Anno pastorale 2013 2014

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VOCE per la COMUNITA’ UNITA’ PASTORALE “S.ARCANGELO TADINI“ PARROCCHIE DI BOTTICINO NOTIZIARIO PASTORALE INIZIO ANNO PASTORALE 2013-2014 Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi Gv 20,21

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VOCE per la COMUNITA’

UNITA’ PASTORALE “S.ARCANGELO TADINI“PARROCCHIE DI BOTTICINO

NOTIZIARIO PASTORALEINIZIO ANNO PASTORALE 2013-2014

Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi

Gv 20,21

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RECAPITO DEI SACERDOTI E ISTITUTILicini don Raffaele, parroco

cell. 3283108944 e-mail parrocchia:

[email protected] segreteria Unità Pastorale: 0302193343Segreteria Unità Pastorale tel. 0302692094

Loda don Bruno tel. 0302199768Pietro Oprandi, diacono tel 0302199881

Scuola don Orione tel. 0302691141sito web: www.parrocchiebotticino.it

Suore Operaie abit. villaggio 0302693689Suore Operaie Casa Madre tel. 0302691138BATTESIMI BOTTICINO MATTINABOTTICINO SERA E SAN GALLO sabato 7 e domenica 8 dicembre 2013sabato 11 e domenica 12 gennaio 2014

sabato 1 e domenica 2 marzo 2014I genitori che intendono chiedere il Battesimo

per i figli sono invitati a contattare, per tempo, per accordarsi sulla preparazione e sulla data della

celebrazione, il parroco personalmente o tel.3283108944

PRESENTAZIONE All’inizio del nuovo anno pa-storale il Notiziario per le famiglie delle tre Parrocchie di Botticino. E’ un notiziario-documento perchè non si limita a dare notizie, ma presenta pagine di formazione nei vari ambiti della pastorale, com-preso quello sulla conoscenza della Bibbia. Gli argomenti vengono pre-sentati con un linguaggio compren-sibile a tutti e servono per essere aggiornati e istruiti nelle cose che riguardano il nostro essere Chiesa. Non va letto tutto d’un fiato, ma gu-stato e meditato pagina per pagina. Viene pubblicata per intero la Lettera Pastorale del Vescovo per l’anno 2013-2014. Non mancano temi attuali riferiti alla realtà socio-politica e te-matiche inerenti ai nostri tempi. Rifuardo alla pastorale fami-liare numerose sono le pagine: la scoperta della ritualità in famiglia. E poi le pagine rigurdanti la caritas, le missioni, l’oratorio, la scuo-la don Orione, attività di volontaria-to, ricreative e sportive.

UNITA’ PASTORALE “S.ARCANGELO TADINI”PARROCCHIE DI BOTTICINOORARI S.MESSE

da ottobre 2013 FEsTIvE DEl sABATO E vIgIlIA FEsTIvITA’

SERA VILLAGGIO ore 16,00MATTINA PARROCCHIALE ore 17,30

SAN GALLO PARROCCHIALE ore 17,30SERA PARROCCHIALE ore 18,45

FEsTIvE DEllA DOmENICA E FEsTIvITA’SERA PARROCCHIALE ore 8,00

MATTINA PARROCCHIALE ore 9,30SAN GALLO PARROCCHIALE ore 10,00

SERA PARROCCHIALE ore 10,45MATTINA PARROCCHIALE ore 17,30

SERA PARROCCHIALE ore 18,45

lUNEDI’CASA RIPOSO ore 16,45

MATTINA PARROCCHIALE ore 18,00SERA PARROCCHIALE ore 20,00

mARTEDI’MATTINA SAN NICOLA ore 18,00

SAN GALLO PARROCCHIALE ore 17,30SERA PARROCCHIALE ore 17,30

mERCOlEDI’MATTINA MOLVINA ore 17,00

SAN GALLO PARROCCHIALE ore 17,30SERA PARROCCHIALE ore 18,30

gIOvEDI’SAN GALLO PARROCCHIALE ore 17,30

MATTINA S.NICOLA ore 18,00SERA PARROCCHIALE ore 20,00

(fino al 24 ottobre è alle ore 17,30 al cimitero)

vENERDI’SAN GALLO TRINITA’ ore 17,30

MATTINA PARROCCHIALE ore 18,00(fino al 25 ottobre è alle ore 18,00 al cimitero)SERA PARROCCHIALE ore 18,30

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Dopo la pausa estiva, non priva di proposte, tutto riprende. Si ricomincia. Inizia la scuola per i più giovani, inizia qualche attività diversa nelle nostre comunità. Iniziano i servizi pastorali, e in questo ripartire c’è tutto il desiderio di qualche cosa di nuovo. La novità ha dentro di noi una forza d’attrattiva molto grande perché ci proietta verso il futuro; fa sentire in noi quasi la possibilità di una nuova nascita. Ciò che è stato, è ricordo che sostiene il presente, ma rilancia al futuro. Per questo l’invito biblico a “Non ricordare più le cose passate, non pensare più alle cose antiche!” (Is 43,18) ci trova all’inizio di ogni nuovo anno disposti a ripartire.

Una nuova opportunitàÈ la sensazione che la vita abbia un’altra opportunità da offrirci, una possibilità che è nelle

nostre mani e che noi possiamo nuovamente spendere al meglio. Nel ritmo feriale della vita fa bene sostare e poi iniziare ancora. È inevitabile. In noi ci sono alcune delusioni, cose che volevamo fare e non abbiamo realizzato, desideri di incontri, di proposte che non abbiamo potuto portare a termine e qualcosa da rimediare che ormai aspetta un nuovo inizio. Questa è la vita con i suoi cominciamenti che si ripetono ciclicamente e offre a tutti noi nuove opportunità. Si scopre così una parte di noi rimasta per un po’ bloccata, un aspetto della vita ancora disatteso, una dimensione della fede inedita che il nuovo inizio ci fa considerare.

Una pagina biancaIniziare un nuovo anno e un nuovo percorso è come aprire un quaderno e trovarsi davanti quella

pagina bianca, che profuma di nuovo, senza nessuna piega e nessun segno: è là davanti a noi, con tutte le possibilità, le attese e i progetti che pian piano la riempiranno. Questo attimo è quasi magico, contiene in sé tutte le attese e tutte le possibilità. In quest’aspettativa umana, che sem-pre ci attraversa, la Parola s’innesta e dà profondità al nostro vissuto, al nostro cercare; ci viene incontro oltre ogni nostra attesa. “Ecco faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?’’ (Is 43,19). È nuova la nostra pagina, è nuovo il nuovo anno, è nuova la nostra ricerca, è nuovo il nostro desiderio di servire, è nuovo il percorso che desideriamo compiere. Nuova è an-che l’evangelizzazione. Ma tutto ciò non ci appartiene: è ancora e sempre un dono. Ascoltiamo e scrutiamo i segni che si affacciano all’orizzonte! Questo è il tempo di nuovi inizi nella fede e nella ricerca. Non ce ne accorgiamo? È il desiderio di alcuni genitori di capire ciò che vivono i loro figli, è la ricerca di Dio dentro le fragilità della vita, è il ricominciare a credere di tanti adulti che, attra-verso strade impensate, si pongono in cammino; è il bisogno di una proposta bella e significativa che alcuni adulti invocano. Per l’evangelizzazione è il tempo dei nuovi inizi, è il tempo in cui l’annuncio ha la possibilità di trovare altre strade, altre condizioni, c’è qualcosa di nuovo che sta germogliando. È piccolo, fragile e non fa rumore, ma se guardiamo attentamente c’è. A noi, che iniziamo un altro anno di dono, di servizio e di annuncio, la possibilità di accompagnare con trepidazione la crescita del germoglio e di avere tutti gli accorgimenti perché possa svilupparsi.

Per un servizio di accompagnamentoÈ per questo servizio di cura e di accompagnamento che anche in questo anno pastorale la

programmazione parrocchiale - resa chiara anche dai notiziari parrocchiali - sarà con voi per so-stenere e avviare l’inizio, per accogliere e proporre pensiero e metodo affinchè ciò che si scorge all’orizzonte possa trovare possibilità di crescita. Per questo con gli articoli, gli strumenti, le pro-poste, anche in questo nuovo inizio possiamo aiutare a:

• Evangelizzare, dire ancora e nuovamente il Vangelo, Gesù, la sua vita e il suo modo di stare al mondo e costruire umanità.

• Scorgere i segni di vita, di novità che Dio ha già seminato e ascoltare il bisogno di vita e di salvezza che lo attraversa.

• Agire da adulti, con una modalità adulta che rende autonome e libere le persone, che crede nella proposta fatta ad adulti che sono poi responsabili di altri. don Raffaele

ripartire per... una nuova nascitainizio nuovo anno pastorale 2013-2014

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Cambiamenti veloci, desiderio di qualcosa di nuo-vo... e tra le mani il Vangelo antico e sempre

nuovo. Può capitare di trovarsi di fronte alla ricerca della novità per la novità, del cambiamento non troppo ragio-nato. È una situazione umana molto concreta che spesso viviamo: si butta il vecchio per rincorrere l’ultima moda. Anche a livello pastorale ci succede di accogliere entusia-sticamente le ultime “trovate”, per lasciarle poi veloce-mente. L’esperienza millenaria della Chiesa ci insegna a stare, uno stare che è il contrario dell’immobilismo e della facile ricerca emotiva dell’ultimo ritrovato.

• Stare in ricerca, per non accontentarsi subito di so-luzioni facili e semplicistiche; perché l’evangelizzazione, oggi soprattutto, richiede capacità di capire la storia, di interpretarla alla luce del Vangelo.

• Stare nello studio e nella capacità di andare in pro-fondità nei problemi.

• Stare nell’acquisizione di una competenza che richie-de i tempi necessari di assimilazione e riespressione.

Questo stare offre allora possibilità di cammino orien-tato, perché intravede la conduzione, il fine, il verso dove. Ci pare che questo sia il tempo “faticoso e fruttuoso” del rimanere dentro un percorso per non voltare pagina velo-cemente, per fermarci, invece, a sottolineare e a ripetere ciò che è essenziale e rielaborarlo. Ci troviamo a confron-tarci con proposte diversificate e non sempre capaci di ridare gusto al percorso. Si è preoccupati di trovare for-mulazioni o idee che siano in grado di resistere o di dare significato alle diverse proposte culturali. In questi casi di-venta quasi inevitabile rifugiarsi in soluzioni che non lascia-no spazio alla verifica e alla sperimentazione. È necessario il tempo della sintesi, ma diventa sempre più importante, nel veloce mutare delle situazioni, trovare le occasioni per lasciare che alla maturazione si arrivi mediante una ricerca che, assieme alla ricchezza della tradizione, uni-sca il rinnovamento sollecitato dal contesto che cambia. Un atteggiamento rispettoso della realtà e della proposta

evangel i -ca trova lo spazio e il tempo per aggiornare le rappre-sentazioni teologiche, per ridi-re la fede di sem-pre con

espressio-ni che san-no essere incisive e compren-sibili. An-che tra noi, oggi, ci sono persone che vivono percorsi di fede legati a modi di vivere e pensare che hanno poco da spartire con la proposta di Cristo Gesù. È uno spazio da occupare non solo intellettualmente, ma anche con la pratica pastorale che non ha paura di fermarsi, di dare sa-pore al pensiero e alla rivisitazione dell’annuncio di fede. Questa rivisitazione delle precomprensioni è un’opera arricchente, perché mette in circolo tante potenzialità e possibilità di rinnovamento. Il contributo condiviso non sfocia nell’acculturazione, ma porta alla ricerca del bello e del ricco che abita la vita di ogni persona.

Fermarsi è anche il tempo in cui si riprendono i con-cetti che abbiamo accolto e messo da parte. È il tempo del confronto e dell’interiorizzazione che avviene con una decantazione graduale di ciò che è stato accolto.

L’idea di formazione e di aggiornamento che desideria-mo continuare a condividere e sostenere nella program-mazione pastorale è proprio questa: avere la possibilità di riprendere insieme i grandi capitoli della fede e poter-li gustare di nuovo e assimilare dentro un contesto che cambia. Il tentativo che, come parrocchie, stiamo portan-do avanti da anni s’innesta proprio in questo spazio. Ci piace tracciare la nostra proposta avendo come punto di riferimento l’azione di Cristo Gesù, capace di essere at-tento alla realtà senza mai dimenticare la persona. Stare, nel contesto attuale, ci pare possa voler dire investire nel-la capacità di costruire comunità missionarie; comunità che si fanno carico di continuare le azioni del Gesù prima della Pasqua, capaci di andare in ogni contesto e di valo-rizzare ogni presenza. In questo modo c’è la possibilità di realizzare luoghi formativi che rispondono all’esigenza del bisogno religioso e possano anche diventare esperienza spirituale. Questo stare esige di avere un’attenzione par-ticolare alla modalità di annuncio, non più centrato solo sulla redenzione, ma capace di stare dentro la realtà per innervare la storia della positività evangelica.

Tutto ciò chiede che le persone che annunciano siano capaci di spiritualità che alimenta la speranza e lasci in-travedere nuovi cammini di liberazione per quelli che sentono maggiormente il peso della vita. E questo può essere espresso con nuovi linguaggi, ma anche con quel silenzio che è capace di parlare più delle parole.

Battesimi Botticino Mattina22 settembre 2013

Tempo faticoso e complesso il nostro. Come abitarlo sapendo che, tra le mani, abbiamo un Vangelo antico e sempre nuovo? Anno

pastorale 2013-2014

Pastorale in camminoparrocchie in cammino - parrocchie in cammino - parrocchie in cammino - parrocchie in cammino - parrocchie in cammino - parrocchie in cammino - parrocchie in cammino

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Inizia un nuovo anno pastorale e rinnovia-

mo i nostri impegni nella fede nella comu-nione con la Chiesa di Dio che è rappresentata nella nostra diocesi dal Vescovo Luciano Monari. Più avanti, in questo numero del notiziario per le parrocchie di Botticino, viene pubblicata la sua lettera pastorale che è guida per la diocesi e anche per le no-stre comunità; una lettera incentrata sulla missiona-rietà della comunità cristiana.

Siamo cristiani, abbiamo di fronte sfide importanti nelle quali ci confrontiamo con gli uomini del nostro tempo, siamo bersagliati da tante tentazioni che cer-

cano di sminuire l’impronta della fede lasciata in noi dal Bat-tesimo e di trasformarla in una opinione come tante che posso liberamente tenere in me senza pretendere di farne un indiriz-zo di vita condivisibile e socialmente rilevante.

A tal proposito il nostro vescovo, in un suo intervento del 4 settembre scorso diceva:

“Abbiamo bisogno di persone per le quali l’adesione di fede a Cristo sia l’espressione di una scelta personale; persone che hanno ricevuto l’annuncio del vangelo, lo hanno riconosciuto con riconoscenza come un annuncio

di salvezza rivolto a loro da Dio e hanno deciso di aderire una volta per tutte a Cristo – per sempre, senza riserve, senza compromessi. In genere le nostre comunità cristiane sono fatte di persone buone, persone cristiane, ma che non hanno mai avuto l’occasione di interrogarsi seriamente sulla loro fede e quin-di di decidere per la loro fede: sono cresciute in un ambiente cristiano, sono convinte che l’uomo ha bisogno di religione, che il cristianesimo non insegna il male, che aiuta a vivere meglio la propria umanità e quindi si dichiarano sinceramente cristiani; si stupirebbero se qualcuno mettesse in dubbio questa loro consapevolezza. Ma in realtà, non hanno mai deciso di essere cristiani, non conoscono il dramma e la radicalità della conversione. Per questo possono trascurare alcuni aspetti della vita di fede senza farsene problema; o possono mettere i gesti della fede insieme con alcune convinzioni che proprio cristiane non sono, come la reincarnazione; o con scelte che si oppongono radicalmente alla fede, come l’infedeltà matrimoniale. Se qualcuno mostra loro altre vie utili

alla tranquillità dell’animo – lo yoga, il buddismo, la fede negli alieni… non hanno molte remore a inserire queste realtà nel loro vissuto. E non hanno la percezione di stare commettendo un adulterio, perché stanno tradendo un legame personale di fedeltà. Ebbene, la Chiesa ha oggi più che mai bisogno di credenti che siano tali per una decisione personale irrevocabile; di conseguenza, il primo, urgente impegno del nostro ministero è l’annuncio del vangelo.”

Quando ho sentito pronunciare queste parole ho sentito in me una domanda: cosa stai facendo tu, cosa stanno facendo le comunità cristiane di Botticino per dare una scossa alla fede, per sfrondare ciò che rimanda solo ad una tradizione stanca e che si va sempre più dissolvendo e per rinverdire invece ciò che ancora attinge alla linfa vitale del Vangelo di Gesù? E pensavo alle tante iniziative fatte nelle parrocchie per i ragazzi e giovani durante l’estate, pensavo all’impegno che tante persone mettono per far funzionare ciò che caratterizza le nostre Parrocchie, dalla liturgia, al catechismo, all’impegno della Caritas a sostegno di molti bisognosi.

Ed è proprio qui che il Vescovo coglie nel segno. Se tutto quello che facciamo non è un chiaro indizio del fatto che a guidarci è Gesù risorto, allora potremmo essere assimilati ad una qualche associazione filantropica che generosamente fa del bene al prossimo.

Non è che il bene fatto dai cristiani sia migliore di quello fatto da altre persone di buona volontà, ma ciò che fanno i cristiani fa riferimento a Gesù, al suo insegnamento di vita ed è tanto preso dall’amore per Gesù da ritenere che il suo insegnamento sia buono da far conoscere anche agli altri e costituisca un vantaggio per la società. D’altronde l’amore di Dio ha come diretta conseguenza l’amore del prossimo.

Ecco quel che c’è da fare.

In genere le nostre co-munità cristiane sono fatte di persone buo-ne, persone cristiane, ma che non hanno mai avuto l’occasione di in-terrogarsi seriamente sulla loro fede e quindi di decidere per la loro fede.

Esistenza cristiana

parrocchie in cammino - parrocchie in cammino - parrocchie in cammino - parrocchie in cammino - parrocchie in cammino - parrocchie in cammino - parrocchie in cammino

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Che cosa può rende-re veramente “nuova” l’evangelizzazione? È

questa la questione di fondo. Come dobbiamo diventare nuo-vi noi (i testimoni) perché l’evan-gelizzazione diventi nuova? Nel corso del Sinodo sono avvenuti su questo punto tre spostamenti, tre conversioni di prospettiva.

a) II superamento di un ap-proccio funzionale: evangeliz-zazione nuova come ritorno al Vangelo da parte della Chiesa

Il risultato più consistente e maggiormente condiviso del Si-nodo è stato il superamento di una concezione strumentale: di pensare cioè che il rinnovamen-to dell’evangelizzazione consi-sta nel cambiamento dei metodi e delle strategie o anche di un semplice rinnovato impegno da parte degli evangelizzatori.

Se le parole della Chiesa non passano nell’attuale contesto non è primariamente perché le per-sone non capiscono o sono più cattive di quelle di altri tempi, né perché i metodi di evangelizza-zione sono superati (lo sono, ma è una questione seconda), ma perché le parole del Vangelo non parlano più alla Chiesa stes-sa. La crisi della comunicazione della fede rinvia la Chiesa ad un rinnovato ascolto. Il problema dell’evangelizzazione non è un problema catechistico, ma eccle-siologico.

In questa prospettiva, la crisi dell’evangelizzazione e l’esigen-za che torni “nuova” inviano de-cisamente nella direzione di una verifica della fede della Chiesa stessa. Il Sinodo ha indicato chia-ramente questo senso di nuo-va evangelizzazione attraverso l’appello alla conversione, di tutti e ciascuno dei suoi membri. E ha ricuperato il termine “santità”. La nuova evangelizzazione postula un rinnovamento della Chiesa, un anno della fede per lei. Il mes-

saggio del Sinodo al popolo di Dio è profondamente segnato da questa prospettiva:

« Guai però a pensare che la nuo-va evangelizzazione non ci riguardi in prima persona. In questi giorni più vol-te tra noi Vescovi si sono levate voci a ricordare che, per poter evangelizza-re il mondo, la Chiesa deve anzitutto porsi in ascolto della Parola. L’invito ad evangelizzare si traduce in un ap-pello alla conversione.

Sentiamo sinceramente di dover convertire anzitutto noi stessi alla po-tenza di Cristo, che solo è capace di fare nuove tutte le cose, le nostre po-vere esistenze anzitutto. Con umiltà dobbiamo riconoscere che le povertà e le debolezze dei discepoli di Gesù, specialmente dei suoi ministri, pesano sulla credibilità della missione» (Mes-saggio, 5).

b) II superamento di una pro-spettiva soggettiva individuale: evangelizzazione nuova come ri-forma della Chiesa.

Ma ci potrebbe essere un rischio, quello di ridurre la conversione a una questione individuale e di non saper-la coraggiosamente estendere alla figura di Chiesa, al modo con il quale essa sta al mondo.

All’evangelizzazione come “do-manda della Chiesa su se stessa” è stata data una risposta (convinta e sincera, certo) prevalentemente per-sonale e spirituale: l’appello alla conversione dei singoli membri. La richiesta di “riforma” (perché di que-sto si tratta) si è semplificata in una risposta personale di “conversione”

Che questo sia un aspetto decisi-vo della questione, nessuno lo mette in dubbio. Non va dimenticata, però, l’altra faccia della questione, quella ricordata da Paolo VI nell’Evangelii Nuntiandi e richiamata da alcuni Pa-dri sinodali: la Chiesa ha continuo bi-sogno di essere evangelizzata ed è evangelizzatrice non solo con quello che dice ma nel suo modo di vivere, di organizzarsi, di esercitare l’auto-rità, di utilizzare le proprie risorse

Le “conversioni” di un Sinodo

parrocchie, Chiesa in cammino, una evangelizzazione nuova - parrocchie, Chiesa in cammino, una evangelizzazione nuova - parrocchie, Chiesa in cammino -

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umane ed economiche, di valorizza-re al suo interno i differenti carismi e ministeri, di stabilire le relazioni, di giudicare la cultura e di entrare in dialogo con le donne e gli uomini di oggi, di sentirsi una “Chiesa nel mon-do contemporaneo” e non una Chiesa “di fronte” al mondo contemporaneo, ecc... La “conversione” spirituale sog-gettiva deve anche coraggiosamente diventare “riforma strutturale”, per-ché il Vangelo sia comunicato dalla Chiesa in maniera coerente sia dalle sue parole sia dalla figura che essa si da nella storia. Ciò che fa ostacolo al Vangelo nella gente, credenti com-presi, non è la fragilità delle singole persone, dei preti o dei Vescovi o dei cristiani. L’ostacolo più grosso viene dalle strutture ecclesiali, dai suoi fun-zionamenti interni.

Il nesso rinnovamento - conversio-ne - riforma risulta determinante per-ché la Chiesa sia “sacramento”, cioè segno e strumento. Nel nostro caso, il rinnovamento dell’evangelizzazio-ne (“nuova”) richiede innanzitutto la conversione dei singoli credenti (auto evangelizzazione) e prende corpo come riforma della figura di Chiesa, affinchè tutto in essa parli del Van-gelo, affinchè le parole siano visibili nella forma di vita e il modo di vive-re sia esplicitato nelle parole.

c) II superamento di una prospettiva unidirezionale: evangelizzazione nuova nel segno della reciprocità.

Nel Sinodo è emerso un terzo sen-so della “novità” dell’evangelizza-zione. Potremmo inconsapevolmente pensare che noi abbiamo il Vangelo e il problema sia quello di farlo pas-sare agli altri. Si pone qui la delicata questione del rapporto con le cultu-re: lo sguardo che la Chiesa porta sulla cultura e il processo di incultu-razione che mette in atto. Una del-le evoluzioni o conversioni avvenute all’interno del Sinodo è stata questa: il passaggio da una Chiesa che sta alla finestra della storia, la giudica e ne stabilisce la terapia, a una Chiesa che sta dentro la storia come compa-gna di viaggio, pronta a mettere a disposizione il dono del Vangelo, ma altrettanto pronta a ricevere una pa-rola di Vangelo che il Signore riserva per lei nelle donne e negli uomini di oggi, credenti o meno. Questo senso della reciprocità è basato sulla con-vinzione che Dio agisce attraverso la Chiesa come via canonica, ma non

lascia circoscrivere il suo amore nei confini della Chiesa stessa. Misterio-samente ma potentemente lo Spirito è stato effuso in tutti i cuori. È il ri-cupero della prospettiva di Gaudium et Spes: la Chiesa ha tanto da dare ma anche da ricevere.Onorare la prospettiva di Gaudium et Spes significa comprendere da parte della Chiesa quanto la cultura sia non solo oggetto di evangelizzazione, ma contenga in se stessa, grazie all’azio-ne dello Spirito che la precede, una parola di Vangelo per lei. Avviene un reale dialogo, nel quale la Chiesa si appoggia alla cultura, ad alcuni suoi elementi e grazie a questi rivede se stessa e ricomprende il Vangelo dif-ferentemente e quindi impara a vi-verlo differentemente, a pensarlo e a proporlo in maniera inedita. Il Van-gelo di sempre, ma veramente “nuo-vo”. Infatti solo se la fede si appog-gia su alcuni elementi della propria cultura può ripensarsi, riformularsi, rendersi plausibile e ragionevole, culturalmente vivibile. Appoggiando-si così alla cultura per rendere ragio-ne di se stessa, la fede “salva” la cul-tura (la integra nel dinamismo della salvezza) e si situa essa stessa come ragionevole, possibile e desiderabile nel proprio contesto.Da questo atteggiamento deriva una lettura che va oltre la consueta lista di aspetti negativi e positivi, e che di-venta interrogativo portato su di sé e ricerca (almeno embrionale) di “punti di appoggio” culturali che invitano la Chiesa non solo a operare un giudi-zio evangelicamente critico su quanto accade, ma a riflettere su una sua ri-

formulazione più evangelica. Questa concezione nel rapporto con la cul-tura è stata recepita nel messaggio:«Questo sereno coraggio sostiene anche il nostro sguardo sul mondo contemporaneo. Non ci sentiamo in-timoriti dalle condizioni dei tempi che viviamo. Il nostro è un mondo col-mo di contraddizioni e di sfide, ma resta creazione di Dio, ferita sì dal male, ma pur sempre il mondo che Dio ama, terreno suo, in cui può esse-re rinnovata la semina della Parola perché torni a fare frutto. Non c’è spazio per il pessimismo nelle menti e nei cuori di coloro che sanno che il loro Signore ha vinto la morte e che il suo Spirito opera con potenza nella storia» (Messaggio, 6).

ConclusioniQueste tre conversioni di mentali-

tà (ritorno al Vangelo, riforma della Chiesa, dialogo con la cultura in un atteggiamento di reciprocità) posso-no rendere veramente nuova l’evan-gelizzazione. Esse sono più preziose di un ricettario dell’agire pastorale.

La domanda seria “che cosa dob-biamo fare per evangelizzare” sca-va qui nel profondo la sua risposta: chi vogliamo essere?

L’evangelizzazione è nuova nella misura in cui parte da un rinnovato ascolto del Vangelo (conversione), “riformula” il volto della Chiesa in modo che diventi icona del Vangelo (riforma), ci porta a stare volentieri e in modo dialogale dentro la nostra storia e la nostra cultura (incultura-zione).

parrocchie, Chiesa in cammino, una evangelizzazione nuova - parrocchie, Chiesa in cammino, una evangelizzazione nuova - parrocchie, Chiesa in cammino -

Anniversari Matrimonio22settembre 2013

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La nuova evangelizzazione riguarda soprattutto le parrocchie chiamate a impegnarsi per rivedere la propria

presenza tra la gente e dentro la società Sussiste da tempo un radicato lavoro di trasformazio-ne da parte delle parrocchie, sia quelle appartenenti alle Chie-se giovani, o nelle grandi metropoli, sia quelle nelle Chiese con radici cristiane di tradizioni più antiche. Così, nelle pro-posizioni conclusive del Sinodo, i vescovi hanno affermato che la parrocchia continua ad essere la prima presenza della Chiesa, il luogo e lo strumento della vita cristiana, che è capa-ce di offrire delle opportunità per il dialogo tra gli uomini, per ascoltare ed annunciare la Parola di Dio. Per questo la incorag-giano a non adagiarsi sull’esistente, ma ad assumere in pieno lo spirito della nuova evangelizzazione scoprendo nuove vie e trovando altre formule che evidenzino maggiormente l’iden-tità propria missionaria della Chiesa intera. I vescovi invitano le parrocchie ad essere delle cellule viventi, dei luoghi per pro-muovere l’incontro personale e comunitario con Cristo, per sperimentare la ricchezza della liturgia, per dare una formazio-ne cristiana iniziale e permanente, e per educare tutti i fedeli in fraternità e carità, specialmente verso i poveri. È questo, dun-que, un invito forte per tutte le parrocchie, che interpella tutti gli operatori pastorali. Ma come può una parrocchia esprime-re concretamente questo nuovo impegno di evangelizzazione nel contesto attuale?

1. Prima di evangelizzare: evangelizzarsiDi fronte all’uomo di oggi, per poter annunciare il Vangelo in modo credibile, una parrocchia deve prima di tutto lasciarsi essa stessa evangelizzare. Nuova evangelizzazione per una par-rocchia significa, dunque, partire dall’interno, per porre poi in discussione tutto il proprio essere ed il proprio vivere. In altri termini, potremmo quasi dire che la nuova evangelizzazione trova la sua espressione più significativa nella domanda che la parrocchia si pone su di sé, dando vita non ad un’operazione esteriore e superficiale, ma ad un profondo ripensamento delle ragioni interiori per cui e secondo cui si è parrocchia in un deter-minato territorio. Quindi, la nuova evangelizzazione, per una comunità parrocchiale, è prima di tutto una conversione. Essa

impli-ca un p r o -c e s s o di pu-rifica-z i o n e e l’im-pegno ad as-sume-re in modo

autentico la logica pasquale come stile di Chiesa.Convertirsi vuol dire abbandonare alcune scelte, abitudini, esperienze, stili, che rendono la parrocchia autoreferenziale e chiusa. Abbandonare quel modo di convocare, dentro a una pastorale strutturata, con una forte programmazione, fatta di iniziative che hanno al centro la parrocchia stessa, le sue strut-ture, i suoi edifici, le sue iniziative. Abbandonare quel modo di vivere accentrato, uniforme, che molte volte sembra temere le differenze e che porta a scambiare la comunione con l’omo-geneità.

2. Prima dell’organizzazione: una sana destrutturazioneCredo che una parrocchia di oggi, che guardi al futuro ponen-dosi il compito di evangelizzare, debba avere il coraggio di una pastorale un po’ destrutturata, capace di una missione che pas-sa attraverso i luoghi multiformi della vita e le sue imprevedi-bili occasioni. L’obiettivo è quello di una parrocchia che riesca a trovare la propria unità ed il proprio tessuto strutturante non solo nelle iniziative che propone, ma in alcuni momenti for-ti della sua vita di fede. Per arrivare a tanto, ogni parrocchia deve lasciarsi evangelizzare dal suo interno, riscoprendo la no-vità del Vangelo, tornando alla fedeltà di vita evangelica delle prime comunità cristiane, recuperando la relazione spirituale con il suo Signore in modo da configurarsi come reale comu-nità, come vera fraternità, come corpo e non come azienda. È importante che ogni parrocchia, prima di pianificare progetti di evangelizzazione, si lasci plasmare dall’azione dello Spirito, per non dimenticare che esso è l’artefice principale dell’an-nuncio. È lo Spirito Santo che apre i cuori e li converte a Dio. Pertanto l’esperienza di incontrare il Signore Gesù, resa possi-bile dallo Spirito che ci introduce nella vita trinitaria, accolta in uno spirito di adorazione, di supplica e di lode, deve fondare tutte le scelte e le azioni della nuova evangelizzazione. La nuo-va evangelizzazione deve essere sostenuta da una dimensione contemplativa che viene continuamente nutrita attraverso la preghiera, cominciando con la liturgia, in particolare l’Eucari-stia domenicale, fonte e culmine della vita della Chiesa.3. Prima degli operatori pastorali: i testimoniUna parrocchia impegnata nella nuova evangelizzazione è una parrocchia che ha bisogno di operatori pastorali, ma che prefe-risce dei testimoni. Questo non significa che la parrocchia non debba avere i suoi catechisti o i suoi animatori della liturgia o i suoi educatori. Significa semplicemente che tali figure non devono obbedire a una logica utilitaristica che cerca di non essere sguarnita delle persone che possano assolvere a tutte le funzioni di cui la parrocchia ha bisogno, ma devono inve-ce sentirsi corresponsabili della vita della propria comunità, così come accade all’interno di un’ordinaria e normale fami-glia. Solo in questo secondo caso, infatti, l’istinto a verificare di continuo la qualità della propria esperienza di fede è forte, vivo, ripetuto. Del resto, ritornando all’analogia precedente: ci si preoccupa della vita della famiglia e non dell’efficienza nell’assolvimento delle sue funzioni!È una parrocchia che ha bisogno di operatori pastorali, ma

parrocchienello stiledella nuova evangelizzazione

Battesimi Botticino Mattina21 settembre 2013

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preferisce dei laici maturi nella loro vocazione e nella consa-pevolezza di essa; laici capaci di spendere la maturità della loro fede nei loro normali ambienti di vita e dunque voce della loro comunità, dove la comunità con le sue strutture non può giun-gere. Una parrocchia che affida il suo annuncio del Vangelo alla maturità di fede dei suoi laici è una comunità che allarga indefinitamente le proprie potenzialità missionarie: è una co-munità che può raggiungere le famiglie, gli ambienti di lavoro, gli spazi della cultura, della vita amministrativa, della scuola, della sanità. Se la parrocchia, nella persona del parroco, si sen-te capace di evangelizzare solo per le attività che riesce a tene-re sotto il suo stretto controllo, allora questa missionarietà dei laici la farà sentire impotente e inefficace. Ma se una comunità parrocchiale ha imparato a credere che ciò che si realizza non è solo quello che passa attraverso la strutturazione delle proprie attività, ma attraverso la maturità della fede dei propri figli, attraverso la loro capacità di condividere il cammino di vita e le inquietudini delle persone di oggi, attraverso la capacità di una parola semplice e quotidiana pronunciata davanti alle situazioni e agli interrogativi della vita, allora questa comunità ha enormemente ampliato le sue possibilità di evangelizzazio-ne, le ha moltiplicate, ha posto accanto alle persone che fanno parte della comunità senza saperlo o senza volerlo la forza di fratelli che sanno camminare a fianco. Questa è la forza di una parrocchia missionaria, di una parrocchia che vive nello spiri-to della nuova evangelizzazione.

4. Prima dei bambini: gli adultiII Sinodo sulla nuova evangelizzazione ha messo in maniera molto chiara l’accento sulla catechesi degli adulti senza toglie-re nulla alla cura e all’educazione dei più piccoli. Evangelizza-re è soprattutto una questione che riguarda gli adulti e dun-que, una parrocchia che si voglia rinnovare non può che far ricadere su di essi la propria scelta preferenziale. Non può che essere così, e ciò non per ragioni strategiche, come talvolta si sente dire, e cioè perché se gli adulti sono convinti e coinvolti, a loro volta convincono e coinvolgono i figli, lo sanno bene i catechisti dell’iniziazione cristiana, ma perché è degli adulti quella maturità di fede che permette loro di stare in piedi da soli nei luoghi ordinari della vita, che permette loro una più diretta capacità di dialogo con le persone di oggi, con colo-ro che sono più chiaramente in ricerca, un dialogo aperto e credente sui grandi temi della vita. Credo che oggi una delle principali forme di evangelizzazione sia, oltre quella della te-stimonianza cristiana della propria personale esistenza e della qualità della propria umanità, quella della capacità di dialogo sui grandi problemi della vita contemporanea. Faccio qualche esempio: con una persona che vive una difficile esperienza familiare, la cosa più importante non è quella di saperle dire quali sono i principi della vita cristiana sulla famiglia, quan-to piuttosto quella di fare una riflessione aperta, problemati-ca, sulla famiglia, sulle relazioni di coppia, sull’amore, senza ricorrere al linguaggio codificato della Chiesa, ma piuttosto ragionando in termini umani, attingendo al proprio vissuto, al proprio modo di affrontare, da credenti, le stesse situazioni. E ancora, se una persona lontana dalla vita di fede si trova a dover sostenere la prova di una perdita, di un lutto, non è cer-to portandola a riflettere sui principi teorici del dolore e della morte, né tanto meno dandole risposte metafisiche o teologi-che, che la si aiuterà, quanto piuttosto usando parole semplici, fatte anche di silenzio, che esprimano al meglio la propria vi-cinanza e riescano ad infondere fiducia e speranza. Questo ri-chiede una competenza umana che solo l’adulto può avere; ri-

chiede una persona capace anche di far risuonare le parole di vita buona del Vangelo dentro alle domande sulla vita dell’al-tro. Per noi, che spesso abbiamo ricevuto le risposte senza es-serci posti tante domande, per noi che abbiamo recepito gli insegnamenti del catechismo senza aver sofferto la fatica della ricerca, questo può essere oggi molto difficile, ma può diven-tare anche rigenerante per la nostra fede, può diventare la gra-zia di ricominciare a credere con chi si accompagna a credere.

5. Prima delle iniziative: le relazioniSe oggi una parrocchia vuole essere in comunicazione con le persone di questo tempo e vuole rappresentare un punto di-riferimento significativo per le persone, deve avere il senso del valore delle relazioni, curandole con delicatezza, con umanità, con fantasia. In questo senso gli esempi possono essere tanti. Basti pensare a molti adolescenti, che non trovano nell’orato-rio un punto valido di incontro, che se ne stanno seduti sul muretto o a girovagare nei giardini della piazza, ma che pos-sono trovare negli educatori, disponibili a fermarsi con loro, a parlare, ad ascoltare, a diventare un po’ amici, i referenti del loro cammino esistenziale, le persone a cui raccontare i propri problemi, con cui sfogarsi, con cui ridere. Oppure si potrebbe pensare a due giovani, che dopo alcuni anni di convivenza si avvicinano alla fede perché desiderano sposarsi, e questo loro desiderio viene accolto e sostenuto da persone che sanno dia-logare, che sanno dare le giuste risposte, che sanno stabilire con loro delle relazioni che durano oltre questa circostanza, che sanno accettarli e sanno farli sentire parte della famiglia della parrocchia. E gli esempi si possono moltiplicare. E la cura delle relazioni permette di accogliere e parlare la lingua di chi è diverso, per storie personali, sensibilità, vissuti di fede e cultura, e proprio per questo rende esplicito lo stile della Chiesa che testimonia l’amore infinito di Dio, non riducendo i suoi linguaggi, ma piuttosto facendo coro, cioè impegnandosi a far convergere verso l’unità la molteplicità delle esperienze che sono presenti in essa, e che essa ama coltivare proprio per fedeltà alle esigenze missionarie di oggi.

Rinnovo promesse Battesimo a S.Gallo2° anno ICFR 9 giugno 2013

Battesimo a S.Gallo6 giugno 2013

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Trascorsi i primi cento giorni di pontificato si delinea, attraverso le parole e i gesti di papa Francesco, un primo tratto del suo insegnamen-to.

Il nuovo vescovo di Roma ha un profilo pastorale. Il suo linguaggio è semplice e immediato, eppure ri-sulta udibile ed efficace. Usa parole consuete, ma dette da lui cessano di mostrarsi logore, e ritrovano valore. Compie gesti simbolici, carichi di linguaggio. Il suo è un agire comu-nicativo. Non c’è distanza tra la sua persona e quel che dice o fa.

È credibile in sé prima che come papa.

Poi c’è il contesto. Interno ed esterno alla Chiesa. Viviamo e per-cepiamo situazioni di menzogna, di ipocrisia. Anche dentro la Chiesa. E non è solo questione dell’emergere di alcuni scandali gravi che hanno gettato discredito nell’istituzione ec-clesiastica. Il contesto culturale crea un’oggettiva distanza, una contrad-dizione tra l’annuncio del papa e la

situazione storica concreta.Francesco annuncia convintamente il Vangelo ed è credibile. Quell’an-nuncio proviene dal profondo della sua vita spirituale e della sua uma-nità. Il suo è uno stile cristiano. C’è concordanza tra il contenuto e la for-ma e c’è dissonanza tra il messaggio e il contesto. Per questo parla al pro-fondo di ciascuno e non è percepito come uno dei tanti falsi profeti che agitano la postmodernità.

Chi lo intende come «buonista» per i toni, e «semplicista» per i con-tenuti, in contrasto con la forma drammatica e culturale del cristia-nesimo di papa Benedetto, più sofi-sticata, non ha compreso l’uomo, né quel che sta accadendo.

Non c’è nulla da togliere all’ap-proccio che fu di Benedetto XVI, e che rimane una forma alta della Tradizione. Benedetto ha percepito la stessa urgenza dell’ora, ha letto lucidamente (forse come pochi altri) la situazione critica del cristiane-simo nella radicale crisi dell’Occi-dente. La percezione della tragedia del postmoderno tuttavia non basta.

Essa in fondo rimane tutta all’inter-no del dio necessariamente muto dei filosofi, non fuoriesce dalla di-mensione intramondana del mon-do. Il problema era ed è la risposta. Di questo era consapevole lo stesso Benedetto, che aveva avviato il suo pontificato con un’enciclica intitola-ta Deus caritas est. Ma è poi restato come imbozzolato nel groviglio del canone culturale ellenistico, ed è fi-nito provato dalle contraddizioni e dalla crisi d’autorità dell’istituzione ecclesiastica.

Francesco ha avviato una rispo-sta che, prima ancora di configurarsi come linea riflessa del suo pontifica-to, esprime la convinzione spirituale profonda del suo essere pastore. Al centro del suo magistero c’è questo: vivere il Vangelo. Il Vangelo è pos-sibile e tocca il centro della nostra umanità, il centro dell’umanità di Cristo, «la carne di Cristo». L’an-nuncio della fede deve essere fatto risuonare nuovamente, come fosse la prima volta, andando oltre la for-ma culturale prevalente che sin qui l’ha espressa. Per fare questo occor-re uno sguardo fiducioso, secondo il paradigma teologico della speranza, affidato interamente alla grazia di Dio. Grazia e incarnazione sono le due figure teologiche portanti. Le parole di Francesco hanno fede. E la sua è una fede amante, intrisa di umanità. L’annuncio della Scrittura e l’esortazione a essa – pratica pre-valente del suo magistero – lasciano interamente aperta nell’interlocu-tore la decisione riflessa. La parola procede nelle coscienze. Avviene. Uno schema che non solo non è alie-no alla riflessione teologica, ma che anzi ne richiede di più e di più libe-ra. Analogamente, non si può ridurre il cristianesimo alla sua sola forma

Chiesa Universale Papa Francesco / Chiesa Universale Papa Francesco / Chiesa Universale Papa Francesco / Chiesa Universale Papa Francesco / Chiesa Universale Papa Francesco / Chiesa Universale Papa Francesco

inizia un tempoLo stile e il linguaggio

del nuovo vescovo di Roma

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Può sembrare un paradosso, ma la prima enciclica di Francesco l’ha scritta Benedetto. O, per meglio dire, l’ultimo Ratzinger. La scelta di assumere gran parte del testo dell’enciclica preparata dal papa prece-dente e di firmarlo come proprio non è nuova. Nuovo è il dichiararlo esplicitamente. Con ciò Francesco ha reso omaggio al suo predecesso-re, consentendogli di completare, dopo il gesto drammatico della ri-nuncia, il percorso della sua riflessione teologica come dono alla Chie-sa nell’Anno della fede, che egli aveva voluto e che con questa enciclica viene virtualmente concluso. Forse è lo stesso Benedetto che l’ha messa a disposizione di Francesco. E lui ha accettato.Così si esprime papa Francesco in proposito nell’enciclica, datata 29 giugno 2013 e resa pubblica il 5 luglio: «Queste considerazioni sulla fede (…) intendono aggiungersi a quanto Benedetto XVI ha scritto nelle lettere encicliche sulla carità e sulla speranza. Egli aveva già qua-si completato una prima stesura di lettera enciclica sulla fede. Gliene sono profondamente grato e, nella fraternità di Cristo, assumo il suo prezioso lavoro, aggiungendo al testo alcuni ulteriori contributi. Il successore di Pietro, ieri, oggi e domani, è infatti sempre chiamato a “confermare i fratelli” in quell’incommensurabile tesoro della fede che Dio dona come luce sulla strada di ogni uomo» (n. 7).Papa Francesco ha un’idea plurale e sinfonica della Tradizione.La vita della Chiesa è più grande dei papi che l’hanno interpretata.A Pietro è chiesto di confermare nella fede, nell’amore e nell’unità, ma tutte queste cose sono grazia, sono un dono di Dio. Per papa Francesco poi non ci sono generi letterari che tengano. Può ritenere di dire cose importanti in un’omelia come in un’enciclica.Scrivendo in anticipo non conosco i commenti e le interpretazioni che usciranno. Ma immagino che alcuni diranno che Francesco non può competere in teologia con Benedetto e che il magistero di riferimento rimane il suo. Non è così. Bisogna capire la parabola di Benedetto e guardare con minor pregiudizio alla traiettoria di Francesco. Nella parte conclusiva del suo pontificato, Benedetto XVI ha consegnato la propria riflessione a tre volumi su Gesù di Nazaret, firmati come papa e come teologo (Joseph Ratzinger – Benedetto XVI). Da papa ha voluto offrire la propria riflessione di teologo, chiedendo che così fosse accolta. Lo ha fatto sul tema centrale della fede cristiana: Gesù. L’enciclica di Francesco riprende la cristologia di Ratzinger. È l’ultimo Ratzinger: più catechetico, più dialogante e discorsivo, meno dogma-tico, meno drastico nei giudizi sulla modernità.Un testo breve: 4 capitoli, 60 numeri. L’architettura è sostanzialmente giovannea. Dopo l’Introduzione, apre col tema della rivelazione; pro-segue con: la risposta credente come ermeneutica della fede; il ruolo e l’essenza della Chiesa; la costruzione della città terrena; chiude con l’icona di Maria come immagine del credente .«Abramo (…) esultò nella speranza di vedere il mio giorno, lo vide e fu pieno di gioia». Con queste parole, che Giovanni riferisce a Gesù, l’enciclica fa convergere tutte le linee dell’Antico Testamento in Cristo. «Se Israele ricordava i grandi atti di amore di Dio, che formavano il centro della sua confessione e aprivano lo sguardo della sua fede, ades-so la vita di Gesù appare come il luogo dell’intervento definitivo di Dio, la suprema manifestazione del suo amore per noi (…). La fede cristiana è dunque fede nell’amore pieno, nel suo potere efficace, nella sua capacità di trasformare il mondo e di illuminare il tempo. “Abbia-mo conosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi” (1Gv 4,16). La fede coglie nell’amore di Dio manifestato in Gesù il fondamento su cui poggia la realtà e la sua destinazione ultima» (n. 15). Qui è il centro di tutto, legato alla morte di Cristo e alla sua risurrezione, che svela l’affidabilità dell’amore di Dio. La pienezza cui Gesù porta la fede ha un altro aspetto. Nella fede Cristo non è soltanto colui a cui crediamo, ma anche colui al quale ci uniamo per poter credere: «La fede non solo guarda a Gesù, ma guarda dal punto di vista di Gesù» (n. 18). Sarebbe stato opportuno inserire qui – cosa che Francesco ha fatto all’Angelus del 30 giugno – la riflessione sulla fede di Gesù.Ma l’enciclica la omette. Il papa affronta qui anche il tema della sal-

vezza mediante la fede e lo fa ricorrendo all’interpretazione che Paolo (cfr Rm 10,6-7) fa del Deuteronomio sulla lontananza/vicinanza di Dio (cfr Dt 30,11-14), concludendo che Cristo con la sua incarnazio-ne e risurrezione ha abbracciato l’intero cammino dell’uomo e dimora nei nostri cuori attraverso lo Spirito.Nel secondo capitolo ritorna il tema del rapporto tra la fede e la verità anche in rapporto con le forme della cultura contemporanea (svilup-po scientifico e tecnologico, dimensione puramente individuale). Esse hanno messo in crisi la verità. La «grande verità».Così rimane solo un grande relativismo che separa religione e verità e stende un grande oblio sulla domanda originaria su Dio (cfr n. 25). Il tema del rapporto con la contemporaneità torna al n. 32, dove la verità è ridotta ad autenticità soggettiva, mentre una verità comune ci fa paura perché la «identifichiamo con l’imposizione intransigen-te dei totalitarismi». In mezzo, il testo affronta il tema del rapporto

tra l’amore e la verità sotto forma di pericoresi tra le due dimensioni, senza supremazia dell’una sull’altra. Anche il tema della fede come «ascolto» e come «visione» cerca lo stesso equilibrio: l’udito attesta nella temporalità la chiamata personale e l’obbedienza; la vista offre la visione sintetica del progetto di Dio.È questa una delle parti più belle del testo, totalmente giovanneo; pec-cato che non si sia introdotto un riferimento al testo sulla visione per eccellenza: l’Apocalisse.La fede della Chiesa ne garantisce la trasmissione. Essa mantiene uni-ti tra loro tutti i tempi e ci rende contemporanei a Gesù.È questo il capitolo più tradizionale e meno innovativo, dove si insisteprevalentemente sul rapporto tra sacramenti e trasmissione della fede secondo uno schema classico. La confessione di fede, la celebrazione dei sacramenti, il decalogo e la preghiera sono indicati come strutture portanti attorno a cui ruotano la stessa catechesi della Chiesa e il Ca-techismo della Chiesa cattolica, definito strumento fondamentale col quale la Chiesa comunica l’intero contenuto della fede. La fede è una per l’unità di Dio, perché si rivolge all’unico Signore, per l’unità della Chiesa. Per questo deve essere confessata in totale purezza e integrità: «Proprio perché tutti gli articoli di fede sono collegati in unità, negare uno di essi, anche di quelli che sembrerebbero meno importanti, equi-vale a danneggiare il tutto» (n. 48).Infine la costruzione della città dell’uomo. Qui i toni di Francesco sono più evidenti. «La fede non è un rifugio per gente senza coraggio, ma la dilatazione della vita» (n. 52). E ancora: «La fede ci insegna a vedere che la luce del volto di Dio mi illumina attraverso il volto del fratello» (n. 54). Queste sottolineature aprono al tema della compas-sione, della compagnia degli uomini nel dolore. Una condizione nella quale deve essere donata la speranza. «La speranza ci proietta verso il futuro, ci colloca in una prospettiva diversa rispetto alle prospettive illusorie degli idoli del mondo. Non facciamoci rubare la speranza» (n. 57).

PAPA FRANCESCO - LETTERA ENCICLICALumen fidei

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dottrinale, ma esso deve riguarda-re l’insieme della vita, di ogni vita, nelle sue espressioni e nelle sue re-lazioni nei diversi contesti culturali e ambientali.

Pascal, nel Mystère de Jésus, fa dire a Gesù, a proposito del suo co-stato aperto, «quelle gocce di sangue le ho versate per te». Nel costato aperto di Gesù si manifesta per cia-scuno l’ospitalità attraente di Dio.

La fede cresce con il SignoreSe si seguono in un ideale filo ros-

so anche solo i suoi ultimi e diversi-ficati interventi se ne ha una qualche conferma.

Lo scorso 18 maggio, nell’incontro con i movimenti per la veglia di Pen-tecoste, Francesco ha ribadito che «la fede cresce col Signore». E che oggi «la comunicazione della fede si può fare soltanto con la testimonianza, e questo è l’amore. Non con le nostre idee, ma con il Vangelo vissuto nella propria esistenza e che lo Spirito San-to fa vivere dentro di noi. È come una sinergia fra noi e lo Spirito Santo, e questo conduce alla testimonianza (…). Il mondo di oggi ha tanto biso-gno di testimoni. Non tanto di maestri, ma di testimoni. Non parlare tanto, ma parlare con tutta la vita: la coe-renza di vita, proprio la coerenza di vita! Una coerenza di vita che è vi-vere il cristianesimo come un incon-tro con Gesù che mi porta agli altri e non come un fatto sociale ». Qui è ri-compresa tutta la sua insistenza sulla Chiesa che non è organizzazione ben-

sì amore fraterno. Per questo «deve uscire da sé stessa, verso le periferie esistenziali, qualsiasi esse siano».

Alla Domus Sanctae Marthae, nell’omelia del giorno 4 giugno, ha stigmatizzato l’ipocrisia, così viva nella cultura contemporanea, ma an-che nella Chiesa, come dissimula-zione e contraffazione della verità, svuotamento del suo contenuto, anche quando ne salvaguarda l’apparenza. Ancora una sferzata alla mondanità della Chiesa e degli ecclesiastici. Ai nunzi pontifici, radunati il 21 giugno in occasione dell’Anno della fede, in un discorso che non solo non ne smi-nuisce la figura, ma anzi ne rilancia la funzione, ha ricordato come per gli uomini di Chiesa ci sia sempre il pericolo di «cedere a quella che io chiamo, riprendendo un’espressione di De Lubac, la “mondanità spiritua-le”: cedere allo spirito del mondo, che conduce ad agire per la propria rea-lizzazione e non per la gloria di Dio (…). Ma noi siamo pastori!».

Nel «delicato compito di realizzare l’indagine per le nomine episcopali» ha raccomandato loro: «Siate atten-ti che i candidati siano pastori vicini alla gente. (…). Che siano padri e fra-telli, siano miti, pazienti e misericor-diosi; che amino la povertà, interiore come libertà per il Signore e anche esteriore come semplicità e austerità di vita, che non abbiano una psico-logia da “principi”. Siate attenti che non siano ambiziosi, che non ricerchi-no l’episcopato (…). E che siano sposi di una Chiesa, senza essere in costan-

te ricerca di un’altra. Siano capaci di “sorvegliare” il gregge che sarà loro affidato, di avere cioè cura per tutto ciò che lo mantiene unito; di “vigi-lare” su di esso, di avere attenzione per i pericoli che lo minacciano; ma soprattutto siano capaci di “veglia-re” per il gregge, di fare la veglia, di curare la speranza, che ci sia sole e luce nei cuori, di sostenere con amore e con pazienza i disegni che Dio attua nel suo popolo». Ha fatto seguito, il 23, lo strappo della sua assenza, all’ul-timo minuto, al concerto organizzato in suo onore in occasione dell’Anno della fede.

Al suo posto la sedia lasciata visi-bilmente vuota.

Nel chirografo che istituisce la Pontificia commissione referente sul-lo IOR (il 24 giugno), la motivazione dichiarata è quella di consentire una migliore armonizzazione dell’istituto con la missione della Chiesa univer-sale e della Sede apostolica. Sul tema ecumenico dell’unità della Chiesa, nella solennità dei santi Pietro e Pao-lo, ha negato lo stile di un ecumeni-smo della riconquista cattolica, affer-mando: «Uniti nelle differenze: non c’è un’altra strada cattolica per unirci. Questo è lo spirito cattolico, lo spirito cristiano: unirsi nelle differenze. Que-sta è la strada di Gesù!».

Il 30 giugno, all’Angelus, ha af-frontato il tema della fede di Gesù come paradigma della nostra fede. La ferma decisione di Gesù di andare a Gerusalemme, cioè incontro alla sua passione, resa centrale nel Vangelo di

Luca, afferma, ci dice Francesco, «l’importanza che, anche per Gesù, ha avuto la coscienza: l’ascoltare nel suo cuore la voce del Padre e se-guirla». «Una decisione presa nel-la sua coscienza, ma non da solo: insieme al Padre, in piena unione con lui! Ha deciso in obbedienza al Padre, in ascolto profondo, intimo della sua volontà. E per questo la decisione era ferma, perché presa insieme con il Padre. E nel Padre Gesù trovava la forza e la luce per il suo cammino. E Gesù era libero, in quella decisione era libero. Gesù vuole noi cristiani liberi come lui, con quella libertà che viene da que-sto dialogo con il Padre, da questo dialogo con Dio».

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Il Concilio avanti a noiCinquant’anni dopo il concilio

Vaticano II, che avviò «la prima au-toattuazione ufficiale della Chiesa in quanto Chiesa mondiale», inaugu-rando un influsso reciproco tra tutte le parti e le componenti della Chiesa cattolica, un papa venuto dai confini del mondo, riprendendo il tema del primato della pastorale in un conte-sto non più solo occidentale, può fare compiere alla Chiesa un passaggio de-cisivo verso una cattolicità reale. Per la prima volta nella storia della Chie-sa, il concilio Vaticano II ha utilizzato uno stile che non aveva né semplice-mente il carattere della dottrina dog-matica sempre valida, né quello della disposizione canonica, bensì quello di una «direttiva» pastorale. Oggi quell’appello pastorale va necessa-riamente fondato e precisato teologi-camente perché lo stile dell’annuncio non può più essere quello del passato. «Questo compito – ricordava Rahner –, la cui soluzione non è ancora sta-ta trovata, (…) comporterà necessa-riamente un richiamo alla gerarchia delle verità ricordate dal Vaticano II e un ritorno alla sostanza fondamenta-le ultima del messaggio cristiano, per poi formulare a partire di qui, in modo nuovo e con una creatività disinvolta, la totalità della fede cristiana in cor-rispondenza con le diverse situazioni storiche».

Il tema della riforma della Chiesa deve essere ricondotto a questa in-tenzionalità della teologia pastorale e all’espressione di un’ecclesiologia di

comunione, altrimenti non riuscirà a toccare i punti nevralgici, ma sortirà al massimo un effetto di riordino or-ganizzativo, di razionalizzazione fun-zionale.

Che ruolo deve avere oggi la Con-gregazione per la dottrina della fede?

La sua può rimanere solo una te-ologia difensiva o, persino, punitiva? Che ruolo deve avere il Sinodo dei vescovi? Lo strumento ha finito col rovesciare il proprio significato: più che fare esprimere nel loro significato universale le singole Chiese locali, le anestetizza. Che ruolo devono avere oggi i dicasteri che si occupano del dialogo ecumenico e del dialogo in-terreligioso? Hanno lo stesso valore e debbono avere lo stesso peso del Pon-tificio consiglio per l’interpretazione dei testi legislativi o della Congrega-zione per le cause dei santi?

Poi c’è certamente la parte politi-ca e istituzionale, che attiene alla de-finizione della Segreteria di stato. La Chiesa, proprio in ragione della sua cattolicità, si rende conto della propria responsabilità nei confronti della sto-ria presente e futura dell’umanità. La coscienza esplicita del Vaticano II e la storia successiva ci hanno insegnato che la configurazione mondiale della Chiesa e la sua ermeneutica pastorale non possono fare a meno di uno stru-mento centralizzato di governo che aiuti, rafforzi e difenda le Chiese lo-cali nelle loro difficoltà, ma esso deve svolgere la propria funzione senza pre-sunzione e volontà di sostituirsi a esse né all’autorità del vescovo di Roma.

Malattia… stato di grazia

CON INFINITA RICONOSCENZA ALLA NOSTRA COMUNITÀTutto va per il meglio, all’im-

provviso la malattia si affaccia alla tua porta e il confine vita/morte diventa così sottile e indefinito che non sai più se sia meglio “partire” prima possibile o con estremo co-raggio affrontare giorno per gior-no ciò che la vita ti riserva.

Sei steso su un letto , non puoi muoverti, né parlare, una macchi-na respira per te ; sguardi smarri-ti, preoccupati ti dicono che forse non ce la farai e tu non puoi fare altro che aspettare l’evolversi de-gli eventi , con estrema pazienza e fiducia.

“ Se aveste fede quanto un gra-nello di senape”….. sono le parole che riecheggiano nella mente e stringi tra le dita questo immagi-nario granello, minuscolo quanto potente.

Qualcuno ti dice” non temere!” con te c’è la reliquia del santo Ta-dini, la tua comunità sta pregando per te, tutti ti aspettano e per in-tercessione del santo e della vergi-ne Maria capisci di avere più forza che sfiducia, più coraggio che pau-ra….. Non temere, io sono con te! È questa presenza che ti sostiene e… avviene il miracolo non solo perché le tue condizioni migliorano a vista d’occhio e riprendi le forze e tutto quello che avevi perso nei lunghi mesi di terapie devastanti e nei giorni di terapia intensiva, ma anche perché vedi materializzarsi quello che Don Tadini chiamava il “miracolo dell’amore”:L’affetto sin-cero di tante persone, una comu-nità solidale unita nella preghie-ra, vecchie amicizie rinsaldate, l’incontro con persone ammirevoli ricche di umanità e di carità, la gio-ia di incontrare, la serenità di ac-cettare , di ricevere, senza pretese, quanto la vita ti offre ogni giorno.

Grazie!Domi

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OItre settantamila vittime in due anni: questo il bilancio che di recente l'Onu ha tracciato del conflitto siriano, scoppiato nel marzo 2011. In questo scenario, quella

dei cristiani è una tragedia nella tragedia. Che va ben al di là del numero dei morti, come ha ricordato il patriarca melchita Gregorio III Laham nel messaggio per la Quaresima: «Molti dei nostri fedeli sono stati rapiti e coloro che sono stati restituiti alle loro famiglie lo sono stati dietro il pagamento di un riscat-to enorme. Oltre ai feriti, si stima che oltre mille cristiani siano stati uccisi, tra; cui un centinaio di cattolici greco - melchiti».Una Chiesa nella tempestaMentre scriviamo, ignoriamo come finirà il rapimento dei due sacerdoti Michel Kayyal (armeno cattolico) e Maher Mahfouz (greco ortodosso), organizzato da un gruppo di ribelli armati il 9 febbraio scorso, sulla strada che da Aleppo conduce a Dama-sco. Naturalmente ci auguriamo che l'angosciosa vicenda ab-bia un lieto fine, ma quello su cui vorrei soffermare l'attenzione è il dramma di una Chiesa nella tempesta: questo duplice rapi-mento non rappresenta che la punta dell'iceberg di un popolo che vive nella precarietà più assoluta. Ogni guerra è terribile, ma quella siriana lo è a modo suo, essendo sempre più diffi-cile stabilire chi combatte chi e perché. In questa situazione, i cristiani rappresentano il classico "vaso di coccio" in mezzo ai vasi di ferro. Ecco perché urge una mobilitazione internaziona-le, politica ma innanzitutto spirituale, in loro favore. «L'effetto della condizione in cui viviamo da più di un anno è che ormai ci siamo assuefatti all'orrore quotidiano»: così si esprimeva l'ar-civescovo di Aleppo degli armeni cattolici, Boutros Marayati, all'indomani del ritrovamento di decine di cadaveri di giovani, vittime di esecuzioni sommarie collettive. E spiegava: «Ci sono sempre notizie di nuove stragi, c'è il rumore continuo dei bom-bardamenti, si vive in uno stato di tensione e paura giorno e notte, c'è la fatica per sopravvivere in una quotidianità in cui non si trova nemmeno l'acqua da bere e il carburante per ri-

scaldare le case... Siamo al centro di una guerra, ma la viviamo come se fossimo al buio, senza capire davvero cosa sta succe-dendo. Ci chiediamo solo quando e come tutto questo finirà. E preghiamo il Signore, che ci guardi e ci protegga». In queste parole è racchiuso il doppio dramma che i cristiani stanno vi-vendo da mesi: il dramma di chi vede il Paese dilaniato da una violenza cieca e totalmente imprevedibile e, al tempo stesso, sa che ancor più confusa è la percezione che la comunità in-ternazionale ha di questo conflitto, definito (e non a torto) «la guerra con meno informazioni dirette sulle due parti in cam-po».Due figure emblematicheLa complessità del contesto siriano e della posizione delle Chie-se cristiane - che non possiamo riassumere in queste pagine - si può, tuttavia, almeno far intuire accennando a due figure emblematiche. La prima è padre Paolo Dall’Oglio, gesuita, 59 anni, espulso dalla Siria nonostante i suoi trent’anni di impegno e servizio per la causa del dialogo e della pace; la seconda è suor Agnese Maria della Croce, carmelitana siriana di 64 anni, superiora del monastero di San Giacomo di Qara (presso Da-masco). Ora, per quanto paradossale possa apparire, nel pa-norama mediatico queste due figure, mosse entrambe da fini assolutamente spirituali, sono finite per diventare, agli occhi di tanti, rappresentanti di due fazioni politiche opposte: gli anti-regime, nel caso di Dall’Oglio, i fiancheggiatori del dittatore nel caso di suor Agnese Maria. In entrambi i casi un colossale abba-glio, che non rende giustizia a queste persone e al loro tenace e meritorio lavoro. Vediamo perché. Padre Dall’Oglio, a partire dai primi anni Ottanta ha promosso la rinascita del monastero cattolico siriaco Deir Mar Musa al-Habashi, nel deserto a nord di Damasco, originario dell’XI secolo. Nel 1992 ha fondato a Deir Mar Musa una comunità spirituale ecumenica mista, che promuove il dialogo islamico - cristiano. Negli anni il monastero è cresciuto diventando un crocevia di incontri e un’oasi spiri-

tuale per molti. L’attivismo di padre Dall’Oglio, però, e la fitta rete di relazioni inter-nazionali che amplificano in maniera molto significati-va le sue prese di posizione contro le atrocità commesse da Assad e dai suoi, gli han-no procurato l’ostracismo del governo siriano, che l’ha espulso dal Paese il 12 giugno 2012. All’indomani

DAL MONDO

Siria,una Chiesa tra due fuochi

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della sua fuga precipitosa all’estero, padre Paolo ha rilasciato un’intervista; in essa - dopo aver sottolineato la falsità del de-creto di espulsione («riconosce il ruolo positivo che ho svolto, quando dice che, nei trent’anni trascorsi nel Paese sono stato testimone di tutti i successi raggiunti dalla Siria negli ambiti po-litico, economico e sociale») - ha denunciato «una pressione sistematica sui leader religiosi perché rimangano con il regime fino in fondo». Madre Agnese Maria della Croce fa parte della cerchia dei leader religiosi. Possibile che la suora palleggi per un regime odioso come quello di Assad? Non è così, come ha scritto in un commento su MissiOnLine.org padre Piero Ghed-do: «Questa coraggiosa carmelitana non prende posizione fra le due parti in lotta, ma usa parole scomode lamentando che le violenze delle milizie islamiste contro i cristiani hanno dato un volto nuovo agli oppositori di Assad». Minacciata dai ribelli e per questo costretta a fuggire in Francia, la religiosa afferma che «ci sono più di duemila gruppi che operano in Siria, la mag-gior parte dei quali legati ad Al Qaeda, ai Fratelli Musulmani e ai salafiti. Non sono venuti per instaurare la democrazia, ma la legge coranica in nome di Allah. (...) Conosciamo il regime e il suo aspetto dittatoriale, le sue azioni non ci sorprendono, ma che un’opposizione ufficialmente presentata come promotri-ce dei diritti umani, della democrazia e della libertà, agisca con violenza ancor più sanguinosa rispetto al regime, è un fatto che sciocca».Il movimento della riconciliazioneEbbene, solo una persona disinformata o in malafede può ne-gare che il regime di Bashar al-Assad è totalitario. Basterà ricor-dare con quale violenza ha reagito fin da subito alle manifesta-zioni popolari nel marzo 2011, che sull’onda della “Primavera araba” chiedevano libertà, democrazia, sviluppo. È altrettanto vero che, in due anni di guerra civile, i fanatici islamici hanno preso molto potere fra gli oppositori di Assad. I cristiani, che non sostengono affatto la dittatura, non vogliono, però, nem-meno che in Siria nasca un altro regime estremista islamico. Per questo madre Agnese Maria della Croce ha fondato il “Mo-vimento della Riconciliazione” (Mussa-hala). «Non è un com-plotto pro-Assad, ma una via per superare la violenza e dare voce al popolo siriano. - Spiega lei - Per scegliere il suo futuro, il nostro popolo ha bisogno di un minimo di sicurezza e stabilità».Intercedere“Stare in mezzo”, inter-cedere - come amava ricordare il cardi-nale Carlo Maria Martini pensando alla Terrasanta -: questo, oggi più che mai, sembra essere il compito, l’ardua vocazione, cui sono chiamati i cristiani della Siria. Lo conferma una bella te-stimonianza raccolta, sempre per il sito del Pime MissiOnLine.

org, da Giorgio Bernardelli: pro-tagonista è una comunità di mo-nache trap-piste provenienti dal monastero italia-no di Valserena, in provincia di Pisa, che da sette anni ha aperto in Siria una piccola comunità in un villaggio vicino al confine; con il Libano. Suor Marta, la superiora della comuni-tà, spiega la difficile posizione dei cristiani siriani: «Non si trat-ta di coprire le violenze; semplicemente non vogliono cadere in una situazione come quella dell’Iraq. Spesso sono gli stessi profughi iracheni rifugiatisi negli ultimi anni in questo Paese a dire: “Qui finirà come da noi”. C’è tanta paura che la desta-bilizzazione possa portare la Siria al caos. E ci sono già segnali preoccupanti in questo senso: noi viviamo in una zona in parte sunnita e in parte alawita (minoranza islamica da taluni consi-derata “eretica”, ndr). Prima non c’erano mai stati problemi di convivenza; adesso invece gli alawiti hanno iniziato ad aprire i propri negozi, perché hanno paura di passare nei quartieri dei sunniti. E viceversa ci sono sunniti che non vanno più nelle zone degli alawiti. Questa frammentazione è un fatto nuovo. Così la vita sì, va avanti, ma dentro a un’aura di sospensione, di incertezza rispetto al futuro, che tocca in maniera particolare proprio i cristiani. Insieme con la protesta - spiega la religiosa -si intrecciano anche regolamenti di conti tra bande crimina-li, contrabbando di armi, lotte tra famiglie. Anche per questo motivo la gente semplice, quando parla degli interventi armati dell’esercito, dice: “Finalmente, era ora che facessero pulizia. O ammazzano loro oppure la stessa sorte toccherà a noi”. Noi proviamo a spiegare che non è con il sangue che si risolve una situazione del genere. Ma loro ci ripetono lo slogan che hanno sentito echeggiare nelle manifestazioni ad Homs: “I cristiani in Libano, gli alawiti alla tomba”. E ci chiedono: “Perché l’Occiden-te non capisce?” - Conclude - I conflitti che stanno e-splodendo probabilmente covavano sotto la superficie; la necessità di un cambiamento è reale. Ma non possono essere i cristiani a pa-garne il prezzo».

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Nel nostro tempo, in cui il genere umano si unifica di giorno in giorno e cresce l’interdipendenza tra i vari popoli, la Chiesa esamina con mag-gior attenzione la natura delle sue relazioni con

le religioni non-cristiane. Così inizia Nostra Aetate, la di-chiarazione conciliare sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane.

UN TESTO PROFETICO E FECONDOI padri conciliari approvano il testo il 28 ottobre

1965 a maggioranza, con 2.221 voti favorevoli, 88 con-trari e 3 nulli, dopo un cammino tormentato e quattro redazioni. Il punto di partenza non corrisponde con quello di arrivo. In un primo momento, infatti, non è prevista la scrittura di un testo sulle relazioni della Chiesa con le altre religioni, ma una dichiarazione su-gli ebrei, che esprima, da un lato, la condanna dell’an-tisemitismo e, dall’altro, la consapevolezza della Chiesa di non poter mai dimenticare che le sue radici sono in Israele. Le discussioni della fase preparatoria e di quel-la conciliare, sulle quali certamente incidono i diversi orientamenti teologici dei soggetti ecclesiali che parte-cipano al Concilio - val la pena ricordare in particola-re il pellegrinaggio di Paolo VI in Israele (4-6 gennaio 1964), il contesto del tempo - attestano un progressivo allargamento dell’orizzonte della Dichiarazione. Il mu-tamento di prospettiva si deve in gran parte a una que-stione di equilibri. In particolare sono i vescovi arabi che premono per inserire anche riferimenti al dialogo con l’Islam. Il problema si allarga quando ci si rende conto che occorre riflettere più a fondo sulla portata te-ologica e umana di tutte le religioni. La gestazione non è semplice: le coscienze non sono mature e la “questione ebraica”, a vent’anni dall’infamia della Shoah, è ancora un tema sensibile nella comunità ecclesiale. Entrano per la prima volta nel vocabolario ecclesiale parole come “dialogo” e “rispetto”, ma emergono con drammaticità anche le tensioni teologiche tra il valore da accordare alle altre religioni e il problema della salvezza. Scrive Benedetto XVI nella prefazione all’edizione tedesca dei

suoi scritti sul Concilio: “In un documento preciso e straordinariamente denso, venne inaugurato un tema la cui importanza all’epoca non era ancora prevedibile. Quale compito esso implichi, quanta fatica occorra an-cora compiere per distinguere, chiarire e comprendere, appaiono sempre più evidenti.”

Dove stanno le novità della Nostra Aetate?Con Nostra Aetate, i padri conciliari promulgano

una Dichiarazione che segna una svolta epocale nella storia della Chiesa. Nonostante l’orizzonte teologico entro cui si muove il n.4 sia ancora tendenzialmente quello della sostituzione, che suppone una visione del-la Chiesa sul modello di Israele, per cui i due sono in concorrenza reciproca, l’affermazione che la Chiesa è il “nuovo e vero Israele” (Lumen Gentium 9) comporta il venir meno dell’elezione d’Israele che è letta soltanto come preparazione e prefigurazione della missione del-la Chiesa. A dispetto di ciò, i contenuti e il tono sono certamente nuovi rispetto alla precedente tradizione ecclesiale. Mentre si conclude la lunga fase in cui i rap-porti fra la Chiesa e le altre religioni erano sostanzial-mente considerati insensati alla luce dell’assioma indi-scusso “extra ecclesiam nulla salus”, a partire dalla Nostra Aetate, in ogni caso, nel testo e nella vita, nell’esperien-za e nella storia, l’ebraismo diventa il paradigma non solo del dialogo interreligioso ma di ogni differenza, sacramento di tutte le alterità e luogo teologico in cui i cristiani possono mostrare che ogni “altro” allude a Colui che è totalmente Altro e totalmente Prossimo a ogni donna e uomo.

Quali consegne ed eredità sono ancora da attuare?Sono notevolissimi gli effetti di quel documento a un

tempo modesto e profondamente innovatore, nonostan-te gli aspetti che - stando agli auspici dei padri conci-liari più sensibili - apparvero all’epoca ancora ambigui, sfuocati, o disattesi. Va peraltro ammesso che, se voles-simo stilare un bilancio degli effetti della dichiarazione in prospettiva, nel nostro caso un cinquantennio è spa-

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zio di tempo ampio ma anche limitato, e comunque insufficiente a estirpare dalla teologia e dalla mentalità cattoli-ca diffusa i normali e radicati atteggia-menti di antigiudaismo e di chiusura, soprattutto se pensiamo a quale fosse prima del Vaticano II lo standard dei rapporti fra ebrei e cristiani, o con le diverse religioni. È innegabile che il processo sia decisamente in progresso.

Ancora parecchia strada si dovrà percorrere per giun-gere a un livello pienamente accettabile. Secondo vari studiosi sarebbe il tratto più arduo, perché compiuto dopo quasi due millenni di assolute incomprensioni, di sostituzionismo (la Chiesa vero Israele contro il falso Israele storico), quando non di autentiche persecuzioni. Nostra Aetate, del resto, non affronta solo il panorama delle relazioni fra ebrei e cristiani, anzi, si presenta pro-priamente come una prima legge-quadro dei rapporti con tutte le religioni (al n.2 si scrive che “la Chiesa catto-lica nulla rigetta di quanto è vero e santo in queste religioni”, riferendosi in particolare al buddhismo e all’induismo, ma anche alle altre fedi presenti su scala planetaria).

La vicenda della Fraternità lefebvriana sta a in-dicare che sulla Nostra Aetate si gioca la fedeltà al Concilio Vaticano II. Perché ci sono così tante resistenze e perché anche in campo cattolico si fa fatica ad accettare le intuizioni della dichiarazione?

Perché, a dispetto della brevità della dichiarazione e del suo carattere all’apparenza secondario rispetto alle grandi costituzioni conciliari, prendere sul serio Nostra Aetate significa rimettere in discussione nel profondo l’identità della Chiesa stessa. Come aveva colto benissi-mo il cardinal Martini, che già nel 1985 ebbe a scrivere: La posta in gioco non è semplicemente la maggiore o minore continuazione vitale di un dialogo, bensì l’acquisizione del-la coscienza, nei cristiani, dei loro legami con il gregge di Abramo e le conseguenze che ne deriveranno sul piano dot-trinale, per la disciplina, la liturgia, la vita spirituale della Chiesa e addirittura per la sua missione nel mondo d’oggi.

E una prospettiva del genere, evidentemente, può generare paura, sconcerto, e persino ripulsa, in nome di una malintesa e fuorviante difesa della cosiddetta tra-dizione. Cosa che è successa, ad esempio, nel caso della Fraternità di S. Pio X, ma non solo.

In ordine al dialogo interreligioso, si fa fatica a

comprendere qual è il cammino oggi della Chiesa cattolica. Come lo si interpreta?

Una bella definizione del dialogo è stata offerta da un uomo che di accoglienza e ospitalità visse costan-temente, il vescovo Piero Rossano, ausiliare di Roma fino alla morte (1991): relazione interpersonale che avviene nel rispetto dell’alterità dell’interlocutore, sulla base di una comunione già esistente, in vista di un avvicinamento e di un’unione più profonda, per un giovamento reciproco. Esso ha bisogno di rispetto, reciprocità, vicendevole ascolto, pazienza e riflessione; mentre suoi nemici giurati sono la polemica, il monologo, l’imperialismo dottrinale, l’in-tolleranza, la fretta e l’eccessiva sicurezza di sé. È evi-dente, accettando tale prospettiva, che dialogare, per la Chiesa postconciliare, rappresenta oggi un’operazione ardua, per motivi più antropologici e sociologici che te-ologici. L’indifferenza verso l’altro che caratterizza la cultura occidentale, infatti, è il peggior viatico per un incontro autentico. Qui, allora, vanno ricercate le cause principali di quell’inceppamento del dialogo di cui a più riprese si è scritto, oltre che nella chiusura identitaria che ha contrassegnato la vicenda di molte religioni nel tempo della globalizzazione. Sul piano teologico, invece, nonostante le troppe voci sguaiate che negli ultimi anni hanno letto fondamentalisticamente la parola biblica, traendone inviti perentori a rifugiarsi in identitarismi privi di misericordia, la partita non ha storia. Le Scrit-ture e il magistero dell’ultimo mezzo secolo (si pensi, ad esempio, alla pedagogia dei gesti di Giovanni Paolo II, all’incontro di Assisi da lui voluto il 27/10/1986, ma non solo), infatti, considerano il dialogo con l’alterità un punto cruciale della rivelazione cristiana.

Quali limiti e quali segni di speranza si intravedono?Sarebbe ingeneroso se il pesante clima politico-cul-

turale odierno e l’intransigenza eretta a sistema, gene-ralizzata quanto pervasiva, ci facessero trascurare che tra donne e uomini diversamente credenti non si danno solo diffidenze o conflittualità irrisolte, ma pure espe-rienze d’apertura e fiducia reciproca (in una condizione, si badi, di pluralismo religioso assai aumentato rispetto a mezzo secolo fa). Le buone pratiche in tal senso, so-prattutto dal basso e nella vita quotidiana, fortunata-mente non mancano, pur limitandoci a uno sguardo sul nostro paese, non di rado operanti nel nascondimento. E se gli ambienti più avvertiti hanno colto da tempo come sia vitale passare finalmente dal dialogo delle buone maniere e dei salamelecchi al dialogo nella ve-rità e nella franchezza, i loro esiti risultano purtroppo sovente poco notiziabili, per cui non varcano la soglia d’attenzione del grande pubblico.

Credenti,ma come altri

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Era la sera dell’11 ottobre 1962, giornata di apertu-ra del Concilio Vaticano II. Niente era previsto per

chiudere la giornata, ma una grande folla restava in piazza San Pietro con le fiaccole accese. «Allora», ricorderà poi monsignor Loris Capovilla, segretario di Giovanni XXIII, «mi venne l’ispirazione di suggerire al Papa: “Santità, si affacci, dica loro una parola...”» Il Papa era molto stanco e sulle prime non pareva intenzionato ad affacciarsi. “Santità, non si affacci, non parli, ma guardi attraverso le fessure delle persiane che spettacolo, piazza San Pietro è piena di fiaccole, sembra incendiata!”, gli disse mons. Capovilla. Ma Papa Giovanni XXIII non seppe resistere, aprì la finestra e si rivolse alla gente con queste parole: «Cari figlioli, sento le vostre voci. La mia è una voce sola, ma riassume la voce del mondo intero; qui tutto il mondo è rappresentato. Si di-rebbe che persino la luna si è affrettata stasera, osservatela in alto, a guardare a questo spettacolo. Noi chiudiamo una grande giornata di pace, di pace: ‘Gloria a Dio, e pace agli uomini di buona volontà’. (...) La mia persona conta niente: è un fratello che parla a voi, diventato padre per la volontà di Nostro Signore. (...) Continuiamo, dunque, a volerci bene, (...) a volerci bene così, guardandoci così, nell’incontro: co-gliere quello che ci unisce, lasciar da parte, se c’è, qualche cosa che ci può tenere un po’ in difficoltà. (...) Tornando a casa, troverete i bambini; date una carezza ai vostri bambini e dite: “Questa è la carezza del Papa”. Troverete qualche la-crima da asciugare; dite una parola buona: il Papa è con noi, specialmente nelle ore della tristezza e dell’amarezza. E poi tutti insieme ci animiamo: cantando, sospirando, piangendo, ma sempre, sempre pieni di fiducia nel Cristo che ci aiuta e che ci ascolta, continuare e riprendere il nostro cammino.»

È il famosissimo discorso alla luna di Giovanni XXIII la cui forza rimane intatta anche dopo cinquant’anni. Il mat-tino di quel giorno, iniziato con la pioggia e concluso con il sole, Papa Giovanni, davanti ai 2540 padri conciliari, pronuncia un discorso di trentasette minuti che segnerà in maniera significativa il percorso del Concilio.

Gaudet Mater Ecclesia, Gioisci madre Chiesa, è il tito-lo dell’intervento. Il papa, che lo ha scritto di persona, lo pronuncia in latino, dopo ore di liturgia, e, al momento, pochi sono coloro che ne colgono la forza dirompente. I più se ne accorgeranno solo quando lo leggeranno sull’ OsservatoreRomano. È un testo che andrebbe di nuovo meditato, ripreso con attenzione. Riteniamo di dover dis-sentire da codesti profeti di sventura che annunziano eventi sempre infausti quasi che incombesse la fine del mondo. (...) La buona provvidenza ci sta conducendo ad un nuovo ordine di rapporti umani e tutto, anche le umane avversità, dispone per il maggiore bene della Chiesa. (...) Il nostro dovere nel Concilio non è soltanto di custodire il tesoro prezioso della fede come se ci preoccupassimo unicamente dell’antichità, ma di dedicarci con alacre volontà e senza timore a quell’opera che la nostra età esige proseguendo così il cammino che la Chiesa compie da venti secoli.

Il papa, che ha studiato da storico, trae dalla storia la lezione del cambiamento, invitando a non immobilizzare il percorso della Chiesa. È l’ottica dinamica che Giovanni XXIII intende imprimere al Concilio che si apre, confi-dando in una sua impresa rinnovatrice. Per questo è ne-cessario un balzo innanzi verso una penetrazione dottrinale e una formazione delle coscienze. Occorre, cioè, proporre l’antica ed autentica dottrina ma studiata ed esposta attra-verso le forme dell’indagine e della formulazione lettera-ria del pensiero moderno.

Padre Bartolomeo Sorge, già direttore di La Civiltà Cattolica e di Aggiornamenti Sociali, quel giorno - 1’ 11 ottobre 1962 - egli, giovane gesuita, era tra la folla in piazza San Pietro. Ricorda cosi: “Più con il cuore che con lo sguardo seguivo l’incedere ondulante di Giovanni XXIII sulla sedia gestatoria che, uscito dal portone di bronzo e preceduto da una fila interminabile di vescovi, entrava processionalmente in San Pietro per inaugurare il Concilio. Quel giorno lontano non potevo certo immaginare quanto l’evento ecumenico, che iniziava sotto i miei occhi, avrebbe segnato la mia vita”.

Un’ecclesiologia di comunione, l’affermazione della laicità delle realtà terrestri,la pari dignità di tutti i fedeli: questi i passi in avanti compiuti dal Concilio. Ne parliamo con padre Bartolomeo Sorge.

i balzi in avanti

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Il Concilio come ha cambiato la sua vita?I superiori mi avevano chiamato a Roma appena ter-

minati gli studi all’Università di Comillas dei gesuiti spa-gnoli. La mia formazione teologica era stata rigidamente pre-conciliare, tridentina, perciò vivere il Concilio a Roma, a La Civiltà Cattolica, è stata l’occasione per rinnovare il mio bagaglio teologico e spirituale. Ho respirato a pieni polmoni l’ecclesiologia della Lumen gentium, ho scoperto la Bibbia con la Dei Verbum, ho compreso l’altezza e la re-sponsabilità della missione dei fedeli laici (uomini e donne) nella Chiesa e nella società. È stata come una ventata dello Spirito, che ha spalancato porte e finestre. È aumentata in me la fede, sono diventato un uomo nuovo.

Quali sono i ‘balzi in avanti’ della Chiesa compiuti in questi anni?

II primo è stato l’aver spostato l’accento dall’ecclesiolo-gia societaria all’ecclesiologia di comunione. Significa con-cretamente che la Chiesa non si può più considerare, come avveniva prima del Concilio, una ‘società perfetta’, un tem-pio chiuso, riservato ai fedeli cattolici, ma è una ‘comunità aperta’, ‘popolo di Dio in cammino attraverso la storia’; è lo stesso ‘Corpo mistico di Cristo’, al quale “in vario modo appartengono o sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia infine tutti gli uomini, dalla gra-zia di Dio chiamati alla salvezza”. Il Concilio non nega affatto che il divino Fondatore abbia voluto la Chiesa come un’istituzione visibile, ma mette in luce che l’istituzione è subordinata al mistero di comunione degli uomini tra di loro e con Dio: “La Chiesa è in Cristo come un sacramento o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’uni-tà di tutto il genere umano”, secondo l’espressione della Lumen Gentium. Il secondo balzo in avanti del Concilio è stato l’aver messo bene in luce la dimensione storica del-la salvezza: Cristo è Dio fatto uomo che entra nella storia del mondo, l’assume e la ricapitola in sé. L’Incarnazione, quindi, si compie nella storia dell’umanità, attraverso tutte le epoche e le culture. Ecco perché la Chiesa, che continua l’Incarnazione e la attua, s’incarna nella storia e cammina con il mondo, sentendosi “realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia”. Pertanto, la fedel-

tà nella trasmissione delle verità rivelate che compongono il cosiddetto depositum fidei non va intesa in forma stati-ca, quasi si trattasse di conservare la verità in una sorta di scrigno sigillato, da trasmettere ben chiuso e conservato di generazione in generazione; la fedeltà va intesa in forma dinamica: non solo non vieta, ma esige che si tenga conto dell’evoluzione nella conoscenza delle verità rivelate, gra-zie al divenire delle situazioni storiche e culturali.

E qual è il terzo balzo in avanti? Sta nella rivalutazione dell’autonomia e della laicità,

sia delle realtà terrestri, sia della missione propria dei fede-li laici. La salvezza evangelica e la promozione umana, pur essendo distinte, non sono estranee una all’altra; tra i due piani non vi è dicotomia o dualismo, ma integrazione e com-plementarità. Perciò, il Concilio ha ripensato in modo nuo-vo il rapporto tra fede e storia, tra Chiesa e mondo. Questi tre aggiornamenti teologici sono stati possibili, grazie alla riscoperta della Parola di Dio. Infatti, il Concilio Vaticano II ha restituito alla Sacra Scrittura il valore di fonte prima-ria da cui promana la teologia, e ha messo in luce l’unione strettissima che c’è tra Sacra Scrittura e Tradizione: “La Sacra Tradizione e la Sacra Scrittura costituiscono un solo sacro deposito della Parola di Dio affidato alla Chiesa”, si legge nella Costituzione Dogmatica Dei Verbum.

Da tutto ciò nasce una nuova comprensione del ruolo dei laici

Certamente! Alla luce dell’ecclesiologia di comunione, sono rivalutate pure la vocazione e la missione dei laici nel-la Chiesa e nel mondo. Essi ormai non sono più minorenni, né ‘preti mancati’ o meri delegati del clero, ma ricevono di-rettamente da Cristo, nel Battesimo e nella Confermazione, la missione unica, propria di tutto il Popolo di Dio, parteci-pando, nella loro misura, dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo. Si tratta di una svolta significativa, se si pensa al ruolo meramente passivo che la teologia post-tridentina assegnava ai laici.

Questi balzi in avanti proposti dal Concilio sono stati effettivamente compiuti oppure ci sono resistenze e ri-tardi?

La sensazione è che ci troviamo di fronte a un rinnovamento pasto-rale rimasto a metà. In questi de-cenni l’attenzione della Chiesa si è rivolta soprattutto ai suoi rapporti ad extra, con il mondo: alla nuova evangelizzazione, alle relazioni tra Chiesa e Stato, al dialogo intercul-turale e interreligioso, ai problemi etici posti dal progresso della tecnica e della medicina, ai problemi della giustizia, della pace, dello sviluppo e della fame. Molto più lento e incerto appare lo sforzo fatto per la riforma interna della Chiesa. Su questo pun-to, anzi, sembra addirittura preva-lere oggi un clima di stallo, se non proprio di riflusso.

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Non bisogna essere acuti osservatori per comprendere come i nostri ambienti ecclesiali siano attraversati da dinamiche antropologiche - vizi e difetti umani, per dirla in soldoni - che inte-ressano un po’ tutte le istituzioni. Qui ci concentriamo sul problema invidia. La letteratura in

materia sorprende parecchio per il grande peso che riserva a questo atteggiamento. Tuttavia il tema non viene affrontato spesso nella vita comunitaria e nei suoi percorsi formativi. Nessuno può negare, però, il fatto che, in molti casi, essa sia la prima causa di animosità, rovina e confusione, come dimostra Shakespeare in molti suoi testi: «L’invidia produce l’animosità. Allora viene la rovina, allora comincia la confusione», sono le parole che Shakespeare mette in bocca a Exeter nel suo Henry VI.

La definizione di invidiaPrima di considerarne i suoi effetti sulla vita comunitaria, ricordiamo che cosa intendiamo per invidia. Gli studiosi sono concordi nel definirla come un sentimento di ostilità e rancore per chi possiede qual-cosa che il soggetto invidioso desidera, ma non possiede. Essa differisce dalla gelosia in quanto, que-sta, è determinata dal timore, fondato o infondato, di perdere la persona amata, nel momento in cui si è inseriti in un contesto relazionale di tre o più persone.Dal punto di vista psicologico, l’invidia è un sentimento complesso e per comprenderla, specie nelle sue forme più patologiche e appariscenti, è necessario investigare nell’età evolutiva, dove risiedono le cause più profonde di questo disturbo. Tralasciamo questo aspetto, molto specialistico, e concentria-moci sui danni causati alle comunità da coloro che sono affetti da questo sentimento, che Shakespeare definirebbe concentrati di invidia. Si pensi sia a pastori che a laici che improntano i propri rapporti con gli altri dedicando massima attenzione a quanto gli altri hanno, specie in risorse e potere, ed essi non hanno. Non penso che in questo ci sia differenza tra l’invidia che si vive nei nostri ambienti cattolici e quella degli ambienti laici. La causa scatenante è comunque la stessa: desiderare ciò che non si pos-siede. Pertanto non c’è niente di nuovo nei nostri ambienti, partendo dalla responsabilità educativa nel non aver insegnato a contenerla e superarla.

Le relazioni che vengono falsateII tema non è solo affrontato in letteratura e filosofia, ma anche nella Scrittura e in teologia. Il tutto a iniziare da Caino e Abele, ucciso per invidia (cfr. Gen 4). È interessante, notare come nel diverbio tra Caino e Abele, mosso da una potente invidia, si intersecano relazioni e motivi di diversi tipi: familiare, professionale, religioso. È sempre così per l’invidia: essa interseca diversi piani del nostro vissuto e inquina ogni tipo di rapporto, nessuno escluso, dove più, dove meno. Ammettere l’invidia, comunque, non è assolutamente facile. Essa, per molti aspetti e in molti casi, è un sentimento rimosso a livello personale a causa dell’imbarazzo che ne deriva nell’ammettere di averla; anche in contesti comunitari o istituzionali si tende a nascondeva o camuffarla in diversi modi. È quanto ha posto chiaramente in evidenza Kets De Vries nei suoi studi. Quando, in un gruppo, i soggetti invidiosi diventano socialmente

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dominanti - ovvero sono capaci di incidere fortemente su motivazioni e prassi altrui - l’intero gruppo viene sottoposto a una forza distruttiva di notevole entità, che si rafforza anche in combinazione con negatività, quali l’aggressività, l’animosità, l’avidità, la sete di potere. Il motivo di questa distruttività sta nel fatto che l’invidioso raramente riesce a controllare questo suo sentimento e, per questo motivo, ini-zia a falsare un po’ tutte le relazioni. L’invidioso, che non riesce a contenere questa sua pulsione, nor-malmente colpirà i soggetti invidiati con pettegolezzi, calunnie, maldicenze, diffamazioni, freddezza, vendette, insinuazioni e quant’altro. In sintesi, come dice Aristotele, l’invidia contribuisce all’ingiustizia, dove, ricordiamo, la giustizia è la salute somma di ogni istituzione.

I due sensi di marciaÈ interessante fare cenno all’invidia di chi ricopre posti di responsabilità a ogni livello. Essa ha due sensi di marcia: uno verso l’alto (il responsabile, provando invidia per chi è gerarchicamente superiore a lui, si comporterà con adulazione e ipocrisia al fine di conquistare la sua benevolenza e, magari, acquisire più potere) , l’altro verso il basso (il responsabile invidioso osteggerà con ogni mezzo coloro che hanno meno potere ma più capacità di quante ne ha lui. Questi sono considerati dall’invidioso po-tenziali concorrenti capaci di sostituirlo nel suo ruolo, in quanto più dotati). *

L’antidoto: la sapienzaL’invidia consuma e non ha nulla in comune con la sapienza, dice la Scrittura (Sap 6, 23) e ciò è quan-to mai vero, sia sul piano personale, sia su quello comunitario. Basterebbe questo preciso criterio a farci comprendere chi è veramente sapiente-intelligente e chi fa finta di esserlo, mentre è solo divorato dall’invidia. Penso a quante volte diciamo di una persona: è intelligente. Molti però non sono realmente intelligenti, sono quello che dice Gesù dei farisei (Mt 23, 23-26): ipocriti, invidiosi, vili, intemperanti, lon-tani da giustizia, misericordia e fedeltà. Forse dovremmo rivedere un po’ la nostra idea di intelligenza. La Scrittura è molto chiara sul fatto che non si può essere, al tempo stesso, invidiosi e intelligenti: o si è l’uno o si è l’altro. Un’ultima osservazione: Paolo raccomanda di non cercare la vanagloria e di non invidiarsi gli uni gli altri (Gal 5,26). Ci consola sapere che anche nella Chiesa apostolica ci fosse l’invi-dia. Esistono comunque delle strategie per prevenire la crescita di questo sentimento nelle comunità. Esse vanno incentrate su aspetti fondamentali della vita comunitaria e istituzionale, quali la ripartizione del potere, la partecipazione alla gestione della vita comunitaria, l’abolizione dei privilegi di alcune ca-tegorie, l’eliminazione delle enormi discrepanze salariali, gli sprechi eccessivi, l’educazione all’empatia e alla condivisione. Senza dimenticare che chi ci osserva è spesso scandalizzato dal fatto di trovare troppi vizi umani e poca vigilanza su quanto altrove fa da padrone. Invidia in primis.

Ancheall’interno della Chiesaabita l’invidia.Che cosaprovoca?In qualidirezionisi muove?

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CPMEFUNZIONALAFSC Nessuna voglia di aggiun-gere una sigla nuova alla ressa frustrante di tutte quelle già in circolazione.Era solo per suscitare un

poco la vostra curiosità. Se siete arrivati fin qui a legge-re, forse ci sono riuscito. Adesso non fermatevi, però. Allora: 2013-2014 = anno della fede, per cui F sta per… Fede! Bravi! Avete un QI buono.Le altre due, S e C, sono le sue sorelle. Non c’è bisogno di nominarle, essendo già stato verificato il vostro QI.Se in questo articolo uso le tre sorelle, siglate, insieme o da sole, è per risparmiare inchiostro.Ci sta anche che il mio articolo sia un po’ eretico, quin-di… usate le molle.Penso che FSC siano talmente unite che potremmo prenderle come esempio per capire un pochino il mistero della Trinità, così come generalmente si porta l’esempio del sole (materia, luce, calore) o di qualche altra realtà in natura.La F, se andiamo all’origine della parola, direbbe fiducia-fidarsi-affidamento. Non fermiamoci solo al solito “credere come adesione in-tellettuale a delle verità che professiamo regolarmente”. Fosse così, sarebbe come sostenere che credono di più (che hanno più fede) quelli che hanno studiato, che la sanno più lunga, che riescono a spiegare bene. Questa sì è proprio un’eresia. Ed ebbe nome e cognome quando saltò fuori la prima volta agli inizi del cristianesi-mo. Mi pare si chiamasse “gnosi”. Forse senza cognome.La Chiesa vera di Cristo dice invece che mia/tua madre giunta alla quarta elementare e alcuni miei/tuoi antenati analfabeti potevano avere più fede. Bellissimo! E conso-lante per tutti noi. Tutti uguali. In fondo è la capacità di amare che conta, e qui tutti possiamo gareggiare alla pari. Amo Gesù Figlio di Dio. Credo alla sua parola. Credo Lui come LA PAROLA, quella vera, che vince sempre sulla mia. L’abbraccio, la amo, mi ci affido, ci calo le reti contro il mio punto di vista, a costo di perdere la faccia e di spu-tare sangue e di buttare la mia vita. Lui sa, Lui conosce, io molto meno, mi inchino, gli voglio bene e obbedisco. A proposito: lo sapevate, no, che obbedire vuol dire sen-tire e ascoltare, e quindi accettare affidandosi-fidandosi-dando fiducia, cioè amando?Avere fede quindi è amare. Lapalissiano, direi.E siamo così finiti a parlare di C (carità), terza nella sigla, senza soluzione di continuità, sostenendo in pratica che essa fa un tutt’uno con F. Fidarsi e affidarsi è amare. Voler bene è avere fiducia e credere contro ogni sugge-stione contraria.

E come ci sta nel trio la S?Semplicissimo. Quando Gesù Figlio di Dio parla, dice cose che chiamano alla scelta, e quindi proietta la no-stra condotta sul futuro, che noi aspettiamo e diciamo che verrà, come è stato annunciato dalla parola. Speria-mo, appunto. E questo sperare è fortissimo perché è un tutt’uno con la fiducia a, la fiducia in, l’affidamento a, il fidarsi di… Sarà così, ci credo, lo spero con tutte le mie forze e mi muovo sapendo che avverrà come ha pro-messo. Non ci piove. Mi vuole bene, lo so, non tradisce, mantiene. Spero con una sicurezza tale che su quella po-sta ci gioco la vita. Faccio così perché spero, perché sono sicuro che quello che ha detto si realizzerà, o meglio, si scoprirà come vero e reale. Abramo e la sua terra promessa, e quel sacco di discen-denti, e l’offerta di suo figlio Isacco, sono un po’ tutto questo, FSC, e noi siamo i suoi figli ed eredi.Più unite di così, come si vedono anche in Abramo, que-ste tre sorelle non potrebbero essere. Se amo, mi fido; se mi fido so che sarà e ci scommetto che sarà. Se mi ama e lo amo, come posso non fidarmi? Se mi fido, significa che non posso temere che la sua parola - tutta per amore di me - non si avvererà. FSC: talmente unite che posso metterle come scf, sfc, csf, cfs, fcs e non cambia il loro senso e il loro valore e la loro identità. Uguali e distinte. “E il pericolo di eresia dove sta?” , mi potreste ricordare. Innanzitutto la storia di Abramo e l’idea-affermazione ri-sputa e ripetuta che sarebbe nostro padre nella fede. Mi sembra che è padre anche delle altre due, inscindibili da F.Inoltre, secondo me, queste tre sorelle ci saranno anche dopo che siamo morti. Si è sempre detto che è solo la C che durerà in eterno. Obietto: se sono una unità perfetta non può essere così. E se si spacca questa triade mi sembra di capire che il Paradiso sarebbe senza movimento, che i cieli nuovi e la terra nuova non potrebbero sussistere. Cieli nuovi e terra nuova: di chi? per chi? a che fare?... Gesù Figlio di Dio non dirà più niente-noi non lo ascolteremo-non faremo-non saremo proiettati a perseguire un suo piano, un suo progetto? Non parlerà più?! Lui che è LA PAROLA?! E noi non daremo espressione al nostro amore facendo con perfezione, eseguendo con gioia e soddisfazione ciò che la sua fantasia escogiterà? Non penso. Se Dio è im-menso e infinito, ci sarà eternità e immensità per tutti. E quindi vivremo (vita eterna, no!?) di FSC.Solo che sarà senza ostacoli e senza tentazioni di sorta, in una condivisione totale di cuore e di intenti che solo nell’innamoramento si trova. L’amore è condito così, di F e S. Una volta in Paradiso, vi sfido a togliere a C questa compagnia. E se è eresia, bruciatemi.

Isidoro

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LABORATORIO DI CUCITO

Nell’ambito delle varie iniziative pro-mosse dalla Caritas, è in fase di allestimen-to un LABORATORIO DI CUCITO.

E’ rivolto a tutte le donne di Botticino (italiane e straniere) che hanno la necessi-tà di risolvere piccoli problemi quotidiani, come ad esempio: stringere un abito, riuti-lizzare un lenzuolo rotto, confezionare una tenda… senza gravare sul bilancio familiare, e ottenendo anzi non solo un risparmio di soldi, ma anche di materiale e di energia come il mondo di oggi ci chiede.Nel LABORATORIO saranno disponibili del-le macchine da cucire, il materiale neces-sario per il lavoro; altre donne che gratui-tamente metteranno a disposizione la loro esperienza.

Il LABORATORIO può diventare un mo-mento di incontro nel rispetto delle varie culture, tradizioni e scelte individuali; age-volare uno scambio di osservazioni e di co-noscenze di economia domestica, di igiene ambientale e della persona per favorire maggiormente l’integrazione sociale.

All’interno sarà allestito uno spazio per il gioco e i compiti dei bambini più piccoli.

Verrà distribuito un volantino con le in-dicazioni del luogo e degli orari di apertura. Referente del progetto: Ausilia Casali

L’identità di Caritas:L’immagine qui accanto dice dell’identità di Ca-ritas:il buio e le stelle - Il buio ovvero la tinta scura della crisi, le stelle ovvero la costellazione dei tanti uomini e donne della carità che hanno provato a fare un pezzo di strada insieme e a “impastare la loro vita” con tutti coloro che hanno bussato alla porta della Caritas;

la chiave di volta - La Caritas come organismo pastorale pone al centro l’importanza dell’in-contro con l’altro, si impegna a mantenere fisso lo sguardo sull’altro che incontra, segno visibile dell’Altro che cerca: quando incontro il fratello, infatti, incontro Gesù che si nasconde ma, nel

contempo, si rivela e cresco in umanità.

CARITAS

Iniziative in atto e prospettive future. L’ “orto caritas” nato come semplice centro di distribuzione di cibo e altro per le famiglie in stato di bisogno va lentamente trasformandosi e per-fezionandosi in una opportunità di comunione dove chi si presenta non trovi solo un aiuto materiale (peraltro limitato date le nostre possibilità), ma trovi soprattutto qualcuno che lo ascolti, e lo faccia sentire meno solo nell’affrontare le proprie difficoltà legate alle situazioni di disagio. Nessuno ha la bacchetta magica e le risposte che si riescono a dare sono spesso insufficienti, ma si è convinti che già la capacità di mettersi in ascolto crei solidarietà. Altre attività in atto sono: doposcuola per minori; la consegna gior-naliera di pasti (pranzo e cena) ad alcune famiglie in difficoltà; servizio di tra-sporto (in collaborazione con Croce Valverde) per situzioni particolari; assisten-za pratiche per contributi a famiglie con minori; microcredito; opportunità per sostenere persone (rette scolastiche ecc.).... Raccolta alimentare nel tempo di Quaresima: un po’ di ‘ossigeno’ al magazzino dell’orto, spesso vuoto. Ci sono poi iniziative che vengono proposte ma che necessitano di un cambiamento di mentalità. Si potrebbe dire per le comunità cristiane, necessi-tano di persone più fedeli al Vangelo e alla fede professata. Sono: “Adozioni a distanza ravvicinata”Sono tante le persone che hanno in essere impegni di adozione nei riguardi di minori ‘stranieri’ ed è certamente buona cosa, ma c’è bisogno anche da noi ... famiglie e minori che vivono nella porta accanto e che hanno bisogno di essere sostenuti , ‘adottati’ per superare periodi economicamente critici. “Casa ospitale”Pensare a una casa nuova... pagare l’ affitto... per tanti è diventato difficile. Ep-pure ci sono abitazioni con numerose stanze abitate spesso da una o due per-sone e le altre vuote... La Caritas potrebbe fare da garante perchè quanti hanno difficoltà possano trovare ospitalità per periodi ben definiti. “Posti di lavoro”La crisi tocca certamente tante persone, ma fra queste c’è sempre chi è più nel bisogno. Presso la Caritas è possibile conoscere disponibilità di persone volen-terose a impegnarsi anche in lavori che nessuno vuol fare. La speranza è che a poco a poco la Caritas possa diventare un punto di riferimento per tutte le comunità parrocchiali sia per coloro che si trovano nel bisogno di chiedere, sia per coloro che hanno voglia di mettere a disposizione degli altri un po’ del proprio tempo, intelligenza e cuore; ma anche per quanti sono alla ricerca di di disponibilità di persone per attività di occupazione lavora-tiva.

doposcuola per bambini in età scolareBOTT. MATTINA MARTEDI' dalle 17,00 alle 18 ,00 - BOTT. SERA MERCOLEDI' dalle 17,00 alle 18.30

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Giornata Missionaria Mondiale domenica 20 ottobre 2013 “Sullestradedelmondo”èlosloganperlaprossimaGiornataMissio-nariaMondiale(Gmm)2013,sceltodaMissio,OrganismopastoraledellaConferenzaEpiscopale Italiana. In linea con l’Annodella Fede, indettodaBenedettoXVI,iltemaesprimel’esigenzadiconiugareloSpiritomis-sionarioconlavitadituttiigiorni,inunmondobisognosodiredenzione,segnatodaprofondetrasformazioni sociali,politiche,economicheecul-turali.Eccocheallora,l’attodifede,dapartediognisingolobattezzato,sideveconcretizzarenellametaforadelcammino,uscendodallenostrecomunità,perincontrareuominiedonnechehannofameesetediDio.Dunque,un“andare”sullestradedelmondo,insieme,comunitariamente,finoagliestremiconfini.Latestimonianzadifededitantinostrimissionari–religiosi,religiose,fideidonumelaici-disseminatineicinquecontinenti-restailsegnotangibilediunimpegnocostantedellaChiesa,perlacausadelRegno.

Tre proposte formative“Nuovi stili di viaggio”, “Nuovi stili di animazione” e “Nuovi stili di vita”. Sono tre le proposte formative pensate dal Centro missionario dio-cesano per quest’anno pastorale.

“Nuovi stili di viaggio” si rivolge ai giovani dai 18 ai 35 anni e si articola in tre passaggi fondamentali: il corso di formazione, il viaggio (Africa, America Latina...), il ritorno e la restituzione. Inizia domenica 4 novembre.

“Nuovi stili di animazione” è finalizzato, invece, ad acquisire una maggiore consapevolezza e conoscenza verso i temi della missione a partire dalla Sacra Scrittura. Si rivolge a chi desidera diventare animatore di un gruppo missionario o approfondire il proprio impegno nell’ambito dell’animazione missionaria Il primo appuntamento è fissato per domenica 25 novembre.

“Nuovi stili di vita” è l’occasione giusta per interrogarsi su ambiente, generazioni future, popolazioni povere e Parola di Dio. Il primo incontro è sempre domenica 25 novembre. Informazioni e iscrizioni presso la tua parrocchia o il Centro missionario diocesano di via Tosio I, contattando il numero 0303754560 o consultare il sito www.cmdbresciait.

L’ottobre missionario Nel 1926, l’Opera della Propaga-zione della Fede, su suggerimento del Cir-colo missionario del Seminario di Sassari, propose a papa Pio XI di indire una gior-nata annuale in favore dell’attività missio-naria della Chiesa universale. La richiesta venne accolta con favore e l’anno successivo (1927) fu celebrata la prima “Giornata Missionaria Mondiale per la propagazione della fede”, stabilendo che ciò avvenisse ogni penultima domenica di ottobre, tradizionalmente riconosciuto come mese missionario per eccellenza. In questo giorno i fedeli di tutti i con-tinenti sono chiamati ad aprire il loro cuore alle esigenze spirituali della missione e ad impegnarsi con gesti concreti di solidarietà a sostegno di tutte le giovani Chiese. Vengono così sostenuti con le offerte della Giornata, progetti per conso-lidare la Chiesa mediante l’aiuto ai catechisti, ai seminari con la formazione del clero locale, e all’assistenza socio-sanitaria dell’infanzia.

MISSIONI

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BRESCIA - 25/26/27 Ottobre 2013

Prosegue con entusiasmo l’equipe che sta preparando il missiomeeting. Entusiasmo che deriva dalla consapevo-lezza che ci attendono un evento significativo e nuovi scenari nell’ambito dell’animazione missionaria. Le relazioni con tale ambito sono state forte-mente rafforzate dagli incontri con le persone impegnate in varie forme sul territorio. Missione e comunione, cooperazione e sviluppo coinvolgono sog-getti nelle forme più diverse ma senz’altro complementari. Gli istituti missio-nari e i fidei donum rappresentano per la nostra diocesi l’emblema della mis-sio ad gentes attraverso una scelta di vita, una vocazione totalmente dedicata agli ultimi qui e ovunque, ora e sempre per l’Annuncio dell’Amore del Padre rivolto a tutti a partire dai più poveri, dai più bisognosi. Una missione questa, dove la dimensione dell’aiuto è un servizio a fianco della condivisine della ce-lebrazione eucaristica, dei sacramenti, del dialogo con culture diverse, dello scambio di esperienze tra chiese sorelle, dell’ascolto e dell’inculturazione in un altro paese. Nascono a seguito delle partenze dei missionari e dei fidei do-num i gruppi missionari nelle nostre parrocchie come sostegno ai missionari stessi, ma anche ai progetti di sviluppo da loro promossi. Gruppi che oggi sono in forte trasformazione rispondendo sempre di più sia alle richieste dei missionari sia all’urgenza di promuovere e radicare i valori della missione nelle comunità cristiane locali. Nascono le ONG Organizzazioni non Governative, come quelle d’ispirazione cristiana legate alla FOCSIV, per promuovere progetti di sviluppo nei paesi del sud del mondo dove operano missionari. Altre realtà ancora lavorano sul territorio costituite in movimenti, associazioni, onlus, realizzando le attività più svariate come la raccolta fondi o la promozione di serate culturali. Un ventaglio di realtà impegnate nell’annuncio e testimonianza, in progetti di sviluppo, altre nell’invio di volontari, di offerte e merci; altre ancora promuovono il commercio equo e solidale piuttosto che la finanza etica o i GAS gruppi di acquisto solidale. Fanno da comune denominatore i temi della pace, della giustizia, del rispetto del creato, l’impegno per lo sviluppo delle popolazioni più povere o impoverite ancora oggi sfruttate dal sistema economico-finanziario. Gruppi, istituti religiosi, ong, onlus che avremo l’occasione di incon-trare e conoscere meglio in occasione del Missiomeeting. Dal punto di vista del cristiano, senza voler togliere nulla alla cooperazione da parte di realtà aconfessionali, è fondamentale avere sempre ben presente che l’impegno missionario si colloca all’interno della “Missio Dei” cioè della missione che Dio ha nei confronti di tutte le genti. Il nostro essere “servi inutili” ci aiuta a collocare il nostro impegno a servizio del Regno di Dio. La missione di cui parliamo non può essere la mia o del mio gruppo o associazione ma è la Missione di Dio. In quest’ottica emerge sempre più urgente il discerni-mento partendo dalla Parola di Dio che ci porta a rispondere alle domande: cosa fare? Come? Con chi? Perché? Ora un passo fondamentale attende i soggetti impegnati nella missione ovvero quello della complementarietà e della comu-nione. Condividere esperienze, forze, progetti ed idee, rappresenta oggi un’urgenza sempre più evidente. E’ vero che ci sono motivazioni e identità diverse nell’impegno missionario e di con-seguenza anche modalità operative differenti, ma ciò non significa che non si possa condividere un pezzo dei nostri tragitti. Il Missiomeeting non sarà certamente la soluzione dei problemi ma semplicemente il desiderio condiviso da molti di trovare delle piste comuni, nuo-ve forme di cooperazione, nuovi modi per esprimere la missione o condividere risorse. Questa è la direzione dove ci sta portando il missiomeeting.Per informazioni e iscrizioni:[email protected]. 3349612946 - Claudio

“Missio Meeting”

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Conformemente al progetto presentato alle autorità competenti prima del restauro, il nostro intervento si è svolto secondo le pre-visioni.

Tutte le parti trasportate in laboratorio sono state restaurate in maniera radicale; smontate, aperte, pulite, trattate contro il tarlo, rinforzate e completate nelle mancanze, quindi oggetto di studio con rilievi e misurazioni.

Quelle rimaste in loco sono state revisionate scrupolosamente senza rimozione onde evitare rotture e modifiche inutili durante le manipolazioni; catenacciature, e altri componenti di trasmis-sione meccanica, il somiere di basseria, quello del trombone al pedale e i tubi portavento.

L’intera struttura (cassa /cantoria) è stata pulita a secco e lavata per terra, trattata contro il tarlo e coperta con materiale sintetico impermeabile per un periodo di tre mesi consecutivi.

Il rimontaggio degli elementi è avvenuto durante il periodo aprile- maggio e giugno 2013.

Tutte le pelli dei somieri sono state sostituite con materiale nuo-vo, conciato naturalmente ed incollato a caldo, con colle di origine animale

I borsini di pelle ricostruiti su modello, con riutilizzo delle pal-line di legno e spilli originali per la maggior parte e sostituzione con materiale identico a quello mancante, o in caso di rotture du-rante le fasi di ripristino.

I fori di tarlo sono stati chiusi con materiale ligneo mediante in-serimento di tasselli, o stucco naturale (colla / polvere di legno).

Sono state aggiunte delle candele ed altri rinforzi ove possibile per il sostegno del somiere maestro e quello di basseria a causa del pavimento molto irregolare e instabile in alcune zone..

Ricostruita la grancassa e ri-collocata sui propri sostegni, di fronte al batocchio ancora in po-sizione, nonché appeso alla cassa armonica mediante cinghie di canapa.

Ripristinato l’impianto mec-canico generale come trovato prima dello smontaggio, ad ecce-zione del meccanismo (modifica successiva alla costruzione) che imponeva l’uso del tremolo con il “Tira tutti”.

Ricostruita la campanella rotta ed il battente mancante, come il pedalone ligneo per il comman-do del “tamburo” mancante.

Sostituiti i chiodi piantati “alla traditore” per il sostegno delle canne di legno contro quelle posteriori con legacci di fettuccia e chiusura dei crepi nei corpi.

Le quattro pompe di tipo cuneiforme ad unica piega sono state ricostruite ed installate sotto il mantice principale munite di “biel-la e manovella” per il loro azionamento manuale.

Misure e proporzioni sono state definite esaminando il fondo del mantice che presenta fori previsti per il collocamento delle val-vole di non ritorno del vento e sagome delle stesse ancora visibili.

Pompe e leve sono state realizzate in legno di abete, le parti spor-genti in legno di castagno, la biella forgiata in ferro di 20 millime-tri di diametro passante attraverso struttura di abete rinforzata da

legno di castagno nelle parti sollecitate dai movimenti meccanici.L’elettroventilatore è stato revisionato, sostituiti i movimenti a

sfera, lubrificato.Ricostruita la scatola a tendina ed i suoi sostegni ed installata

una valvola di non ritorno nel mantice per l’uso corretto del fun-zionamento manuale; senza ritorno del vento al motore.

Dopo pulizia, trattamento antitarlo e rimontaggio dei somieri, i tubi portavento sono stati sigillati ai rispettivi fori d’immissione del vento mediante guarnizioni di pelle nuove ed il reinserimento dei propri chiodi.

In mancanza di riferimenti in fase di smontaggio, la pressione del vento è stata ridefinita all’esito della messa in suono del mate-riale fonico dapprima in laboratorio con impianto di alimentazio-ne provvisorio e quindi in loco con quello definitivo, in condizio-ni originali.

Il corista ed il temperamento sono stati rilevati allo stesso modo sulle canne esente di manomissioni, o modifiche eseguite prima del nostro intervento, o in corso di restauro e recupero dei para-metri originali (ripristino dell’altezza di bocca, o allungamento del corpo).

Riordinato il corpo fonico seguendo la nomenclatura presente sulle canne e/o nel rispetto delle misure e progressioni delle file.

L’affondo dei tasti è stata ripristinato come prima dello smon-taggio, tenendo conto della correzione dell’assestamento del so-miere maestro; circa 9 millimetri nei bassi e 8 nei soprani.

DISPOSIZIONE DEGLI ELEMENTI Il somiere maestro è posto al centro dello strumento in appog-

gio sulla parte superiore della carpenteria del basamento, collega-to alla tastiera racchiusa in consolle rientrante sottostante tramite catenacciatura munito di rulli di ferro forgiato montati su tavola di abete mediante strangoli in ottone a doppio anello ribattuto con bracci rivolti verso l’esterno e riporto delle divisioni a secco e a matita .

Posti su proprio sostegno, i campanelli sono attrezzati da mar-telli di ferro forgiato con pallina di ottone collegati ai tasti median-te catenacciatura di ferro forgiato di minore sezione tramite spilli di trasmissione passanti a traverso i tasti.

Tra quelli e la catenacciatura del gran organo è ubicata quella relativa alla “terza mano” , azionata mediante manubrio, ed il” Rollante” dal fa#2 della pedaliera solo quando il somiere dei Con-trabbassi è alimentato.

Su livello inferiore, a circa cinquanta centimetri da terra, a destra nel basamento, il somiere di basseria che ospita le sei canne di Con-trabbasso bi-tonale (munite di valvola cromatica) e le dodici canne relative all’Ottava di Contrabbasso.

Il somiere è “a vento comandato”, senza registro.A sinistra, nel basamento a circa ottanta centimetri da terra, il so-

miere del Trombone di otto piedi al Pedale riceve le dodici canne ad ancia di legno, la cui catenacciatura viene azionata da quella dei Con-trabbassi e a partire della quale parte la trasmissione meccanica per l’azionamento del somiere dei Timballi (tredici canne) posto nella parte superiore dell’alzata, a ridosso del muro dell’edificio (schienale dello strumento).

All’altezza del somiere maestro sulla sinistra sono allineate su dop-pia fila le canne relative alla seconda ottava del registro di sedici piedi al manuale, e a destra sullo stesso livello sempre contro la cassa armo-nica e doppia fila, le canne relative al registro di Corno da Caccia.

Relazione di fine lavori di restauro radicale dell’organo Callido Ghidinelli- Facchetti e Bianchetti

della Parrocchia di Botticino Mattina in BresciaDitta “A fabrica di l’organi Romain Legros” di Settimo Pescantina (Vr)

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ENRICO ZANOVELLO vicentino, conseguito il diplo-ma d’organo e clavicembalo con Stefano Innocenti e An-drea Marcon ha seguito gli studi universitari nella facoltà di Lettere e Filosofia all'Ateneo di Padova. Svolge come solista all'organo e al cembalo ed in varie formazioni strumentali un’intensa attività concertistica in tutta Europa, Stati Uniti (Washington Cathedtral), America Latina, Egitto. Vinci-tore del concorso nazionale per titoli ed esami di Organo complementare e canto gregoriano. E’ insegnante al Con-servatorio di Vicenza.Fa parte di giurie di concorsi organistici ed è attualmente di-rettore artistico del Festival Concertistico Internazionale sugli organi storici del vicentino.E' direttore e clavicembalista dal 1990 del complesso d’archi "Archicembalo Ensemble" con il quale partecipa ad impor-tanti festivals e rassegne di musica antica in campo nazionale e internazionale. Propone spesso programmi inediti di autori veneti o allestendo ex novo opere come ad es. la Pantomima di W.A. Mozart “Pantalone e Colombina” presentata nel 1997 in prima esecuzione assoluta all’Operahause di Il Cai-ro. Nell'anno 2002 è stato conferito al CD "Organi storici del vicentino" il premio "COUP DE COEUR" dalla rivista belga "Magazine de L'orgue" e il giudizio “ecceziona-le” dalla rivista Musica.Ha inciso vari CD fra cui in prima esecuzione assoluta (casa discografica Discantica di Milano) i concerti di Giu-seppe Sammartini per organo e orchestra , le sonate per cla-vicembalo/organo e violino di G.B. Grazioli con il violinista Enrico Casazza, i concerti di Giovanni Meneghetti con il violinista Giovanni Guglielmo.Ha curato la pubblicazione di musica italiana del settecento e ha inciso per la case discografiche Ricordi , Discantica e Tactus.

Entrambi i somieri sono alimentati tramite singolo tubo di por-tavento direttamente dalla manticeria, a vento comandato, colle-gati alla tastiera tramite catenacciature orizzontale mobili muni-te da verghette di legno circolare e spilli di ferro semi cotto alle estremità.

CORPO FONICOIn generale, ben conservato.Le alterazioni significativi riguardano le anime alle quali sono

state aggiunte dei denti ovunque, anche se con una certa cura e l’in-nalzamento di molte bocche.

Il Flauto in Ottava era in disordine al momento dello smontag-gio; la fila nei soprani aveva subito uno scorrimento con inserimen-to di una canna spuria.

I corpi sono stati allungati in fase di recupero del corista di un mezzo tono circa con reinserimento della canna mancante ritrovata nello strumento.

Difatti, la nomenclatura delle canne si trovava molto in prossimi-tà della sommità dei corpi, o addirittura sparita mentre sulle altre file, ad una certa distanza, a dimostrazione del taglio successivo.

Il terzo “si” della Trigesimaterza è una canna di recupero inserita nello strumento in epoca sconosciuta, conservata da noi poiché in buone condizioni e comunque storica, mentre il quinto “do diesis” della Vigesimanona è stato ricostruito perché totalmente mancan-te.

Le canne ritrovate rotte, o completamente piegate sono state ri-messe in forma, ripristinati i parametri e reinseriti nelle proprie file di appartenenza.

Sono stati eseguiti tutti i rilievi sull’intero corpo fonico; misure, paternità e tipologia dei materiali utilizzati.

Le canne deformate all’occasione delle scosse del terremoto sono state rimesse in tondo su mandrini, e/o riparate mediante sal-datura nei casi peggiori.

Le canne di legno sono molto ben conservate, dopo pulizia e trattamento antitarlo non è stato difficile ripristinare l’allineamento de-gli elementi; le pelli sotto il labbro inferiore sono per la maggior parte in buon stato, quindi la luce leggermente più stretta di quanto non lo fosse in origine per il sensibile ritiro dei materiali nel tempo.

Pressione del vento: 52 mm in colonna d’acqua.Temperamento: leggermente temperato (quasi equabile)Corista: 430 hz a 18 gradi circa.Lavori ultimati nel giugno 2013.Prevista una revisione e messa a punto generale prima del concerto

inaugurale del 27 ottobre 2013.

Come da preventivo il costo dell’intervento di restauro ra-dicale dell’organo della parrocchiale di Mattina è stato di € 95.146,00. Grazie al contributo della CEI (fondi 8X1000) di € 26.430,00, della Fondazione Comunità Bresciana di € 15.000,00 e di un privato di €1.000,00, per un totale di € 42.430,00, in totale alla Parrocchia di Botticino Mattina è venuto a costare € 52.716,00. Come fare per coprire questa spesa?Il Consiglio per gli Affari Economici della Parrocchia propone l’iniziativa “Adottiamo le canne dell’organo”. Le canne dell’organo sono 1146. Dividendo la spesa rima-nente per il numero di canne, ogni canna può essere adottata con € 46,00. Alcune persone incaricate si presenteranno ad ogni famiglia per illustrare l’iniziativa, con tutta la libertà di potervi aderire, adottando una o più canne. Verrà redatta una pergamena con segnato il nome di quanti hanno contribuito, anche ricordando un defunto, un anniversa-rio, una nascita...

BENEDIZIONE ORGANO e

CONCERTO di

INAUGURAZIONEcon il maestro ENRICO ZANOVELLO

DOMENICA 27 OTTOBRE

ore 20,30

CHIESA PARROCCHIALEDI BOTTICINO MATTINA

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Capitalismotecno-nichilista

Se tolgo la parola “Dio” dal mondo contemporaneo, comprendo ancora il mondo contemporaneo? La risposta è “sì”. Mentre se tolgo la parola “denaro”, o la parola “tecnica” non capisco più niente del mondo contemporaneo. Una tale considerazione del filosofo Umberto Galimberti ovviamente urta il nostro sentimento di fede, tuttavia

non possiamo negarle un po’ di verità. È “denaro”, infatti, una delle parole che più di altre ci permettono di toccare le midolla dell’attuale contesto culturale.

Un nuovo regimeLo viviamo già sulla nostra pelle, a causa della crisi economica recente, nata proprio dall’idea che “i soldi facciano sol-

di”, sfruttando biecamente la disponibilità di tanti ad accumulare debiti. Nessuno può perciò negare che a fondamento della nostra società non stanno più la politica o la religione, quanto piuttosto un regime economico forte e sempre più determinante. Si tratta del regime capitalistico, che del denaro, del suo accumulo, in particolare, fa il centro della sua identità. Certo, il capitalismo attuale è ben diverso da quello che sorge alla fine del XVII secolo come teoria politico-eco-nomica che difende la proprietà privata e il suo sfruttamento per fini di guadagno, nella libera concorrenza del mercato. La versione attuale del capitalismo è più sottile e penetrante. Il suo è, infatti, un vero e proprio orizzonte e dominio cultu-rale, oltre che economico. È del sociologo Mauro Magarti un’analisi accurata di questa recente versione “tecnonichilista” del capitalismo. L’odierna disposizione dell’economia capitalistica intende, in verità, allargare lo spazio «all’azione dei sistemi tecnici preoccupati di occupare l’intero orizzonte della nostra vita e di intervenire direttamente sulla vita umana. Non più, dunque, semplicemente tramite artefatti [...], ma agendo sulla realtà, sui desideri e sull’essere umano in quanto tale, le cui componenti sociali, psichiche e biologiche vengono progressivamente “messe in produzione”».

Una nuova concezione di libertàII punto di forza di questo dominio è la promozione di una concezione assoluta di libertà dell’individuo, sganciata

da ogni legame e da ogni valore etico o veritativo. In questo modo il mercato espande e diversifica la sua presa a piaci-mento, presentando i suoi prodotti come strumenti perché l’individuo continui ad allargare e rimodellare gli spazi della sua libertà, che per essere tale, secondo questa concezione, deve poter essere messa sempre in stato di negoziazione. Il capitalismo tecno-nichilista, dunque, «può essere visto come tentativo di trasformare in organizzazione sociale questa idea ab-soluta di libertà: il che, concretamente, significa la disponibilità a non tenere niente di fermo, di stabile, proprio in nome della libertà». Per dirla in breve, ciò che di volta in volta acquistiamo sul mercato è esattamente la nostra libertà; una libertà “immaginaria”, tuttavia, non solo perché vuota, ma anche perché è comprata al prezzo della nostra schiavitù al sistema capitalistico. La maggiore specializzazione tecnica e la propaganda di una versione nichilistica della libertà indi-viduale hanno reso il capitalismo la forza culturale di base del mondo occidentale. Per questo, poi, tutti desiderano avere denaro, accumularne sino all’inverosimile. È la garanzia della libertà: una libertà vuota, certo, ma che il capitalismo sa

rendere appetibile grazie alle strategie pubblicitarie e all’invenzione costante di nuovi formidabili prodotti.

La posta in gioco per il cristianesimo è qui molto forte. Non a caso Bene-detto XVI, nella sua enciclica Caritas in veritate, ha affermato che, per sortire dall’attuale crisi economica, ciò che ser-ve non è un mero aggiustamento delle regole del mercato. Ci serve piuttosto una nuova sintesi umanistica, capace di offrire un controcanto efficace all’idea di libertà individualistica, nichilistica e vuota che l’attuale capitalismo non smette di suggerire quale ideale compi-mento dell’umano.

Un regime economico capitalistico,sempre più, nel nostro contesto

determina tutto. Promuove una concezione

assoluta di libertà

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PROLOGO

Era il giorno di Pasqua, il primo giorno della settimana; era “il giorno che ha fatto il Signore”, il giorno della poten-za di Dio, della vittoria sulla morte, della comunione divina immessa definitivamente nella storia degli uomini: “Ecco, faccio una cosa nuova; proprio ora germoglia! “. Ma i di-scepoli di Gesù non lo sapevano ancora; si erano raccolti insieme, in una sala, con le porte sprangate per paura dei Giudei: Gesù, il maestro, era stato condannato e crocifisso ed essi temevano che il destino di lui diventasse anche il loro destino, che l’ombra inquietante della croce giungesse a toccare anche la loro esistenza. All’improvviso, Gesù è presente in mezzo a loro e dice: “Pace a voi! “ Allora, nota l’evangelista, “i discepoli gioirono al vedere il Signore”; passano, così, dalla paura alla gioia; la loro attenzione non è più rivolta al mondo esterno con le sue minacce (da qui la paura), ma al Signore con la sua consolazione (da qui la gioia).

Il ricordo della croce è ben presente perché il Signore appare con i segni delle ferite nelle mani e nel fianco; ma

questo ricordo è assorbito nella figura vivente del Risorto, nella sua gloria, nella sua vittoria sopra la morte: quanto più profonda era stata la delusione e l’angoscia, tanto più gloriosa appare ora la presenza. Gesù ripete il saluto: “Pace a voi” e aggiunge: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”.

La frase è brevissima, ma il suo messaggio è immensa-mente ricco; lo possiamo analizzare così:1. Gesù è stato ‘mandato’ dal Padre nel mondo per manife-stare al mondo il volto invisibile del Padre.2. Il ministero di Gesù nel mondo si è compiuto con la sua passione e morte, ma non è ancora compiuta (completata) la sua missione; per questo egli (Gesù) manda i discepoli perché continuino la sua missione.3. Tra la missione di Gesù da parte del Padre e quella dei discepoli da parte di Gesù non c’è solo un rapporto di so-miglianza (la missione dei discepoli è simile a quella di Gesù), ma una vera continuità: la missione di Gesù conti-nua in quella dei suoi discepoli. La missione è una sola in due fasi successive.

LUCIANO MONARIVESCOVO DI BRESCIA

Come il Padre ha mandato me,anch’io mando voi Gv 20,21

LETTERA PASTORALE PER L’ANNO 2013 - 2014

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CAPITOLO PRIMO

GESU’ E’ MANDATO DAL PADRE

1. La missione di Gesù

Dunque Gesù è 'mandato' nel mondo dal Padre; anzi, si può dire che la 'missione' esprime il mistero più pro-fondo della persona e dell'opera di Gesù. Se vogliamo comprendere chi sia Gesù, lo dobbiamo pensare nel mondo ma in una relazione continua col Padre, come mandato da Lui.

Il mondo, per quanto grande e bello e potente, non basta a spiegare Gesù: non è abbastanza grande per con-tenere la sua vita e la sua opera, non è abbastanza bello per giustificare la sua gloria, non è abbastanza potente per spiegare la sua risurrezione. La vita e l'opera di Gesù hanno la loro origine e quindi la loro spiegazione solo in Dio, nel Padre. Il senso poi della missione di Gesù è espresso perfettamente nel dialogo con Nicodemo quan-

do Gesù dice: "Dio ha tanto amato il mondo da dare (= dona-re) il Figlio uni-genito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma ab-bia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Fi-glio nel mondo per condannare il mondo, ma per-ché il mondo sia salvato per mezzo di lui" (Gv 3,16-17).All'origine del-la missione di Gesù, dunque, sta l'amore di Dio per il mondo. Il mon-do è stato creato da Dio; è vero che col peccato dell'uomo (con quello di Adamo e con tutti gli in-numerevoli pec-cati degli uomini) si è prodotta una frattura tragi-ca e dolorosa; il mondo ha cerca-to un'impossibile autosufficienza,

ha ritenuto che il legame con Dio fosse una forma di schiavitù e ha cercato di impostare un progetto di vita senza Dio (a volte, addirittura, contro Dio). Di fatto l'al-lontanamento da Dio è fatale perché il mondo non ha da sé la sua esistenza; può anche appropriarsi dell'esistenza che ha ricevuto e immaginare di vivere senza riconosce-re e ringraziare il Creatore; questa strategia può anche dare, in prima battuta, alcuni frutti di creatività perché comporta un distacco da abitudini, schemi consolidati, pigre ripetizioni. Ma non occorre molto tempo per ac-corgersi dell'errore: il mondo si ripiega su se stesso, si consuma nell'impegno di consumare tutto il consumabi-le e, poco alla volta, intristisce nel deserto dei sentimen-ti e dei desideri. Non c'è salvezza se non nella relazione con l'altro; e per il mondo non c'è salvezza se non nel-la relazione con Colui che è altro dal mondo con Dio. Dio lo sa, e siccome continua ad amare questo mondo contorto e ferito, narcisista e ribelle, ha mandato il suo Figlio perché in lui il mondo possa vedere il volto invi-sibile del Creatore e, accogliendo il servizio (l'amore) di Gesù di Nazaret, possa aprirsi all'amore eterno di Dio. Gesù vive nel mondo mosso dallo Spirito; per questo il suo comportamento nel mondo, il suo stile di vita non è 'mondano', ma 'spirituale'. Chiamo 'mondano' uno stile di vita che è spiegabile tutto con la ricerca di un suc-cesso mondano (diventare ricco, famoso, forte, gauden-te... nel mondo; conformarsi agli stili di vita prevalenti nell'ambiente per sentirsi perfettamente a proprio agio nel mondo); chiamo 'spirituale' uno stile di vita che è conforme allo Spirito e quindi è spiegabile solo con un impulso che spinge a farsi carico del bene (proprio e degli altri) anche quando questo non produce vantaggi mondani (non fa diventare ricco, famoso, forte, gauden-te... nel mondo). Ebbene, Gesù “è passato beneficando e sanando tutti quelli che erano sotto il potere del diavolo (e quindi schiavi del male), perché Dio era con lui” (At 10,38). L’esito di questo stile di vita è stato, dal punto di vista del mondo, fallimentare perché gli uomini “lo uccisero appendendolo a una croce” (v. 39). Conside-rata all’interno del ‘sistema-mondo’, la vita di Gesù ap-pare misera. “Ma Dio lo ha risuscitato il terzo giorno e ha voluto che si manifestasse a testimoni” (vv. 40-41). Considerata all’interno del “sistema mondo-Dio.”, la vita di Gesù appare un successo folgorante perché è di-ventata una vita immune da qualsiasi germe di morte; è diventata vita potente e luminosa in Dio; ha aperto nel mondo una strada (quella dell’amore che cerca il bene sempre e in ogni modo) che, partendo da questo mondo, sostenuta dallo Spirito di Dio, giunge fino a Dio nella risurrezione. In questo modo, attraverso Gesù, l’amore di Dio per il mondo ha aperto il mondo a Dio, ha libera-to il mondo da un destino inevitabile di morte e ha fatto risplendere la vittoria della vita e dell’amore.Quando parliamo di Gesù come ‘mandato’ dal Padre, della sua vita come attuazione di una ‘missione’ inten-diamo tutto questo: Gesù che vive nel mondo, ma in continua relazione col Padre; che riconosce di avere dal Padre tutto quello che è, tutto quello che possiede e tut-to quello che fa; che guarda al Padre come orizzonte e meta della sua vita; che tenendo fisso lo sguardo verso il

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Padre fa della sua vita una scelta di amore e di servizio; che si sottomette alla sofferen-za, all’umiliazione e alla morte. Un uomo così vive nel mondo, ma ha gli occhi aperti su un mistero che va oltre il mondo; ha sen-timenti aperti a un amore che va oltre il pro-prio interesse; ha una speranza che va oltre ciò che il mondo può promettere e dare. Siccome un uomo così vive nel mondo, è, con tutta la sua vita, un testimone. Il testi-mone ha visto (udito, sperimentato) qualco-sa che gli altri non hanno visto (udito, spe-rimentato); può parlare quindi di quanto sa, facendone partecipi gli altri; e il suo modo di vivere dice che ciò di cui egli parla non è solo una parola vuota ma è realtà effettiva, tanto reale che produce effetti concreti nel-la sua vita. A Filippo Gesù può dire: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14,9). Non perché Gesù sia il Padre; ma perché la vita visibile di Gesù è così profondamente orientata verso il Padre, che chi la osser-va attentamente e con amore vi riconosce i lineamenti del volto invisibile del Padre. Dunque Gesù è testimone con quello che dice, ma an-che e soprattutto con quello che egli è, fa e soffre; egli compie la sua missione vivendo nell’amore del Padre, narrando l’amore del Padre, operando con la forza e la bontà che gli vengono dall’amore del Padre.

2. Dalla missione di Gesù alla missione dei discepoli

A questo punto possiamo capire meglio il senso delle parole del Risorto ai discepoli: “Come il Padre ha man-dato me, anch’io mando voi”. Il Padre ama il mondo e, perché il mondo possa vivere, ha mandato il suo Figlio che, vivendo nel mondo, rende testimonianza all’amore del Padre e mostra al mondo uno stile di vita umana aperto all’amore del Padre e quindi all’amore di tutto ciò che il Padre ama (il mondo e, nel mondo, gli uomini). Ebbene, come il Padre ama il mondo, anche Gesù ama il mondo; lo ama fino al punto di dare la sua vita per la vita del mondo. Questo il mondo, nella sua totalità, non l’ha compreso. Ma i discepoli di Gesù, sì. Essi hanno conosciuto Gesù da vicino, hanno ascoltato tutte le sue parole e visto le sue opere; hanno percepito l’amore ap-passionato che stava all’origine di queste parole e opere; hanno creduto che Gesù veniva da Dio e che l’amore umano di Gesù era la traduzione dell’amore eterno e in-finito di Dio in gesti e parole umane. Per questo la vita dei discepoli è ormai segnata dall’incontro con Gesù e trova nel rapporto con Gesù un modo di essere e di agire nuovo. I discepoli vivono nel mondo, ma sono legati a Gesù da un vincolo che trasforma tutta la loro esistenza; a motivo di questa trasformazione ben visibile essi, con la loro vita, rendono testimonianza a Gesù e nello stesso tempo rendono testimonianza al Padre da cui Gesù vie-ne e a cui Gesù conduce.

La missione di Gesù nel mondo, proprio perché era pienamente umana, si è svolta in un piccolo territorio (la

Palestina), nell’arco breve di un’esistenza umana. Ma l’amore di Dio che Gesù testimonia è eterno e universa-le. Perciò la testimonianza deve andare ben oltre i limiti del ministero storico di Gesù, deve raggiungere tutti gli uomini di tutti i luoghi e di tutti i tempi. Per questo Gesù ha bisogno di discepoli che condividano il suo rapporto con Dio e vivano nel mondo seguendo il suo stile di vita; ha bisogno di loro per mandarli nel mondo intero e, attraverso di loro, dilatare la propria testimonianza per-ché raggiunga tutti gli uomini e li apra all’amore di Dio.In tutti i vangeli il Signore risorto che appare ai discepo-li trasmette loro il compito della missione: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra: andate, dunque, e fate discepole tutte le nazioni battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto quello che vi ho detto” (Mt 28,18-20). “Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo a ogni creatura” (MC 16,15). “Così sta scritto: il Cri-sto patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme” (LC 24,47-48). Si può dire che i vangeli non sono opere davvero concluse; essi, infatti, terminano annunciando l’inizio di un tempo nuovo che sarà riempito dalla testi-monianza al vangelo: andate... predicate... fate discepo-li... battezzate... insegnate...

3. La missione dei discepoliNello stesso modo in cui Gesù viveva nel mondo

come mandato da Dio, anche i discepoli debbono vivere nel mondo come mandati da Gesù. Come Gesù, vivendo nel mondo, era però ‘rivolto’ al Padre dal quale e per il quale viveva, anche i discepoli, vivendo nel mondo, sono però rivolti a Gesù dal quale e per il quale vivo-no. Come Gesù, vivendo per il Padre, rendeva testimo-nianza all’amore del Padre, così i discepoli, vivendo per Gesù, rendono testimonianza all’amore di Gesù e quin-

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di all’amore del Padre attraverso Gesù... Le espressio-ni potrebbero moltiplicarsi, ma l’essenziale è detto: la missione dei discepoli è la continuazione coerente della missione di Gesù; quello che la missione di Gesù ha immesso nelle vene del mondo (l’amore di Dio), la mis-sione dei discepoli deve continuare a immetterlo nelle vene del mondo. La missione di Gesù e quella dei disce-poli è un’unica identica missione; la differenza è che la missione dei discepoli dipende in modo strutturale dalla missione di Gesù che la precede, la fonda, la motiva, le da forma.

Se questo è vero, si capisce anche come i discepoli rendano effettivamente testimonianza a Gesù. Lo fanno con la parola, parlando di Gesù e del vangelo; lo fan-no con le opere, nella misura in cui sono opere di bene come quelle compiute da Gesù. Ma lo fanno con tutta la vita, nella misura in cui la loro vita è vissuta ‘in’ Gesù, ‘con’ Gesù, ‘per’ Gesù; e quindi nella misura in cui la loro vita è animata dall’amore di Gesù e ha una for-ma simile alla vita di Gesù. Parole, opere e vita vanno necessariamente insieme: la parola perché interpreta e spiega le opere che altrimenti rimarrebbero oscure e in-comprensibili; le opere perché danno un contenuto alla parola che altrimenti rimarrebbe vuota; la vita perché si capisca che parole e opere esprimono l’identità di una vita nuova, trasformata. Non è possibile un’esistenza cristiana che non si esprima in parole e quindi in forme di comunicazione; reciprocamente non è possibile un annuncio cristiano che non interpreti una vita, un’espe-rienza reale (e non solo immaginata o sognata). La mis-sione cristiana deve superare da una parte il rischio della mutezza e dall’altra il rischio della vacuità.

Una piccola sottolineatura. Gesù rende testimonian-za al Padre scrivendo sulle righe della storia l’amore del Padre. Ma,naturaLmente, Egli può scrivere questo amore perché ne vive. Gesù è amato dal Padre, sa di essere amato, accetta liberamente di essere amato; tutto questo fa sì che l’amore del Padre non rimanga fuori di lui, come un valore che si ammira da lontano; piutto-sto l’amore del Padre è operante nei suoi pensieri, nei suoi desideri, nelle sue scelte e quindi nelle sue azioni. La testimonianza di Gesù nel mondo è davvero ‘sua’ nel senso che scaturisce dalla sua coscienza e dalla sua

libertà umana; ma nello stesso tempo - senza contraddi-zioni - la testimonianza di Gesù è una forma di vita che il Padre suscita e rende operante dentro di lui attraverso il suo amore.

Lo stesso dobbiamo dire della testimonianza dei di-scepoli (cioè della nostra testimonianza). Si tratta dav-vero di una testimonianza che il discepolo produce li-beramente e consapevolmente; ma nello stesso tempo questa testimonianza è resa possibile, anzi è plasmata pienamente dall’amore di Gesù nel suo cuore. Possia-mo rendere testimonianza all’amore perché siamo stati preceduti dall’amore del Signore che ci ha cercati, rag-giunti, perdonati, consolati, rigenerati. L’amore di Gesù suscita in noi sentimenti e desideri nuovi; sono senti-menti realmente nostri, ma dei quali siamo debitori a Lui, al Signore.

Se ad Auschwitz Massimiliano Maria Kolbe può letteralmente “dare la vita” scegliendo liberamente di morire al posto di un altro, perché UN padre di fami-glia possa vivere, è perché Massimiliano Kolbe è amato da Gesù, sa di essere amato da Gesù, ha dentro di sé l’amore di Gesù che ha dato la sua vita per lui e questo medesimo amore prolunga dentro di lui il dinamismo che ha dominato la vita di Gesù. Così, come Gesù ha dato la vita per Massimiliano, Massimiliano può dare la vita per un’altra persona. A sua volta, se Gesù può dare la sua vita per gli uomini, è perché è amato dal Padre, sa di essere amato, porta dentro di sé l’amore con cui il Padre lo ama e questo amore lo spinge a scelte di amore oblativo, generoso, gratuito. Ne viene allora che l’amore di padre Kolbe, l’amore di Gesù, l’amore del Padre costituiscono insieme una grande catena di amo-re; questa catena tende a coinvolgere tutte le persone che, raggiunte dall’amore, scelgono liberamente di cre-dere nell’amore, si lasciano riempire dall’amore, accet-tano che questo amore dia forma e forza alle loro scelte. Dall’amore trinitario eterno ai piccoli, concreti gesti di amore che illuminano la vita quotidiana di una persona c’è una distanza immensa, ma c’è anche una reale con-tinuità. Non si può forse dire che i nostri gesti di amore sono ‘divini’, ma si deve dire che i grandi gesti divini di amore (la creazione, la redenzione) generano, danno forma e sostengono i nostri piccoli gesti di amore.

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CAPITOLO SECONDO

LA CHIESA E’ MANDATA DA GESU’

La missione è il compito di testimoniare l’amore di Dio al mondo perché “per l’annuncio della salvez-za il mondo intero ascoltando creda, credendo speri, sperando ami” (DV, Prol.). La testimonianza si compie con parole e opere strettamente collegate tra di loro in modo che le parole rivelino il significato delle opere mostrandone l’origine da Dio e le opere diano un cor-po alle parole manifestando la loro forza di cambiare il mondo. Ma quali parole e quali opere sono davvero capaci di rivelare, incarnare l’amore che viene da Dio, testimoniandolo in modo efficace?

1. L’annuncio della risurrezioneQuando la Chiesa delle origini ha cercato di annun-

ciare il vangelo, si è trovata davanti due uditóri ben diversi: il mondo ebraico con la sua storia, la sua fede, le sue Scritture; il mondo pagano con la sua moltepli-cità di divinità e la sua sofisticata riflessione filosofica. L’annuncio doveva per forza assumere due forme di-verse. Agli ebrei poteva bastare un’affermazione del tipo: “Gesù è il Messia; quel Gesù che gli uomini han-no messo a morte e crocifisso, Dio lo ha risuscitato e lo ha costituito Signore del mondo e della storia”. Questa affermazione di fondo può essere spiegata in molti modi: raccontando la vita di Gesù; ricordando le sue parole; interpretando la sua morte; fondando l’an-nuncio della risurrezione sulle Scritture, enumerando le diverse apparizioni del risorto....

Rivolgendosi al mondo pagano, gli apostoli non po-tevano presupporre un’idea corretta di Dio e dovevano quindi iniziare ‘contestando’ il politeismo pagano (gli dei sono espressioni delle forze della natura e quindi sono molti e diversi e in conflitto tra di loro) e l’idola-tria (l’essenza della divinità può essere raccolta in un suo simulacro); poi annunciando un Dio unico, creatore del mondo e prvvidente, eterno: così Paolo ha fatto a Listra (At 14,15-17) e ad Atene (At 17,22-31). Una vol-ta posta questa premessa, diventa possibile annunciare la centralità del mistero di Gesù e della sua risurrezio-ne: se Gesù è risorto, se dunque con la risurrezione egli è entrato in una condizione permanente e definitiva di vita, allora la sua esistenza umana - pur vissuta in uno spazio ristretto e in un piccolo arco di tempo - mantiene un significato che supera il tempo e lo spazio e diventa capace di interpellare, illuminare, orientare ogni uomo. Per questo Gesù può dire: “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6).

L’annuncio della risurrezione si presenta in ogni modo come decisivo. Ma qui bisogna essere attenti a un possibile, frequentissimo equivoco.

Si può pensare alla risurrezione come a un ‘ritorno’ di Gesù alla forma di vita precedente, la sua vita nel mon-

do; l’unica differenza sarebbe allora che questo Gesù, nel suo corpo, non è più presente in un luogo del mondo, ma è presente in un luogo ultramondano. Non è così: il Nuovo Testamento parla della risurrezione di Gesù come un passaggio da questo mondo al Padre (Gv 13,1); come una ascensione (At 1,9) e quindi come ingresso in una condizione di gloria (contrapposta alla condizio-ne di debolezza che è propria dell’esistenza umana nel mondo); come un insediamento alla destra di Dio con pieno potere in cielo e sulla terra (Mt 28,18). Insomma, la risurrezione di Gesù non è un ritorno al passato nel mondo, ma un decisivo passo in avanti, verso il futuro in Dio. È fondamentale affermare che la risurrezione ri-guarda Gesù nel suo corpo; ma del corpo del risorto bi-sogna affermare, in modo unico e originario, quello che Paolo afferma del corpo dei risorti: “è seminato nella corruzione, risorge nell’incorruttibilità; è seminato nella miseria, risorge nella gloria; è seminato nella debolezza, risorge nella potenza; è seminato corpo animale, risorge corpo spirituale” (1Cor 15,42-44). Paolo può arrivare a dire che Gesù risorto è “Spirito datore di vita” (ib., v. 45). Tutto questo non significa una diminuzione di vita, quasi che il Risorto fosse una specie di fantasma; al contrario, significa un arricchimento di vita, tanto che il Risorto opera nella storia con la potenza stessa di Dio, con la forza dello Spirito di Dio. Questo si deve annun-ciare: che Gesù è vivo, che vive in Dio e partecipa della sua forza, che intercede efficacemente per noi, che ci guida e ci sostiene con il suo Spirito, che parla attraver-

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so la Scritture, che opera attraverso i sacramenti, che co-munica agli uomini il perdono di Dio, che edifica nella storia il suo ‘corpo’ nella Chiesa, che ‘sottomette’ a sé il mondo per poi sottomettersi, insieme col mondo, a Dio, finché “Dio sia tutto in tutti” (1Cor 15,28).

2. Il vangelo e la vita della comunità

Ma come è possibile rendere credibile questo annun-cio? Quando Paolo, parlando ad Atene, introdusse nel suo discorso il tema della risurrezione, gli ascoltatori gli voltarono le spalle come fossero di fronte a una fa-vola incredibile: “ Su questo - dissero -ti ascolteremo un’altra volta” (At 17,32). Non è facile annunciare nel modo corretto la risurrezione di Gesù; e tuttavia non possiamo tacerla se non vogliamo adulterare il vangelo. Riprendiamo allora la domanda: come parlarne in modo che l’annuncio appaia credibile? Gli Atti degli Apostoli danno una risposta semplice in un breve sommario: “La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune. Con grande forza gli apostoli dava-no testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti godevano di grande favore. Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi ve-niva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno” (At 4,32-35).

Da dove viene questa ‘grande forza’ con cui gli apo-stoli rendono testimonianza della risurrezione del Si-gnore? Evidentemente dal modo di vivere della comu-nità. La prima comunità cristiana ha uno stile di vita che la contraddistingue dallo stile di vita dell’ambiente circostante: il distacco dai beni materiali, l’amore frater-no, la condivisione sono tutti comportamenti che sup-pongono la vittoria sul bisogno di affermare se stessi e sull’avidità istintiva dell’uomo. La evidente diversità richiede quindi una spiegazione del tipo: “Noi siamo un

cuore solo e un’anima sola perché il Signore risorto ci unisce; condividiamo i nostri beni perché il Signore ri-sorto ci libera dall’avidità e mette nei nostri cuori uno spirito di fraternità... “ e così via. L’annuncio del van-gelo si presenta perciò come la spiegazione del vissuto

originale e sorprendente della comunità. Naturalmente, la spiegazione non è apodit-tica; qualcuno potrà dare altre spiegazioni (psicologiche, sociologiche, culturali...). La comunità cristiana dice: è la parola del Signore risorto che dirige il nostro com-portamento ed è il suo Spirito che ci da l’energia spirituale necessaria; è la presen-za in mezzo a noi di Gesù risorto (cfr Mt 18,20) che spiega esaurientemente ciò che accade. Se vuoi convincertene, vieni con noi e prova anche tu questo modo di senti-re e di agire.

Uno dei significati della vita religiosa e consacrata sta esattamente in questa te-stimonianza: la scelta di povertà, castità e obbedienza dice una vita che non si risolve nel mondo, ma trova la sua giustificazione in qualcosa che va oltre il mondo; la scelta della vita comune esprime il dinamismo

della carità che tende a unire persone diverse, con di-versi interessi, nell’obbedienza al Signore risorto. Per questo non può esistere una Chiesa senza la presenza di questa testimonianza; o meglio: se la testimonianza del-la vita consacrata viene meno, diventa meno forte, meno credibile la testimonianza di tutta la Chiesa. Non è un caso che Pio XI abbia proclamato santa Teresa di Gesù Bambino patrona delle missioni. Santa Teresa non si è mai mossa dal suo monastero e però il suo amore per il Signore e il suo amore per gli uomini, la sua sensibilità verso i peccatori e verso le persone lontane dalla fede hanno fatto di lei un’immagine luminosa di chi sia un missionario autentico.

3. L’amore come segno di credibilità

A sua volta, il vangelo di Giovanni ci aiuta con due espressioni illuminanti. Durante l’ultima cena Gesù dice ai suoi discepoli: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sa-pranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,34-35). Poco dopo, durante la me-desima cena, Gesù si rivolge al Padre con una preghiera che riassume tutto il senso della sua missione e chiede che tutti coloro che crederanno in lui “ siano una cosa sola; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17,21). Ci sono dunque due tipi di comportamen-to che rendono esplicitamente testimonianza a Gesù e dimostrano al mondo che Gesù viene da Dio: l’amore fraterno tra i discepoli e l’unità che fa di loro una cosa sola. Sembra si possa dire, allora, che la testimonianza dei discepoli dipende assolutamente da questi due atteg-giamenti: se i discepoli si ameranno con amore fraterno

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e diventeranno una cosa sola, manifesteranno l’origine divina della loro vita; se non si ameranno e se terranno in piedi conflitti insanabili gli uni contro gli altri non po-tranno che mostrare al mondo l’abisso del loro peccato, la lontananza da Dio.

Ma che cosa intende Gesù quando parla di amore fra-terno e di unità? Interrogato da un dottore della legge su quale fosse il comandamento più grande, Gesù ha ri-chiamato anzitutto il primato dell’amore verso Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze; ma ha aggiunto subito un secondo comandamento che, ha detto, è simile al primo: “Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Mt 22,34-40). Amare se stesso è impulso na-turale all’uomo come a tutti gli esseri viventi: difendere la propria vita, cercare di mantenerla in una condizione di benessere, renderla ricca di valori... tutto questo ci viene spontaneo. Si tratta di allargare l’attenzione del cuore e assumere questo medesimo atteggiamento posi-tivo di amore anche verso gli altri.

Ora, l’amore chiede anzitutto di amare noi stessi nel modo corretto, sapendo distinguere i beni reali (cioè quelli che ci rendono uomini migliori) dai beni solo apparenti che possono sì attirarci, ma, anziché renderci migliori, ci danneggiano: o perché danneggiano la salute fisica (ad esempio, l’abuso di alcool), o perché distrug-gono l’equilibrio psichico (ad esempio, le incoerenze si-stematiche, le razionalizzazioni), o perché avvelenano i rapporti sociali (ad esempio, l’insincerità, l’infedeltà...), o perché ci rendono disumani (ad esempio, l’odio), o perché allontanano da Dio (il peccato in tutte le sue for-me) e così via. Chiarito in che cosa consista l’amore sano di se stessi, abbiamo anche un criterio per riuscire ad amare gli altri; si tratta, infatti, di dilatare l’impe-gno a favore della nostra vita e fare entrare in questo impegno anche la vita e il bene degli altri. Mt 7,12 ci dà una regola semplicissima quando dice: “Fa’ agli altri quello che vuoi sia fatto a te “. Se sai amare te stesso nel modo giusto, sai anche in che modo tu debba ama-re gli altri; basta, infatti, che tu usi verso di loro lo stesso metro che desideri sia usato nei tuoi riguardi. Tu non vuoi danneggiare la tua vita fisica e psichica - ebbene, non devi danneg-giare la vita fisica e psichi-ca degli altri; non vuoi che gli altri ti sfruttino per il loro interesse - dunque non devi sfruttare gli altri per il tuo interesse... Questa re-gola è preziosissima perché apre il cuore e l’intelligen-za a interpretazioni sempre nuove e più profonde. Più una persona diventa saggia e buona, meglio sa amare se stesso; e più una perso-

na impara ad amare se stesso nel modo giusto, più gli diventa facile comprendere come si debbono amare gli altri. Inizia allora un cammino che non ha limiti o tra-guardi definitivi, che si sviluppa da una meta all’altra, all’infinito, verso Dio.

Non basta: chi impara ad amare non solo si fa carico del bene degli altri così come del proprio, ma sa allar-gare lo sguardo e prendere in considerazione anche le generazioni future e il loro benessere. Ci si rende conto, allora, che alcuni comportamenti ledono il patrimonio che siamo chiamati a lasciare alle generazioni future. Penso a quei comportamenti che possono alterare il patrimonio genetico o a quelli che inquinano in modo permanente l’ambiente, o a quelli che impoveriscono il contesto sociale e culturale. Assumersi una effettiva responsabilità verso quelli che verranno dopo di noi è un atto squisito di amore; non facile, perché si tratta di amare persone che non vediamo e non esistono ancora; e si tratta di negare a noi stessi qualche soddisfazione che sarebbe gradevole e immediata; ma è solo così che si può contribuire a edificare un mondo migliore per un’umanità nuova (la ‘Civiltà dell’amore’ di cui parlava Paolo VI).

Quando Gesù chiede di amare il prossimo come noi stessi, ci chiede di fare dei gesti concreti di bontà verso chi è bisognoso (di ogni bisogno materiale e spirituale); ci chiede di progettare la vita tenendo presente il bene nostro e degli altri (materiale e spirituale); ci chiede di esercitarci nel fare il bene fin da bambini; ci chiede di studiare per acquistare le competenze utili a produrre il bene di tutti; ci chiede di assumerci la nostra quota-parte di responsabilità nel bene degli altri attraverso il lavoro onesto, le scelte politiche utili, l’impegno culturale au-tentico, la vita religiosa coerente; ci chiede di controlla-re gli istinti di orgoglio e di autoaffermazione; ci chiede di contribuire a far funzionare bene le istituzioni, ma

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anche di modificarle e migliorarle in modo che raggiun-gano più efficacemente il loro scopo.... Ora, tutto questo suppone una persona ‘buona’: se una persona è cresciuta egoista, si comporterà in modo egoistico anche nei rap-porti interpersonali e nei rapporti sociali; se una persona si è proposta come valore supremo l’affermazione di sé, cercherà questa affermazione in ogni tipo di rapporto, valuterà tutte le cose con il filtro della sua riuscita. Se invece una persona ha educato il suo cuore all’amore saprà scegliere il vero bene tra le diverse possibilità che le si presentano davanti. Ma come si presenta un cuore ‘buono’? San Paolo lo descrive nell’inno all’amore che occupa il cap. 13 della prima lettera ai Corinzi: “La ca-rità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di ri-spetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta” (1 Cor 13,6-9).

Possiamo allora tornare al comandamento di Gesù: “...che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni per gli altri”. La comunità cristiana deve diventa-re un luogo concreto nel quale s’impara ad amare, nel quale i rapporti tra le persone e i gruppi sono motivati dall’amore, nel quale ci si aiuta per imparare ad amare. È ancora san Giovanni che scrive: “In questo abbiamo conosciuto l’amore, nel fatto che egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli” (1Gv 3,16). Non c’è dubbio: un amore di questo genere non sale naturalmente dal mondo e dai rapporti esistenti nel mondo; è un amore che viene dall’alto, da Dio; che abbiamo incontrato nella vita di Gesù. Quando nel mondo si incontra un amore di questa qualità, ci si trova di fronte a qualcosa che viene da Dio. È la prima dimensione della missione cristiana.

4. La comunione come segno di credibilitàAccanto all’amore, Gesù ha parlato di unità dei cre-

denti nella sua grande preghiera al Padre: “che tutti (i discepoli) siano una cosa sola; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato “ (Gv 17,21). Questa unità non va considerata come una delle tante caratteristiche che può avere la comunità dei discepoli, ma piuttosto come lo

scopo stesso della missione di Gesù. Il quarto vangelo lo dice esplicitamente quando ricorda la decisione del Sinedrio di eliminare Gesù; in quella occasione Caifa, sommo sacerdote “profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione, e non soltanto per la nazione, ma anche per riunire i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,51-52).

C’è una forma di unità che nasce dall’isolamento: se sono solo, sono uno; se non c’è nessun altro accanto a me, sono uno. Da questo modo di pensare l’unità vie-ne la tendenza a cancellare la differenza degli altri e a ricondurre gli altri a noi, al nostro interesse (gli altri ci servono, esistono in funzione del nostro successo), alle nostre idee (gli altri la pensano come noi, confermano le nostre ragioni), al nostro potere (gli altri sono sottomes-si a noi, ci rendono più forti). È l’unità prefigurata dalla torre di Babele e da qualsiasi progetto ‘imperialistico’ di governo del mondo. Ma non è certo questa l’unità di cui Gesù sta parlando. Si tratta, invece, di rispecchiare all’interno dei rapporti umani quella forma di unità che unisce il Padre e il Figlio e li fa essere una cosa sola; non perché il Padre rinuncia alla sua forma paterna per identificarsi col Figlio o il Figlio rinuncia alla sua forma filiale per identificarsi col Padre; ma piuttosto perché “il Padre ama il Figlio e gli manifesta tutto quello che fa” (Gv 5,20); e reciprocamente il Figlio “ama il Padre e, come il Padre gli ha comandato così agisce (per amo-re) “ (cfr Gv 14,31). Insomma, c’è un’unità che deriva dall’eliminazione di tutto ciò che è ‘altro’; e c’è un’uni-tà che si costruisce e si manifesta nel dono reciproco tra ciò che è ‘altro’. È questa seconda forma di unità che costituisce il mistero della Trinità; ed è questa forma di unità che i discepoli sono chiamati a vivere e a immette-re nel mondo. Una comunità che viva nel mondo l’unità ‘trinitaria’ rende testimonianza a Dio con la sua stessa esistenza, con lo stile dei rapporti che la costituiscono.

Si capisce, allora, che quanto abbiamo detto in pre-cedenza sull’amore sta nel cuore del mistero di unità cui siamo chiamati, ne costituisce la vera sorgente. Si legge nella lettera agli Efesini: “Vi esorto, dunque io, prigioniero a motivo del Signore: comportatevi in ma-niera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vi-cenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la sperarrza

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alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Pa-dre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti. A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la gra-zia secondo la misura del dono di Cristo” (Ef 4,1-7). Non si potrebbe esprimere più fortemente l’esigenza di unità che opera nella comunità cristiana. La comunità cri-stiana è un solo corpo, il corpo di Cristo; non è concepibile che il corpo di Cristo sia diviso in parti (cfr 1Cor 1,13). Il corpo di Cristo è animato da un solo spirito, lo Spirito Santo: non ci sono più Spiriti che si possano opporre gli uni agli altri. Il dinami-smo della vita cristiana è diretto verso un traguardo che è lo stesso per tutti i credenti: la comunione con Dio; quindi: una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati. Possiamo avere obiettivi immediati diver-si, ma la meta ultima è la stessa e questo ci unisce al di là delle preferenze individuali. Abbiamo un solo Signore perché è Gesù Risorto che esercita una sovranità effettiva sulla Chiesa attraverso la sua parola e la sua grazia; a lui tutti noi abbiamo consegnato nella fede la nostra sicurezza (una sola fede) e da lui abbiamo ricevuto nel battesimo il sigillo della nostra identità di discepoli (un solo battesimo). Tutti questi straordinari motivi di unità culminano nell’unicità di Dio Padre dal quale viene tutto quello che siamo: un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti. A questo punto il ragionamento di Paolo è chiarissimo: le realtà della fede che viviamo (lo Spirito, Gesù Cristo, il Padre) fondano e producono nella Chiesa un movimento di amore e di unità; dunque l’unità effettiva della Chiesa dimostra che le realtà della fede sono ‘reali’ e non solo pensate o desiderate. Il mon-do può credere che il Padre ha mandato Gesù nel mondo proprio perché vede nel mondo una forma di unità che ha la sua origine e il suo modello in Dio, nell’unità del Padre e del Figlio nello Spirito Santo.

Ne viene, come conseguenza, un’esortazione etica: “Comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimi-tà, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace” (Ef 4,1-3). L’unità concreta della comuni-tà cristiana è resa possibile attraverso comportamenti di umiltà, di dolcezza e di magnanimità. L’umiltà, lo si vede chiaramente dal contesto, è una virtù eminen-temente sociale, quella che ci spinge a considerare gli altri superiori a noi stessi (cfr Fil 2,3), degni della nostra stima e del nostro servizio; si tratta, dice la lettera ai Filippesi, di imparare da Gesù che non ha impostato la sua missione sulla rivendicazione dei diritti che gli spet-tavano come Figlio di Dio; al contrario, si è fatto servo fino alla morte e alla morte di croce.

Dove fiorisce un atteggiamento simile di umiltà, la comunione diventa possibile. La dolcezza (cioè la

‘mitezza’) viene dalla scelta di rinunciare a qualsiasi espressione di prepotenza nei confronti degli altri; la magnanimità è la capacità di portare con fortezza (con serenità) il peso della vita vissuta accanto agli altri e quindi il peso delle nevrosi, dei comportamenti irritanti, dei risentimenti, delle parole indelicate, degli egoismi che facilmente emergono nella vita con gli altri e che rischiano di provocare aggressività e contrapposizione.D’altra parte, san Paolo è attento a non assimilare l’unità all’uniformità (alla cancellazione delle differenze) per-ché aggiunge: “A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo “(Ef 4,7). La comunità cristiana conosce l’esistenza di carismi (cioè di doni dello Spirito) diversi, di ministeri diversi, di attività diverse (cfr 1Cor 12,4-6); ma questa diversi-tà, lungi dal compromettere l’unità, la rende più salda e compatta. Nessuno, infatti, può sentirsi autosufficiente (“io non ho bisogno degli altri”) e nessuno deve sentirsi inutile (“gli altri non hanno bisogno di me”); ciascuno, invece, deve considerare la sua esistenza insieme con l’esistenza degli altri, il suo bene insieme con il bene degli altri, la sua felicità insieme con quella degli altri. “ Come infatti il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo” (1Cor 12,12). La vita ecclesiale esige necessariamente la collaborazione di tutti e la corresponsabilità di tutti; anzi, essa consiste esattamente nella comunione che collaborazione e cor-responsabilità esprimono,. L’unità della Chiesa non è solo un’unità strumentale (una forma di unità che serve a qualche altro scopo), ma un’unità valoriale (un’unità ha in se stessa il suo valore) perché immette nel mondo il valore della vita (unità) divina.

5. Nella famiglia e nella società

Dunque l’amore fraterno e l’unità ecclesiale sono en-trambi segni che mostrano un’origine da Dio e quindi rendono testimonianza a Dio e alla missione di Gesù

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da parte di Dio. Il vero problema è immaginare e cerca-re di realizzare forme diverse e molteplici di comunità che incarnino l’amore e l’unità. Probabilmente bisogna partire dal matrimonio; nel matrimonio, infatti, uomo e donna diventano ‘una carne sola’. Non nel senso che la diversità sessuale (maschio e femmina) scompaia o diventi meno significativa; al contrario, questa differen-za fonda e rende possibile l’unione sessuale; ma, nello stesso tempo, proprio l’unione sessuale, che distingue i partners, li unisce in un vincolo di unità che è insieme fi-sico, psicologico, spirituale, capace di esprimere amore, dedizione, fedeltà, progetto comune, accoglienza, dia-logo... L’unione di uomo e donna nel matrimonio è in qualche modo il modello cui cercano di conformarsi le molteplici forme di incontro dei ‘diversi’. Il figlio, che nasce come frutto dell’unione sessuale, dice con chia-rezza che il dono di sé nell’amore non produce la perdi-ta della propria identità, ma, al contrario, crea un futuro nel quale l’identità personale si apre e genera identità nuove che hanno una vera continuità col passato (il co-dice genetico del figlio risulta dai codici genetici de ge-nitori) e, nello stesso tempo, sono creazione di autentica novità. Potremmo procedere enumerando altre forme di unità che nascono dall’amore: l’unità di genitori e figli nella famiglia; l’unità degli amici che realizzano l’idea-le di “un’anima sola in due corpi”; l’unità della società nella quale ciascuno contribuisce con le sue conoscenze e il suo lavoro al bene di tutti; l’unità dei popoli nella creazione di relazioni di collaborazione e di pace... La comunità cristiana, nella misura in cui vive realmente del dono di Cristo (dell’amore di Dio), crea tra le per-sone relazioni che prefigurano e anticipano l’unione di tutti gli uomini nella giustizia e nella pace. La comuni-tà cristiana può fare questo perché, formata come è di persone umane, ha in sé la vocazione profonda all’unità che è presente in ogni uomo; e, nello stesso tempo, la fede nell’amore di Dio in Cristo fa sì che questo amore realizzi fin d’ora qualche legame di fraternità e di amo-re oblativo. Naturalmente, tutto questo non può essere

dato per scontato, come se bastasse un’appartenenza formale alla comunità per garantire la comunione: si tratta invece di un dono che deve essere accolto con fi-ducia (nella fede) e vissuto con impegno e perseveranza (nell’amore).

6. L’amore della Trinità vive in noi

Possiamo allora riassumere quello che siamo andati dicendo così: Dio, per il grande amore con cui ama il mondo, vuole che il mondo partecipi della sua stessa vita; per questo ha mandato il suo Figlio per rivelare e donare al mondo il suo amore e per sollecitare dal mondo una risposta di amore. Gesù ha adempiuto la sua missio-ne con la parola e con le opere annunciando e donando l’amore paterno di Dio. La missione di Gesù, che sem-brava interrotta tragicamente dalla sua passione e morte, continua invece in modo ancora più efficace a motivo della risurrezione per la quale Gesù è un vivente. Que-sta missione, ora Gesù la compie attraverso i discepoli che egli manda nel mondo trasformati dalla sua parola e dal suo Spirito. I discepoli debbono quindi continuare la missione di Gesù con le loro parole e le loro opere. Le parole si riassumono nel kerygma, cioè nell’annuncio dell’amore di Dio attraverso Gesù, nella proclamazione della morte e risurrezione di Gesù. Ma le parole ricevo-no la loro credibilità e la loro forza dalla manifestazione del cambiamento che esse hanno operato e continuano a operare nel mondo. Questo cambiamento si può ri-assumere nell’appartenenza alla comunità ‘cristiana’, nell’amore fraterno e nell’unità; attraverso questo stile di vita, viene immesso nei rapporti umani l’amore che unisce il Padre e il Figlio nello Spirito Santo.

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CAPITOLO TERZO

LA MISSIONE DELLACHIESA BRESCIANA

1. Testimoni dell’amore di DioA questo punto ci possiamo chiedere in quali modi le

comunità cristiane della nostra diocesi, rispondendo al comando di missione, possono diventare testimoni au-tentiche dell’amore di Dio nel mondo contemporaneo. Non basta che la Chiesa bresciana sia stata testimone fedele del vangelo nel passato; la scelta missionaria ha bisogno di essere rinnovata sempre daccapo se non vuo-le inaridire e perdersi. Si è fatto giustamente notare che la scelta di fede viene interiorizzata proprio nel momen-to in cui la si propone agli altri. Quando invitiamo gli altri a conoscere e accettare l’amore di Dio, infatti, ci ‘compromettiamo’ ai loro occhi; siamo costretti a ren-dere ragione di quello che diciamo (cfr 1Pt 3,15); non possiamo più nasconderei nell’anonimato, vivendo nel-la Chiesa come spettatori e non come protagonisti. Gli occhi degli altri chiariscono noi a noi stessi, ci spingono a interrogarci su ciò che Gesù Cristo e il vangelo rap-presentano per noi, a decidere quanto della nostra vita vogliamo impegnare nell’esperienza di fede.

In modo particolare il tempo che viviamo chiede una rigenerazione della consapevolezza missionaria del-la Chiesa. Lo esige anzitutto il profondo cambiamen-to culturale di cui siamo testimoni e anche, in diversi modi, attori. Il vangelo, che è parola eterna, esiste però nel mondo sempre incarnato in gesti e parole concrete, quindi in una cultura umana; il cambiamento della cul-tura non muta il vangelo (che è eterno), ma muta il modo in cui il vangelo si esprime in gesti e in parole concrete. La nostra Chiesa deve quindi fare uno sforzo che unisca fede e vita nella situazione particolare del nostro tem-po: la globalizzazione, l’incontro delle diverse culture e delle diverse religioni, il primato dell’approccio scien-tifico alla realtà, la presenza invasiva della tecnologia, le forme nuove della comunicazione, il protagonismo del mondo femminile e tanti altri fenomeni che sarebbe impossibile ricordare contribuiscono a creare un modo nuovo di vivere il mondo e quindi, inevitabilmente, modi nuovi di esprimere la fede.

Gli effetti di questo cambiamento profondo si rico-noscono in un duplice atteggiamento: da una parte, la paura di chi vede scomparire le forme di vita cui era abituato e qerca di aggrapparsi al passato come se la sicurezza si trovasse nella ripetizione di gesti collaudati; dall’altra parte, la volontà di affrancarsi da ogni forma di regola e di rispetto per la tradizione, come se si dovesse (e come se fosse possibile!) inventare la vita da zero. Ne viene una frammentazione che sembra promuovere tut-to e il contrario di tutto creando confusione, incertezza, incoerenza, incapacità di dialogo autentico. Ma, in ogni modo, è in questa società che la comunità cristiana deve trovare il modo di incarnare la sua fede in Dio: tenendo saldi i valori fondamentali che il vangelo e la tradizione ci trasmettono; attenta a capire con intelligenza, a valu-tare con saggezza, ad agire con responsabilità, in modo da orientare tutte le trasformazioni in atto verso il bene integrale dell’uomo.

Un problema particolare pone l’incontro tra culture

(e religioni) diverse che i flussi migratori hanno prodot-to. Le nostre città sono ricche di persone che parlano lingue diverse, pensano secondo moduli diversi, s’in-contrano, dialogano, entrano in conflitto... Anche qui gli atteggiamenti si dividono tra chi nega che ci sia un pro-blema (dal momento che siamo tutti persone umane) e chi ritiene il problema insolubile (perché siamo diversi e non ci intenderemo mai). Dal punto di vista religio-so, il confronto con l’Islam, il Buddismo, l’Induismo, le mille forme nuove della religiosità ci pone inevitabil-mente davanti a interrogativi difficili sulla nostra stessa fede: Gesù Cristo è unico salvatore di tutti? E in che modo? Come va pensata la molteplicità delle religioni? Le diverse forme religiose vanno apprezzate per ciò che hanno di buono o condannate per ciò che manca loro? Possiamo annunciare esplicitamente il vangelo o dob-biamo limitarci a dialogare con tutti?

Tutto questo ci chiede di rinnovare l’annuncio del-la fede in modo che la fede possa davvero incarnarsi nel vissuto delle persone e trasformarlo. Già il Concilio aveva notato - e Paolo VI lo ha sottolineato con forza nella Evangelii Nuntiandi - che il dramma più preoccu-pante oggi è la frattura che si è venuta formando tra fede e vita. Il Signore ci chiede anzitutto di ritrovare (ricrea-re) la comunicazione, la coerenza tra il vangelo e la vita effettiva che viviamo: la nostra vita deve misurarsi più costantemente con la fede; e reciprocamente, l’annun-cio della fede deve riferirsi più efficacemente al vissuto delle persone. Si vede bene l’ampiezza e la complessità dei problemi. Prima ancora, però, di avere risposto in modo soddisfacente a tutti questi interrogativi, rimane l’imperativo della missione. Le parole del risorto: “An-date e fate discepole (genti di) tutte le nazioni” man-tengono valore sempre, in ogni circostanza favorevole o sfavorevole. Perciò il compito di annunciare l’amore di Dio per tutti gli uomini ci riguarda in ogni situazione di vita. Abbiamo già ricordato la condizione previa che permette alle comunità cristiane di essere missionarie: l’amore fraterno, la comunione, l’unità, la corresponsa-bilità. Ma tutto questo non basta: i gesti debbono essere accompagnati da parole che ne dicano.il significato e diventino appelli agli ascoltatori perché rispondano con la fede.

2. La tradizióne brescianaLa Chiesa bresciana ha alle spalle una lunga storia

nella quale la sensibilità missionaria è ampiamente pre-sente. Vengono in mente in particolare tutti i brescia-ni che, appartenenti a una qualche famiglia religiosa, hanno fatto della missione la loro scelta fondamentale di vita; l’esempio di dedizione a Gesù e al vangelo, di fedeltà alla Chiesa, di rispetto verso le diverse culture, di carità concreta e generosa che queste persone hanno lasciato rimane come sorgente generosa di sensibilità missionaria. Si pensi alle innumerevoli associazioni di volontariato che accompagnano l’azione dei missio-nari non solo con un sostegno economico, ma con una partecipazione diretta all’azione pastorale e caritativa. Brescia vanta un numero incredibile di fondazioni, as-sociazioni, onlus, gruppi che accompagnano l’attivi-tà dei missionari con diverse forme di collaborazione e di aiuto. È importante che questa ampia galassia di gruppi non perda il legame con la radice di vangelo da cui sono nati; le persone, infatti, hanno certo bisogno di beni materiali, ma hanno anche bisogno di motivazioni

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e di stimoli per vivere, imparare, agire, sperare, amare. Altrimenti i sentimenti inaridiscono e i comportamenti finiscono per esaurirsi nella scelta sterile del puro con-sumo.

Da alcuni decenni anche il presbiterio diocesano ha assunto un impegno missionario diretto attraverso i sa-cerdoti fidei donum che vivono diversi anni (a volte la vita intera) in missione (America Latina e Africa). Que-sta esperienza ha permesso di accompagnare alcune dio-cesi verso una certa maturità istituzionale e, nello stes-so tempo, ha tenuto viva l’attenzione di tutta la Chiesa diocesana nei confronti della grande impresa missiona-ria. Nello stesso tempo i missionari rientrati in diocesi hanno potuto arricchire la pastorale con esperienze di comunità e di evangelizzazione che ci erano estranee.

Nella lunga storia delle missioni bresciane sono state scritte pagine importanti di testimonianza al vangelo, di amore per tutti i popoli, di impegno per la solidarietà tra le nazioni. Il sacrificio dei missionari non ha avuto misura ed è giunto fino alla forma piena di testimonian-za che è il martirio. Custodire questa memoria, renderla

sempre viva rinnovando l’impegno della missione ad gentes, accompagnando i missionari con l’affetto e con l’aiuto è un dovere imprescindibile della nostra Chiesa. Ci aiuterà a mantenere viva la sensibilità e a suscitare vocazioni generose di impegno.3. Le Missioni al popolo

Ma non basta. Una comunità cristiana non può mai rinunciare ad annunciare in modo esplicito a tutti gli uomini il vangelo dell’amore di Dio, della riconcilia-zione degli uomini, della vita eterna. Nella tradizione della nostra Chiesa c’è un’azione pastorale indirizzata direttamente a questo scopo ed è la celebrazione del-le Missioni popolari. Il can. 770 del CIC prescrive: “In determinati periodi, secondo le disposizioni del Vesco-vo diocesano, i parroci organizzino quelle predicazioni dette esercizi spirituali e sacre missioni, o altre forme adatte alle necessità”. Il canone successivo precisa che l’annuncio della Parola deve raggiungere anche “i non credenti che sono nel territorio, poiché la cura delle ani-me deve comprendere anche loro, non diversamente che i fedeli”.

Chiedo perciò che almeno ogni dieci anni (ma anche più frequentemente) ciascuna Unità pastorale program-mi accuratamente una Missione popolare. Sarà compito dei Consigli diocesani presbitera le e pastorale dare in-dicazioni concrete sui modi di svolgerla. L’essenziale è che nel corso della missione l’annuncio del vangelo giunga a tutti coloro che abitano nel territorio: sarà un annuncio positivo, centrato sull’amore e la misericor-dia di Dio; un annuncio gioioso, un vero ‘vangelo’ cioè un annuncio di bene, che non cerca di spaventare ma di attrarre con la prospettiva di una vita buona; un an-nuncio centrato su Gesù e sul suo vangelo; un annuncio che diventi appello a partecipare alla vita della comuni-tà cristiana nella quale la fede trova il suo ambiente di maturazione. Ci sono famiglie religiose che si dedica-no tradizionalmente a questo ministero (i Francescani, i Lazzaristi, gli Oblati di Maria Immacolata, i Passio-nisti...). È saggio ricorrere all’aiuto e all’esperienza di queste famiglie religiose. Bisogna, però, che anche il presbiterio diocesano sappia collaborare in prima per-sona a questo ministero. Si dovrà quindi definire un

elenco di sacerdoti che siano qualifi-cati per questo servizio e che costitu-iscano un collegio di presbiteri che si preparano e si aggiornano. Non solo: non sarà possibile incontrare davvero tutti gli abitanti del territorio senza un impegno massiccio di diaconi e di laici che girino casa per casa e, dove sono accolti, lascino con delicatezza la no-tizia di Gesù. Dovranno essere persone ‘convertite’ cioè persone che aderisco-no alla fede per una scelta consapevole e personale; persone preparate a incon-trare le singole famiglie e le singole persone con rispetto, affabilità, gioia.

Non basta: l’esperienza delle missio-ni non può chiudersi senza offrire a chi lo desidera l’opportunità di continuare il cammino di fede in modo comunita-rio. Bisogna perciò che le UP, quando programmano la Missione popolare, prevedano e preparino l’attivazione di

gruppi di fedeli nei quali sia possibile continuare con-cretamente, regolarmente, con gioia, l’esperienza di ascoltare insieme la parola, di volersi bene come fratelli, di partecipare insieme all’eucaristia, di pregare insieme con la preghiera della Chiesa. Questi gruppi dovranno tendere a diventare piccole comunità territoriali, che gravitano sul centro della parrocchia, ma che hanno una loro vita autonoma, fatta di rapporti concreti, di un sen-so forte di identità e di appartenenza, di una presenza esemplare nel territorio.4. Gli itinerari di tipo catecumenale

Tutti gli anni la liturgia ci chiede di fare un cammi-no di riscoperta della fede attraverso l’itinerario quare-simale e pasquale. È un cammino per tutti i credenti, naturalmente; ma può diventare un vero cammino di conversione per alcuni credenti che scelgono libera-mente e consapevolmente di fare diventare il cammino quaresimale-pasquale un cammino personale di conver-sione per giungere a una decisione ‘definitiva’ di fede. La dimensione catecumenale della quaresima è partico-larmente evidente nel ciclo delle letture dell’anno A. Ed

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è significativo che, secondo le rubriche, questo ciclo di letture possa essere usato tutti gli anni, proprio perché tutti gli anni possa essere offerta a chi lo desidera la pos-sibilità di percorrere un itinerario di risveglio della fede. Desidero che questa dimensione della liturgia quaresi-male e pasquale sia evidenziata e vissuta col massimo di consapevolezza.

Chiedo perciò a ogni UP di attivare ogni anno un itinerario di tipo catecumenale legato alla liturgia. Se ci sono persone disposte a percorrere questo itinerario, debbono essere presi i loro nomi in modo che la prima domenica di quaresima l’elenco sia completo.

In concreto bisognerà proporre con largo anticipo alle diverse parrocchie dell’UP questa possibilità di esperienza di fede (cominciando a parlarne fin dall’av-vento). Bisognerà definire una celebrazione eucaristica nella quale il cammino di fede sarà proposto in modo esplicito, anche con un annuncio prolungato e articolato della Parola; con esercizi di fede e di carità da fare du-rante la settimana. A questa celebrazione possono par-tecipare naturalmente tutti, ma in ogni modo debbono partecipare coloro che hanno scelto di fare il cammino e hanno iscritto il loro nome. Le diverse domeniche del-la quaresima diventeranno per loro altrettante tappe di avvicinamento alla Pasqua e alla professione di fede. La Veglia pasquale sarà un momento particolarmente intenso, il culmine del cammino: il momento in cui i singoli fanno propria la professione di fede della Chiesa e si impegnano in modo irrevocabile ad appartenere a Gesù Cristo e a vivere l’esperienza di Chiesa. Vale per questa esperienza quanto ho detto per la Missione popo-lare: chi ha percorso consapevolmente il cammino deve potere continuarlo in una esperienza concreta di comu-nità, attraverso la partecipazione a un piccolo gruppo.

Il tempo tra la Pasqua e la Pentecoste sarà la pro-va della vita ecclesiale sulla base della fede. Quelli che hanno fatto la professione di fede nella Veglia pasquale cercheranno di vivere insieme questa esperienza: ascol-tando insieme la parola di Dio, cercando di vivere la comunione e la fraternità. Da questa esperienza dovreb-bero nascere delle piccole comunità disperse sul territo-rio, fatte da persone che condividono la fede e la carità, che si amano e si sopportano, che partecipano alla vita della parrocchia ma, nello stesso tempo, mantengono un ritmo di vita ecclesiale più intenso attraverso legami fra-terni di fede. Anche su questo impegno chiedo ai Con-sigli pastorale e presbiterale di riflettere e di giungere a una proposta articolata da offrire alla diocesi intera.5. La testimonianza della vita

Naturalmente l’annuncio del vangelo (la missione) non si realizza soltanto in forme istituzionalizzate. Da sempre la conoscenza del vangelo passa attraverso la testimonianza di vita delle persone, dei laici in parti-colare. Nei primi tempi della Chiesa ciò che suscitava attenzione e rispetto era il modo in cui i cristiani vive-vano l’amore fraterno, la f edeltà coniugale, la famiglia, l’uso dei beni materiali, la fede nella vita eterna; erano alcuni comportamenti ‘alternativi’ che spingevano i pa-gani a interrogarsi sul significato e sul valore della fede cristiana. È ancora così; e sarà così sempre. Il vangelo diventa interessante quando mostra di avere una capa-cità di ‘umanizzazione’, cioè di rendere più ‘umane’ le persone, migliorando la qualità ‘umana’ della loro vita. Siccome i cristiani vivono gomito a gomito con tutti, il loro modo di vivere viene osservato e valutato quo-

tidianamente. Se l’esistenza cristiana appare meschi-na o ambigua o incoerente o fanatica, il vangelo sarà poco interessante e sembrerà una delle tante invenzioni dell’uomo per nascondere la sua debolezza; ma se l’esi-stenza cristiana apparirà libera, gioiosa, ricca di amore e di speranza, allora potrà nascere l’interrogativo che porta alla fede: da dove vengono questa libertà e questa gioia? Un’esistenza di fede appare desiderabile proprio perché rende più umana la vita. A scanso di equivoci: quando parlo di rendere ‘umana’ l’esistenza, intendo questo termine nel senso più pieno: un’esistenza è uma-na quando realizza al massimo tutte le dimensioni del desiderio umano, dalle più semplici fino alle dimensioni più alte: il desiderio di verità, di bontà, di bellezza... di Dio. Come dice san Tommaso, c’è nel cuore dell’uo-mo un desiderio naturale di Dio; l’impulso che spinge l’uomo alla vita lo spinge da un desiderio all’altro fino a desiderare la comunione con Dio. Nella realizzazione piena di questo impulso sta la perfetta umanizzazione, un traguardo che l’uomo raggiunge solo con la sua mor-te e con il dono divino della risurrezione in Lui.6. Con lo spirito delle beatitudini

Da qui l’importanza di testimoniare un’esistenza cristiana integrale, che sia mossa dallo Spirito Santo e sappia perciò parlare di Dio e di Gesù Cristo. La qualità di questa esistenza cristiana può essere descritta con le beatitudini del vangelo di Matteo (Mt 5,1-11); oppure con l’inno alla carità di Paolo (1Cor 13); oppure con la storia della fede secondo la lettera agli Ebrei (Eb 11). Scrivendo ai Galati, Paolo ricorda loro che il frutto dello Spirito è “amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gai 5,22). Dell’amore fraterno abbiamo già parlato sopra. Biso-gna ora aggiungere due brevi riflessioni sulla gioia e sulla libertà che debbono caratterizzare uno stile di vita cristiano.7. Con gioia

L’esigenza della gioia è evidente. All’origine della vita cristiana sta il vangelo e il vangelo è un annuncio di salvez-za, di bene, di perdono - quindi è sorgente di gioia. L’esi-stenza cristiana è tutta edificata dalla grazia di Dio - e quin-di è fatta di riconoscenza gioiosa. La speranza cristiana si apre alla risurrezione oltre la morte e quindi rimane salda in qualsiasi situazione. Uno dei segni più evidenti del degrado del tessuto sociale è la litigiosità diffusa che tradisce una tri-stezza di fondo. Chi è triste tende a risentirsi per ogni cosa, reagisce aspramente a ogni minimo disagio. Chi è gioioso, invece, passa sopra facilmente alle cose da poco e integra in un contesto di speranza anche le esperienze più gravose. Il cristianesimo, se è vero, deve dimostrare di essere una sor-gente di gioia; ma naturalmente perché la gioia possa na-scere bisogna che il cristianesimo sia autentico. Non basta essere cristiani di nome, bisogna essere cristiani di cuore. Se il cuore è davvero aperto alla grazia di Dio, questa grazia deve diventare sorgente di consolazione e di speranza. Paolo VI ha scritto una bellissima lettera sulla gioia cristiana (Gau-dete in Domino) che rimane un punto di riferimento per tutti i credenti; dobbiamo imparare a dire con Paolo: “Sono pieno di consolazione, pervaso di gioia in ogni nostra tribolazione” (2Cor 7,4).8. Con libertà

Accanto alla gioia, il segno di un’esistenza vissuta nella fede autentica è la libertà. È sempre Paolo che lo nota scri-vendo ai Romani: “Noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio... Se Dio è per noi, chi sarà contro

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di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa in-sieme a lui?... Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada?...

Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né mor-te né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù” (Rm 8,28-39, passim). In che cosa consiste questa libertà? Nel saper vivere in questo mondo senza essere condiziona-ti dalle paure o dalle seduzioni che l’esistenza nel mondo comporta; nel saper cercare il bene vero senza confonderlo coi beni apparenti che finiscono per irretire il cuore e ren-derlo orgoglioso e cinico; nel saper vivere con poco senza diventare avido o invidioso o risentito... e così via. E tutto questo non per una eroica forza di carattere come quella che cercavano di ottenere gli stoici, ma per la forza e la ricchezza dell’amore di Dio per noi.9. Nella sofferenza

L’obiezione più forte che può essere opposta all’annun-cio dell’amore di Dio per il mondo e per l’uomo è quella che proviene dall’esistenza del male. Se Dio è un Dio onni-potente e nello stesso tempo è un Dio buono, da dove viene il male? E perché il male sembra essere invincibile? Il pro-blema è filosofico e chiede l’impegno di riflessione di filo-sofi e teologi per raggiungere una risposta che sia accettabile dall’intelligenza dell’uomo. Ma il problema è anche esisten-ziale e chiede prima di tutto la testimonianza dei credenti, quella testimonianza che ogni credente può dare quando si trova nella condizione di malattia o di debolezza. La fede nell’amore di Dio non garantisce nessuno di fronte alle tem-peste che la sofferenza scatena nel cuore umano; il libro di Giobbe ce lo ricorda con chiarezza.

Ma la fede in Dio vuole dare all’uomo la capacità di vi-vere ‘positivamente’ il dolore. Voglio dire: vivere il dolo-re in modo che questa esperienza non distrugga l’umanità dell’uomo ma, paradossalmente, la renda più profonda e integra. Tutti noi abbiamo esperienza di persone che, colpite da sofferenze gravi, hanno risposto con un ‘più’ di amore, di umiltà, di pazienza, di generosità; hanno superato la tenta-zione dell’invidia e del risentimento e sono diventate centri di serenità per le persone loro vicine. Naturalmente, nessu-no può giudicare in questo campo i sentimenti e le reazioni degli altri. Ma ciascuno può cercare di trasformare la sua sofferenza in amore e bontà e fiducia in Dio. Quando questo avviene, siamo di fronte a un autentico miracolo, un segno che vivere la sofferenza con Dio è una sfida che può aprire a orizzonti più alti.

Se vogliamo che la Chiesa sia missionaria, debbono di-ventare missionari tutti i credenti. Non nel senso che deb-bano necessariamente diventare predicatori del vangelo, ma nel senso che debbono diventare testimoni viventi della trasformazione che il vangelo (cioè: l’amore di Dio attra-

verso il vangelo) opera nell’esistenza dell’uomo. Viviamo nel mondo insieme a tutti; condividiamo con tutti l’impe-gno a rendere il mondo più umano; con semplicità vogliamo dire a tutti che il vangelo ci ha resi migliori. Non diciamo di essere migliori degli altri; diciamo di essere migliori di quello che saremmo senza Gesù Cristo e senza il vangelo. Per questo offriamo agli altri la nostra testimonianza: forse Dio vuole chiamare altri a seguirlo insieme con noi. Ne gio-iamo; ma non perché in questo modo ci sentiamo più forti, ma perché in questo modo si leva all’amore di Dio un inno di grazie più ampio e più armonioso. Siamo convinti che la salute del mondo sta nel suo essere effettivamente aperto all’amore che sta oltre il mondo e che la pienezza della gio-ia e dell’umanità sarà quando saranno sconfitte le forze di egoismo e di orgoglio che operano nel mondo, quando sarà sconfitta l’ultima potenza che è la morte e Dio potrà essere “tutto in tutti” (1Cor 15,28). Questo speriamo e per questo desideriamo vivere.

CONCLUSIONEForse l’icona più significativa della missione è il rac-

conto di Lc 1,39-45. Il viaggio di Maria e il suo incon-tro con Elisabetta non è un evento privato che riguardi loro sole; al contrario, quando il saluto di Maria giunge agli orecchi di Elisabetta incinta, il bambino sussulta di gioia nel suo grembo. È la gioia messianica espressa da colui che dovrà diventare profeta, il precursore di Gesù. Attraverso Giovanni è il popolo di Israele che riconosce e accoglie il Messia venuto per visitarlo e per chiamar-lo alla gioia della salvezza in Dio. Ebbene, ogni atto di evangelizzazione mantiene la struttura di questo evento.

Anzitutto avviene attraverso l’incontro semplice di due persone; da una parte sta Maria che ha concepito il Verbo di Dio accogliendo la parola dell’angelo nella fede; dall’altra parte sta Elisabetta che porta nel seno un profeta, ricco del desiderio e dell’attesa di tutto il popolo. In secondo luogo il protagonista dell’evento è lo Spirito Santo. È lo Spirito che fa percepire a Giovanni la presenza del Messia; che rende Elisabetta capace di interpretare il movimento di gioia del figlio; che trasfor-ma un semplice incontro in un evento di rivelazione e di fede.

La Chiesa è chiamata a operare come Maria. Prima di tutto essa ascolta la parola di Dio, cerca di comprenderla nella fede, di aderire ad essa senza esitazione, di lasciare che la parola di Dio dia una forma nuova ai suoi desideri e alle sue speranze. Portando dentro di sé la Parola di Dio, la Chiesa incontra le persone là dove esse vivono e questo incontro permette allo Spirito Santo di operare nel cuore umano, di suscitare desideri profondi di vita e di bene, di far riconoscere Gesù come compimento di questi desideri, di generare la gioia della fede. Per questo la nostra Chiesa vuole guardare Maria e desidera imparare da lei la legge autentica della missione: evite-remo così il rischio di un attivismo inquieto e troveremo

la via autentica dell’incarnazione.

Brescia, 15 agosto 2013 Solennità di S. Maria Assunta, Patrona della Cattedrale

+ Luciano Monari Vescovo

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INTRODUZIONE ALLA BIBBIA

La lettura che della Bibbia si faceva fino all’epoca dell’Illuminismo (XVIII secolo) seguiva la lunga

tradizione originata dai Padri della Chiesa, testimonia-ta dalle loro opere di commento e d’interpretazione dei singoli libri biblici.

Il loro accostamento al testo della Bibbia s’ispira-va all’allegoria, mediante la quale essi intendevano trasporre, nella vita di fede del credente, ciò che la Bibbia e il Vangelo racchiudevano nella descrizione delle vicende dei vari personaggi e negli eventi nar-rati. Il loro impegno era soprattutto rivolto alla ricerca di un «altro» significato che potesse essere applicato alla vita del credente e alla sua crescita nella fede (il termine «allegoria» infatti deriva dal greco allos, «al-tro»). Dal loro orizzonte era lontano uno studio del te-sto sacro che non fosse esclusivamente radicato nella spiritualità, come invece avverrà all’epoca dell’Illumi-nismo, quando anche ai libri della Bibbia verrà estesa la critica storica e letteraria con la quale si era iniziato ad affrontare lo studio delle opere degli autori f del-la letteratura greca e latina, favorito dalla riscoperta delle lingue classiche e anche dell’ebraico, lingue che ormai non si conoscevano più.

La critica storica e letteraria si proponeva di indi-viduare gli autori e le fonti dei vari testi, di ricostruir-

ne l’origine e il processo di trasmissione, di esplorare l’ambiente storico e culturale da cui erano stati origi-nati. Nasceva così il metodo storico-critico, che tanta influenza ebbe sullo studio e sull’interpretazione della Bibbia, contribuendo a farne conoscere non solo l’am-biente originario e la storia, ma anche le varie tecni-che di composizione dei testi (pensiamo ai «generi letterari»), l’intreccio delle fonti, il confronto con le altre religioni e la dipendenza dalle antiche civiltà e dalle loro opere letterarie, la trasmissione dei testi e la loro recezione nelle diverse comunità.

L’ipotesi documentariaLa Bibbia che abbiamo tra le nostre mani si apre

con un’ampia raccolta di libri, conosciuta con il nome di Pentateuco (dal greco pente, «cinque» e teuchos, «astuccio per libri»). Con questo nome si indicano i primi cinque libri della Bibbia: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio. Sono, questi, i testi che con-tengono i racconti, gli eventi, i personaggi e le tradi-zioni delle epoche più antiche della Bibbia.

Fino al secolo XVIII, l’intera raccolta del Pentateu-co era attribuita a Mosè. Ma quando iniziò lo studio dei testi antichi utilizzando il metodo storico-critico, anche alla Bibbia venne applicata la critica letteraria con l’intento di risalire alle fonti e agli autori e di in-dividuare il processo di trasmissione dei testi che da un’originaria fase caratterizzata dalla narrazione a viva voce giungeva a quella successiva della fissazione nel-lo scritto, fino all’attuale testo biblico.

Fu proprio accostando il Pentateuco che gli studiosi si trovarono di fronte a differenze di stile e di voca-bolario, a doppioni, a ripetizioni e a contraddizioni, così da mettersi all’opera per offrire le risposte più appropriate. Tramontò definitivamente anche la stes-sa convinzione di vedere in Mosè l’unico autore del Pentateuco, un’opera che ormai appariva complessa e frutto di un lavorio protrattosi lungamente nel tempo.

Esemplificando, le differenze di vocabolario erano testimoniate tra l’altro dal diverso modo di chiamare Dio ora con il nome Jhwh (= Jahwèh, che viene tradot-to «il Signore»), ora con il nome Elohìm (= «Dio», dal

La formazione dell’Antico

Testamento

Come crescere nella fede? Come nutrire la fede?

Conosciamo la Parola di Dio.

Continuiamo la conoscenza

del testo sacro per cogliere meglio

i tesori contenuti in esso

Dio Creatoreminiatura della Bibbia,1220 circaBiblioteca nazionale di Vienna

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nome generico El con cui venivano chiamate le divini-tà orientali). I doppioni venivano individuati nei due racconti della creazione (Gen 1,1-2,4a e Gen 2,4b-23), come pure nelle due versioni dei dieci comandamenti (Es 20,1-21 e Dt 5,1-33). Nella narrazione di Gen 37 balzavano, poi, agli occhi del lettore alcune contrad-dizioni riguardanti sia la «vendita» di Giuseppe (ai mercanti «madianiti» o agli «ismaeliti»?) sia la sua salvezza dall’uccisione (da parte di Ruben o da parte di Giuda?). ‘’

Esempio ancor più significativo di contraddizioni e di’ doppioni sono le leggi riguardanti argomenti simili, che subiscono correzioni e mutamenti, come le leggi sugli schiavi, nella loro triplice versione (Es 21,2-11; Lv 25.39-55; Dt 15,12-18).

Lo studio del Pentateuco, condotto alla luce del nuovo metodo storico-critico, condusse alla formu-lazione della cosiddetta ipotesi documentaria, che ebbe in Julius WelIhausen (1844-1918) uno dei suoi più importanti teorizzatori. Secondo questa ipotesi, i cinque libri del Pentateuco sarebbero il risultato della compilazione e della fusione di «documenti» risalenti a periodi e ad ambienti diversi e in un primo tempo circolanti sotto forma di tradizioni orali.

Tra questi, quattro erano i «documenti» che si im-ponevano: il documento (o fonte) Jahwista (= sigla J), il documento (o fonte) Elohista (= sigla E), il docu-mento (o fonte) Deuteronomista (= sigla D), il docu-mento (o fonte) Sacerdotale (= sigla P).

L’ipotesi documentaria ebbe grande successo e sviluppo e rimase alla base dello studio e dell’inter-pretazione del Pentateuco per molto tempo, fino agli inizi degli anni 70 del secolo scorso, quando comincia-

rono ad affacciarsi nuovi metodi di accostamento alla Bibbia. Questi si prefiggevano di superare i limiti che l’ipotesi documentaria ormai lasciava trasparire e, al tempo stesso, aprivano nuovi orizzonti a una sua mi-gliore comprensione.

È però importante ora cogliere, anche se sintetica-mente, le caratteristiche di ciascuno di questi quattro documenti (fonti), perché gli studi biblici e la stessa lettura della Bibbia ne sono stati particolarmente in-fluenzati. Ancora oggi infatti, i vari commenti e intro-duzioni alla Bibbia non esitano a rievocare il contribu-to che questi documenti hanno dato nello scavare più in profondità il testo biblico e portarne in superficie le incalcolabili ricchezze (cfr al riguardo l’introduzione alla Bibbia di Gerusalemme, EDB, 2009, pp 5-13).

Il documento (o fonte) JahwistaQuesto primo documento si caratterizza per l’uso

del nome Jhwh («Signore») dato a Dio. Gli ebrei lo so-stituivano leggendo Adonài(«mio Signore»), perché il nome Jhwh, rivelato da Dio, non va mai pronunciato, come prescrive il secondo comandamento del deca-logo (cf Es 20,7: «Non pronuncerai invano il nome del Signore»).

La fonte Jahwista è molto antica. Viene fatta risalire al X/IX secolo a.C, agli inizi dell’epoca monarchica e ha come luogo di composizione la corte di Gerusalem-me, nel Regno del Sud o di Giuda. È la fonte che ama presentare Dio nel suo volto «umano» (ciò che vie-ne chiamato antropomorfismo, dal greco ànthropos, «uomo»). Dio appare nella familiarità del dialogo con i personaggi che animano la storia del popolo biblico (come Abramo e i patriarchi, cfr Gen 12-25), intervie-ne direttamente nelle vicende degli uomini (come con Abramo e Sara in Gen 18) e tutto avvolge di luce e di serenità.

Il documento Jahwista evidenzia i grandi temi bi-blici dell’elezione, della promessa, della benedizione, del dono della terra e della discendenza. I testi che, nella Bibbia, ad esso si ispirano comprendono il rac-conto delle origini (racchiuso in Gen 1-11) e si esten-dono fino alle porte della terra santa, dove il popolo di Israele entrerà e vedrà realizzarsi le promesse fatte da jhwh ai patriarchii.

Il documento (o fonte) ElohistaÈ il nome Elohìm con cui viene chiamato Dio a

caratterizzare questa fonte. Essa è più recente della Jahwista e viene fatta risalire ai secoli VIII/VII a.C. ne-gli ambienti di corte del Regno del Nord o di Samaria. Esprime, perciò, una particolare preferenza per tutto ciò che riguarda questo Regno, come se volesse equi-librare il contenuto della fonte Jahwista, simpatizzan-te per il Regno del Sud.

Il documento Elohista è sobrio, attento a purificare il rapporto tra l’uomo e Dio e ad evitare ogni antropo-morfismo. Dio è esigente e la fede in lui è presentata come una realtà assoluta, che richiede la totale ade-

INTRODUZIONE ALLA BIBBIA INTRODUZIONE ALLA BIBBIA

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INTRODUZIONE ALLA BIBBIA INTRODUZIONE ALLA BIBBIA

sione dell’uomo (come nel racconto di Gen 22, dove Dio mette alla prova la fede di Abramo, chiedendogli in sacrificio il figlio Isacco).

In questo documento è anche frequente, nella ri-velazione che Dio fa di se stesso, il ricorso al sogno, al sonno e alla visione, per evitare di coinvolgere diret-tamente Dio nelle vicende umane e salvaguardarne la trascendenza e l’assoluta purezza.

La morale viene maggiormente messa in rilievo dall’Elohista, per cui in alcuni testi scabrosi appare l’intervento di Dio che richiama all’osservanza del-la legge e della sua volontà (cf Gen 12,10-20 e Gen 20,1-18 dove Abramo dichiara Sara sua sorella e Dio interviene per evitare l’adulterio da parte di chi li ha ospitati).

Il documento (o fonte) Elohista presenta una sto-ria che, dalle vicende di Abramo (l’alleanza stretta con lui in Gen 15), giunge fino alle porte della Pale-stina, sotto la guida del Dio dell’alleanza.

Il documento (o fonte) DeuteronomistaII nome di questo documento si spiega perché

esso coincide con il contenuto del libro del Deutero-nomio. Risale all’epoca della riforma religiosa del re Giosia, sotto il cui regno, durante i lavori di restauro del tempio di Gerusalemme, venne scoperto nel 622 a.C «il libro della legge» (2 Re 22,1-20), comunemen-te identificato con le parti più antiche del libro del Deuteronomio. All’epoca dell’esilio babilonese a que-sto documento furono fatte aggiunte, ritocchi e adat-tamenti.

I temi principali che si possono cogliere in questo documento (o fonte) sono il richiamo all’ascolto/obbe-dienza alla Parola di Dio e alla fedeltà all’alleanza che egli ha stretto con il suo popolo, il primato dell’amore e della fede nell’unico Dio liberatore dalla schiavitù e do-natore della terra, come appare nel testo dello Shemà Israèl («Ascolta Israele») in Dt 6,4-9: «Ascolta, Israele: il Signore (=Jhwh) è il nostro Dio (= Elohènu, da «Elohìm»), unico è il Signore (= Jhwh). Tu amerai il Signore (= Jhwh) tuo Dio (= Elohèka, da «Elohìm») con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze».

Se il popolo di Israele si mantiene fedele e ascolta il suo Dio, ha la certezza di rimanere nella terra promes-sa che Dio stesso gli ha donato dopo averlo liberato dall’Egitto. Se, invece, è infedele e segue gli idoli pagani, il popolo verrà sradicato dalla terra promessa e verrà condotto in esilio.

Infatti, nei libri che si ispirano alla fonte deuterono-mista, cioè quelli compresi da Giosuè fino a 1-2 Re e che formano la cosiddetta storia deuteronomistica (= dtr), si profila in ogni pagina la minaccia dell’esilio, come in-tervento punitivo di Dio, che sradica il popolo infedele dalla terra donatagli dal Dio fedele. Ciò si verificherà nel 587 a.C. con la distruzione della città di Gerusalemme e del suo tempio e con la deportazione dei suoi abitanti a Babilonia.

Anche la predicazione dei profeti (pensiamo a Osea e soprattutto a Geremia) ha questo taglio particolare che caratterizza la storia deuteronomistica.

Il documento (o fonte) SacerdotaleLa sigla P con cui viene convenzionalmente abbre-

viato questo documento, ha origine dal nome tedesco Priestercodex («Codice sacerdotale»), come lo chiama-rono gli studiosi di quella lingua.

La tradizione Sacerdotale si deve all’opera dei sacer-

doti che si trovavano in esilio con i loro connazionali a Babilonia (587 a.C. - 538 a.C.) e si adoperavano a man-tenere viva la fede nel vero Dio e ad osservare la sua legge. È caratterizzata da testi storico-legislativi (come nel libro del Levitico, il «libro dei sacerdoti»), ma anche da materiale più antico.

Come dice il nome, essa si interessa in modo parti-colare a tutto ciò che riguarda il culto, il sacerdozio, i sacrifici, il sabato (come nel primo racconto della crea-zione, che converge nel sabato e ne inculca la fedele os-servanza, cf Gen 1,1-2,4a) e la circoncisione (cf Gen 17, dove questa pratica, comune nell’antico mondo orien-tale, viene presentata come il segno di appartenenza al popolo eletto da Dio in Abramo).

Il documento Sacerdotale è presente già nel raccon-to della creazione, ma il suo contenuto si coglie fino alla conclusione del libro di Giosuè, con l’ingresso «sacerdo-tale» nella terra della promessa (come si legge nell’epi-sodio della caduta di Gerico, a sfondo tipicamente «li-turgico-cultuale», caratterizzato dalla processione, dalla presenza dell’arca, dal suono degli strumenti del culto e dalla regia liturgica dei sacerdoti, cfr Gs 6,1-27).

Anche l’opera del profeta Ezechiele (sacerdote ed esule egli pure in Babilonia) si ispira a questo documen-to, accogliendone i tratti caratteristici: linguaggio, im-magini, teologia e simbologia.

I bambini cominciano in famiglia a conoscere i personaggi della Bibbia: una generazione narra all’altra le opere di Dio.

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INTRODUZIONE ALLA BIBBIA INTRODUZIONE ALLA BIBBIA

Il Pentateuco nell'attuale ricerca biblicaMentre l'ipotesi documentaria era interessata a co-

gliere l'origine dei testi e le modalità della loro trasmis-sione e del loro sviluppo, oggi la ricerca biblica privilegia soprattutto la redazione finale del Pentateuco, cioè del testo così come lo abbiamo tra le nostre mani. Questo testo viene considerato come un'opera unitaria, la cui composizione finale va collocata nell'epoca dell'esilio babilonese e del dopo esilio (anche se molto materiale risale ad epoche precedenti e più antiche), allo scopo di «ricostruire» l'identità religiosa e sociale del popolo di Israele, sconvolto dalla profonda crisi originata dalla ca-duta di Gerusalemme e dall’esilio (interpretato alla luce della fede come intervento punitivo di Dio, dovuto alle infedeltà del suo popolo).

Tutta la storia biblica riceve, così, una particolare pi-sta di lettura: da una parte essa viene letta come storia della fedeltà di Dio, dall’altra come storia dell’infedeltà del popolo.

La centralità del DeuteronomioQuesta pista di lettura è individuata dagli studiosi

soprattutto nella corrente deuteronomistica, dal nome del libro del Deuteronomio, il libro che più di tutti ad essa si ispira e che più di tutti ha influito sulla compo-sizione finale del Pentateuco. Il suo nome, che appare nella Bibbia greca dei Settanta, significa «seconda» (in greco deuteros) «legge» (in greco nomos] e si ispira al testo di Dt 17,18-19 dove al re viene chiesto di tenere presso di sé come guida nel governo del popolo «una copia della legge», o una «seconda legge» (in greco deuteronòmiorì): «Quando si insedierà sul trono rega-le, scriverà per suo uso in un libro una copia di questa legge... essa sarà con lui ed egli la leggerà tutti i gior-ni della sua vita, per imparare a temere il Signore suo Dio, e a osservare tutte le parole di questa legge e di questi statuti...». Questa corrente s’impone e si sviluppa proprio nel periodo dell’esilio babilonese e del dopo esi-lio, riflettendo sul perché Israele è stato sradicato dalla terra dei padri e deportato a Babilonia. I suoi esponenti (soprattutto di area sacerdotale) allora ripercorrono tut-ta la storia del popolo amato da Dio e ne scoprono le molte infedeltà e le molte scelte contrarie all’alleanza. È a queste che essi guardano come alla causa principale dell’attuale situazione di esilio e del «silenzio» di Dio (Sal 8,1), «che ha ritirato la sua mano e la sua destra» (Sal 74,11), ha lasciato cadere Israele nelle mani dei nemici e ha cambiato la benedizione (come era inteso il dono della terra) in maledizione (come era inteso lo sradica-mento dalla terra).

«Ricostruito» nella sua identità di popolo, Israele ve-deva in questi testi (il Pentateuco) il suo «statuto», che lo distingueva tra tutti i popoli dell’impero persiano, di cui la Giudea dopo l’esilio e il ritorno a Gerusalemme (dal 538 a.C), era diventata provincia.

«Se ascoltaste oggi la sua voce!» (Sal 95,7)In questa ricostruzione e in questa interpretazione

«religiosa» del castigo dell’esilio, il libro del Deuterono-mio con la sua visione teologica del passato di Israele (caratterizzato dall’«ascolto» della Parola di Dio «oggi») ne illumina ora il presente (che diviene il nuovo «oggi» di Israele in esilio) ricomponendone il fondamento reli-gioso e il legame dell’alleanza che lo stringe al suo Dio, dopo essere stata infranta dall’infedeltà e dal peccato.

«Ascolta Israele» (Dt 6,4) è l’esortazione vibrante del Deuteronomio che, come nel passato aveva guidato Israele nel cammino del deserto verso la terra della pro-messa, così ora guida nuovamente il cammino del popo-lo che ritorna dall’esilio nella stessa terra. Questo libro motiva l’ascolto della Parola di Dio (ma anche di Mosè) già dal suo titolo, che nella Bibbia ebraica è «Le parole».

La rievocazione dell’«oggi» (termine temporale più importante del Deuteronomio e dello stesso Antico Te-stamento) ha la capacità di riscattare il presente doloroso dell’esilio saldandolo con il ricordo del passato glorioso del popolo che «oggi» ascolta il suo Dio, «oggi» obbedi-sce alla sua legge, «oggi» entra nella terra della promes-sa, «oggi» celebra la liturgia nello splendore del tempio. È la forza che sprigiona dal «memoriale»/«ricordo» biblico, che ha nel libro del Deuteronomio la più ricca testimonianza (il verbo «ricordare» ne scandisce quasi ogni pagina e ne trasmette il messaggio all’«oggi» di ogni generazione, così che «oggi» diventa teologica-mente «sempre»).

L’aver saputo compiere questa «sintesi» tra passato e presente di Israele è ciò che gli studiosi amano chiamare «lettu-ra sincronica» (cioè lettura unitaria della Bibbia, oggi privilegiata), men-tre la lettura scaturita dall’ipotesi documentaria viene definita «let-tura diacronica» della Bibbia, cioè una lettura frammentaria (quasi una vivisezione dei singoli testi e dei singoli momenti della storia biblica), frutto di un metodo di accostamento alla Bibbia oggi da molti non più seguito.

Una conclusione per noi A chi nelle nostre assem-

blee liturgiche legge o procla-ma o spiega la Bibbia (i lettori istituiti o di fatto, i catechisti) non può sfuggire quanto sia importante e doveroso in-teriorizzare e fare propria questa «sintesi», che nasce dalla quotidiana frequenta-zione del testo biblico, dove tra le sue righe si nasconde l’incalcolabile tesoro della Parola di Dio, che dev’es-sere scoperto, portato alla

Il Pentateuco

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INTRODUZIONE ALLA BIBBIA INTRODUZIONE ALLA BIBBIA

La Bibbia è fatta di più rotoli, più libri, perciò l’insieme si chiama in greco Ta Biblia = i libri.

luce, annunciato e distribuito.Queste persone, proprio perché, prima della pro-

clamazione della Parola, si sono formate all’«ascolto» alla scuola di quel libro che gli ebrei dell’esilio hanno chiamato significativamente «Le parole» (e noi cristia-ni «Deuteronomio»), hanno nell’assemblea liturgica il compito di far «ricordare» ai presenti la Parola di Dio e la sua storia di salvezza e, dalle righe silenziose del Lezionario che tengono «incatenata» questa Parola di vita (2 Tm 2,9), farla rimbalzare nell’«oggi» dell’assem-blea che celebra, come hanno fatto per il popolo di Israele i compilatori del Pentateuco all’epoca dell’esilio.

Una conclusione sulla formazione del Penta-teuco

Alla luce di quanto abbiamo fin qui esposto, oggi sembrano prevalere due orientamenti tra i diversi che gli studiosi hanno proposto sull’ori-gine e la formazione del Pentateuco nell’epoca dell’Israele postesilico.

• II primo orientamento è quello tracciato dagli studiosi che vedono nel Pentateuco da una parte il documento fondante l’identità del popolo di Israele ricomposto dopo l’esilio; dall’altra il suo corpo legislativo, accolto e ratificato dal sovrano persiano con la sua «autorizzazione imperiale».

Il Pentateuco risultava dalla fusione di due tradizioni. La prima era quella che legittimava le prerogative della classe sacerdotale (la tradizione sacerdotale, in sigla P). La seconda era quella che sal-vaguardava il potere laico degli anziani, cioè i grandi proprietari terrieri (la tradizione deuteronomistica, in sigla D). Queste due tradizioni all’epoca del dopo esilio furono raccolte in un unico documento, che divenne l’attuale Pentateuco.

• II secondo orientamento, indicato già dagli anni 70 del secolo scorso è racchiuso nella formula con la quale si vuole indicare la comunità postesilica dei citta-dini di Gerusalemme, organizzata attorno al suo tem-pio e soggetta alla dominazione persiana. La formazio-ne del Pentateuco avviene in questa comunità, che ha le sue fondamenta nel tempio e nella legge, approva-

ta dall’autorità imperiale per-siana. È questa comunità che viene defini-ta «proprietà particolare» di Jhwh (Es 9,5), «regno di sa-cerdoti» e «na-zione santa» (Es 9,6).

In questa stessa comuni-tà i sacerdoti e gli anziani- le due istituzioni sopravvissute all’esilio - ven-

gono legittimati nella loro autorità sulla scia di Es 24,9-11 (la «visione di Dio» e «il pasto» alla presenza della divinità).

Il Pentateuco si presenta come un insieme narrativo che unisce la creazione (Gen 1) con la «tenda» del de-serto, dove Jhwh ha preso dimora (secondo il racconto di Es 40).

Questo insieme narrativo costituisce la prima gran-de tappa della storia dell’universo: il Creatore ha tro-vato una «dimora» nella creazione.

Nei libri della Genesi e dell’Esodo vengono fissa-te le varie tappe che conducono a questa meta: la creazione, la scelta di un popolo che Jhwh libera e in mezzo al quale pone la sua dimora, la «tenda», che è il prototipo del tempio della comunità postesilica (Es 40,34-35). Da questa «dimora» Dio parla al suo popo-lo (Lv 1,1; Nm 1,1) e lo accompagna lungo il cammino che lo introduce nella terra della promessa (Es 40,36-38; Nm 9,15-23; Dt 31,14-18).

«Il Pentateuco - scrive J.L. Ska - aveva anche due funzioni all’interno della comunità postesilica. Primo, doveva fornire dei criteri per decidere chi appartenes-se o meno alla comunità. Secondo, doveva stabilire con una certa chiarezza il funzionamento degli orga-ni di potere e la posizione rispettiva dei vari gruppi che coesistevano in questo periodo. I racconti della Genesi e le genealogie definiscono l’appartenenza al popolo, I “libri legislativi” (Es - Dt) forniscono la base giuridica della comunità. Un israelita sarà dunque un discendente di Abramo, Isacco e Giacobbe che ascolta e osserva la legge di Mosè affidata ai sacerdoti e agli anziani. Solo questo è il cittadino della “comunità del tempio” che può usufruire dei privilegi concessi dal re di Persia al tempio di Gerusalemme e alla provincia dell’Oltrefiume (comprendente la Giudea). Tutto ciò fa ritenere che il Pentateuco attuale nascesse durante il periodo postesilico nella comunità che si era riorga-nizzata attorno al tempio di Gerusalemme» (J.L. SKA, Introduzione alla lettura del Pentateuco, p.300).

(continua)

Dalle righe silenziose del Lezionario rimbalza, nell’oggi dell’assemblea che celebra, la Parola di Dio.

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UNITA’ PASTORALE -PARROCCHIE BOTTICINOCommissione pastorale familiare e coppiaAssociazione PUNTO FAMIGLIA E DINTORNI

pagine per lafamiglia e... dintorni

estate 2013 Così nascosto, ma così prezioso!

È uno spazio che di rado rientra nei progetti di case e di appartamenti, per poi correre ai ripari una volta che si comincia ad abitare, leggendo ogni anfratto libero come possibile collo-cazione dell’amato ripostiglio. Non importa se piccolo o difficilmente ac-cessibile; la cosa che veramente conta è che abbia una porta capace di sepa-rare il bello dall’utile, l’ordine dal di-sordine, quello che vogliamo lasciare in mostra da quello che è meglio cela-re. Tutti sappiamo quanto è prezioso uno sgabuzzino, eppure non stupisce nessuno che non se ne parli mai, non si mettano in evidenza agli altri le sue molte virtù. Anzi, al contrario, pro-prio se questo avvenisse storceremmo il naso come davanti ad un caso biz-zarro o ad un fenomeno da baracco-ne. Forse, invece, potrebbe davvero diventare una buona occasione per rompere delle ingessature di vana formalità e svelare quello che tutti comunque vedono, ma ovviamente di

cui è vietato parlare: le relazioni che veramente sostanziano la nostra vita familiare. Certo, a ben guardare è uno spazio della casa abitato soprat-tutto dalle cose più che dalle persone, ma ugualmente una parte di noi, del nostro modo di essere, vive in questo affollato locale.

Mi immagino il ripostiglio come uno spazio disponibile ad essere ri-empito, colmato a dismisura senza troppi complimenti e remore: con una mano pigiando il tutto, mentre l’altra afferra con fulminea arguzia la ma-niglia della porta per chiuderla, così da non far uscire neanche uno spillo. Ovviamente, nell’immediato non ci si preoccupa del giorno in cui la stessa porta dovrà essere riaperta; per ades-so basta aver affrontato un problema e, il non pensarci troppo, quasi qua-si permette di sognare di aver risolto proprio tutto... Ma proviamo ad in-terrogarci: che cosa davvero mettia-mo nel ripostiglio delle nostre relazio-ni familiari? E quali sono le cose non del tutto sistemate? E quali avrebbero bisogno invece di essere rispolverate, rimesse in gioco?

Qualcuno nel ripostiglio ripone cose utili, ma non così carine da esse-re lasciate in vista; altri preferiscono accatastare un qualche arnese che magari un giorno “tornerà buono”; taluni, invece, sono dei collezionisti di memorie, cianfrusaglie ricoperte di un alto valore simbolico. Anche i deli-cati profumi che abbiamo indossato, come per esempio un paio di scarpe all’ultima moda, qui diventano pe-santi odori; gli stessi colori variega-ti e sfavillanti contano poco, vista la penombra reverenziale che connota lo spazio del ripostiglio. Si mette una

luce fioca dove non si vuole vedere proprio tutto, dove forse le sfumature sono ritenute inutili o magari un po’ dolorose. Infatti, non sempre le rela-zioni nelle nostre famiglie sono facili e piacevoli, eppure non per questo perdono del loro valore e della loro forte consistenza. Ci sono giornate in cui le ombre sembrano preponderanti rispetto alle luci, in cui cioè ci sembra di vedere tutto nero e con poca spe-ranza. A volte, i coniugi stessi non si riconoscono più così piacevolmente come un tempo, mettendo in rilievo reciprocamente i rispettivi difetti (gli odori più che i profumi!); oppure, nel rapporto genitori-figli ci si sente schiacciati da attese-disattese, da rap-porti educativi logoranti e da relazioni troppo invischiate, invadenti. Con un po’ di buon umore, si potrebbe impa-rare dal caro, vecchio ripostiglio: non si può risolvere tutto e subito, qual-cosa non sarà mai al cento per cento, spesso è solo questione di sguardi, di punti di vista.

Anche la nostra memoria gioca brutti scherzi quando ci fa dimenti-care alcune cose che abbiamo da tem-po lasciato da parte, obbligandoci ad una frenetica caccia al tesoro altrove, senza una reale possibilità di buona riuscita: sembra che cali la nebbia sui ricordi di persone e di situazioni, qua-si come se venissero rimossi, eliminati. La voglia di gettar via la chiave e non pensarci più è spesso così forte, così tenace, che a fatica si può resistere; ma la vista lunga sulla vita e la mi-sericordia che trasforma l’amore in perdono, ci aiutano a “rimboccarci le maniche” con passione e tenerez-za nell’affascinante mondo delle re-lazioni familiari.

La casa sulla roccia: il ripostiglio

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settembre 2013 Nell’esperienza dell’incontro personale con Cristo nella Chie-

sa, credere vuol dire affidarsi all’amore incondizionato di Dio, espresso al sommo grado nella morte e risurrezione di Gesù. Per ogni cristiano, allora, credere e amare, pur distinguendosi logica-mente, vanno praticamente a coincidere: mi fido e mi affido com-pletamente alla Parola di Dio perché ho sperimentato il suo amore donato senza misura, l’affi dabilità delle sue promesse e la potenza della sua misericordia!

Anche Papa Francesco, con l’Enciclica per l’anno della fede: “Lumen fidei”, prende l’occasione, tra le altre cose, per far risuo-nare lo stupendo messaggio evangelico, espresso mirabilmente e con incisiva sintesi nella Prima Lettera di San Giovanni Aposto-lo: “Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore E noi abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi. Dio è amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui”. (Cfr. 1 Gv 4,7-8a.16). Ora, il matrimonio sacramento esprime la sua piena originalità proprio nell’essere segno e strumento di questo amo-re divino, luogo stabile del suo manifestarsi a beneficio non solo della famiglia, ma dell’intera Chiesa e, attraverso di essa, per tutta l’umanità. Dentro le dinamiche e le storie dell’amore tra un uomo e una donna viene a prendere stabile dimora l’amore salvifico che Cristo ci ha donato con la sua morte e risurrezione. Così, di con-seguenza, solo fondandosi sull’amore di Dio trova ragionevolezza, possibilità e desiderabilità il promettersi per tutta la vita degli sposi cristiani, in maniera fedele ed indissolubile, completa e feconda.

Il sacramento del matrimonio riceve il suo autentico significato all’interno della fede della Chiesa e dentro l’amore specifico che gli sposi possono esprimere, soprattutto nelle due direttrici della piena comunione e della generazione. Allora, in questo contesto coniu-gale e familiare, che cosa potrebbe significare vivere e testimoniare lo scritto giovanneo qui sopra accennato? Come conoscere e cre-dere l’amore di Dio in noi, quando questo “in noi” è la relazione tra due sposi, tra genitori e fi gli, tra fratelli? Eppure, tutta la storia della Salvezza presentata a noi attraverso la Sacra Scrittura non finisce mai di mostrare le vicende di famiglie, di generazioni, dentro cui si mescola e si impasta il rapporto con Dio. Emblematico è il caso del profeta Osea, chiamato ad esprimere il dolore e il disappunto di Dio verso il suo popolo, infedele ed ingrato, prendendo in moglie una prostituta e accogliendo figli frutto di prostituzione.

Qui perdere la fede ha significato trascurare l’amore di Dio, in-carnato e concretizzato nell’amore verso il prossimo.

Ancora una volta, allora, fede e amore vanno insieme!Gli sposi cristiani non sono dei conviventi a cui si elargisce ge-

nerosamente una benedizione, come neppure sono dei coniugati civilmente per i quali si prepara una bella cerimonia. Chi chiede e riceve il sacramento dell’amore di Cristo per la sua Chiesa, chiede e riceve la possibilità di vivere in maniera trasformata ogni respiro dell’esperienza familiare e insieme il dovere di testimoniare questa novità.

E’ un amore esigente, anzi il più esigente; ma è l’unica strada di

pienezza di vita e di ponte con l’eter-nità. Non ci si sposa perché si è inna-morati e ci si vuole bene (e basta!); da cristiani ci si sposa perché si crede all’amore di Cristo dentro l’affasci-nante relazione tra un uomo e una donna. Ecco perché il sacramento del matrimonio dovrebbe far dire: “La nostra missione nella Chiesa e nel mondo è amarci come Cristo ci ha amato, con il linguaggio specifico che solo noi possiamo vivere in pie-nezza e nella verità: lui ama in noi e noi crediamo nel suo amore!”. Sono cosciente che queste affermazio-ni potranno suscitare diverse reazioni, come quelle di pensare ad un’utopia o di chiudere il tutto nel soffocante scrigno dell’emozio-nalità. Questa però è la nostra fede, è la fede della Chiesa. Semmai il problema è che probabilmente neanche tantissimi sposi ne sono consapevoli e che l’intero corpo ecclesiale forse non osa credere (cioè vivere e testimoniare) ad un amore così grande, così esagera-to, così … cristiano.

ottobre 2013 La famiglia cristiana è come una chiesa domestica (cfr. LG 11), ha riconfermato solennemente il Concilio Vaticano II, e noi ci sia-mo premurati di riprendere e rilanciare il discorso nell’anno della fede, riscoprendo in modo particolare l’identità di questa intima comunità di vita e di amore (cfr. FC...) voluta dal Creatore e risi-gnificata da Cristo Redentore. La metafora che ci ha accompagna-to come filo rosso è stata quella di parlare delle relazioni familiari come delle stanze di una casa, appunto come luoghi originali e quotidiani di vita cristiana. Ora, invitati anche dal nostro vescovo Luciano con la Lettera pastorale 2013-2014, dal titolo evangelico “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”, verremo ad approfondire l’aspetto conseguente all’identità, cioè la missione.

Al termine della Lettera pastorale sentiamo dire: “Forse l’ico-na più significativa della missione è il racconto di Lc 1,39-45. Il viaggio di Maria e il suo incontro con Elisabetta non è un even-to privato che riguardi loro sole; al contrario, quando il saluto di Maria giunge agli orecchi di Elisabetta incinta, il bambino sussulta di gioia nel suo grembo...Attraverso Giovanni è il popolo di Israele che riconosce e accoglie il Messia...Ogni atto di evangelizzazione mantiene la struttura di questo evento” (L.P. 2013-2014, pag. 58). Mi è parso molto significativo che per dire la missione intera della Chiesa il nostro vescovo ricorra all’incontro di Maria ed Elisabet-ta, dei loro figli in grembo e dei due casati, con Giuseppe e Zac-caria presenti sullo sfondo. Una carità casalinga, una sollecitudine di compartecipazione tra parenti, una finezza d’animo tra donne semplici e benedette diventa l’icona più splendente per mostrare ancora oggi a noi che cosa significa essere missionari. Incarnato

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Il Matrimonio Sacramento:missione speciale dell’Amore di Cristo

una casa per la missione

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Viene proposto questo brano dell’Introduzione, al n.5, che non ha perso d’attualità: “Alla disgregazione delle famiglie sembrano pur-troppo puntare ai nostri giorni vari programmi sostenuti da mezzi molto potenti. A volte sembra proprio che si cerchi in ogni modo di presentare come «regolari » ed attraenti, conferendo loro esterne apparenze di fascino, situazioni che di fatto sono « irregolari ». Esse infatti contraddicono « la verità e l’amore » che devono ispirare e guidare il reciproco rapporto tra uomini e donne e, pertanto, sono causa di tensioni e divisioni nelle famiglie, con gravi conseguenze specialmente sui figli. Viene ottenebrata la coscienza morale, viene deformato ciò che è vero, buono e bello, e la libertà viene sop-piantata da una vera e propria schiavitù. Di fronte a tutto questo, quanto attuali e stimolanti risuonano le parole dell’apostolo Paolo sulla libertà con cui Cristo ci ha liberati, e sulla schiavitù causata dal peccato ( Gal 5, 1)!Ci si rende conto pertanto di quanto sia opportuno e persino neces-sario nella Chiesa un Anno della Famiglia; di quanto sia indispen-sabile la testimonianza di tutte le famiglie che vivono ogni giorno la loro vocazione; di quanto sia urgente una grande preghiera delle famiglie, che cresca e attraversi il mondo intero, e nella quale si esprima il rendimento di grazie per l’amore nella verità, per l’« ef-fusione della grazia dello Spirito Santo », per la presenza di Cristo tra i genitori e i figli: Cristo Redentore e Sposo, che « ci ha amati fi no alla fine » ( Gv 13, 1). Siamo intimamente persuasi che questo amore è più grande di tutto (1 Cor 13, 13) e crediamo che esso è capace di superare vittoriosamente tutto ciò che non è amore.Si elevi incessante quest’anno la preghiera della Chiesa, la preghiera delle famiglie, « chiese domestiche »! E si faccia sentire prima da Dio e poi anche dagli uomini, e questi non cadano nel dubbio, e quanti vacillano a causa della fragilità umana non cedano al fascino tentatore dei beni solo apparenti, come sono quelli proposti in ogni tentazione”.

Diamo spazio alla Lettera alle famiglie of-ferta nel 1994 dal beato Giovanni Paolo II. L’anno prossimo cade il suo ventesimo an-niversario. Lui scelse come anno il 1994 proprio perché l’ONU lo aveva dichiarato l’Anno Internazionale della famiglia. E’ una Lettera poco conosciuta dai destinatari ed è un vero peccato. È composta da due grandi capitoli: La civil-tà dell’amore e Lo sposo è con voi. Il primo offre agli sposi le chiavi di lettura per gioi-re della loro vocazione che si iscrive dentro la loro genealogia, come persone, come maschi e femmine. Anche la paternità e la maternità e il quarto comandamento ne sono illuminati. La parte dedicata al senso dell’educazione è stata ripresa anche negli Orientamenti CEI per il decennio 2010-2020 proprio per la sua profondità. Il secondo capitolo invece è dedicato al “grande mistero” dell’amore sponsale di Cristo per la sua Chiesa che la famiglia rende mani-festo e del quale partecipa, comunicandolo dentro le relazioni familiari ma anche fuori.Nello spazio “Dalla Lettera alle famiglie”, offriremo una breve citazione del-la stessa. Vi verrà voglia di leggerla o rileggerla perché ogni volta induce a nuove ri flessioni!

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Dalla Lettera alle famiglienella vita, nel grembo delle nostre relazioni più grandi, Gesù Cristo viene portato a chi sta chiuso nel proprio guscio, incapace di muoversi e immobilizzato da condi-zioni sociali, culturali e religiose. Il rischio è grande, ma la passione che si porta dentro e il dono da offrire sono così incommensurabili che fanno affrontare ogni cosa, liberi di volare sulle ali della speranza certa sussurata da-gli Angeli ai due sposi di Nazareth: “Non temere... “ (Mt 1,20). Però, sarebbe fin troppo facile fermarsi a gioire e adagiarsi nello stupore del mistico incontro; di più, inve-ce, bisogna accogliere questo Vangelo per noi oggi, qui e ora! Allora, diventa evidente che dall’immagine biblica è possibile far riemergere con maggiore forza la ricchez-za, la grandezza del segno efficace di salvezza, donato nel sacramento del matrimonio e fondamento della fa-miglia cristiana. Da qui viene la missione speciale e spe-cifica degli sposi, da qui dovrebbe prendere ispirazione anche l’intera missione della Chiesa universale. Quindi, se secondo il vescovo Luciano, tra le pareti di una casa viene spesa l’immagine viva ed efficace (cioè sacramen-to) della missione, che cosa dovrebbe dire oggi per le famiglie della nostra diocesi? Servono case missionarie, con porte aperte e vialetti capaci di ospitare semplici, quotidiani pellegrinaggi di carità, come sull’esempio di Maria. Il dono della vita e della fede vanno insieme: case aride di apertura alla vita, rischiano di essere povere an-che di fede!

Per approfondire l’argomento, ci vengono in aiu-to due documenti forse un po’ dimenticati anche dagli “addetti ai lavori”, ma sicuramente sconosciuti ai diretti interessati, gli sposi cristiani. Al n. 4 della spiegazione del Nuovo Rito del matrimonio (2004) si legge: “Gesù Cri-sto da parte sua ha elevato il matrimonio a sacramento, ne ha fatto il simbolo reale che contiene e manifesta la sua unione con la Chiesa, la nuova alleanza...un riflesso del suo sacrificio pasquale e della comunione trinitaria”. Le parole sono misurate e pesanti allo stesso tempo, senza lasciare spazio a svianti interpretazioni. Gli sposi consacrati nel sacramento contengono come “partico-la” di comunione tutta l’unione salvifica di Cristo con la sua Chiesa: possono manifestarla come “ostensorio esistenziale”, possono nutrirla come “pane eucaristico”. Guardando alla loro comunione, si dovrebbe poter ve-dere come riflesso vivente il dono d’amore di Gesù sulla croce, misericordia vittoriosa contro il male, e l’essenza stessa di Dio Trinità. E tutto questo, in maniera partico-lare, specifica e originale, tanto da leggere in Evangeliz-zazione e Sacramento del matrimonio (1975) :”Nell’in-contro sacramentale il Signore affida ai coniugi anche una missione per la Chiesa e per il mondo, arricchendoli di doni e di ministeri particolari” (n. 44). L’augurio in questo nuovo anno pastorale a tutti gli sposi e alle loro famiglie è proprio quello di riscoprire i grandi doni dati dal Signore e generosamente portarli agli altri.

don Giorgio Cominisegretariato diocesano pastorale familiare

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Ospitiamo racconti di sposi che vivo-no la missione della famiglia nell’ordi-nario della vita. Saranno uno stimolo a riscoprire anche per noi la bellezza e la necessità dell’essere in missione vivendo la vocazione del matrimo-nio – sacramento. Saranno come dei frammenti di speranza. Saremo aiu-tati ad interrogarci sull’oggi , saremo confortati nelle scelte che già faccia-mo. Sarà l’occasione per conoscere le infinite possibilità che abbiamo di trasformare la storia a partire dalle nostre, di gettare un seme i cui frutti altri possano raccogliere, di rendere visibile l’amore di Dio per l’uomo.

Siamo Elena e Antonio, sposi da 24 anni. Siamo cresciuti in fami-glie e comunità parrocchiali ordinarie. Fin dal tempo del fidanzamen-to ci siamo accorti che stavamo vivendo una realtà grande e delicata, un dono prezioso ed unico che andava protetto ed aiutato a crescere. Consapevoli dei nostri limiti ci siamo affidati a Cristo e alla Sua Chie-sa, convinti che la Sua persona doveva entrare a far parte della nostra relazione e, a Lui, abbiamo affidato le nostre preoccupazioni e i nostri progetti. Avevamo tanti sogni e aspirazioni da realizzare nella nostra vita di coppia.

Pensavamo ad esempio di avere una famiglia numerosa nostra; dopo i primi anni ci siamo resi conto che non sarebbe stato così. La famiglia che noi immaginavamo era diversa da quella reale. Nel per-corso, per capire la nostra missione di sposi è stato utile partecipare ad incontri di formazione e di preghiera per coppie ogni volta che ci

era data la possibilità, come il “Corso base per coppie di sposi” ospita-to a Pisogne, organizza-to dall’Ufficio Famiglia della Diocesi e concluso in aprile.

Non è più sufficiente essere nati e cresciuti in un contesto cristiano per riuscire oggi a diventare discepoli di Cri-sto, a pensare come penserebbe Lui, ad agire come farebbe Lui. Per noi è stato necessario scegliere da che parte stare. Questo non una volta per tutte, ma confermandolo ogni giorno concretamente.

Pensiamo di realizzare la nostra missione di coppia: “essere ad immagine e somiglianza di Dio”, “essere segno dell’amore di Cristo per la sua Chiesa” nelle espressioni quotidiane della vita coniugale: attraverso la cura della nostra relazione, il volersi bene, la tenerez-za, l’accettazione delle fragilità dell’altro, il sostegno reciproco, la preghiera insieme in casa e nella comunità e attraverso l’attenzione, l’ascolto e la cura dei famigliari e delle persone che ci sono affidate, consapevoli che è Cristo il vero protagonista, è Lui che ci dona quel supplemento di amore che ci rende capaci di amarci “da Dio”.

Elena e Antonio

diocesi dibresciaUfficio per la Famiglia

09novembre

ConvegnoSposarsi oggiPresentazione degliOrientamenti pastorali sulla preparazioneal matrimonioe alla famigliadella Commissione Episcopale perla famiglia e la vita

ore 9,00Accoglienza e preghieraore 9,30intervengono:don Giorgio Comini DirEttorE UffiCio PEr la famiGlia DioCEsano

“I Percorsi verso il matrimonio”don Paolo Gentili DirEttorE UffiCio nazionalE PEr la PastoralE DElla famiGlia

“La Chiesa italiana accompagna nella vita matrimoniale”dott. Bruno Vedovati soCioloGo, riCErCatorE

“Le strutture del familiare a Brescia oggi”prof. Domenico simeoneDoCEntE Di PEDaGoGia – UniVErsità CattoliCa DEl saCro CUorE

“Educare e curare le relazioni verso il matrimonio”Vescovo luciano monari“Saluto conclusivo”dalle ore 15,00 alle ore 18,00:Laboratori:“Amori da accompagnare”, dai preadolescenti ai giovani sposi

C e n t r o p A s t o r A L e p A o L o v I v I A g e z I o C A L I n I 3 0 b r e s C I A

7DOCUMENTI ECCLESIALI

Conferenza Episcopale ItalianaCOMMISSIONE EPISCOPALE PER LA FAMIGLIA E LA VITA

ORIENTAMENTI PASTORALISULLA PREPARAZIONE

AL MATRIMONIO E ALLA FAMIGLIA

Un testo che defi nisce linee rinnovateper i percorsi verso il matrimonio, chiarisce punti delicatie riconferma il valore del fi danzamentocome tempo necessario e privilegiatoper conoscersi tra innamorati.

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Il Gruppo Galilea è un cammino di fede per persone che vivono situazioni matrimoniali difficili o irregolari (es. divor-

ziati-risposati). Gli incontri sono mensili,al centro la Parola di Dio, con ampi

spazi di ascolto, riflessione e condivisione.Ogni primo sabato del mese.

Gli incontri si tengono da calendario an-nuale, presso il Centro Pastorale “Paolo VI”, (situato in via Gezio Calini, 30 - Bre-

scia) un sabato al mese, dalle ore 17.00 alle ore 19.00.

Guida e accompagnatore del Gruppo è don Giorgio Comini, direttore dell’Ufficio

Diocesano di Pastorale Familiare.

“Retrouvaille” propone weekend per coniugi che vivono un momen-to di difficoltà, di grave crisi, che

pensano alla separazione o sono già separati ma desiderano ritrovare se stessi e una relazione di coppia

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In questo notiziario e nel prossimo, proviamo a rispondere a due domande: che cosa è cambiato e che cosa è invece rimasto invariato nelle do-

mande dei bambini? I bambini, lo sappiamo, sono per natura curiosi e hanno bisogno di noi adulti per orientarsi, per capire il mondo che si sono trovati ad abi-tare, un mondo sempre più complesso, e anche per chiarire a se stessi il marasma di sentimenti e di emozioni che provano. Ebbene, per alcuni aspetti potremmo dire che "non c'è niente di nuovo sotto il sole", le domande dei bambini sono sempre le stesse e, soprattutto, è sempre lo stesso il profondo bisogno che le anima. Ma per altri aspetti, le domande dei bambini di oggi possono anche essere molto diverse da quelle che noi stessi, solo qualche decennio fa, ponevamo ai nostri genitori, e questo perché il mondo di oggi è profondamente mutato rispetto al mondo di qualche decennio fa.

Prima esigenza: essere accoltiConcentriamoci per ora sulla prima di queste domande: che cosa è rimasto invariato nelle domande dei bambi-ni? Potremmo rispondere con due affermazioni: non è cambiato il bisogno profondo per cui i bambini - specie nella fascia di età che va dai 3/4 agli 11/12 anni - pongono insistentemente domande agli adulti. Ciò che essi chiedono, anzitutto, è di essere rispecchiati, riconosciuti, accolti nei loro bisogni, incertezze e insicurezze. E qual è il loro primo e fondamentale bisogno? Quello di essere amati. Noi adulti dobbiamo essere anzitutto con-sapevoli di questo ‘sfondo’ che avvolge come un’atmosfera sottile tutte le domande dei bambini. Essi, più che una risposta scientificamente corretta, si aspettano semplicemente di essere ascoltati, presi in considerazipne, visti. Già il volgere il nostro sguardo verso di loro, magari accompagnandolo con un sorriso, è il modo fonda-mentale di rispondere alle loro esigenze. Da questo punto di vista, importa meno cosa rispondiamo, se sappia-mo o meno rispondere adeguatamente alle loro domande, quanto piuttosto la nostra disponibilità ad ascoltarli e ad accoglierli nelle loro paure, anzitutto nella paura che è la matrice di tutte le paure: la paura di essere ab-bandonati, di non valere nulla e di non essere amati. Questo dovrebbe anzitutto tranquillizzarci e rasserenarci: non dobbiamo temere di essere inadeguati o incompetenti nel ripondere in modo ineccepibile alle domande dei bambini, perché, comunque, tutti siamo perfettamente adeguati e competenti ad amare!

Domande esigentiIn secondo luogo, le domande dei bambini, e questo vale oggi come valeva ieri, sono nella loro essenza domande filosofiche. Essi non chiedono tanto il ‘come’ quanto il ‘perché, vogliono sapere il significato profondo delle cose e, in ultima analisi, della vita. Qual è il senso ultimo delle cose? Perché esistiamo? Perché moriamo? Con la loro freschezza e innocenza ci riportano alle domande veramente essenziali, quelle che non ci dicono “come è fatto il cielo, ma come si va in cielo”. Quelle domande che noi adulti, generalmente, rimuoviamo, impegnati come siamo nella gestione senza sosta di tutte le incombenze del vivere quotidiano. Domande che, inevitabilmente e fatal-mente però, prima o poi, generalmente nella seconda metà della vita, tornano a far sentire con urgenza la loro voce. Sono domande squisitamente filosofiche o, se vogliamo, religiose, se teniamo presente che dal punto di vista delle domande non c’è alcuna differenza tra questioni filosofiche e questioni religiose; la differenza infatti sta nella risposta che a queste domande diamo. Le domande dei bambini sono dunque domande esigenti, che in-terpellano anche noi adulti e questo, al di là delle effettive competenze scientifiche che possiamo o meno avere.

I bambini:

la voce dei “perché”

le domande dei bambini

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Perchè ci sono tante religioni?

Matteo abita in uno dei quartieri multietnici della sua città. Nella sua classe ci sono bambini cattolici, musulmani, indiani e anche qualche cinese che segue la religione buddista. Per Mattia, naturalmente, sono tutti amici, magari qualcuno più simpatico di un altro. Quando, però, si accorge che durante l'ora

di religione, alcuni escono dalla classe, si chiede perché ci sono tante religioni e qual è la migliore.

Una leggenda per comprendereLa maestra decide di raccontare una storia: "C'era una volta un paese i cui abitanti erano tutti ciechi. Un giorno

venne condotto in città un elefante. Tutti gli abitanti si radunarono, pieni di curiosità, intorno all'animale. Tutti volevano sapere come fosse fatto. Tutti volevano conoscerlo.Finalmente, un gruppetto di coraggiosi si avvicinò all'elefante e cominciò a toccarlo. E gli altri, intorno, che erano rimasti più lontani, chiedevano: «Diteci com'è! Raccontateci ciò che sentite!»Un uomo si rivolse alla folla e disse: «L'elefante è una cosa grande, ruvida, larga come un gigantesco tappeto». Aveva toccato le orecchie.Un altro replicò: «Non ascoltate queste sciocchezze! L'elefante è un tubo forte e flessibile». Aveva toccato la probo-scide. Un altro, che aveva toccato le zampe, affermò: «L'elefante è diritto e possente come una colonna».Così ognuno raccontava ciò che aveva toccato. Ma poiché nessuno aveva visto l'elefante né aveva toccato tutto il suo corpo, nessuno potè dire come fosse veramente... “ (Leggenda induista)

Alcuni passi per educare alla fede e alla paceQuesta piccola leggenda può servire come punto di partenza per parlare con i barmbini delle diverse religioni.

Con il suo linguaggio per immagini comunica un aspetto fondamentale: Dio è più grande di ciò che possiamo cono-scere e dire di lui. Tutti gli uomini, quando cercano di capire chi è Dio, sono come i ciechi della storia che riescono a toccare solo una piccola parte dell’elefante e se pensano di conoscerlo completamente cadono in un grave errore. Ciascuno, però, ne può conoscere una piccola parte e la sua esperienza, unita a quella degli altri, può dare un’idea più precisa di questo essere misterioso. La stessa cosa avviene per ciò che non vediamo, ma è veramente importan-te per la nostra vita, come l’amore, la bellezza, la bontà. Ciascuno di noi può portare la sua esperienza che, messa vicino a quella degli altri, forma come un grande quadro che mostra in modo più chiaro che cosa significa amare veramente una persona, essere felici, essere buoni. Anche con Dio accade la stessa cosa. Le religioni sono come tan-te “mani” che toccano Dio per poterlo conoscere: qualcuna ne vede un aspetto, qualcuna un altro. Tutte le religioni che vogliono incontrare Dio e unire le persone tra di loro aiutano a crescere e a diventare uomini migliori. Solo però se dialogano tra di loro con rispetto e amore.

Chi sono i cristiani?Tra tutte queste persone che credono in Dio ci siamo anche noi cristiani. Anche noi vogliamo conoscere Dio e

amarlo e per fare questo seguiamo Gesù. Noi crediamo infatti che quest’uomo vissuto in Palestina più di duemila anni fa è il Figlio di Dio che con le sue parole e le sue azioni ci ha mostrato chi è Dio per noi: un Padre buono che ha creato gli uomini perché vivano come fratelli e si curino del mondo che è la casa di tutti. Con la sua Resurrezione Gesù ci fa capire che anche la morte non è l’ultima tappa della nostra vita, ma che siamo nati per vivere per sempre vicino a Dio. Quando i cristiani fanno risuonare queste parole di gioia e di speranza nei luoghi dove vivono, quando cercano di fare il bene, di agire con giustizia e di costruire la pace, ricordando di essere figli dello stesso Padre, al-lora portano il loro contributo perché tutti gli uomini incontrino l’amore dell’unico Dio e il mondo diventi la casa di tutti in cui è bello vivere.

C’èununicoDio,matantesonolereligioni. Comemai?Questocichiedonoibambini.

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Pace e comunionefonte e culmine

Ritualità e famiglia

Il segno della pace non è precisamente un rito di saluto, ma un gesto di comunione per rendere visibile la riconciliazione dei fra-telli che Gesù pone come condizione per ottenere il suo perdono. Implorata fin dall’inizio della celebrazione, la riconciliazione divina, che diventa perdono condiviso, è la più chiara indicazione dell’uma-nità nuova che nasce dalla comunione eucaristica. L’Eucaristia è, infatti, la possibilità estrema (culmine) della comunione con Cristo: si partecipa al suo sacrificio! Il Signore si dona nel modo più pieno: ci si nutre di Lui! Non ci si potrebbe spingere oltre la possibilità del dono.

Inserito nei riti di comunione, il segno della pace è l’esperienza più concreta e universale dell’accoglienza reciproca e della pace. Dove aspettarci altrove di essere pienamente accettati e considerati? Non esiste altro luogo, né assemblea, né incontro personale in cui sia dato di sperimentare un’accoglienza indiscriminata e scambiarci un dono incondizionato come quello che scaturisce dall’altare del sacrificio. Tensioni, antipatie, avversioni le viviamo ovunque attorno a noi e dentro di noi. Anche nei gruppi parrocchiali, alla riunione dei catechisti, al consiglio pastorale sono esperienze frequenti il con-flitto, l’intolleranza, persino l’ostilità. Solo nella fede, che ci pone davanti all’invisibile presenza del Dio nascosto e donato nell’ostia, si sta in pace. Alla Messa domenicale ci si scambia la pace perché il Signore ci indica che l’utopia cristiana è lì, attuata, nell’Eucaristia. Fuori di quella parentesi è ancora sempre incompiuta.

L’Eucaristia, dunque, non è solo il culmine, ma anche la fonte della vita cristiana. Non è facile accogliere que-sto paradosso, comporre in unità due movimenti opposti. Non lo è stato neppure nella storia della liturgia. Sciogliere que-sta tensione condurrebbe però la pratica della fede a evidenti contraddizioni: l’Eucaristia dei «puri» o la «svendita» dei sacra-menti.

La Messa è «cul-mine» di tutta la vita cristiana

Si può accedere con frutto all’Eucaristia solo attraverso un cammino di fede, alimentato dalla Parola di Dio e sostenu-to dalla frequentazione

comunitaria. Senza «sapere e pensare chi si va a ricevere» diventa difficile apprezzare il rito, sentirsi coinvolti senza fraintendimenti. Nei primi tempi della Chiesa l’Eucaristia era l’espressione del cri-stianesimo più protetta dalla disciplina dell’arcano. Si richiedeva un percorso esigente d’iniziazione per non dare «ciò che è santo ai cani e non gettare le perle davanti ai porci» (Mt 7,6).

La Messa è «fonte»L’Eucaristia domenicale oggi è lo spazio più aperto e accogliente

che offra la comunità cristiana. Lo indica lo scambio della pace: la comunione è offerta a tutti, senza soglie d’ingresso, senza richie-dere nulla, senza alcun controllo. Ciò che i cristiani hanno di più prezioso, di più intimo e anche di più difficile da capire nell’essenza e nel valore è esposto all’estraneo. È sicuramente un problema che il lato più accessibile del cristianesimo non sia la Parola di Dio e la fraternità comunitaria, ma il rito eucaristico: non si «dovrebbe» co-minciare di lì. Tuttavia questo paradosso, perturbante e inquietante, ha qualcosa di essenziale da indicare: senza la gratuità del dono, rice-vuto e scambiato, senza la grazia, non sono possibili né l’accoglienza della Parola né la fraternità comunitaria. La comunità non è il luogo dei «pochi ma buoni» ma dei «tanti e peccatori». L’immagine del cristianesimo più coerente con la condizione di oggi non è forse quella dell’accoglienza e della misericordia?

Il cammino ascendente (Eucaristia come fonte) non ha altro sco-po che aprire alla grazia che viene dall’alto, e come tale è sempre dono e mai conquista. Il dono di Dio, tuttavia, è riconosciuto come

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tale (fonte) solo nella misura in cui è ricevuto (culmine).La liturgia è il luogo in cui i due movimenti s’incontrano e s’in-

trecciano. La conversione della vita è necessaria per riconoscere il corpo del Signore. Perché non avvenga di mangiare e bere la propria condanna (1 Cor 11,29), occorrono la coerenza di vita e la riconciliazione con i fratelli (Mt 5,23). Lo scambio della pace è un povero gesto umano che fa segno al mistero della grazia. L’assemblea intera è trasfigurata dal rito liturgico: dall’altare scaturisco-no una comunione e una fraternità che «non sono di questo mondo». Prefigurano, infatti, «ciò che sarà», l’orizzonte escatologico. E poiché già realizza ciò che simbolizza (cul-mine), l’Eucaristia da forza al tenta-tivo di portare quel dono nella vita (fonte).

La celebrazione eucaristica è tutta contenuta e articolata in uno scambio ineguale di ritualità umana e di dono divino, un doppio movimento di salita e di discesa. La sua natura paradossale impone il silenzio e invita all’adorazione.

Il grande silenzio dopo la comunione è un tempo di emozio-nante intensità. L’assenza di ogni voce e di ogni suono esprime, in quel momento, la massima comunicazione con Dio e tra i fratelli. In quel silenzio l’assemblea vive come un solo corpo, Corpo di Cristo. Poste davanti a Lui, infatti, tutte le diversità sono ricondotte a unità. Le differenze uomo-donna, bambino-adulto, povero-ricco, servo-padrone non hanno alcun valore.

C’è un tempo forte della vita familiare che sembra come pre-figurare l’intensità della comunione con il Signore, nel segno sa-

cramentale del pane e del vino. La conclusione del pasto familiare comporta una ritualità particolare. Si finisce di mangiare, ma non si va subito via. Rimane ancora la cosa più importante da fare: per un momento almeno, «non fare nulla», sospendere ogni azione.

Godere senza altra distrazione la pre-senza di coloro che si amano e che nel pasto condiviso si sono conosciu-ti un po’ di più, apprezzando la loro persona e sopportando i loro limiti, pregi e difetti che a tavola diventano più evidenti.

Il grado di comunità che il pasto realizza è tanto più esplicito quan-to più condivisi sono i simboli che il cibo incorpora e produce. Solo i simboli, infatti, possono trasformare un atto fisiologico in un momento di comunione, possono riempire di senso condiviso il «non senso» del mangiare insieme, quando il cibo fos-se solo necessità o piacere individua-

le. Scopo del simbolo è «mettere insieme»: le persone si uniscono attraverso il cibo preparato, consumato, interpretato. Le ritualità familiari sono prodigiose. Trasformano la materia in simbolo, il cibo in intermediario dell’amore: un vero cambiamento della sostanza alimentare!

Infinitamente più radicale (ma simile nel processo) è il miracolo eucaristico del pane che diventa Cristo. Potenza del rito sacramen-tale! Quale altro modo, più semplice e affascinante delle metafore del pasto rituale familiare, per spiegare ai bambini (e agli adulti) concetti «impossibili» come transustanziazione o presenza reale nel tabernacolo?

Andate in paceLa celebrazione eucaristica è tutta contenuta e articolata in uno

scambio ineguale di ritualità umana e di dono divino, in un doppio movimento ascendente e discendente.

Il modello estetico mondano cerca l’emozione dell’attimo. La metodologia eucaristica della «sorpresa» («essere presi dall’alto») propone un’altra strada. I sensi del corpo e le emozioni della psiche, attraverso un cammino ascendente diventano sensi spirituali, in vir-tù della loro disponibilità ad accogliere la grazia.

La sorpresa parte dal corpo e dai sensi trasformati, che vedo-no, sentono, gustano diversamente. Il culto spirituale offre il corpo «come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (Rm 12,1).

La celebrazione eucaristica apre il «cuore» (la sintesi di corpo e anima) per comprendere, pieno di stupore, di essere «stato com-prato a caro prezzo». Ne scaturisce il compito di «glorificare Dio nel proprio corpo» (1 Cor 6,20). Questo corpo è per il Signore, come il Signore è per il corpo (1 Cor 6,13). La sorpresa si accresce e diventa adorazione, perché nella liturgia i corpi dei battezzati di-

ventano «corpo di Cristo e sue membra» (1 Cor 12,27). La comunione con Gesù è totale!

Questo doppio movimento, ascendente e discendente, è detto esplicitamente nel rito finale della benedizione: Dio è il benedetto e il benedicente. I credenti benedicono Dio, proclamando le sue lodi e rendendogli l’omaggio della loro devozione. Dio benedice comunicando la sua bontà e misericordia. Il riconoscimento umano è essenziale: dove il Padre non è benedetto (e il suo nome santifica-to), non può rendersi presente.

Alla trasformazione per opera della Grazia, che agisce attraver-so i sensi spirituali, corrisponde anche il lavoro della mente, soste-nuta dal sacramento, «per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buo-no, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,2). Il cammino della fede (come anche l’educazione cristiana in ogni età e condizione) è quello che conduce ad avere in se stessi i medesimi sentimenti che furono in Cristo Gesù (Fil 2,5).

Le ultime parole del rito contengono, così, un invio e una mis-

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sione: «Andate, la Messa è finita». Il tempo successivo alla cele-brazione si snoda a immagine del ritorno a Gerusalemme dei discepoli di Emmaus: «E partirono senz’indugio e fecero ritorno a Gerusalemme» (Lc 24,33). È lì che «Gesù in persona apparve in mez-zo a loro» (Lc 24,36), come prima era stato riconosciuto «nello spezzare il pane». La presenza cristiana nel mondo è il luogo della manifestazione del Signore, incontrato nella presenza eu-caristica. Nella vita quotidiana la trascendenza si unisce all’im-manenza, la Grazia si fa corpo, senza separazione e senza confu-sione.

L’assemblea liturgica diventa di conseguenza il luogo sorgivo della speranza.

In ogni celebrazione eucaristica si ascolta una Parola che toc-ca il cuore (Lc 24,32) la quale non permette ancora ai fedeli di riconoscere il Verbo in persona, finché il Cristo non dona la Sua presenza (la comunione eucaristica: «Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero», Lc 24,31). Poi il Signore, «sparisce» e si fa trovare nella comunità inviata a rendere testimonianza al mondo. Si rivela «nel tempio» ma s’incontra «fuori dal tempio».

Benedizione e missione, movimento ascendente e discen-dente, dono, riconoscimento e restituzione, tutto si compone in un’indissolubile unità.

Questo intreccio di grazia e di reciprocità si vive originaria-mente nei legami familiari.

In famiglia l’amore trasfigura i sensi e li rende spirituali. Gli occhi hanno bisogno di vedere l’altro («quanto mi sei manca-to!») eppure quello che si vede non sono i lineamenti fisici. Quando ci si ama, si è sempre belli. L’udito ascolta: ma in famiglia «ascoltare» vuol dire obbedire. Una mano stretta, quando si sta male, è più po-tente di un analgesico; uno sguardo fa ritornare le forze, un bacio fa battere il cuore. L’amore rende ogni persona unica, inconfondibile, come il suo profumo. E che dire del gusto? «...Uhm, che buono!» non è forse un esclamativo affettivo? Il piacere di uno di-venta la sensazione di tutti. Ciascuno partecipa al gusto dell’altro: il sapore si fissa nel-la memoria e diventa il gusto di casa propria.

In famiglia (come avviene da parte di Cristo sull’altare) c’è sempre qualcuno che ama per primo: i genitori quando generano la vita e la fanno cre-scere, gli sposi quando si per-donano, il figlio quando inter-rompe il capriccio e diventa

riconoscente, mamma e papa quando educano i figli.La gratuità del primo passo diventa poi reciprocità. In que-

sto modo nella famiglia si forma il senso fondamentale dell’esi-stenza per ciascun essere umano, L’imprinting delle nuove gene-razioni avviene nella famiglia. Dalla famiglia proviene quindi il capitale umano, spirituale e sociale primario della società, per analogia (e non solo per metafora) a come l’Eucaristia genera e costruisce la Chiesa.

Gratuità, reciprocità e generatività costituiscono un mondo vitale che rende possibile l’esperienza di «vivere per l’altro» e di «far vivere l’altro». La sociologia identifica in questo specifi-co amore un codice simbolico essenziale per l’intera società. La medesima esperienza raggiunge la sua misteriosa pienezza anche nell’Eucaristia, il dono più prezioso che la Chiesa riceve e che, a sua volta, può offrire all’umanità. Capita spesso di sentire rico-nosciuti alla comunità cattolica i «meriti» della sua presenza in Italia: il volontariato, l’impegno nel sociale, la capacità aggrega-tiva. Queste sono dimensioni «marginali» della sua missione. Il vero servizio della Chiesa al paese consiste nella «sana» ritualità con la quale contribuisce a fondare la possibilità della solidarietà sociale (diventare in Cristo un corpo solo, come indica la pre-ghiera eucaristica) da cui derivano, poi, il volontariato, l’impe-gno nel sociale...

Come dunque la famiglia è un’istituzione sociale originale e originaria, anche la celebrazione liturgica è un atto sociale fon-damentale, poiché le Verità di Dio, proclamate e santificate, con-tribuiscono a fondare, attraverso la fede, la legittimità e la vita

sociale. Acuti osservatori degli scenari mondiali dell’economia e della politica hanno così potu-to affermare che «i movimenti so-ciali a carattere religioso sfidano in nome della religione la legittimità e l’autonomia delle due primarie sfe-re secolari, in particolare gli Stati e i Mercati». Tiranni, dominatori, faccendieri tremano davanti al potere dei riti della fede, cerca-no in ogni modo di metterli in ridicolo oppure di accusarli di ideologia, di fanatismo, di dog-matismo.

L’«Andate in pace» che con-clude l’Eucaristia, avvia un pro-cesso di rigenerazione anche della sfera politica della società. Lo dimostra abbondantemente la resistenza delle prime comu-nità cristiane contro la «Bestia» e «Babilonia» testimoniata nel libro dell’Apocalisse e cambia-menti sociali e culturali operati nella storia cristiana antica e contemporanea.

L’andate in pace del rito domenicale avvia un processo di rigenerazione anche della sfera politica e della società.

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La Bibbia mostra come l'essere leader e protagonisti della storia prescinda dal fattore anagrafico. Un esempio em-blematico di ciò lo troviamo nell'episodio che narra del

duello tra Davide e Golia: la loro lotta, benché individuale, esprime le sorti della guerra in atto tra due acerrimi nemici, gli Israeliti e i Filistei, popoli eternamente in lotta tra loro.

Lo scenario è quello della regione collinare della Giudea oc-cidentale, sul confine tra la Filistea e Israele, a circa 25 km da Bet-lemme: da un lato i Filistei, radunati ad Efes-Dammim, dall'altro gli Israeliti, accampati nella valle del Terebinto (1 Sam 17,1-2). Già da questi versetti introduttivi possiamo notare un sottile gioco di pa-role per metatesi che preannuncia il dramma: il verbo «radunare/riunire» è riferito ai Filistei che si sono radunati ('asaf, in ebraico) mentre il loro accampamento è situato ad 'efes dammim, termi-ne, questo, composto dal verbo sostantivato 'efes («annullarsi», «esaurirsi», «cessare», «ciononostante», «senza») a cui va ag-giunto il sostantivo plurale dammim, cioè «sangui»; i Filistei si sono «radunati» in un luogo che adombra una cosa finita nel san-gue, nella violenza o, stando al secondo significato, in un luogo reso nudo, inesistente, cancellato. Ma andiamo con ordine.

Dalle truppe dei Filistei emerge un singolo, un 'ish habbenayim, cioè un uomo «duellante», posto in mezzo ai due eserciti per sfi-dare gli avversari. Egli - leggiamo al v 4 - è «alto sei cubiti e un palmo» - circa tre metri. Segue poi la descrizione dettagliata del suo aspetto marziale, dal l'elmo di bronzo e la corazza del tipo a scaglie, che pe-sava oltre mezzo quintale, agli schinieri di bronzo: armatura e per-sonaggio coincidono. Lo scudo, abbastanza grande da proteggere anche un uomo di simile stazza, è portato da uno scudiere partico-lare. Il Filisteo è così protetto ed armato da apparire invincibile agli occhi dell'avversario, sì da scoraggiarne ogni pretesa di sopravvento. Egli non prende per nulla in considerazione l'eventualità che possa esservi un solo Israelita che osi affrontarlo (v 8).

Armato in questa maniera da far paura, il Filisteo sfida gli Israeli-

ti a duello: la posta in gioco è alta, bisogna decidere chi dovrà essere servo dell'altro (v 9).

L’atteggiamento sbeffeggiante di Golia, non solo nei confronti di Saul in quanto simbolo della monarchia d’Israele, assume espres-sioni ancora più boriose - come vedremo nei versetti successivi - dal momento in cui Davide entra in scena. A differenza di quella degli altri suoi tre fratelli maggiori, partiti dietro Saul (v 12), quella di Da-vide, poiché «ancora giovane pastore» (v 14), è una missione del tutto differente: Iesse lo manda in campo di battaglia dai suoi fratelli con delle provviste e per avere notizie sull’andamento della guerra (vv 17-19). Qui Davide incontra i suoi fratelli e, contemporanea-mente, il Filisteo che sfida Israele. I fratelli considerano Davide un intruso, un curioso inesperto ed irresponsabile, incapace di stare al proprio posto (v 28). Non mancano poi gli elementi leggendari che si aggiungono alla vicenda, allorquando il re offre una ricompensa al vincitore, la propria figlia in moglie, nonché l’esonero dalle tasse (vv 25-30) e il giovane Davide viene portato da Saul - secondo la versione del capitolo 17 solo ora s’incontrano - che gli promette di combattere contro il Filisteo. La risposta del re, «tu sei troppo giovane», prima di accondiscendere, schiude un narrare insistente sull’assoluta sproporzione tra i duellanti: Saul vuole rivestire Davi-de della propria armatura, ma il giovane non è in grado di portarla, per cui se la toglie (v 39), comparendo così dinanzi al Filisteo: con il suo bastone da pastore, cinque ciottoli ed una fionda in mano (v 40).

«Il Filisteo avanzava passo passo, avvicinandosi a Davide, men-tre il suo scudiere lo precedeva. Il Filisteo scrutava Davide, e quando lo vide bene, ne ebbe disprezzo, perché era un ragazzo, fulvo di capelli e di bell’aspetto. Il Filisteo gridò verso Davide: Sono io forse un cane, perché tu venga a me con un bastone? E quel Filisteo maledisse Davide in nome dei suoi dèi» (1 Sam 17,41-43).

Golia lo fissa e lo scruta (v 42). Ai suoi occhi Davide appare esattamente come appariva agli occhi di Samuele e dei suoi fratelli il giorno della sua consacrazione (16,12): quell’unzione regale di-viene operativa. Ma questo intrecciarsi di sguardi insinua dell’altro: un’ambigua identificazione fra lo sguardo dei fratelli e quello di Golia. Nessuno di loro vede in questo giovane «fulvo e di bell’aspet-to» un re. Anzi, tanto gli uni quanto l’altro lo disprezzano! Nuovi avversari sembrano aggiungersi a quello fisico, visibile ed esterno quale Golia. Davide dovrà sconfiggere anche i nemici spirituali, in-visibili, interiori per liberare e unire Israele.

Il giovane pastore, ottavo figlio di lesse, il più piccolo, sta rista-bilendo le giuste dimensioni dell’avversario, non si lascia impres-sionare da quelle apparenti: Golia è solo un uomo, un incirconciso che nulla può contro la potenza di Dio. Davide è uno sfidante inat-teso, il Filisteo lo maledice nel nome dei suoi dèi, preannuncian-dogli che renderà le sue carni pasto per gli uccelli e per le bestie (vv 44). Davide non tarda a rispondere agli insulti: «Tu vieni a me con la spada, con la lancia e con l’asta, li vengo a te nel nome del Signore degli eserciti, Dio delle schiere d’Israele, che tu hai insultato. In questo stesso giorno, il Signore ti farà cadere nelle mie mani, io ti abbatterò e staccherò la testa dal tuo corpo e getterò i cadaveri dell’esercito filisteo agli uccelli del cielo e alle bestie selvatiche; tutta la terra saprà che vi è un Dio in Israele. Tutta questa moltitudine saprà che il Signore non salva per mezzo della spada o della

lancia, perché il Signore è arbitro della lotta e vi metterà certo nelle nostre mani»(1 Sam 17,45-47).

VIAGGIO ATTRAVERSO LA BIBBIA

Davide e Golia

Davidesconfigge i Filisteie trasportal’Arcadell’Alleanzada Obed EdomMiniatura del 1250 circa

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Nel libro di Daniele ogni riferimento ai fatti storici è di carattere generico, carente di precisa cronologia. Più

che un vero nome, il titolo dello scritto è tematico: Dany’el, cioè «mio giudice (è) Dio». È un forte richiamo all’autorità del Signo-re, per cui, taluni lo traducono con «mio giudizio (sia) Dio» nel

senso che «il criterio», la «misura» di ogni azione e di ogni cosa è Dio. Il titolo-nome conferisce, così, autorità a questo libro che non è né prettamente storico, né del tutto profetico, né esclusivamente sapienziale: è la reinterpretazione di una storia già conosciuta. Il messaggio teologico degli eventi concernenti il protagonista e i suoi compagni lo si può sintetizzare con l’assio-ma: «Dio redimerà gli oppressi e confonderà gli oppressori».

Il libro presenta due racconti paralleli: il primo affronta il rapporto tra politeismo-ellenista e monoteismo israelitico; il secondo, la prassi religiosa degli ebrei che riguarda la preghiera quotidiana, vietata e resa quindi illecita, da un decreto irrevo-cabile. Ambedue le storie hanno per protagonisti giovani ebrei, esempi luminosi le cui azioni sono da ricordare tra gli «atti dei martiri»; entrambi esaltano il contegno retto e intrepido di quattro giovani ebrei che non si piegano al modello ellenistico.

Messi alla prova: Dn 1 A prescindere dalle inesattezze cronologiche o dall’ambìentazione fittizia, il racconto del primo capitolo, concernente l’av-

ventura dei giovani protagonisti, è indispensabile per lo sviluppo e per la comprensione dell’intero libro. Stando al testo, Daniele e i suoi compagni si trovano in Babilonia, alla corte di Nabucodonosor, in attesa di essere arruolati

ai lavori di corte. Il sovrano vincitore sceglie, tra la nobiltà israelitica, dei giovani perché diventino impiegati di corte, così da legarli maggiormente alla sua sovranità, sulla base di un antico diritto dei popoli vincitori che imponevano la loro cultura ai popoli vinti. Il reclutamento inizia con il cambiamento dei nomi: Daniele sarà chiamato Baltazzàr, Anania Sadrac, Misaele Mesach, Azaria Abdenego (v 7). Ciò priva i giovani della loro identità giudaica come segno della loro soggezione al vincitore. I cibi della tavola del re sono di natura e provenienza incerta; Daniele decide di mantenersi fedele al suo Dio e alle proprie tradizioni nazionali, concretamente alla legge del kasherut, l’insieme di prescrizioni che riguardano il cibo conforme alla legge (Dt 12,13-24; Lv 11). Dio concesse a Daniele benevolenza e simpatia presso il capo degli eunuchi (vv 8-9).

Il capitolo si chiude sull’immagine della straordinaria sapienza di Daniele; essa supe-ra dieci volte quella dei saggi di Babilonia.

La prova dei tre fanciulli: Dn 3In Daniele, capitolo tre, vediamo che la

prova religiosa continua. Sono protagonisti ora i compagni di Daniele. Il racconto è am-bientato nel regno di Nabucodonosor, quan-do il re «aveva fatto costruire una statua d’oro, alta sessanta cubiti e larga sei, l’aveva fatta erige-re nella pianura di Dura, nella provincia di Babi-lonia» (v 1). Ai popoli, nazioni e lingue viene rivolto un proclama che esige l’adorazione della statua: «Chiunque non si prostrerà e non adorerà, in quel medesimo istante sarà gettato in mezzo a una fornace di fuoco ardente» (v 6).

Daniele e isuoi compagni

La sua è una replica concisa, che riassume in sé una vera e pro-pria confessione di fede (vv 46b e 47a): quelli che vediamo con-trapporsi sono anche i valori diversi. Davide si era «tolto» di dosso (wayyiserem) le armature del re Saul (v 39): è lo stesso verbo che compare al v 26 («togliere la vergogna da Israele») e al v 46 (deca-pitazione di Golia). La forza delle armi - spada, lancia e giavellotto - contro la forza della fede, contro il nome di Dio, Signore degli eser-citi, «supremo generale del cosmo». Davide di questo è cosciente e lo evidenzia bene (v 45), ma le sorti della battaglia appartengono al Signore (v 47). Le parole di Davide, «oggi stesso ti consegnerà il Signore nelle mie mani», rendono il senso: l’esito programmato da Golia è capovolto, Davide si spoglia dell’armatura di Saul e va in-contro al Filisteo, non con le armi della regalità ma con quelle del pastore-re secondo il cuore di Dio, icona del Salvatore.

Qui risuona chiaramente un principio fondamentale del regno di Dio. Il significato del nome di Davide (dwd) è «amato, prescel-to, prediletto, reso famigliare», mentre Golia (Golyat) evoca, per assonanza, la parola ebraica galùt, «esilio, deportazione». Davide,

l’amato, non si è imposto a suon di parole, ma nei fatti, mentre Golia, che minacciava schiavitù, estinzione ed esilio, si è dissolto nell’umi-liazione della sconfitta. Come gli Israeliti di allora, i lettori di ogni tempo sono invitati a non lasciarsi dominare dalla paura del nemico, anche se appare più potente, confidando nelle uniche armi del cre-dente (Ef 6,13-17): è Dio che libera e salva, senza spada e senza lan-cia, noi dob-biamo solo ascoltare la sua Parola ed aver fede (Sal 43,4-7; 19,7-9, 32,16-17).

I tre giovani nella fornace di fuoco. Catacombe di Priscilla, secónda metà del III secolo (Roma).

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Mossi dall’invidia, i funzionari di Nabucodonosor accu-sano i compagni di Daniele di un triplice delitto: nonostante l’esplicito comando di adorare la statua-idolo eretta dal re (vv 4-6) «... alcuni Giudei, ai quali hai affidato gli affari della provin-cia di Babilonia, cioè Sadrach, Mesach e Abdenego... non ti obbe-discono, non servono i tuoi dei e non adorano la statua» (v 12). Sdegnato, il re li interroga, offrendo loro una seconda chance. «... se sarete pronti a prostrarvi e adorare la statua che io ho fatto, bene, altrimenti...» (v 15b).

Tra sofferenza-morte o apostasia i giovani restano risoluti: essi rinunciano ad una difesa (umana): «Non abbiamo bisogno di darti nessuna risposta» (v 16) e dichiarano di affidarsi alla potenza del loro Dio; che li salvi o meno essi gli restano fedeli (v 17).

Il fuoco viene aumentato «sette volte di più del solito» (v 19), i compagni di Daniele vengono gettati «legati» nella for-nace e, mentre gli esecutori della sentenza vengono arsi (v 22), essi «passeggiano e lodano Dio in mezzo al fuoco» (v 25), «ven-gono sciolti» e sono in compagnia di un angelo (v 92); infine, ne escono illesi. Davanti all’inaudito il re esclama: «Benedet-to il Dio di Sadrach, Mesach e Abdenego, il quale ha mandato il suo angelo e ha liberato i servi che hanno confidato in lui; hanno trasgredito il comando del re e hanno esposto i loro corpi per non servire e per non adorare alcun altro dio all’infuori del loro Dio» (v 95a). L’ironia è palese: il re pagano, colui che poco prima ha domandato: «Quale dio può liberarvi dalla mia mano?»(v 15) ora, costatando i fatti, è costretto a riconoscere: «non c’è nessun altro dio che possa liberare allo stesso modo» (v 96).

Il messaggio teologico è chiaro: nessuno affronta la perse-cuzione a motivo della sua fedeltà a Dio senza essere da Lui stesso difeso e consolato. Non è forse questa la realtà che i tre giovani portano incisi nei loro nomi: Hananyah significa «Yah è misericordioso»; Misha’el «Chi appartiene a Dio?»; ‘Azaryah «mio aiuto è Yah» (= il Signore?!).

La prova di Daniele: nella fossa dei leoni: Dn 6L’Amico andò in una terra straniera e pensava di trovare anche

là il suo Amato. Nel cammino l’assalirono due leoni. L’Amico ebbe paura di morire, giacché voleva vivere per servire il suo Amato; e a lui volse il ricordo perché l’amore fosse presente nel momento della morte, e con l’amore potesse sostenerla meglio. Mentre l’Ami-co ricordava l’Amato, i leoni gli s’avvicinarono mansueti, lambirono le lacrime che cadevano dai suoi occhi e gli ba-ciarono le mani e i piedi. E l’Amico se ne andò tranquillo a cercare il suo Amato (R. Lullo, Libro dell’Amico e l’Amato, 55).

Il racconto è ambientato sotto il regno di Dario; il re nomina centoventi satrapi e tre funzionari tra i quali Daniele nuovamente protagonista, questa volta come il «giusto perseguitato». Gelosia e invidia non rispar-miano i dignitari della corte: non potendo scagliare nessuna accusa contro il modo di operare di Daniele nel suo ufficio, essi inducono il re a firmare un editto insensato, secondo cui «chiunque, da ora a trenta gior-ni, rivolga supplica alcuna a qualsiasi dio o uomo all’in-fuori di te, o re, sia gettato nella fossa dei leoni» (v 8b). Una volta promulgato, il decreto diventa irrevocabile.

Il tentato genocidio religioso colma ogni misura: al capitolo primo, con l’imposizione dei nomi stranieri il

regno vincitore cercava, attraverso il cambiamento dei nomi, di privare i giovani dalla loro identità nazionale e culturale; proibire la preghiera (indirizzata al Dio d’Israele) è un attenta-to contro la fede monoteistica. Daniele sa che l’editto è diretto contro la sua persona; nonostante ciò continua la sua giorna-liera triplice preghiera. I suoi rivali lo spiano attraverso la fine-stra aperta (v 11) e, una volta accertato il «reato», lo denun-ciano dinanzi al re che ne rimane turbato e addolorato. Egli vorrebbe prosciogliere Daniele ma, inchiodato dal proprio decreto, nulla può fare. Come già i suoi compagni, anche Da-niele affronta fiero la morte. Viene gettato nella fossa dei leoni, i quali assumono una doppia simbologia: la ferocia umana, la gelosia incarnata che può arrivare fino ad estorcere un editto regale, fatto apposta per eliminare l’innocente e, parimenti, essi diventano strumenti di Dio sino a distinguere l’innocente dal colpevole. Il re, per non venir meno alla sua stessa dignità, si trova costretto a condannare Daniele.

Non passa inosservato l’augurio, fatto dal re a Daniele, mentre lo calano nella fossa: «Quel Dio che tu servi con perse-veranza, ti possa salvare» (v 17). Dopo una notte insonne, il re si reca alla fossa e, sperando in un miracolo, chiama: «Daniele, servo del Dio vivente, il tuo Dìo ti ha potuto salvare dai leoni?» (v 21). Daniele può rispondere che Dio è intervenuto, ha man-dato a chiudere le fauci dei leoni, a testimoniare la sua inno-cenza. Come al capitolo 3 (i tre fanciulli nella fornace) anche qui si assiste ad un lieto fine, velato di sottile ironia: secondo il proverbio «chi scava una fossa vi cadrà dentro», e secondo la legge di rendere male per male (Es 21,23; Lv 24,18), gli ac-cusatori di Daniele, assieme ai loro familiari, per ordine del re sono gettati nella fossa (v 25). Il re compie una professione di fede pubblica nel Dio di Daniele (v 27) ed ora, nei regni a lui soggetti, dal culto del re si passa al culto al Dio di Daniele, Dio d’Israele, Dio vivente.

Questo trittico è stato scritto per noi, affinchè crediamo e attingiamo coraggio dalle testimonianze di coloro che han-no sfidato il potere, affrontando risolutamente fuoco e leoni: «Anania, Azaria e Misaele per la loro fede furono salvati dalla fiamma; Daniele nella sua innocenza fu sottratto alle fauci dei leoni: di generazione in generazione quanti hanno fiducia in Dio non soccombono» (1 Mac 2,59-61).

Daniele nella fossa dei leoni

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DON ORIONE: UNA SCUOLA

ACCOGLIENTEAccogliente.

Che bell’aggettivo! E che bello sentirsi accolti!

Anche quest’anno la scuola “don Orione” ha dato il via alle lezioni puntando molto sul progetto accoglienza, non solo per i nuovi iscritti, ma per tutti gli alunni frequentanti l’istituto. La scuola è fatta di persone ed è luogo di relazione, di crescita e apprendimento; non si limita a formare la mente, ma tutta la persona.

Per i più piccoli il progetto ha come slogan “le mie mani, le nostre mani” ed è incentrato sul tema delle mani, una parte preziosa di noi che ci mette in contatto con il mondo. Si possono dimenticare a casa tante cose: lo zaino, l’astuccio, i quaderni, a volte anche la testa, ma le mani si portano sempre. Da qui è partita il 13 settembre l’av-ventura della primaria del Don Orione con una serie di attività pratiche che valorizzeranno l’attività del gioco come spazio culturale e personale non per valutare gli alunni su obiettivi didattici, ma per aiutarli a conoscere e fare proprie le regole della convivenza civile, dell’aiuto reciproco e del rispetto.La modalità del gioco è stata usata anche alle medie con la finalità di comprendere meglio la complessità di certe situazioni. Accolti dalla preside Domenica Busi e don Francesco, curato di Rezzato e nuovo insegnante di religione alle medie, i ragazzi sono stati poi impegnati in un grande puzzle che li ha portati a riflettere sul tema della diversità e dell’uguaglianza. Come pezzi di un puzzle gli studenti hanno sperimentato quanta attenzione, pazienza e determinazione serva per costruire un puzzle. Anche la nostra scuola, come un puzzle, ha bisogno che tutti i suoi pezzi si prendano responsabilmente cura l’uno dell’altro, superino le difficoltà e si uniscano in un solo progetto dove c’è spazio per tutti, dove tutti hanno un valore e i problemi diventano occasioni di confronto per cercare insieme la soluzione.Unica scuola cattolica della nostra zona, il don Orione, nonostante la crisi economica e nonostante le resistenze e i pregiudizi sulla chiesa che si fa scuola, anche quest’anno afferma con orgoglio la sua presenza umile, discreta, libera, di qualità e soprattutto…accogliente!

“Il tema viaggia sulle scrivanie del ministero: sarà impopolare e foriero di steccati ideologici, ma il sistema delle scuole paritarie italiane rischia il collasso. Il motivo? L’on.le Gabriele Toccafondi, sottosegretario all’Istruzione, delinea il quadro con l’inchiesta”.

Colgo l’occasione per condividere alcune riflessioni. Un Percorso di Diritto: un percorso tanto noto quanto semplice

eppure così inapplicato: la scuola paritaria si inserisce di diritto e di fatto in un sistema scolastico di istruzione e formazione integrati,

Scuola don OrioneSCUOLA PRIMARIA

E SECONDARIA DI PRIMO GRADO

paritarie via Don Orione 1 Botticino Sera

Parrocchie di Botticino

“Le PARITARIE utili allo Stato ma rischiano

il COLLASSO”

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come unica possibilità per rendere possibile attraverso il pluralismo educativo il libero esercizio della famiglia italiana del diritto conseguente alla responsabilità educativa.La nostra legislazione ha in sé tutte le componenti giuridiche (dal 1948 alla Legge 62/2000) affinché questo diritto tanto “antico” quanto “naturale” possa essere esercitato in Italia come già avviene in tutti i paesi Europei. La tradizione storico - sociale mentre assegna la responsabilità educativa alla famiglia ne consegna il conseguente diritto. I macro principi economici e le micro analisi supportano e individuano nella tutela dell’esercizio di questo diritto una scelta non solo sostenibile da un punto di vista economico ma addirittura auspicabile in una logica di spending review.

Fiumi di parole autorevoli e di pagine documentate sono state scritte in merito, eppure ad oggi continuiamo ad assistere al perpetuarsi di una grave ingiustizia sociale: alla Famiglia Italiana (unica eccezione in Europa ac-canto a quella Greca) viene impedito il libero esercizio del diritto di scelta educativa.

Ingiustizia che mentre colpisce la famiglia, lede il sistema scolastico di istruzione e formazione sempre meno pluralista (il collasso delle scuole paritarie), fiacca il corpo docenti sempre meno valorizzato, disperde risorse positive che dovrebbero essere investite a favore di un sistema scolastico di istruzione e formazione di qualità, appesantisce i conti pubblici che vedono aumentare in modo tanto rilevante quanto ingiustificato la spesa pubbli-ca per l’istruzione ”Anche per questo chiudere i rubinetti al sistema delle paritarie rischia di diventare un boo-merang per le casse dello Stato: in caso di chiusura delle 13.807 scuole bisognerebbe ricollocare oltre 1.000.000 di studenti, con conseguenti esborsi per la predisposizione di nuovi locali e insegnanti.”

Eppure come i buoni educatori continuiamo a credere che sia possibile imboccare un percorso di diritto. Un auspicio finale: come evidenziava Aldo Moro nella seduta pomeridia-na del 22 aprile 1947 “….. si è trascurato un problema che dovrebbe trovarci tutti egualmen-te concordi, il problema della scuola senza qua-lificazioni, della scuola nella quale rioffriamo veramente ogni nostra speranza, perché quan-do siamo di fronte alla scuola, veramente si ac-cende o si riaccende la speranza. Pensiamo in questo momento, al di là delle necessità contin-genti del dibattito, alla sorte della scuola in Ita-lia; pensiamo a quello che essa può rappresen-tare per la ricostruzio-ne spirituale del nostro paese, ai mezzi più op-portuni, nella maggior concordia possibile degli spiriti, perché la scuola sia quella che deve essere, quella che vogliamo, con ferma volontà, che sia”.

Auguriamoci di non perdere mai la speranza e il coraggio di restare cittadini al servizio di una Società civile ca-paci di gettare il cuore oltre l’orizzonte che lo sguardo umano può solo intravedere.

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Ritiro Ponte di Legno 5-8 Settembre 2013

Accompagnati dai mister Erica Lonati e Alberto Prati, e con l’aiuto di Domenico Temponi, i ragazzi del

2004 hanno passato tre giorni insieme a Ponte di Legno per prepararsi al prossimo campionato.E’ stata una esperienza positiva. Tutti hanno contribuito alla buona riuscita del ritiro, abbiamo lavorato sodo sul campo, ci siamo divertiti in albergo, ed il comportamento in generale è stato buono. Per i ragazzi è stata una prova di vita lontana dai genitori, senza cellulari e giochi elettronici. Nelle pause lontane dal campo di calcio, erano i giochi tradizionali di carte e dama a tenerli impegnati.Un sincero ringraziamento a tutti coloro che hanno con-tribuito a rendere fattibile questa esperienza.

Alberto Prati

c squadra dei 2003

USO BOTTICINO

Per il secondo anno consecutivo la Dumper Botticino ha partecipato alle finali nazionali ANSPI di calcio a 7 categoria amatori , manifestazione disputata come da tradizione a Bellaria-Igea marina

nei giorni 6 ,7 e 8 Settembre 2013. Se alla prima esperienza la corsa al tricolore si era fermata alle semifinali , quest’anno solo la finale ha purtroppo negato il gradino più alto del podio ; come e’ giusto che sia in questi casi i sentimenti di amarezza per la sconfitta e di soddisfazione per il risultato raggiunto si sono mischiati , generando in tutti la voglia di tornare il prossimo anno con rinnovata determinazione e maggiore maturità per vincere finalmente lo scudetto ! Quest’ anno la squadra ha festeggiato il decimo anno di attività (fondata infatti nel 2003 dai soliti “4 amici al bar” fa ora parte dell’ U.S.O. Botticino). Per l’occasione e’ stato organizzato in concomitanza con la festa dell’oratorio di Mattina un seguitissimo torneo notturno . La nuova stagione e’ già ripartita con un’uni-ca novità in un gruppo di giocatori e dirigenti ormai consolidato. Restando in “famiglia” la guida tecnica e’ infatti passata di mano da “Mister Marco Gorni” a “Mister Luca More-schi”: al primo vanno i più sentiti ringrazia-menti per quanto fatto, al secondo i più sinceri auguri di buon lavoro per il prossimo futuro !

Dumper BotticinoVice-campione

d’Italia

Nella stagione 2012-2013 appena con-clusa l’USO Botticino ha partecipato

con una squadra, l’USO Botticino Dumper nella categoria OPEN a 7 iscritta al campio-

nato ANSPI vincendo il proprio girone, classificandosi al 2°posto nelle finali provinciali e al 2°posto nelle finali nazionali; una squa-dra iscritta al campionato CSI categoria Open a 7 nel girone di Promozione; una squadra di bambini nati nel 2003 ha partecipa-to al campionato ANSPI nella categoria Scarabocchio giungendo 4 ̂nel proprio girone e qualificandosi per le finali provinciali; una squadra di bambini nati nel 2004 ha partecipato al campionato ANSPI nella categoria Miniscarabocchio vincendo il proprio girone e classificatasi al 3°posto nelle finali provinciali e al 4° posto alle finali regionali.La stagione 2013-2014 ci vede al via con una squadra Open a 7 (i Dumper) all’oratorio di Botticino Mattina, una Squadra Open a 7 all’oratorio di Botticino Sera, due squadre di bambini nati nel 2004 una e nel 2005 l’altra all’oratorio di Botticino Sera. E’partito il corso di mini calcio per i bambini dell’asilo il venerdì dalle 16,15 alle 17,15.

USO BOTTICINO

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GREST

A UN PASSOIo non c’ero ancora ma già Tu mi pensaviCoi raggi del tuo amore mi intessevi.Spirito e vita Tu mi hai datoUn corpo mi hai donato per fare la tua volontà.A un passo Signore ti voglio trovare Nell’uomo al tramonto fra sposi all’altareNel bimbo che ancora non c’è!Fra abbracci e sorrisi e mani offerte a te.A un passo Signore con gesti e paroleCon sguardi sinceri con tutti i miei pensieriCol corpo che Tu mi hai dato io mi dono E in tutti amo te.Tutto mi conosciPer te non c’è misteroTu sai quando mi alzo e quando siedo.Scruti nel profondo del mio cuoreVedi se c’è l’amoreChe tu hai messo dentro me.A un passo Signore…A un passo Signore ti voglio ascoltare Perché tu respiri perché hai un cuore Perché Tu hai un corpo,come me!

BALLA IL BURATTINOVoglio costruirmi un burattino,

ma che sia speciale, che cammini e sappia parlare.Voglio che assomigli ad un bambino,

ci penso su un pochino, perché non so come farePenk penk penk! Lo picchio col martello

Penk penk! – col martello Penk! – guarda com’è bello…Mani, piedi, gambe, braccia, occhi, naso e bocca sulla faccia

Guarda che carino balla il burattino - balla insieme a lui!Pancia, schiena, collo, testa, canta e balla e sembra sempre festa

Muove il sederino, balla il burattino - balla insieme a lui!Ma che naso lungo ha il burattino!

Ora che lo guardo, mi sa che è molto bugiardo!Si, va beh, lo so, non è perfetto,

ma, se mi ci metto, forse riuscirò a migliorarlo…Gnika gnika gnika! Lo assottiglio con la pialla

Gnika gnika! – con la pialla Gnika! – guarda come balla…Mani, piedi, gambe…Ma com’è monello il burattino!

È disobbediente e non mi ascolta per niente!Certo che è simpatico e scattante,

molto divertente, ma fa un rumore assordante…Gratt gratt gratt! Lo liscio con la raspa

Gratt gratt! – con la raspaGratt! – guarda come casca…

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Casa Fontana Mora ha accolto per una settimana (dal 14 al 21 luglio) i ragazzi di prima media di Botticino Mattina, Sera e San Gallo insieme a 6 animatori e 2 cuochi.Il campo scuola aveva come titolo “Quanti pani avete? Andate a vedere” e si ispirava al miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci operata da Gesù (Marco 6,34-44).

Ogni giorno i ragazzi hanno approfon-dito ogni elemento/ingrediente (acqua, farina, sale, fuoco-vento, fino ad arrivare all’unità cioè il pane) dal punto di vista fisi-co, ludico e spirituale.Parallelamente al pane alimento abbiamo riflettuto sul fatto che ognuno è un ingre-diente, cioè ha dei doni e delle capacità da sviluppare e far crescere, ma è chiamato ad essere pane (Gesù eucarestia) condividen-do con gli altri i carismi che ha ricevuto da Dio.

Le giornate erano scandite da varie attività: ludiche (giochi di abilità, orien-tamento, sportivi come Generale, Filo di Arianna, Lucciole, Olimpiadi di Valdoriz-zo), formative (lavori di gruppo, riflessione e condivisione sul brano del vangelo pro-posto dal libretto guida) e spirituali (cele-brazione del rinnovo delle promesse batte-simali, la veglia sullo Spirito Santo vento e fuoco, lettura comunitaria dell’impegno personale nei confronti di se stesso, degli

altri e della comunità).Abbiamo svolto 2 escursioni nei dintorni della Valdorizzo (lago di Bruffione e San-guinera) e una passeggiata meno impegna-tiva a Bagolino (parco Pineta, chiesa par-rocchiale e centro storico).

I ragazzi sono stati divisi in 4 gruppi (Acqua, Fuoco, Terra, Aria) e si sono sfida-ti e confrontati con le varie attività propo-ste mostrando entusiasmo, partecipazione e spirito di sacrificio.

Da segnalare la nascita artistica, creati-va e musicale della “Patacca Band” che ha animato e intrattenuto le serate con cori, motivetti, canzoncine spensierate e diver-tenti.

Don Raffaele e il diacono Pietro han-no fatto sentire la vicinanza al gruppo con la loro presenza alle messe d’inizio-fine campo e durante la settimana vivendo mo-menti di fraternità e condivisione insieme a tutti noi.

Il campo è terminato domenica 21 luglio, con la messa insieme ai genitori e dopo il pranzo comunitario.

E’ stata un’avventura e un’esperienza coinvolgente, arricchente che ha fatto cre-scere tutti i partecipanti (ragazzi, animato-ri) e non solo (genitori).“Vi è più gioia nel dare che nel ricevere”. Andrea Quarenghi

LETTERA DEL CAPOCAMPO AI SUOI RAGAZZI

Cari ragazzi e care ragazze,è mezzanotte e mezza...sono stanchis-

simo ma non riesco ad addormentarmi perchè provo una GIOIA IMMENSA

unita ad una PROFONDA NOSTALGIA.Mi verebbe da dire...”il campo sta

finendo”, ma in realtà questa esperien-za significativa continuerà nella vita

quotidiana a Botticino Sera, Botticino Mattina ed a San Gallo.

A fianco a me ci sono ragazzi/e con gli occhi gonfi e rossi... la settimana

trascorsa li ha segnati, cambiati..SONO COMMOSSI, il loro cuore si è allargato.Nessuno tornerà a casa come prima...7 giorni di vita in comune permettono di

guardare dentro di te e di conoscere in profondità chi ti sta accanto..non si

possono dimenticare facilmente...Quante volte li ho chiamati per nome e quante volte ho sbagliato i loro nomi...ognuno di loro MI HA LASCIATO QUAL-

COSA che tengo dentro di me.Questi ventidue ragazzi vivaci, fragili e

pieni di vita hanno riacceso e rivitalizza-to la mia fede a volte incerta, debole e

zoppicante..Dio si fa conoscere alle sue creature

gradualmente, aspetta, non ha fretta, le ha create A SUA IMMAGINE E SO-

MIGLIANZA: voi siete lo SPECCHIO DEL CREATORE.. e lo Spirito Santo che Lui vi ha donato gratuitamente vi ha trasfor-

mato facendovi diventare CREATURE NUOVE.

Ho scoperto il significato dei vosrti nomi, ho capito che noi adulti dobbia-

mo fermarci, dimenticare le nostre pre-occupazioni, i nostri egoismi e sederci.

Ascoltare, sdraiarsi su un bel prato, contemplare le stelle, guardare i monti,

pescare, fare il risveglio muscolare la mattina, buttarsi vestiti in un torrente,

raccogliere i funghi, cantare canzoni strampalate.

Tutto questo me l’ero dimenticato... E’anche grazie grazie a voi che ho

riscoperto il gusto delle cose semplici: essere felici anche se non si fa niente di

particolare.Anche il momento della spiritualità e del-

la riflessione è stato sentito da tutti voi.Mi avete insegnato che il gioco unisce,

la preghiera con il battito di mani prima di mangiare ha consolidato il gruppo, ha creato “comunione” e “comunità”.

Ho riscoperto il vangelo vissuto nel concre-to, nelle singole giornate, insieme a voi :

“Coraggio ragazzi e ragazze, se voi diverrete dei veri testimoni, l’amore non

avrà mai fine”GRAZIE DI CUORE vi voglio bene

Con affetto, Andrea Valdorizzo, 21/07/2013

Campo “Ragazzi 1” Valdorizzo -

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CAMPO CRESIMANDI BONIPRATILo scorso luglio alcuni ragazzi di 3^ media con i catechisti e un educatore hanno vissuto una settimana in cam-peggio in una località trentina, Boniprati.Il gruppo, circa 40 persone, ha vissuto insieme condividendo gli stessi spazi, modificando le abitudini personali; un esperienza positiva sia per la crescita conoscitiva del gruppo in amicizia sia per gli aspetti spirituali che si sono vissuti.I ragazzi, pur con caratteri diversi hanno mostrato un grande spirito di gruppo, collaborazione, sostegno e dispo-nibilità senza voler prevalere sugli altri.Le giornate si sono alternate con varie attività, quali: escursioni nelle vicine località montano/boschive, giochi e tornei all'aperto e serate all'interno della casa ogni volta diverse.Non sono mancati momenti di riflessione e preghiera dove i ragazzi hanno dato tanto lasciandoci messaggi pro-fondi e sinceri, motivo di grande speranza per un futuro costruttivo del gruppo.Siamo rimasti positivamente colpiti da come i ragazzi, fino a ieri poco più che bambini, ci hanno aperto i loro cuori, mostrato i loro sentimenti riflettendo da adulti sui temi proposti.A questo vivere serio e riflessivo non si è tolto lo spazio per attimi di divertimento anche nelle serate in casa, dove si è dato spazio alle danze, alla recitazione e alla ... magia, il tutto "condito" dalle mani esperte delle nostre cuoche che ci hanno deliziato con i loro piatti e la loro simpatia.Il campo estivo si è concluso la domenica successiva con la celebrazione della S. Messa all'aperto insieme alle famiglie.

Il nostro parroco, don Raffaele, ha vissuto momenti spirituali con noi, dando spunti di riflessione per la vita e ricevendo attenzio-ne e interesse da parte dei ragazzi e ani-matori.Cosa aggiungere ancora? Un grazie sincero a tutti per l'esperienza che ci hanno fatto vivere, ci siamo divertiti tanto e vi aspettia-mo l'estate prossima carichi di entusiasmo per vivere altri momenti simili insieme... Ancora una cosa ... ora la bella esperien-za vissuta va continuata in oratorio e nella comunità!!

Campo “Ragazzi 2” Valdorizzo E’ stata la prima esperienza di campeggio per 17 ragazzi di seconda media. Eravamo a casa “Fontana Mora” in mezzo al prato al limitare di una pineta sotto il centro abitato di Valdorizzo. Sette giorni dall’8 al 14 luglio all’insegna del condividere il tempo, il diverti-mento, lo svago e anche la mancanza di alcuni servizi o optional a cui siamo abituati (televisione, pc, telefonini, ecc) a favore di qualche parola, qualche contatto umano in più con i compagni, che ci ha fatto gustare in maniera particolare quei giorni. Non è mancata qualche passeggiata e nemmeno sono mancati alcuni momenti formativi. La mattina era solitamente de-dicata alla riflessione, spesso sotto forma di gioco, a cui i ragazzi hanno sempre partecipato con interesse. Il filo conduttore era il pane. Acqua, farina, sale, fuoco ci hanno aiutato a riscoprire il significato dei sacramenti. Solo l’unione di tutti fa sì che non siano più singoli elementi, ma nutrimento per il corpo. Un particolare ringraziamento a Giulietta e Romano (ormai diventati Giulietta e Romeo), i cuochi del campo, che non si sono limitati a fare i cuochi, ma veri e propri compagni di viaggio, guide, infermieri e consiglieri. Grazie a tutti gli animatori e a tutti coloro che si sono messi in gioco permettendo la riuscita della settimana.

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CAMPO ADOLESCENTI

MALGA BISSINA

Il campo estivo parrocchiale rivolto ai ragazzi di età adolescenziale rappresenta ormai una tradizione per le Parrocchie di Botticino e quest’anno la località scelta per l’esperienza è stata Malga Bissina, in Val Daone, nelle baracche di Padre Marcolini a circa 1800 mt di altitudine.

Un luogo umile dove ogni cosa superflua stona in un contesto di semplicità e riflessione alternato a svago e socializzazione.

La montagna da sempre aiuta la riflessione, l’apertura mentale e spirituale e ci ha posto di fronte a nuove esperienze, ragionamenti e esigenze a cui un adolescente difficilmente fa caso nella routine dell’odierna società e proprio su questo si sono basate le attività proposte durante il campo:tra passeggiate nella Val di Fumo, attività di gruppo e di riflessione individuale, “deserti” e momenti di tempo libero, si è cercato di far sedimentare qualcosa nei nostri ragazzi con l’obbiettivo di essere aria fresca per la comunità di Botticino.

Giovedì 17 ottobre 2013 dalle 14.00 accoglienza presso il seminario minore in via musei 58 e ritiro del pass per i giochi in piazza Tebaldo: “Raccoglitori di acini d’uva”Ore 16.00 Camminata verso il Duomo Ore 16.30 preghiera con il vescovo Luciano, consegna del mandato e della tessera del chierichetto. A seguire merenda e conclusione presso il seminario minore

RACCOLTA FERRO E TAPPILe parrocchie di Botticino, attraverso i vo-lontari, riprendono la raccolta di materiali ferrosi. Le famiglie o ditte che hanno fer-ro, alluminio, ottone...ecc. che vogliono eliminare, possono contattare i seguen-ti numeri telefonici 3338498643 oppu-re 3283108944, o presso la segreteria dell’Unità Pastorale 030 2692094 per ac-cordarsi sulla modalità del ritiro che può avvenire tramite le persone incaricate o in-dicare il luogo della raccolta.Si raccolgono anche tappi di plastica che possono essere direttamente consegnati presso gli oratori di BotticinoIl ricavato della vendita servirà per le ne-cessità delle tre parrocchie.

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INCONTRI DI CATECHESI PRESSO LE TRE PARROCCHIE-

PREADOLESCENTI - ADOLESCENTI - GIOVANI

CAMMINO DI FEDE - ICFR - 2013-2014

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Ogni chiamata spinge ad uscire da se stessi, ogni vocazione è per un dono da offrire. La Chiesa è con-vocazione di chiamati per andare verso l’altro e verso l’Altro… che si incontra sem-pre in periferia.E poiché nessuno è lontano dal Cuore di Dio, ogni volta che l’incontro avviene, ritor-niamo al Centro della Vita: esistere per Amore.

DIOCESIZONA

PASTORALE

Incontro...al limite

itinerario di spiritualità

per giovanimartedì 25 ottobre

ore 20.30 in CattedraleAndate anche voi

nella vigna (Mt 20,1-16)Apertura degli itinerari,

presieduta dal Vescovo.

Giornate di spiritualità per giovani presso l’Eremo di Bienno

VERSO TEmeditazioni del Vescovo Luciano

25-27 aprile 2014

NELLE PARROCCHIE DI BOTTICINO

durante la settimana varie opportunità

di incontro di formazione

per adolescenti e giovani nelle rispettive

parrocchiepresso i locali

dell’oratorio

x credere x cercare x condividere

proposte di qualitàper adolescenti e giovani

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Progetto Giovani & Comunitàquattro mesi di esperienza per i giovani e le giovani di età compresa tra i 18 e i 28 anni

che, attraverso la vita comunitaria e il servizio, si confrontano sulle proprie scelte di vita ispirate ai valori cristiani

info: Ufficio Caritas 030.3757746 Ufficio Vocazioni 030.3722245

Celebrazioni penitenziali13 dicembre 2013 ore 20.30

presso la Chiesa di Manerbiopresieduta dal Vescovo Lucianosabato 12 aprile 2014 ore 18.00

presso il Centro Pastorale Paolo VIsegue Veglia delle Palme

Scuola di Preghiera in Cattedrale

Seguendo il Maestro...oltre il limite

presieduta dal Vescovoquattro giovedì di Quaresima

- ore 20.3013 marzo 2014 - 20 marzo201427 marzo 2014 - 3 aprile 2014

PellegrinaggiTi seguo… a ruota

27-30 giugno 2014 Ti seguo… a ruota (VI edizione)

Pellegrinaggio in bicicletta con soste di riflessione, preghiera e testimonianze

ORA et… “pedala”

agosto 2014 sui Tuoi passi (IV edizione)

Pellegrinaggio a piedi con soste di riflessione, preghiera, condivisione, testimonianze e servizio

ORA et… “cammina”

gruppo vocazionale diocesanoper giovani dai 18 anni che non escludono la vocazione sacerdotale presso il Seminario diocesano – una domenica al mese dalle ore 12.30 alle 18.00

il PANE che rimane e la PAROLA che invia27 ottobre 2013 CONVOCATI 24 novembre 2013 PERDONATI 22 dicembre 2013 SALVATI 12 gennaio 2014 MANDATI IN PERIFERIA 23 febbraio 2014 PER AMORE 23 marzo 2014 CONTROCORRENTE25-27 aprile 2014 VERSO TE giornate di spiritualità - Bienno 25 maggio 2014 IN ARMONIA22 giugno 2014 PER TUTTA LA VITA

Raccolta di S.Martino e campi di raccolta

Corsi per animatori oratorio, per chi vuole fare esperienza

in missione, per chi vuole specializzarsi in teatro, animazione e tecniche della comunicazione....informazioni presso le parrocchie

Esperienze di carità di festa

di fraternitàdi divertimento

Emmaus gruppo vocazionale diocesano

per le giovani e i giovani dai 18 anni aperto al discernimento di tutte le vocazioni (vita matrimoniale, consacrata, missionaria,

diaconale, presbiterale… ) una domenica al mese - dalle 9 alle 17.00

il percorso è condiviso con l’Ufficio Missionario

ESTRO-VERSI10 novembre 2013

TOCCARE LA CARNE DEI POVERI Missionari Comboniani – Brescia

15 dicembre 2013AL CENTRO IL PICCOLO

Canossiane – Mompiano12 gennaio 2014

MANDATI IN PERIFERIA Francescani Conventuali - Brescia

2 febbraio 2014 SUI PASSI DEI SANTI

Salesiani - Nave18 maggio 2014

UN DONO DA CONDIVIDERE Comboniani – Limone sul Garda

Sichar

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Nel cuore dell’Europa

Città, cattedrali storia e paesaggidi Giulio e Graziella

Il viaggio è una specie di porta attraverso la quale si esce dalla realtà come per penetrare in un’altra realtà inesplorata che sembra un sogno. Dotatevi pure di carte geografiche, guide, - così si esprime Guy de Maupassant – ma non potrete mai sapere che cosa vi riserverà il sogno. Accanto alle cose che si devono mettere in valigia, bisogna disporsi ad una grande disponibilità verso usi e costumi degli altri, non giudicare la superficie. Penetrare nel cuore d’Europa, visitare città cariche di storia come Budapest, Praga, Berlino, Ratisbona è immergersi in quella realtà “inesplorata” che porta a ripensare a quel groviglio di avvenimenti che hanno fatto la storia non solo d’Europa nel secolo scorso.

E’ bello ritrovare il gruppo dell’Unità Pastorale delle parrocchie di Botticino, cementato da amicizie consolidate in tanti viaggi. I saluti, qualche presentazione di volti nuovi e si parte veloci verso le pianure venete e friulane.

L’Impareggiabile organizzatore Battista Benetti, narratore inesauribile di storie esilaranti e barzellette e l’im-provvisato coro di bordo trascinato dalle coriste Irma, Graziella, Marinella, Cesarina, Santina, Eugenio Battista e Bepi rallegrano la comitiva nei lunghi trasferimenti sulle strade d’Ungheria, Repubblica Ceca e Germania.

Corrono i chilometri, in un clima di grande empatia coinvolgente.Don Raffaele ed il diacono Pietro ci raggiungeranno a Praga.Il Passaggio sul ponte del fiume Piave (…che mormorava calmo e placido…) e la visione sfumata delle aspre

colline del Carso e del Monte Canino (…dopo tre giorni di strada ferrata…) risvegliano il ricordo dei tanti nomi scritti sui monumenti ai caduti dei nostri paesi.

Si passa Tarvisio e si entra nella Carinzia e nella Stiria austriache, a ragione denominate “I Caraibi d’Europa”: paesaggi incantevoli, boschi profondi, prati pettinati, laghi incastonati come perle nelle vallate alpine. Un verde

intenso copre la regione come un tappeto.Ci accoglie l’ordinata Graz con il suo centro storico rinasci-

mentale e barocco in una incredibile varietà di stili architettonici. L’arteria centrale della città ricalca l’antico decumano disegnato dai romani. Il Duomo gotico, il mausoleo dell’imperatore Ferdi-nando II, il magnifico Palazzo del Governo ed in lontananza il castello – Lo Schossberg – che resistette ai Turchi e a Napoleone, meritano una pur veloce visita conoscenza delle loro vicende sto-riche.

Si corre verso l’Ungheria e si attraversa quella che in un tem-po terribile per l’Europa era “la cortina di ferro”. Ora si respira libertà, nessun controllo al confine; ci sentiamo tutti un po’ più europei.

Si affaccia alla memoria l’invito di Papa Giovanni Paolo II del lontano 21 ottobre 1978: “ aprite i confini degli stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo”. Parole profetiche che hanno cambiato il mondo.

utile feste d’estatenelle parrocchie

FESTA ORATORIO DI BOTT. MATTINA € 8.572,00FESTA PATRONALE SAN GALLO € 11.700,00FESTA SAN FAUSTINO AL MONTE € 4000,00

BANCARELLA S.FAUSTINO AL MONTE € 393,00PESCA SAN NICOLA € 1.085,00

FESTA ASSUNTA BOTT.SERA € 1.343,00

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Muta il paesaggio: piccole casette con orti cinta-ti, distese di girasole e tabacco. Si sfiora la stermina-ta pianura ungherese, la Puszta, terra di zigani, ove corrono in libertà cavalli selvaggi. Terra del famoso Tokai e del prelibato gulash. Da qui vennero Teodo-rico e Attila, qui vissero personaggi noti a noi bre-sciani, come Kossuth ed il feroce Haynau, la “iena di Brescia”, che ordinò il saccheggio della città nel-le Dieci Giornate.

I sobborghi di Budapest ci introducono all’incon-tro con un Danubio gonfio e solenne nel suo scor-rere. Non è certamente il “Bel Danubio blu” di un tempo. La sua acqua è color ocra.

La città è metropoli moderna, pulsante di vita. Otto ponti uniscono Buda a Pest: il più rinomato il Ponte delle Catene, simbolo della città.

Visitiamo la basilica di S. Stefano, fondatore del regno, la Cittadella, la Fortezza, Palazzo Reale nel cui cortile è collocato la scultura del Turul, fantastico uccello della mitologia ungherese. Bella S. Mattia, chiesa di estremo fascino. Dai bastioni la visione spazia sull’enorme edificio del Parlamento con le sue forme frastagliate ricche di pinnacoli. Uno spettacolo che riempie di stupore.

Si punta a nord, si entra in Slovacchia, si sfiora Brno, la città “prigione” dei patrioti italiani che qui languirono nel 1800: Silvio Pellico, Maroncelli e altri. Ed eccoci a Praga, città dal fascino struggente. Scrive il torinese Angelo Ripellino: “Praga è città libro, dai fogli di pietra nelle cui pagine resta sempre tanto da leggere , da sognare: città di tre popoli, il ceko, il tedesco, l’israelitico”.

Città ove si svolsero anche i terribili avvenimenti delle lotte religiose tra protestanti e cattolici nel 1600. Il grande monumento a Jan Hus, il riformatore mandato al rogo, è una severa testimonianza di quel periodo.

Nella chiesa di San Nicola, ove è conservata la miracolosa statua del Bambino Gesù, Don Raffaele celebra la Messa, accompagnata dal nostro bel coro.

La visita alla città è un susseguirsi di emozioni: cattedrale di San Vito, basilica di San Giorgio, la Torre dell’Orologio astronomico, il castello Hradcany, il celebre ponte Carlo, costruito con blocchi arenaria rinforzati impastando la malta con le uova. (Così dicono gli abitanti della città).

Nella tiepida sera della “città d’oro” si percorre a piccoli gruppi, qua-si in religioso silenzio, l’enorme piazza San Venceslao, cuore della vita politica e sociale di Praga, ove si svolsero i drammatici avvenimenti del 1968. Davanti al cippo che ricorda la morte di Jan Palack, che si sacri-ficò per protesta contro l’invasore straniero, ognuno sosta in personale raccoglimento.

Il sottile profilo della Torre della televisione, 365 metri, simbolo della Berlino moderna ci preannuncia una città in grande espansione, attraente, vera “ capitale d’Europa”, oggi.

Le incredibili strutture architettoniche del nostro Renzo Piano e dell’americano Helmut Jahn lasciano veramente a bocca aperta.

Scorrono davanti agli occhi monumenti che raccontano la storia della città: il lunghissimo viale Unter den Linden (viale dei tigli), la porta di Brandeburgo, il quartiere Kreusberg, l’immenso Parlamento – Reichstag, la reggia di Potsdam, Berlino Est …

Due i più significativi momenti: la visione dei resti del Muro, testimonianza del fallimento di una illusione e del me-moriale dell’Olocausto, espresso in blocchi di pietra, in forme irregolari, per ricordare gli ebrei sterminati nei campi di concentramento. Memoriale collocato sul bunker, ora sigillato, dove si suicidò Adolf Hitler. E’ il momento più intenso dell’intero viaggio.

Si corre veloci nelle belle pianure del Brandeburgo e della Baviera; una breve sosta a Norimberga e Ratisbona: si celebra messa nella chiesa del parroco George Ratzinger, fratello di Benedetto XVI. Don Raffaele, nell’omelia, tocca le corde del sentimento di ognuno ricordando come anche i viaggi possano rinsaldare amicizie e crearne di nuove: è la conclusione morale del lungo tour di nove giorni.

Si torna a casa : affiora un sottile filo di nostalgia, di paesaggi, di parlate nostrane, anche della nostra buona cu-cina.

Ecco il Brennero, il cartello Italia: spontaneo ed emozionante l’inno nazionale in tutte le sue strofe: un brivido percorre l’animo.

Botticino, i saluti, gli abbracci, un impegno a ritrovarci, perché un viaggio non inizia quan-do si esce dalla propria casa, né finisce quando si fa ritorno.

In realtà inizia molto prima e non finisce mai davvero.

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CELEBRAZIONI 1 NOVEMBRE

SOLENNITA’ DI TUTTI I SANTIS.GALLO ore 17,00 S.MESSA in chiesa parr.

segue processione al cimitero BOTT.SERA in Basilica ore 8,00 - 18,45

al cimitero ore 15,45BOTT.MATTINA in chiesa parr. ore 9,30

al cimitero ore 14,302 NOVEMBRE

COMMEMORAZIONE DEFUNTIS.GALLO al cimitero ore 10,00 e ore 17,30 BOTT.SERA al cimitero ore 11,00 - 15,00

BOTT. MATTINA al cimitero ore 10,00 - 16,00

PENITENZIALI CON CONFESSIONI

a S.Gallo lunedì 4 novembre ore 20,30

a Botticino Mattina martedì 5 novembre ore 20,30

a Botticino Sera giovedì 7 novembre ore 20,30

DOMENICA 13 OTTOBREINIZIO ANNO

PASTORALE 2013/2014SS.Messe come da orario festivoPranzo comunitario in oratorio;

alle 16,30 presso la chiesa di Botticino Sera incontro bambini e genitori delle tre parrocchie di Botticino

per inizio anno di catechesi segue castagnata

DOMENICA 20 OTTOBREGIORNATA MISSIONARIA

MONDIALEDOMENICA 10 NOVEMBRE

SACRAMENTO DELLA CONFERMAZIONE

ORE 10,30 A BOTT. SERA

DOMENICA 24 NOVEMBRECONCLUSIONE

ANNO DELLA FEDEGIORNATA DIOCESANA

DEL SEMINARIOVENERDI’ 22 NOVEMBRE

S.CECILIA PATRONA DELLA MUSICA

MERCOLEDI’27 NOVEMBREINIZIO CENTRI DI ASCOLTODOMENICA 1 DICEMBRE

GIORNATA DELLA CARITAS

visita il sito web delle parrocchie di Botticino:

www.parrocchiebotticino.it