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NOTIZIARIO UNIVERSITÀ LAVORO Aprile 2012 Indice Notiziario Corriere della Sera Ecco i «giacimenti» inutilizzati di lavoro la Repubblica Wall Street Journal: Lausterity in Italia è una minaccia per leconomia dellEurozonala Repubblica Disoccupazione record: a febbraio 9,3%. Tra i giovani il 31,9% non lavora La Voce Disoccupazione e Cassa Integrazione Guadagni la Repubblica Allarme Cgia: Nel 2011 record di fallimenti. Battenti chiusi per 11.615 aziende Corriere della Sera Se otto su dieci ritrovano un posto La Voce I costi della crisi pagati dai più deboli La Repubblica Bankitalia, crolla il reddito delle famiglie. Tarantola: Sono ammortizzatori socialiLavoro e Diritti Cassazione: non è licenziabile per giusta causa il lavoratore dequalificato che si rifiuta di lavorare Il Sole 24 Ore Srl a 1 euro per gli under 35, pronta la bozza Lavoro e Diritti Il Lavoro interinale dopo ladeguamento alla direttiva 2008/104/CE

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Aprile 2011

NOTIZIARIO UNIVERSITÀ LAVORO

Aprile 2012

Indice Notiziario

Corriere della Sera – Ecco i «giacimenti» inutilizzati di lavoro

la Repubblica – Wall Street Journal: “L’austerity in Italia è una minaccia per l’economia

dell’Eurozona”

la Repubblica – Disoccupazione record: a febbraio 9,3%. Tra i giovani il 31,9% non lavora

La Voce – Disoccupazione e Cassa Integrazione Guadagni

la Repubblica – Allarme Cgia: “Nel 2011 record di fallimenti”. Battenti chiusi per 11.615

aziende

Corriere della Sera – Se otto su dieci ritrovano un posto

La Voce – I costi della crisi pagati dai più deboli

La Repubblica – Bankitalia, crolla il reddito delle famiglie. Tarantola: “Sono ammortizzatori

sociali”

Lavoro e Diritti – Cassazione: non è licenziabile per giusta causa il lavoratore dequalificato

che si rifiuta di lavorare

Il Sole 24 Ore – Srl a 1 euro per gli under 35, pronta la bozza

Lavoro e Diritti – Il Lavoro interinale dopo l’adeguamento alla direttiva 2008/104/CE

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L'INCHIESTA / 2

Ecco i «giacimenti» inutilizzati di lavoro Sono almeno mezzo milione i posti che restano scoperti per mancanza di qualificazione Caro Direttore, il problema del lavoro nel nostro Paese non è soltanto quello dell'inconoscibilità dei milioni di occasioni che il mercato offre ogni anno, in ogni parte della Penisola (di cui abbiamo parlato ieri), ma anche quello della nostra incapacità di mettere a frutto alcuni enormi giacimenti di occupazione, che lasciamo quasi del tutto inutilizzati. Eppure sarebbero facilmente a portata di mano; e, come mi propongo di mostrare, il loro sfruttamento richiederebbe investimenti che sono certamente alla nostra portata. Il primo giacimento a cui mi riferisco è costituito dagli skill shortages, cioè dai posti di lavoro che restano permanentemente scoperti per mancanza di manodopera dotata della qualificazione necessaria per occuparli. Il grafico qui accanto mostra quanto emerge dall'ultimo censimento svolto da Unioncamere, nel 2011: ne risultano 117.000 posizioni di lavoro disponibili, sparse in tutte le regioni italiane, distribuite in tutti i settori e tra tutti i livelli professionali. Gli studiosi di economia e di sociologia del lavoro avvertono, peraltro, che gli skill shortages effettivi sono molti di più: almeno mezzo milione. Così come per ogni disoccupato che cerca lavoro si stima che ci siano almeno tre «lavoratori scoraggiati», potenzialmente interessati a trovare un lavoro ma che non ci si provano neppure, allo stesso modo ci sono gli «imprenditori scoraggiati»: cioè quelli che avrebbero bisogno di personale qualificato, ma considerano talmente improbabile trovarlo che non fanno neppure l'inserzione sul giornale o la richiesta all'agenzia di collocamento. Per mettere questo giacimento di occupazione a disposizione dei nostri disoccupati, o dei lavoratori che cercano un nuovo lavoro, basterebbe che un servizio specializzato facesse per ognuno di essi il bilancio delle competenze, individuasse i due o tre skill shortages più vicini professionalmente e geograficamente e delineasse i percorsi di riqualificazione professionale necessari per accedere a ciascuno dei due o tre posti individuati (preferibilmente in collaborazione con l'impresa interessata, utilizzando e retribuendo i suoi impianti e il suo personale qualificato). Tra questi il lavoratore interessato dovrebbe scegliere quello che meglio corrisponde alle sue aspirazioni ed esigenze familiari, per poi intraprendere l'itinerario di formazione necessario. Si obietta che i servizi pubblici per l'impiego non sono in grado di svolgere questo compito. Le agenzie private di outplacement , però, sì. Oggi in Italia sono poco utilizzate, perché non abbiamo ancora maturato la cultura dell'assistenza intensiva al lavoratore nella ricerca dell'occupazione; ma ci sono anche da noi, e funzionano bene. La tabella qui sopra, per esempio, mostra in quanto tempo sono stati ricollocati tra 2010 e 2011 da una delle maggiori società che svolgono questo servizio in Italia 2.961 impiegati e 1.637 operai, affidati loro da imprese in situazioni di crisi occupazionale. Certo, i servizi di outplacement costano cari(mediamente, l'equivalente di cinque o sei mensilità dell'ultima retribuzione del lavoratore interessato). Ma sempre meno della cassa integrazione «a perdere»: si potrebbe attivare un buon incentivo per l'azienda che licenzia, affinché essa ingaggi l'agenzia più adatta al compito; e le Regioni farebbero soltanto il loro dovere se riqualificassero drasticamente la propria spesa in questo settore, prevedendo il rimborso di tre quarti o quattro quinti del costo standard di mercato del servizio. Per questo potrebbe e dovrebbe essere utilizzato anche quel 60 per cento dei contributi del Fondo Sociale Europeo che spetterebbero all'Italia, ma che finora non siamo stati capaci di utilizzare per

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inadeguatezza delle nostre iniziative nel mercato del lavoro rispetto ai requisiti di efficienza ed efficacia giustamente posti dal Fondo stesso. Oggi il fabbisogno prevedibile di qualifiche professionali scarse si potrebbe conoscere in anticipo per ogni zona e per ogni settore produttivo. Che cosa aspettiamo ad attivarci per porre questo giacimento occupazionale a disposizione dei tanti italiani che hanno difficoltà a trovare un lavoro? Un altro giacimento da cui potremmo trarre flussi di centinaia di migliaia di nuove assunzioni ogni anno è costituito dagli investimenti stranieri, che l'Italia è stata fin qui drammaticamente incapace di attirare: per questo aspetto, in Europa solo la Grecia ha fatto peggio di noi nell'ultimo ventennio. Se soltanto fossimo stati capaci di allinearci a un Paese mediano nella graduatoria europea, come l'Olanda, nell'ultimo quinquennio prima dello scoppio della crisi (2004-2008) questo avrebbe significato un maggiore afflusso di investimenti nel nostro Paese pari a 57,6 miliardi all'anno (vedi tabella sopra). E negli ultimi quattro anni di crisi economica il nostro ritardo su questo terreno è ulteriormente peggiorato rispetto agli altri Paesi europei. Quando si discute di questa gravissima chiusuradell'Italia, gli «addetti ai lavori» tendono sempre a sottolineare che la nostra scarsa attrattività per gli investitori stranieri è dovuta ai difetti delle nostre amministrazioni pubbliche (soprattutto di quella della Giustizia) e delle nostre infrastrutture di trasporto e di comunicazione, al costo dell'energia e dei servizi alle imprese più alto da noi che oltr'Alpe. Ma nel documento che il Comitato Investitori Esteri presieduto da Giuseppe Recchi ha presentato al governo nel dicembre scorso viene indicato, tra i primi, un altro ostacolo: la nostra legislazione del lavoro ipertrofica, bizantina, non traducibile in inglese, e nettamente disallineata rispetto a quelle dei maggiori Paesi europei su di un punto di importanza cruciale: la prevedibilità del severance cost , cioè del costo del licenziamento per motivi economico-organizzativi, quando l'aggiustamento degli organici si rende necessario. Questo è il motivo, molto serio, per cui il governo punta a una riforma della materia che, come in tutti gli altri ordinamenti europei - Germania compresa -, consenta la predeterminazione del costo del licenziamento per motivi economici. 2 – continua (La prima puntata è stata pubblicata domenica 1 aprile)

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LA POLEMICA

Wall Street Journal: "L'austerity in Italia è una minaccia per l'economia dell'Eurozona" Dopo il Financial Times, anche l'autorevole giornale Usa (nella versione europea) critica la situazione italiana. "Le misure adottate da Roma sono controproducenti, l'aumento delle tasse fa rallentare fortemente lo sviluppo economico" Lo leggo dopo NEW YORK - Dopo il Financial Times nuovo attacco di un autorevole giornale economico, questa volta americano, all'Italia. "Le misure di austerity in Italia stanno bloccando l'attività nella terza principale economia dell'eurozona, secondo quanto appare dai dati economici più recenti che dimostrano come queste misure sono controproducenti". Lo scrive oggi il Wall Street Journal Europe in un articolo di prima pagina dal titolo "L'austerity in Italia rappresenta una minaccia per l'economia". Citando i dati diffusi dal Mef lunedì scorso sul fabbisogno in calo nel primo trimestre, il Wsj afferma che "i recenti aumenti delle tasse stanno aiutando l'Italia a tagliare il suo deficit, ma al contempo stanno spingendo l'attività economica a contrarsi ancora più velocemente". Secondo il Wsj Europe "lo scenario che si sta scoprendo ora in Italia, Grecia e Spagna lascerà i paesi problematici dell'eurozona con percentuali di debito pubblico ancora più alte anche se realizzano sforzi dolorosi per ridurlo". Ieri il Financial Times aveva citato un documento riservato della Commissione Europea in cui si accennava alla possibilità che il governo italiano potesse varare nuove misure economiche per ridurre ulteriormente il deficit del bilancio pubblico. La notizia però era stata smentita sia dal premier italiano, Mario Monti, che dalla Ue. 04 aprile 2012 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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ISTAT

Disoccupazione record: a febbraio 9,3% tra i giovani il 31,9% non lavora Secondo l'Istat è il tasso più alto da gennaio 2004. A febbraio gli occupati sono 22.918mila, in diminuzione dello 0,1% (-29 mila unità) rispetto a gennaio: il calo riguarda la sola componente femminile ROMA - Il tasso di disoccupazione a febbraio è al 9,3%, in rialzo di 0,2 punti percentuali su gennaio e di 1,2 punti su base annua. Si tratta del tasso più alto da gennaio 2004 (inizio serie storiche mensili). Mentre, guardando alle serie trimestrali, è il dato iù alto dal IV trimestre 2000. Sempre a febbraio. su base annua, il numero di disoccupati aumenta del 16,6%, ovvero di 335 mila unità. Lo stato dell'occupazione rilevato dall'Istat non lascia spazio all'ottimismo. Giovani. In crescita anche il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni). A febbraio è al 31,9%, in aumento di 0,9 punti percentuali rispetto a gennaio e di 4,1 punti su base annua. Anche in questo caso si tratta del tasso più alto da gennaio 2004. Nel quarto trimestre del 2011, il tasso di disoccupazione dei 15-24enni è salito al 32,6% dal 29,8% dello stesso periodo del 2010 con un picco del 49,2% per le giovani donne del mezzogiorno. Media 2011. Nella media del 2011, il tasso di disoccupazione è pari all'8,4%, invariato rispetto al 2010. Anche se l'istat ricorda che "la disoccupazione è cresciuta nella seconda parte dell'anno". Per quanto riguarda i giovani, il tasso di disoccupazione è cresciuto di 1,3 punti percentuali, portandosi nella media del 2011, al 29,1%, con un massimo del 44,6% per le giovani donne residenti nel mezzogiorno. Occupati e inattivi. A febbraio gli occupati sono 22.918mila, in diminuzione dello 0,1% (-29 mila unità) rispetto a gennaio. Il calo riguarda la sola componente femminile. Nel confronto con lo stesso mese dell'anno precedente l'occupazione segna un aumento dello 0,1% (16 mila unità). Il tasso di occupazione si attesta al 56,9%, in diminuzione di 0,1 punti percentuali nel confronto congiunturale e in aumento 0,1 punti in termini tendenziali. Gli inattivi tra 15 e 64 anni diminuiscono dello 0,2% rispetto al mese precedente. In confronto a gennaio, il tasso di inattività risulta in diminuzione di 0,1 punti e si attesta al 37,2%". Eurozona. La disoccupazione nell'Eurozona sale al 10,8% a febbraio, il massimo da quasi 15 anni. A gennaio era al 10,7%. Nell'Ue a 27 paesi la disoccupazione avanza dal 10,1% al 102% e in Italia si attesta al 9,3%, contro il 23,6% della Spagna e il 21% della Grecia. Nell'Eurozona la disoccupazione torna ai livelli di maggio-giugno 1997 e sotto al 10.9% di aprile 1997. 02 aprile 2012 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Disoccupazione e Cassa Integrazione Guadagni

Fonte Dati: Istat, Inps L’Istat ha pubblicato i dati preliminari sulle forze lavoro del mese di febbraio e quelli completi sull’ultimo trimestre del 2011. Continua la crescita della disoccupazione, salita al 9,3 per cento. Si tratta di circa 2 milioni e mezzo di persone che sono in cerca di occupazione. Se a loro aggiungiamo i cassintegrati – più precisamente, le ore di Cassa Integrazione divise per il numero medio di ore lavorate per un dipendente a tempo pieno – arriviamo vicini alla soglia dei 3 milioni di senza lavoro, o l’11,3 per cento della forza lavoro, come mostrato dal grafico qui sotto. Siamo tornati ai picchi della crisi occupazionale dopo la Grande Recessione, raggiunti a fine 2009 e inizio 2010. La disoccupazione è aumentata di un terzo rispetto ai livelli pre-crisi. E’ andata peggio per i giovani, il cui tasso di disoccupazione è pressoché raddoppiato. Oggi siamo al 31,9 per cento. Questo significa che un terzo dei giovani che sono sul mercato del mercato del lavoro è in cerca di occupazione. E chi riesce a trovare un lavoro viene inevitabilmente assunto con contratti a tempo determinato o nel parasubordinato. Speriamo che la riforma del mercato del lavoro pensi davvero ai giovani. Sin qui non sembra. 03 Aprile 2012

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IMPRESE

Allarme Cgia: "Nel 2011 record di fallimenti" Battenti chiusi per 11.615 aziende Un numero mai raggiunto negli ultimi quattro anni di crisi. In maggiore difficoltà le piccole imprese. Una situazione drammatica per i datori di lavoro, ma anche per i dipendenti: almeno 50 mila hanno perso il posto. In testa alla classifica la Lombardia. Coldiretti: "Chiuse oltre 50mila aziende agricole" VENEZIA - Record di fallimenti per le aziende nel 2011: ben 11.615 imprese hanno chiuso i battenti, un dato mai toccato in questi ultimi 4 anni di crisi. Lo afferma la Cgia di Mestre, precisando che "questo dramma non è stato vissuto solo dai datori di lavoro, ma anche dai dipendenti: secondo una prima stima, in almeno 50.000 hanno perso il posto di lavoro". Un record che ci segnala quanto siano in difficoltà le imprese italiane, soprattutto quelle di piccole dimensioni che, come ricorda la Cgia di Mestre, continuano a rimanere il motore occupazionale ed economico del Paese. "La stretta creditizia, i ritardi nei pagamenti e il forte calo della domanda interna - segnala il segretario della Cgia di Mestre, Giuseppe Bortolussi - sono le principali cause che hanno costretto molti piccoli a portare i libri in Tribunale. 50 mila senza lavoro. Purtroppo, questo dramma non è stato vissuto solo da questi datori di lavoro, ma anche dai loro dipendenti che, secondo una nostra prima stima, in almeno 50.000 hanno perso il posto di lavoro". Ma, ricorda la Cgia, il fallimento di un imprenditore non è solo economico, spesso viene vissuto da queste persone come un fallimento personale che, in casi estremi, ha portato decine e decine di piccoli imprenditori a togliersi la vita. "La sequenza di suicidi e di tentativi di suicidio avvenuta tra i piccoli imprenditori in questi ultimi mesi - prosegue Bortolussi - sembra non sia destinata a fermarsi. Solo in questa settimana, due artigiani, a Bologna e a Novara, hanno tentato di farla finita per ragioni economiche. Bisogna intervenire subito e dare una risposta emergenziale a questa situazione che rischia di esplodere. Per questo invitiamo il Governo ad istituire un fondo di solidarietà che corra in aiuto a chi si trova a corto di liquidità". Il segretario commenta poi i dati sui redditi resi noti ieri dal dipartimento delle Finanze del Tesoro. "Attenti - dice - a dare queste chiavi interpretative fuorvianti e non corrispondenti alla realtà. Le comparazioni vanno fatte tra soggetti omogenei, ad esempio tra artigiani e i loro dipendenti. Ebbene, se confrontiamo il reddito di un dipendente metalmeccanico con quello del suo titolare artigiano, quest'ultimo dichiara oltre il 40% in più, con buona pace di chi vuole etichettare gli imprenditori come un popolo di evasori". Lombardia in testa. Tra le regioni italiane è la Lombardia quella in cui si è verificato il maggior numero di fallimenti di aziende: secondo i dati forniti dalla Cgia di Mestre, nel 2011 sono stati oltre 2.600, quasi un quarto del totale nazionale. Al secondo posto si piazza il Lazio, con 1.215 aziende fallite, mentre il terzo gradino è occupato dal Veneto (1.122). Supera quota mille anche l'Emilia Romagna (1.008). A chiudere la classifica la Valle d'Aosta, con appena 9 aziende fallite. Ecco la classifica: Lombardia 2.613 Lazio 1.215 Veneto 1.122 Campania 1.008 Emilia Romagna 899 Piemonte 857

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Toscana 843 Sicilia 601 Puglia 529 Marche 398 Friuli Venezia Giulia 250 Calabria 249 Liguria 235 Sardegna 213 Umbria 185 Abruzzo 180 Trentino Alto Adige 122 Molise 49 Basilicata 38 Valle D'Aosta 9 Coldiretti: "Chiuse 50mila aziende agricole". Anche per le aziende agricole il bilancio è pesante: nel 2011, stando ai dati diffusi da Coldiretti, in Italia sono state chiuse oltre 50 mila aziende agricole. Nel settore agricolo operano 829mila imprese iscritte al registro delle Camere di commercio. "A preoccupare per il 2012 oltre che gli effetti del maltempo e della crisi dei mercati, anche l'applicazione della nuova Imu che se non sarà adeguata alle specificità del settore sulla base delle conclusioni del tavolo fiscale rischia di avere - conclude la Coldiretti - un impatto insostenibile su terreni agricoli e fabbricati rurali, dalle stalle ai fienili fino alle cascine e ai capannoni necessari per proteggere trattori e attrezzi, andando a tassare quelli che sono, di fatto, mezzi di produzione per le imprese agricole". 31 marzo 2012 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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INCHIESTA SUI CONTRATTI

Se otto su dieci ritrovano un posto In Veneto l'81% di chi perde il posto lo ritrova in un anno. Il mistero dei numeri Caro Direttore, Monti e Fornero hanno dalla loro un argomento fortissimo: il progetto di riforma che il governo sta per presentare in Parlamento allinea il nostro diritto del lavoro a quello degli altri Paesi europei. Ma a questo argomento gli italiani che difendono l'articolo 18 ne contrappongono uno altrettanto forte: l'Italia non è come gli altri Paesi europei, perché da noi il lavoro manca; chi lo perde ha una enorme difficoltà a ritrovarlo. Ora, la difficoltà a ritrovarlo - e ancor più a trovarlo per la prima volta -, in Italia, è indiscutibile; e ne vedremo i motivi specifici nella prossima puntata. Ma di lavoro da noi ce n'è molto più di quanto si pensi, anche in questo periodo di vacche magre (e potrebbe essercene ancor di più se fossimo capaci di abbattere il diaframma che separa domanda e offerta di manodopera: sarà questo il tema della terza puntata). La prima tabella mostra il numero dei contratti di lavoro dipendente che sono stati stipulati nel corso del 2010 in ciascuna delle nove Regioni che sono in grado di fornire questo dato. Un numero sorprendentemente alto: nell'occhio del ciclone della crisi più grave dell'ultimo secolo, queste Regioni hanno fatto registrare in un anno circa quattro milioni di contratti di lavoro. Vero è che, se si disaggregano questi dati, ne risulta solo un milione circa di contratti a tempo indeterminato. Ma anche solo un milione è un bel numero, se si considera che le persone rimaste nello stesso periodo senza il posto per crisi occupazionali aziendali si misurano con uno o due zeri di meno. Per esempio: in Veneto, tra l'ottobre 2010 e il settembre 2011, gli assunti a tempo indeterminato sono stati 145.600. Nel corso del 2011, coloro che hanno perso il posto per licenziamenti collettivi sono stati 11.807; e per licenziamenti individuali (quasi tutti in imprese sotto i 16 dipendenti) 22.671. Dunque: nella stessa regione, pur in un periodo di grave crisi, per ogni licenziato sono stati stipulati quattro contratti a tempo indeterminato. Ancora nel Veneto - la regione che fornisce i dati più aggiornati, completi e analitici - risulta che negli ultimi anni quattro persone su dieci che hanno perso il posto lo hanno ritrovato in tre mesi, otto su dieci lo hanno ritrovato entro un anno. È all'incirca la stessa cosa che emerge, da una ricerca della Banca d'Italia su dati Inps per il periodo 1998-2005, in riferimento all'intero territorio nazionale: anche da quei dati, sorprendentemente, risulta che otto italiani su dieci ritrovavano il lavoro entro un anno da quando lo avevano perso. La differenza, fra prima e dopo lo scoppio della grande crisi, è che appare molto peggiorato il rapporto tra assunzioni a tempo indeterminato e a termine, o comunque con contratti precari. Se le cose stanno così, come si giustifica il fatto che diamo normalmente per scontata la prospettiva di anni e anni di cassa integrazione per chi perde il posto? Per esempio: in quello stesso Veneto nel quale sono stati stipulati 145.000 contratti a tempo indeterminato nel corso dell'ultimo anno, ci sono due aziende - la Iar Siltel di Bassano del Grappa e la Finmek di Padova - dove poche centinaia di lavoratori sono in cassa integrazione da sette anni. Non è forse questo il segno di un modo profondamente sbagliato di affrontare il problema della perdita del posto di lavoro nel nostro Paese? Sento già l'obiezione: questi sono dati riguardanti il Centro-Nord, ma nel Mezzogiorno le cose vanno in modo molto diverso. È vero; ma al Sud le cose vanno in modo meno diverso di quanto si pensi. La seconda tabella ci fornisce il dato complessivo dei rapporti di lavoro attivati al Nord, al Centro e al Sud.

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Anche al Sud, dunque, le occasioni di lavoro ci sono. Certo, ne occorrono di più, perché anche così il tasso complessivo di occupazione in Italia è troppo basso; perché se aumenta la domanda aumentano le retribuzioni e la forza contrattuale dei lavoratori; ma già oggi i nuovi contratti si contano a milioni ogni anno. La ricerca del posto dovrebbe apparirci come un succedersi di gare di dieci concorrenti per nove posti; perché invece abbiamo questa percezione del nostro mercato del lavoro - e soprattutto di quello meridionale - come di un grande «buco nero», di una trappola infernale dalla quale tenersi il più possibile alla larga? Come si spiega che, con tutti questi contratti di lavoro stipulati ogni anno, sia effettivamente così difficile per i disoccupati trovare un posto nel tessuto produttivo italiano? Cercheremo di rispondere a questa domanda nella prossima puntata, mettendo a fuoco il muro - più alto e più spesso rispetto ai Paesi del Centro e Nord Europa - che da noi separa la domanda dall'offerta di lavoro. Qui c'è ancora spazio per un'osservazione: dalla riforma costituzionale del 2001, le nostre Regioni hanno una competenza legislativa e amministrativa piena in materia di servizi al mercato del lavoro e tutte ovviamente spendono risorse rilevanti per questo capitolo di bilancio; ma, dal Lazio in giù, nessuna delle nostre Regioni è in grado di fornire neppure il numero dei contratti di lavoro stipulati sul proprio territorio. Per non dire di tutti gli altri dati disaggregati che sarebbero indispensabili per governare efficacemente l'incontro fra domanda e offerta. Se esse stesse non conoscono nulla del proprio mercato del lavoro, come possono farlo conoscere ai lavoratori che ne avrebbero bisogno? Pietro Ichino senatore Pd ( 1 - continua ) 1 aprile 2012 | 10:14 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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I Costi della crisi pagati dai più deboli Se nel 2010 l'economia italiana ha dato un leggero segnale di ripresa, non altrettanto si può dire dei redditi delle famiglie, che hanno accumulato una pesante perdita del potere d'acquisto. Come era già accaduto nel biennio precedente, è soprattutto il reddito delle famiglie più povere a cadere. I dati mostrano che sono in larga parte nuclei familiari il cui il capofamiglia è donna, ha una scarsa istruzione, non ha lavoro, è single, monoreddito e risiede nel Meridione. Alla riforma del mercato lavoro va dunque chiesto di tutelare anche le fasce più deboli della società. Dopo la grande recessione del 2008-2009, l’economia italiana ha dato un leggero segno di ripresa nel 2010. Non altrettanto può dirsi dei redditi delle famiglie, che hanno accumulato una pesante perdita del potere d’acquisto. L’analisi dei tassi aggregati, però, non offre la possibilità di comprendere cosa stia accadendo alle diverse fasce della popolazione. Come si evince osservando il profilo della curva della crescita (figura 2), il “dividendo” non è stato uguale per tutte le famiglie. Analogamente a quanto era già accaduto nel biennio precedente, il reddito delle famiglie più povere, ovvero di quelle che si collocano nel primo decile della distribuzione, è crollato di più: -4,5 per cento. L’identikit delle famiglie meno fortunate e povere, che i dati consentono di tracciare, mostra una presenza predominante di nuclei familiari il cui il capofamiglia è: donna; ha una scarsa istruzione; si trova in condizione non lavorativa; è single; monoreddito e risiede nel Meridione. La riforma del mercato del lavoro presto in discussione in Parlamento non può non tutelare le parti più deboli della società. LA PERDITA DI REDDITO La grande recessione ha avuto inizio nel 2008 (-1,2 per cento) e ha raggiunto il suo apice nel 2009 (-5,5 per cento), come risulta dai dati di contabilità nazionale diffusi recentemente (figura 1). A partire dal 2010, il Pil ha avuto una leggera ripresa con +1,8 per cento, ma lo stesso non si è verificato per il reddito.

*Il reddito lordo disponibile del 2011 è stato stimato con l’andamento dei dati destagionalizzati dei primi tre trimestri. Fonte: elaborazioni su dati Contabilità nazionale, Istat

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Il reddito lordo disponibile nel periodo 2007-2011 ha perso il 4,7 per cento del suo potere d’acquisto, mettendo in grave difficoltà le famiglie italiane. Il reddito disponibile delle famiglie italiane nel 2010, secondo quanto stimato dall’indagine campionaria della Banca d’Italia, è aumentato dello 0,3 per cento in termini reali rispetto al 2008. 1Praticamente invariate sono rimaste anche le disuguaglianze distributive dei redditi familiari, come si evince dai valori dell’indice di concentrazione di Gini, che migliora leggermente, passando da 35,3per cento nel 2008 a 35,1 per cento nel 2010.2 Poiché sia i tassi aggregati di crescita del reddito che gli indici di disuguaglianza o concentrazione nascondono informazioni importanti per la valutazione dell'andamento e della “qualità” della crescita, è evidente che entrambe debbano essere congiuntamente prese in considerazione. La lacuna può essere colmata con le curve della crescita del reddito disponibile reale, che permettono di osservare e valutare non solo l’intensità, ma anche i diversi profili distributivi. 3 In pratica, occorre “guardare dentro” ovvero “dietro” i tassi di crescita aggregati e osservare le curve cumulate del reddito familiare.4 Nella figura 2, l’andamento delle curve dei tassi di crescita del reddito per decili cumulati nel biennio 2008-2010 mostra chiaramente una performance distributiva “against the poor” che penalizza le famiglie più povere e, in particolare, quelle che si collocano nel primo decile. Infatti, a fronte di una crescita complessiva praticamente nulla, per loro si evidenzia un tasso di decrescita elevato, pari al 4,5 per cento.

Un analogo risultato penalizzante per le famiglie del primo decile si era osservato anche nel biennio

1 I bilanci delle famiglie italiane nel 2010 – Banca d’Italia – Supplemento al Bollettino Statistico – Anno XXII – Numero 6 – 25

gennaio 2012. L’indagine è condotta ogni due anni su un campione di circa 8.000 famiglie in oltre 300 comuni. 2 Il deflatore dei consumi delle famiglie nel periodo 2008-2010 si è attestato all’1,4% (Istat, Conti Nazionali).

3 Le variazioni del reddito familiare disponibile reale del 2010 rispetto al 2008 per decile mostrano una variazione negativa per il

primo decile (-4,5%) e positiva per i decili centrali con un massimo al VI decile (+2,5%). Il IX decile è rimasto praticamente invariato e Il X ha avuto una diminuzione dello 0,7%. Per tale motivo l'indice di concentrazione di Gini è leggermente diminuito. 4 Il reddito familiare descrive la realtà così come osservata, senza apportare correzioni per la diversa numerosità dei nuclei.

Nell'analisi dei redditi l'oggetto dell'osservazione è la famiglia, perché è difficile attribuire la titolarità di alcuni tipi di reddito ai singoli componenti (ad esempio i redditi da fabbricato, reali o figurativi). Concentrare l’attenzione sulla famiglia piuttosto che sull’individuo è legato al ruolo che la famiglia ha all’interno della società e cioè alla sua funzione redistributrice. Inoltre la scelta di un’analisi dei redditi familiari è da preferire a quella dei redditi individuali in quanto consente di approfondire le caratteristiche strutturali con riferimento al capofamiglia (inteso come maggior percettore di reddito), cosa che non può essere sempre possibile con un’analisi di tipo individuale, quale quella condotta sul reddito equivalente. Sull’argomento si veda “Growth Rates vs Income Growth Curves: A Step towards the Measurement of Societal Progress”, P. Roberti e altri, Rivista di Politica Economica, anno XCVIII, terza serie, settembre-ottobre 2008, pp. 233-262

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precedente, quando il loro reddito reale aveva avuto una flessione ancora più marcata, 7,5 per cento, contro una diminuzione media del 4,1 per cento (figura 3). Così, mentre tra il 2000 e il 2004 la crescita può qualificarsi pro poor (variazioni superiori alla media per i decili inferiori) e nel 2006 sostanzialmente neutra, nel 2008 e 2010 l’andamento è risultato decisamente svantaggioso per le famiglie a più basso reddito. Tra il 2006 e il 2010 le famiglie povere hanno complessivamente perduto l’11,7 per cento del loro reddito reale, una vera e propria catastrofe per chi ha un reddito medio annuo inferiore agli 8mila euro.5 Evidentemente, gli ammortizzatori sociali non sembrano più capaci di garantire le protezioni attese e l’attuale proposta di riforma del mercato del lavoro deve tutelare le parti più deboli della società.

Fonte: elaborazione su dati Banca d’Italia

PROFILO DEL CAPOFAMIGLIA L’analisi delle caratteristiche del capofamiglia mostra che nel 2010 il 57,5 per cento delle famiglie più povere (tavola 1) ha un capofamiglia donna (contro il 31,3 per cento del totale della popolazione); circa la metà ha un titolo di studio non superiore alla licenza elementare (contro poco più del 20 per cento del totale della popolazione); il 70 per cento non è in condizione lavorativa (pensionato o non occupato), oltre la metà è formata da un componente e il 90 per cento è monoreddito. Circa il 60 per cento vive al Sud o nelle Isole. Tavola 1 – Composizione percentuale per alcune caratteristiche del capofamiglia – Anno 2010

Caratteristiche del capofamiglia I decile Totale

Sesso: femminile 57,5 31,7

Titolo di studio: nessuno o licenza elementare 47,6 23,7

Condizione professionale: pensionato 48,0 37,5

Condizione professionale: non occupato 22,0 3,4

Numero componenti: 1 55,8 24,9

Numero percettori: 1 90,1 47,8

Area geografica: sud e isole 59,4 31,6

Fonte: elaborazione su dati Banca d’Italia

5 Le curve della crescita elaborate sui microdati dell’indagine campionaria della Banca d’Italia rappresentano un approccio

alternativo rispetto ad analisi basate sui modelli di microsimulazione che utilizzano dati di fonte amministrativa, presentati nella Conferenza “Incomes Across the Great Recession”, Fondazione Rodolfo De Benedetti, Palermo 10 settembre 2011 http://www.frdb.org/language/eng/topic/conferences/scheda/conference-incomes-across-great-recession

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La composizione del reddito disponibile netto degli appartenenti al primo decile (tavola 2) mostra notevoli differenze con quella delle famiglie più ricche e con la totalità delle famiglie6. Tavola 2 – Composizione percentuale del reddito disponibile netto per tipologia – Anno 2010

Tipologia di reddito I decile X decile Totale

Lavoro dipendente 24.3 33.3 39.5

Lavoro autonomo 3.2 23.6 12.8

Pensioni e trasferimenti netti 52.2 16.4 25.4

Fabbricati 20.9 26.1 22.7

Capitale finanziario -0.5 0.5 -0.4

Totale reddito 100 100 100

Fonte: elaborazione su dati Banca d’Italia

Il 39,5% del reddito medio netto delle famiglie italiane deriva dal lavoro dipendente, il 12,8% dal lavoro autonomo, il 25,4% da pensioni e trasferimenti e il 22,7% dai fabbricati, mentre è risultato negativo per lo 0,4% il reddito da capitale finanziario7. Nel primo decile, invece, oltre il 50% del reddito è dovuto a pensioni e trasferimenti, mentre i redditi da lavoro dipendente ed autonomo hanno quote nettamente più basse. Nelle famiglie a maggior reddito le pensioni coprono solo il 16,4% e la quota dei redditi da lavoro autonomo è circa 8 volte superiore a quella delle famiglie più povere. In conclusione, le curve della crescita confermano significativi “spostamenti” nella distribuzione del reddito disponibile delle famiglie italiane. In particolare, negli anni 2008 e 2010 i “dividendi della crescita” non sembrano essere stati equamente distribuiti. Al contrario, i gruppi a più basso reddito appaiono aver sofferto di più. In attesa di capire cosa sta avvenendo oggi, possiamo affermare che il recente periodo di recessione, in assenza di politiche redistributive efficaci ed adeguate, ha indiscutibilmente gravato sulle fasce più deboli della popolazione, come dimostra l’identikit delle famiglie più esposte alla recessione, tracciato a partire dai recenti dati della Banca d’Italia8. 03 Aprile 2012 di Monica Montella , Franco Mostacci e Paolo Roberti

6 Il reddito netto medio annuo è stato di 32.714 euro, e quello del decile più ricco di 85.378 euro, oltre 10 volte superiore a quello

del decile più povero. 7 Rispetto ai Conti Nazionali dell’Istat l’indagine della Banca d’Italia tende a sovrastimare gli affitti imputati mentre tende a

sottostimare i redditi derivanti da partecipazioni in società e da capitale finanziario (v. nota 11 a pag. 14 della pubblicazione Banca d’Italia citata). 8 Se si utilizzassero deflatori dei consumi delle famiglie differenziati rispetto al livello di reddito/consumo, le valutazioni potrebbero

essere diverse.

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L'INTERVENTO

Bankitalia, crolla il reddito delle famiglie Tarantola: "Sono ammortizzatore sociale" Nella fase più acuta della recessione, tra il 2008 e il 2009, gli introiti sono calati del 4% a fronte di una riduzione del Pil del 6%. Secondo il vice direttore generale di Palazzo Koch, 480mila famiglie hanno sostenuto almeno un figlio convivente che aveva perso il lavoro nei mesi precedenti Lo leggo dopo MILANO - Durante la fase acuta della recessione, nel 2008-09, la caduta dei redditi familiari ha raggiunto in Italia il 4%, a fronte di una riduzione del Pil del 6%. Nella maggior parte degli altri Paesi avanzati, invece, "il reddito disponibile lordo reale delle famiglie è cresciuto, nonostante la contrazione del prodotto". Lo evidenzia il vice direttore generale di Bankitalia, Anna Maria Tarantola, da Genova, nell'ambito del Convegno "La famiglia un pilastro per l'economia del Paese" dove emerge il ruolo della famiglia come ammortizzatore sociale: "Nel momento di massimo impatto della crisi sul mercato del lavoro italiano, circa 480mila famiglie hanno sostenuto almeno un figlio convivente che aveva perso il lavoro nei dodici mesi precedenti". Con conseguenze pesanti che non saranno risolte dalle maxi iniezioni di liquidità messe a punto dall'Eurozona, ma solo con profonde riforme. Crisi e famiglie. La crisi, spiega il vice direttore generale di Bankitalia, "ha gravemente inciso sui redditi delle famiglie italiane riducendone la capacità di risparmio. La ricchezza accumulata, finanziaria e reale, è stata in parte utilizzata per far fronte alle difficoltà economiche". E in questo quadro, "si sono ampliati i divari: considerando anche la ricchezza, il numero di famiglie in condizione di povertà, è aumentato". Di un punto percentuale in media, ma addirittura di 5 punti tra le famiglie giovani. Anche alle luce di questo Tarantola sottolinea che "le famiglie italiane hanno svolto un'importante funzione di ammortizzatore sociale che continuerà anche nel corrente anno. La struttura familiare italiana - ha spiegato - caratterizzata da una marcata propensione dei giovani a costituire un nuovo nucleo familiare solo se occupati, ha limitato l'impatto della grande recessione sul benessere degli individui. Per converso, sono proprio le famiglie dei giovani che hanno intrapreso un percorso autonomo, quelle che hanno pagato il prezzo più elevato della crisi e che oggi fronteggiano i livelli di incertezza più elevati". Del resto, spiega il vice direttore generale di Bankitalia, "in assenza di un sistema di ammortizzatori sociali estesi anche a chi ha storie lavorative discontinue, il ruolo della famiglia è divenuto essenziale. Il reddito dei genitori è stato in molti casi l'unico sostegno per i componenti più giovani". Ma oggi "bisogna interrogarsi circa la sostenibilità di un modello di welfare in cui alle famiglie è demandato il compito di ammortizzare gli shock negativi che colpiscono i redditi dei singoli componenti", ha avvertito. Le condizioni economiche delle famiglie, "specialmente di quelle più giovani e con figli, dipendono oggi in modo determinante dal numero dei percettori di reddito da lavoro. Parallelamente, l'allungamento della vita lavorativa dei genitori più anziani rende più difficile un loro coinvolgimento nella cura dei nipoti. In prospettiva anche il ricorso alla rete familiare è destinato a cambiare". Ricchezza e debiti. La crisi, quindi, ha reso "ancora più forte la dipendenza dei membri più deboli dalla famiglia d'origine, riducendo ulteriormente la propensione dei giovani di intraprendere percorsi autonomi, a passare dalla condizione di figlio a quella di genitore, a partecipare attivamente non solo alla vita economica, ma anche a quella sociale". In media, evidenzia il vice direttore generale di Bankitalia, "le famiglie italiane appaiono ricche nel confronto internazionale: la loro ricchezza netta nel 2010 era pari a 8 volte il reddito, un rapporto in linea con quelli della Francia e del Regno Unito, ma significativamente superiore a quelli della Germania e degli Stati Uniti". La distribuzione della ricchezza "non è però omogenea perché è più concentrata del reddito, anche se non in misura superiore agli altri principali paesi avanzati".

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Nel biennio 2008-10 la quota di famiglie indebitate è diminuita dal 24 al 21 per cento. Tale andamento "è dipeso non solo da una minore domanda di prestiti, ma anche da una maggiore selettività nella concessione dei finanziamenti da parte degli intermediari finanziari, che si è riflessa in un aumento della quota di famiglie che non hanno ottenuto, in tutto o in parte, il credito richiesto (poco più di un quarto nel 2010, oltre il doppio rispetto agli anni precedenti la crisi)". Liquidità. Ma l'inversione di rotta non arriverà neppure con i finanziamenti straordinari dell'Eurosistema perché "non compenseranno il venir meno di una forte componente della raccolta: è quindi illusorio pensare che avrebbero fatto aumentare il credito alle imprese, hanno invece contribuito a frenarne la riduzione". Lo ha dichiarato il vice direttore generale della Banca d'Italia Salvatore Rossi intervenendo ad un convegno dei Cavalieri del lavoro. "E' stato così per febbraio - ha proseguito Rossi - vedremo come è andata a marzo e nei prossimi mesi". Riforme. "La via intrapresa dal governo con il decreto legge in materia di sviluppo, con quello sulle semplificazioni e con il disegno di legge sui temi del lavoro hanno come obiettivo lo sviluppo" ha rilanciato Tarantola spiegando che il compito cui è chiamata "la politica economica del nostro Paese" è ridurre "la vulnerabilità finanziaria" e questo avviene "rafforzando il ritmo di crescita della nostra economia riavviando lo sviluppo con misure strutturali". Secondo Tarantola, quindi, il compito cui è chiamata la politica economica del nostro Paese è questa, rimuovendo ingiustificati vincoli e restrizioni alla concorrenza e alla attività economica definendo un più favorevole ambito istituzionale per l'attività delle imprese e dei lavoratori, promuovendo la cumulazione del capitale fisico e umano". 04 aprile 2012 © RIPRODUZIONE RISERVATA

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Cassazione: non è licenziabile per giusta causa il lavoratore dequalificato che si rifiuta di lavorare In caso di trasferimento ingiustificato del lavoratore e dequalificazione, il rifiuto di prestare attività lavorativa non è giusta causa di licenziamento La Cassazione, con sentenza nr. 4709 dello scorso 23 marzo, torna a pronunciarsi sul tema del trasferimento ingiustificato del lavoratore e relativa dequalificazione, affermando che il trasferimento non adeguatamente giustificato, a norma dell’art. 2103 cod. civ., determina la nullità dello stesso e integra un inadempimento parziale del contratto di lavoro, con la conseguenza che la mancata ottemperanza da parte del lavoratore risulta essere del tutto giustificata; pertanto, il lavoratore non può essere licenziato per giusta causa. Il caso ha riguardato un lavoratore che chiedeva al Tribunale di dichiarare l’illegittimità del licenziamento intimatogli per giusta causa e condannare la società datrice di lavoro, a reintegrarlo nel posto di lavoro ed a versare allo stesso tutte le retribuzioni maturate dalla data del licenziamene alla reintegra. Il lavoratore era stato licenziato in quanto assente ingiustificato dal posto di lavoro. Secondo il lavoratore, gli addebiti contestatigli non costituivano giusta causa di recesso perché erano insussistenti. poiché, lo stesso era stato trasferito da uno stabilimento, ove svolgeva le mansioni di impiegato di 5°livello addetto all’ufficio commerciale, ad altro, con la mansione di responsabile del magazzino materie prime. Trasferimento ritenuto del tutto immotivato e comportante una evidente dequalificazione. Ed infetti il ricorrente, dopo aver aderito alla comunicazione di trasferimento, aveva contestato il provvedimento aziendale e, dopo un periodo di malattia, si era messo a disposizione dell’azienda presso la propria abitazione. I giudici di primo e secondo grado dichiaravano illegittimo il licenziamento ordinando la reintegra nel posto di lavoro del ricorrente, con le consequenziali pronunce ex art. 18 L. n. 300 del 1970. La società ricorreva in Cassazione L’art 2103 c.c. disciplina le “mansioni del lavoratore” e dispone che “Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti alla categoria superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione.…… Egli non può essere trasferito da una unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Ogni patto contrario è nullo”. Gli Ermellini, aderendo ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, affermano che “in tema di trasferimento, comportante un radicale mutamento della posizione lavorativa del dipendente, il trasferimento non adeguatamente giustificato a norma dell’art. 2103 cod. civ., determina la nullità dello stesso ed integra un inadempimento parziale del contratto di lavoro, con la conseguenza che la mancata ottemperanza da parte del lavoratore trova giustificazione sia quale attuazione di un’eccezione di inadempimento (art. 1460 cod. civ.), sia sulla base del rilievo che gli atti nulli non producono effetti, non potendosi ritenere che sussista una presunzione di legittimità dei provvedimenti aziendali che imponga l’ottemperanza agli stessi fino ad un contrario accertamento in giudizio (Cass. 29 luglio 2011 n. 16780; Cass. 30 dicembre 2009 n. 27844; Cass. 10 novembre 2008 n. 26920; Cass. 9 marzo 2004 n. 4771). Il comportamento del lavoratore, prosegue la corte non viola neanche il principio di buona fede ex art. 1460 c.c. poiché, nonostante lo stesso, abbia contestato ab origine, la legittimità del trasferimento ed il carattere deteriore delle nuove mansioni assegnategli, provvide a lavorare nella nuova sede per circa un mese, allorquando, per la ritenuta e poi giudizialmente accertata insussistenza delle ragioni poste a base

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del trasferimento e della lamentata dequalificazione professionale, si rifiutò di proseguire la sua opera presso il nuovo stabilimento, mettendosi a disposizione della datrice di lavoro per lo svolgimento di mansioni professionalmente equivalenti alla qualifica posseduta. Infine, il trasferimento è comunque da ritenersi illegittimo stante la mancata prova da parte del datore di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive; conseguentemente il comportamento del lavoratore appare essere giustificato e, il licenziamento dunque, da considerarsi illegittimo. 4 Aprile 2012 Di Massima Di Paolo

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Srl a 1 euro per gli under 35, pronta la bozza Pronto lo statuto della società per i giovani. Il ministero della Giustizia ha messo a punto la bozza di atto costitutivo, ancora soggetta agli ultimi cambiamenti come al concerto con il ministero dell'Economia, che rappresenta uno dei passaggi chiave, il principale probabilmente, della fase applicativa di una delle principali novità introdotte nell'ambito del decreto legge liberalizzazioni. A mancare sono ancora i criteri di accertamento delle qualità soggettive dei soci. Tra queste ultime, ovviamente, l'elemento qualificante di tutta l'operazione e cioè l'età dei soci. Perché le normativa, introdotta per favorire lo sviluppo dell'imprenditoria giovanile, istituisce un profilo di società a capitalizzazione zero, basta un euro per la costituzione, e a compagine sociale con un tetto rigido di età. Per poterla costituire, infatti, i soci non devono avere più di 35 anni, elemento che poi figura espressamente anche nella bozza di statuto. Una posizione di favore, quella assunta dal legislatore, che si riflette poi anche nelle modalità di costituzione che vedono l'esenzione dai diritti di bollo e di segreteria e l'assenza del pagamento di qualsiasi onere al notaio. Resta infatti l'obbligo di costituzione attraverso atto pubblico, dopo qualche tentennamento sulla possibilità di una semplice scrittura privata. Al consiglio del notariato, peraltro, spetta un compito sia di vigilanza sulla corretta applicazione della normativa sia sul monitoraggio degli esiti, che dovranno essere pubblicati periodicamente sul sito istituzionale della categoria. La bozza di statuto, tengono a sottolineare al ministero della Giustizia, ha assunto una fisionomia "minimalista" sulla base dalla considerazione per cui norme regolamentari non possono adottare opzioni che la disciplina primaria riserva all'autonomia privata. Quindi per quello che lo statuto non dice valgono le normali misure disposte dal Codice civile. Massimo spazio così, per quanto non scritto esplicitamente, alla libertà di scelta dei soci per quanto riguarda le forme di amministrazione e controllo, a patto però che la figura dell'amministratore sia sempre ricoperta da un socio. In ogni caso, si chiarisce che il capitale deve essere interamente versato nelle mani degli amministratori e non in banca, come avviene normalmente per tutte le società di capitali. Il paletto anagrafico è assolutamente stringente ed esclude in maniera definitiva sia le persone fisiche con un'età superiore a 35 anni, anche se non vengono chiarite le conseguenze del venire meno della condizione anagrafica nel caso del singolo socio (cancellazione automatica?) oppure nel caso della società, sia le persone giuridiche siano esse società, associazioni o fondazioni. Il risparmio complessivo per i giovani imprenditori potrebbe aggirarsi intorno ai 14mila euro, tra diminuzione secca del capitale sociale minimo necessario (il Codice civile lo aveva fissato sino a 10mila euro senza distinzione tra tipologie di srl) e onorari da versare al notaio (fra i 3mila e i 4mila euro). Non sono invece previste forme specifiche di agevolazione fiscale al di là di quelle previste al momento della costituzione. Naturalmente resta aperto invece il dubbio, ma a chiarirlo potrà essere solo il tempo, sull'efficacia della misura. Incertezza rafforzata alla luce anche delle incertezza che, nell'era del credit crunch, che non possono non investire, sul piano della disponibilità degli investitori, una forma societaria che può anche non offrire praticamente garanzie minime sul piano patrimoniale. 30 marzo 2012

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02 Aprile 2012

Il Lavoro interinale dopo l’adeguamento alla direttiva 2008/104/CE Il contratto di somministrazione lavoro (lavoro interinale), dopo le modifiche apportate dal d.lg. 24/2012 in recepimento della direttiva UE 104/2008 Lo scorso 22 marzo è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale nr 69, il testo del d.lgs. nr. 24/2012, sulla somministrazione lavoro, recante, “Attuazione della direttiva 2008/104/CE, relativa al lavoro tramite agenzia interinale”. Avevamo già accennato, a grandi linee, il contenuto del provvedimento. Vediamolo ora nel dettaglio. A mente dell’art 1 del decreto, questo provvedimento riguarda tutti i lavoratori a tempo determinato ed indeterminato dipendenti dalle agenzie di somministrazione di cui all’articolo 4, comma 1, lettere a) e b), del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276. I contratti collettivi nazionali, stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative dei lavoratori e dei datori di lavoro, possono applicare o introdurre disposizioni più favorevoli per i lavoratori di quelle previste dal presente decreto. In merito all’iscrizione delle agenzie per il lavoro all’Albo informatico di cui all’articolo 4 del decreto, nonché in ordine al possesso dei requisiti giuridici e finanziari di cui all’articolo 5 del medesimo decreto, restano valide le diposizioni fissate dal d.lgs. 276/2003. Definizione di contratto di somministrazione lavoro (art. 2) L’art 2, sostituisce la definizione contenuta nel d.lgs. 276/2003 (sempre all’art.2) di “somministrazione lavoro”; ora si parla chiaramente di “contratto di somministrazione lavoro” inteso come “il contratto avente ad oggetto la fornitura professionale di manodopera, a tempo indeterminato o a termine, ai sensi dell’articolo 20”. Si da, con l’aggiunta del punto a-bis all’art 2 del d.lgs. 276/2003, una definizione di “missione” inteso come il periodo durante il quale, nell’ambito di un contratto di somministrazione di lavoro, il lavoratore dipendente da un’agenzia di somministrazione di cui all’articolo 4, comma 1, lettere a) e b), è messo a disposizione di un utilizzatore di cui all’articolo 20, comma 1, e opera sotto il controllo e la direzione dello stesso. Anche le “ condizioni di base e di lavoro” e, il concetto di “occupazione” sono puntualmente definiti dalla lettere a-ter dell’art 2 del decreto in questione. Si fa riferimento al “trattamento economico, normativo e occupazionale previsto da disposizioni legislative, regolamentari e amministrative, da contratti collettivi o da altre disposizioni vincolanti di portata generale in vigore presso un utilizzatore,ivi comprese quelle relative: 1) all’orario di lavoro, le ore di lavoro straordinario, le pause, i periodi di riposo, il lavoro notturno, le ferie e i giorni festivi; 2) alla retribuzione; 3) alla protezione delle donne in stato di gravidanza e i in periodo di allattamento, nonché la protezione di bambini e giovani; la parità di trattamento fra uomo e donna, nonché altre disposizioni in materia di non discriminazione”. Sanzioni (art.3) L’art 3 del d.lgs. 24/2012, modifica l’art 18 del d.lgs 276/2003 in tema di sanzioni, aggiungendo il comma 3-bis con il quale si puniscono le violazioni in tema di trattamento economico inferiore a quello dei

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dipendenti di pari livello dell’utilizzatore e con le medesime mansioni. La sanzione valevole sia per l’utilizzatore che per il somministratore è una sanzione amministrativa compresa tra 250 e 1250 euro. Inoltre si aggiunge il comma 4-bis secondo cui: “Fatte salve le ipotesi di cui all’articolo 11, comma 2, è punito con la sanzione penale prevista dal comma 4,(ossia con la pena alternativa dell’arresto non superiore ad un anno e dell’ammenda da Euro 2.500 a Euro 6.000), chi esige o comunque percepisce compensi da parte del lavoratore in cambio di un’assunzione presso un utilizzatore ovvero per l’ipotesi di stipulazione di un contratto di lavoro o avvio di un rapporto di lavoro con l’utilizzatore dopo una missione presso quest’ultimo. In queste ipotesi, in aggiunta alla sanzione penale è disposta anche la cancellazione dall’albo. Si fa salvo l’art 11 comma 2 dove si stabilisce che il divieto di percezione di compensi non trova applicazione per specifiche categorie di lavoratori altamente professionalizzati o per specifici servizi offerti dai soggetti autorizzati o accreditati, previa autorizzazione della contrattazione collettiva. Condizioni di liceità (Art. 4) l’art 4, modifica alcuni punti dell’art 20 del d.lgs 276/2003, riguardanti, appunto, le cd. condizioni i lecita del contratto di somministrazione. A parte le modifiche terminologiche derivante dalle modifiche introdotte dall’art 2, viene introdotto il comma 5-ter. Una breve premessa: il comma 4 dell’art 20, consente l’utilizzo della somministrazione di lavoro a tempo determinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, anche se riferibili all’ordinaria attività dell’utilizzatore, con la individuazione, di limiti quantitativi di utilizzazione della somministrazione a tempo determinato da parte dei contratti collettivi. Orbene, il comma 5-ter, dispone che la causale non è obbligatoria qualora il contratto di somministrazione preveda l’utilizzo: a) di soggetti disoccupati percettori dell’indennità ordinaria di disoccupazione non agricola con requisiti normali o ridotti, da almeno sei mesi; b) di soggetti comunque percettori di ammortizzatori sociali, anche in deroga, da almeno sei mesi. Resta comunque fermo quanto previsto dei commi 4 e 5 dell’articolo 8 del decreto-legge 21 marzo 1988, n. 86, convertito, con modificazioni, dalla legge 20 maggio 1988, n. 160; c) di lavoratori definiti “svantaggiati” o “molto svantaggiati” ai sensi dei numeri 18) e 19) dell’articolo 2 del regolamento (CE) n. 800/2008 della Commissione, del 6 agosto 2008. “Le disposizioni di cui al primo periodo del comma 4 non operano nelle ulteriori ipotesi individuate dai contratti collettivi nazionali, territoriali ed aziendali stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative dei lavoratori e dei datori di lavoro”. Art.6 Si inserisce il comma 3-bis all’art 22 del decreto (disciplina del rapporto di lavoro. L’art 22, disciplina il caso di somministrazione a tempo indeterminato stabilendo che i rapporti di lavoro tra somministratore e prestatori di lavoro sono soggetti alla disciplina generale dei rapporti di lavoro di cui al codice civile e alle leggi speciali. Il nuovo comma 3-bis dispone che:” Le assunzioni a tempo indeterminato e a tempo determinato, ai sensi del presente articolo, possono essere effettuate anche con rapporto di lavoro a tempo parziale. In tale caso, trova applicazione il decreto legislativo 25 febbraio 2000, n. 61, e successive modificazioni, in quanto compatibile con le disposizioni del presente decreto.» Tutela economica e normativa per i somministrati (Art. 7)

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Si modifica l’art 23 del decreto; il nuovo comma 1 stabilisce che:«Per tutta la durata della missione presso un utilizzatore, i lavoratori dipendenti dal somministratore hanno diritto a condizioni di base di lavoro e d’occupazione complessivamente non inferiori a quelle dei dipendenti di pari livello dell’utilizzatore, a parità di mansioni svolte.” E’ introdotto il comma 7-bis sull’Obbligo di informazione sui posti vaganti: I lavoratori dipendenti dal somministratore sono informati dall’utilizzatore dei posti vacanti presso quest’ultimo, affinché possano aspirare, al pari dei dipendenti del medesimo utilizzatore, a ricoprire posti di lavoro a tempo indeterminato. Tali informazioni possono essere fornite mediante un avviso generale opportunamente affisso all’interno dei locali dell’utilizzatore presso il quale e sotto il cui controllo detti lavoratori prestano la loro opera. Infine ulteriori modifiche al comma 8, che sono solo di lessico: «In caso di somministrazione di lavoro a tempo determinato» sono soppresse e le parole: «al termine del contratto di somministrazione» sono sostituite dalle seguenti: «al termine della sua missione”. L’ultimo articolo del decreto, l’art 8, è la Clausola di invarianza finanziaria che prevede che,dall’attuazione del presente decreto non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.

Di Massima Di Paolo