire il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado,

tuttavia ciò non accade nel caso di appello incidentale, tale divenuto per conservazione degli atti

processuali e per trasformazione da un appello principale successivo al primo.

55 «Qualora il ricorso principale per cassazione venga dichiarato improcedibile, l'eventuale ricorso incidentale tardivo diviene inefficace, e ciò non in virtù di un'applicazione analogica dell'art. 334, secondo comma, cod. proc. civ. - dettato per la diversa ipotesi dell'inammissibilità dell'impugnazione principale - bensì in base ad un'interpretazione logico-sistematica dell'ordinamento, che conduce a ritenere irrazionale che un'impugnazione (tra l'altro anomala) possa trovare tutela in caso di sopravvenuta mancanza del presupposto in funzione del quale è stata riconosciuta la sua proponibilità» (così CASS. CIV. sez. un. 14 aprile 2008, n. 9741; conforme CASS. CIV. sez. I, 6 agosto 2008, n. 21254, ma contra: «In base al combinato disposto degli artt. 334, 343 e 371 cod. proc. civ., è ammessa l'impugnazione incidentale tardiva (da proporsi con l'atto di costituzione dell'appellato o con il controricorso nel giudizio di cassazione) anche quando sia scaduto il termine per l'impugnazione principale, e persino se la parte abbia prestato acquiescenza alla sentenza, indipendentemente dal fatto che si tratti di un capo autonomo della sentenza stessa e che, quindi, l'interesse ad impugnare fosse preesistente, dato che nessuna distinzione in proposito è contenuta nelle citate disposizioni; l'unica conseguenza sfavorevole dell'impugnazione cosiddetta tardiva è che essa perde efficacia se l'impugnazione principale è dichiarata inammissibile» (così CASS. CIV. Sez. III, 11 giugno 2008, n. 15483). Non ha preso posizione esplicita una terza sentenza, che sembra però inclinare per la posizione dissidente: «La norma dell'art. 334, secondo comma, cod. proc. civ. - in base al quale, se l'impugnazione principale viene dichiarata inammissibile, l'impugnazione incidentale tardiva perde efficacia - trova applicazione nei soli casi di inammissibilità dell'impugnazione in senso proprio, per mancata osservanza del termine per impugnare ovvero degli adempimenti richiesti dalla legge processuale a pena di inammissibilità (nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di secondo grado che, dichiarando l'inammissibilità dell'appello principale in conseguenza dell'inammissibilità della proposizione della domanda proposta dall'appellante, in quanto coperta da giudicato, aveva ugualmente esaminato il merito, ed accolto l'appello)» (così CASS. CIV. sez. II, 5 settembre 2008, n. 22385).

3556 cfr. CONSOLO, LUISO, SASSANI, p. cit., p. 292.

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ROMA 6 luglio 2010 Le considerazioni che precedono, infatti, presupponevano un appello incidentale tipico, cioè

dipendente da quello principale, mirato a contrastarlo ed a conservare gli equilibri sostanziali

generati dalla sentenza di primo grado ed inserito nell'unico processo iniziale. Ma vi può essere un

appello incidentale autonomo, proposto nelle forme dell'appello principale, e divenuto incidentale

solo perché altra impugnazione principale era ad esso anteriore. Sicché riuniti i processi contro la

stessa sentenza, gli appelli principali successivi al primo acquistano tutti natura di appelli

incidentali57. Ed allora, se l'appello qualificato come principale è inammissibile, non v'è problema,

anche l'appello incidentale autonomo diviene inefficace ex art. 334, co. 2 c.p.c., pur a fronte di un

dichiarato interesse all'impugnazione indipendente dall'appello principale.

La questione è più delicata – e dimostra l'apprezzabilità della decisione ribelle alle Sezioni

Unite – nel caso d'improcedibilità dello appello principale: come si potrebbe predicare la

sopravvenuta carenza di interesse per appelli (divenuti casualmente) incidentali, ma che, per il fatto

stesso di esser stati proposti nelle forme di un appello principale, debbono essere tempestivi?

È chiaro come in tal caso appare essere più consona ai principi del giusto processo la

posizione contraria a quella delle Sezioni Unite, con il mantenimento dell'autonomia ed efficacia

degli appelli incidentali – in tesi – tempestivi.

In questa sede appare utile segnalare il problema, certamente di non facile, e, soprattutto,

appagante soluzione, per mettere in guardia contro la tendenza ad appiattire la complessità

processuale sotto una comoda e generalizzata applicazione dell'art. 334, co. 2 c.p.c.

6.‐ L'IMPROCEDIBILITÀ ED INAMMISSIBILITÀ CIRCA LA REVOCAZIONE

Sul procedimento di revocazione di cui agli artt. 395 e ss c.c. e considerato sotto l'angolo di

questo intervento, non v'è molto da dire, viene in rilievo quanto s'è già detto in ordine al rito di

appello, proprio in riferimento all'art. 400 c.p.c., concernente il procedimento di revocazione.

Quanto s'è detto in ordine all'improcedibilità è automaticamente esteso anche al

procedimento in esame, con l'avvertenza che la sanzione colpisce il mancato rispetto di termini

diversi, rispetto a quelli propri del rito d'appello. Infatti, improcedibile è la revocazione in cui parte

36

57 «Nel vigente sistema processuale, l'impugnazione proposta per prima assume la qualifica d'impugnazione principale e determina la pendenza dell'unico processo nel quale sono destinate a confluire tutte le impugnazioni proposte contro la medesima sentenza. Le impugnazioni successive alla prima rivestono, pertanto, carattere di impugnazioni incidentali - pur se irritualmente proposte nella forma dell'impugnazione principale - sia che si tratti di impugnazioni incidentali tipiche, sia che si tratti di impugnazioni incidentali autonome, dirette cioè a tutelare un interesse non nascente dal gravame, ma rivolte contro un capo autonomo e diverso della pronuncia, con la conseguenza che, nel caso di appello, le impugnazioni successive alla prima, le quali, anziché essere proposte nelle forme e nei termini di cui all'art. 343 cod. proc. civ., siano state introdotte in via autonoma, non sono inammissibili, ma si convertono, per il principio di conservazione degli atti giuridici, in gravami incidentali, purché proposte nel termine prescritto per quest'ultima impugnazione» (così CASS. CIV. sez. I, 14 novembre 2001, n. 14167).

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ROMA 6 luglio 2010 attrice non si costituisce entro il termine fisso di gg. 20 dalla notifica della citazione. Ed entro il

medesimo termine deve costituirsi parte convenuta (art. 399, co. 1 c.p.c.).

L'inammissibilità, invece, assume una dimensione peculiare e, per alcuni versi, maggiore.

Certamente nel procedimento di revocazione non si possono dare appelli incidentali, con le loro

problematiche, atteso che la posizione di parte convenuta è sempre e solo di resistenza all'iniziativa

in revocazione di parte attrice. Neppure si danno problemi soverchi in ordine alle parti da

convenire, che sono quelle partecipanti al giudizio che ha messo capo alla sentenza revocanda.

Salvo il solito problema derivante dalla estinzione di società, già parti, e successivamente

cancellate, che ovviamente non potranno partecipare al giudizio.

Ricorre, in questo caso, un'ipotesi d'inammissibilità prima facie, sussistente nel caso in cui la

citazione per revocazione non indichi espressamente a quale delle ipotesi di cui all'art. 395 c.p.c.

intenda fare riferimento, e quali siano le prove relative. Tale omissione comporta l'inammissibilità

dell'azione, per il solo fatto di esistere, ex art. 398, co. 2 c.p.c.

Ove tale primo controllo sia superato, la sanzione colpisce, nello specifico, la domanda stessa

di revocazione, quando sia proposta o al di fuori delle ipotesi tassativamente indicate dall'art. 395

c.p.c., ovvero entro quell'ambito ma il caso dedotto non rivesta tutti i caratteri della

fattispecie indicata.

Basta pensare – ad esempio – all'errore di fatto (art. 395, n. 4 c.p.c.) che deve concernere un

dato di fatto che non sia stato oggetto di decisione58, e sia stato semplicemente presupposto in modo

erroneo dal giudice59; deve essere legato da un nesso di causalità logica con la statuizione60, per

58 «L'errore di fatto, che legittima l'impugnazione per revocazione ex art. 395 cod. proc. civ., consiste in una falsa percezione della realtà, in un errore, cioè, obiettivamente e immediatamente rilevabile, tale da aver indotto il giudice ad affermare l'esistenza di un fatto decisivo incontestabilmente escluso dagli atti o dai documenti di causa, ovvero l'inesistenza di un fatto decisivo positivamente accertato in essi, sempre che tale fatto non abbia costituito un punto controverso sul quale sia intervenuta adeguata pronuncia» (così CASS. CIV. Sez. I, 9 maggio 2007, n. 10637; conforme CASS. CIV. Sez. I, 25 giugno 2008, n. 17443, nel senso che l'errore «deve consistere in una falsa percezione di quanto emerge dagli atti sottoposti al suo giudizio, concretatasi in una svista materiale su circostanze decisive, emergenti direttamente dagli atti con carattere di assoluta immediatezza e di semplice e concreta rilevabilità, con esclusione di ogni apprezzamento in ordine alla valutazione in diritto delle risultanze processuali»).

37

59 «L'errore di fatto idoneo a costituire motivo di revocazione ai sensi dell'art. 395, n. 4, cod. proc. civ., si configura come una falsa percezione della realtà, e pertanto consiste in un errore meramente percettivo che in nessun modo coinvolge l'attività valutativa del giudice di situazioni processuali esattamente percepite nella loro oggettività; ne consegue che non è configurabile l'errore revocatorio per vizi della sentenza che investano direttamente la formulazione del giudizio sul piano logico-giuridico» (così CASS. CIV. Sez. lavoro, 15 gennaio 2009, n. 844; conformi CASS. CIV. Sez. I, 7 febbraio 2007, n. 2713, nel senso che l'errore di fatto «deve consistere in un errore di percezione e deve avere rilevanza decisiva, oltre a rivestire i caratteri dell'assoluta evidenza e della rilevabilità sulla scorta del mero raffronto tra la sentenza impugnata e gli atti o documenti del giudizio, senza che si debba, perciò, ricorrere all'utilizzazione di argomentazioni induttive o a particolari indagini che impongano una ricostruzione interpretativa degli atti medesimi»; sez. I, 20 aprile 2005, n. 8295; sez. lav., 8 luglio 1995, n. 7506; sez. III, 23 gennaio 1996, n. 476; sez. lav., 20 aprile 1995, n. 4431; sez. III, 3 febbraio 1994, n. 1099; sez. I, 15 ottobre 1994, n. 8429; 9 ot-tobre 1991, n. 10578; 6 luglio 1990, n. 7155).

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ROMA 6 luglio 2010 dover constatare come il controllo di ammissibilità su ciascuna ipotesi di revocazione sia assai più

capillare e penetrante, di quanto s'è detto sinora.

La ragione della latitudine di applicabilità della sanzione risiede nella determinante

importanza della fase rescindente e nella tassatività dei motivi della impugnazione, che può anche

avere natura straordinaria, della revocazione. Ed allora, se l'ipotesi di revocazione non è inverata, si

ha una domanda estranea al modello legale tipico della revocazione, e quindi la domanda stessa è

inammissibile.

È chiaro che quanto s'è appena detto vale per il caso di revocazione in appello, ipotesi che sta

diventando vieppiù frequente in concomitanza con l'entrata in funzione del, pur assai blando,

tentativo di restrizione dell'ambito di ricorso per Cassazione: per non precludersi nulla la parte

interessata, che assai raramente è quella che avrebbe ragione di ricorrervi, utilizza la revocazione,

soprattutto come strumento per la sospensione dei termini di ricorso, ex art. 398, co. 4 c.p.c.

Sospensione che è l'effetto della valutazione – non meno blanda, pur essa – di non manifesta

infondatezza della revocazione medesima, sicché deve esser concessa quando la revocazione sia

bensì infondata ma in modo non conclamato.

7.‐ L'IMPROCEDIBILITÀ ED INAMMISSIBILITÀ CIRCA L'IMPUGNAZIONE DEL LODO

Discorso analogo al precedente è quello relativo all'impugnazione del lodo, ex art. 827 c.p.c.,

impugnazione pur essa a motivi tassativamente vincolati al catalogo delle nullità di cui all'art. 829

c.p.c.

In questo caso si deve rammentare la peculiarità dell'impugnazione del lodo: il giudice

competente è la Corte di appello per il lodo in arbitrato rituale; il rito è quello proprio della Corte

d’Appello, ma il giudizio è di sola legittimità, ovvero – secondo il linguaggio della norma – di sola

nullità del lodo per le ipotesi tassative indicate nell'art. 829 c.p.c.

In tal caso appare evidente la rilevanza dell'individuazione di un rito autonomo e proprio della

Corte d’Appello, di cui si è detto sopra. Se tal principio è corretto – come credo – allora la

conclusione è lineare: valgono in questo giudizio tutte le considerazioni sull'improcedibilità ed

inammissibilità fatte per il processo di appello, nei limiti in cui sono applicabili. Cui si aggiungono,

quanto all'inammissibilità, i casi – sostanzialmente normali – di impugnazione spacciata per nullità,

38

60 «A norma dell'art. 395, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., una sentenza può essere oggetto di revocazione solo quando sia effetto del preteso errore di fatto e cioè unicamente nell'ipotesi in cui il fatto che si assume erroneo costituisca il fondamento della decisione revocanda o rappresenti l'imprescindibile, oltre che esclusiva, premessa logica di tale decisione, sicché tra il fatto erroneamente percepito, o non percepito, e la statuizione adottata intercorra un nesso di necessità logica e giuridica tale da determinare, in ipotesi di percezione corretta, una decisione diversa» (così CASS. CIV. Sez. Un., Ord. 23 gennaio 2009, n. 1666; conformi CASS. CIV. Sez. II, 18 febbraio 2009, n. 3935; Sez. I, 29 novembre 2006, n. 25376; sez. III, 29 marzo 2005, n. 6557).

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ROMA 6 luglio 2010 ma in sostanza integrante un vero e proprio appello di merito, e quindi inammissibile, per la

mancata ricorrenza di alcuna delle ipotesi tassative di nullità.

Se invece – non vedo come sia possibile – si ritenesse di qualificare come di "primo grado" il

giudizio dinanzi alla Corte, e si ritenesse di dover applicare la stucchevole sequenza delle varie

udienze iniziali, del tutto inconcludenti, considerato il contenuto possibile dell'impugnazione, allora

la conclusione sarebbe l'opposta: l'inammissibilità si potrebbe predicare solo per l'insussistenza di

alcuna delle ipotesi di cui all'art. 829 c.p.c.

Qualche parola deve esser spesa in relazione alla inammissibilità in tale impugnazione, che

costituisce, sostanzialmente, la modalità ordinaria di conclusione di quel processo.

Dal principio di tassatività dei motivi di impugnazione deriva una conseguenza raramente

considerata dall'impugnante: i motivi di nullità debbono derivare da decisioni contenute nel lodo,

dal momento che l'art. 827, co. 1 c.p.c. dispone che «Il lodo è soggetto ad impugnazione…». Ciò

significa che non si possono dedurre in motivi di impugnazione questioni non decise dagli arbitri

perché loro non devolute, e quindi non contenute nel lodo. Al contrario è usuale che siano dedotte

per la prima volta in impugnazione del lodo questioni mai decise dagli arbitri. Ad esempio, e

tipicamente, la natura dell'arbitrato61; le questioni di costituzione del collegio arbitrale62, che – quasi

sempre – i difensori nel giudizio arbitrale si sono "conservati" a fini di impugnazione; una

questione di legittimazione, etc. In sintesi: sì da poter dedurre, anche solo in via astratta, una

questione di nullità alla Corte occorre la previa deduzione della medesima questione agli arbitri,

così da provocare una loro decisione sul punto, onde poterla impugnare. Ciò per una ragione assai

semplice: in sede d'impugnazione del lodo arbitrale, in ordine a quest'ultimo, non vi sono eccezioni

rilevabili d'ufficio. Il giudice dell'impugnazione non potrà mai sollevare d'ufficio, e tanto meno

accogliere, una questione di nullità, sia pure evidente, se non dedotta dalla parte impugnante e

relativa ad una decisione inclusa nel lodo.

Anche in relazione all'impugnazione del lodo si ripropone il tema della ultrattività del rito in

relazione al mezzo di impugnazione: nel caso in cui la questione della natura dell'arbitrato sia stata

ritualmente dedotta dinanzi agli arbitri e questi ne abbiano deciso concludendo per l'arbitrato

61 «È inammissibile l'impugnazione di un lodo fondata su questioni relative alla natura rituale o irrituale dell'arbitrato qualora le questioni medesime risultino prospettate per la prima volta in sede di impugnazione, non essendo state mai sollevate in precedenza nel corso del giudizio arbitrale» (così CASS. CIV. Sez. I, 26 febbraio 2000, n. 2184).

39

62 «L'impugnazione del lodo per irregolare costituzione del Collegio arbitrale presuppone che la relativa questione sia stata già posta in sede di giudizio dinanzi agli arbitri, con la conseguenza che la sua mancata deduzione in quella sede risulta del tutto ostativa alla proposizione, per la prima volta, della relativa eccezione quale motivo di impugnazione dinanzi alla Corte d'Appello» (così CASS. CIV. Sez. I, 11 dicembre 1999, n. 13866; conforme CASS. CIV. Sez. I, 24 luglio 2000, n. 9668).

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ROMA 6 luglio 2010 rituale, la parte che intenda impugnare la statuizione deducendo la nullità del capo di decisione per

essere l'arbitrato in realtà irrituale, deve proporre l'impugnazione nelle forme di cui all'art. 827

c.p.c., non in quelle della citazione dinanzi al Tribunale63. Nel caso di specie, però, non è possibile

la conservazione dell'impugnazione, di cui si è detto sopra, stante la diversità dell'organo

giudiziario competente, con la conseguenza che, ove l'impugnazione ammissibile non sia stata

tempestivamente e correttamente proposta, l'inammissibilità di quella formulata rischia di far

decorrere i termini di cui all'art. 828 c.p.c. così rendendo a sua volta inammissibile l'impugnazione

corretta ma fuori termine.

Assume una connotazione particolare, il discorso fatto sul contenuto dei motivi di doglianza.

Mentre nel giudizio di appello ordinario la specificità si sviluppa in termini di relazione rispetto alla

ratio decidendi della sentenza, nell'impugnazione del lodo la specificità si prospetta in modo assai

diverso, di individuazione della fattispecie di nullità. Sicché è specifico il motivo d'impugnazione

del lodo in quanto individua (il che avviene sempre) e dimostra (il che non avviene mai) la

fattispecie concreta di nullità dedotta in relazione ai casi di cui all'art. 829 c.p.c. Quindi,

l'inammissibilità discende sempre da una valutazione intrinseca del motivo di nullità, che si arresta

ordinariamente alla fase rescindente del giudizio. La Corte limita la sua valutazione alla

prospettazione del contenuto di ciascun motivo dedotto, deducendone l'inammissibilità, o meno, dal

solo contenuto della prospettazione del motivo stesso.

Si tratta, quindi, di una conclusione sempre di inammissibilità, perché il motivo considerato

esula dal modello legale tipico, ma derivante da una considerazione – mi si passi il bisticcio – di

contenuto del mezzo valutato sul piano della legittimità.

Tutto ciò deriva dall'amore-odio tutto italiano per l'arbitrato: amato in fase di pattuizione della

clausola compromissoria; odiato in fase di valutazione dei risultati, ai quali la parte soccombente

vuole ad ogni costo sottrarsi, avendo scoperto solo in quella sede la vincolatività, pressoché

insormontabile, del lodo. Ed allora, secondo il principio processuale non scritto, ma non per questo

meno effettivo, "è preferibile un pessimo giudice ad un ottimo arbitro", non perché si valutino i

contenuti delle decisioni, ma perché la decisione del giudice è sostanzialmente impugnabile per

40

63 «Ove gli arbitri abbiano ritenuto la natura rituale dell'arbitrato, ed abbiano pertanto provveduto nelle forme di cui agli artt. 816 e ss. cod. proc. civ., l'impugnazione del lodo, anche se diretta a far valere la natura irrituale dell'arbitrato ed i conseguenti "errores in procedendo" commessi dagli arbitri, va proposta davanti alla corte di appello ai sensi degli artt. 827 e ss. cod. proc. civ., e non nei modi propri dell'impugnazione del lodo irrituale, ossia davanti al giudice ordinariamente competente e facendo valere soltanto i vizi che possono inficiare qualsiasi manifestazione di volontà negoziale (errore, violenza, dolo, incapacità delle parti o dell'arbitro). (Nella fattispecie la S.C. ha pertanto affermato che la corte di appello, adita con l'impugnazione del lodo, non poteva trarre dalla circostanza che l'impugnazione fosse stata proposta davanti ad essa, e non al tribunale, argomento per affermare la natura rituale dell'arbitrato)» (così CASS. CIV. Sez. I, 6 settembre 2006, n. 19129).

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ROMA 6 luglio 2010 l'eternità, così potendocisi sottrarre alla sua esecuzione, si spacciano per questioni di nullità

doglianze patentemente di merito. Mezzi che finiscono ineluttabilmente in un'inammissibilità.

Un profilo poco considerato è quello della impugnazione incidentale del lodo64, perfettamente

ammissibile in sé, sia nella forma della incidentale vera e propria, cioè proposta con la memoria di

costituzione, sia nella forma della incidentale convertita da una impugnazione principale autonoma

e poi riunita ex art. 331 c.p.c. Ed allora ritorna la problematica delle inammissibilità legate

all'impugnazione incidentale, con la quale si coniuga la problematica specifica della ammissibilità

propria dei casi di nullità deducibili nella impugnazione, anche incidentale, del lodo.

Altri peculiari profili di inammissibilità della impugnazione del lodo possono essere indicati,

pur se non ricorrenti. Si tratta dell'ammissibilità limitata dell'impugnazione separata del lodo

parziale, di cui all'art. 827, co. 3 c.p.c. Impugnazione immediata solo quando il lodo parziale sia

anche definitivo in ordine ad alcun capo di decisione, nel qual caso l'ammissibilità della

impugnazione comporta che siano dedotte nella impugnazione tutte le questioni di nullità afferenti

il lodo parziale65. Diversamente il lodo parziale è impugnabile solo unitamente al definitivo,

mancando un istituto quale la riserva di impugnazione nel procedimento arbitrale66. Il lodo parziale

è definitivo, e quindi immediatamente impugnabile, anche nel caso di condanna generica67, con

64 «Anche nel giudizio di impugnazione per nullità del lodo arbitrale è applicabile il principio secondo cui la proposizione dell'impugnazione principale determina, nei riguardi di tutti coloro cui il relativo atto venga notificato, l'onere, a pena di decadenza, di esercitare il proprio diritto di impugnazione nei modi e nei termini previsti per l'impugnazione incidentale, in applicazione della regola fondamentale della concentrazione delle impugnazioni contro la stessa sentenza, in forza della quale l'impugnazione proposta per prima determina la pendenza dell'unico processo nel quale sono destinate a confluire, per essere decise simultaneamente, tutte le successive, che restano vincolate al canone dell'incidentalità rispetto a quella. Ne consegue che, se pure ogni impugnazione proposta in via autonoma successivamente alla prima è suscettibile di conversione in impugnazione incidentale, la sua ammissibilità resta comunque condizionata al rispetto dei termini per questa previsti» (così CASS. CIV. sez. I, 16 maggio 2000, n. 6291). 65 «In tema di impugnazione del lodo arbitrale, ai sensi dell'art. 827, comma terzo, cod. proc. civ., il lodo che pronunzi parzialmente nel merito (nella specie: la risoluzione del contratto, con condanna) è immediatamente impugnabile ma deve investire la stabilità e la tenuta dell'intero "dictum" arbitrale, con la conseguente devoluzione di tutte le questioni deducibili avverso la pronuncia parziale di merito, senza che sia ipotizzabile che qualcuna di esse sia tenuta in riserva per un uso successivo, atteso che la facoltà eccezionale concessa da tale terzo comma dell'art. 827 è diretta alla tutela di quella parte della vertenza incisa dal lodo parziale, in una logica di definizione immediata di quella "quota" di controversia che gli arbitri abbiano deciso di risolvere anticipatamente» (così CASS. CIV. sez. I, 19 agosto 2004, n. 16205). 66 «Il lodo parziale, anche nella configurazione assunta dall'arbitrato per effetto delle innovazioni introdotte dalla legge n. 25 del 1994, è impugnabile solo unitamente al lodo definitivo nel termine previsto per l'impugnazione di quest'ultimo, non essendo utilizzabile, nel procedimento arbitrale, l'istituto della riserva facoltativa d'impugnazione, riserva che, essendo limitata a specifiche ipotesi normative, richiederebbe, per la sua applicazione in situazioni diverse, espressa previsione normativa, poiché il sistema processuale è informato al principio dell'impugnazione immediata di tutte le sentenze» (così CASS. CIV. Sez. I, 3 febbraio 2006, n. 2444; conforme CASS. CIV. sez. I, 22 febbraio 2002, n. 2566).

41

67 «Il lodo con cui sia disposta la risoluzione del contratto e la condanna generica di una delle parti al risarcimento del danno, con prosecuzione del procedimento arbitrale per la determinazione del "quantum debeatur", costituisce lodo

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ROMA 6 luglio 2010 prosecuzione del giudizio per la liquidazione del quantum, dal momento che quella statuizione è

utile quantomeno per l'iscrizione di ipoteca giudiziale (art. 2819 c.c.).

Nei confronti del lodo, ed a prescindere dalla impugnazione di nullità, è possibile anche la

revocazione, ex art. 831, co. 1 c.p.c., con ulteriori restrizioni, poiché essa è ammissibile solo in

relazione alle ipotesi di di cui all'art. 395, nn. 1, 2, 3, 6, cioè per il dolo di una delle parti; per

decisione fondata su prove riconosciute false; per il ritrovamento di documenti decisivi; per il dolo

dell'arbitro. In tale ambito, ulteriormente ristretto, la revocazione assume la struttura di

impugnazione sempre straordinaria, in quanto proponibile o in assenza di impugnazione di nullità,

ovvero dopo la conclusione della impugnazione ridetta.

8.‐ L'IMPROCEDIBILITÀ ED INAMMISSIBILITÀ CIRCA I RECLAMI

Stanti i limiti dell'intervento, appare opportuno restringere la considerazione ai reclami in

materia fallimentare.

Il discorso sui reclami è decisamente più problematico, perché i vari tipi di reclamo

disseminati dal nostro legislatore a piene mani, in realtà, più che una revisio prioris instantiae

hanno l'aria di esser stati pensati per un secundum iudicium. Scrive, infatti, ambiguamente, la

relazione al D.Lgs. 2007, n. 169: «La sostituzione dell'"appello" con il "reclamo" è coerente con il

rito camerale adottato non solo per la decisione di primo grado, ma anche per la fase di gravame:

il reclamo è, infatti, il mezzo tipico di impugnazione dei provvedimenti pronunciati in camera di

consiglio, quale che ne sia la forma». Sino a questo punto, si tratta di una questione meramente

nominalistica, ma non nominalistico è il significato del passo successivo della Relazione: «La

modifica vale ad escludere l'applicabilità della disciplina dell'appello dettata dal codice di rito ed

ad assicurare l'effetto pienamente devolutivo dell'impugnazione, com'è necessario attesi il

carattere indisponibile della materia controversa e gli effetti della sentenza di fallimento, che

incide su tutto il patrimonio e lo status del fallito».

Pare evidente l'inquietante confusione sottesa al secondo passo: non esiste alcun nesso logico

e giuridico fra lo «effetto pienamente devolutivo dell'impugnazione» e la «applicabilità della

disciplina dell'appello», atteso che – ne siamo testimoni quotidianamente – il rito di appello non

impedisce affatto la piena devolutività, solo che vi siano motivi adeguati. Ma se lo «effetto

pienamente devolutivo dell'impugnazione» è predicato come «necessario» rispetto agli effetti

della sentenza di fallimento, allora significa che si tratta realmente di un secundum iudicium,

sostanzialmente svincolato da motivi di reclamo. Il che, però, confligge con il principio dell'onere parziale, immediatamente impugnabile ai sensi dell'art. 827, terzo comma, cod. proc. civ., come sostituito dall'art. 19

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ROMA 6 luglio 2010 della prova, inteso come regula iuris, che – contraddittoriamente – la novella ha introdotto ex novo,

nell'art. 1, co. 2 L. fall. L'applicazione del principio dell'onere della prova, necessariamente,

riconduce a motivi che debbono valere ad esercitarlo, deducendone la violazione. A meno di dare

prevalenza all'art. 18, co. 10 L. fall. che annette al giudice d’appello una indagine officiosa sui

presupposti del fallimento: il che rende inspiegabile l'onere della prova di cui all'art. 1, co. 2 L. fall.

Tal groviglio di contraddizioni, singolarmente, si coniuga con il precetto esplicito del rispetto del

principio del contraddittorio (art. 18, co. 10 L. fall.), come se, diversamente, il giudice d’appello ne

facesse usualmente a meno.

Non è certamente questa la sede per affrontare il ginepraio di una riforma, che – quanto meno

sul piano processuale – appare scarsamente ponderata. Qui basta aver messo in evidenza i problemi

sottesi alla materia dei reclami fallimentari, che però incidono sul giudizio di appello, sotto

molteplici profili, proprio considerando la materia della inammissibilità.

Se vero è, infatti, che di secundum iudicium si tratta, allora, salva la violazione dei termini

per la proposizione del reclamo (art. 18, co. 4 L. fall.), non vi è alcuna ipotesi di inammissibilità,

dal momento che, qualunque sia il motivo di reclamo, in ogni caso il giudice d’appello deve

riesaminare funditus, per il solo fatto di essere adito, l'intera questione. Il che è particolarmente

oneroso, attesa la, sostanzialmente totale, carenza di motivazione da parte della sentenza

dichiarativa di fallimento.

Se vero è il primo corno del dilemma, nel senso che si tratti pur sempre di un'impugnazione

per una revisio prioris instatiae, allora il reclamo assume connotati più stringenti, nel senso che

sono pur sempre essenziali i motivi di impugnazione, nei termini dianzi delineati. Fermo restando

che, a fronte della rilevata, sostanzialmente totale, carenza di motivazione, qualunque minima

enunciazione risponde al canone di specificità, nei termini di relazione anzidetti.

È chiaro che la genericità, e quindi l'inammissibilità, dei motivi di reclamo può – nel latissimo

ambito appena rilevato – essere predicata solo se si configuri una sostanziale assenza degli stessi,

ovvero – eccezionalmente – ci si trovi dinanzi ad una sentenza dichiarativa di fallimento motivata.

Diversamente, i due ambiti, quello della revisio prioris instantiae e quello dal secundum iudicium,

finiscono per coincidere.

La confusione concettuale da cui si sono prese le mosse ha ancora un'altra incidenza, che sul

piano del giusto processo, considerato in riferimento al modo di formazione della statuizione da

assumere, appare dubitosa. Poiché la sentenza impugnata ha dichiarato il fallimento e nominato il

43della legge n. 25 del 1994» (così CASS. CIV. Sez. I, 7 febbraio 2007, n. 2715):

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ROMA 6 luglio 2010 curatore; poiché il curatore è un contraddittore, che interviene se il Fallimento o ha dei beni in cassa

o ha la prospettiva di trarne, il giudizio di appello finisce di assumere i dati esposti dal curatore

come determinanti per la decisione, in ciò favorito dall'attenuazione (o eliminazione, al di là delle

labiali asserzioni del legislatore) del principio dell'onere della prova e dalla officiosità riconosciuta

alla Corte dalla norma. Il che – detto in altri termini – significa solo che la revoca del Fallimento

dipende, in via pressoché esclusiva, dalla disponibilità liquida della curatela: se tal liquidità (o

aspettativa di liquidità) manca e la curatela non si costituisce, la revoca è quasi obbligata, in assenza

di elementi di valutazione. D'altro canto la Corte d’Appello è abbastanza restia ad esercitare i poteri

officiosi, che ormai il Tribunale Fallimentare non esercita più, dichiarando il fallimento sulla base

dell'onere della prova, unicamente verificando il limite quantitativo di debito di cui all'art. 15, co. 9

L. fall.

Qualche minore incertezza si configura in ordine al reclamo contro il diniego di declaratoria

di fallimento, di cui all'art. 22 L. fall., sempre nella peculiare prospettiva qui considerata.

È chiaro che il decreto reiettivo di primo grado deve motivare necessariamente in ordine a

quale dei vari requisiti di cui all'art. 1, co. 2 o 15, co. 9 L. fall. sussista e sia ostativo alla

declaratoria di fallimento, con la conseguenza che il reclamo, necessariamente, deve impugnare tale

ratio decidendi, con un motivo specifico, nei termini anzidetti. Donde un possibile profilo di

inammissibilità, raramente ricorrente dal momento che è assai facile criticare specificamente i

decreti reiettivi (molto poco) motivati. È scontato che il secondo profilo di inammissibilità, che può

esser rilevante, è dato dal rispetto del termine per proporre il reclamo, di cui all'art. 22, co. 2 L. fall.

Qualche considerazione ancora diversa vale in relazione al caso di reclamo ex artt. 18-162

L.Fall., cioè in caso di fallimento dichiarato a seguito di inammissibilità del concordato preventivo.

In codesta ipotesi è strutturale la totalità della devoluzione, le cui censure si appuntano sulla negata

ammissione del concordato preventivo, e, di regola, sul sindacato del giudice fallimentare, ammesso

o negato a seconda delle opzioni interpretative, sull'ammissibilità stessa del concordato preventivo.

È chiaro come a questo punto i motivi siano specifici per necessità, poiché l'ambito della censura

finisce sempre di incidere sulla fondatezza di merito della stessa, eccezionalmente sull'ammissibilità

tale da precludere l'esame di merito. Anche in questo caso, pertanto, l'unico profilo certo

d'inammissibilità è costituito dalla violazione del termine di reclamo.

Credo che – in conclusione – una considerazione debba esser fatta, con riferimento al

principio del giusto processo coniugato con quello della ragionevole durata, di cui all'art. 111 Cost.

Se vero è – e la Corte Costituzionale e la Corte di Cassazione lo affermano ripetutamente –

44

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ROMA 6 luglio 2010 che il processo deve durare il tempo minimo necessario alla pronuncia di merito, poiché tale

obiettivo è perseguito nel nostro ordinamento mediante una (assai blanda) progressione del

processo per gradi con una progressiva (ma del pari lasca) restrizione dell'ambito della contesa,

attuato mediante una serie di vincoli processuali; poiché il venir meno di tale filtro equivarrebbe ad

eliminare ogni pur minima possibilità di controllo sia in ordine al processo giusto, non essendovi

mai un termine finale al contraddittorio, sia alla ragionevole durata, che in tesi sussisterebbe

sempre, tenuto conto della reiterazione degli esami di merito, mi pare che una interpretazione

costituzionalmente orientata debba far inclinare la scelta verso il primo corno del dilemma, così

riconoscendo al giudizio di reclamo una – almeno tendenziale – riduzione ai soli motivi di

impugnazione, in modo tale da consentire la progressione ridetta.

Sia chiaro che tal conclusione non esclude i poteri officiosi, ove esistano; richiede solo che

siano esercitati entro l'ambito della devoluzione, se in merito alle finalità di essi il primo giudice

abbia statuito. Devoluzione che – ad onta di quanto scrive la Relazione – non può esser totale.

Nessuna limitazione a tali poteri sussiste, invece, se – come è usuale – il provvedimento impugnato

nulla disponga, neppure indirettamente.

So bene che il riferimento alla «interpretazione costituzionalmente orientata» è il grimaldello

utilizzato dalla Suprema Corte per conseguire una sostanziale modificazione del diritto processuale,

in modo non sempre commendevole, ma rilevo che un'applicazione del tipo proposto collocandosi

entro una tal quale ambiguità della novella, accentuata dalla citata Relazione, possa servire a

ricondurre a razionalità – e, per quanto possibile, ad omogeneità e semplicità – il sistema

eliminando l'incertezza da cui si son prese le mosse. So altrettanto bene che un rilievo siffatto

finisce per scontrarsi con le opinioni dei fallimentaristi, ma credo che sia necessaria per dissipare le

ambiguità, sempre fomite di ingiustizie.

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C.S.M. - IX Commissione Inammissibilità e improcedibilità

ROMA 6 luglio 2010

SOMMARIO

1.‐ L'AMBITO DELL'INTERVENTO ............................................................................. 2

2.‐ LE DUE SANZIONI PROCESSUALI......................................................................... 3

3.‐ L'IMPROCEDIBILITÀ, LE TRE FATTISPECIE ............................................................. 5 3.1.‐ LA MANCATA COSTITUZIONE TEMPESTIVA DI PARTE APPELLANTE............................................... 7 3.2.‐ LA MANCATA COMPARIZIONE ALLA PRIMA UDIENZA DI PARTE APPELLANTE COSTITUITA ....................... 9

4.‐ L'INAMMISSIBILITÀ, LA MOLTEPLICITÀ DEI CASI ................................................. 10 4.1.‐ IL TERMINE D'APPELLO ....................................................................................... 11

4.1.1.‐ Le anomalie dei termini, l'opposizione di terzo e la correzione...............................12 4.1.2.‐ La sospensione dei termini per impugnare ....................................................12 4.1.3.‐ I termini in relazione al tipo di atto introduttivo dell'appello ................................15

4.2.‐ IL LUOGO DI PROPOSIZIONE DEI MOTIVI E DELLE ECCEZIONI .................................................. 18 4.2.1.‐ L'imbroglio dell'art. 346 c.p.c. ..................................................................21

4.3.‐ IL CONTENUTO DEI MOTIVI, LORO SPECIFICITÀ ED AMMISSIBILITÀ............................................ 23 4.4.‐ L'EVENTUALE CONVERSIONE DEI MOTIVI INAMMISSIBILI ..................................................... 26 4.5.‐ I NOVA IN APPELLO........................................................................................... 27 4.6.‐ L'OMESSA INTEGRAZIONE DEL CONTRADDITTORIO .......................................................... 30

5.‐ GLI EFFETTI DI IMPROCEDIBILITÀ ED INAMMISSIBILITÀ, ANCHE SULLE IMPUGNAZIONI INCIDENTALI....................................................................................................................... 32

6.‐ L'IMPROCEDIBILITÀ ED INAMMISSIBILITÀ CIRCA LA REVOCAZIONE ....................... 36

7.‐ L'IMPROCEDIBILITÀ ED INAMMISSIBILITÀ CIRCA L'IMPUGNAZIONE DEL LODO ........ 38

8.‐ L'IMPROCEDIBILITÀ ED INAMMISSIBILITÀ CIRCA I RECLAMI.................................. 42

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