Archeomolise - N.4

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I FEUDI DI CLUSANUM E VIPERAM A GAMBATESA di Maria Teresa Lembo a cura di Alberto Cazzella IL POPOLAMENTO ANTICO DELLA COSTA MOLISANA di Lidia Di Giandomenico N°4 - Anno II Aprile / Giugno 2010 ISSN: 2036-3028 IL MÁJA DI ACQUAVIVA COLLECROCE di Emilia De Simone LA PREISTORIA DELL’ALTO MOLISE a cura di Ettore Rufo SPECIALE: di Adriano La Regina I SITI DELL’ETÀ DEL BRONZO A MONTERODUNI E ORATINO LA DOMUS PUBLICA DI PIETRABBONDANTE

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In questo numero l'articolo di Adriano La Regina sulla Domus Publica del santuario di Pietrabbondante. Il numero è scaricabile da questo link, dove sono presenti anche le precedenti uscite. http://www.cerp-isernia.com/home/static.aspx?html=ArcheoMolise/index

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I FEUDI DI CLUSANUM E VIPERAM A GAMBATESAdi Maria Teresa Lembo

a cura di Alberto Cazzella

IL POPOLAMENTO ANTICO DELLA COSTA MOLISANAdi Lidia Di Giandomenico

N°4 - Anno IIAprile / Giugno 2010IS

SN: 2

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IL MÁJA DIACQUAVIVA COLLECROCEdi Emilia De Simone

LA PREISTORIADELL’ALTO MOLISE a cura di Ettore Rufo

SPECIALE:

di Adriano La Regina

I SITI DELL’ETÀ DEL BRONZO A MONTERODUNI E ORATINO

LA DOMUS PUBLICADI PIETRABBONDANTE

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INDICE

Mostre ed eventi in calendario

Il popolamento anticodella costa molisana

Per approfondire

SPECIALE TESI AGENDA LIBRI

pag. 32

pag. 62 pag. 70 pag. 73

di Adriano La Regina

di Lidia Di Giandomenico

Una panoramica

LA PREISTORIADELL’ALTO MOLISE

pag. 6a cura di Ettore Rufo

pag. 20a cura di Alberto Cazzella

pag. 44di Maria Teresa Lembo

pag. 54di Emilia De Simone

Località Paradiso a Monteroduni (IS) e Rocca di Oratino (CB)

SITI DELL’ETÀ DEL BRONZO NEL MOLISE INTERNO

PIETRABBONDANTE: LA DOMUS PUBLICA DEL SANTUARIO

Insediamenti fortificati medievali scomparsi nel territorio di Gambatesa

I FEUDI DI CLUSANUM E VIPERAM

Personificazioni del Maggio in Molise

IL MájA DI ACQUAVIVA COLLECROCE

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EDITORIALEMAGAZINE

APRILE/GIUGNO2010

NUMERO

4

Associazione Culturale ArcheoIdeac.da Ramiera Vecchia, 186170 Iserniawww.archeoidea.info

DIREttORE REsPONsAbILE

Giuseppe Lembo

COMItAtO tECNICO

sandro Arco Angela CrollaAngelo IapaoloMichele Iorio Emilia Petrollini

HANNO COLLAbORAtOA qUEstO NUMERO

Ettore RufoAntonella MinelliGiuseppe Lembobruno PaglioneCarlo PerettoRocco PellegriniAlberto CazzellaValentina CopatMichela DanesiAlessandro De DominicisGiulia RecchiaCristiana RugginiAdriano La ReginaMaria teresa LemboEmilia De simoneLidia Di Giandomenico

REDAzIONE

Petronilla Crocco Annarosa Di Nucci Giovanna Falascasandra Guglielmi brunella Muttillo Ettore Rufo Maria Angela RufoChiara santone Walter santoroAlessandro testaDaniele Vitullo

sEGREtERIA

[email protected]

PROGEttO GRAFICO

Giovanni Di Maggiowww.giodimaggio.com

FOtOGRAFIA

Antonio Priston

stAMPA

Grafica Isernina86170 Isernia - ItalyVia Santo Spirito 14/16

IN COPERtINA

Veduta aerea dell’area archeologi-ca di Pietrabbondante(foto L. Scaroina)

Registrazione del Tribunale di Isernia n. 72/2009 A.C.N.C.; n. 112 Cron.; n. 1/09 Reg. Stampa del 18 febbraio 2009

ARCHEOMOLIsE ON-LINE

www.cerp-isernia.comwww.facebook.comwww.twitter.com

Le foto dei siti e dei reperti archeologici sono pubblicate grazie all’autorizzazione della Soprintendenza ai Beni Archeologici del Molise

*Soprintendente per i Beni Archeologici del Molise

Alfonsina Russo*

COMItAtO sCIENtIFICO

Marta ArzarelloAnnalisa CarlascioEmilia De simoneGabriella Di RoccoFederica FontanaRosalia GallottiRosa LanteriAdriano La ReginaLuigi MarinoMaurizio Matteini ChiariAntonella MinelliAlessandro NasoLuiz OosterbeekMarco PacciarelliCarlo PerettoLorenzo quiliciMichele RaddiAlfonsina RussoUrsula thun Hohenstein

o straordinario patrimonio archeologico del Molise rappresenta una risorsa fondamentale per il territorio, sia dal punto di vista della crescita culturale che di quella economica. L’attività istituzionale della Soprintendenza per i Beni Archeologici del Molise, che mi onoro di rappresentare, è quella di tutelare gli importanti siti archeologici con un impegno volto in primo luogo alla ricerca e alla conoscenza (fondamentale a tale proposito risulta essere la catalogazione dei beni), attività preliminari a qualsiasi azione di protezione e conservazione, il cui fine ultimo è la

pubblica fruizione. In un periodo di grandi trasformazioni del territorio, con la realizzazione di strade, metanodotti, acquedotti, impianti eolici e fotovoltaici, l’attività di tutela e di salvaguardia del territorio deve necessariamente essere portata avanti in modo condiviso non solo con gli enti locali ma soprattutto con la società civile, per poter tramandare alle future generazioni una regione che conservi i propri tratti originari e identitari, in una parola, la propria “unicità”. Appare pertanto importante il cambiamento di prospettiva che, a partire dal documento Per la salvezza dei beni culturali in Italia pubblicato nel 1967 dalla Commissione parlamentare presieduta dall’On. F. Franceschini, si attua a proposito della definizione di bene culturale come testimonianza storica; definizione che conferisce un rilievo assoluto al contesto di rinvenimento, quasi sempre pluristratificato, all’interno del quale il bene è inserito e dal quale è originato. Nello stesso Codice dei beni culturali e del paesaggio n. 42 del 2004, attualmente in vigore, all’art. 2, i beni culturali sono individuati quali testimonianze aventi valore di civiltà. Quindi il patrimonio archeologico è funzionale alla comprensione del nostro passato, alla riappropriazione delle nostre radici, a rilevare i tratti peculiari del territorio di appartenenza: elementi fondanti per definire l’identità storica e culturale di una regione. In tale prospettiva l’impegno delle istituzioni preposte alla tutela è anche quello di ricercare nuovi modelli di sviluppo locale, di sperimentare soluzioni innovative per la valorizzazione del patrimonio archeologico del territorio. Pertanto, in primo luogo, ci si propone di creare una rete archeologica territoriale, che possa collegare, anche attraverso l’utilizzo delle tecnologie digitali multimediali e di realtà virtuali –strumenti innovativi, ormai essenziali per migliorare la fruizione dei beni culturali- i luoghi di eccellenza del Molise, ricostruendo la storia antica della regione attraverso un percorso diacronico: dalla fase preistorica, con Isernia-La Pineta, a quella sannitica, con gli insediamenti fortificati e i santuari, tra i quali spiccano le aree archeologiche di Pietrabbondante-Calcatello e Campochiaro-Civitelle, a quella romana, con Sepino, Venafro e Larino, fino all’età altomedioevale con l’ insediamento monastico di San Vincenzo al Volturno. Non soltanto la magia e l’emozione di un “viaggio” in un passato lontano che torna a vivere, ma anche un approccio di grande interesse alla ricerca scientifica, sia in campo archeologico che nella sperimentazione di nuove tecnologie, con implicazioni significative nell’ambito della formazione culturale e professionale, nonché nella generazione di nuove imprese impegnate in servizi tecnologicamente avanzati ad elevato valore aggiunto. Lo sforzo del tutto evidente, in sintesi, è di ricostruire, con metodo, tasselli significativi di un mosaico, in fase di continuo rinnovamento, come è proprio delle ricerche scientifiche, che si pone come obiettivo di delineare la storia antica del Molise e i valori culturali delle popolazioni che in questi importanti territori si sono succedute, così come il sistema di relazioni sia di breve che di lungo raggio intessute con genti insediate in altri territori italiani, ma anche in tutto il bacino del Mediterraneo. Restituire al Molise la centralità culturale, che in alcuni periodi storici ha avuto, rappresenta un preciso dovere per chi, a diversi livelli nella società civile, si impegna ad interrompere l’isolamento che ha condizionato, anche sotto il profilo economico, la storia recente di questa regione. Anche dalla tutela e dalla conseguente valorizzazione del patrimonio culturale del Molise, si può ripartire per delineare prospettive di sviluppo assolutamente ecocompatibili e soprattutto, come sottolineato sopra, condivise dalle comunità locali.

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DELL’ALTO MOLISEUna panoramica

Ettore Rufo*, Antonella Minelli**, Giuseppe Lembo***, Bruno Paglione*, Carlo Peretto****Centro Europeo di Ricerche Preistoriche di Isernia **Università degli Studi del Molise ***Università degli Studi di Ferrara

sin dagli anni ‘50 il confine tra le attuali regioni di Abruzzo e Molise, tra le catene delle Mainarde e della Maiella, è stato meta di campagne archeologiche. sono oggi inclusi nella dicitura Alto

Molise dodici comuni della provincia di Isernia. La preistoria di questi luoghi è legata, su tutti, al nome di Antonio Mario Radmilli, decano della paletnologia italiana del dopo-Pigorini.

Località Rio Verde, Pescopennataro. Evidenti testimonianze di manufatti in selce.

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Alla fine degli anni ‘50 la sua equipe dell’Uni-versità di Pisa, spintasi poco oltre il limite meridionale del Parco della Maiella, svolse indagini archeologiche nella valle che guarda il borgo montano di Pescopennataro. Nel 1963 il Molise ottenne l’autonomia dall’Abruzzo. L’archeologia regionale non ne giovò, se è vero che in quegli anni Radmilli cominciò a mani-festare nostalgia per Bolognano, le Svolte di Popoli e la Valle Giumentina, situati poco oltre (un centinaio di chilometri in macchina) il po-merio del neonato Molise. Questi siti s’avvia-rono presto a fare la storia della paletnologia italiana; Pescopennataro rimase una citazione

in qualche articolo scientifico. Segno di come anche l’archeologia segua talora i confini am-ministrativi, al pari della cultura e della ric-chezza (… e dell’intelligenza, farneticherebbe Richard Lynn).

Nel frattempo il lavoro di Radmilli aveva alimentato l’entusiasmo culturale degli ama-tori locali (basti qui ricordare collettivamen-te l’Archeoclub di Agnone), dalle cui raccolte, meritevoli se non altro d’aver salvato migliaia di reperti dalla distruzione o dall’oblio, pro-vengono in larghissima parte le collezioni che oggi studiamo. Se si esclude qualche breve cenno in riviste scientifiche o di diffusione,

un reale riavvicinamento scientifico alle testi-monianze preistoriche dell’Alto Molise si ebbe solo tra il 1994 e il 1995, quando Stefano Gri-maldi, grazie ad una borsa di studio dell’Isti-tuto Regionale per gli Studi Storici del Molise, operò una prima sistemazione delle industrie litiche molisane note; la sezione più ampia del suo “censimento” (pubblicato nella sua veste definitiva solo nel 2005) è, significativamente, quella relativa all’alto Molise.

Un sostanziale riordino dei dati è stato infi-ne affidato, tra il 2005 e il 2006, all’equipe di Carlo Peretto, nell’ambito del Progetto Leader Plus, promosso dal MOLI.G.A.L. e dall’Univer-

In alto:Pescopennataro, piana di Rio Verde. L’area è nota, sin dagli anni ’50, per i numerosi ritrovamenti d’epoca preistorica, che documentano frequenta-zioni del Paleolitico inferiore, medio e superiore.

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I primi interventi sistematici sono quelli, già citati, di Radmilli, il quale, tra il ‘57 e il ‘58, rin-viene, in località Prato Martello, un complesso litico attribuito al Paleolitico inferiore-medio, classificato, secondo la terminologia del tem-po, come di tecnica “protolevalloisiana” e in-cluso nella da lui coniata cultura “abruzzese di montagna”. Quasi un trentennio più tardi, nel 1985, viene pubblicato uno studio di P. Ucelli Gnesutta su un complesso musteriano proveniente da Pescopennataro. Non cessano, frattanto, le raccolte degli appassionati, che saranno in gran parte riordinate, nel biennio 1994-95, da S. Grimaldi nel suo lavoro sulle industrie paleolitiche molisane, in cui trova-no largo spazio gli insiemi di Rio Verde. Dal-la sua sintesi risulta un range cronologico di frequentazione dell’area esteso dal Paleolitico inferiore al Paleolitico superiore, con una cer-ta predominanza di elementi del Paleolitico medio. Una più accurata disamina delle evi-denze paletnologiche di Pescopennataro trova posto, tra il 2005 e il 2006, nel succitato pro-getto di revisione e riordino delle emergenze preistoriche della provincia di Isernia diretto dall’Università di Ferrara. Nel settembre del 2007, infine, l’Università del Molise ha con-dotto, sotto la direzione di Antonella Minelli, una campagna di ricognizione nelle aree di provenienza delle collezioni note, orientato alla mappatura dei principali rinvenimenti.

Dati sostanziali sull’industria litica sono

Carta del MoliseL’area numerata delimita l’alto Molise; vi appartengono i seguenti comuni (in grigio scuro sono evidenziati i comuni noti per i ritrovamenti preistorici): 1: San Pietro Avellana; 2: Castel del Giudice; 3: Sant’Angelo del Pesco; 4: Pescopennataro; 5: Capracotta; 6: Belmonte del Sannio; 7: Agnone; 8: Vastogirardi; 9: Carovilli; 10: Castelverrino; 11: Pietrabbondante; 12: Poggio Sannita

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Pescopennataro, località Rio Verde: composizione cronologica dei diversi insiemi litici.Le industrie testimoniano come l’area sia stata frequentata ripetutamente nel corso del Paleolitico. Le statistiche del sito denominato RV1 indicano, rispetto alla media, una maggiore incidenza delle tracce riferibili al Paleolitico superiore

ORIzzONtE CRONOLOGICO

RV (n=505)

RV 1 (n=1444)

RV 2 (n=44)

Paleolitico inferiore-medio 17% 7% 20%

Paleolitico superiore 17% 44% 14%

Attribuzione incerta 66% 49% 66%

oggi disponibili per un nutrito campione pro-veniente dalle aree siglate RV, RV1, RV2. Le in-dustrie analizzate confermano che l’area è sta-ta frequentata durante il Paleolitico inferiore, medio e superiore (gli insiemi comprendono infatti, oltre a molti elementi di attribuzione incerta, tre bifacciali, industria musteriana e industria laminare).

È presumibile che l’area abbia ospitato, nelle diverse fasi, installazioni di natura e funzione polivalenti, come sembrano indicare le stati-stiche tecno-tipologiche nei singoli insiemi e orizzonti cronologici. Nei limiti imposti dalla commistione e selettività dei campioni, che consentono di rado di spingersi oltre il dato

descrittivo, esistono alcune suggestioni inter-pretative, come quella relativa al gruppo Pa-leolitico superiore del complesso RV1: la sua composizione tecnologica sembra ricondurre al modello dell’officina litica, come suggerito dal fatto che il complesso è quasi esclusiva-mente composto da nuclei, prenuclei e pro-dotti tecnici o scarti, mancando invece i sup-porti d’uso (schegge, lame, strumenti).

Capracotta

Si deve a B. Paglione la raccolta di una discreta quantità di manufatti litici in località Morro-ne, nel comune di Capracotta, in un’area di pa-

sità di Ferrara, conclusosi con la pubblicazio-ne, nel 2006, di una monografia che definisce lo stato dell’arte della preistoria in provincia di Isernia. Largo spazio è dato, in questo lavoro, alle industrie litiche di alcune località dell’alto Molise.

Pescopennataro

L’agro di Pescopennataro, come accennato in premessa, è da più di un cinquantennio meta d’interesse per lo studio della preistoria alto-molisana. Le diverse collezioni, essenzialmen-te provenienti da prospezioni di superficie, formano oggi un tesoro di almeno diecimila manufatti. Circa 1600 reperti, derivanti dalle raccolte di Pietro Patriarca e Fortuna Ciavoli-no, sono conservati nella sezione preistorica del locale Museo Civico della Pietra; un’altra collezione è custodita nel Museo Emiliano di Agnone, mentre un esiguo campione è esposto nel Museo di Etnopreistoria del CAI a Napoli; il campione più nutrito è però quello scaturito dalle raccolte trentennali di Bruno Paglione.

Il materiale proviene da diverse località (tra le altre, Laghi dell’Anitra, Guado Cannavina, Prato Martello, Monte Pasquale, La Morgia) gravitanti sull’area nota come Rio Verde (dal rio omonimo), ampio tavolato inframontano posto ad una quota media di ca. 1000 m s.l.m., oggi coperto a bosco o pascolo e isolatamente edificato.

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Carta della ricognizione del 2007 nel territorio di Pescopennataro

altamedio-altamediamedio-bassabassa

corsi d’acquastradelimiti zonali di studio

centro urbano di Pescopennataro

500 m

N

Nuclei laminari provenienti da Pescopennataro, insieme RV1La sua composizione tecnologica fa pensare ad un’officina litica, ad un’area cioè di produzione più che di utilizzo dei manufatti. Sono infatti presenti quasi esclusivamente nuclei, prenuclei e sottoprodotti di lavorazione; è dunque verosimile che i gruppi umani, abbandonati sul posto i nuclei e gli scarti di lavorazione, portassero con sé i prodotti finiti, destinati all’uso (disegni: D. Mengoli)

scolo di ca. 800 mq posta a quota 1300 m s.l.m. La collezione, che ammonta ad un totale di 160 elementi, rappresenta la prima testimonianza, in Molise, di un’occupazione musteriana d’alta quota. Le analisi condotte nel 2006 hanno for-nito spunti significativi, in ragione soprattutto della perfetta omogeneità interna dell’insie-me, univocamente riferibile al Paleolitico me-dio. L’industria è confezionata su selce locale, raccolta in forma di ciottoli fluviali. Le diffuse smussature da fluitazione presenti sul 70% dei pezzi suggeriscono vicende post-deposiziona-li di una certa importanza: l’accumulo sarebbe dovuto al trasporto operato dallo scorrimento delle acque superficiali, cui sembra associabi-le anche la profonda patina bianca che copre la totalità dei reperti.

Prodotti e nuclei riportano a tecnologie di tipo Levallois o peu élaboré. Tra i nuclei non Levallois, si segnalano alcuni lavorati secondo uno schema unipolare a sfruttamento di volu-me, mirato all’ottenimento di supporti allun-gati, che ricordano in parte i nuclei sublami-nari del Musteriano recente di Grotta Reali a Rocchetta a Volturno.

Sebbene non si creda di poter usare le analisi statistiche dell’industria per ipotesi interpre-tative su funzione e utilizzo dell’insediamen-to, in ragione della selettività della raccolta e dell’assenza di contesto stratigrafico, il fatto che la catena operativa sia rappresentata in tutte le sue fasi rende proponibile il modello di base temporanea di produzione e utilizzo legata ad attività venatorie o di macellazione.

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Vastogirardi

Non lontano dalla piana di San Mauro, trac-ce di occupazioni paleolitiche sono presenti anche nel territorio di Vastogirardi (località Cerritelli), poco al di là del confine con i co-muni di Carovilli e Agnone. Il contesto è in-tensamente disturbato da interventi antropici, tali da inficiare la comprensione delle dina-miche di accumulo e limitare la significatività dei rinvenimenti a un livello documentario. Il materiale qui recuperato (poco più di cen-to elementi) documenta frequentazioni del

Paleolitico medio e superiore, ricalcando in parte le evidenze di San Mauro e Fontecurel-li (infra). All’orizzonte più antico si associano essenzialmente prodotti Levallois, interessati da profonde alterazioni delle superfici (patine, pseudo-ritocchi, lustrature); all’orizzonte più recente, meno rappresentato, si riconducono alcune lame (perlopiù tecniche), in gran parte frammentate. La selce utilizzata è di prove-nienza locale e appartiene a tipi diversificati per orizzonte cronologico, sì da suggerire eco-nomie di approvvigionamento differenziate nel tempo.

Composizione tecnologica dell’insieme musteriano di Capracotta.Composizione tecnologica dell’insieme musteriano di Capracotta. Sono presenti tutte le fasi della catena operativa (dalla decorticazione del nucleo al suo abbandono). Nella fase di produzione venivano adottati, accanto al metodo Levallois, schemi di lavorazione a piani ortogonali

DecorticazioneAbbandonoPieno débitage

39%

10%

51%

Levallois

SSDA(A piani ortogonali)

54%

46%

A sinistra:Schegge Levallois (A) e lame (B) da Vastogirardi, località Cerritelli. Dall’area provengono manufatti del Paleolitico medio e, in minor misura, del Paleolitico superiore(foto: M. Arzarello).

A.

b.

Carovilli

Il territorio di Carovilli, insieme a quello di Pescopennataro, rappresenta oggi la maggiore fonte d’informazione per lo studio della prei-storia alto-molisana, in ragione della conside-revole quantità di materiale da esso restituito nel corso degli anni, che ammonta attualmen-te a diverse migliaia di reperti. Si tratta, nella totalità dei casi, di rinvenimenti fuori-conte-sto, provenienti da recuperi di superficie in larga parte dovuti alle passeggiate archeologi-che di B. Paglione. L’area di maggiore densità è l’estesa piana di San Mauro (ca. 250.000 mq), ubicata sulla sinistra idrografica del Trigno, tra il Monte Pizzi e il Monte Ingotta, a quote oscillanti intorno ai 1000 m s.l.m. Si ricorda-no poi i ritrovamenti di Fontecurelli, località

che fronteggia a NE l’altura Pesco La Croce (936 s.l.m.), e quelli, sporadici e più recenti, del complesso grotta-riparo di Cegna Ciffuni (noto anche il toponimo Cegni Ciffuni).

Un primo riordino delle industrie litiche di Carovilli si deve a S. Grimaldi, che nel suo studio analizzò un campione di ca. 900 reper-ti provenienti da San Mauro, per la gran parte riferibili al Paleolitico medio, con rare tracce del Paleolitico superiore e isolati elementi più antichi (tra cui due bifacciali).

In anni recenti nuove acquisizioni sono giunte dal progetto di sistemazione delle evi-denze preistoriche molisane supervisionato da Carlo Peretto, grazie al quale si dispone oggi di dati significativi per gli insiemi di S. Mauro e Fontecurelli.

Gli studi sino ad oggi condotti indicano, per l’area di S. Mauro, un’intensa antropizzazione durante il Paleolitico medio, considerato che il 90% dell’industria litica analizzata (che com-prende ca. 2700 elementi) è attribuibile a tale epoca. In seno alla componente musteriana, si evidenzia il predominio del metodo Levallois

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ne di selce brecciata di provenienza locale.Nel 2005, nell’ambito del ricordato proget-

to dell’Università di Ferrara, è stata condotta una prospezione (che ha previsto anche due saggi di scavo) in località Cegna Ciffuni, che in passato aveva restituito alcuni reperti pre-protostorici, provenienti dall’interno della grotta omonima e dall’area prospiciente il ri-paro sotto roccia ad essa annesso. Le indagini, che hanno svelato un contesto turbato e ten-denzialmente sterile, hanno restituito solo una manciata di materiali, quasi esclusivamente ceramici.

Accanto ad alcuni elementi di ceramica a pareti sottili di età imperiale e a una maioli-ca arcaica, si segnalano due reperti dell’età del Bronzo: si tratta di una parete in ceramica ap-penninica e di un frammento di scodella care-nata d’impasto.

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Nell’altra pagina:Industria Levallois proveniente dalla piana di San Mauro (Carovilli). Il materiale qui recuperato testimonia un’intensa frequentazione dell’area nel corso del Paleolitico medio

In alto:Cegna Ciffuni (Carovilli): frammento di ceramica appenninica con decorazione a bande marginate incise campite a punteggio, convergenti a festoni, rinvenuto presso il riparo annesso alla grotta(da Terzani, 2006)

bifacciale in selce dalla località Fontecurelli (Carovilli)Accanto alle prevalenti evidenze musteriane e alle rade tracce del Paleolitico superiore, nell’area sono documentate anche fasi di occupazione più antiche, cui sono da attribuire, tra l’altro, due bifacciali (disegno: D. Mengoli)

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(con una significativa incidenza delle punte); omogenei con tale orizzonte sono i pochi stru-menti presenti (raschiatoi e denticolati). Sono tuttavia documentate anche frequentazioni più recenti (Paleolitico superiore, Neolitico), cui sono da riferire i pur pochi elementi che definiscono catene operative laminari (lame, lamelle, nuclei a lame e lamelle).

Pur nell’impossibilità di seguire le dina-miche di occupazione e utilizzo dell’area nei diversi momenti, è verosimile che in tutte le fasi l’economia di approvvigionamento abbia seguito rotte locali, giacché le materie prime utilizzate sembrano rapportabili agli affiora-menti selciferi noti nell’area.

Anche l’area di Fontecurelli è stata interes-sata da frequentazioni successive nel corso del Paleolitico. Come per San Mauro, a fronte di rade tracce riferibili al Paleolitico superiore-Neolitico (una decina tra lame e nuclei), la gran parte dell’insieme litico qui rinvenuto (comprendente 137 manufatti) è da attribuire al Paleolitico inferiore-medio. La tecnologia adottata ricalca in parte quella descritta per l’industria di S. Mauro, con una prevalente incidenza dei prodotti Levallois, cui si affian-cano, questa volta, non pochi supporti prove-nienti da catene operative discoidi.

Si segnala infine la presenza, nell’insieme, di due bifacciali, ambedue confezionati su lastri-

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bibliografiaArzarello M. (2006): Vastogirardi (V). Cap. 4.3.2 - Le industrie litiche. In: Peretto C., Minelli A. (a cura di), Preistoria in Molise. Gli insedia-menti del territorio di Isernia. CERP, Collana Ricerche 3, Aracne Editrice, Roma, 325-328.

Arzarello M. & Rufo E. (2006): Capracotta. Cap. 4.5.2 - L’insieme litico: osservazioni preliminari. In: Peretto C., Minelli A. (a cura di), cit., 351-355.

Arzarello M., Di Nucci A., Lembo G., Minelli A., Nuvoli P., Paglione B., Rufo E., Thun Hohenstein U., Peretto C. (in stampa): From research to dissemination: interventions for the valorisation and dissemination of prehistoric evidences of the Isernia province (Molise, Italy): the Project LEADERPLUS-MOLI.G.A.L. Acts of the XV Con-gress of the International Union of Prehistoric and Protohistoric Sciences (Lisboa, 4-9 Settem-bre 2006).

Grimaldi S. (a cura di) (2005): Nuove ricer-che sul Paleolitico del Molise. Materie prime, industrie litiche, insediamenti. CERP, Collana Ricerche, 2, Isernia.

Radmilli A. M. (1965): Abruzzo Preistorico. Il Paleolitico inferiore-medio abruzzese. Sansoni Editore, Firenze.Radmilli A. M. (1977): Storia dell’Abruzzo dalle origini all’Età del Bronzo. Giardini Editori e Stam-patori, Pisa.

Rufo E. (2006): Pescopennataro: Rio Verde e Laghi dell’Anitra (RV, RV1, RV2, RV3). Cap. 4.1.2a - L’insieme litico di Rio Verde-RV. In: Peretto C., Minelli A. (a cura di), cit., 253-271.

Rufo E. & Paglione B. (2006b): Carovilli: località San Mauro e località Fonte Curello (C3). Cap. 4.2.2b - L’insieme litico di località Fonte Curello. In: Peretto C., Minelli A. (a cura di), cit., 305-323.

Terzani C. (2006): I risultati delle attività di ricognizione nell’alto Molise. Cap. 5.2 – I ritrova-menti ceramici. In: Peretto C., Minelli A. (a cura di), cit., 359-369.

Ucelli Gnesutta P. (1985): L’industria litica di Pescopennataro (Isernia). Rassegna di Archeo-logia, 5: 9-48.

Osservazioni generali

In anni recenti, il riesame delle evidenze prei-storiche dell’alto Molise, in parte già note da più di un cinquantennio ma solo oggi riordi-nate in una sintesi organica, ha aggiunto nuo-ve tessere al mosaico dell’antico popolamento della regione, sino a ieri esclusivamente legato al focale giacimento di Isernia La Pineta (cui si sono affiancati, negli ultimi anni, gli importanti ritrovamenti di Colle delle Api e Grotta Reali). Sebbene le collezioni di Pescopennataro, Ca-pracotta, Vastogirardi e Carovilli provengano essenzialmente da raccolte di superficie, non definenti contesti archeologici sensu stricto, esse rappresentano una valida testimonianza delle intense e ripetute frequentazioni che hanno interessato quest’area nel corso delle di-verse fasi del Paleolitico (più saltuarie le tracce riferibili a orizzonti olocenici), tale da ampliare il quadro cronologico di riferimento per lo stu-dio della preistoria del territorio di Isernia.

In queste pagine:La grotta e il riparo sottoroccia di Cegna Ciffuni (Carovilli). Nel corso di prospezioni sono stati rinvenuti, nell’area prospiciente il riparo, alcuni frammenti di ceramica dell’età del Bronzo

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Alberto Cazzella*, Valentina Copat*, Michela Danesi*, Alessandro De Dominicis*, Giulia Recchia**, Cristiana Ruggini** Università di Roma “La Sapienza” – ** Università di Foggia

SITI DELL’ETÀDEL BRONZO NEL MOLISE INTERNOLocalità Paradiso a Monteroduni (IS) e Rocca di Oratino (CB)

L e ricerche archeologiche in due siti interni del Molise riferibili all’età del bronzo, condotte negli ultimi anni dalla cattedra di Paletnologia dell’Università La sapienza

di Roma, in collaborazione con l’Università di Foggia, hanno consentito di ottenere dati significativi su un’area ancora poco conosciuta relativamente a questo periodo.

Veduta della Rocca di Oratino(foto: G. Lembo)

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La Soprintendenza per i Beni Archeologici del Molise, che cogliamo l’occasione per rin-graziare, ha sempre dimostrato la massima disponibilità, favorendo in tutti i modi lo svol-gimento delle ricerche.

Gli scavi effettuati a Monteroduni tra il 2002 e il 2007, in località Paradiso, sono stati volti all’esplorazione di un’area di dimensioni ridot-te posta subito al di sopra del corso del Voltur-no. L’abbondante scorrimento di acque, presu-mibilmente in relazione anche con condizioni climatiche e ambientali favorevoli, ha provo-cato la formazione di un consistente strato di travertino subito al di sopra delle tracce di occupazione attribuibili a un momento tardo dell’età del Bronzo, consentendone una buona conservazione, almeno laddove non è avvenu-to il disturbo da parte dei lavori agricoli.

In particolare è stata posta in luce un’ampia parte di una struttura di grandi dimensioni (circa 13x8 m), di forma tendenzialmente ova-leggiante, risalente al XII secolo a.C. La strut-tura, leggermente incavata nel travertino, è di difficile interpretazione: l’apparente assenza di buchi di palo perimetrali sembra esclude-re l’ipotesi di un edificio coperto, anche se la continua formazione del travertino può aver mascherato tali impronte. Il rinvenimento di alcuni grandi vasi per la conservazione di pro-dotti alimentari rotti sul posto sembra conva-lidare l’ipotesi di una struttura con copertu-ra, rispetto a quella di un’area di lavorazione aperta. Le forme ceramiche rinvenute fanno dunque pensare ad attività sia di conservazio-ne che di preparazione, cottura e consumo dei cibi. Non mancano frammenti di colini, forse connessi con la lavorazione dei derivati del latte. Sono presenti anche una piastra di cot-tura e un focolare con pianta a forma di ferro di cavallo.

Tra i reperti più significativi si può ricordare un frammento di ceramica figulina tornita, di-pinta con un motivo a spirale, che si ricollega con le produzioni di tipo miceneo, probabil-

mente proveniente da qualche luogo di pro-duzione dell’Italia meridionale, piuttosto che direttamente da un centro egeo. Tale rinveni-mento si ricollega con la messa in luce di di-versi frammenti di grandi contenitori ceramici al di fuori della struttura, ma non lontano da essa, che a loro volta fanno pensare a tecniche di tipo egeo che si affermano in Italia in quel periodo. In questo caso, però, date le grandi di-mensioni, i contenitori ceramici devono esse-re stati prodotti sul posto. Non sappiamo con

precisione quale tipo di prodotti contenessero ma, in base a confronti con situazioni simili, si può pensare ai cereali o all’olio di oliva.

Dunque, anche se sembra trattarsi di un in-sediamento di piccole dimensioni, posto in un’area molto interna, il nucleo umano che vi risiedeva era in grado di ottenere beni di tipo esotico e di acquisire tecniche di lavorazione della ceramica e modalità di conservazione dei prodotti introdotti nell’Italia meridionale dai contatti con i navigatori egei. Questo fa ipotiz-

In alto:Monteroduni (loc. Paradiso).Collocazione topografica del sito.

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più antico insediamento durato per più fasi dell’età del Bronzo; tuttavia il rinvenimento è comunque di notevole interesse in quanto l’in-sieme dei reperti rinvenuti sembra attestare la frequentazione dell’area per circa mille anni, a partire dalla fine del III millennio.

Gli scavi nell’insediamento dell’età del Bronzo della Rocca di Oratino sono iniziati due anni dopo quelli di Monteroduni e sono tuttora in corso. Il sito preistorico, individuato diversi anni fa da un saggio condotto dal prof. G. De Benedittis, è in parte interessato da pre-senze successive, di età classica e medievale. Nell’area prescelta per lo scavo, posta alla base meridionale dell’emergenza naturale su cui sorge la Rocca medievale, tali presenze sono marginali ed è stato quindi possibile esplorare l’insediamento dell’età del Bronzo su una su-perficie relativamente ampia. Il deposito ar-cheologico, di cui non si è ancora raggiunta la

Monteroduni (loc. Paradiso)Planimetria relativa al livello antropico superiore con evidenziati i resti strutturali e la distribuzione dei materiali archeologici messi in luce.

zare che le piccole comunità delle aree interne avessero una capacità economica più elevata di quanto in genere non si pensi, probabilmen-te connessa all’allevamento e ai prodotti che si ricavavano dagli animali. Inoltre, pur essen-do presumibilmente prive di forme interne di stratificazione sociale in rapporto alla loro bassa entità demografica, esse avevano esigen-ze di conservazione di una certa quantità di prodotti agricoli, senza che questo implicasse forme di centralizzazione e redistribuzione.

Saggi in profondità, effettuati nel medesimo

sito al disotto di un ulteriore strato di traverti-no, hanno consentito di individuare un livello più antico che, privo di elementi strutturali riconoscibili, ha restituito manufatti in pietra scheggiata e materiali ceramici molto fram-mentari che coprono l’intero arco temporale dell’età del Bronzo. Il fenomeno sembra da interpretare in relazione a una situazione di moderato trascinamento dei manufatti stessi a opera dello scorrimento delle acque super-ficiali che in quest’area confluivano. Non si avrebbero, quindi, testimonianze in situ di un

In questa pagina, dall’alto:Monteroduni (loc. Paradiso): ceramica figulina, tornita e dipinta di ispirazione egea, rinvenuta nei livelli antropici superiori;

Monteroduni (loc. Paradiso): grandi olle rotte in posto rinvenute nei livelli antropici superiori

2 cm

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parazione, la trasformazione ed il consumo in-dividuale e collettivo di vari generi di sostanze alimentari. Abbondanti sono i reperti vegeta-li, sia sotto forma di semi che di carboni, e le ossa di animali. Frumento, farro e orzo (forse utilizzato per ottenere la birra) sono i cereali maggiormente documentati, mentre tra i le-gumi, attestati in misura minore (forse per il diverso tipo di trattamento), predomina la fa-vetta. Sono presenti anche alcuni semi di Vitis vinifera. Tra i reperti antracologici prevalgo-no quelli di querce caducifoglie, presumibil-mente legati all’uso del relativo legno come combustibile. Tra i resti di animali domestici sembrano prevalere quelli dei caprovini, che raggiungono circa il 35% del campione, seguiti dai suini e dai bovini, che si collocano poco al di sotto del 20%. La diversa resa in carne di queste specie ovviamente modifica il reale ap-porto alimentare, dove i bovini divengono net-tamente prevalenti. Una certa incidenza ha la caccia (circa il 27% dei resti ossei), nel cui am-bito predomina il cervo, seguito dal cinghiale.

base, ha un consistente spessore. I livelli fino-ra esplorati sembrano comunque tutti riferibi-li a un momento avanzato del Bronzo Recente (indicativamente XII secolo a.C., contempo-ranei quindi alla struttura di Monteroduni – loc. Paradiso), benché siano stati rinvenuti anche materiali che fanno ipotizzare un ini-zio precedente di occupazione del sito sempre nell’ambito dell’età del Bronzo. Sembra quindi che l’insediamento abbia avuto una lunga du-rata o sia stato interessato da episodi ripetuti di occupazione, probabilmente connessi alla posizione particolare del luogo, che domina il corso del Biferno. Si auspica che la prosecu-zione degli scavi possa consentire di chiarire questo punto.

I livelli superiori sono interessati dalla pre-senza di diverse piastre di cottura, più volte ri-fatte nello stesso punto. Si può quindi pensare che, nel momento più recente di vita dell’inse-diamento, l’area oggetto di indagine fosse de-stinata ad attività collettive: l’analisi funziona-le dei manufatti ceramici rinvenuti e lo studio dei resti archeozoologici e paleobotanici ha infatti permesso di ricostruire le attività do-mestiche all’aperto qui praticate, quale la pre-

1.

2.

In alto:Dolii in ceramica di impasto di ispirazione egea.

Oratino – La RoccaMateriali ceramici dai livelli dell’età del Bronzo

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tura a tumulo (struttura 6). Quest’ultima è sta-ta individuata nell’ultima campagna di scavo e dovrà essere meglio definita. La funzione delle strutture murarie citate è anch’essa da definire: tra le ipotesi più probabili quella che si tratti di opere di terrazzamento oppure di fortificazione. Resta infine sostanzialmente da scavare tutta la depressione artificiale, che sembra avere una forma ovaleggiante e dimen-sioni leggermente inferiori rispetto a quella di Monteroduni, ma una profondità sicuramente maggiore. Essa potrebbe essere stata destina-ta ad attività di combustione, data la notevole presenza di lembi di terreno bruciato e con-cotto nella porzione già messa in luce. È pre-sumibile che sia stata realizzata in una fase

La selezione delle parti scheletriche attestate fa ritenere che si svolgesse lì anche la macella-zione degli animali. Si hanno anche tracce di lavorazione sul posto del corno di cervo.

Tali livelli coprono due piccole strutture ovali scavate in profondità nel banco argil-loso (struttura 1 e struttura 2), due strutture murarie di grandi dimensioni (struttura 4 e struttura 5), in pietrame a secco, realizzate in due momenti successivi, il riempimento di un’ampia depressione artificiale (struttura 3) e parte di quella che sembra essere una strut-

In basso:Oratino – La Rocca.Collocazione topografica del sito.

Oratino – La RoccaEsempio di distribuzione spaziale e analisi funzionale dei manufatti per uno dei piani di frequentazione legati ad attività di preparazione/trasformazione e consumo del cibo.

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precedente il Bronzo Recente, ma i problemi connessi sia con l’aspetto cronologico che con quello della sua funzione originaria, potranno essere affrontati e chiariti solo dopo che sarà stata interamente messa in luce.

I due siti esplorati, soprattutto per quel che riguarda la fase attualmente meglio documen-tata per entrambi (un momento avanzato del Bronzo Recente, XII secolo a.C.), mostrano numerose affinità nelle produzioni ceramiche ed è quindi probabile che i contatti tra le due aree interne (l’alta valle del Volturno e l’alta valle del Biferno) fossero piuttosto stretti. A

Oratino – La RoccaPianta dell’area di scavo con l’indicazione delle strutture citate nel testo.

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loro volta gli elementi stilistici documentati si ricollegano anche con contesti dell’Abruzzo, della Puglia settentrionale, del Lazio e presu-mibilmente della Campania settentrionale (i dati sono attualmente scarsi per questo perio-do in tale area).

Il fenomeno si collega probabilmente sia con forme di spostamento stagionale di capro-vini e bovini su breve distanza (il cui scopo era sfruttare le differenze altimetriche), sia con attività di scambio, grazie alle quali, come si è visto, le comunità dell’interno non risultavano del tutto isolate.

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di Adriano La Regina - Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte - Roma

PIETRABBONDANTE:la domus publica del santuario

C on la campagna di scavo eseguita a Pietrabbondante nel 2009 si è riportata in luce nella sua interezza la grande costruzione

adiacente al complesso monumentale del tempio con il teatro.

Veduta del teatro dalla cavea

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nelle dimore lussuose racchiude il giardino privato. Tra il muro di recinzione del tempio e la parete frontale della casa vi era uno spazio libero di oltre 33 metri. La parte residenziale dell’edificio segue lo schema canonico della casa con atrio, alae e tablino. Contrapposta al tablino è una grande aula fiancheggiata da ambienti con essa funzionalmente collegati. I servizi di cucina occupavano tre ambienti dell’annesso portico e una stanza di passaggio ove venivano sistemate le vivande pronte per essere servite nella grande aula. La cucina si apriva anche sulla navata esterna del portico. Tra la casa ed il retrostante muro di conteni-mento del terreno verso la montagna vi erano gli alloggi per gli schiavi, una serie di celle qua-

L’edificio occupa gran parte di una terrazza, lunga circa 110 metri, che si estende sul ver-sante occidentale del santuario con il quale comunica attraverso un’apertura nel muro di recinzione. L’area della terrazza è delimitata a monte dal declivio su cui è ricavata e sul lato esterno da un muro in grossi blocchi di pietra costruito per il contenimento del terreno. La domus ha un’ampiezza complessiva di quasi 70 metri, e una superficie di circa 1260 metri quadrati; se si considerano anche le pertinen-ze esterne, cioè gli alloggi per gli schiavi e le aree non coperte, la superficie complessiva è di 3140 metri quadrati. Nella parte posteriore la casa è dotata di un portico a due navate in luo-go del peristilio, il portico quadrangolare che

Fin dal momento della scoperta, avvenuta nel 2002 con un saggio che individuò l’im-pluvio, si comprese che l’edificio, una casa ad atrio, poteva essere la domus publica del luogo sacro. La prosecuzione delle ricerche rivelò che la casa, costruita verso la fine del II seco-lo a. C. e quindi contemporanea al tempio, ri-produceva solamente in parte il modello della residenza aristocratica romano-italica d’età repubblicana, al punto da rappresentare una tipologia del tutto originale, incompatibile con una destinazione privata. Le indagini arche-ologiche di Pietrabbondante ci restituiscono così il primo esempio di domus publica chiara-mente riconoscibile, documentandone le pe-culiarità architettoniche e funzionali.

In alto:Tempio e teatro; sulla sinistra la domus publica(foto L. Scaroina)

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doni per l’esposizione di oggetti depositati ex voto; aveva infine ambienti chiusi per la custo-dia di cose preziose e la cucina per la prepa-razione di banchetti che si tenevano sia nella casa, e in particolare nella grande aula, sia nel portico. Un allineamento di cinque colonne di-videva la navata interna del portico da quella esterna; quest’ultima si apriva sullo spazio an-tistante attraverso un colonnato che occupava la sua intera estensione; al posto della colonna centrale vi era tuttavia un pozzo rituale, non ancora esplorato.

L’aula rettangolare retrostante il tablino doveva essere una curia, cioè l’ambiente de-stinato alle attività di un collegio sacerdotale ed ai relativi conviti rituali che si tenevano nei giorni di festa. Sappiamo da Varrone che vi erano due generi di curie: nelle une i sacerdoti si occupavano di questioni divine, nelle altre il senato di affari umani. D’altronde il senato, quando era convocato nel santuario di Pie-trabbondante, aveva come luogo di assemblea plenaria il teatro. La connessione con il tempio rivela infatti non solo la sacralità dell’edificio, ma anche il suo impiego come sede di riunio-

ni ufficiali del senato. La parte inferiore della cavea non ha in effetti una vera e propria proe-dria, la prima fila di sedili destinati a magistra-ti e sacerdoti, come di solito avveniva nei teatri adibiti solo ad usi scenici, ma è costituita da ben tre ordini di sedili con spalliera riservati a personaggi del medesimo rango, complessiva-mente per circa 160-180 posti. Il senato poteva riunirsi solamente in luoghi “inaugurati”, co-stituiti come templa mediante la pratica della disciplina augurale. D’altra parte ogni luogo inaugurato poteva ospitare attività del senato.

Quando questo operava per commissioni si ri-univa all’interno di edifici sacri, ed è da sup-porre che anche a quest’uso fossero adibite le celle del tempio collegato al teatro. La grande aula retrostante il tablino nella domus di Pie-trabbondante costituisce il primo esempio di curia sacerdotale. Non sono infatti identifica-te la curia Acculeia, la curia Calabra e la curia Saliorum di Roma; è possibile che la prima di queste si trovasse alle pendici del Palatino, verso il Foro, nel sito poi occupato dall’orato-rio dei Quaranta Martiri, di cui non conoscia-mo comunque l’aspetto di epoca repubblicana.

La domus poteva costituire la sede del som-mo magistrato dello stato sannitico nelle oc-casioni in cui egli esercitava sul posto le pro-prie funzioni pubbliche. Questi era il meddís túvtíks, magistrato annuale, unico, che detene-va i più elevati poteri pubblici, giurisdizionali

drangolari dotate di focolari. Il rifornimento idrico era assicurato da una sorgente, a monte dell’edificio, da cui l’acqua fluiva attraverso un fosso tuttora esistente, anticamente regolato in modo da fornire alla casa acqua corrente e da consentire la formazione di riserve in una cisterna per i periodi di siccità.

Le novità sotto il profilo della tipologia edili-zia sono dunque due, e riguardano entrambe la parte posteriore dell’edificio: l’una è costituita dal portico rettilineo, il cui colonnato si apriva su un’area pubblica, laddove nelle domus pri-vate si trovava il giardino chiuso; l’altra novità consiste nell’ampia aula prospiciente l’area su cui si affacciava anche il portico. Le funzio-ni a cui erano destinati questi spazi rivelano il carattere pubblico e sacrale dell’edificio. Il portico era infatti usato per lo svolgimento di attività religiose, come dimostra la presenza di altari, dediche e doni votivi nella navata in-terna; questa comprendeva anche un piccolo ambiente dedicato al culto di una divinità, il sacrarium di Ops Consiva, di cui è stata trovata la dedica all’interno del portico. Questo aveva lungo il muro una serie di banconi a due gra-

A sinistra:Teatro e tempio retrostante; sullo sfondo la vetta fortificata del Monte Saraceno;

In basso:Domus publica: oggetti votivi nella navata interna del portico

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demandate all’edificio adiacente al santuario. Nella regia di Roma erano ospitati i sacraria di Marte e di Ops Consiva, proprio come nella domus di Pietrabbondante vi è il sacrarium di Ops Consiva. Abbiamo così anche un concreto esempio di cosa fosse in realtà un sacrarium.

I caratteri dell’edificio che consentono di riconoscere la sua destinazione pubblica e sacrale sono in primo luogo il portico conte-nente gli altari, i doni votivi ed il sacrarium, poi la connessione diretta con il tempio e il teatro, in un rapporto non diverso da quello della domus publica di Roma con il santuario di Vesta, e infine la presenza della grande aula

scrizione in Varrone, edificata nell’anno 435 a. C. fuori del pomerio nel Campo Marzio. Vi si tenevano le operazioni di censimento, della leva militare e dell’ispezione delle armi. Cen-sori e consoli se ne servivano quindi in queste particolari occasioni; inoltre vi alloggiavano i comandanti prima del trionfo e gli ambascia-tori stranieri. Le funzioni relative alla sfera re-ligiosa a cui era destinata a Roma la domus pu-blica, e parte di quelle rimaste nell’antica reg-gia, la domus regia, a Pietrabbondante erano

indagini nelle aree ancora inesplorate tra i due templi. La presenza del meddix tuticus a Pie-trabbondante è comunque attestata da buona parte delle iscrizioni in lingua osca ivi rinve-nute. Fino a questo momento non vi è peraltro documentata la presenza di altre cariche pub-bliche per l’affidamento e l’approvazione di attività edilizie o in dediche religiose, se non, forse, quella di due comandanti che depon-gono insieme un dono alla Vittoria durante la guerra sociale.

La domus publica di Roma, presso il Foro, è nota dalle fonti ma è appena identificabile nella sua posizione e comunque non è ricono-scibile nei suoi aspetti architettonici, attestati solamente da lacerti murari. Fu creata in età repubblicana per sostituire in parte la domus regia e divenne la sede del pontefice massimo fino all’epoca di Augusto. Importanti funzioni pubbliche non espletabili al centro della città per l’esigenza di grandi spazi erano attribuite alla villa publica, di cui abbiamo una bella de-

e militari, e che rappresentava il popolo negli atti con la divinità, come è dimostrato dalla de-dicatio del tempio minore di Pietrabbondante. Il meddís túvtíks, che i Romani designavano con il nome di meddix tuticus, era dotato di imperium e poteva essere acclamato embratur, imperator, acquisendo così il diritto di eserci-tare il trionfo, come i comandanti dell’eserci-to romano. Egli aveva la facoltà di convocare il senato per proporre deliberazioni di spesa pubblica, di cui era esecutore; poteva inoltre affidare autonomamente opere pubbliche e collaudarle. Il meddix tuticus era infine il ma-gistrato che con il proprio nome consentiva di individuare l’anno in cui aveva tenuto la cari-ca, così che l’elenco dei meddices tutici che si erano succeduti nel corso del tempo costitu-iva la cronologia ufficiale dello stato, proprio come avveniva a Roma con i fasti consolari. Per avere la certezza che la domus fosse anche la sede temporanea del meddix tuticus, come è probabile, saranno tuttavia necessarie altre

santuario e Domus publicaa) Santuario e domus publica (elaborazione grafica: P. Iadisernia e D. Quaranta, 2009)b) Domus publica, schema planimetrico (elaborazione grafica: P. Iadisernia e D. Quaranta, 2009)

a.

b.

A sinistra:Domus publica: pavimento della prima fase

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rennae, di cui può essere considerata una di-retta pertinenza. Sulla base di questi risultati è quindi probabile che anche in altri santuari si possano ora riconoscere edifici di questo tipo destinati all’espletamento di funzioni connes-se con il culto.

La casa di Pietrabbondante perse la sua fun-zione originaria quando, dopo gli ultimi svi-luppi della guerra sociale, il santuario cessò di essere sede di culto pubblico della nazione sannitica. L’intero complesso non presenta tuttavia tracce di devastazioni avvenute du-rante quel conflitto; sembra anzi che le strut-ture monumentali siano state rispettate e cu-stodite, sia pure senza notevoli interventi di

che si trova a cavallo delle mura della città ed a ridosso del santuario di Minerva, il cosiddet-to Foro triangolare. Peraltro anche a Pietrab-bondante un’iscrizione mutila contiene il ter-mine trííb[...], in cui si può forse riconoscere un riferimento proprio alla domus publica. Le ripercussioni della scoperta di Pietrabbon-dante vanno però anche oltre: consentono ad esempio di dimostrare che la casa rinvenuta nell’area dell’Auditorio, a Roma presso la via Flaminia, non è una struttura privata sorta con finalità produttive in un’area agricola, come si è sostenuto finora, ma un edificio pubblico di carattere sacro. Doveva infatti essere sede di conviti rituali in occasione di festività religio-se. Questa costruzione, che si evolve nel tempo secondo il modello della casa ad atrio, è dotata di un edificio di culto aperto verso l’esterno, e si trova in prossimità del nemus Annae Pe-

prospiciente l’area pubblica su cui si attestava anche il portico. Conosciamo la definizione di domus publica in lingua osca, documentata a Pompei. Un’iscrizione dipinta sul muro ester-no di una casa dava agli abitanti di quella parte della città indicazioni sul luogo di raduno per la difesa delle mura durante la guerra sociale: ‘alla casa pubblica presso il tempio di Miner-va’. La domus publica compare in caso ablativo come tríbud túv(tikad). Prima della scoperta di Pietrabbondante la definizione attestata a

Pompei era intesa nel senso generico di ‘edi-ficio pubblico’ ed era riferita ad una tipologia del tutto diversa da quella della casa ad atrio. L’edificio era stato infatti variamente identifi-cato, per esempio anche con la ‘Palestra san-nitica’, senza immaginare alcun collegamento con una funzione specifica analoga a quella della domus publica del Foro a Roma. Ora pos-siamo identificare la domus publica di Pompei con la Casa dell’Imperatore Giuseppe II, o Casa di Fusco, un edificio di età repubblicana

PompeiIndividuazione della domus publica di Pompei sulla pianta di H. Eschenbach, 1970.

In alto:Domus publica: sacrario nella navata interna del portico

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da Antonio per pagare le sue legioni. È questo il periodo in cui la domus viene in proprietà ai Socelli, ex militari, di cui abbiamo il mausoleo, l’unico di Pietrabbondante. Assegnazioni di terre a militari furono fatte anche in località vicine: ad Arco, per esempio, ove un Munatius ebbe una proprietà, ed anche un monumento funerario; e così anche a Cerreto di Vastogirar-di, ove si trovano alcuni Papii, anch’essi vete-rani di Azio. L’ormai vecchia e cadente domus publica di Pietrabbondante si trasforma nella residenza della gens Socellia, che la ristruttu-ra per condurre sul posto attività produttive, lasciando invece in abbandono il portico nel frattempo crollato. Da questo momento viene interrotto il collegamento della domus con il santuario mediante la chiusura del varco che attraversa il muro di recinzione. Questo signi-fica che l’area del tempio e del teatro rimane ancora per qualche tempo sotto il controllo pubblico, anche se in pieno decadimento. Agli inizi del I secolo d.C. cominciano infatti a crol-lare le decorazioni in terracotta del tetto. Nel

presenza di Gaio Stazio Claro, noto da Appia-no come Stazio Sannita, che aveva contribuito all’erezione del grande tempio, e che dopo aver aiutato gli insorti italici durante le prime fasi della guerra sociale passò dalla parte di Silla, che lo chiamò a far parte del senato romano.

Il periodo di transizione, dopo la cessazione dello stato sannitico, deve essere durato a lun-go, almeno cinquant’anni, ossia il tempo che fu necessario per la riorganizzazione dei territori immessi nello stato romano in tutta la penisola italiana dopo la guerra sociale, e per la costitu-zione dei municipi, che nel Sannio ebbe luogo nell’età di Cesare. Con la fine delle guerre ci-vili, per fare fronte ai gravi problemi sociali e per favorire la concordia civile, si creò la pres-sante esigenza di assegnare terre ai veterani delle legioni di Augusto e di Antonio. In un momento posteriore alla battaglia di Azio un reduce alloggiò in uno degli ambienti del por-tico a sinistra del tempio di Pietrabbondante, nascondendovi un tesoretto di denari coniati

manutenzione, in attesa di determinazioni da parte della nuova amministrazione romana; sembra che anche le attività cultuali siano sta-te mantenute per qualche tempo su scala loca-le, alla stregua dei santuari minori di interesse paganico. Le devastazioni sillane nel Sannio sono un’invenzione moderna, che non trova particolari riscontri archeologici negli edifici pubblici, nei santuari e nelle abitazioni, quali si trovano invece frequentemente per il perio-do della guerra annibalica. Il luogo comune delle radicali distruzioni avvenute durante la guerra sociale ha origine dal fraintendimento delle notizie riguardanti la spietata condotta di Silla nei confronti dei suoi nemici, tra i quali vi era buona parte dell’aristocrazia e della for-za militare sannitica. Migliaia di prigionieri furono giustiziati a Roma, nella villa publica dopo la battaglia di Porta Collina, e quelli che non erano stati catturati furono proscritti; ma questo non riguardò tutti i Sanniti. Proprio a Pietrabbondante, infatti, è documentata la

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Piranomonte M. (2001), Annae Perennae Nemus, in Lexicon Topographicum Urbis Romae, Suburbium, vol. I, 59-63, Edizioni Quasar, Roma.

corso del III secolo l’area circostante il tempio viene impiegata per sepolture.

La scoperta della domus publica rende anco-ra più evidente il ruolo particolare svolto dal santuario di Pietrabbondante nel contesto del-lo stato sannitico, quindi fino alla guerra socia-le ed alle ultime resistenze nel Sannio, che si protrassero per alcuni anni. Dobbiamo ricono-scere ormai con ogni certezza nel complesso monumentale di Pietrabbondante il santuario nazionale dei Samnites Pentri. Una dedica a Victoria e due ad Ops Consiva, le personifica-zioni della potenza militare e dell’abbondan-za, ci restituiscono i nomi di due delle divinità venerate nel tempio a tre celle; la terza resta ancora sconosciuta, ma l’associazione di Ops a Mars nella regia di Roma induce a pensare che potrebbe trattarsi, forse, proprio di Mamerte, il Marte sannitico.

A sinistra:Domus publica: impluvio(foto L. Scaroina)

Durante i restauri del teatro di Pietrabbondante, eseguiti dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici del Molise, furono svolte ricerche che nel 2002 condussero al ritro-vamento della domus publica del santuario. Le successive indagini, promosse dal Comune di Pietrabbondante, sono state finanziate dalla Regione Molise e condotte dalla So-printendenza con la collaborazione dell’Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte. Vi hanno partecipato nu-merosi studenti di diverse università.

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lo pezzo mangiandolo secondo un rito empio.Il vescovo stesso abbatté l’albero sacro e ne

strappò le radici facendo costruire al suo po-sto una chiesa, chiamata Santa Maria in Voto e, grazie alla collaborazione della duchessa Teo-dorada, fece fondere il simulacro d’oro della vipera ottenendone un calice sacro.

Relitti toponomastici si ritrovano a valle del colle della Vipera nel luogo oggi denominato S. Barbato.

Durante la dominazione longobarda, nel pe-riodo compreso tra il IX e il X secolo, le cro-nache del tempo rappresentano il paesaggio come un territorio reso selvatico dalla bosca-

secondo una leggenda, San Barbato, vescovo di Benevento vissuto nel VII secolo, fece sra-dicare l’albero di noce intorno al quale i Lon-gobardi erano soliti adorare una vipera d’oro (forse alata, o con due teste) chiamata Anfisbe-na, molto simile all’Ouroboros, serpente che si morde la coda, simbolo gnostico dell’infinito, della sintesi tra il bene e il male e dell’eterno ritorno. In onore di Wotan, padre degli dèi, i guerrieri erano soliti sospendere ad un albe-ro sacro una pelle di animale; tutti coloro che lì si erano riuniti, voltando le spalle all’albero, spronavano a sangue i cavalli e si lanciavano in una cavalcata cercando di superarsi a vicenda. Ad un certo punto della corsa, girando i cavalli all’indietro, cercavano di afferrare la pelle con le mani e, raggiuntala, ne staccavano un picco-

irregolari, e di Vipera (Viperam, Guiperanum) di cui è rimasto soltanto il toponimo “Toppo della Vipera”, coincidente con una località nei pressi di Gambatesa, nelle vicinanze del tor-rente Succida, va fatta risalire probabilmente all’epoca longobarda.

Il nome “Chiusano” deriverebbe dal lati-no clausus che vuol dire chiuso, oppure da “chiusa” che indicherebbe alcune zone costi-tuite da boschi di alto fusto, ma anche topo-nimo fondiario, costruito col suffisso –anus sul nome gentilizio romano Clusius; mentre “toppo” significherebbe cima, sommità, colle; di conseguenza “Toppo della Vipera” equivar-rebbe a Colle della Vipera. Il termine “Vipera” è probabile che sia scaturito dal culto della vipera molto diffuso tra i Longobardi. Infatti,

I castelli, le torri, i palazzi di origine medie-vale che costellano gli abitati e punteggiano il territorio molisano, si rivelano una compo-nente essenziale dello scenario architettonico e del paesaggio della regione. Queste strutture costituiscono il segno fisico delle esigenze di-fensive e militari, ma anche l’espressione ma-teriale e simbolica dei processi di affermazio-ne dei poteri feudali e signorili e di accentra-mento abitativo che diedero vita al fenomeno dell’incastellamento.

Nel territorio di Gambatesa, l’origine degli abitati di Chiusano (Clusanum), situato sulla sommità chiamata localmente “Terravecchia”, nell’attuale bosco Chiusano, di cui non resta-no che pochi ruderi costituiti da blocchi poco lavorati di pietra locale messi in opera in filari

“La città è il quadro espressivo della cultura e della civiltà…nella quale la storia si materializza nelle pietre e negli

edifici…nelle strade e nelle case” (Piccinato, 1978)

di Maria Teresa Lembo

Insediamenti fortificati medievali scomparsi nel territorio di Gambatesa

i feudi di

Clusanume Viperam

In alto:Pianta del feudo prediale di S. Maria della Vittoria, Platea Orsini, 1714 (Archivio parrocchiale di Gambatesa)

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la popolazione; per questo, il tipo di abitazione più diffuso fu costituito dalla capanna semin-terrata, fatta di terra, fango e sterco con tetto di paglia o rami e fronde; i pavimenti furono realizzati in terra battuta, mentre i muri, edifi-cati in terra e legno, delimitavano, quasi sem-pre, spazi molto angusti.

Non meno interessante fu, in questo perio-do, il ruolo svolto da alcune strutture ecclesia-stiche operanti, nel corso del X secolo, in tutto il territorio. In molte località, come Chiusano e Vipera, è probabile che le popolazioni rurali preferirono trovare riparo anche presso mo-nasteri o chiese, capaci di offrire loro una pro-tezione più efficace di quella dei signori laici. In seguito alle continue incursioni saracene, questi centri religiosi assursero a ruolo di poli di aggregazione: le chiese rurali, come quelle poste fuori le mura, divennero gli elementi pri-mari intorno ai quali si formarono agglomerati di case. I monasteri benedettini incentivarono il formarsi di comunità monacali i cui compi-ti e i cui scopi furono apertamente sociali. Le varie “celle benedettine” divennero ben pre-

se, “s’incominciarono ad edificare castella in luogo di tuguri, cui si applicarono i nomi de-sunti dai luoghi dove erano posti…Castella et villis aedificare coeperunt, quibus ex locorum vocabulis nomina indiderunt…”.

Altri autori, invece, fanno risalire l’appari-zione dei castra già nel paesaggio preurbano dei secoli VII-IX, nonostante essi avessero la funzione di piccoli centri artigianali o di ser-vizio; ma è nel corso del X secolo che i castra assunsero un ruolo sempre più preponderante all’interno dell’ambito territoriale, in quan-to, in seguito alle numerose guerre interne ed esterne alla regione, divennero dei veri e propri luoghi di rifugio-difesa per numerose comunità contadine bisognose di protezione. Sotto il profilo più strettamente socio-politi-co, i castra divennero non soltanto luoghi di controllo delle zone circostanti, ma anche un mezzo attraverso il quale poter infondere sog-gezione nelle popolazioni dipendenti, obbli-gate a prestare omaggi e tributi. Sul piano più strettamente architettonico, i castra furono caratterizzati da strutture molto essenziali ed elementari e talmente precarie da offrire una difesa instabile. Tutte le opere edilizie, infatti, furono realizzate in legno o in materiali affini facilmente asportabili nel corso delle frequen-ti alluvioni o attaccabili dal fuoco durante le continue guerre. La torre, posta al centro del recinto, era piuttosto alta e stretta ed aveva l’ingresso molto rialzato da terra per evitare sfondamenti con arieti; al suo interno erano ubicati i soli ambienti indispensabili alla vita militare, tra cui i magazzini delle guardie, la sala comune ad uso di refettorio o corte di giu-stizia e l’abitazione del signore. Con l’aumen-tare delle esigenze organizzative ed abitative, intorno alla torre, furono aggiunti altri corpi di fabbrica che resero possibile ospitare un nu-mero sempre crescente di vassalli, ed offrire una maggiore difesa. All’esterno del recinto, la tipologia insediativa e l’habitat risentirono fortemente delle misere condizioni sociali del-

ricollegarsi al fattore difensivo e quindi al tipo di agglomerato urbano altomedievale, da alcu-ni chiamato borgo-forte, da altri castrum.

Anche il Duby afferma che “col nome italia-no d’incastellamento, Toubert descrive il pro-cesso che, tra X e XI secolo, fece raggruppare le cellule familiari. Queste, che erano sparse nella pianura, si unirono definitivamente, per lo più costrette dal potere, in un agglomerato generalmente situato sulle alture, dall’aspetto di fortezza, centro di un territorio di nuova co-stituzione. Le case, fino ad allora sparpaglia-te, si sarebbero raccolte in un’area, circondata talvolta da una cinta e spesso dotata di uno statuto giuridico particolare…Il nucleo della nuova cellula divenne il castrum, il castello, la torre. Al centro dello spazio che domina, que-sto edificio è, nello stesso tempo, la sede e il potere di coercizione, del dovere di protegge-re, del diritto di comandare e di punire…”.

Scrive il Trotta che “…tutte le nuove borgate del Molise sorsero tra la fine del dominio lon-gobardo e l’inizio di quello dei Normanni” ed aggiunge che, secondo la Cronaca Volturnen-

glia e desolato di uomini a causa delle incur-sioni barbariche e delle guerre: “…si vedevano per tutto danni sì eccessivi, e rovine sì orrende, che per lo più i luoghi giacevano abbandonati e deserti, ed in quei, ch’erano abitanti, non era altro, che dolorosa afflizione e confusione…; la vita ristagnava nei miseri agglomerati rura-li posti al centro di campagne vuote e deserte dove ormai le vigne erano senza operai, i cam-pi senza coloni, i giardini senza frutti, i monti senza animali…”.

La guerra tra i signori locali comportò, da parte delle popolazioni rurali, esposte più di ogni altro a continue depredazioni, la necessi-tà di stringersi intorno a qualcuno che potesse garantire loro una protezione. L’origine degli insediamenti di Chiusano e Vipera può forse

In basso:Rupe di Terravecchia, antica Clusanum, nel bosco di Gambatesa detto di Chiusano (foto: G. Lembo)

Nell’altra pagina“Aufisbena”, vipera a due teste, il cui culto era molto diffuso presso i Longobardi (web)

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La stessa località è citata nel Registrum di Pietro Diacono allorquando Nebulone, indica-to quale Comes de Castro Vipera, nel settembre del 1070 e con successivo diploma dell’otto-bre del 1072, dona il monastero intitolato a S. Eustasio (o Eustachio) di Toppo della Vipera, all’abate Desiderio del Monastero di Monte-cassino.

Nel Chronicon Vulturnense, la cui stesura è collocata tra il 1119 e il 1124 ad opera del mona-co Giovanni di S. Vincenzo al Volturno, viene più volte citata la “cellam Sancti Petri de Vipera cum ipso casale quod dicitur Leoni”. In questo contesto la parola “cella” indicherebbe una residenza isolata di un gruppo di monaci o di monache, dipendente da un’abbazia.

Nel Catalogus Baronum, registro fatto com-pilare dai sovrani normanni tra il 1150 e il 1168, per effettuare una leva straordinaria dell’eser-cito regio, si legge testualmente che “Bruna-mons tenet Clusanum quod est feudum unius militis et cum augmento obtulit milites duos et servientes duos”. Questi era feudatario del conte Filippo di Civitate di Clusanum ed obbli-gato alla fornitura di un milite armato per ogni venti once d’oro di reddito. Inoltre, sempre nel Catalogus Baronum, è riportato: ”Robbertus de Ponte tenet Cericzam (Cercemaggiore), et Gui-peram (Toppo della Vipera)…et predicta Ceric-za et Guiperanum sunt feuda quorum militum et cum aumento obtulit milites quatuor, quibus predictis augmentum milites sex et servientes sex…”; ed ancora, “Benedictus de Vipera tenet Viperam a domino Nebulone de Ponte quod est

bulone fu con tutta probabilità primo feudata-rio di Ponte, di Castel Vipera e di Cercemag-giore, non essendo altro nome citato negli atti dai discendenti del ceppo d’origine”.

Di Nebulone I si conoscono diversi atti fra cui il primo redatto nel settembre dell’anno 1051 dal notaio Quiberto di Castelmagno in cui egli, con licenza e mandato da Roma, fonda e dota di terre e beni il nuovo monastero di S. Maria in loco dicto Decorata alla presenza di diversi nobili e consanguinei normanni. Fra questi compaiono il Vescovo di Bojano, Ro-bertum Buianensem Episcopus che riconosce, come consanguinem nostrum, il figlio Riccardo signore di Riccia e Vipera, detto appunto “fi-lius meus qui erat dominus Laritiae, et Vipera, Rodolfo di Castelvetere…”.

Nel 1059, Papa Nicola II, su richiesta dell’abate Giovanni V, conferma al monastero di San Vincenzo numerose chiese e monasteri tra cui la “cella di San Pietro de Vipera con Ca-sale Leoni”.

A sinistra: Località “Toppo della Vipera” nei pressidi Gambatesa (foto: G. Lembo)

In questa pagina, dall’alto:Pianta della Chiesa di S. Maria di Chiusanella, Platea Orsini, 1714 (Archivio parrocchiale di Gambatesa);

Pianta del Bosco di Chiusano, rilevata dall’agri-mensore A. De Crescentiis nel 1812(Archivio comunale di Gambatesa)

sto il fulcro di numerosi ambiti territoriali nei quali si raccolse un numero vario di curtis e di casali, e al tempo stesso, punti di attrazione e coesione per molte comunità rurali. Ecco per-ché sempre più spesso le badie, specialmente quelle poste sui grandi assi di comunicazione regionale, i tratturi, in questo caso il tratturo Castel di Sangro – Lucera, furono fondate da sovrani longobardi, in quanto, trovandosi “sul-le grandi strade del regno, giovavano, allora che le comunicazioni erano difficili e malsicu-re, a mantenere l’unità e l’integrità di quello, o sorgevano ai confini di esso e servivano come sentinelle di difesa ed offesa nella guerra”.

L’esistenza di Chiusano e di Vipera è attesta-ta da diverse fonti documentarie.

In una bolla dell’anno 818, il Papa Pasquale I conferma a Giosuè, abate del monastero di San Vincenzo al Volturno, la proprietà di alcu-ni monasteri, celle e chiese, tra cui “S. Pietro in Trite, in Vipera”.

Per il periodo normanno si attesta che “Ne-

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na si interessò al rifacimento di tutte le fortifi-cazioni dei piccoli e grandi centri urbani ade-guandole alle nuove esigenze militari. Le cinte murarie, i castelli preesistenti e quelli di nuova fondazione furono muniti di torri circolari co-struite ad una distanza ravvicinata ed attrez-zate per il tiro radente e piombante. Le torri furono dotate anche di una muratura a scarpa volta a rinforzare il muro alla base e capace di far rimbalzare i sassi pesanti lanciati verso gli assalitori. In epoca angioina l’abitato di Vipera era ancora esistente; le Rationes Decimarum Italiae dei secoli XIII e XIV riportano il pa-gamento di 3 tarì, corrispondenti all’imposta straordinaria sulle rendite ecclesiastiche, “de-cima”, che il papato prelevava, con cadenza quasi regolare tra il XIII e XIV secolo, per il finanziamento delle crociate o per altri parti-colari bisogni della Chiesa. Altre notizie che attestano l’esistenza di Chiusano e Vipera ri-

Aprucii” nel 1248, per conto di Federico II, era in possesso di alcune baronie che dovevano contribuire alla riparazione del castello fede-riciano di Lesina: “Castrum Alesine potest re-parari per homines ipsius terre, item per homi-nes Civitatis S. Leucii, baronie S.Helene, Cleuti, Collis Torti, Macle, Ricie, Clusani, Vipere, Ce-lencie, Montis Rotani et baronie domini Riccar-di de Busso”.

Inoltre nei Registri di Alessandro IV si legge che nel 1255 Rogerio de Parisio “dominio Ec-clesiae redeunti et se submittenti, castra Castel-lutii de Sclavis, s. Juliani, Petrae Montis Corvi-ni, Clusanum,…concessionem de Dragonaria, a Federico imperatore, Conrado et Manfredo aut aiis obtenta, confirmat et insuper castrum Ri-ziae concedit ei tanquam Ecclesiae infeudato…”.

Nel 1266 Carlo I d’Angiò, dopo gli esiti della battaglia di Benevento, estromise definitiva-mente gli Svevi dal Regno. La dinastia angioi-

incendi, rimpiazzò ben presto le esili strutture lignee, ma richiese allo stesso tempo maggio-ri risorse in termini economici ed umani. Il “dongione normanno”, o mastio in pietra, è un manufatto militare costruito con planimetria generalmente quadrata o rettangolare a tre piani e altezza variabile (15-20m) e con spes-sore dei muri che diminuisce gradatamente verso l’alto. I solai in pietra erano spesso vol-tati (a crociera o a botte) e l’accesso al castello avveniva al primo piano mediante un ponte le-vatoio per ovvie ragioni di sicurezza, mentre la sommità dei muri presentava un coronamento merlato.

Nell’età sveva, Federico II ridusse le pro-prietà ecclesiastiche ordinanando al contem-po l’abbattimento di tutte le fortificazioni che rappresentavano un ostacolo al suo dominio conservando le sole proprietà demaniali.

Riccardo di Busso, “provisor castrorum

pheudum unius militis...”. Anche il Ciarlanti af-ferma che, nel 1211, Roberto De Ponte “posse-dea li castelli della Vipera e di Chiosano”.

Alla fine del XII secolo Nebulone II conce-de Castel Vipera ad un certo Benedetto, così ricordato nel Catalogus Baronum: “Benedictus de Vipera tenet Viperam a dominio Nebulone De Ponte quod est pheudum unius militis”.

Il Catalogus Baronum documenta che i ca-stelli erano i centri di altrettanti feudi tenuti, nella maggior parte dei casi, da milites di ori-gine normanna. Costoro traevano dai possessi feudali non solo le risorse necessarie per for-nire all’esercito del re un adeguato servizio militare, ma anche quei mezzi che consenti-vano loro di svolgere un regolare servizio di guardia ai castelli di propria competenza. Se in un primo tempo i castra determinarono una forma urbana di tipo accentrato a scopi difen-sivi, successivamente consolidarono e incre-mentarono le loro primordiali forme urbane in quanto, trovandosi in corrispondenza di gran-di assi di attraversamento cominciarono a pra-ticare il commercio. In epoca normanna pos-siamo distinguere le strutture castellari in due differenti tipologie architettoniche, le “motte” e i “dongioni” legate a momenti storici diversi.

La “motta” costituisce la prima forma di abi-tato fortificato, composto da una collinetta ar-tificiale in terra (motta), sovrastato da palizza-te lignee e circondato da un fossato culminan-te con una costruzione anch’essa lignea e forti-ficata. Man mano che la conquista procedeva e prendeva corpo, i signori normanni iniziarono a sostituire tali tipi di fortificazioni con altre più sicure e più stabili. La costruzione dei ca-stelli in pietra, più resistenti agli assalti e agli

A destra: “Carta generale per la parte in Molise del tratturo di Motta che dalla fittola di Castel di Sangro conduce a Palmori grande di Lucera”, in Tratturi, tratturelli e riposi reintegrati in forza del Real Decreto del 9 ottobre 1826(Archivio comunale di Gambatesa)

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Chiusano denominata S. Maria di Chiusanella e dell’abitato ormai scomparso: “…La chiesa, sotto il titolo di S. Maria, sta posta nelle perti-nenze di Gambatesa e proprio dentro la terra diruta di Chiusanella, distante dalla medesima circa passi 1500 verso la parte occidentale ed è tutta diruta che appena si conoscono le pa-vimenta. È lunga palmi 28 e larga palmi 20 e confina col Bosco Baronale…”. L’abbandono dei due centri deve probabilmente additarsi non solo alla diminuzione demografica, ma anche alle mutate esigenze politiche, di difesa ed economico-produttive di tutto il territorio. Questi primi dati, quindi, sono utili per inizia-re a ricostruire in modo comprensibile la fre-quentazione di un territorio che, in quanto in-teressato da case contadine, fattorie o piccoli villaggi, è stato per molto tempo ritenuto non interessante.

Da questi primi dati emerge un quadro sto-rico-territoriale piuttosto ricco e variegato an-che se, ad oggi, ritenuto scarsamente interes-sante e dunque poco studiato. Sede fin dall’an-tichità di insediamenti sparsi, l’area è da ri-tenere espressione di uno sviluppo culturale ben inserito nelle direttive commerciali più valide. La romanizzazione, con la conseguente centuriazione del territorio e lo sviluppo delle vie di comunicazione e dei mercati, portò alla caratterizzazione dell’area su cui in epoca me-dievale le fondazioni monastiche e gli insedia-menti difensivi trovarono ampie possibilità di sviluppo, formando un paesaggio agrario e una architettura del territorio da tenere in attenta considerazione.

Lo studio approfondito, basato sulle fonti scritte e sulla cultura materiale di questi in-sediamenti, potrà apportare apprezzabili ri-sultati e costituire una reazione alle pressanti urgenze di salvaguardia di tanti resti architet-tonici di grande valore per la loro qualità edili-zia, per la loro posizione strategica nel paesag-gio e per il loro significato nella ricomposizio-ne di una identità storica del territorio.

ché inesistenti. Fonti seicentesche riferiscono di numerose carestie e catastrofi; la peste del 1656 flagellò il territorio fino al 1658, mieten-do innumerevoli vittime e segnando la fine di molti centri abitati. L’epidemia colpì quasi tut-ti i paesi, interrompendo l’incremento demo-grafico che aveva caratterizzato i primi decen-ni del secolo e aggravando, di conseguenza, le condizioni economiche delle popolazioni mo-lisane. A tal proposito il Venditti afferma: “…Venne la peste del 1656-57 che distrusse quasi tutti gli abitanti di Salandra e Vipera...”. Si ri-corda, altresì, che, nel 1688, un forte terremoto scosse quasi tutta la regione, contribuendo a rendere ancora più tragica la situazione di al-cuni centri molisani, tra cui Chiusano e Vipe-ra. La conferma dell’abbandono di Chiusano e Vipera si può dedurre anche da un importante documento, conservato nell’archivio parroc-chiale di Gambatesa, la Platea del cardinale Orsini del 1714.

Si tratta di un insieme di documenti che of-fre la possibilità d’individuare l’amministra-zione e la storia di alcuni luoghi pii, chiese e monasteri soppressi, bilanci, rendite, affitti dei fondi rustici ed urbani, lasciti e donazioni di monti frumentari, case e congreghe di carità, ospedali ed altre istituzioni laiche o religiose. La pianta del feudo prediale di S. Maria della Vittoria descrive un’ampia distesa di terra ri-cadente nel territorio di Gambatesa e di pro-prietà del monastero di S. Aniello di Napoli in cui sono raffigurate alcune abitazioni sulla cosiddetta “Ripa della Vipera”; mentre per quanto riguarda Chiusano la Platea riporta l’esistenza di una chiesa situata nel bosco di

bibliografiaCarocci S. (1998): Signori, castelli, feudi. In: Storia medievale, Donzelli, Roma.

Ciarlanti G. V. (1644): Memorie historiche del Sannio chiamato oggi Principato Ultra, Contado di Molisi, e parte di Terra di Lavoro, Provincie del Regno di Napoli, divise in cinque libri, C. Cavallo, Isernia.

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Wickham C. (2000): Il Feudalesimo nell’Alto Medioevo. Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto.

A sinistra: Localizzazione su Carta I.G.M. 1:25.000 dei proba-bili siti su cui sorgevano gli antichi abitati di Vipera (A) e Chiusano (B);

Nell’altra pagina: Particolare di una struttura muraria dell’antico abitato di Chiusano (foto: B. Muttillo)

salgono al periodo in cui Margherita, figlia di Riccardo di Gambatesa, andata sposa a Riccar-do Caracciolo, nel 1330 era in possesso di al-cuni feudi tra cui il “castrum Vipere”. Nel 1478 il primogenito Angelo, figlio del conte Nicola II dei Monforte-Gambatesa, ereditò la terra di Gambatesa e i casali di Chiusano, Vipera e Valdisace, tutti posti nel Contado di Molise, confinanti con le terre di Celenza Valfortore, Pietracatella ed altre. Inoltre nel 1484 re Fer-rante I d’Aragona vendette il feudo di Gamba-tesa con Chiusano, Vipera e Valdisace, ad An-drea Di Capua, primo duca di Termoli, della casa dei conti d’Altavilla. Da questo momento in poi le testimonianze e le fonti storiche, circa l’esistenza dei due insediamenti, sono presso-

A

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L e tradizioni festive del Molise si caratterizzano per un intenso rapporto con il territorio, con una dimensione agro-pastorale che, nonostante le trasformazioni economiche e sociali, costituisce ancora

un percorso di riferimento per l’espressione creativa di pratiche condivise, uno spazio di memoria nel quale si riattualizzano eredità comuni.

di Emilia De SimoniIstituto Centrale per la Demoetnoantropologia, Ministero per i Beni e le Attività Culturali

il májaDI ACQUAVIVA COLLECROCEPersonificazioni del Maggio in Molise

pre più deterritorializzato e privo di orizzonti di senso. Così, attraverso le feste, si ritrovano la corporeità dell’essere e la manualità del fare, l’azione collettiva che consente di ridefinire i luoghi e, nei luoghi, l’appartenenza. In questa prospettiva si propone come esempio la festa del Mája di Acquaviva Collecroce, osservata nel corso della ricerca di etnografia visiva sul patrimonio immateriale del Molise promossa dall’Istituto Centrale per la Demoetnoantro-pologia con la Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici del Molise, ricerca che ha documentato, da maggio 2005 a genna-io 2010, 68 tradizioni festive in 48 località.

Eredità che sono il risultato complesso di vicissitudini storiche e di influssi diversi, ri-elaborate con una particolare attenzione alle tracce originarie e alla trasmissione intergene-razionale. La persistenza e la riemergenza del-le tradizioni non costituiscono le derive di un passato che torna nel presente, ma le manife-stazioni di un tentativo di opposizione all’omo-logazione culturale, attuato dalle comunità lo-cali con la partecipazione e l’impegno per un fine condiviso. La riacquisizione della propria identità di gruppo localizzato consente di evi-tare il rischio dell’indifferenziazione, riaffer-mando la propria presenza in un mondo sem-

Il Mája di Acquaviva Collecroce(web)

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riconoscendosi in una rigogliosa fioritura un promettente raccolto” (Salvatore Moffa, “Ca-lendimaggio Molisano”, 1938).

Le pratiche popolari collegate alle feste pri-maverili rimanderebbero dunque a forme re-ligiose preesistenti. Al pari di altre, tali prati-che divengono oggetto di numerose condanne lanciate dalla chiesa, nella sua incessante lotta per l’evangelizzazione del “volgo”. La venera-zione della natura resiste tenacemente e vie-ne considerata tra le più esecrabili, in quanto contraria al concetto stesso della creazione come opera divina: “Alii adorabant solem, alii lunam vel stellas, alii ignem, alii aquam profun-dam vel fontes aquarum, credentes haec omnia non a deo esse facta ad usum hominum, sed ipsa ex se orta deos esse” (Martinus Bracarensis [VI sec. d.C.], “De correctione rustico rum”: 6). Par-ticolari rituali vengono celebrati nei confronti di alberi, pietre, acque e, nonostante il cristia-nesimo, permane un’ideologia di contrapposi-zione alla religione ufficiale, determinata da

Dalla venerazione dellanatura alle feste primaverili

Attingendo alle suggestioni dell’antichità ri-cordiamo la dea Flora citata da Ovidio (Fasti: V) e le feste denominate Floralia, tenute tra la fine di aprile e gli inizi di maggio: “itaque ii-dem Floralia IIII kal. easdem instituerunt ur-bis anno DXVI ex oraculis Sibyllae, ut omnia bene deflorescerent” (Plinio, Historia Natura-lis: XVIII). La via delle antiche reminiscenze è densa di tracce, che sopravvivono non tanto nelle “sopravvivenze”, più o meno consapevo-li, delle tradizioni, ma soprattutto nella con-siderazione su di esse. Eppure tale via, nella sua impossibilità di spiegazione del presente, ha una grande carica evocativa: “La festosa costumanza molisana di cantar maggio è assai antica e trova precedenti celebri nell’era pa-gana. Presso gli italici si venerava Flora, dea dei fiori e della primavera. Sotto la sua egida era l’agricoltura e il primo maggio le era sacro,

situazioni economiche e sociali strettamente ancorate al mondo naturale come fonte pri-maria di sopravvivenza, soprattutto presso comunità agricole e pastorali. Questi compor-tamenti rientrano in una “ecolatria”, intesa nel senso di un’ideologia non tanto “pagana” quanto arcaica e radicata presso tutte le cul-ture. La profonda avversione della chiesa si manifesterà nel tempo con strategie di sosti-tuzione delle entità venerate, con la sovrap-posizione e l’adattamento dei propri simboli. L’appartenenza al cristianesimo non esclude la persistenza di atteggiamenti precristiani: “Sotto i Re Longobardi, che pure professavano la legge Cristiana colla lor nazione, apparisce

che molti del rozzo popolo con pazza credu-lità veneravano certi alberi, da lor chiamati Sanctivi, come se fossero cose sacre. Gran sa-crilegio avrebbero creduto il tagliarli; sembra ancora che prestassero ad essi qualche segno di adorazione” (Lodovico Antonio Murato-ri, “Dissertazioni sopra le antichità italiane”, 1837: LIX).

I rituali primaverili sembrano essere i per-

Nell’altra pagina: Acquaviva Collecroce, 30-4-2007:preparazione del Mája.

In basso: Acquaviva Collecroce, 1-5-2007:sosta del Mája in piazza.

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vone, che indica un contatto con gli slavi. È interessante notare la dismissione dell’usan-za, all’epoca dello scritto, proprio da parte di chi, in origine, si suppone l’abbia introdotta: “Il fatto singolare è che gli eredi dei portatori originari, e cioè gli abitanti dei paesi slavo-mo-lisani di Acquaviva, San Felice e Montemitro, abbiano dismesso il costume, e lo abbiano in-vece conservato i paesi molisani di origine non slava”.

Le riproposizioni della tradizione e della lingua per tensioni che, sommariamente, si de-finiscono identitarie, hanno un ruolo centrale nel tentativo di superare la discontinuità con il passato. Oltre la categoria discriminatoria di “invenzione”, che presuppone una classifica di legittimità o purezza riferita a variabili sto-riche e demologiche, queste espressioni delle comunità si possono considerare elaborazioni collettive di elementi culturali, pensati come propri e distintivi. Attraverso queste riattua-lizzazioni si tenta di ridefinire una “localizza-zione” sociale, che può espandersi oltre i con-fini territoriali, se condivisa con le comunità all’estero, e anche oltre i confini della memoria documentabile. È infatti il vissuto nel presen-te a dare un senso all’azione collettiva, trala-sciando ogni interrogativo sulla defunziona-lizzazione.

Acquaviva Collecroce (provincia di Campo-basso; 740 abitanti ca.; 425 m.s.l.m) è un comu-ne molisano popolato da un’ondata migratoria slava dalla prima metà del XVI secolo, come afferma Milan Rešetar: “Tutte le informazio-ni affidabili che possediamo sopra quegli slavi del Molise, di cui gli ultimi residui sono rima-sti nelle tre note località, concordano infatti

Il Mája come riproposizione di identità

Tra le feste primaverili caratterizzate dalla personificazione del Maggio, notiamo attual-mente in Molise: la Pagliara di Fossalto, la De-fensa di Lucito, il Pagliaro di Colle d’Anchise e il Mája di Acquaviva Collecroce. Nel 1955 Alberto M. Cirese scrive che alcuni documenti attestano questo tipo di personificazioni nei tre paesi d’origine slava (Acquaviva Collecro-ce, Montemitro e San Felice del Molise), con caratteri nettamente antropomorfi, e in altre luoghi, con differenti modalità: “… oltre che a Fossalto, dove vive ancora […] una perso-nificazione di tipo pagliara ci è testimoniata anche per Castelmauro, Bagnoli del Trigno, Lucito, Casacalenda, Bonefro e Riccia” (“La pagliara maie maie”). Cirese sottolinea inoltre che questi paesi non sono distanti dalla zona d’immigrazione slava, ad eccezione di Riccia, dove tuttavia è presente un borgo, detto Schia-

processions the spirit of vegetation is often rep-resented both by the May-tree and in addition by a man dressed in green leaves or flowers or by a girl similarly adorned’ ”.

In Italia sono tuttora presenti molti esempi di feste arboree connesse con la celebrazio-ne del “Maggio”. In Lucania si può ricordare il “Matrimonio degli alberi” di Accettura, nel materano, un complesso rito arboreo collega-to alla processione del patrono San Giuliano. Possiamo segnalare in proposito come alcune di queste feste siano divenute oggetto, negli ultimi anni, di una pressante operazione di ri-visitazione: la strategia di controllo non è più nelle mani della chiesa ma viene esercitata oggi dal potere di un consumismo mistificato-rio, che confina le tradizioni locali nel recinto della spettacolarizzazione turistica, prospet-tando illusori vantaggi.

corsi privilegiati per l’espressione delle valen-ze propiziatorie degli elementi vegetali che, oltre a caratterizzare la festa o il canto, diven-tano, in alcuni casi, strumenti di immedesima-zione tra uomo e natura, attraverso la loro per-sonificazione. James G. Frazer ha ampiamente trattato questi temi nella sua opera “The gol-den bough” (1922), in particolare nel capitolo “Relics of Tree Worship in Modern Europe”. Gli stessi temi sono affrontati da Mircea Eliade nel “Traité d’histoire des religions” (1949), con l’analisi dei rapporti tra vegetazione, simboli e riti di rinnovamento. Frazer interviene sulla personificazione dello spirito della vegetazi-one citando, a scopo esemplificativo, Wilhelm Mannhardt: “[...] we may sum up the results of the preceding pages in the words of Mannhardt: ‘The customs quoted suffice to establish with certainty the conclusion that in these spring

Nell’altra pagina: Acquaviva Collecroce, 1-5-2007: corteo del Mája.(foto: D. D’Alessandro)

A sinistra: Fossalto, 1-5-2006: getto augurale dell’acquasulla Pagliara.(foto: D. D’Alessandro)

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tuato per propiziare la pioggia e la fertilità del-la terra. Sulla base delle informazioni raccolte, che attestano la vitalità della festa fino al 1940 e la sua interruzione causata dalla guerra, Al-berto M. Cirese cita la presenza di una croce di spighe di grano, posta sulla sommità del cono, la benedizione religiosa e la distruzione finale del Mája, presso i ruderi di una chiesa, eseguita da ragazzi (“La pagliara del primo maggio nei paesi slavo-molisani”). La festa del Mája è do-cumentata fotograficamente, dal 2001 al 2007, in un sito internet dedicato ad Acquaviva Col-lecroce. Dalle immagini si nota come il ciuffo sia differente, di anno in anno, cosa che indica come le feste possano, nel tempo, presentare alcune diversità, pur mantenendo tratti distin-tivi di base sui quali i protagonisti procedono con andamenti variabili e in base alla propria creatività. Al termine della composizione, la veste vegetale viene indossata da un giovane e inizia il corteo, dapprima verso piazza Nicola Neri, poi lungo le vie del paese. Lo “spirito del-la vegetazione” continua la sua processione, tra esibizioni coreutiche e musicali di gruppi in costume provenienti anche da altre località del Molise. Il primo maggio è un giorno parti-colare ad Acquaviva Collecroce, un giorno di festa ma soprattutto di memoria: vi è un senti-mento di intensa partecipazione, specialmen-te nei bambini, che si impegnano a cantare con l’aiuto di testi scritti nella loro “bella lingua”, come sollecitava Nicola Neri. Tutto ciò testi-monia quanto sia importante l’apprendimento

primaverili propiziatorie e ha un intento di rafforzamento della fraternità tra la popola-zione, che mantiene ancora vivo il ricordo del-le proprie origini. Come avviene in manifesta-zioni analoghe che hanno alla base la figura del pagliaio, per realizzare il Mája si riveste un te-laio conico con elementi vegetali. La struttura, alta più di tre metri, è composta da rami fles-sibili, canne e paglia e si differenzia dalle altre composizioni per il suo aspetto antropomorfo (presenta infatti anche la testa e le braccia). La preparazione inizia il giorno precedente la fe-sta, con la raccolta di fiori e primizie, protratta fin quando è possibile per evitarne l’appassi-mento. L’addobbo viene eseguito da un gruppo di giovani e da alcuni adulti: via via che il Mája prende forma, ognuno contribuisce al miglio-ramento della composizione con proposte e suggerimenti. La mattina del giorno successi-vo si compiono gli ultimi ritocchi; quando la fi-gura è completata, nel rivestimento e nelle fat-tezze quasi umane accentuate nei grandi occhi del volto, il Mája è pronto per essere animato. Questa personificazione presenta un aspetto piuttosto femminile: ha una corona sulla testa, una lunga capigliatura e la parte sottostante appare come un’ampia gonna.

Nella rappresentazione osservata nel 2007, il Mája non porta sul capo una croce ma un ciuf-fo vistoso, a differenza delle analoghe figure di Fossalto (2005, 2006) e Colle d’Anchise (2007), dove inoltre il Pagliaro entra in chiesa. Ricor-diamo che nella descrizione di Milan Rešetar del 1911 il Mája viene benedetto e, come la Pa-gliara di Fossalto, è innaffiato con getti d’ac-qua augurali, elemento che Rešetar ricollega al corteo delle dòdole presso i serbocroati, effet-

nell’affermazione che essi furono insediati nelle località in questione nel corso della prima metà del XVI secolo e parlano di loro proprio come di gente che era venuta dalla Dalmazia in Italia non molto tempo prima […]” (“Le colo-nie serbocroate nell’Italia meridionale”, 1911). In questo paese ha avuto luogo una importante attività di ricerca sulla lingua “slavisana”, se-condo il neologismo proposto da Walter Breu e Giovanni Piccoli, autori del locale dizionario croato molisano. La valorizzazione della lin-gua, che prevede anche scambi culturali con la Croazia, si accompagna alla rivitalizzazio-ne delle tradizioni. Oltre la Smercka natalizia (la notte della vigilia di Natale viene accesa, sul sagrato della chiesa, una grande torcia, costituita da pezzi di legno e collocata su un tronco di albero rovesciato), la festa del primo maggio ripresa - come ci ricorda Matteo Pata-vino nel capitolo “Archetipi e trasformazioni” del volume “Passaggi Sonori” - dalla metà del 1980, rappresenta un’occasione di condivisio-ne collettiva di una tradizione particolarmente sentita. Il corteo del Mája rientra nelle feste

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A sinistra: Colle d’Anchise, 6-5-2007: il Pagliaro in chiesa(foto: D. D’Alessandro)

Nell’altra pagina: Acquaviva Collecroce: particolare della targa commemorativa di Nicola Neri posta sulla facciata del Municipio

della tradizione attraverso le feste, non soltan-to con il coinvolgimento e l’osservazione, ma anche secondo a modalità “guidate” da asso-ciazioni locali, culturali o scolastiche. Mentre il corteo prosegue il suo percorso nel paese, le danze e la distribuzione del cibo sciolgono l’iniziale compostezza e sollecitano i parteci-panti a esprimersi più gioiosamente, cantando e ballando attorno al Mája.

Questo articolo costituisce, in alcune sue parti, una rie-

laborazione del testo  “Mája, Acquaviva Collecroce”, pub-

blicato in Feste e Riti d’Italia. Sud 1, a cura di S. Massari, De

Luca, Roma, 2009: pp. 326-337.

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SPECIALE TESI

La costa molisana è caratterizzata, dal punto di vista morfologico, da calette e insenature, frutto dell’erosione marina, delle frane costiere

e dei fiumi, e da stratificazioni di sabbie litoranee, conglomerati e ghiaie, depositi alluvionali recenti, argille, marne e arenarie.

termoli, borgo vecchio(web)

di Lidia Di Giandomenico, Scuola di Specializzazione – Università degli Studi di Bari

Breve contributo sulle testimonianze archeologiche dei centri costieri

Il popolamento antico della

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SPECIALE TESI

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Il profilo di costa ha subito un sensibile ar-retramento nel corso del tempo a causa di fe-nomeni di eustatismo, dovuti a movimenti tet-tonici che hanno abbassato e sollevato la costa dando vita a terrazzi alluvionali. Quelli che oggi sono chiamati costoni o coste, non sono altro che il risultato dell’erosione della roccia e degli innalzamenti e abbassamenti della costa. Attualmente i centri abitati costieri sono Pe-tacciato, Termoli e Campomarino. Dal punto di vista del popolamento antico, sono meglio rappresentate le necropoli che non gli insedia-menti, tuttavia non si esclude la presenza di villaggi costieri, ampiamente documentati per la Puglia e l’Abruzzo.

Allo stato attuale delle ricerche, ed in parti-colare per l’arco cronologico che abbraccia la protostoria e l’età del ferro, la maggior parte dei dati proviene sia dagli scavi effettuati dalla Soprintendenza ai Beni Archeologici del Moli-se, che dalle ricognizioni di superficie condot-

state individuate le buche per palo rinforzate da pietre.

I dati acquisiti dallo scavo testimoniano la presenza di una comunità socialmente arti-colata e organizzata, dedita all’allevamento e all’agricoltura.

In generale la morfologia del nostro territo-rio costiero appare favorevole all’insediamen-to grazie alla presenza di pianori e terrazzi ed alla vicinanza con il mare e le vie di comuni-cazione. Un esempio analogo è costituito dal centro storico di Termoli, un promontorio roccioso a picco sul mare, anch’esso difeso naturalmente. In questo caso le maggiori evi-denze archeologiche, ancora oggi visibili, sono quelle relative al periodo medievale, tuttavia non mancano livelli del Bronzo Finale rinve-nuti durante i saggi archeologici condotti nella Cattedrale e a Torre Tornola.

Per quanto riguarda le necropoli, la presenza di una comunità attiva durante l’età del ferro e l’età arcaica è testimoniata dalla presenza di due sepolcreti, un primo rinvenuto in Contra-da Porticone, l’altro in località Difesa Grande, entrambe nel Comune di Termoli. Lo studio dei materiali provenienti dai corredi funerari mostra una omogeneità culturale, non solo per

la frequenza di forme e tipi ceramici presenti, ma anche per il rituale cultuale e per la scelta dei siti adibiti a necropoli.

La necropoli in località Contrada Porticone, situata a sud-ovest rispetto al centro storico di Termoli, è stata indagata tra il 1978 e il 1983 dalla Soprintendenza Archeologica del Moli-se, riportando alla luce 149 sepolture. La ne-cropoli è situata su di un costone a circa 50-60 m s.l.m., degradante verso nord, lungo la piana alluvionale formata dal torrente Sinarca, men-tre ad est si affaccia sul mare.

Si tratta di tombe a fossa terragna ricavate nello strato sabbioso con il defunto deposto in posizione supina e le braccia distese lungo il corpo o, talvolta, con gli arti inferiori e supe-riori incrociati. Il corredo è generalmente de-posto ai piedi, più raramente all’altezza della testa. La copertura della fossa è nella maggior parte dei casi costituita da lastroni, ciottoli flu-viali o conglomerati. Si documenta una scar-sa coerenza nell’orientamento delle tombe e mancano indizi che facciano pensare a una organizzazione interna alla necropoli. Tutta-

Pianta di una delle capanne rinvenute ad Arcora(da S. Capini, A. Di Niro, 1991)

te dall’equipe dell’Università di Sheffield. Le testimonianze più antiche, risalenti a un

arco cronologico che va dall’Età del Bronzo finale al VII secolo a.C., provengono da Cam-pomarino, località Arcora: in questo sito la So-printendenza Archeologica del Molise ha con-dotto una serie di campagne di scavo che han-no portato alla luce un villaggio di capanne. L’abitato è posto su una piattaforma naturale, a quota 37 m. s.l.m., che si affaccia attualmente su di una piana alluvionale, ma che, stando a recenti studi topografici e aereofotogramme-trici, doveva sorgere su di un pianoro a picco sul mare, dal momento che il suo limite orien-tale corrisponde all’antica linea di costa. La sua posizione appare strategica, poiché il lato del costone che dà sul mare è naturalmente di-feso dall’accentuato dislivello, assicurando sia il controllo sul mare che sulla foce del Biferno. L’altro lato è difeso da un fossato ampio e poco profondo e da una palizzata lignea, di cui sono

In alto: Fondo di una capanna di Arcora,in fase di scavo

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SPECIALE TESI

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collana, tipologie diffuse largamente anche sulla costa abruzzese. L’ambra è una materia prima d’importazione proveniente soprattutto dai Balcani e molto apprezzata nel mondo an-tico, non solo per la sua bellezza, ma anche per le sue proprietà terapeutiche e apotropaiche. La sua presenza a Termoli, come nei centri li-mitrofi, illustra come la comunità fosse inseri-ta nei traffici commerciali e culturali di ampio raggio. Numerosi sono anche gli anelloni da sospensione in bronzo nella maggior parte dei casi rinvenuti sul bacino dell’inumata e varia-mente documentati nelle necropoli abruzzesi e daunie, in ambito laziale e falisco-capenate.

Non mancano sepolture di infanti accom-pagnate da corredo costituito da un minor numero di fibule dello stesso tipo, mentre per

spada a lingua di presa (t. 29), di tipo piceno, risalente alla metà del VI e inizi del V secolo a.C. Anche il cinturone di bronzo, cosiddetto sannitico, è documentato in un solo caso. Il co-stume femminile, invece, comprende fibule di bronzo e di ferro, armille, pendenti d’ambra, in ferro del tipo a “batacchio”, vaghi di pasta vi-trea e raramente fuseruole. Notevolmente do-cumentata la presenza di ambra, con pendenti a forma di mascherine o in semplici vaghi di

sparso, come ipotizzato negli studi di Graeme Barker. Secondo lo schema individuato dall’ar-cheologo inglese, la popolazione dell’area si sarebbe costituita in un insediamento di tipo paganico-vicano con numerosi abitati anche relativamente vicini tra loro, ed ognuno con una propria necropoli di riferimento come già documentato per l’Abruzzo settentrionale. I corredi maschili rispecchiano il mondo dei guerrieri e sono ampiamente confrontabili con le comunità coeve dell’Abruzzo e del Moli-se interno. Si caratterizzano per la presenza di oggetti come rasoi di bronzo, coltelli a codolo, spiedi in ferro ed armi come cuspidi di lancia, giavellotti in bronzo e ferro del tipo comune a lama foliata a sezione romboidale, con innesto a cannone. Si è rinvenuto un solo esempio di

Rilievo della tomba 1, di Contrada Porticone(da A. Di Niro, 1980)

Corredo vascolare a decorazione di “tipo daunio”, della tomba 56 di Contrada Porticone(da A. Di Niro, 1980)

via è possibile individuare una disposizione topografica ad anello al cui interno è stata sup-posta la divisione in vari nuclei o gruppi fami-liari, modello ampiamente diffuso anche nelle coeve necropoli abruzzesi. Le principali fasi di vita di questa necropoli, riconosciute cronolo-gicamente in base agli oggetti del corredo, sono datate in un periodo compreso tra il VII e il III secolo a.C. con un picco massimo di utilizzo at-testato durante il VI a.C. Dai dati archeologici disponibili non è possibile stabilire il rappor-to che intercorreva tra necropoli e abitato, né l’esatta ubicazione di quest’ultimo. Tuttavia la presenza di una seconda necropoli coeva in lo-calità Difesa Grande, posta a poca distanza e in condizioni geomorfologiche similari, può sug-gerire la presenza di un insediamento di tipo

A sinistra: Armilla in bronzo dalla tomba 1 di Contrada Porti-cone (da S. Capini, A. Di Niro, 1991)

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di età romana. Un’altra rappresenta un cer-vo in fuga con testa reclinata inseguito da un cane, motivo ben conosciuto e diffuso soprat-tutto nel tardo impero. La terza lastra, dispo-sta accanto a quest’ultima, reca anch’essa una raffigurazione a rilievo che risulta illeggibile perché la superficie è molto erosa. Recenti studi topografici confermano la presenza a Pe-tacciato di siti archeologici di età romana, in particolare provengono da località Demanio e Spugne numerosi frammenti fittili, tra cui an-tefisse ed ex voto attribuiti a un deposito voti-vo datato tra IV e II a.C.

indica per la nostra zona una società in cui il potere ereditario non si è ancora affermato, e il ruolo sociale non è stabilito alla nascita ma viene conquistato durante la vita.

I corredi qui rinvenuti sono tipologicamente affini alla necropoli di Contrada Porticone, ma cronologicamente successivi. Allo stato attua-le degli studi non è possibile ricostruire even-tuali rapporti tra le due aree o stabilire a quali siti abitativi esse facciano riferimento.

Nelle due necropoli è assente il carro, con-trariamente a quanto accade in ambiente abruzzese e marchigiano, tuttavia, si teorizza anche qui la presenza di gruppi armati a ca-vallo. Con tutta probabilità anche la tomba 139 di Contrada Porticone apparteneva a un cava-liere dal momento che nel corredo sono stati rinvenuti una cuspide di giavellotto di ferro e relativo sauroter, posti sul lato destro dell’inu-mato, e due gruppi di lamine di bronzo, di cui uno all’altezza dei piedi e l’altro vicino alla te-sta, considerati come elementi di calzari, ma che si possono leggere verosimilmente anche come parti di bardature di falere equine.

Proseguendo verso nord s’incontra il mo-derno centro abitato di Petacciato a quota 222 m. s.l.m. e distante circa 3 km dalla costa attuale. Dalle ricognizioni effettuate è stato possibile recuperare frammenti di ceramica d’impasto, oltre che ceramica di tipo medieva-le e moderna. La presenza di tracce antiche si riscontra sulla torre campanaria della chiesa medievale di S. Rocco, costruita con materiale di reimpiego consistente in grandi blocchi di arenaria di forma poligonale disposti nelle file inferiori del tessuto murario e in grandi lastre di arenaria con figure a rilievo, forse pertinenti a monumenti funerari romani.

Una lastra raffigura un soldato o gladiatore con elmo e scudo nella mano sinistra e forse una spada (gladio?) nella destra. L’immagine ricorda le scene di combattimenti gladiatori ampiamente attestati nelle rappresentazioni

metrica di tipo daunio, che, per l’età arcaica trova confronti con la ceramica catalogata da E. M. De Juliis come “subgeometrico daunio I e II”. È interessante notare come nonostante i prodotti vascolari rinvenuti nella necropoli di Contrada Porticone dichiarino apertamente l’imitazione di prodotti dauni, essa è di pro-duzione locale, espressione forse di botteghe con maestranze allogene o opera di ceramisti locali che hanno mutuato la tecnica grazie a possibili scambi culturali e commerciali. An-che in Contrada Difesa Grande, località a sud ovest dell’attuale abitato di Termoli, la Soprin-tendenza Archeologica del Molise ha indivi-duato e scavato una necropoli situata su un terrazzo che affaccia sulla piana alluvionale del Biferno. In tutto si documentano 43 tombe a fossa terragna, con inumato disteso supino, e riempimento costituito da terra, ciottoli e lastre di arenaria come copertura. Le tombe infantili presenti in questa necropoli sono pri-ve di oggetti di corredo. La scarsità di oggetti o la completa assenza nelle tombe di bambini

gli adolescenti è frequente la fibula ad arco ri-vestita d’ambra od osso. I contatti e gli scambi con le comunità vicine favoriscono un proces-so di acculturazione reciproco reso evidente dalle testimonianze archeologiche. Nel caso della costa molisana, e di Termoli in partico-lare, i richiami vanno alla Daunia e all’Abruz-zo. Si possono riscontrare affinità non solo nella cultura materiale, ma anche nei rituali. Ad esempio, il rinvenimento di due defunti in posizione rannicchiata, fa pensare alla pre-senza di immigrati all’interno della società. Inoltre trova diffusione anche nella necropoli adriatica la presenza dell’olla con vaso-attin-gitoio che richiama al rituale del banchetto e in particolare del consumo di vino, il cui uso è ampiamente documentato anche nelle re-gioni vicine. Tuttavia l’evidenza maggiore di questi scambi è testimoniata dalla produzio-ne di ceramica depurata a decorazione geo-

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Capini S., Di Niro A. (1991): Samnium. Archeolo-gia del Molise, catalogo della mostra, Roma.

In basso: Petacciato, particolare della torre campanaria di S. Rocco, con la lastra decorata, nel lato est

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AGENDAAGENDAIn apertura straordinaria un

pennello elettronico restituisce all’Ara Pacis i suoi colori originali. Anche se gli oltre mille anni di permanenza nel sottosuolo del Campo Marzio hanno cancellato dal monumento ogni traccia visibi-le di colore, non sussistono dubbi sul fatto che in origine l’altare fosse variopinto. La scelta delle singole tinte risulta da confronti con la pittura romana, da studi condotti su monumenti più tardi ma influenzati dall’Ara Pacis e da ricerche cromatiche sulle architet-ture e sulla scultura greco-roma-na. La tecnica di proiezione è stata aggiornata e rinnovata grazie a proiettori digitali che consentono di modificare e modulare i profili e i colori in tempo reale.

Apertura straordinariaore 20- 23: 26, 27, 28 febbraio;26, 27, 28 marzo; 21, 23, 24, 25 aprileInfo: 060608arapacis.it

Aprile

22settembre

20Lungo le rotte dei micenei. L’insediamento dell’età del bronzo di Monteroduni (Is)

IserniaMuseo di Santa Maria delle Monache

Febbraio

26Aprile

25I colori dell’Ara Pacis

RomaMuseo dell’Ara Pacis

Febbraio

21Giugno

20Egitto mai visto.Le dimore eterne di Assiut e Gebelein

Reggio CalabriaVilla Genoese Zerbi

Tra il 1908 e il 1920, la missione archeologica italiana diretta da

Ernesto Schiaparelli, porta alla luce, nelle necropoli di Assiut e Gebelein, sepolture straordinarie e ricche di testimonianze relative al contesto culturale di una provincia dell’Antico Egitto fra il 2100-1900 a.C. A di-stanza di quasi 100 anni, una grande mostra espone al pubblico circa 400 reperti rimasti per molti anni chiusi nei depositi del Museo Egizio di Torino. Sarcofagi a cassa in legno stuccato e dipinto, che conservano un ricchissimo corredo, stele che svela-no i segreti della scrittura geroglifica, e alcune statue in legno, custodisco-no i segreti della vita quotidiana e della vita nell’aldilà.

Chiusura: lunedìOrari: 9-13, 16-20 (febbraio-aprile); 9-13, 17-21 (maggio-giugno);Info: 0965 331360beniculturali.it

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Attraverso capolavori prove-nienti dall’intero bacino del

Mediterraneo, tra cui imponenti statue in marmo, raffinate opere in bronzo e terracotta, interi cicli scultorei, fregi ed elementi di arredo domestico in bronzo e argento, del più alto valore stilisti-co, la mostra descrive il periodo successivo alle campagne di conquista in Grecia, tra la fine del III sec a.C. e la metà del I sec a..C., in cui l’influenza ellenica diviene preponderante fino a coinvolgere interamente il mondo culturale romano. Un’epoca di profondi cambiamenti nei canoni stilistici e sul gusto estetico della Roma an-tica, uno dei periodi più innovativi ed originali per l’intero sviluppo dell’arte occidentale.

museicapitolini.org

Una straordinaria mostra mette a confronto due dei più importanti

Imperi della storia mondiale, l’Impero Romano e le Dinastie cinesi Qin e Han nel periodo che va dal II sec. a.C. al II sec. d.C. Un confronto che, seppur mai avvenuto concretamente nella storia, risulta estremamente interessante nella sua apparente impossibilità: in condizioni storiche e geografiche del tutto distinte, due grandi culture hanno sviluppato esiti ora del tutto diversi, ora simili, diffe-renti nelle forme esterne, ma affini nella struttura funzionale. I celeber-rimi guerrieri di terracotta, drappi in seta, affreschi di epoca Han, modelli di case, pregiati utensili in bronzo ed oro, testimoni di un florido impero cinese, sono solo alcuni esempi dell’alto livello espositivo e saranno affiancati da altrettanto maestosi gruppi statuari in marmo, affreschi, mosaici, utensili in argento, altari funebri, appartenenti alla tradizione artistica dell’Impero Romano.

Info: 02 804062beniculturali.it

Pompei e il Vesuvio, Pompei e i suoi scavi tra scienza e mito: la storia

e le suggestioni di un sito unico al mondo raccolte in una mostra labora-torio che si propone come la  miglior introduzione alla scoperta di un sito archeologico visitato ogni anno, da oltre due milioni di persone. La mo-stra è stata concepita con un duplice intento, e in futuro si trasformerà infatti in un punto informativo stabile. Da un lato, attraverso una pluralità di supporti visivi, exibit scientifici, manufatti e reperti archeologici, presentare e approfondire tematiche connesse con la storia di Pompei e l’evoluzione degli scavi; dall’altro lato sensibilizzare e diffondere, attraverso moderne tecnologie, una cultura della prevenzione del rischio vulcanico, un rischio la cui incidenza in tutto il territorio del Golfo di Napoli è elevatissima.

Orari: tutti i giorni dalle 8.30 alle 19.30;Info: 0818575347ingresso liberopompeiisites.org

Marzo

5settembre

5I Giorni di Roma: L’età della Conquista, Roma e il mondo greco

RomaMusei Capitolini

Aprile

1settembre

5I due Imperi. L’aquila e il dragone

MilanoPalazzo Reale

Marzo

30Agosto

1Pompei e il Vesuvio. scienza conoscenza ed esperienza

PompeiScavi di Pompei

Gli scavi condotti in anni recenti nell’insediamento dell’età del

Bronzo di Monteroduni – località Paradiso (Isernia) - forniscono nuovi dati circa i traffici egei nell’Italia centro-meridionale. Per la prima volta elementi micenei sono stati indivi-duati in un sito interno del Molise, presumibilmente giunti attraverso la mediazione dei centri costieri dell’Ita-lia meridionale. Tra i reperti risalenti al XII sec. a.C., di particolare interesse sono un frammento di ceramica tornita dipinta con motivo a spirale di tipo miceneo e grandi contenitori in impasto (dolia), per la conservazione e lo stoccaggio di derrate alimentari, che ugualmente rinviano a modelli di origine egea. Altri rinvenimenti sono stati effettuati nelle immediate vicinanze e nei livelli archeologici inferiori (riferibili alle precedenti fasi dell’età del Bronzo: XX-XIII sec. a.C.), privi tuttavia di elementi strutturali. Successivamente la mostra sarà ospi-tata nel castello di Monteroduni.

Info: 0874 [email protected]

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LIBRI

Giornate di archeologia sperimentale

16 aprile 2010, ore 9:Museo Sannitico di Campobasso, Palazzo Mazzarotta, Via Chiarizia 10

28 aprile 2010, ore 9:Museo Archeologico di Isernia, Complesso monumentale di Santa Maria delle Monache, C.so Marcelli 48

5 maggio 2010, ore 9:Area archeologica di Altilia

12 maggio, ore 9:Area archeologica di Larino,V. Dante Alighieri 1

Prenotazione obbligatoriaI laboratori sono gratuitiInfo: [email protected]

XII settimana della Cultura 16 aprile - 25 aprile 2010

Il MiBAC apre gratuitamente, per dieci giorni, tutti i luoghi statali dell’arte: monumenti, musei, aree archeologiche, archivi, biblioteche con dei grandi eventi diffusi su tutto il territorio. Migliaia di appuntamenti: mostre, convegni, aperture straordinarie, laboratori didattici, visite guidate e

concerti che renderanno ancora più speciale l’esperienza di tutti i visitatori.Un’occasione imperdibile per avvicinarsi alla più grande ricchezza del nostro Paese: il nostro patrimonio artistico e culturale.

beniculturali.it

XII Convegno Nazionale Colloqui di Egittologia e Papirologia“Egitto terra di papiri” siracusa, 17 - 20 giugno 2010

Un ciclo di incontri aperto a tutti per discutere sulle novità più rilevanti in campo archeologico in Egitto, sugli studi e ricerche in corso e sul restauro e la conservazione dei papiri.

archaeogate.org

Incontri di Archeologia Museo Archeologico, Napoli

sba-na.campaniabeniculturali.itpompeiisites.org

I salone dell’editoria archeologicaMuseo Pigorini, Roma20 - 23 maggio 2010

Una fiera espositiva e manifestazione culturale avente come protagonista principale il libro di archeologia intorno al quale è prevista l’organizzazione di una serie di eventi legati all’editoria archeologica.

20 maggio:Archeologia e le donne: da Marianna Dionigi a Margherita Guarducci

21 maggio:Dalla nascita alla morte: antropologia e archeologia a confronto. Incontro di studi in onore di Claude Lévi-Strauss

22 Maggio:Nuova editoria archeologica. L’apporto dei moderni sistemi comunicativi nella divulgazione scientifica

23 MaggioDivulgare l’archeologia: il ruolo dell’editoria specializzata. Didattica, integrazione, comunicazione 

ediarche.it

AGENDA EVENTI

Il pranzo della festa. Una storia dell’alimentazione in undici banchettiMartin Jones

La prossima volta che ti siedi a tavola con i tuoi famigliari o con degli amici, prova a domandarti il motivo per cui gli

umani celebrano questo rito che per molte altre specie è un vero anatema. La tendenza a condi-videre pacificamente il cibo è un fenomeno straordinario. È anche quello che ha avuto le maggiori conseguenze sull’ambiente e l’evoluzione sodale degli uomini. Ma come questo strano e potente comportamento è divenuto parte del modo di vivere degli uomi-ni? Martin Jones ricostruisce lo sviluppo del rito del pasto utiliz-zando le più moderne tecnologie archeologiche: dagli scimpanzè ai banchetti regali, dai romani alla cena consumata davanti alla tv.Garzanti edizioni2009, pp.456, € 22

I lettori di ossaClaudio tuniz , Cheryl Jones, Richard Gillespie

Chi possiede il passato? Come si leggono le ossa antiche? E cosa ci dicono sulle nostre origini i manufatti, il polline e il DNA dell’era

glaciale? Usando tecniche sem-pre più raffinate, gli scienziati

riescono a ricostruire gli ambienti del passato profondo e i primi esseri umani che li abitavano. “I lettori di ossa” esamina i fatti e i miti sull’arrivo dei primi uomini in Australia, spiega come il DNA degli attuali Aborigeni australiani getti luce sulle loro origini, guida alla scoperta dei misteriosi hobbit indonesiani e indaga su chi o cosa ha sterminato i marsupiali giganti dell’Australia. Dalle scoperte della paleoantropologia australiana il panorama si amplia quindi ai dibattiti sulla misteriosa fine dei Neanderthal, sull’evoluzione e sulla diffusione della specie uma-na nei diversi continenti. Come spesso accade, su molti di questi temi gli scienziati sono divisi: “I lettori di ossa” presenta un mon-do di coloriti personaggi, impe-gnati in discussioni appassionate, che comprendono anche ipotesi veramente bizzarre. Questo libro chiarisce le idee a chi è incuriosito dalle ipotesi, spesso in contrasto tra loro, sul passato profondo della preistoria e spiega in modo accessibile le basi scientifiche delle più recenti metodologie di indagine e di datazione. springer Verlag edizioni, 2009, pp. 284, € 24

De sanguineLuigi Lombardi satriani

Raccogliendo i risultati di un lavoro di ricerca condotto lungo l’arco di trent’an-ni, questo volume rap-presenta un contributo

per comprendere le modalità attraverso cui gli esseri umani hanno tentato di trascendere la

sofferenza. Lombardi Satriani ci svela il senso e il fascino del lin-guaggio del sangue, la sua densità di significati e di valori simbolici attraverso l’analisi di antichi ritua-li, formule e credenze; lo studio degli ex-voto e degli appassionati discorsi di alcune grandi mistiche; il racconto dell’opera di veggenti, maghi, guaritori.Meltemi edizioni, 2005, pp. 192, € 14

Rito e religione dei RomaniJohn scheid

In una pro-spettiva sto-rico-antropo-logica, questo breve ed utile manuale concepito per studenti universitari, sperimenta

un nuovo approccio alla divulga-zione della religione dei Romani, secondo un’impostazione che l’autore definisce “più strutturale che cronologica”. Non si tratta, infatti, del consueto susseguirsi di capitoli su questo o quel secolo o su determinati personaggi o fatti storici, bensì una presentazione in ordine tematico dei principali elementi che caratterizzarono la religione di Roma nei secoli della Repubblica e dell’Impero. Il testo è corredato da numerose schede riepilogative e strumenti didattici. L’autore, John Scheid, è professo-re al Collège de France ed antro-pologo delle religioni del mondo classico tra i più importanti del nostro tempo.sestante edizioni, 2009, pp. 208, € 24

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L’immagine scartataClive staples Lewis

I temi cen-trali del libro comprendono la struttura dell’universo medievale, la natura dei suoi abitanti, la nozione di un universo finito, ordi-

nato e gestito da una gerarchia celeste. Allo stesso tempo, Lewis prende il lettore in un tour di alcu-ni dei pinnacoli del pensiero me-dievale (alcuni dei quali ereditati dalla cultura classica del pagane-simo), che sono sopravvissuti nel paesaggio moderno culturale e teologico.Marietti edizioni, 1990, pp. 198, € 15

Dizionario di archeologia. temi, concetti e metodiRiccardo Francovich,Daniele Manacorda

Mai come in quest’ultimo ventennio l’archeolo-gia storica ha subito evoluzioni e cambiamenti strutturali tanto profon-di. Nel corso

dell’Ottocento e del Novecento si è andata consolidando, soprattut-to nell’Europa centro-settentrio-nale, una simmetrica tradizionale che ha allargato al Medioevo il raggio di interesse. Il volume, che non si presenta come manuale ma con una sua organica e or-dinata articolazione, vuole dare un’immagine della complessità

delle tematiche dell’archeologia contemporanea, organizzato per voci e aggiornato che tiene conto dell’evoluzione e dei profondi cambiamenti strutturali che l’ar-cheologia storica ha conosciuto negli ultimi decenni.Laterza editore, 2003, pp. 366, € 38

Critica e arti figurative dal po-sitivismo alla semiologiaRaffaele Mormone

Seppur da-tato questo libro rimane ancora oggi un volume prezioso e insostituibile ai fini di un approccio alle problemati-

che relative alla critica d’arte.società editrice napoletana, 1975, pp. 368

samnites Pentri. quadrogeostorico di un genocidioPaolo Nuvoli

Il volume di Nuvoli si con-centra sulla ricostruzione dei rapporti – principalmen-te di natura bellica – tra Roma e San-nio pentro. In particolare,

sono accuratamente indagati i presupposti e gli sviluppi della c.d. Guerra Sociale, l’ultima vio-lenta guerra tra Italici e Romani. L’attento uso delle fonti, la strut-tura narrativa ed il crescendo drammatico che caratterizza il testo rendono il libro ricco di

informazioni e di piacevole let-tura, nonostante qualche lacuna bibliografica riguardante la re-cente storia degli studi. L’ipotesi di fondo del volume – e cioè che Silla volle farla finita una volta per tutte con i Sanniti, ad ogni costo ed esemplarmente – non è né nuova né di difficile intelligenza per chi sia avvezzo a Livio ed alle fonti romane, ma ciò che in ultima analisi dovrebbe convincere ed appassionare il lettore è, più che l’originalità delle ipotesi, il modo di presentare i dati da parte di un autore palesemente mosso da spirito di partecipazione al dram-ma del fiero popolo sannita.Aquilonia edizioni, 2008, pp. 343, € 30,00

quando i cavalli avevano le dita. Misteri e stranezzedella naturastephan Jay Gould

La zebra è bianca a strisce nere o nera a strisce bianche? Perché le imperfezioni presenti negli organismi sono prova dell’evolu-

zione? Domande a volte bizzarre, aneddoti, mostri e meraviglie della natura diventano occasioni di approfondite e brillanti indagini nel campo della paleontologia, della biologia, della storia na-turale, contribuendo con la loro varietà a suggerire la complessità e il fascino delle problematiche connesse all’evoluzionismo.Feltrinelli editore, 2000, pp. 415, €12,50

LIBRI

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