InContro n°4

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Magazine del Liceo Scientifico L. da Vinci di Treviso

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L' ANGOLO DELLA CULTURA

Editoriale

REStiamo informati

giusto momento per riflettere

cos' e' accaduto nel 2013

EDITORIALEdi Giorgia Conte

Paolo Di Stefano si racconta agli studentiDi Giorgia Camillo

IL 32 premio comisso a santagata e di stefano Di Giorgia Camillo

In memoria di Nelson MandelaDi Giorgia Conte

LA DANZA DELLE FARFALLEDi Sara DI Martino

LA RELATIVITA' DI CIO' CHE E' NORMALEDi Lucrezia Lena

A TEATRODi Alice Pavanello

Quattro nuovi senatori a vitaDi Giorgia Camillo

LA CULTURA DELL' ESSERE E DELL'APPARIRE NEI GIOVANIDi Ludovica Crosato

ACCADdE ANCHE A TREVISO...Di Giorgia Camillo

Un vincitore E' un sognatore che non ha mai smesso di sognare Di Sofia de Faveri

La societa' di massa: un conformismo compulsivoDi Giorgia Conte

200 anni di VerdiDi Edoardo Bottacin

Madame bovary Di Caterina Carà

LA NOTTE DELLE STELLE CADENTIDi Eleonora Pietrobelli

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TRE GIORNI NEL MONDO DEL GIORNALISMO INTERNAZIONALE Di Ludovica Crosato

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News dal da vinci

un momento di svago

Sfumato il Nobel per la Pace 2013 a Malala YousafzaiDi Giorgia Camillo

DAL PES di Milena Mottola e Martina Stringari

ORA ZERO: Da Vinci e Pascack Valley High School

ARTECO INCONTRA EMILIO ISGRO'

Fotografia di Lucrezia Lena

GAME CORNER

DAI RAPPRESENTANTI DI ISTITUTO

IL GRUPPO DOM

Cari lettori, è già trascorsa la prima metà di questo intenso anno sco-lastico che ha portato con sé importanti novità: a comin-ciare dal nostro nuovo preside, il professor Luigi Clama, per proseguire con la conclusione delle varie operazioni di manutenzione apportate al nostro istituto. Come ogni anno le proposte del liceo sono molte e imperdibili e mi sento di invitarvi a sfruttarle pienamente aderendo a qualcuna delle molte attività e partecipando agli incontri con gli ospiti prestigiosi che la nostra scuola è onorata di ospitare. Ora che il primo quadrimestre si è chiuso, è giunto il momento di impegnarsi ancor più nello studio, specialmente per chi, come me, tra pochi mesi affronterà gli esami di maturità. Tralasciando questo dettaglio, vi annuncio che finalmente noi ragazzi della redazione del giornale InContro abbiamo ripreso l’attività e siamo ansiosi di proporvi le nostre riflessioni per un dibattito che, sicuramente, renderà più vivace il giornale. Come potete vedere, anche quest’anno, i ragazzi del Gruppo Grafica Look! hanno dato il loro contributo per rendere graficamente più accattivanti i nostri articoli.

In questo numero proponiamo articoli che, come sempre, trattano temi vari: dall’attualità, ai reportage delle nostre esperienze, alle recensioni di opere teatrali e di libri, alla vita del Liceo. Cerchiamo di spaziare il più possibile, pertanto abbiamo aggiunto una rubrica appositamente dedicata allo svago, ossia giochi e un articolo “tecnico” sull’arte della fotografia, nell’intento di dare attenzione a voci diverse in modo da soddisfare gli interessi di voi lettori. Anzi, fateci sapere che cosa vi piacerebbe leggere, quali argomenti ritenete interessanti e, se avete piacere di intervenire con un vostro articolo o contribuire con dei vostri disegni, fatecelo sapere. La redazione si incontra ogni giovedì alle 13.00 al bar del liceo. Veniteci a trovare!Nella speranza che la lettura del giornale possa allegge-rire le vostre ore di studio intenso , speriamo che il nostro operato vi sia gradito e vi auguriamo una buona lettu-ra, oltre che un buon inizio del secondo quadrimestre!

La diretticeGiorgia Conte

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Il Premio Letterario Giovanni Comisso «Regione del Veneto – Città di Treviso», premio letterario che annualmente viene assegnato dalla città di Treviso a un’opera di narrativa e ad un’opera biografica edita nell’anno di riferimento, è giunto ormai alla sua 32a edizione. Lo scorso 30 novembre, a Palazzo dei Trecento, la suspense era indefi-nibile vista anche la straor-dinaria presenza della televisione che, per la prima volta, ha portato l’evento culturale nelle case dei veneti. Con grande soddisfazione dei presenti, per la narrativa il vincitore è stato Paolo Di Stefano con “Giallo D’Avola” edito da Sellerio men-tre nella sezione Biografia ha trionfato Marco Santagata au-tore del romanzo “Dante. Il romanzo della sua vita” edito da Mondadori. Per gli studenti del Liceo Da Vinci invece la suspense è stata travolta dalla soddisfa-zione di aver incontrato nella mattinata proprio uno dei vincitori: Paolo Di Stefano che si è raccontato non solo come scrittore ma anche nella sua professione di giornalista e nella sua passione per la filologia.Ancora una volta gli studenti del Da Vinci portano fortuna….Dopo Andrea Molesini, Premio Comisso e Campiello nel 2011, ora Paolo Di Stefano.

Il 32° Premio Comisso a Santagata e Di StefanoDi Giorgia Camillo

Paolo Di Stefano si racconta agli studenti

Era una mattinata uggiosa di fine novembre, come uggioso è il fatto di cronaca successo nel lontano 1954 quando Paolo Di Stefano, uno dei cinque finalisti del Premio Comisso 2013, è ve-nuto a raccontarci il suo «Giallo d’Avola», edi-to da Sellerio. L’incontro è stato realizzato gra-zie alla collaborazione di Unindustria Treviso.

«Giallo d’Avola», è un grande romanzo di let-teratura dove l’ambientazione, il linguaggio e i conti-nui spostamenti tra il già successo e ciò che, già successo, sta per accadere, cattura l’at-tenzione del suo lettore conducendolo in un labirinto inestricabile di verità e menzogne. Il «noir» d’Avola (una storiaccia che basterebbe fare un clic sul web per vederne immiseriti intreccio, finale e prosieguo) poi, è l’occasione per dar voce alla Sicilia contadina del secondo dopoguerra: quel

mondo arcaico in tutte le sue pieghe di violenza, di tragedia e nei suoi risvolti più grotteschi e assurdi.Noi ragazzi del Liceo che abbiamo curato l’in-contro con l’autore abbiamo scoperto come le molteplici suggestioni emerse dalla nostra let-tura del romanzo siano, come affermato con entusiasmo dallo stesso Di Stefano, diverse da quelle emerse in precedenti presentazio-ni dove il destinatario era un pubblico adulto. Con grande orgoglio poi, abbiamo condotto la nostra intervista con l’intento di conoscere il come e il perché si scrive un romanzo o, an-cora, quali sono le emozioni provate a lavoro ultimato e come si reagisce nel vedere il frut-to di tanto lavoro in corsa per un premio let-terario importante e, per ultimo, se capitano mutamenti improvvisi che bloccano la penna. E, spiazzando i presenti, il nostro ospite ha afferma-

Di Giorgia Camillo

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to che ci si mette a scrivere una storia perché la si vuole raccontare senza pensare al messaggio finale che si auspica venga afferrato dal proprio pubblico. La leggenda raccontata (e per leggenda Lui in-tende: spiegare realmente i fatti accaduti) infatti, è «memoria non rielaborata ma ancora viva, viva come vivo è quel giorno in cui è accaduta, viva come ancora vivo è il risentimento rispetto a tut-to quello che è stato promesso e non mantenuto lasciando come unica via di scampo la solitudine». Il fattaccio di Avola (sua terra di origine) è la porta che, nell’aprirsi, gli offre la possibilità di entrare nel-le sue origini, nella sua terra, una terra che produ-ce il caso di cattiva giustizia, ma allo stesso tempo gli permette di riscoprire le suggestioni degli scrit-tori siciliani dello scorso secolo: Verga e Pirandello. Verga con «I Malavoglia» e Pirandello con «Il fu Mattia Pascal» hanno un ruolo importantissimo nella sua scrittura poiché li considera «lettera-tura precedente che alimenta la letteratura mo-derna» e nel più profondo hanno reso un po’ meno dura la sua emarginazione in terra straniera.Ricorda, infatti, ancora lo spaesamento da emigra-zione sofferto nella sua infanzia, in Svizzera; emar-ginazione causata dalla sua lingua (cadenze e paro-le che gli altri né conoscevano né capivano), lingua però che rivela il suo diritto di cittadinanza in terra straniera, poiché proprio «I Malavoglia» vengono letti nella sua scuola. E’ proprio in quell’occasione che capisce che «la lingua è letteratura universale».Il suo racconto è continuato con pillole di sag-gezza dirette a smentire i luoghi comuni sulla fi-lologia. Quest’ultima, Scienza che studia i docu-menti scritti, in vista della retta edizione e della corretta interpretazione di essi nel contesto dell’epoca e della civiltà che li ha prodotti, rite-nuta obsoleta nel quotidiano, è alla base del-la stesura dei suoi testi. Infatti, limitandosi allo studio dei testi si ricostruisce la vera volontà dell’autore e nel raccontare poi, si è fedeli ai fatti. Di Stefano, laureato non a caso in filologia, pri-ma di iniziare la stesura di «Giallo d’Avola» ha raccolto moltissime testimonianze orali, ha studiato gli atti processuali e i ritagli di giorna-le del tempo e, con grande abilità, ha racconta-to «cose vere che nel libro sembrano finzione».

Di seguito riportiamo testuali parole che spiegano il perché è diventato scrittore: «Sono diventato scrittore in seguito a un fatto autobiografico. Mio fratello muore a cinque anni di leucemia e l’anno seguente mio padre de-cide di comprare una macchina nuova, carica la bara di mio fratello e va ad Avola per seppellirlo.Il perché di quel gesto non ho mai osato chiederlo ….La mia sofferenza l’ho rielaborata scriven-do un libro. Sofferenza che è un’ossessione!Lo scrittore lavora su ossessioni; infatti, l’ossessio-ne che pensi svanita per-ché rielabo-rata in un libro, ritorna o s s e s s i o -ne nel libro s e g u e n t e .Nei primi due romanzi, ho lavorato in solitudine senza senti-re l’esigenza di avvici-narmi alle persone. Esigenza arrivata in seguito ad un’esperienza fatta per il giorna-le per cui lavoro. Il direttore del Corriere della sera, in seguito al caso di Novi Ligure mi disse: “perché non vai per l’Italia e racconti il malesse-re tra genitori e figli, …” E’ lì che ho capito che i miei libri dovevano nascere dal contatto con la gente, dovevano alimentarsi della voce degli altri. Anche la lingua ha il suo ruolo, dà ai personaggi un’identità unica e irripetibile; nel caso di Giallo d’Avola è anche segno di isolamento tra Avola e Siracusa, tra la Sicilia e il resto d’Italia. Il dialetto è uno scarto di espressività che solo l’Italia ha; infatti, anche se parliamo tutti l’italiano, l’espressi-vità del dialetto influenza la lingua, così l’italiano di Roma è diverso da quello vostro e dal mio».

Il finalista del premio Comisso si è congeda-to con una bellissima frase: «La letteratura è musica, l’importante è come si esprime!» Fra-se che esprime alla perfezione la sua professio-nalità di giornalista e la sua maestria di scrittore.

PAOLO DI STEFANO

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200 ANNI DI VERDIanche Treviso celebra il Grande compositore di Busseto

di Edoardo Bottacin

Quale modo migliore per celebrare il bicentenario della nascita di Giuseppe Verdi, il “ cigno di Busse-to” se non con la messa in scena di una sua opera?Per quest’occasione, tra le molte opere di Verdi, la scelta del Teatro Comunale di Treviso è ricaduta su Rigoletto, melodramma in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave tratto dal dramma “ Le roi s’amuse” di Victor Hugo. Prima opera della trilogia Verdiana, (Rigoletto del 1851, Il trovatore e La traviata del 1853), Il Rigoletto fu conce-pito con un’unica struttura compatta, senza arie chiuse perché si sviluppi, atto dopo atto, senza interruzioni. Lo stesso Verdi, in età avanzata, alla domanda “Quale opera avrebbe salvato se fossero state tutte bruciate”, rispose “ Il mio Gobbo” ossia Rigoletto. L’opera andata in scena a Treviso dal 20 al 24 novembre 2013, con una recita speciale per i giovani il 18 novembre, nel complesso ha avuto i suoi punti di forza ma anche qualche pecca.La regia di Patrizia di Paolo è una regia che non si distac-ca di molto dal libretto originario, gli edifici sono di stile classicheggiante e l’impressione, soprattutto nelle scene iniziali, è di una certa fastosità. Particolarmente efficaci e curati sono i costumi cosi come il disegno luci. Inte-ressante ,anche se un po’ fuori luogo, l’idea di proiettare sul fondale o sul velario immagini rubensiane, pittore che visse nella corte Mantovana nei primi anni del 1600.

Dal punto di vista vocale ha dominato su tutti Scilla Cristiano, nell’opera Gilda, fi-

glia di Rigoletto, che possiede un’ottima tecnica vocale che

le permette di sfruttare ap-pieno le sue qualità e di creare degli effetti chia-

roscurali commoventi nonostante l’esilità della voce, soprattutto nel registro basso. A completare l’ottima performance di Scilla Cristiano ci ha pensato il bari-tono Giuseppe Altomare, Rigoletto, che possiede una vocalità tipicamente verdiana. La sua immedesimazione nel personaggio ha conferito una grande espressività e quel necessario tocco di drammaticità, soprattutto nei dialoghi tra padre e figlia del secondo atto. Da ammo-nire la troppa bontà del personaggio: Rigoletto, infatti, oltre ad essere il gobbo per eccellenza è un uomo con-tro tutti, scontroso, cattivo e perfido; purtroppo però, in questa rappresentazione, la cattiveria è mancata.In parte negativa la prova del Duca di Mantova, inter-pretato da Walter Borin, che ha dimostrato, soprat-tutto nel primo atto, una mancanza di volume e un suono in parte nasale per poi riprendersi nel corso dell’opera evidenziando una solidità vocale che gli ha consentito, nonostante la mancanza di volume, di sfog-giare acuti brillanti e degli ottimi fraseggi. Nel comples-so è stata più che positiva la performance dei com-primari, primo tra tutti Sparafucile, Abramo Rosalen. Dal punto di vista musicale ottima è stata la presta-zione del coro Amadeus, mentre del tutto negati-va è stata la prova dell’orchestra Filarmonia Veneta, soprattutto tra la sezione degli ottoni, complice in parte il direttore Francesco Omassini il quale, nono-stante avesse la sua idea musicale, in alcuni casi ha rallentato i tempi rendendoli privi di espressione. Nel complesso lo spettacolo è risultato gustabile e senza particolari problemi, ma al di sotto della qualità che ca-ratterizzata il Teatro cittadino ormai da moltissimi anni.

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Il romanzo Madame Bovary, uscito nel 1857, narra la storia di una ragazza, Emma Rouault, proveniente da un piccolo paesino della Francia, che ha sposato un medico di provincia, Charles Bovary, un uomo semplice. Emma, nonostante le sue origini conta-dine, è affascinata dalla mondanità e spera che, grazie al matrimonio, la sua vita lenta e monotona si trasformi in vivace e felice, ricca di eventi e occa-sioni mondane. Tuttavia il marito presenta un forte rifiuto nei confronti della vita di società e dell’ap-parire; al contrario della moglie, Charles preferi-sce una esistenza semplice, quotidiana e ripetitiva. Madame Bovary, delusa dalla vita che conduce e dall’incapacità del marito di soddisfare le sue vellei-tà, si allontana sempre più da lui che ritiene l’osta-colo alla sua realizzazione. In breve tempo i senti-menti di Emma verso il marito diventano carichi di amarezza e di disprezzo. La condizione intollerabile in cui sente di vivere, porta Emma ad ammalarsi e, nonostante i tentativi del marito di curarla, Emma continua a rifiutarlo. I due decidono allora di trasfe-rirsi in un’altra città francese dove avranno una dol-ce bambina di nome Berthe, che non riuscirà, però, a rasserenare Emma. In questa nuova città, la don-na conosce il suo primo amante, Lèon, un giovane notaio. Inizialmente la loro è una relazione costitui-ta da sguardi e gesti gentili, che termina con la par-tenza dell’uomo che si trasferisce in un’altra città.Dopo qualche tempo Emma conosce Rodolphe, un aristocratico; ella si è invaghita di quest’uomo, che in realtà non intende impegnarsi in un rap-porto assoluto. Infatti quanto Rodolphe capisce che Emma è fortemente coinvolta nella relazione e che desidera andare a vivere con lui, la abban-dona. Una mattina, dopo aver pianificato la loro fuga, Rodolphe non si presenta all’appuntamento, lasciando l’infelice Madame Bovary con una lette-

ra ricca di bugie, che di certo non alleviano il suo animo; Emma è sempre più frastornata e smarri-ta. Si ammala gravemente e solo dopo un anno inizia a stare meglio. La guarigione la porta anche ad apprezzare le attenzioni che il marito ha avuto durante la sua malattia e a considerarlo. Il perio-do di serenità dura poco perché Charles, in se-guito al fallimento di un intervento su un paziente, scatenerà nuovamente la rabbia di Emma che lo accusa di aver distrutto la loro credibilità sociale. Dopo qualche mese Emma incontra nuovamente Léon e i due amanti vivono un’intensa storia d’a-more, che termina con la delusione della donna.Emma reagisce alla sofferenza conducendo una vita stravagante e dispendiosa che la porta ad in-debitarsi con l’usuraio Lhereux. Vedendo la propria vita sentimentale distrutta e nessuna prospettiva di futuro felice, decide di porre fine alla sua travagliata esistenza. Beve una cospicua dose di arsenico e, dopo qualche giorno di sofferenze atroci, muore. Il marito Charles ripaga tutti i debiti ma il suo fragile animo lo porta alla morte e la loro piccola figlia, ri-masta povera e orfana, viene sfruttata come operaia.

Flaubert, che ha dato un grande contributo alla teoria del Realismo, ha voluto narrare la vicen-da tormentata di Emma in modo impersona-le, impassibile con un metodo impietoso… la pre-cisione delle scienze naturali.Scrive Flaubert in una lettera all’amica Louise Colet: L’au-tore deve essere nella sua opera come Dio nell’univer-so; presente dovunque e non visibile in nessun luogo […]Emma è una figura che vive un duro scontro: da

Gustave Flaubert nasce nel 1821 a Rouen e muore a Croisset nel 1880. Figlio dell’illustre chirurgo Achille-Cléophas, compie gli studi secondari a Rouen. Si trasferisce a Parigi per affrontare gli studi giuridici ma egli riconosce presto la sua vocazione letteraria. Tra le sue opere più famose, oltre a Madame Bovary, vi sono: L’educazione sentimentale, La tentazione di S.Antonio, Salammbò, Bouvard e Pécuchet.

MADAME BOVARYdi Caterina Carà

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un lato la sua vita ordinaria, monotona, da bor-ghese, dall’altro i sogni, le aspirazioni a vivere un amore assoluto, totale e coinvolgente. Desidera-va fortemente essere come le eroine dei roman-zi che aveva letto e si illudeva di potervi riuscire. Questa ansia di concretizzare i suoi sogni la por-terà a non accorgersi delle insidie, degli inganni e delle menzogne che il mondo illusorio tanto cercato le riserva. La sua ricerca continua di una felicità impossibile non le consente di apprezza-re le gioie della vita come sua figlia e suo marito.

La frase che più mi ha colpito è stata “Ella cercava, ora, di sapere che cosa volessero esattamente dire, nella vita, le parole felicità, passione ed ebrezza, che le erano sembrate tanto belle, lette nei libri.” Questa frase mette in luce il tema centrale del libro, la ricer-

ca della felicità. Tutti noi siamo portati a cercare la felicità nella nostra vita; per viverla più serenamente, ci avviciniamo alle cose che ci sembrano farci gioire e talvolta non capiamo che sono pericolose per noi; cerchiamo persone che ci amino, per quello che siamo, che soddisfino i nostri desideri, ma a volte, persi in tale ricerca, non vediamo che le persone che ci circondano, quelle che noi sottovalutiamo, sono proprio quelle che ci apprezzano più di tutti.Grazie a questo libro si può capire che nel-la vita non bisogna pretendere tutto, ma solo ciò che ci rende veramente felici. Quante vol-te abbiamo voluto una cosa e dopo aver-la ottenuta sentiamo che nulla è cambiato? Madame Bovary è un romanzo che mi è piaciuto molto e che vi consiglio di leggere. Buona lettura!

Era una notte meravigliosa, una di quelle notti che forse esistono soltanto quando si è giovani. L’aria pungente mi pizzicava la punta del naso che stava perdendo la sua sensibilità. Ma io non me ne cu-ravo più di tanto, avevo occhi solo per la luna che ricambiava il mio sguardo con uno pallido e vuo-to. Le punte delle dita percorrevano il contorno del telaio della finestra sempre sullo stesso punto, mentre il mio cuore volava lontano a quando, in-sieme a mamma, percorrevo la spiaggia, nelle notti estive, e cercavamo insieme una stella cadente che ci desse la possibilità di continuare a credere nei nostri sogni. “Non l’abbiamo mai trovata. Era un segno forse? Non mi merito che i miei sogni ven-gano esauditi, non mi merito neanche di averne? Li ho visti volare via, lontano da me, adagiati sul-le ali di quell’aquilone che mi è sfuggito di mano”.La casa era silenziosa, dormivano tutti, anche papà che aveva sempre il brutto vizio di fare le ore pic-

cole. Mi sono girata verso l’oscurità della mia stanza e il letto intatto, la luce della luna proiettava cupe ombre sul pavimento, giocando con i fili colorati del tappeto. Non ce la facevo più a stare chiusa lì. L’aria della stanza mi soffocava. Al solo pensiero di met-termi sotto le coperte mi sono sentita male per-ché di certo non sarei riuscita a dormire. Ho infila-to le scarpe lasciate ai piedi del letto, acchiappato la borsa buttata sulla sedia a dondolo e in un attimo ero fuori. Gocce di pioggia mi sferzavano la faccia, lasciandomi a malapena tenere gli occhi aperti. Il vento mi toglieva il respiro ed era la scusa per le mie copiose lacrime. La luce dei lampioni faceva volare la mia ombra, l’ombra di una ragazza in bici-cletta sul ruvido cemento della strada. La luna era immobile, bianca e fredda e fissava me, una strana figura con i capelli al vento, così veloce e apparen-temente sicura, ma invece così fragile dentro, trat-tenuta alla vita solo, ormai, da un filo quasi invisibile.

LA NOTTE DELLE STELLE CADENTI

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Il paesaggio attorno, diventava sempre più desolato e deserto. C’era solo una strada e io con una bor-sa a tracolla. E poi, in lontananza, apparve la meta: una casa con i balconi, una volta colorati, ma in quel momento scrostati, con il tetto senza tante di quelle rosse tegole che erano cadute a terra fran-tumandosi. Il cancello arrugginito mi aveva salutata con il suo cigolio. Ho varcato la soglia che divideva il mondo reale da quello che custodiva con cura, quel mondo che non sarebbe mai cambiato, che sarebbe rimasto sempre come lo vedevo io. Ho superato il cancello e, di colpo, ho visto una bim-ba di tre anni intenta in un gioco con delle foglie appena cadute da un albero, stava sorridendo e sembrava che non avesse mai avuto delusioni dalla vita. Dietro di lei, una donna, le palpebre truccate, grandi occhiali tondi e mani affusolate e delicate. Continuavo a camminare, lentamente, cercando di avvicinarmi, ma quando ormai stavo allungando la mano per sfiorarla, ho visto, proprio sotto l’albero, una pietra liscia e ben piantata. Anna 1970-2012. E la scena si è dissolta di colpo sotto i miei occhi.-Ciao- la voce mi si è bloccata in gola e non sono riuscita a dire altro. Sono scivolata sulle ginocchia. “Mi manchi. Mi manchi tanto. Mi mancano le nostre chiacchierate alla sera prima di andare a letto. Mi manchi quando piango e non ci sei per dirmi che andrà tutto bene. Mi mancano i tuoi consigli, i tuoi abbracci che profumavano di casa. Mi mancano le nostre passeggiate estive sulla spiaggia sondando il cielo per la nostra stella cadente. Spesso mi sento persa e sola. Sono sempre arrabbiata con il mondo e non so neanch’io spiegarmi bene il motivo. Mi sento triste e avrei voglia di urlare e piangere all’infinito, però mi trattengo. Ma ora non ce la faccio proprio

più. Dove sei? Andare avanti così è diventato impossibile. Il mondo mi ha distrutta e le cattiverie mi hanno colpita dritta al cuore, uccidendomi poco a poco. Sto pensando di finire qui. Di smettere di lottare. Non ho più sorriso, non perché non ci fossero cose per le quali essere felici, ma perché non riuscivo ad apprezzarle senza di te”. Ho aperto la borsa e ho tirato fuori un tubetto di sonniferi.-Ci ho provato mamma, sul serio, ma non ci rie-sco, non riesco proprio a girare pagina-. Mi sono stesa vicino a te. Ho guardato il cielo che piange-va. La pioggia scendeva leggera, lavava via la pau-ra, il risentimento, tutto. Era rimasto solo un po’ di coraggio per aprire la confezione e prende-re i dischetti in mano. Li ho passati da un palmo all’altro e li ho avvicinati alla bocca. Ho alzato lo sguardo un’ultima volta e ho sorriso mentre una lacrima mi scendeva lungo la guancia. C’era una stella che brillava più delle altre. Mi ha ipnotizzata per un attimo. Poi è precipitata a terra. “Mamma, una stella cadente! Adesso! Perché?” Sono rimasta lì, immobile, vicina a te, forse perché non volevo disturbarti, forse perché non avrei saputo cosa fare se mi fossi alzata. Poi, però, come se una for-za mi avesse sostenuta, ho cominciato a cammi-nare, le pastiglie sparse a terra, il mio cuore che ha deciso di provare a guarire. -Ciao, mamma-.Anche l’ultimo lembo del mantello della notte stava scivolando via, mi ha avvolta un attimo ancora. Poi la luna, prima di coricarsi, ha salutato quella strana ra-gazza che sembrava volare sulla sua bicicletta. Sull’o-rizzonte della strada è apparsa la timida luce del sole che l’ha accarezzata. In quel momento, lei sape-va che la strada che stava percorrendo era infinita.

di Eleonora Pietrobelli

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di Giorgia Conte

LA SOCIETA’ DI MASSA:un conformismo compulsivoIl fenomeno della massificazione della società trae origine dal processo di industrializzazione e urba-nizzazione in atto dalla fine del diciannovesimo se-colo e sviluppatosi nel primo dopoguerra a cau-sa del radicale cambiamento del contesto politico, economico e culturale in cui sono coinvolte le no-stre vite individuali e in cui è organizzata la società.In campo commerciale la Seconda Rivoluzione indu-striale ha consentito di abbassare i prezzi creando una nuova categoria di consumatori e dando vita al mec-canismo che, a lungo andare, porterà all’omologazione dei gusti, secondo la strategia del mercato che mira ad illudere l’individuo che il possesso di un determinato bene porti appagamento e rilievo nel contesto sociale.A livello politico il ruolo delle masse è diventato fon-damentale: ottenere il loro consenso si è rivelato un metodo necessario per raggiungere il potere. Esse, infatti, tendono a lasciarsi convincere, talvolta sedur-re, da un “leader carismatico” nel quale riconoscono un loro rappresentante e, talvolta, il loro salvatore.Apparentemente l’emancipazione della popolazio-ne è frutto della democratizzazione e dell’ascesa del benessere ma, in realtà, il rischio che la democrazia degeneri in demagogia, Il dominio delle masse come appiattimento generale e minaccia delle libertà indivi-duali ( E. Sabatucci), è latente. Il pensiero di per-sone socialmente omogenee si impone più facilmente che non la riflessione di un singolo competente in una certa area. La storia ci ha insegnato che in molti casi, come si è verificato per l’affermazione del Fascismo, sono sufficienti discorsi accattivanti, sebbene privi di contenuto, ad incantare la popolazione meno colta.Tanto maggiore è l’effetto della massificazione quando, per realizzarla, entrano in gioco i “mass media”. Questi spaziano dalla radio, che assunse un ruolo fondamen-tale nella prima metà del novecento nel diffondere no-tizie e trasmettere opinioni, ai telegiornali, ai quotidiani, ad internet ed ai social network utilizzati ai nostri giorni.In particolare, la pubblicità e i social network sono al momento strumenti efficaci nella persuasio-ne della collettività: vedere un determinato pro-dotto in uno spot convince della sua irrinuncia-

bilità allo stesso modo in cui il pensiero di un politico, condiviso su Facebook, persuade più di quanto avverrebbe se fosse trasmesso con altri mezzi. Quest’insieme indeterminato di informazioni e prodot-ti accessibili ad un’ altrettanto indeterminata massa di persone ha per effetto il conformismo più radicale, che si concretizza soprattutto nella perdita dell’identità del singolo: in un contesto in cui si tende a far prevalere il dato quantitativo ed economico su quello valoriale, la possibilità di esprimere opinioni personali contrastan-ti con quelle della collettività risulta quasi impossibile, poiché si avverte il pericolo di venire discriminati per la propria diversità di pensiero. In questa situazione scatta il meccanismo paradossale che accosta il desiderio di essere originali a quello di non voler apparire diversi: all’ interno di un contesto di totale omologazione ognuno mira ad emergere, ma riuscirci senza andare contro i costumi imposti dalla società risulta un’utopia. Il risulta-to di un simile fallimento è la profonda crisi individuale che si accompagna ad una bassa considerazione delle proprie capacità e ad una carenza di autostima. La vita tende allora a ridursi ad una monotona quotidianità che non lascia spazio allo sviluppo della propria personalità, alla pianificazione di progetti futuri, o alla realizzazione dei propri ideali. Ci si accontenta di soddisfare i pro-pri bisogni materiali, assecondando così le richieste del mercato e alimentando il meccanismo perverso della massificazione. Anche in un mondo in cui tutto sem-bra esaurirsi nell’ immediato, traspare però una via di salvezza: la cultura. Attraverso lo studio si acquisisce la consapevolezza della propria condizione, confrontan-dola con gli esempi del passato e consultando opinioni autorevoli, si sviluppa uno spirito critico che permet-te di non venire travolti nelle imposizioni della società.Conoscere e riflettere permette di ritro-vare i valori in cui credere come singo-li e le convinzioni su cui si fonda la propria vita.In definitiva il fenomeno dell’ omologazione as-sorbe le nostre vite nei limiti in cui noi lo con-sentiamo: è opportuno non adeguarsi all’am-biente che ci circonda al punto di lasciare che questo ci omologhi e ci riduca a meri consumatori.

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due voci per

Nelson Mandela

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RESTIAMO INFORMATI12

« Non c'è nessuna

strada facile per la

libertà. »

Il 6 dicembre 2013 si è spento serenamente nella sua abita-zione, attorniato dai familiari, Nelson Mandela, eroe della lotta contro la segregazione razziale in Sud Africa e premio Nobel per la pace nel 1993.Alla notizia del decesso di una figura così straordinaria nel mondo si è diffuso un sospiro carico di tristezza, privo però di qualsiasi rimpianto in quan-to, ad essere giunta, è la fine di qualcuno che è riuscito a rea-lizzare in vita l’ideale per cui si è sempre dichiarato pronto a morire.Ci lascia un uomo che ha dato prova di incredibile tenacia conducendo la sua intera esi-stenza all’ insegna della lotta per la libertà, l’uguaglianza e il rispetto della dignità umana senza mai dare segnali di resa o cedere a compromessi. Un uomo che ha scontato decen-ni di pene pur di non tradire i propri ideali e le persone che hanno creduto in lui.La forza di volontà e l’indigna-

zione per l’ingiustizia di Nel-son Mandela emersero fin da-gli anni in cui egli frequentava l’Università di Fort Hare, dalla quale fu espulso nel 1940 per aver guidato una manifesta-zione studentesca insieme a Oliver Tambo contro i prov-vedimenti di segregazione im-posti dal regime del Sudafrica dell’epoca. Si intensificarono, inoltre, quando Mandela ebbe occasione di verificare la realtà di miseria opprimente e sfrut-tamento disumano a cui erano soggetti i lavoratori neri nelle Miniere della Corona di Johan-nesburg. Raggiunsero l’apice nel momento in cui la politica divenne motivo principale del-la sua vita: mosso dall’umilia-zione e dalle sofferenze della sua gente e offeso dalle leggi sempre più ingiuste e intolle-rabili, nel 1944, Nelson Man-dela si unì a Walter Sisulu e Oliver Tambo nel costituire la Lega Giovanile dell’ANC (Afri-can National Congress), di cui egli divenne presto presidente,

evento che segnò l’inizio della pericolosa e appassionata vita totalmente dedicata alla lotta contro le oppressioni dell’a-partheid. Divennero infine memorabili durante gli anni di sfrenati combattimenti che lo vedranno subire numerosi arresti e processi con l’accu-sa di tradimento e sabotaggio tra cui quello di Treason che seguì la sua deportazione e, nel 1952, quella di altri 8.500 partecipanti ai raduni contro le leggi razziali tenutisi a “Free-dom Square” di Johannesburg, a Porth Elizabeth e a Pretoria.La campagna non violenta di disobbedienza civile di Man-dela, basata su scioperi, mar-ce di protesta, manifestazioni e incoraggiamenti al rifiuto di obbedire alle leggi discri-minatorie, fu condotta fino a quando le circostanze lo hanno permesso: in seguito al processo, di fronte alle cre-scenti repressioni e la messa al bando dell’ANC, la lotta arma-ta diventò l’unica soluzione. Il

massacro di Sharpeville nel’60 in cui furono uccisi sessanta-nove africani e la messa all’in-dice della leadership dell’ANC da parte del governo naziona-lista, che dichiarò l’associazio-ne illegale, segnarono l’inizio di una nuova fase della battaglia alla discriminazione: il movi-mento divenne rivoluzionario negli scopi e nei metodi, e ac-canto all’attivismo non-violen-to, piccole cellule di militanti iniziarono l’azione armata contro lo Stato.Mandela coordinò allora la campagna di sabotaggio con-tro l’esercito e gli obiettivi del governo, ed elaborò piani per una possibile guerriglia per porre fine all’apartheid. Nel-lo stesso anno fu nuovamen-te arrestato e condannato all’ergastolo a Robben Island. Durante il processo, tenutosi a Rivonia, Madiba tenne il suo celebre discorso che terminò con le toccanti parole: “Ho nutrito l’ideale di una società libera e democratica, in cui

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« Non c'è nessuna

strada facile per la

libertà. »

tutte le persone vivono insie-me in armonia… Questo è un ideale per cui vivo e che spero di realizzare. Ma se è neces-sario, è un’ideale per il quale sono pronto a morire”. Malgrado Robben Island fosse il trattamento più duro e spie-tato del sistema penale dell’a-partheid sudafricano, neanche di fronte a questo Mandela ha dato segni di rassegnazione. Per 27 anni di reclusione e la-vori forzati, Madiba ha portato avanti la sua battaglia anche all’interno del carcere per mi-gliorare le condizioni di pri-gionia, terribilmente ingiuste e disumane: cominciò a lottare perché i detenuti ottenessero l’uguaglianza nei pasti, il diritto di indossare occhiali da sole nelle cave di calcare, e per avere nelle celle sgabelli per sedersi quando, esausti, studia-vano a tarda sera grazie ai cor-si per corrispondenza. Mentre otteneva tutte queste piccole vittorie, Nelson Mandela non dimenticava la battaglia più importante che lo attendeva al di fuori e, nonostante gli anni passassero inesorabilmente, il mondo non si scordava di lui.Egli si mantenne informato, per quanto le restrizioni glielo consentissero, su quanto acca-

deva nel Paese in sua assenza e si documentò leggendo un’e-norme quantità di testi che svolsero per lui anche un ruo-lo di conforto negli anni della sua detenzione. In particolare a mantenere vivo il suo nobile animo guerriero è la poesia in-glese di William Ernest Henley, Invictus, riguardo la forza di resistere nell’oppressione e il desiderio di libertà. In questo modo il grande Ma-diba trascorse buona parte della sua vita, fino a quando, a metà degli anni ’80, la cre-scente condanna internazio-nale portò a colloqui segreti tra il governo e Mandela e, finalmente, l’11 Febbraio 1990, egli fu incondizionatamente li-berato. Il suo ruolo di Presidente dell’ANC fu rinnovato e Man-dela si unì al Governo e agli altri partiti politici nei nego-ziati per il futuro del Sudafrica postapartheid. Cercò la ricon-ciliazione con il Presidente F.W. De Klerk e, insieme, nel 1993 ricevettero il Premio Nobel per la Pace per il comu-ne impegno nella promozione di un Sudafrica democratico.Realizzò il suo scopo di crea-re un Governo provvisorio di unità nazionale conducendo

una frenetica campagna per le elezioni presidenziali. La vittoria dell’ANC, nel Maggio 1994, comportò la nomina di Nelson Mandela a Presidente. Questo evento sancì l’inizio del suo nuovo ruolo di nego-ziatore e intermediario per la pace e la riconciliazione. Lungi dal cercare vendetta per que-gli anni lunghi e solitari, Madi-ba estese il suo desiderio di libertà a tutto il popolo su-dafricano costituito da neri e bianchi. Grazie al suo impegno, la nuova costituzione sudafri-cana bandisce la discriminazio-ne e ogni forma di intolleranza nei confronti di tutte le mino-ranze.Nelson Mandela è la prova vi-vente di come si possa cam-biare la storia, di come riuscire a far valere ciò che è giusto, per quanto la giustizia a volte appaia un’utopia; uno dei mag-giori sostenitori della parità di diritti: egli affermò di lottare contro la “white domination” e anche contro la “black do-mination” per la realizzazione di uno Stato democratico. Nel discorso del ‘90 che tenne ap-pena avvenuta la sua liberazio-ne, egli fece appelli ai bianchi del Sud Africa ad unirsi ai suoi, al fine ottenere un futuro mi-

gliore per tutti.“Insieme e senza indugio, dob-biamo cominciare a costruire una vita migliore per tutti i sudafricani. Questo significa creare posti di lavoro, edifica-re case, fornire educazione e portare pace e sicurezza per tutti.””Pur nella diversità siamo un unico popolo con un destino comune nella nostra ricca va-rietà di cultura, razza e tradi-zioni.”“Tendo la mano in segno di amicizia ai leader di tutti i par-titi e ai loro membri, chiedo a tutti loro di unirsi a noi e la-vorare insieme per risolvere i problemi che noi, come na-zione, ci troviamo ad affron-tare. Il governo dell’Anc sarà al servizio di tutto il popolo sudafricano, non solo dei suoi membri e dei suoi elettori.”

Il suo operato ha segnato le vite di milioni di persone che, alla sua morte, gli pon-gono omaggio riconoscendo la grandezza di un uomo che ha creduto nella possibilità di migliorare il mondo.

GIORGIA CONTE

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Ed egli lo era un sognatore, indubbiamen-te. Un combattente intramontabile, che ha investito la propria vita lottando per i diritti di un intero popolo, del suo popolo.Nelson Mandela si è spento lo scorso 5 dicembre, nella casa di Johannesburg, in seguito a una grave infezione polmonare che lo tormentava da mesi. Egli era anche conosciuto come “Madiba”, appellativo che indica la sua appartenenza tribale e affettuoso nomignolo con il quale i citta-dini del Sudafrica distinguono il loro eroe più valoroso.La sua incredibile personalità dovrebbe essere un esempio per tutti noi, a partite

dal quella capacità di non inimicarsi nes-suno che lo ha reso davvero unico.Nato fra le colline del Transkei il 18 luglio 1918, Mandela era di origini aristocrati-che, in quanto figlio di un capo della tribù Thembu. Il padre, alla nascita, gli assegna il nome Rolihlahla, letteralmente “colui che scuote il ramo di un albero”, un at-taccabrighe sostanzialmente. Trascorre i primi anni di adolescenza lavorando come pastore, finché i genitori lo mandano a scuola, occasione assai rara per i giovani del Sudafrica a quel tempo.

Frequenta in seguito il corso di giurispru-denza presso l’Università di Fort Hare; qui emergono la sua forza di volontà e la sua indignazione per l’ingiustizia quando viene espulso nel 1940 per aver guidato una manifestazione studentesca. Comple-ta infine gli studi di legge all’Università del Witwatersrand. Lo spirito di coraggiosa ribellione di Mandela alle tradizioni dell’e-poca si manifesta anche con la sua fuga a Johannesburg, dopo essere stato obbliga-to dalla famiglia a sposarsi.A ventidue anni trova lavoro come guar-diano alle Miniere della Corona di Johan-nesburg, dove si rende direttamente

conto dello sfruttamento disumano dei suoi compagni lavoratori. Gli anni ‘30 e ‘40 sono stati, infatti, un periodo critico per il Sudafrica, colpito da deportazioni, leggi restrittive per gli spostamenti inter-ni e altri provvedimenti di segregazione. Questa esperienza, assieme a numerose altre, segna l’esordio di un lungo cammi-no di protesta contro la discriminazione razziale che da secoli ostacolava la sua etnia, contro tutti i mali che l’apartheid generava.Nel 1944 Nelson costituisce, assieme ad

alcuni amici, la Lega Giovanile dell’ANC e avvia il primo studio legale per i neri. Si dedica inizialmente a condurre una campagna non violenta di disobbedienza civile, attraverso scioperi, marce di pro-testa e varie manifestazioni. La rabbia dei contestatori, tuttavia, cresceva. Mandela viene arrestato molteplici volte, ma l’umi-liazione e le sofferenze della sua gente lo incoraggiano a dedicarsi all’insurrezione armata.Mentre sconta un mandato di cinque anni per alto tradimento, giunge l’accusa de-finitiva: nel 1964 viene condannato, con i suoi compagni, all’ergastolo a Robben

Island, isolotto in mezzo alle onde dell’O-ceano Atlantico. A 46 anni, quindi, entra per la prima volta nell’angusta cella della sezione B, che diverrà, per molti anni, la sua casa.“Ho nutrito l’ideale di una società libera e democratica, in cui tutte le persone vi-vono insieme in armonia… Questo è un ideale per cui vivo e che spero di realiz-zare. Ma se è necessario, è un’ideale per il quale sono pronto a morire”. Queste le parole finali della lunga ed eloquente arringa di Mandela durante il processo di

L'istruzione è il grande motore dello sviluppo personale. È attraverso l'istruzione che la figlia di un

contadino può diventare medico, che il figlio di un minatore può diventare dirigente della miniera, che il figlio di un bracciante può diventare presidente di una grande nazione. È quello che facciamo di ciò che abbiamo, non ciò che ci viene dato, che distingue una

persona da un'altra

Un vincitore è un sognatore che non ha mai smesso di sognare

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condanna.La sua esperienza di 27 ingiusti anni di carcere, trascorsi nel luogo più spietato del siste-ma penale sudafricano, non lo ha però allontanato dalla sua battaglia più importante, né, nonostante l’inesorabile tra-scorrere del tempo, ha con-dotto il mondo a dimenticarlo. All’ interno della cella, dove egli in realtà era un numero, il 46664, il leader africano ap-profitta dell’isolamento per conoscersi meglio e per svi-luppare l’innata propensione alla speranza e all’ottimismo che lo guideranno durante

l’intera carriera. Egli impara a guardare oltre le sbarre, non semplicemente fuori, e quan-do, quel memorabile 11 feb-braio 1990, viene incondizio-natamente liberato, esce con il braccio destro alzato teso a salutare l’immensa folla: aveva trionfato, contro avversità e privazioni insopportabili.Ottiene il premio Nobel per la pace nel 1993, seguito da altre importanti onorificenze civili, e nel 1994 diviene Presidente del Sudafrica, il primo capo di Stato di colore. Nonostante gli immensi torti subiti, fin da su-bito riesce a riporre la vendet-

ta per far prevalere il dialogo, la convivenza pacifica. Mandela aveva infatti saputo accettare i valori del suo avversario in qualsiasi situazione, maturan-do una politica rivoluzionaria, fondamentale alla realizzazio-ne del suo grande sogno, quel-lo di una “Rainbow Nation”.Nel 1999 si ritira ufficialmente dalla vita pubblica, non inter-rompendo mai la sua battaglia per la pace e la comprensio-ne umana, che lo hanno reso simbolo della lotta contro l’a-partheid ben oltre i confini del Sudafrica.« Non c’è nessuna strada facile

per la libertà », scrive Madiba in una sua opera autobiogra-fica, “Lungo cammino verso la libertà”. Effettivamente sono ancora tristemente innumere-voli i fenomeni di razzismo, le oppressioni, le ingiustizie, ma la figura di Nelson Mandela ri-marrà indubbiamente un faro per il suo popolo e per il mon-do intero. Un faro di speranza e valore sconfinati, di come un uomo abbia saputo rinuncia-re alla vendetta e all’orgoglio personale per divenire infine un eroe, un vincitore.

Sofia De Faveri

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Anoressia. Una delle parole più abusa-te su cui, però, si continua a non sapere molto. L’anoressia è la mancanza o la riduzione di appetito, come sintomo; la patologia, probabilmente il più conosciuto di-sturbo alimentare, si definisce invece anoressia nervosa.Sembrerebbe una realtà distante, riguardante un nu-mero limitato di ragazze ( l’anoressia nervosa maschile è estremamente poco conosciuta e coinvolge circa il 5% dei casi complessivi ) ossessionate dal proprio corpo, forse spinte da problemi e situazioni familiari troppo distanti dalla nostra quotidianità. In realtà in Ita-lia i casi di soggetti caduti in questa spirale - si esclude quindi ogni altro disordine alimentare, come la bulimia nervosa - sono oltre 200mila, arrivando a sfiorare i 400mila malati secondo alcune statistiche, con un pic-co riguardante le donne e ragazze fra i 12 e i 25 anni.I disturbi alimentari sono diffusi esclusivamente nelle aree più sviluppate del mondo, da qui la definizione di “sindrome culturale”. Per questo motivo, in passato, spesso chi soffriva di queste malattie è stato allonta-nato e visto come qualcuno che i propri mali se li era cercati, peggiorando progressivamente le proprie con-dizioni senza che ci fossero, di base, dei problemi a livel-lo economico o condizioni di vita difficili. L’esser magri è infatti un traguardo ambito da molti, ma sembra im-possibile per qualcuno di esterno capire come non ci si possa render conto di aver superato un limite, quando la magrezza diventa orrore e il corpo inizia a chiedere pietà. Sembra impensabile guardarsi allo specchio e non capire che un fisico tonico e magro non è quello che vediamo riflesso, uno scheletro. Eppure una persona anoressica sembra incapace di distinguere questi confi-ni e rendersi conto di aver superato un limite. Questo il problema principale della patologia. Perché si diventa anoressici? Perché si arriva a preferire il dolore e la fame continua al chiedere aiuto? Oggettivamente, come può una persona alta più di un metro e 70 pesare appe-na 40 chili e continuare a vedersi sempre più grassa?Ciò che si cela davvero dietro alla piaga dell’anores-sia nervosa continua a essere ignorato. Da sempre si parla di tentativi estremi di controllare ogni singolo aspetto della propria vita, di situazioni familiari diffi-cili che si oppongono all’apparente benessere mate-riale, di pesanti complessi dovuti a osservazioni altrui

sul proprio aspetto, magari non pesanti, ma continue. Si è messo in correlazione il modello della magrezza estrema di molte indossatrici con la diffusione di questi comportamenti, allo scopo di imitarlo. Ma i motivi psi-cologici sembravano insufficienti o non sempre validi, e questo ha portato a nuove ricerche e nuovi risulta-ti: i fattori ambientali o errate capacità di relazionarsi con le persone più vicine possono aver scatenato il disturbo, ma la causa sarebbe da ricercare in una pre-disposizione genetica, almeno secondo i recenti risul-tati dell’ Istituto Scientifico The Scripps, in California. Nuove scoperte potrebbero aiutare le cure farmacolo-giche, sapendo dove agire a livello fisico, ma il problema dell’anoressia nervosa probabilmente ha il suo centro proprio nell’essere quella “sindrome culturale” ignora-ta ma allo stesso tempo troppo comune, senza picchi di crescita vertiginosi ma nemmeno cenni di migliora-mento. È un fenomeno che si è trasformato nel tempo, sfruttando i nuovi mezzi di comunicazione. La televisio-ne diffonde un certo modello di bellezza? Internet le fa da cassa di risonanza. Un esempio sono i siti pro-Ana.Chi è Ana? Ana è l’anoressia, rappresentata da un brac-cialetto con una farfallina disegnata sopra per ricono-scersi fra gli altri, ma è anche l’amica – l’unica – di que-ste ragazze che nei propri blog si scambiano consigli, incitamenti a dimagrire, diari da fame di diete alluci-nanti. Ana è uno stile di vita, una “religione della ma-grezza” che fra gli incitamenti si trasforma nella patolo-gia, ostentata sul web ma tenuta nascosta più a lungo che si può alle persone che vivono vicino a noi. Ana è anche la negazione stessa della propria condizione di malata; ma una ragazza anoressica non può guarire fino a quando non scatta qualcosa nella sua testa che le faccia prendere consapevolezza del proprio disturbo.L’anoressia nervosa è una malattia della mente pri-ma che del corpo, e come tale va trattata. Non è qualcosa da accettare, da nascondere e minimizzare sperando che passi con la crescita: lasciata a se stes-sa, una ragazza anoressica non guarirà mai, andando incontro a una morte lenta e sotto gli occhi di tutti.

“L’anoressica sembra dire: «Tengo sotto controllo il mio corpo e i suoi bisogni, e vi odio tutti, voi che sie-te così deboli da cedere ai bisogni del vostro corpo.

Anoressia: “Rifiuto del cibo, che può giungere fino al disgusto. Può insorgere nelle più svariate malattie, in modo transitorio o duraturo, a seconda dei casi.”

LA DANZA DELLE FARFALLE

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LA RELATIVITA’ DI CIO’ CHE E’ NORMALE

Io sono più forte di voi, mi sento superiore». Un sog-getto anoressico ha sempre un che di inavvicinabile.” [cit. Renate Göckel, psicologa famosa per il libro sui disordini alimentari Donne che mangiano troppo]

Probabilmente l’unico modo per reagire all’ano-ressia nervosa è proprio cercare di abbattere que-sto muro che impedisce alle persone malate di chiedere aiuto, e allo stesso tempo allontana chi questi problemi li sente davvero troppo lontani. VIDEO > Bambino Gesù, parte la prima edizione della campagna contro l’anoressia promossa da AidafUn pri-mo incentivo è arrivato da un mondo, quello della dan-za, che era stato forse il primo a esaltare il corpo magro,

pelle e ossa, delle ballerine classiche. La marcia è stata invertita di recente: “Senza un corpo sano non si danza” dice Amalia Salzano, presidente dell’Aidaf (l’associazione che in Federdanza/Agis riunisce le scuole di danza). La I edizione della “Campagna di informazione e di sensibi-lizzazione della danza italiana contro l’anoressia” è parti-ta nel novembre 2013 e vuole invitare le scuole di ballo Italiane a trasmettere agli allievi l’amore per il proprio corpo e per la propria personalità, che si esprime nella danza senza costrizioni e mortificazioni. Al contrario di quanto accade in un corpo esausto e portato al limite.

La utilizziamo più spesso di quanto immaginiamo : è la parola normale. Cosa riteniamo normale? E se-condo quali criteri esprimiamo tale giudizio? Tutti noi tendiamo a definire normale un’abitudine, un atteg-giamento , un’usanza o una consuetudine che ha fat-to sempre parte della nostra vita o che è comune nell’ambiente in cui viviamo. Quindi, tutto ciò che va al di là della nostra esperienza comune è quasi in-comprensibile e quando ne sentiamo parlare siamo esterrefatti dalla nuova realtà che ci viene proposta. Mi è capitato più volte di ascoltare i resoconti delle vacanze di alcuni miei amici. Una volta mi raccontarono di un loro viaggio in Africa dove furono accolti da una tribù locale e gli furono offerte varie pietanze, ritenute squisite nel posto. Vi lascio immaginare quali preliba-tezze! Insetti fritti, arrosti, avvolti in una foglia, grigliati e così via. Al momento i miei amici restarono quasi sconvolti dal banchetto ma si fecero coraggio per non offendere la tanto gradita ospitalità, scoprendo che gli insetti avevano di brutto solo l’aspetto ! D’altronde i gusti sono gusti. Terminato il delizioso assaggio gli ospiti decisero di cucinare per la tribù un nostro tipico piatto : gli spaghetti. Non ebbero parole per descrivere la di-

vertentissima scena che ne seguì. Come loro, anche gli abitanti restarono un po’ confusi e leggermente restii dal mangiarli. Sicuramente anch’essi avranno pensato a quale “stranezza” ci fosse nel loro piatto, ritenendola diversa o anormale. E’ stato a quel punto del discorso che mi sono domandata cosa ritenessi normale, giun-gendo a una conclusione : è solo imparando a cono-scere un popolo o anche una singola persona che il diverso o l’incompreso tende lentamente a mutare in consueto. Ne è dimostrazione il fatto che tutt’o-ra vengono importate ed esportate culture di Paesi conosciuti da gran parte delle persone. Sicuramente , almeno per ora, nessuno vorrebbe trovarsi al super-mercato insetti surgelati al banco degli alimenti. Però se sempre più persone imparassero a comprendere e accettare diverse realtà ci potremmo ritrovare anche quello nel menù di qualche ristorante. Questa diver-tente metafora , a mio avviso, è esemplare di quanto la normalità sia relativa e semplicemente frutto di con-suetudini. È pertanto opportuno utilizzare la massima cautela nel giudicare fuori del normale determinate situazioni che, magari, sono considerate tali solo a causa della limitata apertura mentale di chi esprime il giudizio.

Sara di Martino

di Lucrezia Lena

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… Un numero imprecisato di individui viene strap-pato alle proprie abitazioni con metodi brutali.Avviene durante la seconda guerra mondiale (tra il 1942 e il 1943), dopo l’occupazione del re-gno di Jugo-slavia, da parte di truppe italiane, tedesche e ungheresi. I civili, indiscriminatamente, vengono deportati in Italia, segregati in siti recintati da un muro o da un filo spinato. Nel nostro caso finiscono in una caserma, dove cir-ca duecento muoiono di stenti e malattie; una cin-quantina ha meno di dieci anni. Questo accade nel campo di concentramento di Treviso, in via Feltri-na nominato con superficialità «campo Monigo». Campo Monigo, perché è apparso più opportuno ed elegante addossare a quel luogo periferico, e non al capo-luogo, l’ombra di un’operazione assai poco nobilitante. Al di qua del muro però, la città è coinvolta in tanti modi: autorità civili e militari, la Chiesa, la Croce Ros-sa, le istituzioni. Tutti sanno, eppure la città dimentica.Come mai? Quali ragioni si possono celare dietro questa cancellazione della memoria di ciò che stava oltre il muro? Quest’anno il Liceo Da Vinci vuole raccontare il «pezzo» di storia che stava oltre il muro e che Tre-

viso ha dimenticato o cancellato dalla propria me-moria. La storia drammatica raccontata dai bam-bini sopravvissuti, bambini innocenti che con i loro disegni e pensierini hanno voluto dare testimo-nianza della realtà agghiacciante da loro vissuta. Qualcuno racconta di un terribile nemico: la «natura rombante» che, a fine estate, faceva scomparire qua-si totalmente il campo riservato a donne e bambini. Altri riferiscono di un torrente d’acqua alto un metro che trascinava verso il mare ten-de intere e i loro occupanti tra grida di terrore. Altri ricordano le mucche lasciate sole a casa. Altri ancora, la fame e i bagni fatti d’inverno. An-che la morte era compagna di vita: cori che canta-vano sulla fossa di una sorella o una scatola di car-tone contenente il corpo-scheletro di un amico. Da luglio a novembre 1942 si sono spente le vite di ben 104 bambini.Quei bambini ci hanno parlato e continuano a parlarci af-finché la memoria delle loro sofferenze sia monumento per rammentare, a chi ascolta e a chi guarda, che il dirit-to alla vita è un diritto inviolabile e come tale va tutelato.

a C CA D D E a n c h e a T R E V I S O . . .

di Giorgia Camillo

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giusto momento per riflettere19

LA CULTURA DELL’ ESSERE E

DELL’ APPARIRE NEI GIOVANI

“L’imitazione è l’insulto più sincero”, afferma Oscar Wil-de ne “La decadenza della menzogna”. Imitare, voler somigliare agli altri, significa perdere l’originalità che ca-ratterizza ognuno di noi, non siamo più allora protago-nisti della nostra vita. Sulla scena chi si limita ad apparire è come se indossasse una maschera bianca, priva di qualsiasi emozione; non ha nulla che la possa determi-nare e distinguere dalle altre: è vuota. La vita di chi si limita ad apparire per chi non è, di chi dà più impor-tanza all’apparenza che alla sostanza è vuota perché vissuta da una persona che non vive, ma solamente esi-ste. Vivere, infatti, significa realizzare tutte le possibilità della vita, godere la vita, mentre il significato di esistere è essere nella realtà, ma nulla di più. Allora un ragazzo che imita qualcun altro, che preferisce non avere opi-nioni, idee, obiettivi, che non ha la volontà di essere veramente se stesso, che non è in grado di sognare e lottare per i propri desideri, ma ha bisogno di trova-re solo il modello pronto da replicare si limita a sta-re nella realtà senza fare nulla per costruire la propria.Penso che una persona così guardandosi allo specchio, non possa riconoscersi, non veda se stessa, ma sempre l’immagine di ciò che quotidianamente tenta di appa-rire; una persona così non credo sappia cosa signifi-chi essere e vivere la propria vita realizzandosi in essa.Cosa vuol dire oggi, quindi, per noi, “essere se stessi”? Potrebbe sembrare una domanda banale e con una risposta ovvia perché ognuno di noi dovrebbe essere se stesso, invece per molti ragazzi non è così: piutto-sto che mettersi in gioco ed essere disponibili ad un confronto con idee o convinzioni diverse, preferiscono adeguarsi al modello di persona che sembra ottenere maggior successo tra i coetanei. Trovano, cioè, nell’imi-tazione uno strumento che permette loro di omolo-garsi al gruppo di cui fanno parte e quindi di ottenerne l’approvazione. Oggi, per esempio, lo “status symbol”

tra i giovani è la sigaretta e molto spesso accade che i ragazzi inizino a fumare per imitare gli adulti pensando così di apparire più grandi e maturi dei coetanei non fumatori. Questi ricevono, poi, da parte dei ragazzi più giovani sguardi di ammirazione che confermano il rag-giungimento dell’obiettivo: sono considerati “grandi”. I ragazzi imitano i compagni più popolari nella scuo-la, si omologano al gruppo, alle mode del momento, guardano, quindi, quello che fanno gli altri e spesso lo ripetono senza cognizione di causa o chiedersi se sia un’azione positiva o negativa, senza insomma met-terla in questione, ma solo perché pare loro utile per sembrare più grandi, più maturi, per attirare l’atten-zione altrui. Imitare gli altri, omologarsi al gruppo per sentirsi accettati è ciò che viene fatto da un sempre maggior numero di ragazzi che perdono la propria in-dividualità per uniformarsi al modo di fare di giovani che utilizzano gli strumenti sbagliati per farsi notare per esempio fumando e assumendo bevande alcoliche. Questo è un esempio di “imitazione” portato all’estre-mo: è la degenerazione dell’imitazione di modelli ne-gativi; spesso i ragazzi, infatti, cercano di apparire, solo per poter condividere con i loro coetanei l’apparenza, l’aspetto esteriore. Cercare un legame e l’approvazio-ne altrui per le scarpe della stessa marca, lo smalto uguale, il computer della stessa casa di produzione e sentirsi accettati per ciò che si possiede. L’originalità, la creatività, l’amicizia fondata sul rispetto, il sostegno, la condivisione di opinioni differenti, le costruttive di-vergenze sono state sostituite dalla convenzionalità, dall’impersonalità, dalla banalità, insomma dall’omologa-zione. La genialità che ognuno di noi può scoprire in sé viene soffocata dall’adeguamento. Mi torna alla mente la storia raccontata da Fred Uhlman nel suo roman-zo “l’amico ritrovato” in cui il protagonista è un ebreo discriminato perché diverso che trova il suo migliore

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amico nella persona di Konradin, un ragazzo figlio di aristocratici tedeschi e quindi di razza pura. La con-venzione li pone su due piani totalmente differenti, l’o-mologazione, l’imitazione per loro è impossibile eppure restando diversi, rimanendo se stessi costruiscono un’a-micizia molto solida tanto che il protagonista afferma di essere pronto a dare anche la vita per il suo amico. Facendo di tutto per apparire come gli altri la nostra volontà viene limitata e perfino la libertà che avremmo il dovere di esercitare viene ostacolata e tutto con il no-stro consenso o, comunque, senza la nostra opposizione.In questo modo, però, i giovani stanno perdendo la propria individualità, non riescono più a essere felici con se stessi, ma hanno sempre bisogno di un mo-dello da imitare; a carnevale o ad Halloween perfino i bambini non si travestono più da principessa, fanta-sma, strega o folletto, ma hanno il costume del perso-naggio dei fumetti o del mostro che hanno visto nei programmi televisivi o nei cartoni animati. Anche la fantasia dei bambini sembra, infatti, limitata dal bisogno di ricreare immagini già viste. Crescendo, poi, il com-portamento cambia, ma non migliora: si vuole appa-rire forti come… intelligenti come… creativi come...La società odierna ci permette di entrare in contatto con molte realtà, culture, abitudini, mode, persone di-verse: viviamo nell’era della globalizzazione, ogni giorno possiamo desiderare qualcosa di nuovo per noi stessi e di noi stessi, certo abbiamo sempre la possibilità di trovare il modello di persona migliore che vorremmo essere, ma questo non deve portarci all’imitazione pas-siva, bensì può essere il punto di partenza per un cam-biamento in cui non si perde di vista il protagonista: noi stessi. Troppe persone nel mondo non hanno la possibilità di vivere, di realizzare i propri sogni, anche solo di provare a realizzare se stesse e alcuni di noi si rifiutano di aprire il dono più grande per prender-ne uno già scartato; mi chiedo cosa si ottenga da ciò.L’imitazione nasce da lontano anche nella vita di ognu-no di noi, infatti una delle prime cose che fa un bam-bino piccolo è copiare le persone che gli stanno in-torno: le osserva attentamente e ne ripete i gesti, le espressioni, prova a ripetere i suoni che sente; è così che ognuno di noi ha imparato a parlare. Il problema è che crescendo, molti ragazzi che per esempio fumano per apparire più grandi e maturi lo fanno ancora per imitazioni di altri o dei genitori e non perché ne senta-no effettivamente il bisogno, perciò dimostrano di non

essere cambiati e maturati molto rispetto a quando avevano due anni, non hanno imparato a conoscersi e ad essere se stessi. Imitare gli altri, voler essere come gli amici è normale negli anni dell’infanzia, ma il pro-cesso di crescita dovrebbe portare ognuno di noi ad avere la capacità di autoanalisi e a capire chi è vera-mente perché se per tutta la vita imitasse qualcuno perderebbe la cognizione della propria persona. Infatti io penso che anche chi cerca di apparire come qualcun altro rimanga, in fondo, se stesso solo che nasconde valori, convinzioni, idee personali dietro una masche-ra; più passa il tempo con questa maschera, però, più ne assimila le caratteristiche e si dimentica. Per esem-pio se io tentassi di somigliare a Grace Kelly piutto-sto che a Lady Gaga resterei comunque me stessa, ma con il passare del tempo perderei la capacità di tornare indietro, di tornare a essere me stessa perché sarei troppo coinvolta dalla parte che starei recitando. Oggi è di moda quello che indossano gli al-tri, invece dovremmo avere il coraggio di es-sere noi a lanciare le mode senza nasconder-ci dietro le foto o le frasi fatte scritte su facebook.Per esempio ricordo che quando avevo circa undici anni vedevo in me solo le imperfezioni e nelle ragazzi-ne che mi stavano accanto tutto ciò che io non avevo, in particolare odiavo i miei capelli ricci e passavo ore in bagno per lisciarli con il risultato di ottenere una chioma secca e gonfia, tanto da doverli raccogliere ogni giorno, però ero contenta perché anch’io, come tutte le mie amiche, avevo i capelli lisci! Una sera, qualche anno dopo, non ho più avuto voglia di perdere delle ore per rovinarmi i capelli e ho provato a lasciare i miei “ricci”; il giorno dopo sono stata travolta dai compli-menti, dalla sorpresa, nonché dall’invidia altrui per “quei meravigliosi riccioli d’oro” e ancora oggi ricordo quel momento, il momento in cui ho capito che la felici-tà è avere i ricci naturali - come direbbe lo scrittore Schulz – in cui ho capito chi volessi essere: sempre e solo me stessa. In quell’istante ho realizzato che avevo sempre fatto più attenzione a chi mi circondava che a me. Ovviamente ho deciso di essere sempre me stessa, sapendo di essere tutt’altro che perfetta, combattendo alcune mattine contro i “ricci” che, comunque, vanno dove vogliono e uscendo sconfitta, vedendo un giorno le mie mani troppo piccole, il giorno dopo scopren-do una gobba sul naso, quello successivo i piedi mi-croscopici, però oggi quando mi guardo allo specchio,

GIUSTO MOMENTO PER RIFLETTERE20

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giusto momento per riflettere21

sono felice di essere quella che sono: mi piaccio perché mi accetto, anzi ci sono dei momenti in cui mi trovo perfino bella! Comprendere l’importanza di essere me stessa e di accettarmi non è stato un percorso faci-le, ma sarebbe stato ancora più difficile senza l’aiuto in particolar modo a mia madre che mi ha insegnato non che nessuno è perfetto - affermazione scontata e banale – ma la bellezza non si deve obbligatoriamen-te cercare nella perfezione, bensì nell’individualità della persona, nelle idee che esprime, nelle sue opinioni sia che esse siano in accordo oppure contrastino le nostre.Ognuno di noi ha la possibilità di mostrarsi per quello che è, nella propria unicità e imitando qualcun altro si crea una copia imperfetta e superflua di qualcuno che già esiste e si perde una personalità di cui non ve ne sarà mai una uguale. Ogni esistenza è come la tessera di un enorme puzzle, con i suoi dettagli che sembra-no perdersi tra quelli di tutte le altre e pare non tro-vare mai la giusta collocazione, eppure solo con quel pezzo il puzzle sarà completo e l’immagine visibile.Siamo tutti unità della molteplicità e solo perché esistiamo esiste il gruppo; è questo forse un pen-siero troppo plotiniano, però, credo renda l’idea dell’importanza che ogni singola vita ha. Non ha senso, quindi, tentare di prendere la forma di un’al-tra tessera del puzzle altrimenti ce ne sarebbe-ro due di uguali e ne mancherebbe comunque una.È necessario avere il coraggio di uscire dalla via segna-ta per tracciarne una nuova, bisogna trovare la fiducia in se stessi per partire da un modello, stravolgerlo e dimostrare agli altri chi si è e cosa si è capaci di fare. Siamo tutti diversi e ognuno di noi ha delle peculiari-tà che lo rendono speciale e degno di dire ciò che è. Imitare gli altri è facile, ma a me pare frustrante, dire cose che non si intendono, vivere la vita di un altro può rendere felici? Questo permette di guardare alle nostre vite ed essere soddisfatti di noi stessi? Come affermava Angelo Poliziano “Quintiliano deride coloro che crede-vano di essere fratelli germani di Cicerone per il fatto che finivano i loro periodi con le sue stesse parole”. A proposito di essere se stessi e affermarsi come tali,

mi torna alla mente una canzone del gruppo “The Script” che in questo periodo ho ascoltato spesso: “Hall of fame”, questa, infatti, dice: “(…)puoi muovere una montagna/ Puoi rompere le rocce (…) Non aspettare la fortuna / Dedicati a qualcosa e troverai te stesso / in piedi nell’anticamera della fama / E il mondo saprà il tuo nome (…)Fallo per il tuo nome / Fallo per l’orgo-glio / Perché arriverà il giorno / in cui sarai lì, nell’anti-camera della fama”. Questi versi spronano ognuno di noi a raggiungere la “hall of fame” ovvero la “la sala della fama” semplicemente per chi si è perché chiunque può “muovere una montagna, rompere le rocce”, supera-re ogni record che sia “studente, maestro, predicato-re, credente, astronauta, ricercatore”. Ognuno, infatti, è speciale per ciò che è e che vuole essere, ci dobbiamo porre gli obiettivi più alti, anche irraggiungibili, non im-porta se gli altri ci deridono o non condividono le no-stre aspirazioni perché siamo i fautori della nostra vita. Molti, però, imitano senza accorgersi di farlo e altret-tanti potrebbero dire di aver scelto di imitare qualcun altro e che questa è la sua vita, certo è una decisione consapevole e per questo deve essere accettata an-che se non viene condivisa e io sono una delle prime persone a trovare tale scelta perversa in quanto volen-do essere come un’altra persona significa aver perso i valori di cui ho scritto sopra, non avere autostima, non capire quanto si vale e aver bisogno di confor-marsi ad un modello da ripetere e credo che questo sia peggiore di copiare gli altri inconsapevolmente per-ché nel primo caso si è deciso di subordinare il pro-prio carattere a quello di un altro individuo, mentre nel secondo caso lo si fa per mancanza di personalità.Io non so se cambierò il mondo, se sconvolgerò la Fisica - che mi appassiona molto - scoprendo una nuova teoria della relatività o se sarò la madre “per-fetta” che ogni bambino vorrebbe avere, ma so quali sono i miei obiettivi e i miei sogni, a volte quasi uto-pistici e a volte no, ma voglio provare a raggiunger-li perché sono una persona, perciò rimarrò sempre me stessa: solo per questo vivo e non esisto soltanto..

LUDOVICA CROSATO

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… Dai mondi della cultura, della ricerca e della scienza, quattro nuovi senatori a vita!

Nominati quattro nuovi senatori a vita: sono Claudio Abbado, Elena Cattaneo, Renzo Piano, Carlo Rub-bia. Rispettivamente, un musicista tra i più illustri del panorama inter-nazionale, una scienziata specializ-zata nei temi medici e della genetica, un architetto apprezzatissimo in tutto il mondo e un premio Nobel per la Fisica. Tutte grandi perso-nalità del nostro Paese, provenienti dai mondi della cultura, della ricerca e della scienza: campi altamente significativi e in assoluta indipendenza da condizionamenti politici.

Claudio Abbado

Elena Cattaneo

Nato nel 1933, si è diplomato al Conservatorio di Milano. Ha acquisito meriti artistici nel campo mu-sicale attraverso l’interpretazione della letteratura musicale sinfonica e operistica alla guida di tutte le più grandi orchestre del mondo. A tali meriti si è unito l’impegno per la divulgazio-ne e la conoscenza della musica in special modo a favore delle categorie sociali tradizionalmente più emarginate.

terza donna senatrice a vita. Nata nel 1962, si laurea in Farmacia all’Universi-tà di Milano dove consegue poi il dottorato; dal 2003 insegna come profes-sore ordinario. Ha operato come ricercatrice per tre anni al Mit di Boston nel laboratorio del professor Ron McKay, dove ha avviato studi sulle cellule staminali cerebrali. Rientrata in Italia, fonda e dirige il Laboratorio di Biolo-gia delle cellule staminali e Farmacologia delle malattie neurodegenerative del Dipartimento di Bioscienze dell’Università di Milano, dedicandosi allo studio della «Corea di Huntington», malattia genetica neurodegenerativa. Rappresentante nazionale presso l’Unione europea per la ricerca Genomica e bio-tecnologica e coordinatrice del progetto europeo «Neurostemcell» , da ottobre 2013, ha iniziato a coordinare il progetto «NeuroStemcellrepair» nell’ambito del 7° Programma Quadro della Ricerca Europea: ricerca sulle cellule staminali orientata alla messa a punto di una terapia efficace contro il morbo di Parkinson e il morbo di Huntington. Consapevole che la vita spesso è appesa alla ricerca, è intervenuta più volte nel dibattito pubblico sulla connessione tra etica e progres-so scientifico, prendendo posizione a favore della libertà della ricerca scientifica.Queste nomine sono un forte segno di apprezzamento, incoraggiamento e riferimento per l’impegno con cui gli italiani si dedicano con passione, pur tra le difficoltà, alla ricerca e dimostrano di avere a cuore il bene dell’in-tera umanità.

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… Dai mondi della cultura, della ricerca e della scienza, quattro nuovi senatori a vita! Giorgia Camillo

Nominati quattro nuovi senatori a vita: sono Claudio Abbado, Elena Cattaneo, Renzo Piano, Carlo Rub-bia. Rispettivamente, un musicista tra i più illustri del panorama inter-nazionale, una scienziata specializ-zata nei temi medici e della genetica, un architetto apprezzatissimo in tutto il mondo e un premio Nobel per la Fisica. Tutte grandi perso-nalità del nostro Paese, provenienti dai mondi della cultura, della ricerca e della scienza: campi altamente significativi e in assoluta indipendenza da condizionamenti politici.

Renzo Piano

Carlo Rubbia

Nato nel 1937, si laurea al Politecnico di Milano nel 1964. Vincitore di diversi premi internazionali prestigiosi, tra i quali il Leone d’Oro (Venezia), dal 1994 è Godwill Ambassador dell’Unesco per la Città. Ha costruito spazi pubblici per le comunità, musei, università, sale per concerto, ospedali. Tra i suoi più importanti progetti il Centro Cul-turale Georges Pompidou a Parigi, l’aeroporto Kansai in Giappone, l’auditorium Parco della Musica a Roma, il museo dell’Art Institute a Chicago, il nuovo Campus della Columbia University a New York. Nel 2004 istituisce la Fondazione Renzo Piano, con sede a Genova, organizzazione no-profit dedicata al supporto dei giovani architetti, che accoglie a «bottega».

Nato nel 1934, si è laureato presso la Scuola Normale di Pisa e ha svolto il suo dottorato alla Columbia University. Dal 1960 svolge la sua attività di ricerca al CERN di Ginevra, il più grande laboratorio nel mondo per la fisica delle alte energie, di cui sarà poi Diret-tore generale dal 1989 al 1994, svolgendo ricerche inerenti alla fisica delle particelle elementari e dove completa esperimenti sulle interazioni deboli al sincrociclotrone, al protosincrotrone e in seguito al collisionatore di fasci protonici.Per verificare la teoria elettrodebole di Abdus Salam e Steven Weinberg, modifica un acceleratore SPS in un collisionatore di protoni e antiprotoni. Con questo esperimento, a capo del gruppo di cento fisici noto con il nome di UA1, scopre nel 1983 le particelle che sono responsabili dell’interazione debole, cioè i bosoni vettoriali W+, W− e Z, confermando anche la teoria dell’unificazione della forza elettromagnetica e della interazio-ne debole nella forza elettrodebole. Nel 1984, ad appena un anno dalla scoperta, riceve insieme all’olande-se Simon van der Meer il Premio Nobel per la Fisica.Membro delle più prestigiose accademie scientifiche, detiene 32 lauree honoris causa. Attualmente continua a svolgere le sue attività di ricerca fondamentale al CERN e ai Laboratori Nazionali del Gran Sasso.

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di Alice Pavanello

Lunedì 18 novembre , si è tenuta la prova generale dell’opera “Rigoletto” al teatro comunale di Treviso. La scuola ha dato l’opportunità a coloro che lo desideravano di potervi assistere e lo permetterà anche per le prove dell’opera “La Cenerentola” di Rossini, a gennaio.

Rigoletto è un’opera di Giuseppe Verdi tratta dal dramma di Victor Hugo, uno scrit-tore francese dell’800, e viene rappresentata in tre atti. La storia è ambientata nella Mantova nel XVI secolo. Il primo atto presenta il protagonista, Rigoletto, buffone di corte, a cui i cortigiani vogliono rapire quella che credono essere la sua amante. Egli viene, inoltre, maledet-to dal Conte di Monterone il quale era stato da lui schernito nel palazzo del Duca di Mantova. Quindi, preoccupato, torna a casa dalla figlia Gilda, che tiene nascosta e al sicuro. Ma proprio quella notte i cortigiani procedono alla cattura della fanciulla, che nel frattempo era stata sedotta dal Duca, fintosi un giovane studente. Al rapimento partecipa inconsapevolmente anche Rigoletto, che viene a conoscenza dell’accaduto solo quando tutti vanno via.Nel secondo atto, il protagonista raggiunge il palazzo del Duca, il quale si trova con Gilda. I cortigiani impediscono a Rigoletto di fermare il disonore della figlia e per questo motivo egli medita vendetta chiedendo aiuto a Sparafucile, un sicario prece-dentemente incontrato.Il terzo atto conclusivo si svolge nella locanda di quest’ultimo, dove Gilda si sacrifica, salvando l’uomo che continua ad amare, il Duca, pur essendo venuta a conoscenza della sua natura di seduttore. Rigoletto, vedendo la figlia chiedere perdono e morire tra le sue braccia, si rende conto che la maledizione inflittagli si è avverata.Questo dramma mette in evidenza le tensioni sociali e la condizione femminile subalterna della realtà ottocentesca, tutto in un contesto musicale ricco di melodia e potenza drammatica che lascia lo spettatore in balia della storia. L’incontro con il teatro è quindi un’occasione che permette ai giovani di avvicinarsi ad un mondo che trasporta lo spettatore in contesti sociali e ambientazioni differenti dalla società a noi contemporanea e vale per la sua elevatezza culturale e per una forma artistica che tende al divino. E’ possibile, quindi, godere di una bellezza spesso trascurata o lasciata in secondo piano.

A TEATRO

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Cosa significa essere un giornalista professionista?Fino a poco tempo fa avrei potuto esporre e spiegare in cosa consiste il lavoro di giornalista, ma non avrei comun-que potuto farlo in modo esauriente perché pensavo di conoscere un mondo a me, coma a molti altri, totalmente estraneo; oggi, invece, ho capito questa realtà, perché ho avuto la possibilità di entrarne in contatto, di viverla, ho provato l’emozione di essere “una giornalista” a 360 gradi, ma, soprattutto, di essere trattata come tale. Dal 24 al 28 aprile scorso, infatti, a Perugia si è tenuto la settima edizione del festival internazionale del giornalismo. Questo ha l’obiettivo di parlare di giornalismo, informazio-ne, libertà di stampa, democrazia, web, blog e molto altro legato al mondo dell’informazione; è un evento che nasce dal “basso”, aperto alle “incursioni” degli utenti, un evento unico dove i protagonisti della stampa provenienti da tutto il mondo si incontrano con i cittadini, i lettori, gli studenti, i professionisti, in un flusso continuo di idee, scambi, con-fronti. Consiste in quattro giorni di interviste, conferenze, meeting, dibattiti, inchieste uniti da un denominatore comu-ne: la partecipazione di tutti.A questo evento partecipano giornalisti quali Marco Trava-glio (Il fatto quotidiano), Francesco Fasiolo (La Repubblica), Beppe Severgnini (Corriere della Sera), Maria Cuffaro (TG3), Lucia Annunziata, politici come Matteo Renzi, rappresentanti del Parlamento Europeo, scrittori come Paolo Giordano, ma anche attori quali Claudio Bisio. È un momento in cui tutti si mettono in gioco e in discussione esprimendo a chiunque li voglia ascoltare le loro opinioni, ma restando aperti al confronto con noi, con “persone qualunque”, con gente non appartenente al mondo del giornalismo, ma curiosa di entrare in contatto con una nuova realtà e desiderosa di aprire un dialogo con perso-nalità che non fanno parte della sua quotidianità. Questa è l’innovazione e l’unicità del festival: i giornalisti esprimono le loro idee, ma non con la “chiusura” che, in ogni caso, si ha con un’intervista televisiva o un articolo su un gior-nale, bensì con la voglia di ascoltare le opinioni di tutti; gli intervistatori vengono intervistati, le persone che ci danno le notizie diventano la notizia, le telecamere sia dei giornali che dei blog sono accese ventiquattr’ore su ventiquattro. Il mondo di Perugia in queste giornate è capovolto, la città è in fermento, ovunque si porti lo sguardo si notano pass, gialli, viola, verdi, azzurri e ognuno di questi rappresenta una particolare specie di quella grande famiglia che è il giornalismo: ci sono i volontari, gli speaker, il press e, infine, la stampa studentesca.

L’unicità di questo evento sta anche nel fatto che un im-portante spazio viene lasciato proprio alla stampa studen-tesca, ovvero a ragazzi che rappresentano il giornale del proprio istituto, provenienti da tutta Italia e che, una volta l’anno, hanno la possibilità di incontrarsi, parlarsi, conoscersi, ma soprattutto confrontarsi.L’esperienza del festival è emozionante non solo perché con quel pass giallo al collo e tutti che ti fermano per chiederti come prosegua l’evento ti senti per qualche giorno “importante”, facente parte di un mondo parallelo dove compaiono solo personalità legate a nomi conosciuti quando tu, effettivamente, chi sei? Ma soprattutto perché hai l’opportunità di uscire dalla realtà certamente isolata del giornale scolastico, di venire in contatto con realtà simili o differenti da quelle della tua redazione, di trovare nuovi spunti, nuovi punti di inizio, ma soprattutto di capire che i problemi magari riscontrati nel giornale e rimasti segna-ti su un foglio con una stellina a fianco perché irrisolti e apparentemente irrisolvibili altri hanno trovato il modo di aggirarli.Gli argomenti affrontati e i workshop a cui si può parte-cipare sono i più disparati: si entra nel dietro le quinte di blog piccoli e grandi, nel mondo di siti molto conosciuto agli studenti come “studenti.it”, ma si affrontano anche temi come la diffamazione, la censura, la libertà di stampa, il ruo-lo delle donne nel giornalismo, l’emigrazione, la formazione e molti altri.Il festival è aperto a tutti, ma in modo particolare a noi, ai giovani, agli adulti nonché classe dirigente di domani, che dobbiamo capire in che mondo viviamo e che mondo ci verrà consegnato e per farlo abbiamo bisogno di collabo-rare e confrontarci non solo con il compagno di banco, ma anche con gli adulti di oggi ed è proprio questo uno degli obiettivi del festival: aprire le porte a ragazzi che inizia-no a cimentarsi nella scrittura di articoli, che entrano nel mondo dell’informazione e che magari saranno i giornalisti di domani, ma anche no, essi possono essere, come la sottoscritta, ragazzi che amano semplicemente scrivere e condividere le proprie idee ed esperienze con gli altri, ma che sono soprattutto curiosi e “vogliono, per quel fuoco che ci arde nel cervello, tuffarsi nell’abisso, inferno o cielo non importa. Giù nell’ignoto per trovarvi del nuovo” come direbbe Charles Baudelaire.Dare e ricevere consigli, questo è lo spirito delle cinque giornate di incontri e anche quello di cento ragazzi pro-venienti da Milano, Lodi, Treviso, Trieste, Genova, Firenze, Roma, Perugia, Napoli, Bari che non si conoscono, ma che

TRE GIORNI NEL MONDO DEL GIORNALISMO INTERNAZIONALE

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sono pronti a confrontarsi e ad apprendere da ognuno perché tutti hanno molto da dare e altrettanto da ricevere.Il festival del giornalismo internazionale dà l’opportunità di entrare in contatto con persone provenienti da tutto il mondo in una città in continuo fermento, di conoscere opinioni differenti, a volte anche contrastanti, ma tra le qua-li, alla fine, una non prevale sull’altra o si scontrano in un feroce incontro di box (verbale) senza conclusione come spesso accade, bensì si trova un punto d’accordo, un’idea comune che possa servire come base per una solida e condivisa argomentazione.

Questa è la crescita che dobbiamo fare per quanto riguar-da l’informazione e che non rimane un’utopia davanti ai dibattiti frequenti a cui spesso assistiamo, che sembrano portare solo a uno scontro verbale, e questo festival lo dimostra.

Ludovica Crosato

Il Premio Nobel - onorificenza di valore mondiale attribuita annualmente a persone che si sono di-stinte nei diversi campi dello scibile, «apportando considerevoli benefici all’umanità», per le loro ricer-che, scoperte ed invenzioni, per l’opera letteraria, per l’impegno in favore della pace mondiale – che per l’anno 2013, vedeva Malala Yousafzai, la grande favorita, nella categoria Pace, viene assegnato a gran sorpresa all’Opac per la lotta alle armi chimiche.Tralasciando per un momento l’evento finale, cono-sciamo chi è Malala Yousafzai e il perché della sua nomina.

Malala Yousafzai, è una ragazza pakistana di soli sedici anni che, il 9 ottobre 2012, fu gravemente ferita, con un colpo alla testa sparato da un talebano, a bordo del pullman che da scuola la riportava a casa. Il terrificante gesto va ricercato nell’inspiegabile po-litica del suo Paese volta alla distruzione delle scuole per ragazze alla quale Malala si è ribellata con tutta sé stessa. La sua battaglia non si ferma ai confini del territorio pakistano, ma assume valenza internazionale poiché il diritto all’istruzione è un diritto universale che non va negato. L’istruzione, e di conseguenza la cultura, infatti, è il patrimonio che segna il progresso della società e la più potente arma che porta all’appianamento delle disuguaglianze tra uomo e donna, tra Paesi ricchi e Paesi oppressi, tra ideali laici che indirizzano all’au-tonomia decisionale e imposizioni religiose che nella repressione negano i diritti universali di ogni uomo. Malala, durante l’Assemblea della Gioventù tenuta-si a New York lo scorso 12 luglio, nell’appoggiare l’Iniziativa Globale «Prima l’Istruzione!» promossa dall’ONU, ancora una volta, ha dimostrato un gran-dissimo coraggio.In quell’occasione infatti, ha affermato che nulla è cambiato nella sua vita, le sue ambizioni e speran-ze sono sempre le stesse come non sono mutati i suoi sogni. E senza rancore per i suoi attentatori ha

Sfumato il Nobel per la Pace 2013 a Malala Yousafzai

Di Giorgia Camillo

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ribadito il diritto all’istruzione per tutti i bambini invitando tutti i governi a garantire un’istruzione gratuita e obbligatoria in tutto il mondo.

Dal suo discorso:Cari fratelli e sorelle, ci rendiamo conto dell’importanza della luce quando vediamo le tenebre. Ci rendiamo conto dell’importanza della nostra voce quando ci mettono a tacere. Allo stesso modo, quando eravamo in Swat, nel Nord del Pakistan, abbiamo capito l’importanza delle penne e dei li-bri quando abbiamo visto le armi. Il saggio proverbio “La penna è più potente della spada” dice la verità. Gli estremisti hanno paura dei libri e delle penne. Il potere dell’educazione li spaventa. Hanno paura delle donne. Il potere della voce delle donne li spaventa. Questo è il motivo per cui hanno ucciso 14 studenti innocenti nel recente atten-tato a Quetta. Ed è per questo che uccidono le insegnanti donne. Questo è il motivo per cui ogni giorno fanno saltare le scuole: perché hanno paura del cambiamento e dell’uguaglianza che porteremo nella nostra società. Ricordo che c’era un ragazzo della nostra scuola a cui un giornalista chiese: “Perché i talebani sono contro l’educazione dei ragazzi?”. Lui rispose molto semplicemente: indicò il suo libro e disse: “I talebani non sanno che cosa c’è scritto in questo libro”.

Per chi volesse conoscere meglio la ragazzina simbolo universale delle donne che combattono per il dirit-to alla cultura e al sapere, consigliamo la sua biografia scritta a quattro mani con Christina Lamb in libreria dall’8 ottobre 2013. IO SONO MALALA: LA BIOGRAFIA IN CONTEMPORANEA MONDIALE

Malala insieme alle sue compagne è sul vecchio bus che la riporta a casa. Un uomo sale a bordo e spara tre proiettili, colpendola in pieno volto e lasciandola in fin di vita. Ha appena quindici anni e per i talebani è colpevole di aver gridato al mondo il suo deside-rio di leggere e studiare. Ma «le ragazze di Swat» non si sono arrese, perché «loro non hanno paura di nessuno e sarebbero andate a scuola con i libri nascosti sotto i veli».Con lo stesso coraggio e con la stessa passione con cui la giovane donna difende i diritti inalienabili delle donne pakistane, Malala scrive il suo libro, dando voce alla speranza di un popolo oppresso dalle leggi religiose, che non vede altra soluzione se non la repressione. Paolo Zaninoni, Direttore Editoriale Garzanti-Libri dichiara: «Abbiamo fortemente voluto questo libro perché Malala è diventata un emblema di coraggio nella difesa delle proprie idee e del proprio diritto a crescere attraverso l’acquisizione di strumenti cul-turali. Quel coraggio che un libro come questo può trasmettere ai giovani, e non solo».

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C iao ragazzi, siamo i vostri rappresentanti di isti-tuto e , con questo articolo, vogliamo riferirvi di quello che abbiamo fatto fino ad ora e di quello che abbiamo in programma di fare per il futuro.

Nei comitati studenteschi e nelle assemblee po-meridiane dove abbiamo spiegato i nostri pro-grammi, vi siete già fatti più o meno un’idea di come abbiamo intenzione di attivarci quest’anno, di quali siano le nostre proposte e i nostri obiettivi. Ma, realmente, che cosa abbiamo già fatto? Nel periodo iniziale del nostro mandato abbiamo insistito molto sulla diffusione dello “Statuto degli studenti e delle studentesse”, in particolare su determinati articoli, i più significativi, e per questo motivo abbiamo prima indetto un’assemblea po-meridiana aperta a chiunque e poi letto gli arti-coli durante la settimana che precedeva la Gior-nata internazionale dello studente (Domenica 17 novembre). Nell’assemblea pomeridiana citata precedentemente abbiamo anche chiesto una pri-ma opinione riguardo i temi che avreste voluto af-frontare durante le assemblee di istituto , per poi riferirle in Consiglio di Istituto, cosa che non siamo più riusciti a fare a causa dell’eccessivo protrarsi di questo per la questione riguardante le iscrizioni al nuovo anno scolastico. Lo faremo nel prossimo. Tutto quello che è stato discusso in questo primo consiglio di istituto lo abbiamo riferito ai rappre-sentanti di classe durante un comitato studentesco, nel quale abbiamo anche comunicato l’elezione del nostro Rappresentante della Consulta, Edlind Lushaj,a Presidente provinciale. In quell’occa-sione vi abbiamo anche parlato di un incontro inerente alle prove INVALSI al quale avremmo partecipato. Visto il grande interesse riscontrato per la conferenza riguardo la nota prova di inda-gine statistica, abbiamo chiesto al Preside ulteriori chiarimenti. Il Preside ci ha riferito che, a causa del-

la grande partecipazione, i rappresentanti di classe non avrebbero potuto essere presenti. Noi rap-presentanti abbiamo dunque deciso di fare una se-conda assemblea pomeridiana dove avremmo spiegato cos’era stato detto in questa conferenza. Vista l’affluenza alle due assemblee pomeridiane ci è sembrato opportuno portare avanti un’iniziati-va che prevede incontri periodici, dove gli studenti possono parlare di diverse tematiche tra di loro, al di fuori dell’orario scolastico. Questo progetto è stato però lasciato in sospeso durante il periodo natalizio per l’organizzazione del concerto di Natale al quale abbiamo collaborato insieme alla professoressa Bellin, nostra referente per le politi-che giovanili, e ai vari musicisti. Inoltre, sempre nel mese di dicembre, ci siamo occupati della divul-gazione dei sondaggi per le assemblee di isti-tuto e l’orientamento universitario sui quali vi abbiamo informato tramite materiale nelle classi. Al momento stiamo organizzando diverse cose: l’o-rientamento universitario, il corso di fotogra-fia, un concorso artistico proposto dagli studenti della 5 A e il gruppo di incontro pomeridiano. Le notizie riguardanti queste proposte verranno date in dettaglio nel comitato studentesco , previ-sto per lunedì 20 gennaio, ai rappresentanti di clas-se, ma ve le anticiperemo qui. L’orientamento universitario vedrà protagoniste le classi quarte e quinte nell’intera mattinata di sabato 25 genna-io. Abbiamo chiamato a relazionare studenti fre-quentanti le Facoltà a partire dal secondo anno di iscrizione. Le Facoltà sono state scelte in base ai risultati dei sondaggi. Gli studenti universitari terranno diverse presentazioni che si alterneranno ogni ora, ad eccezione delle facoltà con il maggior numero di richieste come Medicina, Economia e Ingegneria che verranno divise in blocchi da due ore. Il corso di fotografia, invece, se otterrà il nu-mero stabilito di adesioni , verrà avviato tra la fine

DAI RAPPRESENTANTI DI ISTITUTO...

NEWS DAL DA VINCI28

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di febbraio e l’inizio di marzo su richiesta esplicita del fotografo, che ha preferito rinviare per avere la possibilità di sfruttare il bel tempo. La proposta della 5 A, il concorso artistico, verrà strutturato nel seguente modo: ogni classe parteciperà con un'o-pera, personale o collettiva, che verrà valutata da una giuria, probabilmente formata da professori di storia dell'arte e da alcuni studenti. L’opera che vincerà sarà esposta in una bacheca in atrio del Liceo. Infine le assemblee pomeridiane: teniamo particolarmente a queste perchè le opportunità che consentono agli studenti di trovarsi al di fuori dell’orario scolastico per parlare di temi di attualità non sono molte, e riteniamo importante che gli studenti partecipino in maniera attiva alla vita del-la propria scuola, autogestendosi anche in questo

modo. L’assemblea fondativa di questi incontri si terrà giovedì 23 gennaio . Stabiliremo insieme an-che il tema(o i temi) da portare avanti nel corso del secondo quadrimestre. Oltre a questi progetti, è in corso l’organizzazione delle Assemblee di Istituto, della cogestione, ( per chi non ricordas-se, consiste in quattro giorni (circa) in cui studenti e professori collaborano per sperimentare metodi di didattica alternativi) e dell’autogestione, temi che tratteremo nel prossimo Consiglio di Istituto. Questo è in riassunto tutto quello che abbiamo fat-to fino ad ora. Invitiamo chiunque abbia proposte di qualunque genere da portare avanti a contattar-ci: noi saremo sempre a vostra disposizione.

I vostri rapresentanti di istituto

Il gruppo DOM (Developers Of the Matrix) è un gruppo di lavoro composto da studenti del liceo che, uniti dalla passione per l'informatica e per la programmazione, hanno deciso di collaborare nel-lo sviluppo di applicazioni utili a noi studenti e alla scuola in generale. Il gruppo, ideato all`inizio di questo anno scolastico da Riccardo Scelsi (4 G), conta attualmente 10 partecipanti, i quali frequen-tano sia classi quarte che terze. Alcuni dei progetti che stiamo attualmente sviluppando sono: •una calcolatrice chimica che permetta di calcolare la massa di una molecola e di visualizzarne le proprietà•un'applicazione che notifichi automaticamente l'inserimento di nuove news e comunicati sul sito della nostra scuola. Siamo sempre aperti a nuovi membri e soprattutto a nuove proposte. Se volete avere altre infor-mazioni potete visitare il nostro sito

developersofthematrix.altervista.org

Il gruppo DOM

GRUPPO

DOM

NEWS DAL DA VINCI29

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Il PES, Parlamento Europeo degli Studenti, è un’associazione a statuto nazionale rivolta a studenti medi e universitari che si propone, tra-mite laboratori attivi nelle scuole, di incoraggiare la cittadinanza attiva e l’approfondimento di questioni relative ai diritti umani e alla promo-zione della pace nel mondo. Essendo tali ambiti molto vasti per poter essere affrontati in maniera completa, ciascun laboratorio PES si concentra ogni anno su un aspetto particolare di queste tematiche. Da tre anni alcuni ragazzi del Liceo “Da Vinci” si impegnano in questo progetto, organiz-zandosi autonomamente in gruppi di lavoro che si incontrano con scadenza settimanale dopo le lezioni negli spazi del Liceo, il tutto per la durata dell’intero anno scolastico. Gli studenti, sotto la guida di un docente tutor, la professoressa Paola Bellin, hanno approfondito ogni anno un tema strettamente collegato ai due grandi pilastri su cui si fonda la vita dell’associazione, i diritti umani e la cittadinanza attiva, appunto. Due anni fa venne democraticamente scelta, dai partecipan-ti del progetto, la questione dell’Afghanistan, l’anno scorso il problema della mafia al nord, quest’anno i temi dell’immigrazione e dell’U-nione Europea, in vista delle vicine elezioni del Parlamento Europeo. Parteciperemo, inoltre, con un video sul tema dell’immigrazione, con attenzione all’articolo 10 della Costituzione, al Progetto “Lezioni di Costituzione” promosso dal Parlamento italiano. La parola chiave del laborato-rio PES è senza dubbio “informazione”: internet, giornali specialistici, saggi di esperti e libri sono le fonti da cui gli studenti che partecipano al pro-getto ricavano dati, articoli e opinioni in merito ai temi affrontati che verranno in seguito approfon-diti e discussi insieme. Pertanto i mezzi adoperati per la ricerca sono tratti da fonti sicure e affidabili

che vengono sempre citate nelle produzioni finali, a testimonianza della trasparenza che impronta i lavori. Gli ultimi mesi dell’anno scolastico saranno dedicati alla produzione di un elaborato che sarà reso pubblico grazie ad un incontro rivolto alla cittadinanza della nostra città, nel corso del quale verrà esposto il lavoro , supportato anche da alcune interviste realizzate precedentemente che ci permetteranno di avere un primo approc-cio con la cittadinanza. Inoltre le moltissime inizia-tive organizzate dal Liceo rappresentano momenti di confronto con esperti che consentono a noi studenti del PES di ricavare alcuni spunti di di-scussione oppure di chiedere dei chiarimenti in merito agli argomenti affrontati. Ad esempio, l’in-contro con l’ex procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso, oggi Presidente del Senato, tenu-tosi il 27 ottobre 2012, è stato di fondamentale importanza per lo sviluppo del tema della mafia affrontato in quei mesi dal gruppo PES. Durante l’anno scolastico vi è inoltre la possibilità per i partecipanti di prendere parte ai viaggi di for-mazione organizzati dal Direttivo del PES, al fine di confrontarsi con gli altri studenti dei laboratori tenuti nelle varie scuole e visitare luoghi simbolo della lotta per i diritti umani o per la promozione della pace.Per il Liceo da Vinci lo studente referente è Mi-lena Mottola di 4E. Vi comunichiamo con piacere che Mattia Cuzzocrea di 5G è stato eletto refe-rente provinciale.

Milena Mottola e Martina Stringari

DAL PES…

NEWS DAL DA VINCI30

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H i everyone!No, non siamo impazziti, potete stare tranquilli. L’in-glese è stato il nostro (quasi) unico mezzo di comu-nicazione a partire dal 6 Dicembre 2013 fino al 17. Noi classe III E infatti abbiamo avuto la possibilità di prender parte al progetto ‘Ora Zero’, presente al Liceo da Vinci da circa quattro anni. Tale progetto vede coinvolte una classe terza e una classe ‘Senior’ di ita-liano della Pascack Valley Highschool, nel New Jersey, USA. Nella nostra scuola, la referente e organizzatrice per questo progetto è la professoressa Patrizia Ca-soni (quest’anno con l’aiuto della professoressa Paola Bellin), mentre la sua partner americana è la signora Barbara Borghi, italiana ma residente negli Stati Uniti da parecchio tempo.Durante lo scorso anno scolastico ci è stato detto che molto probabilmente avremmo preso parte a questo progetto di scambio culturale in terza, ma a Settembre di quest’anno abbiamo incontrato alcuni ostacoli che stavano per compromettere la nostra partenza. Fortunatamente, il progetto è andato in porto e abbiamo iniziato da subito a partecipare quasi ogni venerdì a delle videoconferenze con la classe americana per poter conoscerci. Inutile dire che la sintonia tra di noi si è dimostrata fin da subito molto alta: sebbene non ci fossimo mai incontrati di persona né avessimo mai chattato tramite i numerosi mezzi di cui oggi disponiamo grazie ad Internet, siamo riusciti a legare molto, tant’è che quando siamo tornati in Italia abbiamo sentito la fortissima mancanza della nostra parte di ‘famiglia’ americana.Ma torniamo alla partenza. Il nostro volo con desti-nazione ‘Liberty Airport New Ark’ è decollato verso 15.00 da Venezia destinazione Zurigo e da Zurigo a Newark. Dopo nove lunghe ore, abbiamo finalmente toccato il suolo americano. All’uscita c’erano già i no-stri amici di “oltreoceano” ad aspettarci che ci hanno

accolto calorosamente con cartelloni, striscioni e urla di gioia. Quello però è stato, per noi ragazzi italiani, anche il momento delle separazioni: ogni studente italiano doveva tornare a casa con il proprio ‘buddy’ (compagno) americano. Da quel momento, le loro case e le loro famiglie sarebbero diventate anche le nostre. Una bella dormita era proprio quello che ci voleva dopo una giornata del genere!Sabato pomeriggio siamo andati a vedere la finale di una tipica partita di football americano che vedeva come protagoniste la squadra della Pascack Valley Hi-ghschool e la squadra di una scuola avversaria. Al Met-life Stadium, il grande e famoso stadio di football poco fuori New York, in attesa di entrare, abbiamo pranzato all’aperto nel parcheggio. L’emozione era tanta poiché vedere una partita nello stadio che ospita squadre del calibro dei Giants e dei Jets…non è cosa da tutti i giorni. Può sembrare strano, ma mangiare così il “tailgate subs” (una specie di panino molto lungo con prosciutto, pomodori, insalata, maionese e chi più ne ha più ne metta) è abbastanza comune tra gli spetta-tori americani delle partite di quello che, per loro, è uno sport nazionale come lo è per noi il calcio. Dopo il pranzo siamo entrati nello stadio che, se dall’esterno può sembrare grande, all’interno è im-menso! C’erano solo gli studenti delle due scuole av-versarie e i relativi genitori, quindi gli spalti non erano completamente occupati, ma il tifo era da grande par-tita. E per i nostri amici lo era! Si giocava la finale del campionato studentesco dello Stato del New Jersey. Molti di noi non avevano mai assistito a una partita di football americano, quindi abbiamo dovuto lasciar pas-sare un po’ di tempo prima di poter capire appieno come funziona il gioco. Una volta capito però… era fatta: eravamo un tutt’uno con i nostri amici americani e i loro compagni di scuola, facevamo il tifo, esulta-vamo per una meta guadagnata e ci dispiaceva ogni volta che ne perdevano una.La Pascack Valley è stata assolutamente fenomenale,

ORA ZERO: Da Vinci e Pascack Valley High School

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battendo l’altra squadra per 32 a 6, diventando così campionessa del torneo di football delle scuole supe-riori dello stato del New Jersey per quell’anno. Alme-no rimanere per un intero pomeriggio fuori al freddo è valsa la pena!

Ma di tempo di riposare o dormire proprio non se ne parla! Il mattino dopo, Domenica 8 Dicembre, alle otto eravamo già tutti in piedi visto che alle nove un pullman ci avrebbe aspettato davanti alla scuola americana con destinazione New York! Inutile dire che l'emozione tra tutti noi era davvero, davvero tanta! Perfino i nostri buddies e le nostre insegnanti lo era-no, poichè anche per loro era un'esperienza del tutto nuova. Insomma, visitare la Grande Mela tutti insieme con i rispettivi compagni italiani e americani di certo non è qualcosa che si fa tutti i giorni.

Verso le dieci eravamo già nella famosa Fifth Avenue e, dopo le solite raccomandazioni, abbiamo potuto visitare questa lunghissima strada piena di negozi fan-tastici insieme ai nostri compagni americani. Si dice che non ci sia posto migliore di New York durante il periodo natalizio... ebbene si, lo possiamo confermare. Il Natale negli U.S.A. è molto sentito, infatti gli enormi edifici vengono addobbati esterna-mente con migliaia e migliaia di decorazioni diverse e luci che formano intrecci e disegni di vario genere. All'interno dei negozi è un caleidoscopio di colori e immensi alberi di Natale addobbati di tutto punto. Un esempio l'abbiamo trovato proprio all'inizio della gior-nata visitando il famosissimo Plaza Hotel: un enorme e vero albero di Natale era addobbato con luci e cristal-li e, insieme alle altre decorazioni, rendeva l'atmosfera magica. Dopo una breve visita dell'hotel ,che rispetto ai nostri sono dei veri e propri centri commerciali, abbiamo ripreso la nostra visita in città.

New York è proprio come la si vede nei film: una vera e propria giungla urbana in grado di offrire tutto ciò di cui la gente ha bisogno. Dopo una veloce visita in alcuni negozi molto famosi come F.A.O (un negozio enorme di giocattoli), l'Apple Store (un must), e la New York Police Station che anch'essa possiede un

gran numero di negozi al suo interno, abbiamo potuto pranzare al Rockfeller Center ammirando il fantastico e famosissimo albero di Natale addobbato di tutto punto, vicinissimo alla pista di pattinaggio.

Dopo quattro ore dal nostro arrivo ci siamo ricon-giunti con le nostre insegnanti e tutti insieme ci siamo diretti verso la New York Public Library che abbiamo potuto, sfortunatamente, solo ammirare dall'ester-no. Lì vicino, a Bryant Park vi era un parco pieno di piccoli negozi-bancarella dove la gente si accalcava per prendere regali insoliti. Queste bancarelle vendevano qualsiasi oggetto: dagli oggettini portafortuna giappo-nesi a statuette di metallo, gioielli fatti a mano, cappel-li, sciarpe... Insomma, New York offre di tutto.

Mentre ci accingevamo a tornare a Hillsdale, alcuni fiocchi di neve hanno iniziato a scendere sulla città e tutto questo non ha fatto altro che aumentare ancora di più la nostra eccitazione e l'emozione di essere lì in un periodo così speciale dell'anno.

Ma la giornata non era ancora finita! Quella sera eravamo tutti invitati a casa di Frank, un nostro amico americano, dove la sua famiglia aveva organizzato un tipico barbecue americano con costolette, hot dog, hamburger e altro ancora! Insomma, una prelibatezza dopo l'altra. Dopo cena ci siamo seduti tutti intorno al pianoforte e insieme ci siamo messi a suonare e a cantare tutti insieme: in quel preciso istante abbiamo capito che non eravamo solo due diverse classi provenienti da due continenti differenti che condividevano insieme uno stesso progetto, ma una vera e propria famiglia con la quale si potevano condividere emozioni, storie, ed esperienze diverse senza aver timore di parlare in una lingua diversa.

Il weekend era finito in un baleno, due giorni erano passati in un attimo, ma l'indomani ci avrebbe aspet-tato una nuova ed entusiasmante esperienza: la scuola americana.

To be continued...

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INCONTRA EMILIO ISGRO'

Emilio IsgrO' - Semi e cancellatureA cura di Valerio DehO' Treviso - Ca' dei Ricchi dal 18 gennaio al 16 marzo 2014

ARTECO è un gruppo formato da alcuni studenti delle classi quinte C e I dell’istituto coordinati dal prof. Parpinel. Questa esperienza nasce dall’esigen-za di portare a conoscenza di tutti gli studenti dell’istituto le esperienze di arte contemporanea che vengono presentate nella nostra città. Negli ultimi anni alcune organizzazioni, tra le quali è bene ricordare TRA-Treviso Ricerca Arte, la Galleria dell’Elefante e Spazio Paraggi, hanno proposto esposizioni di autori

che sono tra i protagonisti della scena artistica mon-diale. Queste proposte, che toccano anche i momenti più importanti dell’arte contemporanea, non sono sufficientemente conosciute all’interno del nostro liceo.Si è ritenuto quindi indispensabile pubblicizzare tutte le iniziative di arte contemporanea che vengono proposte nel nostro territorio attraverso un team di studenti che, di volta in volta, pubblicizzerà, documen-terà e approfondirà le varie esperienze.

I componenti del gruppo sono:

Silvia Battaglia, Maria Gatto e Alessandro Marchesin della 5^C

Sara Badesso, Federica Crosato e Marta Mattarucco della 5’I

Per contatti: [email protected]

NEWS DAL DA VINCI33

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Quanti di noi in vacanza non si portano con sé la pro-pria macchina fotografica per immortalare paesaggi o qualsiasi cosa nuova incontriamo nel nostro viaggio? E quante volte, riguardando meglio le nostre foto, non ci siamo pentiti di qualche errore che ha compromesso i nostri bene e amati ricordi (foto mosse, sfuocate, sovraesposte, scure, ecc..)? Da oggi, e nei prossimi numeri, ci dedicheremo alla fotografia, analizzando gli aspetti base per poi soffermarci su elementi più tec-nici. Concluderemo, infine, con qualche utile consiglio per rendere le vostre foto non solo dei ricordi, ma anche dei piccoli capolavori. Per parlare di fotografia bisogna prima distinguerla nelle sue due categorie : Analogico e Digitale. Il pri-mo corrisponde alla fotografia tradizionale e si vede impegnato l’uso della pellicola e della stampa con bagni chimici. Il Digitale, invece, rappresenta la mo-derna e attuale evoluzione fotografica, in cui vengono utilizzati nuovi strumenti quali il sensore, che prende il

posto della pellicola, e la stampa meccanica con colori chimici. In questa presentazione parleremo, per l’ap-punto, di Digitale, il quale risulta la forma di fotografia più usata, senza nulla togliere che alcuni aspetti teorici e pratici che andremo ad analizzare rimangono facenti parte anche del mondo analogico. La fotografia è un percorso complesso in cui si vede interessato il lato emozionale e tecnico di un’ imma-gine. Fare fotografia vuol dire pensare a un messaggio da proporre o descrivere un proprio stato d’animo usando il mondo che ci circonda. Il primo aspetto è definito come “Visualizzazione”, il quale consiste nel vedere l’immagine che si vuole riprodurre e nel pensare già al suo futuro sviluppo. Perciò si cerca di trovare un elemento che possa valorizzare lo scatto in termini di scena e di emozioni. Alcuni elementi utilizzati in questa prima parte sono : l’angolazione di ripresa, la luce, l’espressione, il movimento o l’azione, il dettaglio piuttosto che il generale. Il secondo aspet-

FOTOGRAFIAdi Lucrezia Lena

“Chi si allinea non si gode la vita. Un’ arte allineata è un puro controsenso” . Così esordisce Emilio Isgrò, artista di arte concettuale italiano di prestigio inter-nazionale all’inaugurazione della sua mostra “Semi e Cancellature”.Nonostante l’apparente discrepanza tra questi due elementi, nei vari interventi è stata data una chiave di lettura che si potrebbe riassumere in una parola: “rigenerazione”.I semi d’arancia posti nella sala sono facilmente interpretabili come fonte di vita nuova, apertura alla continua rinascita; gli insetti, che ricorrono in qualche caso, rappresentano la collaborazione per creare un posto migliore. E le cancellature? Come interpretarle?Le cancellature, che sono le protagoniste visive della maggior parte delle sue opere, rendono possibile il passaggio dalla letteratura all’arte , una vera e propria liberazione dal senso comune che crea un’energia nuova.Non si tratta mai di una censura o di un’eliminazione

negativa e aggressiva, bensì di un atto positivo di rige-nerazione, pieno di carica sociale. Bisogna imparare a conoscere le cose, non soltanto a riconoscerle e l’artista, che non ha spiegato le sue opere, ha voluta-mente lasciato vagare la nostra immaginazione per farci cogliere nuove idee al di là delle cancellature. Ha ritenuto opportuno raccontarci di lui, della sua vita, dei suoi pensieri senza voler imporre una determinata chiave di lettura.Così Isgrò cerca di dar un apporto al desiderio di liberazione, stimolandoci a riflettere, e suggerendo di compiere la stessa selezione critica, che nelle sue opere avviene attraverso la cancellatura, anche tra le informazioni che ci vengono proposte continuamen-te dai mass media, per comprendere più a fondo la realtà .Per lui infatti l’arte è la prima fonte di libertà dell’uo-mo, e ‘’la cancellatura è come il telecomando della televisione: quando non ne posso più cambio canale’’ .

La mostra E' organizzata da:TRA - Treviso Ricerca Arte@ Ca' Dei RicchiVia Barberia, 25 - Treviso

UN MOMENTO DI SVAGO34

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Fare fotografia vuol dire pensare a un

messaggio da proporre o descrivere un

proprio stato d'animo usando il mondo che ci

circonda

to che analizzeremo riguarda il lato tecnico, ovvero il momento in cui vengono impegnati gli strumenti di ri-presa, in questo caso la stessa macchina fotografica. La scelta delle impostazioni sarà determinante per il fo-tografo al fine di riuscire a immortalare e a descrivere ciò che apparentemente vede. Alcuni dei meccanismi necessari da comprendere per ottenere il miglior risultato sono: il diaframma, il tempo di esposizione, la sensibilità/ASA del sensore. Il terzo ed ultimo aspetto riguarda la stampa, la quale è il processo meccanico per trascrivere su supporti artificiali l’immagine scatta-ta, oltre ad essere la conclusione di questo processo definito come fotografia.Oggi parleremo della prima sezione cercando di en-trare più nel dettaglio sul vero senso di “Visualizzazio-ne”. Quando vediamo un’immagine dobbiamo prima di tutto, in base ai mezzi disponibili, scegliere come scattarla : ad ampio raggio (paesaggio), a medio raggio (primo piano) o ravvicinato (macro). Il paesaggio com-prende l’insieme di tutti gli elementi visibili davanti a noi, quale può essere una spiaggia con mare e cielo. Il primo piano vede interessato l’elemento più prossimo a noi, ad esempio un animale, una persona e così via. Il macro, invece, si sofferma sul dettaglio di un singolo elemento come può essere la goccia su una foglia o il pistillo di un fiore. Nel vedere un’immagine bisogna imparare a definire il soggetto, infatti è quello che darà senso alla foto in quanto protagonista della scena. Trovato quest’ultimo bisogna collocarlo all’interno dell’immagine al fine di trovare l’equilibrio tra questo e l’ambientazione. Perciò è di buona abitudine so-vrapporre mentalmente all’immagine reale, un voglio virtuale 3X3 quadrati. In questo spazio troveremo le

aree migliori per posizionare il soggetto, il quale deve essere inserito all’interno delle fasce o dei quadrati seguendo e rispettando le geometrie delle stesse figu-re. Quindi, ad esempio, è preferibile inserire , a grandi linee, un albero o al centro o alle netta destra o alla netta sinistra dello schema. Altrettanto importante è tenere in considerazione la linea dell’orizzonte la quale deve essere sempre parallela alla base.Altri elementi fondamentali sono le cosiddette “aree vuote”, le quali possono essere, ad esempio, un cielo senza nuvole o un prato troppo omogeneo o ancora più semplicemente il nero dovuto a superfici scure e prive di dettaglio. Questi elementi, tendenzialmente, sono considerati, salvo eccezioni, campi vuoti o inutili e si cerca pertanto di limitarne la presenza. Lo svilup-po dell’equilibrio fra spazio, soggetto e azione porta così ad ottenere una vera fotografia.Lo spazio che ci circonda è sostanzialmente diviso in due aree. La zona polarizzata e la zona in controluce. La prima corrisponde all’area visiva presente quando diamo perfettamente le spalle al sole, di conseguenza la seconda sarà l’opposto. Queste due aree implica-no due modi diversi di operare, in quanto nel primo avremo presenti elementi come anche colori saturi e ombre nette, mentre nel secondo ci troveremo immagini molto luminose che tenderanno a ridurre l’enfasi cromatica. Lo studio di queste due particolari situazioni interesserà più l’argomentazione riguardan-te la strumentazione di cui parleremo nella prossima parte, anche se sono elementi che vanno concepiti ed acquisiti per la gestione dell’immagine stessa e la loro scelta sarà determinante per riuscire ad ottenere un risultato positivo.

UN MOMENTO DI SVAGO35

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Giorgia Camillo 4ELucrezia Lena 4E

Alice Pavanello 3DCaterina Carà 2D

Mathilda Gobbo 3E Eleonora Pietrobelli 2E Sara Dimartino 2C Sofia de Faveri 2C

Prof Paola Bellin

l u d o v i c a C r o s a t o

v i c e d i r e t t r i c e

r e d a t t o r i

d i s e g n a t o r i

r e d a t t o r i e s t e r n i

Susanna Toffoletto 3ELucrezia Lena 4E

G i o r g i a C o n t e

d i r e t t r i c e

5b

4d

docente referente

Martina Stringari 4CMilena Mottola 4EEdoardo Bottacin 4L

Le classi 5I e 5CLa classe 3E

i rappresentanti d’istituto

v e s t e g r a f i c a & i m p a g i n a z i o n egianluca cesari