APPRENDIMENTO E DSA - Alice Gargiulo€¦ · Con l’obiettivo di comprendere il mio lavoro di...

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POSSIBILI SVILUPPI TRA RIGORE E CREATIVITÀ ALICE GARGIULO APPRENDIMENTO E DSA

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P O S S I B I L I S V I L U P P I T R AR I G O R E E C R E A T I V I T À

A L I C E G A R G I U L O

APPRENDIMENTO E DSA

P R E M E S S AL A M I A I D E A

La scelta dell’argomento di questo

lavoro viene da una esperienza

direttamente vissuta di “difficoltà a

leggere” il contesto in cui da alcuni

anni lavoro come psicologa. Forse

un vero e proprio caso di “dislessia

professionale”.

Facciamo un passo indietro: ancor

prima della laurea ho avuto la

possibilità di entrare in contatto con

un gruppo di lavoro napoletano che

si occupa della diagnosi e del

trattamento dei Disturbi Specifici di

Apprendimento, e più in generale di

apprendimento e degli aspetti

neuropsicologici (A.N.D.A.). 

I L M I OI N C O N T R OC O N I D S A

Ho iniziato a collaborare con

l'équipe in qualità di tirocinante,

osservando e apprendendo nozioni

teoriche, modalità diagnostiche,

cliniche e abilitative in chiave

neuropsicologica. 

In un certo senso ho costruito una

mia mappa, elaborata anche sulla

base di esperienze pregresse, teorie

ingenue e scientifiche apprese nella

vita e all’università.

Ho imparato a leggere il territorio

dell’apprendimento e delle difficoltà

di apprendimento con quella

mappa.

Quando mi sono sentita

sufficientemente pronta ad

avventurarmi in questo territorio, ho

iniziato a lavorare come Tutor DSA. 

In questa veste, ho iniziato a seguire alcuni bambini e ragazzi nei compiti a casa e nel

potenziamento delle caratteristiche basali dell’apprendimento: lettura, scrittura, calcolo,

attenzione, memoria e metodo di studio.

Il mio “compito” è quello di lavorare con loro, tenendo conto degli aspetti del funzionamento

neuropsicologico messi in evidenza nel percorso diagnostico, per rafforzare le componenti

basali degli apprendimenti e organizzare l’attività didattica in modo da favorire

l’apprendimento (attraverso anche l’uso di strumenti compensativi) e l’impegno nei compiti. 

Ogni tanto ho dovuto aggiungere nuove conoscenze, ampliare la mia mappa, ma tutto

sommato essa mi permetteva di leggere le realtà che vivevo e di orientarmi nel mio lavoro.

Dopo circa due anni e mezzo ho deciso di iscrivermi all’I.I.P.R. e sono entrata in contatto con

una nuova “visione del mondo”, quella sistemica e quella dell'ecologia della mente, che ha

iniziato a farmi interrogare circa il mio modo di leggere la realtà, di apprendere, di

relazionarmi, di essere parte dei contesti.

Inizialmente ho iniziato a farmi domande sul mio lavoro di Tutor, sulle mie premesse ingenue

e scientifiche e sul mio modo di intendere l’apprendimento e il contesto dell’apprendimento.

Mi sono forse sentita “dislessica” nella relazione con i bambini che seguivo, nel senso che

entrando in un nuovo contesto (la scuola di specializzazione), dove mi venivano proposti

nuovi punti di vista, sentivo di non riuscire più a leggere chiaramente il contesto dell’attività

didattica con quella mappa. “Improvvisamente” la mia mappa non mi bastava più. 

L’inizio della scuola ha rappresentato per me, sempre rimanendo nella metafora, l’inizio

della prima elementare e la scoperta di una qualche “difficoltà di lettura”.

Come tutti i processi, specialmente quelli riguardanti la rilevazione e la gestione di difficoltà,

anche il mio è durato un po’. È iniziato senza che io ne avessi molta consapevolezza, poi pian

piano è stato per me possibile esplicitarlo.

Stocasticamente parlando, la freccia (l’idea) che ha colpito il bersaglio è stata: provare a

cercare la “struttura che connette” il mio lavoro di tutor con il mio essere una psicologa-

psicoterapeuta sistemica, provare a tenere insieme e non a separare.

Da subito mi è sembrato un obiettivo ambizioso, che mi ha spaventato. Ho pensato di non

essere in grado di farlo e il solo pensiero di addentrarmi nello studio della teoria batesoniana

e della psicologia ecologica e in un’eventuale, seppur minima, rielaborazione di alcuni

concetti mi sembrava un’impresa impossibile.

Forse, mi sono detta, è quello che capita ai bambini con DSA quando iniziano a leggere,

scrivere o far di conto. Eppure ho percorso la strada. Non so precisamente cosa mi abbia

aiutato a percorrerla. 

Fondamentale è stato il sostegno nei miei didatti, che mi hanno rassicurata e mi hanno

invitato ad affrontare questa strada partendo da me e tenendo conto dei miei limiti.

Mi ha molto aiutata il confronto quotidiano con i bambini e i ragazzi, i quali mi offrono

l’esempio di come è possibile percorrere anche strade che sembrano impraticabili. Forse è in

parte merito della mia curiosità e del mio desiderio di sollevare delle domande, che

rappresentano per me un’occasione di crescita e arricchimento professionale.

Probabilmente sono tutti questi aspetti che insieme mi hanno portato a decidere di scrivere

questo elaborato, in occasione del passaggio al secondo biennio della specializzazione. Non

so dove mi porterà, so che è pieno di domande più che di risposte.

Ho provato a percorrere questa via, non preoccupandomi solo degli esiti, ma facendo

attenzione al processo.  A percorrerla lasciandomi guidare dalle parole, tratte da una poesia

di Costantino Kavafis: 

“Quando ti metterai in viaggio per Itaca devi augurarti che la strada sia lunga, fertile inavventure e in esperienze. […] E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso. Fattoormai savio, con tutta la tua esperienza addosso già tu avrai capito ciò che Itaca vuolesignificare”.

INTRODUZIONE Con l’obiettivo di comprendere il mio lavoro di tutor DSA da una nuova prospettiva, quella

sistemico-relazionale ed ecologica, e di integrare aspetti differenti della mia formazione e

pratica professionale, sono partita dalla teoria di Bateson sull’apprendimento.

Con la preziosa guida dei testi del professore Giovanni Madonna (2010, 2013) e della

professoressa Rosalba Conserva (2000, 2013), ho tentato, nel primo capitolo, di ripercorrere

la teoria batesoniana in riferimento al contesto scolastico.

Ho poi cercato, nel secondo capitolo, di approfondire le caratteristiche dei DSA e le

difficoltà che gli alunni trovano nel percorso di apprendimento, rispetto alle richieste che

vengono fatte loro, nonché le difficoltà nell’adattamento al contesto scolastico e nella

costruzione di un’immagine di sé positiva.

Nel fare questo ho preso in considerazione un aspetto importante del processo di

apprendimento, che è la relazione adulto-alunno, analizzandone possibili esiti creativi e

patologici.

Infine, nel terzo capitolo, ho cercato di riflettere sul contesto ri-abilitativo, e in particolare sul

lavoro di tutor, provando a metterne in evidenza limiti e risorse; nonché sulla possibilità di

dar spazio nella relazione tutor-bambino all’espressione creativa dell’alunno e di sé, intesa

come possibilità di elaborare modalità creative di adattamento al contesto di apprendimento

(abilitativo e scolastico).  

RINGRAZIAMENTI La creazione di questo e-book è stata possibile grazie a tante persone che ho incontrato

sulla mia strada: a quelle che mi hanno accompagnato per un tratto, a quelle che ho al mio

fianco da sempre e a quelle con le quali ho l'impegno quotidiano di costruire un cammino

insieme.

Ringrazio innanzitutto i bambini e le bambine che ho incontrato nel mio lavoro di tutoraggio:

la relazione con loro mi ha insegnato più di qualsiasi libro; l'équipe dell'ANDA, che mi ha

permesso di avvicinarmi al mondo dei DSA e con generosità ha condiviso con me

conoscenza ed esperienza; i didatti dell'IIPR, che mi hanno accompagnato nella formazione

e nella stesura di questo elaborato, in particolare Giovanni Madonna e Chiara Cicala.

Ringrazio mio marito, Riccardo, e la mia famiglia, senza i quali non potrei essere dove sono. 

C A P I T O L O 1L ’ A P P R E N D I M E N T O ( AS C U O L A ) I N C H I A V EE C O L O G I C A

Per poter riflettere

sull’apprendimento, “serve una

teoria: nel nostro caso, una teoria

generale dell’apprendimento, la

quale dia conto anche dell’imparare

a scuola” (Conserva, 2000, p. 1).

La teoria cui si fa riferimento in

questo e-book, è quella che

Gregory Bateson ha presentato nel

saggio ‘Le categorie logiche

dell’apprendimento e della

comunicazione’ (1964). In tale

occasione, Bateson ha illuminato “il

concetto di apprendimento con la

teoria dei Tipi logici di Russell” e ha

descritto “vari ordini di

apprendimento: l’Apprendimento 0,

l’Apprendimento 1, l’Apprendimento

2 e l’Apprendimento 3” (Madonna,

2010, p. 229). 

U N A   C H I A V E D IL E T T U R A

Quella proposta da Bateson è una

gerarchia di ordini di

apprendimento in cui ogni livello è

in relazione con quello precedente

e ne rappresenta il cambiamento.

Bateson “non parla mai, nei suoi

esempi, di apprendimento

scolastico” (Conserva, 2000, p. 1) e

tuttavia il suo modello ci consente

di guardare all’apprendimento a

scuola con una nuova e interessante

chiave di lettura.

Pensando all’apprendimento spesso

viene da pensare alla scuola e

tuttavia un bambino venendo al

mondo porta con sé apprendimenti

già strutturati ed “è predisposto

 ad apprendere gran parte delle cose che gli adulti sanno e sanno fare” (Conserva, 2013,

p.7). Il bambino ha quindi una predisposizione biologica che influenza i successivi

apprendimenti.

Essa permette il passaggio dalla ricezione di informazioni all’apprendimento e consiste nella

capacità di “cogliere (nel tempo e nello spazio) e codificare la differenza percepita”

(Conserva, 2013, p. 4) e la somiglianza percepita (Madonna, 2010), cioè di selezionare e dare

significato ad alcune delle informazioni del flusso degli eventi continuo ed evanescente di

cui si è parte.

Tuttavia, anche l’apprendimento è un processo continuo e perché esso permanga nel

tempo e la nuova ‘forma’ duri di più rispetto alle sue possibili alternative, occorre che il

contesto si ripeta. Inoltre, “l’apprendimento è condizionato anche e soprattutto dalla natura e

dalla qualità del contesto stesso, dalla qualità e dalla natura delle persone coinvolte, e dai

loro rapporti di relazione” (Ibidem, p. 9).

Il bambino quindi, quando arriva in prima elementare, ha già alle spalle tanti e fondamentali

apprendimenti, come nozioni esplicite e premesse cognitive implicite, che si sono

sedimentati sulla base della sua predisposizione e nella ripetizione di esperienze significative

nel contesto familiare, nel contesto sociale, nel contesto della scuola.

Il bambino è portatore di un’epistemologia (nota 1) individuale, ed essendo un organismo

vivente e non una “macchina banale” (von Foerster, 1987), oppone resistenza al tentativo

degli insegnanti (e dei genitori) “di replicare il loro modo di valori e le loro abitudini di

pensiero”. “Oppone resistenza per il semplice fatto che cresce e quindi apprende e quindi

cambia (tende a cambiare) se stesso e gli schemi interpretativi che gli vengono imposti”

(Ibidem p. 9).

Inoltre, l’apprendimento, che avviene sempre in un contesto comunicativo tra esterno e

interno, ‘cambia’ l’individuo, ma cambia anche il contesto, “il quale richiede – a un più alto

livello e in un tempo successivo – che l’individuo apprenda ancora” (Conserva, 2013, p. 3).

 “Il processo dell’apprendimento che riguarda il singolo individuo”, anche quello che avviene

a scuola, “ è infatti organizzato per livelli sia ricorsivi che gerarchici” (Ibidem, p. 4). Ciò significa

anche che per apprendere contenuti più complessi (es. calcolo algebrico), occorre

apprendere prima nozioni più semplici (es. calcolo aritmetico) per poi acquisire, in un livello

superiore, la capacità di combinare i due apprendimenti (es. combinazioni dei due calcoli) e

anche la capacità di apprendere ad argomentare su ciò che si è appreso (Ibidem).

Tale processo nell’ambito scolastico si focalizza soprattutto su ‘oggetti esterni’ ed “ è

fondato sulla ripetizione meccanica di contenuti e di procedure (sull’esercizio), e su

procedimenti euristici e di risoluzione dei problemi per tentativi ed errori” (Ibidem, p. 9).

 Inoltre, anche se la scuola contemporanea è più aperta alle differenze individuali e al

rispetto delle diverse modalità di apprendimento, offrendo una didattica individualizzata

(nota 2), essa continua a basarsi sull’idea che l’istruzione possa essere programmata e che i

programmi possano valere per tutti.

Continua, quindi, a incontrare il problema di dover coniugare la necessità di prendere in

considerazione la storia di ciascun alunno, con la necessità di insegnare a tutti le ‘stesse’

cose, negli ‘stessi’ tempi, e di mettere tutti nella condizione di raggiungere gli ‘stessi’ risultati

(Ibidem).

Questi sono obiettivi perseguibili solo in teoria; in pratica, nella realtà scolastica accade che

molti bambini apprendano in modo differente, in tempi differenti (Ibidem).

Tale “pluralità dei percorsi e dello stile di conoscenza” (Conserva, 2013, p. 16), l’individualità

dell’alunno e le possibilità che emergono nella relazione dell’insegnante con ciascun

bambino, andrebbero prese in considerazione e considerate come componente altrettanto

importante dell’apprendimento.

Tali elementi fanno parte della componente casuale, aleatoria, “immaginativa” del processo

(stocastico) di apprendimento/insegnamento. Essa è fondamentale tanto quanto la

componente selettivo/conservativa, che corrisponde al “rigore”, alla natura prescrittiva e

formale dell’apprendimento/insegnamento scolastico.  

 La componente aleatoria si manifesta nella relazione tra organismo e ambiente, che offre

degli stimoli e sollecita nuovi apprendimenti; la componente conservativa potrebbe essere

descritta come un filtro critico, che compara i nuovi e i vecchi apprendimenti e modula

l’eccesso di creatività. La prima, senza la seconda, porterebbe a un’immaginazione priva di

forma e rigore; la seconda, senza la prima porterebbe alla banalizzazione delle persone (von

Foerster, 1987) e alla omologazione degli studenti (Conserva, 2013).

“Il superamento di tale contraddizione non comporta necessariamente la scelta di una sola

strada […]: è molto spesso “una uscita creativa” non descrivibile del tutto, quanto meno non

in una descrizione programmatica e ‘oggettiva’” (Conserva, 2013, p. 16).

Tenendo conto di questi aspetti che caratterizzano il contesto scolastico, si proverà ad

analizzare i diversi livelli dell’apprendimento proposti da Bateson (1964) in relazione alla

scuola.

L'APPRENDIMENTO ZERO “L’apprendimento 0 è il caso della specificità della risposta che, giusta o sbagliata che sia,

non è suscettibile di correzione” (Madonna, 2010, p. 230). È il caso della ricezione di

informazioni che si verifica quando un organismo risponde a uno stimolo (in un istante 2)

nella maniera in cui aveva risposto precedentemente (in un istante 1).

Madonna (2010) propone un elenco non esaustivo di fenomeni che rientrano in questo ordine

di apprendimento. Il primo fenomeno è l’apprendimento già consolidato, che avviene

quando chi apprende in una situazione dà il 100% di risposte esatte.

Un esempio è il cane che impara a discriminare tra un cerchio e un'ellisse e non sbaglia mai

la risposta. Questo esempio potrebbe essere calato nel contesto scolastico in riferimento a

un bambino che frequenta la prima elementare e che impara a riconoscere le forme

geometriche o a differenziare tra la scrittura di nomi propri e di nomi comuni, e non faccia

errori. 

Un altro tipo di Apprendimento 0 è quello che si verifica quando le risposte del soggetto che

apprende sono in massima parte determinate da fattori genetici: ne è esempio un

uccello che agli stimoli ambientali tipici della primavera risponda ogni anno con l’avvio di un

rituale di corteggiamento. Forse quello di un bambino che apprende sulla base della propria

disposizione biologica a trasformare l’informazione in apprendimento.

L’Apprendimento 0 “non modifica colui che apprende” e “in ambito scolastico, diremmo che

A. zero è l’acquisizione di nozioni elementari ed esplicite, compresi gli automatismi”

(Conserva, 2000, p. 1). Si tratta di nozioni e automatismi che non modificano altre variabili, 

come il carattere della persona che apprende o il suo stile di apprendimento, e che hanno lo

stesso significato nelle diverse situazioni che la persona vive.  In altri termini,

l’Apprendimento 0 riguarda tutte quelle nozioni che sono stabili nel tempo e non sono

suscettibili di correzioni o vengono vissute come tali.

Ne sono esempi ulteriori l’apprendere a dividere le parole in sillabe, apprendere la data di un

evento storico, apprendere una formula matematica. Tutti esempi di apprendimento in cui

“la causa (lo stimolo) è direttamente, linearmente, legata all’effetto (la risposta)” (Ibidem, p. 4).

L'APPRENDIMENTO UNO “L’Apprendimento 1 è il caso del cambiamento nella specificità della risposta mediante la

correzione dell’alternativa scelta all’interno di un certo insieme” (Madonna, 2010, p. 231) e

avviene quando un organismo risponde (in un istante 2) in modo diverso rispetto a come

aveva risposto precedentemente (istante 1) allo stesso stimolo.

Come esempio di Apprendimento 1 Madonna (2010) riporta il fenomeno dell’assuefazione e

più precisamente il momento in cui essa si realizza. Ovvero quando un “organismo che

apprende, smette di rispondere a quello che prima era uno stimolo fastidioso” (Madonna,

2010, p. 231), come il verme che in un istante 1 si contrae a seguito di una stimolazione

elettrica e in un istante 2 smette di farlo.

Costituisce un altro esempio l’apprendimento strumentale: quando una persona che

apprende si muove per tentativi ed errori in un istante 1 e, in un istante 2, di fronte allo stesso

stimolo mette in atto un comportamento che prima non metteva in atto.

Ritornando all’ambito scolastico “chiameremo A.1 anche i procedimenti per tentativi ed

errori – la capacità di correggere un errore e di correggere il procedimento della correzione

- considerando che l’A.1 riguarda informazioni suscettibili di variazioni” (Conserva, 2000, p. 3).

Ne può forse essere un esempio quello di un bambino che, nello svolgere esercizi di calcolo

a mente, si muova per tentativi ed errori (ricorrendo al supporto delle dita o del calcolo

scritto), fin quando riesce a rispondere (correttamente) recuperando il fatto aritmetico. 

Un altro fenomeno che rientra nell’Apprendimento 1 è quello meccanico in cui, a seguito di

un comportamento, l’organismo che apprende mette in atto un altro comportamento che

prima non manifestava. “Ne rappresenta un esempio la circostanza in cui, in un’aula

scolastica, un bambino, in un istante 1 non declami il secondo verso di una poesia a seguito

della declamazione del primo verso e, in un istante 2, dopo un certo numero di ripetizioni, a

seguito della declamazione del primo verso declami il secondo” (Madonna, 2010, p. 232). Ne

può essere esempio anche l’annullamento o l’inibizione di apprendimento.

 L’Apprendimento 1 comporta un cambiamento ed è legato strettamente alla ripetibilità del

contesto, cioè alla possibilità di incontrare lo stesso stimolo nell’istante 1 e nell’istante 2 nel

medesimo contesto. “Gran parte dell’apprendimento scolastico è di questo tipo"

(Conserva, 2000, p. 2): un apprendimento che non viene solo acquisito ma che si configura

anche come cambiamento.

Perché ci sia Apprendimento 1 occorre, dunque, che il contesto si sia ripetuto più volte e si

sia mantenuto stabile entro un tempo necessario al bambino ad acquisire nuove

competenze. È possibile che tale contesto subisca delle variazioni non sostanziali e che in

esso si faccia ricorso a strategie differenti.

È auspicabile che nel contesto scolastico ci siano variazioni minime che tengano conto del

principio della massima gradualità e della minima variazione per fa sì che un bambino impari.

Un esempio è proprio quello della scrittura: si impara fisiologicamente (e si dovrebbe

insegnare) a scrivere con una gradualità che somiglia a quella del bambino che impara a

parlare e che riesce a gestire gradualmente lettere, sillabe, parole, frasi minime, frasi

complesse, brani (Stella e Grandi, 2012).

Le condizioni da allestire per far sì che l’allievo raggiunga un Apprendimento 1 sembrano

essere dunque la ripetibilità del contesto, il tempo e il rinforzo: si acquisiscono

informazioni, se ne riconoscono le caratteristiche, si impara a confrontare una certa

informazione con altre informazioni analoghe quando si è inseriti in un contesto che si ripete

identico (o senza variazioni eccessive) nel tempo.

Nel contesto scolastico ciò viene realizzato attraverso la ripetizione di esercizi meccanici e

ripetuti nel tempo (es. calcolo scritto, risoluzione di problemi, esercizi di grammatica ecc.). La

ripetizione permette (quando tutto va bene) il consolidamento dell’Apprendimento 1 e la

produzione della automatizzazione e della correttezza dell’apprendimento, generando

Apprendimento 0. 

Un altro elemento caratterizzante questo ordine di apprendimento è il confronto ripetuto

con altri contesti. È in virtù di tale confronto che il bambino impara a riconoscere le

differenze e ad acquisire elasticità e apertura, proprie della natura dell’apprendimento. 

Un bambino, ad esempio, imparerà a scrivere la parola sole con l’iniziale minuscola, ma la

scriverà con la maiuscola (Sole) quando, nel rispondere alle domande di scienze, si riferirà al

nome della stella. Il bambino dunque acquisisce un automatismo (differenza tra nomi propri

e nomi comuni), ma anche una flessibilità tale da apportare delle modifiche in base al

contesto (tema di italiano o domande di scienze).

Anche in questo ordine superiore di apprendimento (A.1) si generano automatismi. Ciò che

cambia, rispetto all’Apprendimento 0, è la “disposizione a ragionarci sopra, ad avere la

consapevolezza che si tratta di abitudini automatiche acquisite (quelle piuttosto che altre) in

un insieme di alternative” (Conserva, 2000, p. 3). 

Per acquisire e rendere stabile un automatismo occorre del tempo (e ogni alunno ha bisogno

di un tempo diverso) ma forse ne occorre di più per modificarlo. E dato che gli automatismi

possono risultare dannosi o poco convenienti, è necessario mantenere un certo grado di

flessibilità, che garantisce all’alunno la possibilità di riadattare l’apprendimento a situazioni

nuove.

Un’ulteriore differenza tra l’Apprendimento 0 e l’Apprendimento 1 è che in quest’ultimo il

processo non è lineare. Il processo è ricorsivo e circolare: una causa può diventare effetto

di qualcosa altro, una premessa al cambiamento di ordine superiore: l’Apprendimento 2.

Un esempio, riportato da Conserva (2000), è quello di un ragazzo, non interessato alla lettura,

che un giorno legge un libro per obbligo o per piacere (A.1): tale lettura potrebbe generare in

lui la predisposizione ad amare la lettura e configurarsi dunque come apprendimento di

ordine superiore, l’Apprendimento 2.

L'APPRENDIMENTO DUE “L’apprendimento 2 è il caso del cambiamento nel processo dell’Apprendimento 1”

(Madonna, 2010, p. 233). Esso, definito deuterapprendimento, può essere descritto, tenendo

conto principalmente dell’aspetto cognitivo, come “un cambiamento correttivo dell’insieme

di alternative entro il quale si effettua la scelta”. Tenendo conto prevalentemente degli

aspetti percettivi, invece, può essere descritto come “cambiamento nella segmentazione

della sequenza delle esperienze” (Madonna, 2013, p. 233).

Comunque lo si descriva, si tratta di un cambiamento che riguarda una intera classe di

situazioni e non una singola situazione. “Riguarda, più precisamente, l’acquisizione, da parte

del ricevente, della capacità di creare contesti”; “è un apprendimento di relazioni che si

realizza attraverso le relazioni” (Madonna, 2010, p. 234).

Questo tipo di apprendimento si realizza quando l’organismo acquisisce un’abitudine a

percepire e a pensare le esperienze, evidenziandone un certo tipo di significato piuttosto

che un altro (Bateson, 1972).

Tali abitudini possono essere considerate aspetti del carattere o tratti di personalità di un

individuo e buona parte di esse risale alla prima infanzia. Come esempi di Apprendimento 2

possiamo considerare, dunque, i tratti del carattere, il comportamento, i pre-giudizi, i modi di

interpretare la realtà, le rigidità e anche il proprio stile di apprendimento (Conserva, 2000). 

L’A.2 del soggetto, insieme agli eventi esterni, fa parte del contesto ed è regolato dal

precedente Apprendimento 2. Quindi il comportamento del soggetto, la sua visione del

mondo, può “plasmare il contesto globale fino ad adattarlo alla segmentazione voluta”

(Bateson, 1972, in Madonna 2010, p. 235).

Una caratteristica importante del contenuto dell’A.2 è infatti quella dell’autoconvalidazione:

le premesse acquisite sulla base dell’Apprendimento 2 danno forma all’interazione. E si

confermano nell’interazione. Per cui “l’apprendista stregone non rinuncia alla sua visione

magica degli eventi quando l’incantesimo non funziona” (Bateson, 1972, in Madonna 2010, p.

235), così come l’alunno non rinuncia alla sua visione della matematica (e del suo essere uno

studente che va bene in matematica) quando prende un cattivo voto.

In altri termini, l’Apprendimento 2 può essere descritto come l’aspettarsi che una certa

configurazione di contingenze, apprese in un certo contesto ripetuto, si presenti anche in

altri contesti.  Tali “aspettative” possono essere adattative quando si ha ragione di aspettarsi

quella configurazione o disadattative, quando si ha torto. L’A.2 non ha infatti la funzione di 

consentire l’adattamento alle situazioni, ma quella di realizzare una preziosa “economia nei

processi di pensiero (o canali neuronici) che vengono usati per risolvere problemi, o

Apprendimento 1” (Bateson, 1972, p. 350).  Se l’abitudine (a segmentare gli eventi o a dare

forma a un’interazione) è adattativa, l’A.1 viene favorito dall’A.2, se è disadattativa l’A.1 può

essere ostacolato o ritardato.

Tuttavia se è vero che l’A.2 può essere disadattativo, è pur vero che esso è costituito

dall’insieme degli apprendimenti che il soggetto seleziona nel tempo, “considerandoli per sé

vantaggiosi” (Conserva, 2000, p. 4). In qualche modo, quindi, l’A.2 è adattativo per il soggetto,

gli permette di adattarsi al contesto in cui apprende, anche se da un altro punto di vista il suo

comportamento può essere valutato come disadattativo.

Per un osservatore può essere più facile evidenziare la “smentita della giustezza” di un

comportamento di fronte a un evento. Per il soggetto, invece, quello stesso evento finirà per

confermare le sue previsioni circa l’adeguatezza della sua risposta.

Ad esempio, un ragazzo che ha difficoltà nella lettura potrebbe farsi un’idea negativa di sé

come lettore e della lettura e ciò potrebbe essere, a un livello, adattativo perché gli

consentirebbe di dedicarsi a qualcosa in cui si sente più capace (es. sport), ma a un altro

livello, potrebbe essere per lui disadattativo poiché tale abitudine a pensare potrebbe

impedirgli di scoprire il piacere della lettura (magari con l’aiuto della sintesi vocale), oltre che

la fatica. L’apprendere ad apprendere (l’A.2 per l’appunto) può essere quindi ‘meccanico’, e

tale che ‘migliora’ nel tempo” (Conserva, 2000, p. 4) pur quando è disadattativo. 

L'APPRENDIMENTO TRE “L’Apprendimento 3 è il caso del cambiamento nel processo dell’apprendimento 2, per

esempio un cambiamento correttivo del sistema degli insiemi di alternative entro cui

effettuare la scelta”. [...] Ovvero un cambiamento complessivo dell’io [...] una ristrutturazione

completa della personalità” (Madonna, 2010, p. 238).

In quanto tale, l’Apprendimento 3 è difficile e raro. Tuttavia l’organismo tende a provare il

cambiamento proprio dell’Apprendimento 3 e lo fa per superare i contrasti tra gli aspetti del

carattere che si generano a livello dell’Apprendimento 2.

Se la persona vi riesce, può imparare ad apprendere sull’Apprendimento 2 e dunque può

“migliorare la sua capacità di realizzare ulteriore Apprendimento 2 o di liberarsene”. In

entrambi i casi il suo io diventa più flessibile. Se la persona non vi riesce “ può andare

incontro a una patologia psichica” (Madonna, 2010, p. 238).

L’apprendimento 3 ha a che fare con il cambiamento della propria visione del mondo e

talvolta viene raggiunto in psicoterapia. Esso, dunque, non può facilmente essere pensato in

riferimento all’ambito scolastico.

E tuttavia, esso può essere legato alle esperienze che, nei processi di apprendimento,

stimolano la creatività e l’immaginazione. In esse vi possono essere le basi per un’uscita

creativa, che si avvicina all’A.3: “da un modo insolito, non stereotipato, non del tutto

intenzionale di rapportarsi al mondo, si giunge a guardare il mondo come non lo si è mai

guardato” (Conserva, 2000, p. 6).

IL CAPITOLO 1 IN PILLOLE

L'apprendimento due è un apprendimento di relazioni che si realizza

attraverso le relazioni.

Bateson (1964) parla di  una gerarchia di ordini di apprendimento in

cui ogni livello è in relazione con quello precedente ene rappresenta il cambiamento.

L'apprendimento uno

avviene quando un organismo risponde (in un istante2) in modo diverso (rispetto all'istante 1) allo stesso

stimolo.

L'apprendimento zero è l'apprendimento già consolidato,

quando il soggetto risponde allo stesso modonell'istante 1 e nell'istante 2.

L'apprendimento tre è un cambiamento complessivo dell'io,

è difficile e raro.

C A P I T O L O 2L ’ A P P R E N D I M E N T O D E G L I A L U N N I C O ND S A

I Disturbi Specifici di Apprendimento

sono disturbi di origine

neurobiologica, definiti dall’ICD-10

come “disturbi nei quali le modalità

normali di acquisizione delle abilità

scolastiche sono alterate già dalle

fasi iniziali dello sviluppo.

Essi non sono semplicemente una

conseguenza di una mancanza delle

opportunità di apprendere e non

sono dovuti a un trauma o a una

malattia cerebrale acquisita” (ICD-

10: International Statistical

Classification of Diseases and

Related Health Problems 10th

Revision).

Nei DSA rientrano la Dislessia

(disturbo di lettura), la Discalculia

(disturbo del calcolo), la

Disortografia e la Disgrafia (disturbi

della scrittura dal punto di vista

costruttivo ed esecutivo) (Stella e

Grandi, 2012).

U N AN U O V A M A P P A

Essi si basano sulla difficoltà di

automatizzazione dei processi di

lettura, scrittura e calcolo; processi

che non possono essere eseguiti in

modo veloce e accurato con il

minimo dispendio energetico.

Tali disturbi, dunque, non

interessano le abilità intellettive

globali, ma alcune specifiche abilità

che “possono riguardare anche altri

ambiti cognitivi come la memoria,

l’attenzione, la visuo-percezione, le

funzioni esecutive (ad esempio

questi studenti possono avere

difficoltà nell’imparare e ricordare

informazioni in sequenza come i

mesi dell’anno, i giorni della 

settimana, il conteggio all’indietro, procedimenti matematici)” (Valerio et al. 2013, p. 15). 

“Parlare di difficoltà specifica di apprendimento localizza il problema all’interno della

persona” (Stella e Grandi, 2012, p. 12) e ciò ha in sé il rischio di cadere in una di quelle che

Bateson definisce spiegazioni dormitive, ovvero spiegazioni “in cui ciò che è in una relazione

viene collocato in uno dei due termini della relazione, e l’intelletto si addormenta”, non riesce

ad accedere alla complessità di ciò che accade (Madonna 2013, p. 147).

Succede quando un insegnante o un genitore dice che l’alunno non apprende perché non è

motivato, o perché è svogliato. Ciò accade spesso nei confronti degli alunni con DSA e

accade anche spesso di considerare che le persone con DSA possano essere inadeguate in

alcuni contesti perché hanno un disturbo, finendo per non considerare il contesto e la

relazione tra la persona e il contesto.

In una visione che tenga conto non solo del soggetto, non possiamo dimenticare che le

difficoltà si manifestano, si consolidano o si delimitano, in relazione all’ambiente e alle

richieste che in esso vengono fatte al soggetto (Pollak, 2009). Le difficoltà di apprendimento,

infatti, diventano manifeste in sistemi educativi basati principalmente sulla valutazione delle

capacità di letto-scrittura.

Se vivessimo in una cultura basata sulla trasmissione orale o se il sistema educativo fosse

basato prevalentemente sull’arte, probabilmente i bambini con DSA non avrebbero difficoltà,

ma saremmo costretti a parlare di persone “DISartistiche”, per "coloro che hanno difficoltà

specifiche nel disegno” (Stella e Grandi, 2012, p. 13).

Seguendo fino all’estremo questo discorso potremmo tuttavia cadere in una differente, ma

ugualmente rischiosa, spiegazione dormitiva e collocare la causa del mancato

apprendimento dell’alunno nell'altro termine della relazione: nel contesto o nell’insegnante.

Sembra utile, dunque, guardare al processo di apprendimento dei bambini con DSA,

tenendo conto sia delle caratteristiche individuali dell’alunno (e anche dell’insegnante),

proprie della neurodiversità umana (Stella e Grandi, 2012), sia del contesto di

apprendimento; considerare che un soggetto che apprende è “immerso nell’ambiente e nel

tempo, in un processo comunicativo tra interno ed esterno” (Conserva, 2013, p. 2) ed è in

questa interazione che l’organismo cambia e cambia anche il contesto. 

Tuttavia, accade molto spesso che l’insegnante, pur essendo (in teoria) facilitato nel suo

ruolo da vari fattori (l’essere un organismo vivente sensibile alle relazioni, l’essere istruito e

l’essere competente circa l’apprendimento), non riesca a tener conto di questa complessità

e non abbia la sensibilità per cogliere “la natura di un apprendimento, dare un nome agli

 apprendimenti osservati e a mettere in atto correzioni adeguate: al contesto innanzitutto, il

quale comprende non solo chi propone percorsi di apprendimento ma anche il ‘carattere’ di

chi apprende” (Conserva, 2013, p. 9).

Le difficoltà riscontrate dalle persone con DSA in ambito scolastico, legate all’impossibilità

per molti di accedere a modalità flessibili e individualizzate di insegnamento, hanno reso

necessaria la promulgazione di una legge nel 2010. La legge 170/2010 ha tra le finalità

quelle di garantire il diritto all’istruzione, favorire il successo scolastico, ridurre i disagi

relazionali ed emozionali, preparare e supportare gli/le insegnanti. 

QUANDO L’A.1 E L’A.0 RISULTANODIFFICILI Tenendo conto di queste premesse sui DSA, e riprendendo la teoria batesoniana

sull’apprendimento, possiamo ipotizzare che la persona con DSA trovi difficoltà

nell’apprendimento 0 e nell’apprendimento 1, in relazione alle richieste che riceve.

Potremmo dire che il bambino con DSA trovi difficoltà nell’Apprendimento 0, o meglio nel

rispondere alle richieste circa l’acquisizione di nozioni elementari e automatismi (ne sono

esempi: usare le maiuscole per i nomi di città, memorizzare formule matematiche, date, fatti

aritmetici, tabelline, ecc.).

Il bambino dislessico, ad esempio, impara a leggere, magari anche in tempi non troppo

differenti dagli altri bambini, ma la lettura non diventa per lui (in tempi brevi) un automatismo.

“L’allievo dovrà leggere lettera per lettera e sarà quindi lento, si affaticherà e commetterà

errori” (Stella e Grandi, 2012, p. 15). 

Allo stesso modo, per il bambino discalculico, l’automatizzazione del calcolo e dunque

l’acquisizione di fatti aritmetici, cioè delle “combinazioni di numeri per le quali l’accesso al

risultato è diretto” (Stella e Grandi, 2012, p. 108), è molto più lenta e difficoltosa.

Sono esempi di fatti aritmetici le tabelline e i calcoli semplici: il bambino discalculico può

imparare a risolvere l’addizione (3+2 = 5), ma più difficilmente la sua risposta si basa sul

recupero di un fatto aritmetico (automatismo), piuttosto ogni qual volta si trova davanti

quella operazione (3+2) può rispondere svolgendo il calcolo.

Ciò probabilmente non vorrà dire che il bambino non ha appreso, ma che non riesce

facilmente ad accedere all’automatizzazione del processo e a quel momento in cui di

fronte allo stesso stimolo dà il 100% di risposte esatte in poco tempo. Egli non ha appreso, in

altri termini, secondo i tempi e le modalità (automatismo) che gli vengono richiesti perché

possa poi accedere a nuovi e più complessi apprendimenti.

Le difficoltà si manifestano anche nell’Apprendimento 1, o meglio nel rispondere alle

richieste e alle pretese di A.1. Ad esempio potrebbe risultare difficile per un bambino con

DSA apprendere a scrivere, ad addizionare, a pianificare un testo.

Per un bambino con DSA ancor più complessa potrebbe risultare la richiesta di flessibilità,

cioè del confronto tra contesti, che fa sì che l’apprendimento acquisito in un contesto possa

essere applicato per somiglianze e differenze in un altro contesto. Ad esempio, imparare a

scrivere la parola sole con l’iniziale maiuscola o minuscola, in base al compito che sta

svolgendo. Inoltre potrebbe risultare difficile imparare a correggere gli errori e il

procedimento della correzione (Conserva, 2000).

 Se non si tiene conto che nel caso dei DSA, la dis-abilità sta nell’automatizzazione, e che

dunque la mancata acquisizione dell’abilità (es. lettura) è dovuta alla mancanza dei

prerequisiti di base, risulta difficile allestire le condizioni perché un allievo apprenda e

stabilizzi routine di azioni in modo accurato. Automatismi che sono alla base della scrittura,

della lettura e del calcolo, e dunque di tutti gli ulteriori apprendimenti. 

Tenendo conto di questo aspetto, dobbiamo anche considerare che il principale metodo di

insegnamento utilizzato nelle scuole, ovvero “l’esposizione agli stimoli e l’allenamento, non

sortisce gli effetti attesi: il processo non diventa automatico” (Stella e Grandi, 2012, p. 11).

Quindi può succedere che un bambino continui ad avere le stesse difficoltà anche dopo

numerose ripetizioni di esercizi di lettura, calcolo o scrittura.

La difficoltà nell’automatizzazione e l'inefficacia dell’allenamento ben è evidenziata nelle

parole di questo genitore: “sono rimasto colpito soprattutto un giorno in cui, dopo aver scritto

una pagina di parole ripetute, girando il foglio Eleonora non si ricordava più come si scriveva

la parola che aveva scritto almeno venti volte. Sono andato su tutte le furie rimproverandola

per la scarsa attenzione, e, come al solito, è finita in lite e in pianti, ma poi ho cominciato a

pensare che dovevamo consultare qualcuno per capire se c’era qualche problema” (Stella,

2002, p. 58). Se consideriamo che:

▶ "l’automatizzazione rende disponibili attenzione e flessibilità per ulteriori apprendimenti”

(Madonna, 2013, p. 200);  

▶ in ogni passaggio di livello, la qualità dell’apprendimento è legata all’acquisizione di

automatismi;

▶ nel caso dell’apprendimento a scuola gli automatismi riguarderanno le quattro operazioni,

l’ordine del calcolo algebrico, il lessico e le strutture grammaticali del linguaggio verbale e

così via; 

▶ “gli automatismi sono necessari non soltanto per gli apprendimenti ‘di base’, ma anche e

forse di più per i livelli superiori” (Conserva, 2013, p. 5);

risulta evidente che comprendere cosa siano i DSA e ancor di più quali siano le

caratteristiche dello stile di apprendimento di ciascun allievo con DSA è fondamentale per

allestire le condizioni perché tali ordini di apprendimento siano possibili. 

Infatti, “gran parte dell’apprendimento scolastico è Apprendimento 1” (Conserva, 2000, p.

2), “che da un lato genera, quando è consolidato e produce il cento per cento di risposte

esatte, Apprendimento 0: l’informazione relativa al fatto che, per esempio, è (di nuovo) il

momento” di usare la lettera maiuscola; “dall’altro genera, quando si ripete nel tempo,

Apprendimento 2” (Madonna, 2010, p. 242). 

QUANDO L’A.2 È DISADATTIVO   La scuola pone attenzione prevalentemente alle acquisizioni programmabili e definite dai

programmi ministeriali. In altri termini, nella scuola l’attenzione è rivolta agli “oggetti esterni”

(es. risoluzione di un’addizione), la cui comprensione può più facilmente essere valutata

come corretta o come sbagliata.

Più difficile sembra cogliere l’Apprendimento 2, che può manifestarsi sempre in forme

differenti, ma che accompagna qualsiasi Apprendimento 1 dell’alunno. Esso emerge, ad

esempio, nella risoluzione di un esercizio e può riguardare lo stile di apprendimento, il

valore dato alla materia, le aspettative, gli esiti, le emozioni e così via (Conserva, 2000).

Dunque, anche se l’insegnante è generalmente preparato e orientato a lavorare sul

raggiungimento dell’Apprendimento 0 e 1, nel contesto scolastico di cui egli è parte, 

insieme all’alunno, allestisce le condizioni perché avvenga anche l’Apprendimento 2 e

dunque, una “parziale ristrutturazione del sé” dell’alunno (Conserva, 2013, p. 10 ). 

Gli insegnanti, infatti, nel proporre al bambino i contenuti del programma (A.1),

inconsapevolmente definiscono il contesto di apprendimento (basato sulla valutazione ad

esempio), adottano tipi di rinforzo (premi o punizioni) e modalità di somministrazione del

rinforzo (in modo coerente, imprevedibile ecc.), secondo il loro modo di essere e di pensare

(Madonna, 2013).

Sulla base delle modalità di rinforzo, i contesti di Apprendimento 1, quando ripetutamente

attraversati, possono produrre Apprendimento 2 cioè caratteristiche di personalità: ad

esempio, “una persona ‘sicura’ avrà probabilmente attraversato in maniera ripetuta contesti

di Apprendimento 1 in cui il premio era preferito alla punizione” (Madonna, 2013, p. 182). Allo

stesso modo, potremmo dire che una persona ‘insicura’ avrà probabilmente attraversato

contesti di A.1 in cui la punizione era preferita al premio.

 L’A.2 può rivelarsi adattativo per l’individuo quando l’alunno (e l’insegnante) riesce a

“sperimentare e confrontare differenti punti di vista, ricavandone criteri per mettere in atto

comportamenti adeguati ad altri nuovi contesti – pur mantenendo (e in armonia con) il suo

peculiare stile” (Conserva, 2013, p. 10).

Un alunno demotivato, ad esempio, potrebbe trarre beneficio nello studio allargando la sua

gamma di possibilità, mettendo un nuovo Apprendimento 2 accanto agli altri. Diventando ad

esempio anche interessato all’apprendimento oltre che demotivato.  L’Apprendimento 2 si

verifica nella relazione insegnante-alunno e proprio in virtù della significatività di tale

relazione, che è specializzata nella produzione di nuovi apprendimenti (0 e 1). Esso, quando è

adattativo al contesto, agevola l’Apprendimento 1 e 0. Si crea quindi un circolo virtuoso. 

Proprio perché “in ambito scolastico, l’A.2 non rientra in un programma, per meglio dire non

è programmabile”, “i modi di intervenire di un educatore sull’A.2 richiedono molta più

cautela”, la necessità di comprendere come ogni singolo alunno apprende e interpreta la

realtà, e l’adattamento degli interventi agli aspetti psicologici del singolo alunno.

Ciò aiuta l’insegnante “a tenere sempre aperta la relazione con lui” [...] “e a tener conto delle

diversità ‘caratteriali’ dei suoi studenti pur svolgendo per essi lo stesso programma”

(Conserva, 2000, p. 5).

L’A.2, quindi, può rivelarsi adattativo quando l’insegnante tiene conto della relazione con

l’alunno e mette in atto comportamenti per migliorare se stesso all’interno di quella

relazione, come essere coerente tra il pensare e l’agire, mandare messaggi appropriati al 

contesto, offrire una pluralità di contesti per sperimentare più punti di vista (Conserva, 2013).

 L’attenzione agli aspetti relazionali, non meno importanti dell’insegnamento degli ‘oggetti

esterni’, non è supportata spesso da una formazione adeguata dell’insegnante, non è una

competenza formalmente richiesta.  Piuttosto è lasciata alle caratteristiche personali, alla

sensibilità del docente, e non sempre avviene che la persona che insegna sia capace di

tenerne conto. Inoltre, spesso nelle scuole gli insegnanti non hanno la possibilità di accedere

a servizi di supporto psicologico. Può accadere che l’Apprendimento 2 risulti disadattivo

per l’individuo che apprende, e diventare fonte di disagio:

▶ quando le premesse iniziali del soggetto sono turbate e modificate oltre la soglia di

tollerabilità;

▶ quando l’insegnante si allontana dal suo compito di rendere possibile per ogni studente

l’A.1 e l’A.0, e si dedica all’A.2, programmandolo come se si trattasse di un altro livello di

apprendimento (es. far amare la lettura ai ragazzi attraverso l’esercizio);

▶ quando non si tiene conto di se stessi e della propria partecipazione al contesto e del fatto

che “la spiegazione di quel che accade è nell’incontro, nella relazione fra insegnante e

allievo” (Madonna, 2013, p. 148);

▶ quando non considera la relazione tra l’alunno (con le sue premesse epistemologiche), gli

oggetti dell’apprendimento e le richieste, e l'insegnante.

Nel caso di bambini con DSA (ma in sostanza di tutti gli studenti, se consideriamo i DSA

come espressione della diversità neurobiologica) questo potrebbe significare, come spesso

purtroppo accade, sia che l’insegnante non riesca ad adeguare le richieste didattiche (A.1 e

A.0) alle modalità e ai tempi dell’alunno, sia che non riesca a selezionare i messaggi da

rivolgere all’alunno in modo da tener presente la relazione e gli aspetti caratteriali propri e

dell’alunno. 

Un esempio su tutti di comunicazione disfunzionale è legata alla collocazione dell’errore

commesso dall’alunno dentro la sua persona (es. “sbagli perché sei svogliato”). E non nella

relazione tra l’allievo e la norma che sta apprendendo (es. “sbagli perché non concordi il

soggetto con il predicato”).

Nel primo caso, l’alunno sposta la sua attenzione “su un piano (la svagatezza) che rende la

correzione indecidibile (e forse impossibile almeno nell’immediato)” (Conserva, 2013, p. 9);

nel secondo caso l’attenzione dell’allievo è portata su un “dominio circoscritto di ciò che egli

potrebbe ragionevolmente correggere” (Conserva, 2013, p. 9). 

Un simile contesto di apprendimento, ripetuto nel tempo, potrebbe mettere l’alunno in una

condizione in cui sperimenta continui insuccessi, difficoltà nell’acquisizione di nozioni e

abilità (A.1 e A.0), spesso seguiti da rinforzi negativi e punizioni.

Attraversare l’insuccesso in modo ripetuto e soprattutto trovare nella propria svogliatezza la

causa del mancato apprendimento, può portare a una situazione paradossale: apprendere

di non essere capace di apprendere come gli altri e come vuole l’insegnante, e cioè

nell’unico modo ritenuto possibile.

Le parole di Gianluca, un ragazzo di 16 anni ben esprimono la sofferenza legata a una

situazione simile: “quando leggo non riesco a riconoscere bene le parole e così faccio fatica

a capire quello che c’è scritto. Io lo so che sono dislessico, ma gli altri non ci credono. Gli

insegnanti dicono che non ho voglia ed è vero che io non ho più voglia, ma io ho provato a

imparare a leggere come gli altri ma non ci sono riuscito e non ci riesco” (Stella, 2002, p. 64).

L’abitudine a pensare e percepire il proprio comportamento e le proprie capacità di

apprendimento come fallimentari, se ripetuta nel tempo, in diversi contesti (es. in diverse

relazioni, ordini di scuola, materie scolastiche ecc.) può contribuire a ristrutturare le

‘premesse epistemologiche’ del soggetto che apprende.

Egli, sulla base delle nuove abitudini, si aspetta di ripetere l’esperienza di fallimento in altri

contesti e tende a confermare le sue pre-conoscenze e le sue previsioni (anche quando

esse vengono smentite agli occhi di un osservatore). Tale A.2 può diventare terreno fertile

per l’abbandono scolastico, per il disinteresse dell’alunno e per manifestazioni

psicopatologiche secondarie ai DSA (ansia, fobia scolare, disturbi del comportamento,

disturbi psicosomatici ecc.).

“Le persone con DSA incontrano numerose difficoltà nella loro storia scolastica e nella vita,

con effetti a volte importanti sugli apprendimenti, che possono portare a situazioni critiche a

livello psicologico, quali un sé scolastico negativo. Da ciò conseguono un basso livello di

autoefficacia, bassa motivazione, scarsa fiducia in sé e disistima” (Stella e Grandi, 2012, p. 11). 

ESITO CREATIVO O PATOLOGICO?  Le situazioni di cui si è parlato potrebbero essere descritte anche come incontro tra le

difficoltà del bambino nell’apprendere nei modi e nei tempi previsti dalla scuola e l’eccesso

dell’aderenza dell’insegnante al carattere normativo del suo lavoro (vedi Cap. 1).

In altri termini, il bambino potrebbe non avere un supporto adeguato a scuola e/o a casa e

non trovare delle ‘strategie creative’ per apprendere partendo dalle sue difficoltà di base;

l’insegnante potrebbe non riuscire ad abbandonare una visone stereotipata di sé (e

dell’alunno) e delle norme prestabilite, e a trovare delle ‘strategie creative’ per insegnare.

Potrebbe, in altri termini, sviluppare quello che Giacomo Stella definisce un disturbo di

insegnamento: “vere e proprie distorsioni del modo di concepire il proprio ruolo di docente.

Una concezione che prevede un modello unico di funzionamento e di risposta, sempre

uguale per tutti.

Quello che conta è imparare nel modo standard, spesso lo stesso con il quale il docente ha

imparato quando era studente, molti anni prima” (Stella, 2015).

Tale disturbo consiste anche nel non riuscire a chiedere agli studenti qualcosa di inaspettato

(Conserva, 2000).

Probabilmente tale situazione crea sofferenza nell’insegnante, ma ciò che risulta evidente è

la sofferenza che gli studenti provano nel doversi confrontare quotidianamente in un

contesto in cui non si sentono compresi, aiutati, sostenuti. In un contesto di apprendimento in

cui sperimentano la condizione di fallire in ciò che gli viene richiesto: apprendere.

Bateson cita spesso la storia del cane e della ‘nevrosi sperimentale’, che può essere

esempio di situazioni simili e ci può aiutare a comprendere come esse possano condurre a

un esito patologico.

Quando, invece, l’insegnante riesce ad accedere alla sua creatività (forse inconsapevole e

non programmabile) è possibile creare le condizioni per un’uscita creativa anche dell’allievo.

Bateson racconta la storia della focena (Conserva, 2000), che può essere un esempio di esito

creativo in un processo di apprendimento.

 Quella del cane e della focena sono due storie che Madonna (2010) utilizza come esempi

per spiegare le sindromi transcontestuali orizzontali-verticali e le differenze tra quelle

patologico/patogene e le altre. 

Bateson afferma che la transcontestualità è una “caratteristica costitutiva della mente”

(Madonna, 2010, p. 97). Essa attiene all’attraversabilità dei contesti, che riguarda tutti i

contesti del mondo degli esseri viventi, e al fatto che qualsiasi “parte - definita come

individuo, come sottosistema, come cellula o in qualunque altro modo - è necessariamente

partecipe di ambiti e di livelli sistemici molteplici” (Madonna, 2010, p. 97).

Le sindromi transcontestuali orizzontali-verticali differiscono da quelle orizzontali e da quelle

verticali, e sono caratterizzate “dall’attraversamento di ambiti e livelli di percezione, pensiero

e descrizione e possono essere sia creative, sia patologiche” (Madonna, 2010, p. 100).

LA STORIA DELLA FOCENA Questa è la storia di una focena addestrata (ai fini di uno spettacolo) a considerare come

rinforzo secondario il fischio del suo istruttore, che quando fischiava somministrava del cibo

all’animale. Somministrava dell’altro cibo quando la focena ripeteva ciò che stava facendo al

momento del fischio.  In una sessione, dopo tre ripetizioni della stessa sequenza

(comportamento-rinforzo), la focena aveva appreso delle regole. Alle sessioni successive la

focena doveva produrre sempre un nuovo modulo comportamentale per ricevere il cibo.

Per essere in grado di fare ciò, la focena doveva infrangere la struttura del contesto, cioè

della prima sessione e delle successive, e accedere al contesto dei contesti, al “contesto di

ordine superiore in cui le si chiedeva di esibire, a ogni nuova sessione, un diverso o nuovo

modulo comportamentale” (Madonna, 2010, p. 103).

Nelle prime quattordici sessioni la focena commetteva molti errori (ripetizioni di

comportamenti già manifestati) prima di mettere in atto un comportamento diverso. Tra la

quattordicesima e la quindicesima sessione, tuttavia, la focena si mostrava agitata e metteva

in atto un’esibizione composta da otto comportamenti, quattro dei quali non erano  

mai stati osservati prima in quella specie animale.

Questa storia ci mostra che “si può indurre in un mammifero un acuto senso di sofferenza e

disagio, se lo si mette in condizione di sbagliare circa le regole che danno significato a un

rapporto importante con un altro mammifero” e che “se si è in grado di respingere o di

resistere a questo stato patologico, l’esperienza complessiva può favorire la creatività”

(Bateson, 1972, p. 323).

Per la genesi di una sindrome di questo tipo è fondamentale l’infrazione da parte

dell’educatore delle regole e la somministrazione di molti pesci non meritati, che

salvaguardano la relazione con l’animale e lo aiutano a riconoscere di stare in un contesto

in cui è amato, nonostante le frustrazioni inflitte.

LA STORIA DEL CANE Questa è la storia di una situazione sperimentale in cui un cane veniva addestrato a

discriminare tra due stimoli diversi (cerchio e ellisse), attraverso la somministrazione di

rinforzi positivi (cibo).

Ogni qual volta il cane affinava la sua capacità a discriminare, il compito era reso più

complesso e le differenze tra l’ellisse e il cerchio venivano ridotte, fino a che il cane

mostrava profondi segni di turbamento, quando le sue soglie percettive non gli

consentivano più di discriminare.

Il cane era messo in una situazione in cui era impossibile realizzare ciò che gli veniva

richiesto: discriminare. E che aveva imparato nella relazione con lo sperimentatore. Le

premesse del contesto erano cambiate, quello era diventato un contesto per l’azzardo

mentre il cane aveva appreso che si trattava di un contesto per la discriminazione.

Quindi “sbaglia - ed è indotto all’errore - circa le regole che governano l’interazione

nell’ambito di una relazione significativa” (Madonna, 2010, p. 107).

Ciò che contraddistingue questa sindrome è la presenza di “punizioni relative a due ordini di

comportamento fra loro collegati” (Madonna, 2010, p. 107). Esse si realizzano “quando un

organismo sperimenta punizione a seguito di un qualche insuccesso e impara che non deve

imparare che all’insuccesso segue la punizione” (Madonna, 2010, p. 107).

L’esito patologico, inoltre, è legato alla non delimitazione degli effetti, all’invasione dell’intera

“esistenza di un individuo”, e all’assunzione di “una dimensione totalizzante” (Loriedo e

Picardi, 2000, p. 85).

IL CAPITOLO 2 IN PILLOLE

L'apprendimento 2 può essere disadattivo quando ilbambino apprende di non essere capace di

apprendere.

I DSA sono disturbi di origine neurobiologica: dislessia, discalculia, disortografia, disgrafia.

I bambini con DSA hanno difficoltà nei processi diapprendimento 1, centrali nel percorso scolastico.

I bambini con DSA hanno difficoltà nell'acquisizionedi nozioni elementari e automatismi

(apprendimento 0).

L'apprendimento 2 può risultare adattivo quando sitiene conto che gli apprendimenti avvengono nellarelazione adulto-bambino-oggetti da apprendere.

C A P I T O L O 3L ’ I N T E R V E N T O R I -A B I L I T A T I V O D E I D S AI N C H I A V EE C O L O G I C A

“Laddove i contesti e i casi della vita

rendono difficile a una persona –

per come essa è fatta - districarsi

senza soffrire nelle varie

contingenze, dovrà impegnarsi a

modificare il proprio modo di vedere

il mondo”. Qualcuno lo fa con l’aiuto

di uno psicoterapeuta (Conserva,

2000, pp. 5-6).

Nel caso dei DSA, la psicoterapia

non è la strada che abitualmente

viene intrapresa e consigliata. Tra le

raccomandazioni della Consensus

Conference del 2007, vi è quella

che i bambini e i ragazzi con DSA

necessitino di una presa in carico

rieducativa (nota 3), orientata a

migliorare la prognosi del disturbo

e, all’interno di essa, di percorsi

riabilitativi e abilitativi.

E S S E R EU NT U T O RD S A

Questi ultimi possono prevedere sia

interventi di carattere clinico sia

pedagogico in senso lato.

Tali interventi sono generalmente

condotti da psicologi o altre figure

professionali e hanno obiettivi e

tempi definiti. Sono guidati da

modelli neuropsicologici e cognitivi

e sono finalizzati al potenziamento

delle abilità di base, lettura,

scrittura e calcolo (A.1), in termini di

velocità e correttezza (A.0) e,

laddove necessario, di altri aspetti

come le funzioni esecutive:

l’attenzione, la memoria di lavoro,

l'inibizione (Consensus Conference,

2007).

Il bambino viene aiutato nell’acquisizione e nel potenziamento delle funzioni di base,

attraverso un training che tenga conto delle sue caratteristiche neuro-psicologiche e del

suo stile di apprendimento, ad esempio il training integrato del Prof. Benso (nota 4).

Può essere utile intraprendere percorsi di tutoraggio nella gestione dei compiti quotidiani,

attraverso un supporto nella organizzazione delle attività, nell’acquisizione di un metodo di

studio efficace e nell’utilizzo di strumenti compensativi (es. mappe, schemi, sintesi vocale

ecc.), con l’obiettivo di trovare strategie utili di cui il ragazzo si impadronisce gradualmente,

fino a raggiungere l’autonomia nello studio (Stella e Grandi, 2012).

La finalità ultima del tutoraggio nei compiti è di rendere possibile (facile) il raggiungimento

degli obiettivi di apprendimento previsti dai programmi ministeriali (A.1 e A.0).

Si lavora con la consapevolezza che allestendo le condizioni perché il bambino/ragazzo

possa rispondere alle richieste scolastiche con successo, si allestiscono anche le condizioni

che rendono possibile l'Apprendimento 2: diverse e nuove abitudini a pensare se stessi in un

contesto di apprendimento .

Questo aspetto non è secondario dal momento che molti ragazzi arrivano ad essere

affiancati da un tutor nello studio quando già mostrano un forte disagio psicologico

secondario al DSA (ansia, sintomi psicosomatici, disturbi del comportamento, bassa

autostima ecc.). 

QUANDO IL TUTOR È PSICOLOGO Nel pensare ai limiti e alle risorse nell’attività di tutoraggio farò riferimento alla mia

esperienza. Una delle principali risorse è il rapporto uno a uno con lo studente, che mi

permette di conoscere approfonditamente le modalità di apprendimento del singolo.

Inoltre, pur avendo degli obiettivi definiti dall’esterno (quelli imposti dai programmi didattici e

concordati con gli insegnanti e i genitori), ho una certa flessibilità nel gestirli e nel costruire

degli obiettivi intermedi nella relazione con il bambino/ragazzo per ciò che è raggiungibile

nel momento storico, e ancor di più nel qui e ora del singolo incontro.

Ancora, la mia preparazione sui DSA mi permette di comprendere il profilo neuropsicologico

emerso nella diagnosi e di confrontarmi con i colleghi che si occupano della valutazione,

della diagnosi o ad esempio dei training riabilitativi, condividendo con loro obiettivi e

considerazioni. Questa competenza, unita alla conoscenza approfondita del singolo

studente, può portare all’elaborazione di un percorso di apprendimento individualizzato,

funzionale per il singolo e anche flessibile, cioè modificabile in base alle esigenze che

emergono nel corso del tempo.

L’essere una psicologa (molto spesso questo lavoro viene fatto da insegnanti o laureati in

altre discipline) è per me un’ulteriore risorsa: non solo in quanto organismo vivente sono

dotata di sensibilità alle relazioni (Conserva, 2013), ma in quanto psicologa ho la competenza

 di istituire una relazione psicologica, calibrata sulla soggettività.

Inoltre, sono una psicoterapeuta sistemico-relazionale e la mia formazione mi ha aiutato ad

acquisire l'allentamento a pensare alla circolarità delle relazioni, a includere me stessa nel

campo di osservazione. A lavorare su me stessa nella relazione con l'altro.

Ciò non mi protegge dalla possibilità di insuccesso e di non riuscire a instaurare una ‘buona

relazione’ con un bambino. Tuttavia forse mi consente di esserne consapevole, e di provare

a essere il miglior tutor possibile per le caratteristiche e le esigenze di ciascun bambino. 

Quelli descritti sono aspetti che potrebbero rivelarsi anche dei limiti. Ad esempio quando,

acquisite una base di competenze nel tutoraggio, si pensa che i metodi e le strategie

utilizzate per un bambino con DSA possano essere utili anche a tutti gli altri; o quando ci si

dimentica che la propria funzione, il proprio contratto è focalizzato sul rendere possibili l’A.1 e

l’A.0 e allenare le funzioni di base dell’apprendimento che risultano deficitarie. E non fare un

percorso di sostegno psicologico in senso stretto.

Ciò vuol dire che anche il tutor può trovarsi nelle situazioni di cui si è parlato in relazione

all’insegnante e non tenere bene a mente i due aspetti fondamentali della relazione di

insegnamento-apprendimento: l’importanza del raggiungimento degli A1 e A0, o anche

componente rigorosa, e il fatto “che i bambini e i ragazzi che incontra sono focene”

(Conserva, 2000, p. 6), o anche componente vaga.

Forse si può affermare che l’insegnante, per la sua formazione e il suo ruolo, potrebbe più

facilmente commettere l’errore di aderire a una visione solamente ‘normativa’ e rigida

dell’insegnamento, tralasciando gli aspetti relazionali, la considerazione dell’unicità e della

creatività, del modo di apprendere di ciascun alunno.

Il tutor-psicologo, viceversa, per la sua formazione, potrebbe essere portato a commettere

maggiormente l’errore di aderire a una visione solamente creativa dell'insegnamento

tralasciando l’importanza dell’A.0 e dell’A.1.

CREATIVITÀ E RIGORE NELTUTORAGGIO Considerando che ciascuna persona con DSA ha proprie modalità di apprendere, che spesso

differiscono da quelle comuni e che devono trovare una strada per adattarsi alle richieste

esterne, la relazione con il tutor potrebbe essere considerata come una relazione in cui

questo adattamento creativo sia facilitato.

Ritornando alla storia della focena, ciò che rende possibile l’esito creativo è la limitazione

degli effetti e la salvaguardia della relazione. Ciò è possibile innanzitutto perché l’animale ha

ricevuto rinforzi in termini di premi e non di punizioni: tale scelta ha un’importanza notevole

rispetto “alla felicità e al mantenimento della salute dell’organismo che impara” (Madonna,

2010, p. 108) poiché consente all’organismo di vivere felice e in buona salute “molto più che

quando il rinforzo è prevalentemente una punizione” (Madonna, 2010, p. 108).  

Ciò che in questa storia è ancora più evidente è il fatto che la focena ha ricevuto premi non

meritati. È questo che consente di salvaguardare la relazione con l’addestratore, di

contenere la sofferenza della focena rispetto al fallimento e di darle la possibilità di

correggere l’errore.

La creatività dell’istruttore (che emerge quando non rispetta le regole prestabilite rispetto al

rinforzo e somministra cibo non meritato) permette alla focena di risolvere “in maniera

creativa la sua sofferenza generando e distinguendo, con i suoi propri processi gerarchici di

apprendimento e di adattamento, un’ulteriore struttura contestuale” (Madonna, 2010, p. 109).

Il tutor, dunque, nell’aiutare il bambino nell’acquisizione di Apprendimento 1 (e 0), quindi nel

valorizzare la ‘componente rigorosa’ del suo lavoro, può allestire le condizioni per un esito

creativo lasciandosi andare alla propria creatività, alla ‘componente immaginativa’: non

irrigidendosi nel suo ruolo, negli esercizi proposti al bambino, nel pensare di avere già a

disposizione tutto ciò che occorre al bambino per apprendere.

L’insegnamento della ‘componente rigorosa’ ha a che fare con gli aspetti formali della

relazione, ovvero con ciò che si stabilisce nel progetto, con gli obiettivi di apprendimento e

con gli strumenti che vengono utilizzate nel percorso. La ‘forma’ riguarda anche il setting e la

creazione di un contesto che si ripete nel tempo.

Quello della relazione tutor-bambino è un contesto caratterizzato da una definizione di

alcune regole (orario, tempo, pause, organizzazione dell’ambiente per studiare ecc.) e da

una relazione prevalentemente asimmetrica, che permette di stabilire che il tutor ha il

compito di aiutare il bambino.

L’aiuto consiste nel proporre e cercare, insieme al bambino, le strategie e gli strumenti che si

pensa possano essergli utili per apprendere un contenuto. Poi, attraverso la ripetitività del

contesto di apprendimento, è possibile verificare l’utilizzabilità di una strategia o di uno

strumento (es. mappe concettuali).

Quando gli aspetti formali sono definiti, è possibile la liberazione del processo di

apprendimento, della creatività. Ad esempio, l’elaborazione di un modo del tutto personale

di utilizzare lo strumento (es. mappa concettuale) o di sviluppare altre strategie.

Questo è possibile, come per la focena, se si tiene conto dell’importanza della relazione,

della possibilità di trasgredire le regole per tenere in salvo la relazione e limitare il vissuto

della frustrazione al singolo compito.

Per quanto riguarda l’insegnamento della ‘componente vaga’, esso è molto più complesso

poiché è “fuori dalla possibilità di intervento diretto dell’azione fondata sulla finalità

 cosciente” (Madonna, 2013, p. 200). È tuttavia possibile allestire le condizioni perché la

creatività si manifesti, in modi molto diversi e anche con coloriture artistiche (Madonna, 2013).

Questo è un aspetto fondamentale della psicoterapia (nota 5) e “deve ricevere un’attenzione

particolare anche nell’ambito della formazione” (Madonna, 2013, p. 201). Perché ciò accada è

necessario che il formatore, come il terapeuta, dopo aver ben definito gli aspetti formali

nella relazione con il bambino, lavori su se stesso, ricorrendo alla finalità introversa (nota 6),

cioè non “perseguendo il successo, ma assumendo l’atteggiamento di chi vuole cambiare se

stesso” (Madonna, 2013, p. 205).

Un esempio di ‘uscita creativa’, favorita dal ricorso alla finalità introversa, è quella illustrata

da Leonardo Da Vinci, che viene identificato, come molti altri personaggi importanti della

storia, come una persona con DSA non diagnosticato: egli aveva l’abitudine di stare da solo

al buio per favorire l’immaginazione creativa e pensare ai suoi progetti. Quando voleva

favorire la nascita di pensieri creativi, lavorava sull’ambiente esterno (buio, silenzio), ma

soprattutto lavorava su di sé (Madonna, 2013).

Lavorare su di sé nella relazione di tutoraggio può voler dire cercare di essere il miglior

tutor possibile per ciascun bambino, accogliere la sua soggettività e la propria; vuol dire

provare a offrire le condizioni al bambino che favoriscano l'apprendimento (A1 e A0) e la

possibilità di sentirsi capace di apprendere. E forse anche di sentirsi capace di trovare

strategie personali e creative per raggiungere gli apprendimenti che vengono richiesti nel

programma scolastico.

In tal modo, non soltanto si lavora sull’Apprendimento 1 e si favorisce il passaggio

all’automatizzazione e alla stabilizzazione degli apprendimenti - l'Apprendimento 0 - ma si

favoriscono le condizioni perché avvengano nuovi Apprendimenti 2 e si mettano accanto

agli altri. Ad esempio lo sviluppo di una maggiore consapevolezza da parte del ragazzo delle

proprie caratteristiche e difficoltà, ma anche dei propri punti di forza e risorse.

Una delle risorse che le persone con DSA sembrano possedere, come alcuni studi

dimostrano, è quella di avere un pensiero divergente molto sviluppato (Grenci, Amodio e

Bandello, 2007) e una maggiore attitudine alla creatività.

Questo aspetto, molto spesso ignorato o addirittura ritenuto incompatibile con il processo

educativo (Runco, 2003), se accolto e potenziato, in molti casi risulta essere la chiave per

dare origine a un circolo virtuoso, basato sul successo scolastico.

 

Ciò è raggiungibile quando si crea una buona relazione con il bambino, basata sulla fiducia

e sull’accoglienza, e si tiene conto che l’apprendimento non riguarda solo il passaggio

di nozioni ma anche la relazione e il contesto in cui avviene; è possibile quando si crea una

buona collaborazione con i genitori e con gli insegnanti, in modo che il ragazzo possa

ottenere dei successi a scuola.

È a scuola, infatti, che lo studente ha la misura di quanto ha fatto e dell’importanza del suo

impegno, nella relazione con gli insegnanti e con i compagni di classe.

Molti bambini, nonostante i miglioramenti, mantengono un atteggiamento negativo verso la

scuola, e ciò accade soprattutto quando continuano a sperimentare insuccessi come

studenti, nonostante l'impegno. 

Al contrario, ciò che sembra aiutare e favorire uno sviluppo sano dei ragazzi è la

“valorizzazione di ciò che sanno fare, delle loro abilità, interessi e passioni sia a scuola sia in

contesti extrascolastici” (Stella e Grandi, 2012, p. 14).

Molti ragazzi riescono a crescere bene quando, oltre la scuola, sviluppano aree di interesse

in cui hanno successo, in cui hanno la possibilità di sperimentare la propria creatività, il

proprio modo di essere, di apprendere, perché contesti più predisposti a farlo, come la

musica, lo sport e l’arte.

In questa prospettiva, l’esito creativo può avvenire anche e soprattutto grazie al loro

modo di apprendere e non malgrado le loro difficoltà. Ne sono esempi Albert Einstein,

Leonardo da Vinci, Pablo Picasso, Walt Disney (e tanti altri):

“pensavano in maniera diversa e sono riuscite a farci vedere le cose con i loro occhi.

Le persone vicine non lo accettavano e le hanno ostacolate. Loro però ne sono usciti

vincenti. E tutto il mondo è rimasto a bocca aperta” (dal film Stelle sulla Terra, 2008).   

IL CAPITOLO 3 IN PILLOLE

Il tutor DSA sostiene nell'organizzazione dei compiti,

nell’acquisizione di un metodo di studio efficace enella scelta e utilizzo di strumenti compensativi.

La componente rigorosa riguarda gli aspetti formali dell'apprendimento:

regole, obiettivi, programmi.

La componente vaga  riguarda gli aspetti processuali:

la creatività e l'espressione della soggettività.

Il tutor DSA può lavorare su di sé per essere il miglior tutor

possibile per ciascun bambino.

Il tutor DSA coordina e favorisce una buona comunicazione tra

alunno, famiglia e scuola.

CONCLUSIONI Alla fine di questo lavoro credo, come immaginavo, di non essere arrivata a grandi risposte.

Tuttavia, credo anche che questo percorso di apprendimento mi abbia permesso di

raggiungere un piano meta-riflessivo sul mio lavoro di tutor e mi abbia aiutato a mettere

insieme parti della mia vita formativa e professionale.

Mi sono aperta alla possibilità di considerare la ricchezza che il mio essere psicologa-

psicoterapeuta i porta nella relazione con i bambini, e viceversa, la ricchezza e che la mia

esperienza di tutor porta nella relazione con i pazienti.

Quelle che prima consideravo due mappe diverse, forse incompatibili, hanno trovato, in

questo percorso di apprendimento, il modo per stare l’una accanto all’altra e iniziare a

integrarsi. Ciò mi ha permesso anche di raggiungere una maggiore serenità e integrità nel

modo di lavorare e di vedere ulteriori sviluppi come possibili.     

AUTRICE: ALICE GARGIULO Sono una psicologa iscritta all'Ordine della regione Campania,

e una psicoterapeuta sistemico-relazionale, specializzata

presso l'lIPR di Napoli.

Nella mia pratica clinica, lavoro come Tutor DSA, accompagnando

i bambini e le famiglie nel corso dell'anno scolastico.

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Verso un’ecologia della mente (1972), Adelphi, Milano,1976. 

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Conserva R., Apprendimento, cambiamento. Come gli organismi viventi conoscono,

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Grenci R., Amodio F.R., Bandello F., Creatività e pensiero divergente: il Test TCD utilizzato

in un gruppo di bambini dislessici, X Congresso AID, Bologna,

http://www.aiditalia.org/upload/grencibologna_1.pdf, 2007. 

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Apprendimento, allegate al Decreto Ministeriale 12 luglio, MIUR, Roma, 2011. 

Loriedo C. e Picardi A., Dalla teoria generale dei sistemi alla teoria dell’attaccamento,

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Madonna G., La psicologia ecologica. Lo studio dei fenomeni della vita attraverso il

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 Pollak D., Neurodiversity in higher education: positive responses to specific learning,

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 Stella G., Grandi L. (a cura di), Come leggere la dislessia e i DSA, Giunti Scuola, Firenze,

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Runco M.A., Creativity , cognition and their educational implication, In Houtz J., The

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Stella G., I disturbi d’insegnamento, dal Blog Dislessia, Giunti Scuola, 2015. - Stella G. (a

cura di), Storie di dislessia, Firenze: LibriLiberi, 2002.

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Von Foerster, Sistemi che osservano, Astrolabio, Roma, 1987. - Whitaker C. A.,

Considerazioni notturne di un terapeuta della famiglia (1989), Astrolabio, Roma, 1984. 

NOTE 1 Con il termine epistemologia Bateson fa riferimento alle abitudini individuali apprese

relative alla conoscenza, ovvero ciò che accomuna un individuo a un gruppo più o meno

grande di altri individui. Con il termine Epistemologia, invece, fa riferimento a ciò che

accomuna un individuo a tutti gli altri, ovvero ai fondamenti biologici della conoscenza

(Madonna, 2010).

2  Secondo le Linee Guida l’azione formativa individualizzata pone obiettivi comuni per tutti

facendo attenzione alle differenze individuali e adattando a esse le metodologie (Linee

Guida, 2011). 

 3 La presa in carico è un progetto di respiro più ampio che prevede la collaborazione tra

scuola, famiglia e professionisti della salute e che può durare anche durante tutto l’arco

della scolarizzazione (Stella, 2012).  

4 Il training integrato di Benso prende in considerazione tre fondamentali aspetti tra loro

distinti, ma in continua interazione: i sistemi centrali e le funzioni esecutive, i sistemi specifici

modulari (apprendimenti per la neuropsicologia) e le emozioni. 

 5 In relazione al processo terapeutico, descritto da Madonna (2013) come un’interazione tra

forma e processo, Whitaker (1989) “invita i terapeuti ad aspettare che emerga qualcosa di

spontaneo dalla loro creatività”. Invita “a esitare nell’intervento finalistico e cosciente,

nell’azione formale, dunque a favorire, in questa maniera, le condizioni affinché l’azione

processuale possa nascere” (Madonna, 2013, p. 70).  

6 L’azione terapeutica è orientata a modificare classi di comportamento (tratti del carattere)

ma, nelle fasi successive a quella iniziale, è caratterizzata da un’azione con finalità introversa.

Se così non fosse, ci sarebbe “un errore dal punto di vista dei livelli logici e potrebbe portare

a frustrazioni o risultati paradossali” (Madonna, 2013). Gli esiti dei processi di Apprendimento

2 sono infatti molto difficili da modificare. Ciò che il terapeuta può fare per allestire le

condizioni del cambiamento è lavorare su di sé per favorire all’interno della relazione

esperienze nuove. 

N.B. Si è preferito utilizzare termini maschili (bambini, ragazzi ecc) per aumentare la

leggibilità del testo. Tali termini si riferiscono a persone di entrambi i sessi.