Alias supplemento del Manifesto 23/07/2012

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SUPPLEMENTO SETTIMANALE DE «IL MANIFESTO» SABATO 4 GIUGNO 2011 ANNO 14 • N. 22 ROSA BALISTRERI ULTRAVISTA: PUGLIA&FILM PUGLIA&FILM COME DUE STELLE NEL MARE SANTERIA CUBANA CHIPS&SALSA ULTRASUONI: IL DISCO PERFETTO RADIONI, IL RITORNO RAIZ TALPALIBRI: OE NERONE MOSTRE DI NAPOLI GUENON FERRONI GARUFI/VITA/MANDER CELATI DOS PASSOS ANNO 14 • N. 29 SABATO 23 LUGLIO 2011 SUPPLEMENTO SETTIMANALE DE «IL MANIFESTO» Milano ultima beffa IL NUOVO MUSEO DEL NOVECENTO ALL’ARENGARIO, UN ESEMPIO DI SUBALTERNITÀ E VETRINISMO CULTURALI, LASCITO FINALE DELLA GIUNTA MORATTI: IL DOSSIER DI GIOVANNI AGOSTI SULLE «ROVINE DI MILANO», PUNTATA CONCLUSIVA [alle pagine 20-21]

Transcript of Alias supplemento del Manifesto 23/07/2012

SUPPLEMENTO SETTIMANALE DE «IL MANIFESTO»SABATO 4 GIUGNO 2011 ANNO 14 • N. 22

ROSA BALISTRERI • ULTRAVISTA: PUGLIA&FILMPUGLIA&FILM • COME DUE STELLE NEL MARE • SANTERIA CUBANA • CHIPS&SALSA • ULTRASUONI: IL DISCO PERFETTO • RADIONI, IL RITORNO • RAIZ • TALPALIBRI: OE • NERONE MOSTRE • DI NAPOLI • GUENON • FERRONI • GARUFI/VITA/MANDER • CELATI • DOS PASSOS

ANNO 14 • N. 29SABATO 23 LUGLIO 2011

SUPPLEMENTO SETTIMANALE DE «IL MANIFESTO»

Milano ultima beffa

IL NUOVO MUSEO DEL NOVECENTO ALL’ARENGARIO, UN ESEMPIO DI SUBALTERNITÀ E VETRINISMO CULTURALI, LASCITO FINALE

DELLA GIUNTA MORATTI: IL DOSSIER DI GIOVANNI AGOSTI SULLE «ROVINE DI MILANO», PUNTATA CONCLUSIVA

[alle pagine 20-21]

2) ALIAS N. 29 - 23 LUGLIO 2011

■ INTERVISTA ■ NELLO CORREALE ■

Sicilia in bluesUN RITRATTOCHE RACCONTAIL PRESENTECristina Piccino

Nello Correale è napo-letano, vive a Roma ma ha vissutoper molto tempo anche in Sicilia,un paesaggio dell’anima al quale èrimasto profondamente legato.Nonostante la difficoltà che si han-no lavorando nella cultura in que-sta regione, comuni a tutta l’Italiama qui più evidenti nelle contrad-dizioni e nella fatica. Correale curaun festival a Marzamemi, dedicatoalle immagini sul confine, un’ideache percorre tutte le sue scelte arti-stiche, ed è anche responsabile delcoordinamento dei festival cinema-tografici siciliani. La Sicilia ritornanel suo ultimo film, presentato inchiusura al Taormina film festival,La voce di Rosa. Un documentario«impuro», nel senso che non sia-mo davanti al semplice ritratto diRosa Balistreri, la cantatrice di Lica-ta che chiamavano l’Amalia Rodri-guez di Sicilia. Almeno per come siintende «ritratto» nel cinema italia-no, un’alternanza lineare di reper-torio e testimonianze ecc. Si parladi Rosa, certo, e di quella voce chesfidava a ogni nota e a ogni parolai potenti, cantando la Sicilia, i suoisfruttati e i suoi migranti, l’oppres-sione e la violenza della vita quoti-diana Rosa e la sua passione, unaforza che sembrava inarrestabile.

«... La voce di Rosa, il suo cantostrozzato, drammatico, angoscia-to, pareva uscisse dalla terra arsadi Sicilia», le parole di Ignazio But-titta, il poeta che lavorò con Rosa ele fu amico aprono il film di Corre-ale. Alle interviste più «classiche» -tra gli altri con Dario Fo, CarmenConsoli, Giovanna Marini, LucillaGaleazzi, Alfio Antico - si unisconoi ricordi di chi l’ha conosciuta, foto-grafie, materiali d’archivio, le paro-le della stessa Rosa, le sue appari-zioni in televisione, e naturalmen-te le canzoni.

Intanto in un teatro DonatellaFinocchiaro sta provando uno spet-tacolo teatrale dedicato a Rosa Bali-streri e alla sua musica...

I momenti teatrali punteggianocosì il «repertorio», e lo trasforma-no in vissuto e la voce di DonatellaFinocchiaro (che canta magnifica-mente) si mescola alle immagini.Eccola Rosa bambina, che patiscela fame e la miseria, e ragazza chesi trova sposata a forza a un uomoche non ama e che non vuole,un’esistenza sofferta di violenza edi sopraffazioni a cui lei risponde eresiste col suo canto potente, cheda racconto personale diviene sto-ria di tutta la sua terra.

Rosa è amica di artisti e di intel-lettuali, Leonardo Sciascia, Guttu-so, Pasolini, la voce è la sua arma equella di chi come lei viene schiac-ciato dalla società.

Correale nella sua regia cercacostantemente questa relazione, ildialogo tra la sfera intima e colletti-va, che è anche, appunto, la neces-sità dell’arte.

Rosa Balistreri così come ce laracconta il film diviene memoria diun passato mai finito, è un pezzodi un paese, il nostro, che in Siciliamostra al massimo i suoi conflitti.La voce di Rosa ci parla di battaglieche accomunano un popolo e cheancora oggi sono attuali. E il confi-ne su cui vive la sua musica, tragi-co e pieno di dolcezza, continua aessere nel nostro tempo.

di Maria Grosso

«Capirete Rosa Balistreri quando sa-rò morta, quando sarò viva mai. Perché protesto,ho ragione di protestare e chi mi capisce capirà».Se comprenderla interamente è impossibile, eralei stessa a dirlo, se tradurre i suoi pezzi dal dialet-to siciliano si può, ma c’è qualcosa che irrimedia-bilmente sfugge, allora non resta che cercarla trale note irraccontabili del suo canto, fosse il primoo il millesimo ascolto.

Altra possibile via è seguire le tracce di Rosa Bali-streri, «cuntastorie e cantastorie» siciliana, come siautodefiniva, per le strade della canzone popolare,espressione della storia della sua terra e non solo(fu lei stessa a consegnare alla biblioteca di Licata,il paese in provincia di Agrigento dove era nata nel1927, i materiali frutto delle sue ricerche di una vi-ta, perché fossero patrimonio delle generazioni avenire). E poi c’è il suo tracciato esistenziale, comecorpo inseparabile dal canto, miniera di esperien-za, drammi nel dramma come matrioske e monta-gne russe di vissuti di confine. L’infanzia scalza epoverissima, lavorando con il padre che aggiustavasedie, le violenze di lui verso la madre, mentre a leidiceva: «zitta, perché le buttane cantano», poi quel-le del marito anche mentre era incinta, fino a quan-do non tenta l’uxoricidio e si costituisce (dal vissu-to in prigione germina Noi siamo nell’inferno carce-rati ispirato a testi dell’800, come più avanti attinge-rà a quelli della Resistenza e a un afflato di protestauniversale). Quindi la fuga: Firenze, mille lavori e lemolestie del prete presso cui lavora come sacresta-na, l’assassinio della sorella da parte del cognato, fi-no a quando assistendo a un recital di Buttitta, sen-te che quella è la sua via, che vuole cantare al mon-do, a cominciare dalla storia di sua sorella.

Per tutti questi sentieri si è mosso Nello Correa-le, autore del documentario La voce di Rosa, in an-teprima all’ultimo Taormina Film Festival. Pen-sava già dovesse esserci un lavoro dedicato a Bali-streri, poi ha scelto di aprire lui quella «finestra»,perché altri continuino a cercare. La sua una scel-ta insofferente a stereotipi e giudizi, tra materialidi per sé splendidi, testimonianze video di Rosa eun suo racconto audio, raccolto da Giuseppe Can-tatore per una biografia progettata poco primache morisse nel 90. E poi il passato, Sicilia anni 50,essere donna e andare oltre la sopravvivenza, il le-game tra i gesti del lavoro e il canto popolare - lostudia Dario Fo che la vuole per Ci ragiono e canto(ma sarà vicina anche a Buttitta, Guttuso, Sciasciae a quanti si arrovellano sui nodi della Sicilia).Quindi il presente di Licata oggi, insieme a un con-certo tributo svoltosi a Catania nel 2008: tante vociintorno a Rosa, tra cui Carmen Consoli (che tantol’ha rivissuta col suo canto), Giorgia, Rita Botto,Marina Rei, e per lei quel fiore rosso che chiedevaalla sua morte. Il tutto attraverso un filo di metaci-nema al confine col teatro, orchestrato con intelli-genza e rispetto. Come chiede la voce di Rosa. Vo-ce di donna che grida nel deserto. Voce che cullache nutre che consola. Voce che raschia, che attra-versa pietra. Il canto era il suo pane e cantava perse stessa. Canti di protesta? N’aiu a milioni, diceva.Nun è lu scantu ca ferma lu caminu.

Come sei arrivato a Rosa Balistreri?Non l’ho conosciuta, ma l’ho incrociata 35 anni faa Milano. Frequentavo il gruppo di artisti sicilianilegati a Dario Fo. La vidi a un recital di Buttitta, pre-sentava Consolo. Mi apparve terragna, diretta, au-tentica, modi d’essere che trasformava nella suapoetica. Era bella. Una faccia pasoliniana che qua-si incuteva timore. Quando però la sentii cantare,percepii un dolcezza e una linea quasi infantile: ap-parentemente un paradosso per una icona propul-siva e in bianco e nero quale lei poi è stata conside-rata.Ho cercato di cogliere questa varietà di note nel-l’incipit del film, scegliendo il suo primo piano, lesue lacrime e la sua emozione, mentre ascolta But-titta che la ritrae poeticamente. In quell’occasio-ne, sentendosi colta in un nervo vivo, Rosa non rie-sce a trattenersi e il suo viso fluisce. Ho sentito que-sta mancanza di autocontrollo, questa reattività vi-

scerale come il suo tratto più autentico e insiemecome la sua capacità vera di spezzare le catene.

Mi colpisce quello che dici, vorrei che appro-fondissi... La vita di Rosa Balistreri, con lesue ferite e il suo travaglio gigantesco, è co-me costellata di punti di azione violenta ecrudele in senso artaudiano, di ineludibileattraversamento di confini, penso, tra gli al-tri, al momento in cui pugnala il marito.

Lei non si controlla, non perché sia borderline, maperché si nutre alla sorgente di ciò che ha vissuto,sentito e respirato con la sua stessa pelle: nella vi-ta ha problemi non da poco e affronta momentiche le lasciano un segno profondo. È come una diquelle piante grasse in certe zone arse della Sicilia:piccole, le foglie sparute, a distanza si nascondonodietro le dune e quasi non le vedi, ma se provi astaccarle, ti accorgi che hanno radici profondissi-me, coriacee, invincibili. Quando parlo di mancan-za di autocontrollo, intendo questa presenza asso-luta nel mondo. Rosa è radice e tronco.

Tra le immagini più radianti del film per meci sono quelle dei minatori nudi sottoterrache scavano.

Quei fotogrammi non sono direttamente collegatial discorso (si parla della raccolta delle olive), ma liho scelti perché cercavo un’immagine che espri-messe la fatica della fatica, che non solo si sente,ma si vede. E lì si percepisce il rantolare dei mina-tori. La voce di Rosa era come un motore sempresotto sforzo. Partiva al massimo, quindi la tensio-ne di tenere alta la nota, che poi si scioglieva in unsorriso.Nel suo canto c’è il legame con il lavoro in-teso come sforzo, ma anche come pienezza dell’es-sere al mondo, misto di pesantezza e bellezza.

Hai intitolato il film alla sua voce.Come dice Giovanna Marini, Rosa non è una a cuibisogna «aggiustare» le note. Lei è così e basta. Sel-vatica. A Palermo ho proposto che la sua voce siaconsiderata patrimonio dell’Unesco. In questosenso il film vuole aprire una strada perché altricontinuino ad abitare la memoria di Rosa Balistre-ri. Un tracciato che esula dalla Sicilia e che coinvol-ge tutto il Mediterraneo. Presenterò il documenta-rio a Rabat. Per loro è come se Rosa fosse maroc-china, non cambia nulla. Per lei vale ciò che disseMoravia ai funerali di Pasolini, di poeti ne nasconopochi in un secolo.

Lucilla Galeazzi la chiama «Billie Holiday si-ciliana».

Anch’io credo che intimamente sia una cantanteblues, uno di quei casi in cui biografia e opera so-no inseparabili. Chi conosce la vita di Billie Holi-day sa che è stata per così dire «distratta» dalla feli-cità. Rosa Balistreri ha avuto un’esistenza di que-sto tipo, e insieme il temperamento e l’incazzaturadi una Nina Simone. Per questo con lei il confinedella musica popolare salta e si espande a un pia-no universale. Come si spiegherebbe altrimentiche malgrado sia morta nel 90, rarissimamenteascoltabile in tv o attraverso i dischi, ancora oggiragazzi da varie parti del mondo la cercano e vo-gliono conoscere la traduzione dei testi delle suecanzoni?

Dal film traspare il desiderio di raccontareRosa Balistreri oltre gli stereotipi , di cercarela sua leggerezza anche nella pesantezza enella drammaticità delle donne del sud (e lodico da donna nata in Sicilia).

Nella lettura dei suoi contemporanei Balistreri erasempre incazzata. In quell’epoca di musica moltocolorata le sue canzoni erano considerate cupe elei una sorta di gitana inquietante. Invece Rosa ave-va una giocosità forte, un senso ironico della vitadebordante, un brillio quasi infantile, come si dice-va. A Palermo insieme a Guttuso faceva feste congrandi cantate e mangiate. È questo spirito com-plesso, questa energia multiforme che arriva oggifino ai giovanissimi che fanno ska. Allora vuol direche attraverso la musica si è creato un varco.

Avevi a disposizione materiali molto forti,parlanti, e in gran mole. Si percepisce chehai dovuto fare delle scelte, anche di tipo eti-

co rispetto al racconto della vita di Rosa..Non volevo fare un lavoro giudicante, così ho deci-so di lasciar fuori alcune cose. Per esempio nelle re-gistrazioni raccolte da Giuseppe Cantavenere perla biografia di Rosa c’era il suo racconto dello stu-pro subìto quando lavorava in una vetreria. Paroleinsostenibili nella loro semplicità, che pure ho de-ciso di non inserire nel film, perché non volevo ali-mentare intorno a lei un cliché di vittima, di don-na tartassata dalla storia, non volevo che fosseidentificata con questo episodio, come spesso av-viene in questi casi sui giornali o in certe trasmis-sioni televisive anche di denuncia. Rosa si ribella.Prima al padre, poi al marito, poi al prete che è unaltro padre, quindi alla Chiesa. Rompe con il pote-re maschile in tutte le sue forme. In questo senso èun film politico. Un film per me può essere lin-guaggio, strumento e anche arma. Amo i film di lin-guaggio, ma in questo caso ho scelto di fare unfilm col desiderio che sia strumento di una presadi coscienza.

Rosa, indossando una tonaca, cantava «Ma-fia e parrini (preti) si déttiru la mano»...…

Il suo è un pezzo con una forte valenza sociologi-ca. Oggi sarebbe la prima a cui metterebbero il ba-vaglio. In realtà non era una mangiapreti come tiaspetteresti da quel testo. Rosa era intimamenteispirata dal Verbo di Gesù e nel filmato di reperto-rio dice espressamente all’intervistatore, ti vogliodire le parole del Verbo.

Come hai concepito la struttura del docu-mentario?

Volevo evitare lo schema di un lavoro costruitosulla voce off. Così l’ho strutturato come un musi-cal, dove le canzoni anticipano quello che accadràe commentano quello che è successo. Da tempoconoscevo Donatella Finocchiaro, sapevo del suodesiderio di cantare. Lei ha una voce alla JeanneMoreau di Jules et Jim. Mi ha detto di volersi ci-mentare con i pezzi di Rosa Balistreri, qualcosa dimolto distante dalle sue corde, eppure ancora unavolta un segno della forza di Rosa. Così abbiamocominciato a scrivere tentativi di un progetto tea-trale, un recital sull’impronta di quello fatto in Por-togallo su Amalia Rodriguez.

Una delle vie di ricerca che si percepiscono infuori campo nel documentario è l’indagine su Lica-ta oggi, sul vissuto dei suoi abitanti e delle donnein particolare. Indagando su Rosa, chiedendo allagente di lei, ho raccolto un materiale di 30 ore. Do-mandavo chi sono oggi i pirati a Palermo? pensan-do alla famosa poesia di Buttitta musicata e canta-ta da Rosa. Ho avuto molte risposte. La mafia, gliaccaparratori dell’acqua... Uno mi ha detto che i pi-rati sono i lati bui che ciascuno si porta dietro almattino, che evita di guardare per tutto il giorno eche la sera si ritrova accanto. Si può essere schiavidi un territorio che sprizza felicità da tutti i pori. Il tema del buio ricorre paradossalmente in un luo-go così avvolto dal sole come la Sicilia. I siciliani (eio mi devo ricordare di non essere nato lì), che nonvogliono guardare la realtà, stanno «o scuru».

Come ti sei posto da uomo rispetto a un vis-suto di donna così deflagrante? Penso a vocicome quelle di Goliarda Sapienza e FrancaViola.

Appartengo a una generazione che ha visto dalla fi-nestra le rivoluzioni delle donne, in tempi in cuianche volendo non era possibile partecipare. Mol-te cose determinanti sono accadute, ma il nastro èanche tornato indietro. Ho due figli, un maschio euna femmina, il rapporto con mia figlia è più trava-gliato, ma sento che il confronto con una donna at-tiene più al profondo. Per il film il punto di vista diLucilla Galeazzi è stato per me come una chiave divolta. Per cercare di comprendere certe donne,noi uomini dobbiamo essere coraggiosi, passarecerte soglie. Se una ninna nanna è il canto di prote-sta di una madre che chiede per il figlio un mondomigliore, di certo è diversa se la canta una donnaborghese che si alza alle nove e che ha chi l’aiuta, ouna donna che ha lavorato fino alle dieci di sera eche deve alzarsi alle quattro. Rosa prendeva quellatradizione, quella metrica e le faceva sue in modoindescrivibile. La sua ninna nanna ha radici testar-de, ramificate e anche più oscure.

Se non ora quando ricordare il destino di Rosa Balistreri la cantastorie

che impastò le sue canzoni con la povertà, le ferite e il riscatto. Un film racconta

la sua capacità di spezzare le catene e di crearsi un varco attraverso la musica

ALIAS N. 29 - 23 LUGLIO 2011 (3

Il ManifestoDIRETTORE RESPONSABILENorma RangeriVICEDIRETTOREAngelo Mastrandrea

AliasA CURA DIRoberto Silvestri

Francesco Adinolfi(Ultrasuoni),Federico De Melis,Roberto Andreotti(Talpalibri)ConMassimo De Feo,Roberto Peciola,Silvana Silvestri

REDAZIONEvia A. Bargoni, 800153 - RomaInfo:ULTRAVISTAfax 0668719573ULTRASUONIfax 0668719573TALPA LIBRItel. 0668719549e [email protected]:http://www.ilmanifesto.it

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Regista e sceneggiatore, Nello Correale nasce a Merca-to San Severino (Salerno). Laureato in filosofia, si diplo-ma in regia presso la Scuola Cinema di Milano e fre-quenta il Corso di Regia Teatrale presso la Scuola delPiccolo Teatro di Milano. Il suo esordio alla regia è «Ol-tremare» (’99), quindi «Sotto gli occhi di tutti» (2003),mentre come sceneggiatore firma «Il viaggio della spe-ranza di X.Koller» (Oscar miglior film straniero nel ’91) e«Luna e L’altra» di Maurizio Nichetti.Ampia la ricerca documentaristica che conta tra gli altri«I ragazzi della Panaria» la storia della casa di produzio-ne siciliana fondata da quattro rampolli dell’aristocraziadi cui l’ultimo superstite, l’ottantenne principe France-sco Alliata racconta le avventurose vicende, tra cui laproduzione di «Vulcano». Per realizzarlo Renzino Avan-zo, uno dei quattro amici, chiamò il cugino RobertoRossellini poco prima che, lasciata la Magnani, iniziassea girare con Ingrid Bergman a Stromboli. Altri documen-tari firmati da Correale sono «The floathing Church»girato in Russia e «The wolf on the drum», prima produ-zione italo kazaka. Insegna presso il Conservatorio Cine-ma e Arti visive di Lugano.Ha ideato e dirige, dal 2000, il «Festival Internaziona-le del Cinema di frontiera di Marzamemi» in Siciliache quest’anno ha luogo dal 25 al 30 luglio con filme corti in concorso e una personale dei film di Anto-nio Capuano.

IL REGISTA

Tre immagini di Rosa Balestrierie sotto da sinistra: Faisal Taher,Donatella Finocchiaroe Vincenzo Gangi

In copertina, il nuovoMuseo del Novecentoa Milano, con l’affacciosu Piazza del Duomo.Si ringrazia la casaeditrice Electa

di Michele FumagalloBARI

La Puglia vanta, nella sto-ria del cinema, uno dei primi teorici,Ricciotto Canudo (1877-1923), natoa Gioia del Colle e trasferitosi a Pariginel 1902, autore di «Riflessioni sullasettima arte» e altri saggi divenuti ce-lebri e anticipatori di tendenze. Ric-ciotto è stato praticamente uno deiprimi ad affrontare la questione delpaesaggio nel film. L'idea di Canudoera che il paesaggio fosse a tutti gli ef-fetti un personaggio. E probabilmen-te mai avrebbe immaginato che lasua terra sarebbe stata una delleespressioni più tipiche e usate daquesto punto di vista. Dapprima setoccasionale di produzioni nazionali,la Puglia è divenuta in seguito set ri-cercato per svariate ragioni: per i costi contenuti, per l'ambiente ricchissimodi scenari naturali e storici.

Una data spartiacque potrebbe essere il 1990: anno di La stazione il film diSergio Rubini, pugliese di Grumo Appula salito alla notorietà nazionale dopol'interpretazione de L'intervista di Federico Fellini. È il regista più importante enoto che ritorna nella sua terra che sarà quasi sempre in seguito scenario deisuoi film. Poi si sviluppa l'Apulia Film Commission (data di nascita: luglio2007) che ha il compito di promuovere il rapporto tra cinema (televisione, pub-blicità) e territorio. Così il tacco dello stivale diviene meta di riferimento di tan-ti registi pugliesi che ritornano alle proprie origini, o anche non pugliesi chescelgono questa terra come set dei loro film (Cristina Comencini ad esempio),e infine di registi pugliesi ben trapiantati nel loro territorio che diviene una sor-ta di «villaggio globale da cui guardare il mondo» (Edoardo Winspeare, Nico Ci-rasola, Alessandro Piva, tra gli altri). Questi ultimi sono, forse per il fascino che

l'idea di autonomia trasmette, puntodi riferimento di tanti giovani registi.«Attraverso il cinema è possibile recu-perare un'apertura verso mondi pos-sibili senza perdere di vista il propriomondo, senza rinnegare le proprieorigini?» si chiede Angela Bianca Sa-ponari, curatrice del volume Puglia:passeggiate nei film edizioni Proge-dit, ultimo di tanti testi (ma non vadimenticato il fondamentale libro diOscar Iarussi, Ciak, si Puglia. Cine-ma di frontiera 1989-2001, uscito die-ci anni fa per la Laterza) che stannouscendo sul rapporto tra paesaggio ecinema in Puglia, dove un organi-smo come la Film Commission (chein Italia seguono spesso le vicissitudi-ni di tanti enti regionali che moltipli-cano sprechi e privilegi della casta) la-vora con un certo profitto riuscendoad essere attrattiva per produzioninazionali e internazionali, oltre a va-lorizzare qualche autore locale. Co-me ci ricorda Edoardo Winspeare, re-gista cinematografico salentino, so-no lontani i tempi in cui DomenicoModugno, pugliese di Polignano aMare, si faceva passare per siciliano,e il foggiano Renzo Arbore per napo-

letano. Oggi c'è semmai la corsa a ri-vendicare la più piccola ascendenzalocale. Come direbbe Humphrey Bo-gart: è l'epoca del Puglia Style, bellez-za, e non puoi farci niente. E tutte leespressioni artistiche rivendicanol'orgoglio pugliese fatto di mare, ca-stelli, chiese, oliveti secolari, murettia secco e quant'altro. Ma è qui cheiniziano i problemi e che il concettodi territorio può essere pericoloso senon è coniugato nel verso giusto dinuova rivoluzione dal basso. Ma tan-t'è. La Film Commission pugliese vaavanti: con film già in circolazione(Giorgia Cecere e altri), altri che sistanno girando, altri che raggiungo-no le programmazioni dei vari festi-val. E con essa i contributi scritti, tracui il volume succitato, frutto di unprogetto dell'università di Bari, chemisura il rapporto tra paesaggio e ci-nema in una regione già vitale negliultimi anni in campo musicale. E, iro-nia della sorte, è da lontano che par-te la prima curiosa valorizzazionedella Puglia. Da un film, I ponti diMadison County, girato nello Statoamericano dell'Iowa, incursione nel-

la grande storia d'amore di Clint Ea-stwood. Quando la protagonistaFrancesca (Meryl Streep) racconta alfotografo Robert (Clint Eastwood) diessere di origini baresi, e Robert lasconvolge dicendole che conosce Ba-ri, nei cinema pugliesi dove fu proiet-tato il film quando uscì (1995, quan-do ancora la Puglia non era cinema-tograficamente attrattiva come og-gi), la meraviglia fu enorme. Nei filmgirati all'estero si parlava del Sud del-l'Italia e in genere i nomi più diffusierano Napoli, o Capri, o Ischia. Chesi insistesse così tanto su Bari in quelfilm determinò un curioso stuporenegli spettatori pugliesi. MaristellaTrulli, docente universitaria e autricedi un saggio nel libro su menzionato,racconta: «Quando il film venne pro-iettato a Bari, il pubblico ebbe espres-sioni di autentica meraviglia quandosentì che la Streep rivelava sulloschermo di essere di Bari. Questonon era mai successo nel cinemaamericano. Lo stupore aumentòquando il protagonista ammise di co-noscere la città e di averla trovata pia-cevole». «Ma il meglio - continua

Trulli - doveva ancora venire: i due sisono amati e quando, a lei che chie-deva di essere portata lontano, giun-se la proposta di andare a Bari, la pla-tea uscì in un'unanime esclamazio-ne di stupore che divenne subitoaperta disapprovazione, come senon riuscisse ad identificare la cittàcon una meta di fuga, di rifugio ro-mantico per una coppia adulterina».Dunque l'immagine di Bari alloraera quella di un'eterna città di provin-cia non in grado di offrire svaghi anessuno e tanto meno a due ameri-cani. Un'immagine che, poi, è anda-ta sempre più cambiando mano amano che la Puglia diveniva set dimoltissimi film, anche se la regioneaveva iniziato una prima rinascita ci-nematografica, musicale e letteraria,agli inizi degli anni 90. Un nome sicu-ramente è quello di Edoardo Winspe-are. «Grosso modo da allora - raccon-ta - in Puglia si è prodotto molto cine-ma. E, contemporaneamente, si èavuta una rinascita delle arti in gene-rale: da Caparezza ai Sud Sound Sy-stem, dal ritorno di Carmelo Bene aGianrico Carofiglio. Ma questa terraprima di allora non esisteva nell'im-maginario collettivo». Poi è venuto iltempo del Puglia Style, delle statisti-che che riportano i dati di una regio-ne in cima al turismo nazionale edestero. E le cose sono cambiate. An-cora Winspeare: «In Puglia c'è unabassissima percezione del paesaggioe per lo più falsata. Per esempio tuttiparlano della bellezza del Salento,ma io racconto anche le brutture pre-senti in quel territorio: la riduzionedi alcune zone a discarica e la conse-guente scomparsa del mondo conta-dino ritenuto arretrato e rozzo. Neimiei film voglio non solo raccontarela bellezza del paesaggio pugliesema anche mostrare le responsabilitàe le colpe della borghesia meridiona-le, la latitanza di chi si accontentadella bellezza dei monumenti Perme è importante mostrare degrado ebellezza, altrimenti si corre il rischiodi fare retorica». Ma nel triplo giocodi sguardi tra il personaggio del film,il regista che gira e lo spettatore cheguarda che ruolo può avere il paesag-gio pugliese? Il corso dell'universitàdi Bari, i libri che stanno uscendo e illavoro della Film Commission prova-no a rilanciare la domanda agli altriterritori italiani.

BITCH SLAP - LESUPERDOTATEDI RICK JACOBSON; CON JULIA VOTH, ERIN

CUMMINGS. USA 2009

0Si ispira ai film degli anni ’70sul genere «Ciao Pussycat».Bmovie di azione, ragazze

sexy, macchine veloci. Le tre interpreti(Julia Voth, Erin Cummings e AmericaOlivo), cercano di rubare 200 milioni didollari a un boss della criminalità orga-nizzata viaggiando fino a un nascondi-glio nel deserto. Dal regista di diverseserie tv come Hercules, Xena principes-sa guerriera e Baywatch. E si vede. Acominciare da Kevin Sorbo, l’Herculesdella tv, Lucy Lawless e Renée O’Connor(entrambe da Xena) che qui interpreta-no una coppia di suore.

CAPTAIN AMERICA - ILPRIMO VENDICATORE(3D)DI JOE JOHNSTON; CON WITH CHRIS EVANS,

HUGO WEAVING. USA 2011

0Il personaggio creato da JoeSimon e Jack Kirby nel 1941,è stato il simbolo di propagan-

da dei paesi liberi durante la secondaguerra mondiale, poi cacciatore di comu-nisti durante la guerra fredda, ma dal ’64in poi divenne il difensore delle classipiù deboli dalla corruzione della societàamericana. Dopo un serial tv del 44 eCaptain America del ’90, arriva il film in3D. Giudicato non idoneo al serviziomilitare, Steve Rogers si offre volontarioper un progetto di ricerca che lo trasfor-ma in Capitan America, un supereroevotato alla difesa degli ideali della suanazione.

AT THE END OF THE DAY -UN GIORNO SENZA FINEDI COSIMO ALEMÀ; CON STEPHANIE

CHAPMAN-BAKER, SAM COHAN. ITALIA 2011

0Un gruppo di amici si inoltrain una foresta per una giorna-ta dedicata al softair, il tiro

sportivo che simula le tattiche militari,con fucili ad aria compressa. Ma nonsanno che quel posto in passato è statouna base militare dove avvenivano ope-razioni segrete. Qualche dubbio che nontutto procede sportivamente lo avverto-no quando uno di loro cade ucciso daun vero proiettile e la giornata si trasfor-ma in una paurosa caccia all’uomo.

SEGUE A PAG 10

■ FILM COMMISSION ■ UN LIBRO TRA I SET ■

Tempo di Puglia Style

«Puglia:

passeggiate nei

film», un libro che

esplora la recente

scoperta

dei paesaggi

della regione

da parte

del cinema,

che la sceglie

sempre più spesso

per le location

con l’apporto

di una attiva

Film Commission

Dall’alto: «Housefull» di SahidSajid; «L’uomo nero» di Sergio

Rubini; in basso: la gru con testaremotata del service E-Motion diLecce sul set di «È stato il figlio»

di Daniele Ciprì

LETALE

INSOSTENIBILE

RIVOLTANTE

SOPORIFERO

CLASSICO

BELLO

COSI’ COSI’

CULT

MAGICO

4) ALIAS N. 29 - 23 LUGLIO 2011

ALIAS N. 29 - 23 LUGLIO 2011 (5

■ SOCIAL NETWORK ■ COME DUE STELLE NEL MARE ■

Carlotta e Akmed,fermata Piramide

di Alice Rinaldi

Non è solo un libro Co-me due stelle nel mare di CarlottaMismetti Capua. Anzitutto è unastoria vera, di quelle che hanno labellezza della casualità e la profon-dità dell’ostinazione, poi è un grup-po su facebook, è la communityche si è creata intorno, infine è il li-bro che contiene pezzi di vita, dipensieri, di status da socialnetwork.

Ogni capitolo del libro inizia in-fatti con un titolo e un piccolo afori-sma digitale che funge da sottotito-lo o da citazione in incipit, conquell’immediatezza emotivamente chiara - mi dispiace perchi odia i social – che quasi fa dimenticare di leggerlo, il titolo.Il libro inizia così: «Oggi ho incontrato quattro ragazzini afga-ni sull’autobus, scendevano alla mia stessa fermata: Pirami-de. Hanno camminato sei mesi per arrivare a Roma». E già«mi piace». L’anima del libro sta infatti dentro internet, ma haun altro nome, La città di Asterix, che è proprio ciò che diceAkmed - protagonista della storia, «5000 km a piedi a 16 anni»- appena riconosce Roma: dalle montagne dell’Afghanistanl’aveva vista attraverso i fumetti di Goscinny e Uderzo, e gra-zie a questi lui sa dove si trova, meglio di qualsiasi mappa.

Questo libro multimediale – non pensate a fibre ottiche,piuttosto immaginatevi la ricchezza comunicativa dei mediache si incontrano e si mescolano, dalle parole dette a quelle

digitate a quelle stampate – parladel pregiudizio, che è fatto in dueparti: la prima parte aiuta il nostroorientamento nel mondo, la secon-da cerca di ucciderlo, impedendo-ci, letteralmente, di muoverci, diviaggiare, di offrire la nostra testaspalancata a tutto ciò che ci circon-da. Riuscendo a bilanciare le dueparti si accetta la sfida – divertente- di non fare come al solito: Carlot-

ta non rifiuta la possibilità. La sto-ria, il gruppo, il libro, i lettori e tut-to il resto non sarebbero mai natise non ci fosse stata una curiositàiniziale: «ciao, da dove venite? Co-me vi chiamate? … le domandesemplici che si fanno quando lepersone le guardi negli occhi» oltrela pelle, oltre i vestiti, oltre i suonidelle parole, oltre l’ah, sti rumeni’ –perché ormai sono tutti rumeni, co-me prima erano tutti albanesi e do-mani saranno tutti egiziani… per-ché sono due anni che alla tv dico-no: allarme, orda, son rumeni. E in-vece sono afgani con le felpe di co-tone» in inverno, «ragazzini… ed èesattamente così che cose enormicome la guerra diventano normali,e tutto diventa banale, così banaleche non vediamo più nulla. E se di-ciamo ciao da dove venite? allorasiamo pazzi. Allora tutti zitti, pernon sembrare pazzi, tutti fermi».

Ma Carlotta ferma non ci sta perniente, decide di fare qualcosa. Dàun appuntamento ai ragazzi all’in-domani, ma trova solo Akmed e percercare di interagire con lui in mo-do umano - oltre la burocrazia delleassociazioni, dei commissariati, deiCentri Territoriali Permanenti, deidormitori, perfino di un ospizio nel-la Marsica - diventerà «cittadina»,«giornalista», «benefattrice»… manessuna odiosa definizione sembrapoter agevolare una comunicazio-ne tra i due. Akmed, con tutti i suoidiritti da rifugiato, viene trasportatocome un pacco a cui nessuno parla,tranne Carlotta attraverso un cellu-lare comprato al volo alla stazioneTermini. Alla fine lei troverà la suadefinizione: Nonna Papera appren-siva, circondata da una serie di pic-coli Quo più illuminanti di tutti gli

adulti messi insieme.Il muoversi, le mappe, viaggi e

cammini sono nodi fondamentalidel libro. La mappa ossessiona Car-lotta, vorrebbe trovare qualcosache orienti Akmed. Un modo co-me un altro, forse il più gentile, di«dare una mano», letteralmente.Nel frattempo, citaziomane, riem-pie il libro di «haiku, proverbi o afo-rismi» come «fili nel caos», altri tipidi mappe on the road, da Macha-do che crea il cammino camminan-do all’Elogio ai piedi di Erri De Lu-ca – «perché portano via». Cerca dilegittimare questo percorso di lega-me con Akmed, mentre ironizzasul suo nonnapaperismo - l’osses-sione della mappa – concludendoperò che «non è che basta uno stra-dario nella vita per non perdersi.Anche perdersi però è una strada».E non è detto che sia brutta. Baste-rebbe più curiosità, virtù particolar-mente sottovalutata. Essere curiosinon è fico come essere belli o intel-ligenti, nonostante sia mille cose:non è solo andare, cercare, muo-versi, appunto, ma è anche chieder-si continuamente, parlarsi, cono-scersi.

Carlotta si parla, si interroga suquesto incontro con Akmed, men-tre ci racconta un po’ di cose: dellaguerra che «è fatta così: è cieca, maci vede» perché «i bambini sono leprime vittime dei conflitti armati,soprattutto nelle guerre moderne»,della bellezza delle cose invisibili,come il Circo Massimo, dell’imba-razzo della contentezza «come ca-pita a sedici anni»; dell’Afghani-stan - «un pugno col pollice in al-to» che sfiora la Cina - dove «le ra-gazze mica passano per strada, aparte che sono coperte, ma è vieta-to proprio» e dove «più di 130milaafgani sotto i 18 anni sono stati uc-cisi dalle mine antiuomo: circa 10milioni di mine sono ancora den-tro la terra, nascoste come semi. Il60% dei bambini non ha più un ge-nitore o, come nel caso di Akmed,li ha persi tutti e due»; ci racconta

delle notizie arrivate e subito fuggi-te: «Uno. Maroni lancia l’allarme:in Italia traffico d’organi di minori.Nel 2008 su 1320 minori approdatia Lampedusa, circa 400 sono spari-ti». Alché viene da chiedersi… e i1300 del 2011, dove sono? Comestanno? Che fanno? Sindrome daNonna Papera.

«Due. Proteste contro l’arrivo dioperai italiani nelle raffinerie dellaGran Bretagna», l’altra faccia dellamedaglia che ci si scorda sempre, e«Tre. Undicenne afgano trovatomorto mercoledì sera a Mestre».Carlotta ci esorta a «unire i punti-ni» come nella Settimana Enigmi-stica, e devo dire che il disegno chemi sono fatta in testa io non è pro-prio un ombrellone con il sole e lasdraio. Ci racconta anche cose diRoma che non sappiamo: la vitaquotidiana di chi è appena sfuggi-to da una guerra e non ha lingua epermesso di soggiorno e quindinon può avere neanche lavoro, sol-di e una casa - «cosa fate tutto ilgiorno?», «niente, andiamo in gi-ro». «In giro. Senza amici, senza uneuro per prendere la metro, senzauna mappa. Tutto il giorno, per leg-ge: dalle 8.30 alle 18.30. Anche sepiove o tira vento». Proprio ’sti ru-meni’ che stanno buttati nei par-chi senza fare niente.

Il rifiuto che traspare è notevole,perfino quello degli amici: «no, scu-sa, è troppo deprimente», «ma ame cosa cacchio me ne frega?»,«questi ragazzi hanno delle storie,delle storie che per carità», «guardache se pensi di aiutare qualcuno aquesto mondo chiedendo agli altriti stai sbagliando di grosso». Que-sta è la realtà, ma per fortuna conla fantasia si ride un po’, dal dialo-go immaginario con D’Alema, allatelefonata alla polizia come «suoralaica» o il titolo – tanto - liberatoriosui quotidiani: «Italia, è casino». Infondo anche Carlotta ride tutte levolte che si scontra con la burocra-zia italiana, talmente inflessibileche diventa paradossale: «peremergenze e casi umani lasciateun messaggio». In ogni caso involu-ta: «nel 212 d.C. Caracalla estese lacittadinanza a tutti gli abitanti deiterritori conquistati, oggi 8 bambi-ni nascono qui, da genitori stranie-ri, ogni ora. Figli a cui la legge offreun percorso meno giusto che aitempi di Caracalla, e in ogni casolentissimo. Dopo i 18 anni posso-no fare richiesta di cittadinanza, lapratica può durare altri 10».

A un certo punto del libro Carlot-ta cita una frase che la stava facen-do rimanere «secca»: «Nella batta-glia tra te e il mondo, lascia che vin-

ca il mondo». Era l’aforisma nume-ro 52 di Kafka, sicuramente non fa-moso per il suo ottimismo, ma haun senso e lei vorrebbe parlarnecon lui per capire perché si sentecosì incapace di dargliela vinta.Ogni sua parola rivela questa «bat-taglia»: «non fare agli altri quel chenon vorresti fosse fatto a te, dicevaGesù e io credo intendesse tutto:quello che fai, il modo in cui lo fai,il motivo per cui lo fai». Io potrei ag-giungere Stuart Mill: «L'umanità ot-tiene maggiori vantaggi tollerandoche ciascuno viva come gli sembrameglio, anziché obbligandolo a vi-vere come sembra meglio agli al-tri». Darsi l’occasione di vedere lastraordinarietà della semplicità dicerte menti umane - quando un let-to e una coperta, un «it’s a palace»e «not a camp», già cambia tuttonegli occhi di qualcuno -, quellementi che ti fanno «vedere un sac-co di cose, perfino casa mia; cheuno pensa di conoscerla bene, lapropria casa» o che riescono a spie-gartele con due parole, Akmed «miha detto che sull’autobus c’era unasignora che lo guardava come se loconosceva. Ed è tutto qui».

Per il resto credo sia impossibilevincere il mondo, ma l’importanzadi «incazzarsi come una bestia»per tutto ciò che non va non è dasottovalutare. Troveremmo moltepiù stelle nel mare.

Ruota intorno

all’incontro

con un ragazzino

afgano il libro

di Carlotta

Mismetti Capua.

È una storia vera,

di quelle che

hanno la bellezza

della casualità

e la profondità

dell’ostinazione.

E poi è un gruppo

su Facebook

Al centro la copertina del libro.Sotto ritratti eseguiti da Caterina

Notte, per il gruppo sortosu Facebook, di Luca Bonifacio,

protagonista della storia,e dell’autrice del libro,

Carlotta Mismetti Capua.Sono in preparazione

le versioni ipadcon video e cartoni...

COMMUNITY

6) ALIAS N. 29 - 23 LUGLIO 2011

di Elena ZapponiL’AVANA

Nella vita quotidianadell’Avana c’è molta più magia diquanto si possa pensare seduti nel-la penombra del patio dell’HotelNacional, sguardo al Malecón. Lacrisi dell’esserci, che Ernesto DeMartino indicava come vacilla-mento e perdita della presenza almondo nel mezzogiorno italianodel dopoguerra, appare all’Avanaun pericolo costante, da ovviarecon strategie religiose rigenerativequali la transe o lavori, trabajos eammares, che sciolgono fatture emalocchi o, al contrario, ne formu-lano. Così, ad un’antropologa chestudia la reinvenzione della sante-ría può accadere di essere avvisatadall’affittacamere della casa parti-cular in cui dorme nel Vedado, distar attenta e di non intervistare

santeras/os di cui non ha previe referenze, dinon parlare con chiunque, perché «metti, se c’èuna persona malata, potrebbero rubarti la tuaenergia per darla al malato e poi ti ritrovi amma-lata» o perché «magari ti offrono un caffè per far-ti una macumba, così poi ti inna-mori di un santero». Questa stessapadrona di casa, la quale si dichia-ra a più riprese atea e non interes-sata a «esas cosas», tornando sul-l’argomento durante un caffé mat-tutino, qualche giorno dopo, com-menterà che a Cuba ormai tutti sifanno passare per santeros e baba-lawos. Insistendo, davanti a quelloche interpreta come un eccesso dibuona fede, mentre cerco di spie-garle che il mio criterio euristiconon riposa sul binomio vero/falsoe che l’incontro con i santeros«ciarlatani» può anch’esso rientra-re nella ricerca, per sottolineare i ri-schi che corro, apre la credenzadella sala da pranzo e assertiva di-ce: «Vedi questo è il mio altare,questo sono i miei orichas, alloraanch’io potrei essere una santera».E si scopre che anche Dania, chein «queste cose» non ci crede, è sta-ta a consultare vari santeros, si èiniziata e ha fatto iniziare sua figliain età adolescente perché ammala-ta di dolori allo stomaco che i me-dici non riuscivano a curare. La fi-

glia guarisce, Dania dice di nonpraticare più, però conserva i suoisanti e ogni tanto, tra una telenove-la e l’altra e un ospite europeo el’altro, gli fa una preghiera e un’of-ferta: «Non si sa mai».

Nello stesso modo, non creden-ti, parenti di credenti, lasciano chei loro familiari gli facciano qualchetrabajo o seguono il consiglio dicompiere periodiche limpiezas(pulizie), orientate alla personama anche ad oggetti e luoghi. Unafaccenda lustrale frequente riguar-da gli spazi della casa, da purifica-re da spiriti malevoli e dal maloc-chio; un'altra, la macchina, il cuitetto deve rimanere cosparso peruna serie di giorni di una polverebianca, formula determinata prin-cipalmente dalla macerazione delguscio delle uova.

Il mercato religioso cubano èmolto più fluido e mobile di quelche la vecchia Europa monoteistapotrebbe immaginare. La santeríao Regla Ocha, definita all’inizio delXX secolo brujería, stregoneria, nel

libro Los negros brujos di Fernan-do Ortiz, è oggi probabilmente lareligione più diffusa a Cuba. Essasi mescola con il culto d’Ifá e conun’altra regla sacra di origine afri-cana: il palo monte o Regla Conga,sistema di credenza dei Congos,nome dato agli schiavi Bantu pro-venienti dall’Africa centrale.

La santería e il culto divinatoriod’Ifá, erano invece la religione de-gli schiavi d’origine yoruba, chia-mati a Cuba Lucumí: questo popo-lo del sud-ovest della Nigeria e del-l’est dell’attuale Benin, organizza-to in città stato, credeva negli ori-chas, sorta di antenati mitici, divi-nità fondatrici del luogo e della di-nastia regnante.

La pratica della santería è stret-tamente connessa a quella del pa-lo monte ma anche a varie formedi spiritismo, penetrate a Cuba du-rante il periodo neocoloniale

(1902-1952) sotto l’influenza statu-nitense. Una stessa persona può«rayarse en palo» (iniziarsi), passa-re poi alla santería e contempora-neamente, successivamente o al-ternativamente praticare lo spiriti-smo. Lo stesso specialista religio-so può indirizzare il credente dicui è padrino o madrina versouno specialista dell’altra religio-ne, stimando che per esempiouna messa spiritista o il tradiziona-le uso delle erbe dei paleros aiute-rà a risolvere il problema quotidia-no che affligge l’adepto. Ugual-mente, può esser consigliata lapartecipazione alle messe cattoli-che e la frequentazione delle chie-se mentre il battesimo, ritenutouna pratica utile al potenziamen-to della crescita spirituale, è spes-so indicato come necessario perl’iniziazione del futuro santero.

La santería è genericamente de-

scritta come un sincretismo, termi-ne tanto frequente quanto mutevo-le, applicato anche al candomblébrasiliano. Ma vari autori, a partiredagli anni ‘50, hanno contestatoquesta definizione, chi per ragioniinterpretative e etimologiche - Ro-ger Bastide, sostenitore della pu-rezza del candomblé, il quale prefe-riva il concetto di interpenetrazio-ne di civiltà all’idea di mescolanzaespressa dal sincretismo - chi perragioni ideologiche - antropologibrasiliani critici verso la valenza co-loniale o neocoloniale del concet-to, considerato troppo intrecciatoa giudizi di valore su una presuntainferiorità della religione dei domi-nati. Il citato antropologo Ortiz,considerato oggi il padre degli stu-di sulla cultura afrocubana, in un li-bro pietra miliare, El contrapunteocubano del azúcar y del tabaco - incui tra l’altro conia il termine «afro-cubano» - propone una definizio-

ne alternativa: la «transculturazione». Tornato sulle proprieposizioni iniziali e sulla definizione della santería comebrujería sullo stimolo del suo discepolo mulatto Rómulo La-chatañeré, l’autore del Manual de Santería (1942) in cui perla prima volta viene affermata in maniera esplicita la volontàdi riabilitazione di questo sistema religioso, Ortiz si dedica

appassionatamente allo studio del-la cultura afrocubana.

In scambio dialettico con l’antro-pologia britannica e in particolarecon Bronislaw Malinowski, il famo-so patrigno del concetto di osserva-zione partecipante, che firma l’in-troduzione del Contrapunteo, Or-tiz, desideroso di sostituire il termi-ne etnocentrato di acculturazione,identifica nella storia coloniale cu-bana il «trapasso» di elementi dellacultura africana e di quella biancadi matrice spagnola: pur dominati,gli schiavi non son vinti, come testi-monia la resistenza ai dogmi ege-moni espressa dalla santería, feno-meno di transculturazione in cui simescolano la religione africana e ilculto dei santi barocco.

El contrapunteo, pubblicato nel‘40, è un denso e appassionante vo-lume dallo stile brillante, che com-bina il tono da saggio antropologi-co, la denuncia sociale della condi-zione nera e le rivendicazioni raz-ziali a un carattere da feuilleton eromanzo da salotto, ricco di cita-zioni tratte da cronachette, erbari,trattati medici, note e apologie digesuiti e viziosi cardinali del ‘700romano nonché da versi di poeticubani o spagnoli quali Quevedo,Lope de Vega e Tirso de Molina. Inqueste folte pagine, l’uragano cul-turale introdotto dalla Conquista edalla schiavitù e la relazione tra Cu-ba e l’Europa sono ripercorse a par-tire da un dato strutturale: la fab-bricazione, diffusione ed esporta-zione del tabacco e la produzionedello zucchero a Cuba.

Il termine transculturazione ap-pare immerso in un affresco rievo-cante il movimento delle navi chesolcano l’oceano, circolando tra ilvecchio e il nuovo mondo e quellodelle mani dei congos e dei lucumíche avvolgono sigari precursori deiPartagas e Romeo e Julieta ormaicelebrati sinonimi della cubanità.

La storia del tabacco permettedi illustrare una prima transcultu-razione: quella dall’ambiente deisuoi consumatori, gli indigeni taí-nos, al mondo multietnico deglischiavi africani congos e lucumí,che nei loro riti magico-religiosiconservano il carattere catarticodel fumo, stimolo per la possessio-ne nella santería e nel palo monte,repertorio materiale assieme ad al-tri elementi derivati stavolta dai co-stumi dei brujos bianchi, qualil’aguardiente, il vino seco bevutodai soldati spagnoli e dai mercena-ri, le candele e i ceri. Nella santeríafumano tabacco uomini e dei. Il si-garo distingue Changó, Eleguá eOgún, orichas guerrieri che maneg-giano il fuoco.

Il secondo processo di transcul-turazione studiato da Ortiz è il pas-saggio del tabacco, deprecata yer-ba del diablo, dal contesto subalter-no afrocubano al suolo europeo,dove esso, introdotto nei salotti sei-centeschi da clero e cardinali, di-viene sostanza che distingue laclasse egemone. Mentre il tabacco

■ LA SANTERIA E LA RIVOLUZIONE ■

Spiriti dell’Africae sigari del CheUn’antropologa all’Avana per scoprire come il mercato religioso cubano sia

molto più fluido e mobile di quel che la vecchia Europa monoteista si

immagina. La santería è oggi probabilmente la religione più diffusa a Cuba

VIAGGIO A

conquista il mondo, a Cuba essoviene onorato più di Cupido e Bac-co, cantato come dio benefico chesolleva dai dolori umani. Nell’800diventa una seconda bandiera cu-bana, simbolo dei mambises e del-la storia patriottica, come testimo-nia José Martí, padre della lottaper l’indipendenza e eroe della na-zione repubblicana, nei suoi versi:«La hoja india, consuelo de medita-bundos, deleite de soñadores, ar-quitectos del aire, como fragrantesdel ópalo alado».

Nuovamente icona alla fine delperiodo neocoloniale, il legame ta-bacco-cubanità si rinnova nellavoluta di fumo della rivoluzione enei sigari dei barbudos e del CheGuevara.

Ma torniamo alla santería, chesecondo il termine transculturazio-ne proposto da Ortiz, consiste inun sistema nuovo, bricolage speci-ficamente cubano di credenze afri-cane e cattoliche, composto di riag-giustamenti e reinvenzioni. Nel cor-so degli anni ‘40 e ‘50 gli studi di Or-tiz, Lachatañeré e Lydia Cabrera se-gnano un’epoca. La cultura afrocu-bana, riscoperta dalle loro ricercheetnografiche, è valutata come par-te ingente del patrimonio naziona-le cubano. Il passo successivo saràfatto con la rivoluzione. La sante-ría, sincretismo che combina il cul-to barocco dei santi spagnoli agliantenati mitici yoruba (tra gli ori-chas-santos più noti: Obatalá/Vir-gen de las Mercedes, Yemayá/Vir-gen de Regla, Ochún/Virgen de laCaridad del Cobre, Changó/santaBarbara, Babalú Ayé/san Lazzaro,Eleguá/ sant’Antonio di Padova),diventa il simbolo di un’identitàche lotta e resiste al cattolicesimoegemone. Nel laico contesto rivolu-zionario, le danze e i ritmi segretidegli schiavi celebrati nei barraco-nes loro dimora di fronte ad altariimprovvisati, diventano espressio-ne di cubanità. Sono altrettantobenvenuti gli studi sui cabildos denación, sorta di società di mutuosoccorso africane tollerate daglischiavisti, che, ricostituendo lega-mi etnici, in mancanza di quelli fa-miliari disintegrati dalla tratta, fun-zionarono come nucleo di trasmis-sione della tradizione bantu e yoru-ba. Ma la promozione governativadella cultura di origine africanaopera in un senso preciso: la riabili-tazione non insiste sull’aspetto reli-gioso bensì su quello più generaledella cultura nera cubana e sullesue manifestazioni estetiche efolkloriche quali la musica, la dan-za, la mitologia. Le religioni afrocu-bane, descritte come reliquie e su-perstizioni del passato, ormai incorso di disintegrazione, rappre-sentano una memoria storica na-zionale della resistenza nei con-fronti dell’invasore europeo.

Questa politica di istituzionaliz-zazione della cultura afrocubanamira a elidere il rischio di un radica-to e possente livello di cultura su-balterno interno, eventualmentedannoso per l’unità nazionale. Ma

essa partecipa anche di un’altra lo-gica che si interseca con il presup-posto precedente: la Cuba africanatestimonia i limiti della Cuba bian-ca e cattolica delle classi medie e su-periori di origine europea. Ricono-scere la matrice africana è promuo-vere la nuova costruzione naziona-le, dire una volta di più, e sotto al-tra forma, che Cuba è fatta di cuba-ni, bianchi, neri, mulatti e cinesi an-che. La santería, nel cui culto ognioricha africano ha anche il volto diun santo cattolico e in cui, come de-scritto da Lydia Cabrera nel tomoEl Monte, i malefici dei chinos sonotemuti come i più malvagi, poichésolo gli stessi chinos possono disfar-li, è una chiave di lettura di tuttoquesto, del miscuglio di razze e cul-ture che forma la cubanidad.

Negli anni ‘80 le autorità politi-che esprimono una maggiore tolle-ranza verso la religione. Il lídermáximo, come riportato nel libroFidel y la religión, intervista tra Ca-stro e il teologo della Liberazionebrasiliano Frei Betto, dichiara chela religione «non è in sé né un op-pio né un rimedio miracoloso».Ma è durante gli anni ‘90 ed il criti-co periodo special en tiempo depaz che si afferma un vero revivaldelle varie espressioni religiose dif-fuse a Cuba e in particolare della

santería, il cui radicamento nel tes-suto sociale appare ora esplicita-mente sulla scena pubblica.

Nel 1995, l’Associazione cultura-le yoruba (ACY) a cui aderisconosanteros/as e babalawos (i sacerdo-ti che rappresentano il più alto gra-do gerarchico nella santería) desi-derosi di ufficializzare la loro cre-denza, viene ubicata per volontàdel governo in Habana Centro, aqualche centinaia di metri dal Ca-pitolio Nacional. Mentre questacollocazione traduce nello spaziourbano il recupero delle radici afri-cane, l’associazione diventa un ri-ferimento istituzionale per la sante-ría. I numerosi congressi mondialiyoruba che vi si organizzano e ilmotto «Ifá ayer, Ifá hoy, Ifá maña-na» riferito al culto di Ifá, l’arte del-la divinazione legata alla città sa-cra nigeriana di Ilé-Ifé, indicanoun riferimento alla tradizione afri-cana nazionale ma anche a un ecu-mene yoruba transnazionale e aun mondo globalizzato dalla sco-perta delle Americhe e dalla trattadegli schiavi. All’interno dell’ACYsi trova una libreria, una caffette-ria, una boutique e soprattutto, undidattico Museo degli orichas, incui si è rigorosamente accompa-gnati da una guida che sottolineal’autenticità della religione africa-

na cubana, non contaminata dalmonoteismo cattolico che colpi-sce l’Africa al punto che «anchedal Brasile vengono qua per studia-re, perché è qui la culla, è qui chesi è conservata l’autentica tradizio-ne degli schiavi».

Ma aldilà della realtà dell’ACYche, insistendo sulla componenteyoruba della santería, opera peruna sua desincretizzazione e reafri-canizzazione, le applicazioni dellaRegla Ocha all’Havana sono molte-plici e in molti casi più interessatealla risoluzione di problemi praticied immediati che alla risoluzionedi dibattiti teorici. Questa religionedell’immediato aiuta a resolver, co-me si dice in cubano, problemiche riguardano principalmente lasalute, il lavoro e l’amore. Le tradi-zionali familias de santos in cui siorganizzano i credenti si riunisco-no in base a vari criteri di affinitàche non si risolvono nel fattore et-nico: la santería è un linguaggio dicondivisione di una comuneascendenza africana ma essa è an-che praticata da familias estrema-mente miste, composte da neri,bianchi e mulatti, che si formanosulla base di una solidarietà diquartiere, di genere o di preferen-ze omosessuali. Ed è anche un lin-guaggio che attrae gli stranieri epermette a santeros/as e baba-lawos di alimentare una discretaeconomia informale fatta di divina-zioni, ingredienti magici ed istru-zioni, a volte iniziazioni.

Fuori dalla Chiesa della Virgende Regla, patrona della baia del-l’Avana, che sincretizza con il poten-te oricha femminile Yemayá, dea le-gata alla maternità e all’oceano, chi-romantiche figure vestite di biancooffrono ai turisti letture della manoe dei tarocchi. Contemporanea-mente, all’ombra della pietra dellacattedrale e del Palacio de los Capi-tanes Generales, mulatte sonnolen-te che nascondono l’età sotto la ma-schera di nastri e merletti della san-tera, completata dal tradizionale si-

garo, offrono sorrisi e invitano lo straniero a posa-re in foto. Nelle boutique dell’Habana Libre Ho-tel, nel cuore del Vedado, accanto all’attrezzaturada spiaggia, alla locandina del film Fragole e cioc-colato e alle magliette del Che Guevara, un eserci-to di bamboline di Yemayá e Ochún, ordinate inranghi nel loro scaffale guarda al di là della vetri-na la vita ed i passanti scorrere in Calle L. Solo i

CUC, la moneta degli stranieri, po-tranno portarle via.

Intanto, nelle case di chi prati-ca, gli orichas stanno in altare, nel-le zuppiere di porcellana in cuil’entità è supposta incorporarsi, incompagnia di offerte ai morti e dibóvedas espirituales (offerte spiri-tuali), bicchieri d’acqua dedicatiagli spiriti. In Habana Centro, in ru-dimentali botteghe chiamate tien-das de religión, non identificabilidal forestiero al milieu della sante-ría, inservienti affannati dispensa-no da dietro il bancone candele,aguardiente, noci di cocco, erbe,semi, collane e braccialetti degliorichas che solo gli iniziati posso-no indossare.

I venditori del mercato dei fioria pochi metri sanno che ogni ori-cha vuole il suo colore e il suo peta-lo. E nel bugigattolo dietro la pom-pa di benzina Hatuey, mentre la600, il maggiolone o il cocotaxi diturno si fermano, diffondendo nel-l’aria l’ostentato suono del reggae-ton, viene rapidamente vendutauna colomba o un gallo, abilmentemaneggiati in vista di un sacrificioagli dei.

Nella credenza diffusa in questomondo magico si fonda e alimentala struttura della santería, religionedell’immediato che lega in un rap-porto di protezione e riverenza cre-dente e orichas, angeli guardianidal carattere mondano, generosi evolitivi, sensuali, suscettibili, spessoiracondi, con cui viene intrattenutauna quotidianità basata sul recipro-co ascolto di volontà e desideri.

L’oricha vuole una festa, un’of-ferta, dell’aguardiente, dei fiori,del vino seco o del miele. Il prati-cante vuole risolvere un incantesi-mo d’amore, sbarcare il lunario,guarire da una malattia, protegge-re una gravidanza, comprarsi unpaio di jeans, un giorno viaggiare.

La santería-brujería che meritòad inizio ‘900 lo studio di crimino-logia antropologica di Ortiz è prati-cata da molti cubani, ormai aperta-mente ed armonicamente creyen-tes e revolucionarios, per poter co-struire e ricostruire il mondo e se-guire la buona regla di vita.

E mentre questo universo labo-rioso di ritualità, formule yorubareinventate e tradizioni tramanda-te palpita e la Cuba dei turisti tin-tinna nel ghiaccio e le foglie dimenta di un mojito, è frequente ilvedere in città gli iyawós, i neo-ini-ziati alla religione, che durante unanno intero devono rispettare l’ob-bligo rituale di vestirsi di bianco datesta a piedi, intersecare lo spaziourbano marcato dai murales deiComitados de la revolución.

La bianca figura dei nuovi natinella santería si sovrappone perun attimo alla scritta, scolorita osfavillante, a seconda del quartieree dei fondi investiti «Con la guar-dia in alto- -Todo por la revolu-ción - - Seguimos el combate».

SE NON PAGHI DICO A TUTTIDELLE TUE VISITE AI SITI WEB PORNOAlzi la mano chi non conosce al-meno qualcuno che, durante leore morte sul posto di lavoro o acasa propria la sera tardi, visita sitiporno o scarica sul suo computerfilmini hard. No, no, per carità nonfacciamo nomi, sappiamo tuttiquanto chi ha questa passione, ovizio, ami l'anonimato. Per pauradell'ira dei genitori, se è ancora unragazzino, o perché trema all'ideache i suoi figli, se è già adulto, sco-prano cosa fa il loro papà mentreloro dormono pacifici. Ed è pro-prio sfruttando questo senso dicolpa e di vergogna che ancoraavvolge il mondo della pornogra-fia che ora, negli Stati uniti, è scop-piata l'ultima guerra contro la pira-teria informatica. Scatenata dallevittime, ovvero i grandi produttoridi film come Illegal ass 2, che han-no cominciato a fare causa a chise li vuole vedere gratis.La «Third degree films» ne ha giàdenunciati 2000, ma si calcola chetra lei e le sue consorelle, nel solo2010, abbiano cercato di portarein tribunale oltre centomila perso-ne. Per ora nessuno è davvero arri-vato davanti a un giudice, né forseci arriverà. Perché l'idea delle caseproduttrici è un'altra. Convincere isuoi «nemici» ad arrivare a un ac-cordo, ovviamente monetario, perevitare che tutti vengano a cono-scenza del loro hobby.Il tutto comincia con la richiestaformale di accesso agli indirizzi IPda dove sono stati scaricati i film.Una volta ottenuti questi (e non èdifficile, la pirateria ricordiamolo èun reato) partono le lettere degliavvocati. Migliaia e migliaia con-temporaneamente, visto che gra-zie alle cause collettive si rispar-miano un bel po' di soldi. Ed è diquesto che si parla, come spiega-no le missive degli avvocati dellecase produttrici. «Gentile signore,sappiamo tutti quanto sia costoso,in termini di denaro e di tempo,avere una causa aperta in tribuna-le - recita ad esempio una dellelettere inviate da Evan Stone, avvo-cato del Texas - Se voleste quindiarrivare a un accordo extragiudizia-le...». Le cifre da pagare non sonostratosferiche, si va dai 2000 o3000 dollari, ma se l'incauto «pira-ta» non risponde subito, cresconopiù o meno di 1000 dollari a ogninuova lettera degli avvocati deiproduttori. «La gran parte dellagente accetta, terrorizzata all'ideache tutti sappiano che ama la por-nografia» racconta Graham Syfert,avvocato di Jacksonville, in Florida,uno dei tanti subissati dalle accora-te telefonate di chi ha ricevuto lalettera che li incrimina. Quasi sem-pre sono ragazzi, ma a volte a chia-mare sono i loro genitori, dal cuicomputer, a loro insaputa, è statocommesso il reato.Adesso però forse qualcosa cam-bierà. Perché qualche segno diribellione alle lettere ricattatricic'è. Un diciottene, studente dellaPurdue University, ad esempio, haappena intentato una causa alla«Third degree films» invocando ildiritto alla privacy. E, come diceSyfert, potrebbe anche vincerla.«Molti giudici stanno rendendosiconto dell'incredibile operazionemessa in piedi dalla case produttri-ci, e paiono decisi a intervenire».

CUBA In senso orario:Yemaya,Virgen de Regla;due altari per l’orichaOchun;una santera;una coppia che ballauna rumba

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8) ALIAS N. 29 - 23 LUGLIO 2011

■ INCONTRI ■ LA SCIENZA IN CARNE E OSSA ■

Anche i Nobela volte ballanoUn'isola sul lago di Costanza.

Un meeting internazionale di studiosi.

E un Paese (non il nostro) che tiene alla scienza.

Viaggio tra le menti più brillanti del pianeta,

a cavallo tra due generazioni

di Silvia Bencivelli

Lindau è un posto incui, al passaggio a livello, puoicontare 32 biciclette e un’auto-mobile. È un posto in cui si puòorganizzare un barbecue in rivaal lago per 1500 persone, sapen-do che si siederanno tutte dili-gentemente al loro tavolo da «fe-sta dell’Unità». Ed è un posto incui, da 60 anni, si accolgono pre-mi Nobel e centinaia di giovaniscienziati da tutto il mondo, co-me se fosse normale avere suqualche ettaro di terreno unaconcentrazione di cervelli chein Italia manco a considerarlatutta intera, e a volerle propriobene. Ma Lindau è un posto co-sì. Si trova in Baviera del sud, sullago di Costanza. Ha il centrostorico su un’isola collegata allaterraferma da due ponti: a veder-la su Google maps sembra quasiuna Orbetello lacustre. E dal1951 è la sede del Lindau NobelLaureate Meeting: una settima-na di inizio estate a base di in-contri, come recita lo slogan,per educare, ispirare e connette-re.

Quest’anno si è tenuto nell’ul-tima settimana di giugno. C’era-no anche scienziati italiani: co-me gli altri, scienziati giovani esuperselezionati, che però sem-bravano quasi stupiti di esserequi. Perché, spiega, senza na-scondere l’entusiasmo, ChiaraMandò, biologa fiorentina al-l’università di Milano: «in Italianon lo conosce praticamentenessuno. Ed è davvero un pecca-to, e anche un po’ una vergo-gna: è un evento gigantesco!».

C’erano anche scienziati ita-liani, dicevamo, ma non i politi-ci italiani. C’erano invece 9 mini-stri europei e il rappresentantetedesco, che all’inaugurazionedel meeting ha raccontato l’or-goglio di un Paese che ospita unsimile appuntamento e che inve-ste tanto nella scienza e nella ri-cerca. Ha portato i saluti del ca-po del governo che, si sa, in Ger-

mania è attento alla cultura, e aquella scientifica in particolareanche perché è laureato in fisi-ca. Ma se aveste chiesto all’orga-nizzazione se ci fosse da qual-che parte un rappresentante delgoverno italiano, la risposta sa-rebbe stata no. E se la domandasuccessiva fosse stata un inge-nuo ma voi li avete invitati? vi sa-reste sentiti replicare con un pic-cato no comment.

Peggio per loro: a Lindau, neigiorni del meeting, si potevanofare due chiacchiere distese con23 premi Nobel per la medicinae per la chimica. Chiara Mandò,per esempio, è ancora lì che gon-gola per aver cenato con uno diloro: «il biochimico israelianoAvram Hershko con la moglie!Fantastico vedere come lei lobacchettasse rimproverandolodi continuo, ad esempio perchéparlava a volume troppo basso ei ragazzi più distanti non riusci-vano a sentirlo. Eh, le donnehanno sempre una marcia in

più, anche quando il Nobel nonè lei ma il marito».

C’era il Nobel che lavora sullamalaria e quello che ha inventa-to un sistema per capire la fun-zione dei geni, spegnendoli unoalla volta. C’era quello che ha ca-pito come funziona l’ossido ni-trico sulle cellule dei vasi sangui-gni (e per esempio ha permessodi produrre il Viagra). E c’eraquella che ha studiato il pezzet-to terminale dei cromosomi chea ogni replicazione della cellulasi perde, spiegando perché (perfarla breve) non si può invec-chiare all’infinito.

Tra loro si potevano conosce-re 566 giovani scienziati venutiqui da 77 paesi del mondo, dal-l’Albania allo Zambia, ansiosi diassistere alle lezioni dei Nobel edi scambiarsi esperienze. Cia-scuno di loro aveva un cordinogrigio al collo (azzurro i Nobel)con scritto nome e nazione diprovenienza, ma metà di loro al-la domanda «where are you

from?» rispondeva con una dop-pia nazionalità, una di nascita euna scientifica: lavoro in Germa-nia, ma sono costaricano. Ven-go dagli Stati Uniti, ma sono cu-bana. Qui c’è scritto Svezia, masono egiziana. C’era anche unsikh col turbante, qualche africa-na con le treccine, molti nordeu-ropei alti e biondi, tanti cinesiche salutavano sorridendo. Epoi nordafricane, indiani sec-chioni, americani vestiti da cesti-sti. «Il rapporto con gli altriyoung researcher è stata una del-le cose più belle. Nonostante ladistanza culturale, abbiamo con-diviso scienza e divertimento.Le serate danzerecce sul tetto diun bar davanti al molo e le im-pressioni sulle lezioni dei Nobele sul nostro lavoro. Che poi èquello che ti insegna la scienza:a confrontarti e a condividere.La scienza è anche una maestradi vita, in fondo».

Già, perché siccome non era-no qui solo per prendere appun-

ti durante le sessioni mattutinedei Nobel, le serate prevedeva-no cene sociali ed eventi di variotipo, compresa un’enorme «po-lonaise», cioè un ballo di gruppobavarese. Maschi da una parte efemmine dall’altra, un garofanorosso in mano, si veniva associa-ti in coppie più o meno improba-bili, per poi finire a ballare un gi-gantesco walzer per 700 perso-ne. Al biofisico svedese potevatoccare in sorte una biologa in-diana in sari, di 40 centimetripiù bassa, mentre all’araba vela-ta con la gonna lunga capitavaun cavaliere nerd in cravatta,goffo e un po’ imbarazzato. Lascienza è fatta anche così, ce lohanno appena spiegato.

Poi, per fortuna, in Germaniaci tengono al «gender balance»:le donne al meeting erano nume-rose quasi quanto gli uomini (il46% degli scienziati, ti dicevanocon orgoglio, mentre si dovevafar finta di non notare che tra iNobel le donne erano solo due).L’inaugurazione, per esempio.Ad aprire i lavori, la contessa Bet-tina Bernadotte, con un cappelli-no da matrimonio reale britanni-co. È la figlia del conte LennartBernadotte, che nel 1950 dette ilvia alla tradizione dei Nobel sullago di Costanza, e oggi è la pre-sidentessa del Council per il No-bel Lindau Laureate Meeting.Con lei c’è Wolfgang Schürer,che dello stesso Council è il por-tavoce. Mentre lei introduce ilrappresentante (maschio) dellaNobel foundation di Stoccolma,che ogni anno assegna i premi, eil rappresentante (femmina) delministero dell’educazione e del-la ricerca, lui introduce i duenuovi membri (maschi) del sena-to della Fondazione: Martin Eng-stroem e (attenzione) Bill Gates,in qualità di magnati, rispettiva-mente, della musica e dellascienza. Ma poi la tavola roton-da di apertura dei lavori riequili-bra il tutto, con Bill Gates e unaNobel (femmina, israeliana) aconfronto con due giovani scien-ziati (uno maschio bianco e unafemmina nera).

Dopo l’inaugurazione, le lezio-

ni. Alle nove del mattino, pun-tualissimi, gli young scientistriempivano la sala per sentireun signore di quasi 80 anni rac-contare i propri studi e lanciarsiin qualche infinita filippica sul-l’etica dello scienziato. Altri, dal-la cattedra, impartivano consiglida vecchie volpi della ricerca tracui l’inatteso non fatevi impres-sionare dai premi: sono quasisempre una questione di fortu-na, che detto da un premio No-bel fa sicuramente un certo effet-to. E più il maestro era anziano,più la sua lezione diventava au-toironica e appassionata, quasidensa di affetto per questi 600 ra-gazzi pronti a pendere dalle lab-bra di uno che ha passato la vitaal bancone di un laboratorio, elo ha trovato il lavoro più affasci-nante del mondo.

Fino all’ultima lezione, quelladi Christian de Duve: 94 anni eun bastone da passeggio con cuiindica le diapositive come unvecchietto di Lunari. Ha guarda-to la platea e, con la voce tran-quilla di chi si congeda con meri-tata serenità, ha detto «the futu-re is in your hand, good luck». Egiù lacrime, tra i ragazzi, chenon erano nemmeno nati men-tre lui riceveva il suo premio aStoccolma, ma anche tra le ho-stess del meeting e i giornalistinel loro angoletto stampa. Stan-ding ovation per il vecchio scien-ziato.

E per tutti un ritorno a casache dev’essere stato pieno dipensieri, come quello di Chiara:«è stata un’esperienza indimen-ticabile, un bagno di emozioni.Forse, alla fine, quello che mi hacolpito di più è stato il mio cam-biamento: all’inizio ero abbaglia-ta dai Nobel, li vedevo inarrivabi-li. Poi, ascoltandoli, vedendolida vicino, mi sono sorpresa a es-sere perfino critica con qualcu-no di loro. Forse era questo chevolevano insegnarci: a essere cri-tici, anche verso la scienza». Se ècosì, viene quasi da pensare chenon sia stato poi tanto male chei politici italiani non si siano pro-prio visti.

www.effecinque.org

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ANOTHER SUNRISEItalia, 2011, 4’, musica: Planet Funk, regia:

David Gallo, fonte: Mtv

6 La formazione di musicaelettronica è alle presein questo clip con la pra-

tica dello skydiving, ovvero paraca-dutismo di gruppo. Alcune video-camere sono applicate diretta-mente ai corpi dei musicisti-atletie restituiscono visioni vertiginosee grandangolari del volo e del sug-gestivo panorama aereo. Ad atten-dere gli eroi a terra una Hyundai120 sound edition (il brano deiPlanet Funk funge da colonna so-nora per lo spot dell’autovettura).Another Sunrise in definitiva nonè male, anche perché può conta-re su una discreta spettacolaritàvisiva che coinvolge, insieme alritmo del brano, lo spettatore egli trasmette un grande senso dilibertà.

INCUBUSUk, 2011, 4’, musica: Adolescents, regia:

autore ignoto, fonte: Mtv Rocks

7 Una vecchia Rolleiflexcompare all’inizio e allafine del clip e sugella le

visioni in bianco e nero che si sus-seguono, riportandoci all’immagi-nario fotografico dell’era analogi-ca. Tutto Incubus si basa sull’esi-bizione della band inglese in tea-tro di posa, ma filmato con unelegantissimo ed efficace giocodi luci e ombre. Silhouette proiet-tate sulle pareti si sovrappongo-no, scandite dal dettaglio dellelampade che si accendono e sispengono. Molto estetica stileBauhaus.

FOLLOWING THERIVERUsa, 2010, 4’45”, musica: Rolling Stones,

regia: Julian Gibbs, fonte: Virgin Radiotv

8 Uno strepitoso lavoro difound-footage con mate-riali molto eteroegenei

(dagli anni Trenta fino agli anniSettanta) che ruotano tutti intor-no all’immaginario «on the road».Gli States attraversati sui classicitorpedoni, o in treno o in battello,dalla metropoli (Chicago) allecampagne, fino naturalmente allesponde del Mississippi. Ma la co-sa più riuscita del clip di Fol-lowing the River (incluso nell’al-bum Exile on Main St.) è l’elabo-razione cromatica – molte se-quenze sono in bianco e neroricolorate – che rende la texturecomplessiva più compatta e illavoro di compositing, in mododa sovrapporre insieme sfondi edelementi diversi. I Rolling Stonesnon compaiono mai, lasciandoche siano le immagini di reperto-rio, creativamente rivedute e cor-rette, a visualizzare un brano percerti versi struggente.

SOUL TO SQUEEZEUsa, 1993, 4’, musica: Red Hot Chili

Peppers, regia: Kevin Kerslake, fonte:

Youtube.com

7 Ambientato nel mondodel circo Soul to Squee-ze strizza l’occhio un

po’ a uno dei capolavori «male-detti» della storia del cinema, ov-vero Freaks (1932) di Tod Brow-ning, e un po’ a David Lynch, gra-zie anche all’uso del bianco e ne-ro. Il «front man» Anthony Kiedisin alcune inquadrature assume lesembianze della mitologica Medu-sa, con i serpenti al posto dei ca-pelli, mentre gli altri membri del-la band californiana si esibisconotra elefanti, clown, uomini-canno-ne e illusionisti immersi in unavasca d’acqua alla Houdini. Ker-slake gioca spesso con gli obietti-vi deformanti e con particolaritagli di inquadratura creando unclip fortemente surreale. Il singo-lo è stato utilizzato come colonnasonora del film Conheads.

L'INTERVISTA

Elogio degli errorie del divertimentodi S.B

Una delle lezioni piùapprezzate, nei 5 giorni di meeting,è stata la sua: quella di un 86eiennesorridente e un po’ gobbo scono-sciuto al grande pubblico, che è ve-nuto fin qui per dire soprattutto chefare scienza deve essere divertente.Oliver Smithies ha vinto il Nobel nel2007 insieme al nostro (nostro permodo di dire, visto che, nome a par-te, è più americano degli america-ni) Mario Capecchi per una tecnicadi biologia molecolare chiamata ge-ne targeting: una roba da addetti ailavori, ma non è questo il punto.

«Non è importante quello chefai, ma che tu ti diverta mentre lofai. Se ti diverti e lo fai bene, non èimportante che tipo di scienza sia».

Lei ha cominciato la sua lezio-

ne definendosi un bambinodella scienza. Un bambino, al-la sua età?

Sì, perché a fare scienza non crescimai. Un bambino è sempre in cercadi cose nuove, è curioso, mette undito qui, si affaccia là. E così unoscienziato, che mantiene viva la suacuriosità.

Ma allora perché parlare cosìtanto di errori ai giovani? Lasua lezione era un viaggio tragli errori scientifici che ha fat-to nella vita..

Perché anche loro ne fanno, ne fan-no un sacco, ed è giusto dire loroche è normale: è la scienza! Per im-parare a fare buona scienza, si impa-ra dagli errori. A volte ci vuole tem-po e poi scopri che stai ripetendo lostesso errore. Va così. La lezioneche mi sento di dare ai giovani è so-prattutto questa: per la scienza civuole tempo, bisogna saper sbaglia-re e soprattutto sapersi divertire.

Quando ha deciso di voler farela scienziato?

Oh, da piccolo. Solo che non cono-scevo la parola. A 7 anni dicevo divoler fare l’inventore, ma era il miomodo per pensare allo scienziato.

Ed è sempre stato divertentefare lo scienziato, davvero?

Beh, non è che sono immune all’in-felicità: se la scienza che facciosmette di divertirmi è l’ora di cam-biare scienza. E poi ci sono altre for-me di infelicità. Tempo fa mi hannodiagnosticato un’ipertensione es-senziale e mi ricordo di essermi sen-tito davvero depresso in quel mo-mento. E no, nemmeno la scienzaaiutava: non aiutava per niente, misentivo malissimo per avere avuto

quella diagnosi. Ma non mi sonomai abbattuto per i miei errori nellascienza. La maggior parte degliscienziati ha passato la maggior par-te del proprio tempo a fare esperi-menti che non hanno funzionato.Diciamocelo: il 90% della scienzasperimentale non funziona!

Ma, a un certo punto della suavita però è arrivato il Nobel..

Perché a un certo punto, finalmen-te, ho fatto un esperimento che fun-zionava! Ed era un esperimentopiuttosto importante. Si trattava dicambiare un gene. Ho pensato chefosse possibile prendere del Dna pu-rificato e infilarlo in una cellula epoi far sì che la cellula cambiasse ilgene. Ci abbiamo messo 3 anni per

avere i risultati dell’esperimento.

Che cosa le hanno chiesto i ra-gazzi, qui a Lindau?

Ieri sera a cena una ragazza polaccami ha chiesto che cos’è che potreb-be incoraggiare i suoi coetanei a de-dicarsi alla scienza. Credo che la co-sa più importante sia trovare un bra-vo maestro, capace di insegnare etrasmettere entusiasmo.

Lei sta ancora lavorando?Certo. Sto facendo un po’ di esperi-menti matti. Vorrei capire come fail rene a separare molecole di di-mensioni diverse. Perché il rene èbravo a buttare via le molecole pic-cole e a tenere quelle grandi (comegli anticorpi): da qualche parte c’èun meccanismo che separa il gran-de dal piccolo.Molti pensano di averlo già capito,altri pensano che si stiano sbaglian-do. Per me la faccenda è molto sti-molante.

di Bruno Di Marino

10) ALIAS N. 29 - 23 LUGLIO 2011

SEGUE DA PAG 4

HANNADI JOE WRIGHT; CON SAOIRSE RONAN, CATE

BLANCHETT. USA, GB GERMANIA 2011

0Una quattordicenne che hasubito fin da piccola unduro addestramento milita-

re dal padre (Eric Bana), agente dellaCia, con lo scopo di farne un killer, èmandata in missione in Europa.

MONTE CARLODI THOMAS BEZUCHA; CON SELENA GOMEZ,

LEIGHTON MEESTER. USA 2011

0Commedia romantica conadolescenti.. Tre ragazzeraggiungono il sogno di

andare in vacanza a Parigi, ma devo-no fare rotta per Monte Carlo dopoche una delle ragazze, mentre si tro-va nella hall di un Grand Hotel vienescambiata per una ereditiera inglese,con immediato seguito di paparazzi,giornalisti del gossip e aerei privati.

L’ALBERODI JULIE BERTUCCELLI; CON ADEN YOUNG,

CHARLOTTE GAINSBOURG. FRANCIA

AUSTRALIA 2010

5Film di chiusura di Cannes2010, fuori concorso, pro-duzione franco-australia-

na, opera dalle ambizioni poetiche,promessa di una cineasta legata aiset di Kieslowski, Tavernier, Ioselia-ni, e autrice di un titolo pluripremia-to (Semaine de la Critique 2003 eCésar per il miglior esordio), Depuisqu'Otar est parti. Documentarista,la giovane Bertuccelli si avventuraagli antipodi dietro il romanzo OurFather who art in the Tree di JudyPascal, ambientato negli arsi territo-ri del Queensland. A caccia dellasospensione dell'incredulità, cercan-do l'equilibrio con il sovrannaturalee la magia di Peter Weir, L'alberoricade indietro, sradicato e non solometaforicamente. L'albero è unenorme ficus, cattedrale aborigenaconficcata nel terreno, sovrastantel'edificio abitato da Dawn (Gain-sbourg) e dai suoi quattro figli. Lasottile linea che divide la realtà del-l'immaginazione qui si dissolve insegni premonitori inconcludenti, invisioni di paesaggi gialli, e in unestenuante menage familiare. (m.c.)

BALLKAN BAZARDI EDMOND BUDINA, CON ARTAN ISLAMI,

CATHERINE WILKENING, EDMOND BUDINA,

VERONICA GENTILI, LUCA LIONELLO. ITALIA

ALBANIA 2011 -

7Albania del sud o Epiro delnord? In questa zona sisvolge il conflitto di Bal-

lkan Bazar, ballata balcanica. Potreb-be sembrare una commedia dell’as-surdo non fosse che pesca nella cro-naca. Julie con la figlia decide di an-dare a riprendere i resti del padre,ufficiale francese caduto in guerra,ma da Tirana il suo contatto le scortaverso un villaggio del sud, dove sidice sia stata avvistata la bara. Il mi-crocosmo del villaggio evidenzia irapporti di confine non certo pacificitra albanesi e greci, film corale dicontraddizioni, ma soprattutto basta-to su un fatto realmente avvenuto,lacompravendita delle ossa dei contadi-ni locali per riempire le tombe delmausoleo dei caduti greci in guerra,raccontata con leggerezza sul filodell’assurdo in un luogo dove tutto èpossibile. (s.s.)

5 (CINQUE)DI FRANCESCO MARIA DOMINEDÒ; CON

ROLANDO RAVELLO, STEFANO SAMMARCO.

ITALIA 2011

7Francesco Maria Dominedòè un attore (Fatti della ban-da della Magliana, Cover

Boy). La storia è ambientata al Quartic-ciolo, si ispira alla cronaca, ha un se-gno tutto maschile: cinque ragazzi,adolescenti in riformatorio, cercano ilcolpo grosso, quello che li possa fare

ricchi. Il punto di vista del regista è ec-centrico, a cominciare dalla scelta degliattori presi dal Grande fratello o dal-l’Isola dei famosi, prova a raccontarci lerelazioni tra maschi, il contesto in sérimane fuori campo. La macchina dapresa bracca i personaggi, il ritmo forteammicca alla loro adrenalina. (c. pi.)

THE CONSPIRATORDI ROBERT REDFORD; CON ROBIN WRIGHT,

JAMES MCAVOY. USA 2011

7La guerra di Secessione èterminata con la sconfittadei sudisti, ma il conflitto

ha lasciato strascichi: il 14 aprile ilpresidente Lincoln è ucciso da JohnWilkes Booth. Tra gli arrestati c’è an-che Mary Surratt, poiché le riunioniper organizzare gli omicidi venivanofatte nella sua pensione. L’abilità diRobert Redford e dello sceneggiatoreJames Salomon sta nel mostrarequanto sia difficile mantenere i nervisaldamente democratici di fronte aun attacco durissimo. In filigrana silegge quello che è avvenuto negliUsa dopo l’11 settembre e la letturadel film apre squarci inquietanti suipiani alti del potere. (a.ca.)

L'EREDEDI MICHAEL ZAMPINO; CON ALESSANDRO

ROJA, GUJA JELO. ITALIA 2011

7Tra giallo e commedia. Unastrada tra Marche e Abruz-zo penetra in una boscaglia

tra i monti ed ecco apparire la villa. Èl’eredità di Giovanni ricevuta dopo lamorte del padre, medico come lui. Iltempo di dare un’occhiata e ripartire.Ma le case vissute sono misteriose eGiovanni resta per valutare proprietàe terreni e iniziano subito le blandi-zie e le minacce dei vicini. Non sitratta solo di beni materiali ma diquell’oscuro emergere di paure eriprendere vigore. Film sull’elabora-zione del lutto, con gli oscuri mecca-nismi della cultura contadina chepescano nel profondo, tutte prove daaffrontare per diventare adulti. Atmo-sfera inconsueta, attori e maestranzedi alto livello per un bel viaggio nelmistero. (s.s.)

GIALLO/ARGENTODI DARIO ARGENTO; CON ADRIEN BRODY,

EMMANUELLE SEIGNER. ITALIA 2011

1Dario Argento rimane im-menso, elevando le pulsio-ni della sua estetica horror

ad artigianato shock del subconscio,a cardiogramma feroce di cento suc-cedanei. Nonostante le infinite diffi-coltà produttive, una trama sempli-ciotta e un cast (Adrien Brody, Emma-nuelle Seigner, Elsa Pataky) alla sban-do, Argento si conferma genio invisi-bile, un bambino che nella sua vitacinematografica migliora le coscienzeinteriori di ognuno di noi. Dario Ar-gento è anche il motivo per cui psico-logi e critici hanno ancora la sensazio-ne di esistere (per tanti motivi, senzariuscirci). Non a caso, i personaggi diGiallo possiedono tutti qualcosa difreudianamente irrisolto nella loroinfanzia, e un po’ come il grande de-miurgo raramente tornano nei luoghiin cui sono stati da bambini, se noncon la memoria. (f.bru.)

HARRY POTTER E I DONIDELLA MORTE. PARTE IIDI DAVID YATES CON EMMA WATSON, DANIEL

RADCLIFFE. GB USA 2011

7Dieci anni, otto film, e (perora) quasi sei miliardi emezzo di dollari di incassi,

la seconda puntata dell'ultimo capito-

lo delle avventure del mago Harry,pieno zeppo di azione, personaggiconosciuti che ritornano, creaturefantastiche e battaglie, laddove il filmprecedente lasciava più spazio all'in-trospezione, è il teatro dello scontrotra Harry e la sua nemesi, il serpenti-no, implacabile Voldemort. È anche,secondo la tradizione delle saghe,per ispirazione e ambizioni, il teatrodello scontro ultimo tra bene e male.Come per Star Wars e l signore deglianelli, con il susseguirsi dei film, ilmondo intorno a Harry Potter è diven-tato progressivamente più cupo, peri-coloso, apocalittico, la storia dellacrescita di Harry è la cronaca dellaperdita di un'innocenza. Progettoanomalo, forte, nel panorama delblockbuster hollywoodiano del terzomillennio, è sprofondato in una palet-te di neri, grigi e marroni di tristezzalancinante, i sopravvissuti sono palli-di e stanchi, sporchi di sangue scuro.La (molto cristologica), solitaria, im-paurita ma ferrea, determinazione diHarry ad andare fino in fondo, a qua-lunque costo, è l'asse morale di que-sto e di tutta la serie. (g.d.v.)

IN VIAGGIO CON UNAROCK STARDI NICHOLAS STOLLER, CON BILLY GREEN

BUSH, CHRISTINA AGUILERA. USA 2011

7Universo tentacolare e incostante via di espansione,il cinema apatowiano (fatto

dei film che lui dirige e dei moltissimiche portano lo stampo riconoscibiledella sua produzione) è un andirivie-ni di volti conosciuti e resi famosi dalregista di Knocked Up . Aldous Snowè l'ultima spiaggia a cui ricorre unacasa discografica di Los Angeles perrisollevare le sue sorti. L'idea è quelladi resuscitare l'appeal mitico e srego-lato del rock'n'roll vecchio stampocon un grosso concerto. A recuperaree portare in California l'ex superstar,perennemente appannata da droghe,alcol e da una delusione sentimenta-le, viene inviato un impiegato un po'nerd, Aaron Green (Jonah Hill). Il filmè la dinamica di opposti, un classicobromance, la commedia romanticatra uomini coniata da Apatow.

ISOLA 10DI MIGUEL LITTIN; CON BENJAMÍN VICUÑA,

BERTRAND DUARTE. CILE 2009

7Un episodio poco conosciu-to del golpe cileno. I mini-stri del governo Allende e

altri esponenti della pubblica ammini-strazione furono portati nel profondosud, sull'isola Dawson. Nel campo idetenuti perdono la loro identità e icontatti con il resto del paese, i loronomi sono ridotti a numeri. Il tessutodel film si allarga un po' alla volta inun respiro profondo a comprenderenon solo la loro vicenda personalefatta di dignità e forza morale, maquella dell'intero paese in un mo-mento fissato per sempre nella sto-ria, l'assalto alla Moneda e la mortedi Salvador Allende (s.s.)

PASSANNANTEDI SERGIO COLABONA; CON FABIO TROIANO,

ULDERICO PESCE, ANDREA SATTA. ITALIA 2011

7Giovanni Passannante ferì,nel 1878 a Napoli, il re Um-berto I di Savoia con un col-

tellino che comprò vendendo la giacca. È povero, mazziniano, poi anarchico.Lo condannano a morte, poi all'erga-stolo, dove nel buio, costretto a viveretra i suoi escrementi impazzisce. Muo-re in manicomio nel 1910, la sua testaviene esposta nel Museo criminale diRoma, Lombroso vi individua i segniche appartengono agli anarchici. Pas-sannante di Sergio Colabona, ripercor-re il testo teatrale di Pesce che ne èprotagonista - e insieme al regista e aMassimo Russo ha scritto la sceneggia-tura - con Andrea Satta dei Têtes duBois, Alberto Gimignani, Fabio Troianoin questa opera prima di taglio indipen-dente, che declina la storia di Passan-nante al presente. (c.pi.)

IL TEATRO

KILOWATT FESTIVALSANSEPOLCRO (AREZZO) 22-31 luglio

Il sottotitolo della manifestazione è «L’energiadella scena contemporanea», festival vincitoredel Premio Speciale Ubu 2010 per la sua for-za eversiva, propone un ampio programma dispettacoli, concerti ed esposizioni d’arte, risul-tato di un progetto culturale unico che riportail pubblico al centro del sistema teatrale. Ilpubblico non è più l’oggetto passivo a cui«somministrare» lo spettacolo, ma il soggettoattivo poiché la programmazione del Festivalè in buona parte determinata dalle scelte dei«Visionari», un gruppo di venti spettatori (nonaddetti ai lavori) coinvolti durante tutto l’annonella selezione delle opere inviate dagli artistiche rispondono al bando del Festival (quest’anno sono state 370 le domande di parteci-pazione). Tra le compagnie in programma: Linda Dalisi / Nuovo Teatro Nuovo, MatteoFantoni, Giovanni Scifoni, Instabili vaganti, Marco D’Agostin, LABit, Odemà, La fabbrica,più le nuove produzioni e, tra gli eventi musicali: Massimo Volume, Massimo Zambonie Angela Baraldi, Elicheinfunzione. (foto: Francesca Foscarini, di A. Boscato) (s.s.)

EST FILM FESTIVAL 2011MONTEFIASCONE (VITERBO) 23 LUGLIO-1 AGOSTO 2011

La quinta edizione di Est Film Festival si tienea Montefiascone con la partecipazione di pro-tagonisti della passata stagione cinematografi-ca, serate musicali, performance, proiezioni difilm, documentari e corti in concorso, tutto adingresso libero. Tra gli eventi: Paolo Virzì rice-verà nella serata di apertura l’Arco di platinoalla carriera, Sergio Rubini (il 24) e RoccoPapaleo (il 30) incontraranno il pubblico, unaserata di dopofestival sarà affidata ad AscanioCelestini, una mostra dei costumi di SergioBallo della serie «I Borgia» sui tiene nella Roc-ca dei Papi dove si terrano altri incontri conregisti e attori. Rocco Papaleo e Band chiude-rà il Festival domenica 31 Luglio e darà il via alla storica Fiera del Vino con «La fantasiami consola», esperimento di teatro-canzone. In apertura sabato 23 a mezzanotte siterrà il concerto dei Mokadelic, gruppo post-rock/neo-psichedelico italiano (sua la co-lonna sonora del film di Gabriele Salvatores Come dio comanda). Tra i reading, da nonperdere Valerio Aprea con Momenti di trascurabile felicità di Francesco Piccolo. (s.s.)

DISSOCIAZIONI, MALATTIAE TRASFORMAZIONEGIAVENO (TO) 26 - 27 AGOSTO, SISSC

Il consueto convegno di fine agosto dellaSissc (Società Italiana per lo Studio degli Statidi Ccoscienza) si svolge quest’anno a Giave-no, in Piemonte, sul tema «Dissociazioni, ma-lattia e trasformazione».Dopo una introduzione del presidente dellaSissc Fulvio Gosso, letture di Maurizio Nocera(Musica e musiche. Riflessioni sulla melotera-pia e gli stati di coscienza), Gilberto Camilla(Droghe, stati altri e psicoterapia. Un rapportoancora da chiarire), Daniela Muggia (L’incon-tro con la morte e il viaggio di trasformazio-ne), Fabio Lo Cascio (Abbracciare il Mostro.Percorsi di guarigione e trasformazione). Il sabato è dedicato all’Ayahuasca con ManuelVillaescusa, Massimiliano Palmieri e Bruno Severi. Quindi Maria Antonietta Balzola (Me-ditazione e Compassione nel viaggio di guarigione). L’iscrizione al Convegno è gratuita(un contributo è comunque gradito…). Info: Gilberto Camilla tel. 333-4985092E-mail: [email protected]; www.sissc.blogspot.com. (m.d.f.)

filippo brunamontiantonellocatacchio

mariuccia ciottagiulia d’a. vallancristina piccinoroberto silvestrisilvana silvestri

BOBBIO FILM FESTIVALBOBBIO, 23 LUGLIO - 6 AGOSTO

Con la direzione artistica di Marco Bellocchiotorna per il quindicesimo anno il BobbioFil-mFestival famoso per i suoi seminari di cine-ma e per aver dato origine con le esercitazio-ni, al magnifico film Sorelle Mai realizzato nelcorso degli anni. Il laboratorio «Fare Cinema»è un corso di alta specializzazione in regiacinematografica a numero chiuso per un grup-po selezionato di operatori cinematografici etelevisivi, senza limiti di età con lezioni intensi-ve e sessioni di lavoro giornaliero. Si terrannoproiezioni di film dell’anno e incontri di MarcoBellocchio con gli autori e gli attori nel Chio-stro di San Colombano. Un seminario residen-ziale di critica cinematografica, a cura della rivista Duellanti è previsto per un uditorio di40 persone selezionate. Durante il Festival è allestita una mostra di ritratti fotografici diFabio Lovino ed è prevista la presentazione in anteprima di due volumi sui due film diMarco Bellocchio girati a Bobbio, I pugni in tasca e Sorelle Mai. Ospite d’eccezione delBobbioFilmFestival il critico Michel Ciment, a cui è dedicato un omaggio. (s.s.)

SINTONIEIL LABORATORIO

IL FESTIVAL

IL CONVEGNO

Noriaki TsuchimotoI 4 dvd di Noriaki Tsuchimoto(1928-2008) usciti recentementeper l’americana Zakka Films, sonoun evento importante, passato rela-tivamente inosservato, ma che haun peso notevole perché nel Giap-pone contemporaneo dilaniato daltriplice disastro e dove a ormai aquasi 4 mesi dalla tragedia le colpedella Tepco e di un sistema politico/energetico piramidale sono usciteallo scoperto, sono dei documenta-ri che hanno ancora molto da dire.Con On the Road a Document del1963, la conversazione con un tas-sista permette al regista di sma-scherare le menzogne della moder-nità che a partire da questo decen-nio si sarebbe affermata, nel benee nel male, nell`arcipelago nipponi-co. Traces: The Kabul Museum(1988) e Another Afghanistan: Ka-bul Diary (1985) ci portano invecenel paese asiatico prima dell’avven-to dei talebani mostrandoci la vitadi ogni giorno delle persone comu-ni e i tesori che erano custoditi nelmuseo della capitale, ora purtrop-po per più del settanta per centodistrutti o rubati.Ma il capolavoro è senza dubbioMinamata: The Victims and TheirWorld (1972) uno dei 16 film cheTsuchimoto ha dedicato a uno deipiù sconvolgenti casi di inquina-mento ambientale del dopoguerra.Dopo l'iniziale esperienza nella Iwa-nami Production, Tsuchimoto silibera da restrizioni produttive estrutturali per realizzare dei lavoriche riflettono/partecipano alle rivol-te studentesche di fine anni ’60 enel 1971 si lancia nell'isola meridio-nale di Kyushu. Sarà questaun’esperienza totalizzante per ilregista che nella cittadina di Mina-mata scoperchia quella scatola de-gli orrori, ed è l'orrore del sistemanon quello dell'incidente di percor-so, che è stata e continua ad esse-re, per quanto gli stessi abitantivogliano dimenticare, la cittadinagiapponese. Luogo e teatro di unodei più grandi avvelenamenti perpe-trati dall'uomo verso sé stesso el'ambiente, il nome della città rimar-rà per sempre legato all'industriachimica di Chisso, legata alla fami-glia imperiale, che dal 1932 al1968 riversa nel mare, come mate-riale di scarto, quantità enormi dimercurio. Il metallo entra nella cate-na alimentare e finisce per causarela cosiddetta malattia di Minamatache nel corso degli anni colpiscealmeno diecimila persone ucciden-done quasi duemila. Tsuchimoto ciracconta le vittime e la loro quoti-dianità fatta di lotte contro il gigan-te Chisso, un tragico esempio dicome l’adulazione del profitto, iltotale disinteresse verso l’ambientee soprattutto il connubio politica/economia possa letteralmenteschiacciare le persone e le loro vite.Minamata: The Victims and TheirWorld è il primo dei 16 documenta-ri che il regista dedicherà alla trage-dia, ai suoi abitanti e soprattuttoalle conseguenze psicologiche deldisastro. Sincero attivista, già mem-bro del partito comunista, nel 1952viene arrestato dopo essersi unitosulle montagne a un gruppo diguerriglieri preparati per la rivolu-zione armata, Tsuchimoto vedenella macchina da presa il mezzoideale per portare alla luce le ingiu-stizie sociali e il lato oscuro del pro-gresso.

di Carlo Avondola

ESTREME ORIENTE

di matteo boscarol

ALIAS N. 29 - 23 LUGLIO 2011 (11

di Guido Mariani

Chiamatela serendipità.La parola è brutta perché è una tra-slitterazione dall’inglese, a coniarla(serendipity) fu il letterato HoraceWalpole che, ispirato dalla novellapersiana I tre prìncipi di Serendip-po, teorizzò con il termine come sipossa trovare qualcosa di inaspetta-to cercando tutt’altro. Non è certouna teoria filosofica, né un assiomascientifico, è una variante dell’im-prevedibile. In una visione metafisi-ca la potremmo chiamare un giocodel destino.

Chi ascolta musica sa che spessola serendipità o il fato entrano in gio-co e cambiano la fortuna degli arti-sti e delle loro opere. Alcune carrie-re si fondano su casuali incontri, ap-parenti incidenti, strane coinciden-ze. Nella musica rock tutto sembraaccadere per caso e le stesse originidel rock sono legate a circostanzefortuite. Il brano più famoso del

rock’n’roll degli albori è Rockaround the clock portato al succes-so da Bill Haley & His Comets. Lacanzone entrò nella leggenda dallaporta di servizio. Scritta nel 1952 daMax C. Freedman e James E. Myersappositamente per Haley, venne in-cisa, per un litigio tra gli autori e i di-scografici, dal gruppo ormai dimen-ticato Sonny Dae & His Knights.Quando nel 1954 Haley approdò auna nuova casa discografica, la Dec-ca, ebbe il via libera per registrarlasu singolo, ma in studio si decise didare la precedenza al brano Thirte-en Women; Rock around the Clockvenne confinata al lato B e incisa infretta e furia a fine registrazione per-ché in studio doveva entrare Sam-my Davis Jr.

Il brano Thirteen Women non eb-be successo e la B-side era prontaper l’oblio, ma l’imprevedibile ac-cadde. L’anno successivo, la star diHollywood Glenn Ford, alla ricercadi una canzone adatta al suo filmThe Blackboard Jungle (Il seme del-la violenza), frugò tra i dischi del fi-glio Paul e si imbatté nel ritmo scate-

nato di Rock around the Clock chedivenne colonna sonora del film. Iragazzi andavano al cinema soloper sentire il pezzo nei titoli di testae in quelli di coda. Il successo dellapellicola trascinò la canzone che fuil primo disco rock ad arrivare al ver-tice della classifica di Billboard nelluglio del 1955.

Un caso non isolato, l’epica delrock è nata quasi per caso. L’india-volata Tutti Frutti di Little Richardera un brano sboccato ricalcato suun pezzo jazz degli anni ’30 che ilcantante eseguiva talvolta dal vivoin qualche equivoco club del suddegli Stati Uniti. Il testo era una fila-strocca omoerotica: «Tutti Frutti,bel didietro/se non riesci a entrarenon fare forza/puoi oliarlo, sarà fa-cile». Nel settembre 1955 Little Ri-chard si trovava a lavorare in stu-dio con il produttore Robert 'Bum-ps' Blackwell e dopo una frustran-te mattinata di incisioni deludenti,si prese una pausa; per sfogarsi ac-cennò al pianoforte quella canzo-ne scabrosa. Il produttore la sentì ecapì subito che quella era la hit che

stavano cercando. Il testo fu ripuli-to e Tutti Frutti fu incisa, consa-crando la carriera di Little Richarde dando al rock il suo primo innotrasgressivo.

Ancor più improvvisata è la gene-si del singolo che diede origine allastagione del surf rock. I Surfaris era-no quattro liceali che nel ‘62 si ritro-varono, grazie al finanziamento diuna delle loro mamme, in uno stu-dio per incidere il primo 45 giri, Sur-fer Joe. Registrato il pezzo, se ne sta-vano andando quando l’ingegneredel suono ricordò ai ragazzini cheper fare un singolo ci voleva ancheuna seconda canzone. Presi di sor-presa, si misero agli strumenti e inun quarto d’ora trovarono lo spun-to grazie al batterista Ron Wilsonche accelerò un ritmo che aveva im-parato nella banda musicale dellascuola. Il chitarrista improvvisò unriff e la B-side venne chiusa in frettae furia con il rumore di un pezzo dicartone che si spezzava, una risata eun titolo, Wipe out, che alludeva auna caduta dalla tavola da surf.Sembrava solo la fine di una giorna-

ta di divertimento di un gruppo diragazzini e invece quel brano mes-so giù in pochi minuti soppiantò illato A, diventando l’inno delle spiag-ge californiane degli anni ’60 e l’im-mortale colonna sonora di innume-revoli film estivi in tutto il mondo.

La Bbc nel 1999 ha proclamato,dopo un referendum tra i suoiascoltatori, Yesterday dei Beatles lacanzone più bella del ventesimo se-colo. Paul McCartney ha sempre so-stenuto che la canzone fosse natain sogno nel 1964 e che fosse statacomposta di getto al risveglio conun testo improvvisato in cui si allu-deva a delle uova strapazzate. Laparticolare genesi onirica insospet-tì lo stesso Paul che tenne il brano(intitolato provvisoriamente Scram-bled Eggs) nel cassetto temendoche fosse un plagio inconsapevole.Il pezzo non piaceva a nessuno siaper il titolo che per l’aria malinconi-ca. Venne addirittura offerto al can-tante Chris Farlowe che lo snobbògiudicandolo melenso. Solo dopoalcuni mesi McCartney decise di ri-mettere mano al testo e il brano

venne pubblicato come singolo nelsettembre 1965.

Qualche mese fa l’ex-Beatle alloshow televisivo di Jimmy Fallonha cantato per la prima volta l’edi-zione originale con le parole«scrambled eggs»: quelle uova stra-pazzate si sono trasformate in unadelle canzoni più popolari dellastoria. Serendipità, ma anche ete-rogenesi dei fini.

Nel 1975 Lou Reed, reduce da al-bum di grande successo come Tran-sformer e Sally Can’t Dance, per fareun dispetto alla sua casa discografi-ca, la Rca, e per accelerare la risolu-zione di un contratto che non glipiaceva, lavorò a un disco intera-mente di rumori di feedback im-provvisati con due chitarre accorda-te in modo diverso messe di fronteai loro amplificatori. Ne uscì il dop-pio album Metal Machine Musiccon quattro tracce senza titolo incui l’unico contenuto è un incessan-te suono distorto prolungato sino al-l’ossessione. All’uscita del disco ilcritico Lester Bangs, notoriamentesopra le righe, lo ritenne subito uncapolavoro arrivando a definirlo an-che «il più grande disco mai fatto daquando esistono le orecchie» e Me-tal Machine Music si trasformò inun culto. Le recensioni entusiastedei critici più radicali e i funamboli-ci tentativi di esegesi di quel suonodistorto sorpresero lo stesso autore.Dopo aver candidamente ammessodi non aver neppure mai ascoltatol’album per intero e averlo definitoun gigantesco «fuck you» ai disco-grafici e al pubblico che ai concertigli chiedeva di suonare solo Viciouse Walk on the Wild Side, Reed hasposato la tesi del lavoro di ricercacitando persino Beethoven. Alla fi-ne sembra la favola dei vestiti nuovidell’imperatore al contrario: il re vo-leva mostrarsi nudo ma tutti l’han-no visto vestito. L’album nato permandare tutti a quel paese ha ven-duto più di centomila copie, ispira-to band come i Sonic Youth e oggi èconsiderato la pietra miliare delrock industriale.

La hit più celebre dei Red HotChili Peppers è senza dubbio Un-der the bridge, tormentone che liproiettò nel 1992 al successo mon-diale. La canzone era destinata peròalla polvere se non fosse stato per ilproduttore della band Rick Rubin,che, frugando furtivamente tra gliappunti del cantante Anthony Kie-dis, trovò un testo che Kiedis avevascritto ricordando i periodi più duridella sua tossicodipendenza, quelliin cui andava «sotto il ponte» a pro-curarsi la droga. Nonostante la rilut-tanza, Rubin convinse la band a rea-lizzare la canzone come una ballatae trasformò quegli appunti in un sin-golo da più di un milione di copie.

Ritrovamenti casuali e incidentifortunati. In crisi creativa e con unacarriera in parabola discendente, iGreen Day nel 2003 lavorarono aun album intitolato Cigarettes andValentines le cui registrazioni scom-parvero, si narra, per un furto. Inve-ce di risuonare quelle canzoni, laband decise di ripartire da zero cre-ando American Idiot, il lavoro piùbello e importante della loro carrie-ra. Anche un pomeriggio passato acuriosare su YouTube può cambia-re il destino. Neal Schon, chitarristadella storica rock-band Journey,nel 2007 si trovava senza un cantan-te. Il gruppo non era mai riuscito arimpiazzare degnamente il cantan-

te Steve Perry con cui si era consumato un amaro divorzio. Cercando su You-Tube, Schon si imbatté in un filmato di un gruppo filippino, The Zoo, giratoin un bar in cui non sembrava esserci neppure uno spettatore. Il gruppo eraperò alle prese con Faithfully, classico dei Journey, e la voce impeccabile delcantante impressionò Schon. Il frontman della sconosciuta band asiaticavenne subito contattato. Si chiamava Arnel Pineda e aveva imparato a canta-re per sfuggire a un’infanzia passata a mendicare per le strade degli slum diManila. Oggi è il cantante dei Journey e con la nuova voce la carriera delgruppo ha avuto uno straordinario rilancio. La serendipity a volte sembrauna favola a lieto fine.

■ STORIE ■ «ROCK AROUND THE CLOCK», «YESTERDAY», «WIPE OUT» ■

Successi per casoSono dischi perfetti fino al momento in cui qualcuno se ne accorge,

magari un conduttore radiofonico che inizia a trasmetterli o un regista

che li utilizza sullo schermo. Fino a quel momento erano considerati semplici

riempitivi, i classici lati B dei 45 giri. I tesori nascosti di otto musicisti

■ MITI ■ CELEBRATO E CONSACRATO DAL PRIMO ALBUM DI L.L. COOL J ■

Fenomenologiadel radioregistratore

di u_net

La nuova pubblicità de-gli «happy meal» di McDonald's,la rinascita della Tdk e/o il lan-cio da parte della Lasonic deinuovi apparati di riproduzionemusicale, le immagini sulle nuo-ve collezioni di magliette e felpedella Franklin Marshall e, infine,la sua riproposizione in molti vi-deo musicali: eccolo, il radionesta tornando. Dalla musica allamoda, dalla pubblicità al cine-ma, il ghetto blaster o boombox,icona della ribellione, continua arappresentare un elemento cen-trale nella cultura popolare con-temporanea.

Il suo significato travalica stili,generi e subculture al punto da es-sere definito l’arma preferita diun’intera generazione, una fraseche sembra perfettamente sinte-tizzare come diverse comunità esubculture lo abbiano adottatocome strumento d’espressione ar-tistica e di aggregazione colletti-va. L’importanza del ghetto bla-ster nell’immaginario collettivo èstata recentemente illustrata inun incredibile libro fotografico dacui è tratto liberamente questopezzo: The Boombox Project: TheMachines, the Music, and the Ur-ban Underground del fotografoLyle Owerko, con introduzione diSpike Lee. Nella prima metà de-gli anni Ottanta i boombox - conil termine s’intende «un apparec-chio con la presenza di due o piùaltoparlanti, un amplificatore, unsintonizzatore radio e uno o duelettori/registratori di musicasset-te» - dominavano la cultura giova-nile negli Stati Uniti portandouna vera e propria rivoluzione cul-turale a suon di punk, rap, reggaesparati a massimo volume a cuinessuno a New York sembravapotersi sottrarre. I boombox ave-vano decisamente una loro città:New York. Lì il fenomeno assunseuna dimensione particolare. «Innessun altro posto il boomboxrappresentava la colonna sonoradella città», così ricorda Don Let-ts, musicista e dj. Mixtapes, showradiofonici, compilation e casset-te duplicate diventarono tutte ar-mi del cambiamento nella cultu-ra urbana di quegli anni - una vol-ta divenuto possibile muoversiper la città con la propria musica,letteralmente una rivoluzione so-nica fu nelle mani della gente.

Questa rivoluzione non fu parti-colarmente incisiva all’inizio ma,una volta che la barriera sonicadel gusto individuale e della libe-

ra espressione fu abbattuta, l’emergere delle diverse cultu-re giovanili si impose con energia creativa tale da conqui-stare rapidamente la cultura popolare statunitense.

La consacrazione definitiva della popolarità dei boom-box nell’immaginario collettivo si ebbe nel 1985 con l’al-bum d’esordio di L.L. Cool J, Radio, e con il singolo I Can’tLive without My Radio in cui rappa «my radio, believe me, Ilike it loud/I’m the man with the box that can rock thecrowd/walkin' down the street, to the hardcore beat/whilemy Jvc vibrates the concrete». Insomma: radio al massimovolume, con cui far scatenare le persone e far traballare ilcemento. Sia grazie a queste parole che esprimono l’attitu-dine ribelle, provocatoria e la voglia di imporre e/o condivi-dere i propri gusti musicali, sia grazie all’immagine di co-pertina, nella quale è inquadrato in tutta la sua maestositàun Jvc Rc M 90, uno dei più grossi e migliori radioregistrato-ri dell’epoca (con woofer da 8 pollici, tweeter da 3 pollici,due lettori di cassette a nastro, 8 bande radio, un sofistica-to sistema di ricerca musicale illuminato e con un sistemaSuper Arns-Dolby B di riduzionedel rumore).

Durante gli anni Cinquanta eSessanta l’evoluzione tecnologi-ca nella realizzazione di compo-nenti elettronici permise una pro-gressiva riduzione delle dimen-sioni di radio e apparati stereo; lecontinue migliorie e innovazioniassociate all’evoluzione dei tran-sistor, delle componenti elettri-che e dei circuiti integrati permi-sero di rendere talmente compat-te le dimensioni di questi appara-ti di riproduzione musicale da ga-rantirne una facile trasportabili-tà. Ciò che un tempo era relegatoper dimensioni e peso al soggior-no di casa, ora poteva esser facil-mente trasportato a mano. Que-ste novità, prodotte e commercia-lizzate inizialmente da produtto-ri giapponesi quali Sharp, Jvc,Aiwa, Sanyo e Sony, ideate e rea-lizzate per facilitare i viaggi dellagioventù nipponica, ebbero unapopolarità immediata una voltaapparsi nelle grandi catene com-merciali negli Stati Uniti.

I primi modelli di registratoreportatile fecero la loro apparizio-ne nel mercato attorno agli anniSettanta: monoliti di suono condue o più speaker. Inizialmenteprodotti con l’obiettivo di sostitui-re gli apparti stereo casalinghi, iprimi modelli sul mercato eranorelativamente piccoli e pesanticon poche funzioni elementari.In realtà, la vera nascita di questeicone del suono avvenne quandoalle funzionalità di riproduzionefurono aggiunte quelle radio. Inseguito alle tante migliorie appor-tate ai primi modelli (speaker, fe-deltà di riproduzione delle musi-cassette e un’esplosione di creati-vità nel design industriale) si giun-gerà presto a un vero e proprio

apice tecnologico e di popolaritàdei boombox: è la golden era del-la prima metà degli anni Ottanta,ovvero il periodo in cui il ghettoblaster si rivelerà una nuova for-ma/arma d’espressione popolaree non solo...

La potenza musicale dei boom-box ha giocato un ruolo fonda-mentale nell’evoluzione dei mo-derni generi musicali e della cul-tura popolare, a livello sia sono-ro, sia visivo. La vera rivoluzionedel boombox consistette nellasua trasportabilità che permette-va, a chi avesse abbastanza fega-to, di condividere i propri gusti

musicali con chiunque fosse di-sposto ad ascoltare. Come ricor-da l’Mc Kool Moe Dee: «Doveviavere coraggio, cuore, reputazio-ne sufficiente per girare in stradacon un boombox, perché eramolto probabile che ti derubasse-ro se solo fossi uscito dal tuo iso-lato. Era una sorta d’affermazio-ne di durezza, di sfrontatezzaadolescenziale».

Con la crescita della domanda,modelli più potenti e sofisticativennero immessi sul mercato.Più grossi e potenti diventavano,maggiore era la loro popolaritàtra i ragazzi. Continua il rapper:

«Il boombox divenne lo strumen-to per diffondere e ascoltare musi-ca. Potevi andare in giro per ilquartiere con il tuo boombox,adattare ad esso la tua cammina-ta e il tuo stile. Possedere unboombox, il boombox più gran-de, era come possedere la macchi-na più fica: un elemento fonda-mentale nella creazione della pro-pria immagine».

Da qui si scatenò una ferocecompetizione tra i principali pro-duttori, impegnati a realizzare ilboombox il più potente, più gran-de, più scintillante e con un lookunico. Al giorno d’oggi la loro im-

magine è indelebilmente legata airicordi e all’arte di una generazio-ne di giovani artisti pronti a supe-rare i confini della propria creati-vità così come i boombox supera-vano quelli del conformismo.«Quando ripenso all'epoca delboombox - afferma il graffitaroCey Adams - ho in mente un peri-odo di innocenza e purezza, pri-ma dell'arrivo del business…Quella musica e quella culturaerano condivise all'interno di pic-cole comunità di giovani. Era ilnostro modo di comunicare, con-dividere e ascoltare la musica».

Lisa Lisa, voce del gruppo Lisa

Enorme, con o senza doppia cassetta e dalle fogge più imprevedibili ha contribuito

negli anni Ottanta all’edificazione di subculture musicali bianche e nere. Senza

quel boombox o ghetto blaster l’hip hop non sarebbe stato lo stesso. Ora sta tornando

12) ALIAS N. 29 - 23 LUGLIO 2011

Lisa and the Cult Jam, ricordaproprio l’importanza del boom-box come voce di una generazio-ne: «Ogni genere musicale era co-me una conversazione, ogni stiledi danza una forma espressiva dif-ferente. Attraverso musica e dan-za esprimevamo all’Hell's Ki-tchen il nostro esser minoranza,le nostre frustrazioni e la povertàin cui tentavamo di sopravvivere.Quella musica proveniva dai no-stri boombox: l'unico strumentoa nostra disposizione per sfogarcie uscire da quella merda».

L’impatto culturale e socialedei boombox è innegabile. Bastaguardare alcune foto degli anniSettanta/Ottanta che ritraggonoalcuni ghetto blaster e attorno aquesti radioregistratori enormi sicolgono sempre gruppi di perso-ne intenti a divertirsi, discutere egodersi il momento. Ciò potevaavvenire nelle strade, nei parchi,nelle stazioni metropolitane,ovunque si formasse un’aggrega-zione spontanea dettata dal pia-cere di godere e condividere lamusica. Queste immagini rivela-no una forte relazione tra il boom-box e l’idea di comunità. Fab 5Freddy, pioniere della scena hiphop, suggerisce l’idea che «ilboombox è una sorta di fuoco dibivacco sonico con la gente chesi radunava attorno creando dia-loghi, dibattiti e protesta». Il musi-

cista e dj Don Lelts parla di comei boombox collegassero individuicon una medesima mentalità e dicome la loro portabilità influenzòla cultura di strada newyorchesee facilitò la contaminazione trapunk e rap, alle origini. Racconta:«Negli anni Sessanta gli hippy siriunivano intorno ai falò, negli an-ni Ottanta noi ci radunavamo at-torno ai boombox - poteva acca-dere in un parco, in un parcheg-gio, in un campo da basket, ovun-que. Quello era il bello, si poteva-no realizzare party estemporaneiin tutta la città».

Gli stessi comandi del boom-box che abilitavano funzioni ele-mentari come la radio o la ripro-duzione musicale rappresentava-no una vera e propria rivoluzioneall’interno della quale è possibileevidenziare comportamenti escelte individuali e collettive. Il ta-sto «play», ad esempio, avviandoil nastro magnetico della cassettarappresentava un inno alla gio-ventù nonché un disperato desi-derio di visibilità. Premere quel ta-sto, lì, in quel momento significa-va occcupare l’aria intorno, signi-ficava esserci, rappresentarsi.

Come torna a sottolineare lostesso Don Letts: «Il radione eraun modo per reclamare visibilità.Spendevamo un sacco d’energie- che ci riuscissimo o meno - cer-cando visibilità e spazi d’aggrega-

zione. Il boombox era l’espressio-ne più forte di ciò. Conferiva unsenso di potenza». Non a caso an-che Spike Lee osserva come Ra-dio Raheem, il personaggio delsuo film Fa’ la cosa giusta, sem-pre munito di ghetto blaster, riflet-ta la determinazione della gioven-tù urbana a esser ascoltata. Dice:«Ho visto quelle piccole radio atransistor trasformarsi nei gigantiboombox degli anni Ottanta. Eradavvero una questione seria por-tarsi un boombox in giro, ed eranecessaria una forte volontà perimporre il proprio gusto musicaleal mondo intero. Non aveva sen-so girare con un boombox se nonlo facevi suonare al massimo volu-me. Dovevi anche esser pronto alpeggio se qualcuno ti chiedeva dispegnerlo. Radio Raheem sareb-be morto per il suo boombox, perla sua musica, continuando a suo-nare il suo inno, Fight the Powerdei Public Enemy, fino alla fine».

Affermare la propria presenzama anche dar libero sfogo allapropria creatività. Il tasto «pause»infatti rappresenta l'accesso allacreatività. Questo tasto, questacomponente hardware ha datol’avvio a una vera e propria formad'arte creando uno spazio menta-le in cui riflettere senza fretta, con-gelando il momento per effettua-re la scelta e immergersi nuova-mente nell'atto creativo. In queltempo congelato, si aveva la possi-bilità - concessa da creatività etecnologia - di scegliere la canzo-ne successiva, di creare un brevemomento d'attesa prima di ripro-porre il groove appena interrottoo, addirittura creare un beat grez-zo in loop sul quale rappare/can-tare i propri pezzi. Come ricordaFab 5 Freddy: «C'era una vera e

propria eccitazione riguardo lamusica all'epoca. Non so se haimai sentito parlare delle cassettemixate. Il fenomeno scoppiò dav-vero quando uscirono i modellicon la doppia cassetta. Potevi regi-strare programmi radiofonici co-me Mr. Magic's Rap Attack o loshow di The Supreme Team, pro-grammi locali che andavano inonda per un paio d'ore a settima-na. Si registravano gli show saltan-do pubblicità e intermezzi inutiliper lasciare spazio solo alla musi-ca. Sottolinea Adam Yauch, Mcdei Beastie Boys: «Quando dove-vo mettere in pausa il nastro cer-cavo sempre musica grezza. Piùoriginale era la selezione, miglio-re era la cassetta. Con i mixtape laquestione era diversa poiché ser-viva una sorta di flow per mixareuna cassetta... non era una sem-plice collezione di canzoni, erauna collezione d’idee espresse at-traverso la musica».

DJ Spooky rafforza questo con-cetto: «Il boombox e la cultura deimixtape hanno permesso di crea-re una propria colonna sonorapersonalizzata. Questo si tradus-se anche in uno stile di vita - ilboombox era come una sorta dicollante sociale».

Altro elemento centrale perl’evoluzione della musica stessa èil tasto «record» il cui utilizzo harappresentato un atto liberatorioper una generazione di giovani.Migliaia di successi sono stati regi-strati da aspiranti cantanti e musi-cisti che hanno sfogato frustrazio-ne, rabbia e desiderio nel microfo-no incorporato nel boombox. Co-me sottolinea Jonathan Daniel,storico della musica e manager:

«Il boombox era lo studio di regi-strazione casalingo. Era lo stru-mento con il quale realizzare i de-mo...». Gli fa eco il produttore Bu-tch Vig: «La settimana prima divolare a La per produrre Never-mind, Kurt Cobain mi spedì unacassetta registrata su un boom-box. Suonava malissimo, davverodistorta. Si poteva sentire a mala-pena. Ma ascoltando l'inizio diSmells like Teen Spirit prima cheentrino gli strumenti capii imme-diatamente che si trattava di unpezzo incredibile».

Anche per L.L. Cool J «il boom-box è stato centrale per diffonde-re la mia musica. Avevo i mieguanti neri zippati e il mio boom-box e mi sentivo davvero hip hop.Te lo mettevi sulla spalla e ti senti-vi come un supereroe. Aamavomettere la mia radio fuori dal fine-strino per far ascoltare alla genteciò su cui stavo lavorando mentreil mio socio girava in macchinaper il quartiere. Sparare i mieinuovi pezzi a tutto volume. Erocome un pazzo. Come dire, nonpotevo vivere senza la mia radio».

Infine, associata ai tasti«forward/rewind» c’era la possi-bilità di controllo e scelta del pez-zo musicale. Il nastro passava at-traverso un marchingegno cigo-lante che creava un suono nondissimile da quello di un treno incorsa. Terminato quel sibilo fasti-dioso, si poteva ascoltare ciò chepiù si desiderava. Quest'abilitàconferì un senso di potenza pri-ma sconosciuto a quei giovani e

la possibilità di affrancarsi dai de-tentori del potere sulla musica,le radio. Ecco un ricordo del rap-per Pras: «All'inizio l'hip hop erarelegato alla sola area di NewYork. Le radio non suonavanohip hop durante il giorno, c'era-no show solo il venerdì e il saba-to sera: Longee More, Mr MackJig, i Cooks, Red Alert. Bls e KissFm programmavano hip hop so-lo di notte. Così registravamo glishow e li suonavamo per tutta lasettimana successiva. Non pote-vamo aspettare il weekend perascoltare l'hip hop». Semprel’Mc dei Fugees ricorda: «Servivaun boombox per poter fare le sfi-de nelle strade e nelle metropoli-tane. C'era un tipo il cui unicocompito era portare il boomboxin giro. Non faceva altro. Portavail boombox e suonava sempre lamusica più adatta. Anche quellaera un'abilità non da poco».

Dj Spooky va oltre, sostenen-do che il boombox rappresente-rebbe un’idea di democratizza-zione del suono: «Il boombox hademocratizzato i suoni. Ha resopossibile avere la musica ovun-que ti trovassi e trasformare lastrada nel paesaggio sonoro desi-derato. Chiunque poteva piazza-re la propria radio e schiacciareplay. Ma la democrazia è rumoro-sa e caotica e le opinioni hannoconseguenze…».

Radioni per tuttii gusti. Qui soprala storica copertinadel disco di L.L. Cool J

ALIAS N. 29 - 23 LUGLIO 2011 (13

14) ALIAS N. 29 - 23 LUGLIO 2011

dEUSIl ritorno dell’apprezzatissima rockband belga.GRUGLIASCO (TO) VENERDI' 29 LUGLIO(CC LE GRU-GRUVILLAGE)GIOVINAZZO (BA) SABATO 30 LUGLIO(ROCK FESTIVAL)

Joan as Police WomanLa cantante/autrice di Brooklyn ètornata con un album dalle sonori-tà molto vicine a Joni Mitchell.CATANIA SABATO 23 LUGLIO (MERCATIGENERALI, CON SCOTT MATTHEW)LOCOROTONDO (BA) DOMENICA24 LUGLIO (LARGO MITRANO-LOCUSFESTIVAL)

CARPI (MO) MERCOLEDI' 27 LUGLIO (PIAZZARE ASTOLFO-IMARTS FESTIVAL)

Scott MatthewIl cantautore australiano ha da po-co pubblicato il suo terzo album.CATANIA SABATO 23 LUGLIO (MERCATIGENERALI, CON JOAN AS POLICE WOMAN)ROMA DOMENICA 24 LUGLIO (CIRCOLODEGLI ARTISTI)

ROMA GIOVEDI' 28 LUGLIO (DA DEFINIRE)

Marianne FaithfullIl suo primo successo fu As TearsGo By dei Rolling Stones nel 1964.E agli Stones fu legata grazie allastoria d’amore con Mick Jagger.PERUGIA DOMENICA 24 LUGLIO(AUDITORIUM SAN FRANCESCO)GENOVA MARTEDI' 26 LUGLIO (ARENA DELMARE PORTO ANTICO-JUST LIKE A WOMAN)

Steve HackettLo storico chitarrista dei Genesis sipresenta in trio acustico (il 28) econ la sua Electric Band (il 30).VITTORIA (RG) GIOVEDI' 28 LUGLIO (CERASOL ROCK)MANTOVA SABATO 30 LUGLIO (PIAZZACASTELLO)

Avi BuffaloIl pop fresco e divertente di unadelle indie band più chiacchieratedel momento.ROMA SABATO 23 LUGLIO (PARCO SANSEBASTIANO)

Lou ReedUna icona del rock internazionale.SAVIGNANO SUL RUBICONE (FC) SABATO23 LUGLIO (PIAZZA MATTEOTTI)ROMA LUNEDI' 25 LUGLIO (AUDITORIUMPARCO DELLA MUSICA-LUGLIO SUONA BENE)

LucianoIn arrivo «The Messenger», la super-star giamaicana, con Irievibrations.ROMA GIOVEDI' 28 LUGLIO (LAGHETTODI VILLA ADA-ROMA INCONTRA IL MONDO)BANARI (SS) VENERDI' 29 LUGLIO (SARDINIAREGGAE FESTIVAL)

GALLIPOLI (LE) SABATO 30 LUGLIO (PARCOGONDAR)

StingIn Italia il cantante ex Police nel suoSymphonicity Tour.PALERMO MERCOLEDI' 27 LUGLIO(CASTELLO A MARE)VENEZIA VENERDI' 29 LUGLIO (PIAZZA SANMARCO)

ROMA SABATO 30 LUGLIO (AUDITORIUMPARCO DELLA MUSICA-LUGLIO SUONA BENE)

The Original WailersIn Italia la mitica band che per anniha accompagnato Bob Marley.SENIGALLIA (AN) SABATO 23 LUGLIO(MAMAMIA)GRUGLIASCO (TO) LUNEDI' 25 LUGLIO(CC LE GRU-GRUVILLAGE)

ROMA MERCOLEDI' 27 LUGLIO (LAGHETTODI VILLA ADA-ROMA INCONTRA IL MONDO)

CAPOLIVERI-ISOLA D'ELBA (LI) GIOVEDI'28 LUGLIO (PIAZZA MATTEOTTI)

PINARELLA DI CERVIA (RA) VENERDI'29 LUGLIO (ROCK PLANET)

LAGUNDO (BZ) SABATO 30 LUGLIO (PIAZZALAGUNDO)

Bryan FerryUna data per l'ex cantante dei RoxyMusic.BOLGHERI (LI) GIOVEDI' 28 LUGLIO (ARENAMARIO INCISA DELLA ROCCHETTA)

Hot Tuna Electric BandTorna una leggendaria band rockblues made in Usa.COLOGNE (BS) SABATO 23 LUGLIO (CINEMATEATRO PARROCCHIALE)

Chew LipsUna data, per la prima volta in Ita-lia, per il trio dance synth pop.ROMA VENERDI' 29 LUGLIO (PARCO SANSEBASTIANO)

New York Ska-JazzEnsembleIl nome rispecchia esattamente laproposta musicale.ASOLO (TV) GIOVEDI' 28 LUGLIO (FREEMUSIC FESTIVAL)ARPINIA (FR) VENERDI' 29 LUGLIO (POSITIVEVIBRATION FESTIVAL)

MILANO SABATO 30 LUGLIO(CS LEONCAVALLO)

Ben HarperIl rock dalle venature blues e funkydel cantante/chitarrista/autore cali-forniano.TARVISIO (UD) VENERDI' 29 LUGLIO (PIAZZAUNITA')VILLAFRANCA (VR) SABATO 30 LUGLIO(CASTELLO SCALIGERO)

Anthony BUna leggenda del roots reggae, ac-compagnato dalla Born Fire Band.GALLIPOLI (LE) SABATO 23 LUGLIO (PARCOGONDAR)MONTE SANT'ARCANGELO (FG)DOMENICA 24 LUGLIO (FESTAMBIENTE)

Joe CockerIl vecchio bluesman inglese.TAORMINA (ME) MARTEDI' 26 LULGIO(ANFITEATRO ROMANO)ROMA MERCOLEDI' 27 LUGLIO(AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA-LUGLIOSUONA BENE)

SlashIl chitarrista dei Guns 'n RosesMILANO GIOVEDI' 28 LUGLIO (ARENACIVICA-MILANO JAZZIN' FESTIVAL)ROMA VENERDI' 29 LUGLIO (IPPODROMODELLE CAPANNELLE-ROCK IN ROMA)

HooverphonicTra le migliori espressioni pop delBelgio.PIAZZOLA SUL BRENTA (PD) SABATO23 LUGLIO (ANFITEATRO CAMERINI-HYDROGEN FEST)CREMONA DOMENICA 24 LUGLIO (ARENAGIARDINO)

SEGRATE (MI) LUNEDI' 25 LUGLIO(MAGNOLIA)

FishIl «grande» vocalist scozzese, exfrontman dei Marillion.CIVITELLA MARITTIMA (GR) SABATO23 LUGLIO (CAMPO SPORTIVO)ROMA LUNEDI' 25 LUGLIO (PARCODEGLI ACQUEDOTTI-ROCK CITY)

VerdenaTour estivo per la rock band berga-masca che presenta l’acclamatodoppio album Wow.ARPINIA (FR) VENERDI' 29 LUGLIO (LAZIOWAVE)GUARDIAGRELE (CH) SABATO 30 LUGLIO(SUONI MODESTI)

SubsonicaNuovo album e tour per la bandtorinese.BARLETTA SABATO 23 LUGLIO (FOSSATODEL CASTELLO)MILANO MARTEDI' 26 LUGLIO (ARENACIVICA-MILANO JAZZIN' FESTIVAL)

RAGUSA VENERDI' 29 LUGLIO (CAMPOSPORTIVO)

MESSINA SABATO 30 LUGLIO (ARENA VILLADANTE)

Paolo BenvegnùIl cantautore si conferma tra i piùispirati della scena italica con il nuo-vo cd, Hermann.BRESCIA DOMENICA 24 LUGLIO(CASTELLO-MUSICALZOO)SESTO SAN GIOVANNI (MI) LUNEDI'25 LUGLIO (CARROPONTE)

AfterhoursTour estivo per la formazione diManuel Agnelli.SIMAXIS (OR) DOMENICA 24 LUGLIO(MRAXANI RUMOR FEST)PIOMBINO (LI) VENERDI' 29 LUGLIO (PIAZZABOVIO)

POPPI (AR) SABATO 30 LUGLIO (CAMPOSPORTIVO)

CaparezzaIl rapper di Molfetta con il suo Ereti-co Tour.SORDEVOLO (BI) MERCOLEDI' 27 LUGLIO(ANFITEATRO GIOVANNI PAOLO II)PARMA VENERDI' 29 LUGLIO (PARCOEX ERIDANIA)

CUNEO SABATO 30 LUGLIO (PIAZZAVIRGINIO)

ArdecoreTorna dal vivo la band «romane-sca».CARPI (MO) SABATO 23 LUGLIO(COCCOBELLO)

Vinicio CaposselaUn po’ bohemiene e un po’ cantau-tore.CARRARA (MS) DOMENICA 24 LUGLIO(PORTO DI PONENTE)GARDONE DI RIVIERA (BS) MARTEDI'26 LUGLIO (ANFITEATRO DEL VITTORIALE)

AreaLa reunion dell'International Popu-lar Group che fu di Demetrio Stra-tos, con Patrizio Fariselli (piano etastiere), Ares Tavolazzi (Basso),Paolo Tofani (chitarra) e WalterPaoli (batteria).FIRENZE LUNEDI' 25 LUGLIO (ANFITEATROCASCINE)

One Dimensional ManNuovo album per la indie rockband italiana.PASSARIANO DI CODROIPO (UD) SABATO23 LUGLIO (VILLA MANIN-VILLA TEMPESTA)ASOLO (TV) VENERDI' 29 LUGLIO (ASOLOFREE MUSIC FESTIVAL)

PORTOMAGGIORE (FE) SABATO30 LUGLIO (FESTA DEL PD)

Yo Yo MundiLa band piemontese presenta dalvivo il nuovo album Munfrà.ASTI DOMENICA 24 LUGLIO (CORTILEDEL MICHELERIO-ASTIMUSICA)

MIT-Meet In TownAll'interno della rassegna estiva delParco della Musica, «Luglio suonabene, un festival di musica elettroni-ca e affini. Seconda e ultima giorna-ta con i live di Modeselektor, Appa-rat Band (Cavea), Lamb, Stateless eCocoRosie (Sala Sinopoli), Patho-sformel + Port-Royal in un progettospeciale (Sala Petrassi), Gold Pan-da, Nicolas Jaar, A Silent Way - Tri-bute to Miles Davis con Martux_m,Fabrizio Boso, Eivind Aarset, France-sco Bearzatti + dj set di Kode 9 (Te-atro Studio), Tiger & Woods + djset di Todd Terje, Dj Hendrix, GadiMizrahi e Prins Thomas (Foyer Sino-poli), Onra, Space Dimension Con-troller, Lukid e Digi D'Alessio (FoyerPetrassi).ROMA SABATO 23 LUGLIO (AUDITORIUMPARCO DELLA MUSICA)

Villa TempestaUna giornata dedicata all'etichettaindipendente La Tempesta Dischi,con: Aucan, Tre Allegri Ragazzi Mor-ti feat. Giorgio Canali, Le Luci dellaCentrale Elettrica, The Zen Circus,Massimo Volume, Smart Cops, OneDimensional Man, Il Pan del Diavo-lo, Uochi Toki, Fine Before You Ca-me, Altro, Cosmetic e HardcoreTamburo.PASSARIANO DI CODROIPO (UD) SABATO23 LUGLIO (VILLA MANIN)

Imarts FestivalTre giorni di festival con RaphaelGualazzi, Joan as Police Woman, eNathalie + Franco Battiato.CARPI (MO) MARTEDI' 26 E MERCOLEDI' 27LUGLIO (PIAZZA RE ASTOLFO)MODENA GIOVEDI' 28 LUGLIO (PIAZZAROMA)

Fara Music FestivalSi chiude con il Jim CampilongoTrio e il Fabio Zeppetella Quartetfeat. Aaron Goldberg.FARA IN SABINA (RI) SABATO 23E DOMENICA 24 LUGLIO (PIAZZA GARIBALDI)

MonfortinjazzL'ultimo appuntamento della rasse-gna piemontese è con il progettoStefano Bollani meets Gershwin.MONFORTE D'ALBA (CN) SABATO30 LUGLIO (AUDITORIUM HORZOWSKI)

Porretta SoulLa ventiquattresima edizione del

festival è dedicata alla memoria diOtis Redding. Finale con MemphisAll Star R&B Band con Spencer Wig-gins e Harvey Scales, Austin de Lo-ne All Stars con Sugar Pie DeSantoe Swamp Dogg (oggi) e Harvey Sca-les, Toni Gree, William Bell, SugarPie DeSanto, Swamp Dogg, SpencerWiggins, Percy Wiggins, MemphisAll Star R&B Band e Austin de LoneAll Stars.PORRETTA TERME (BO) SABATO 23E DOMENICA 24 LUGLIO (RUFUS THOMASPARK)

I Suoni delle DolomitiIn programma Michel Portal eLouis Sclavis (il 26, Buse de Tresca,Alpe di Pampeago), Uomini in frac.Omaggio a Domenico Modugnocon P. Servillo, J. Girotto, F. Bosso,M. Epifani, R. Marcotulli, F. Di Ca-stri, C. Calcagnile (il 28, Valpiana,Presanella), progetto speciale Il rac-conto delle Dolomiti con ReinholdMessner (il 29, Rifugio Vajolet) eper L'alba delle Dolomiti Sonia Ber-gamasco e Rodolfo Rossi in La scim-mia bianca dei miracoli (il 30, ore6, Rif. Vajolet).DOLOMITI TRENTINE MARTEDI' 26 EDA GIOVEDI' 28 A SABATO 30 LUGLIO

GruVillageAll'interno della kermesse live diThe Original Wailers, Steve Luka-ther e dEUS.GRUGLIASCO (TO) LUNEDI' 25, MERCOLEDI'27 E VENERDI' 29 LUGLIO(CC LE GRU)

Milano Jazzin' FestivalSono attesi: Duran Duran, Subsoni-ca e a chiudere il festival Slash.MILANO SABATO 23, MARTEDI' 26E GIOVEDI' 28 LUGLIO (ARENA CIVICA)

Festival delle CollineUltimi concerti per il festival tosca-no, con Magicaboola Brass Band eSusy Bellucci/Gallo Cristallo.MONTEMURLO (PO) MARTEDI' 26 LUGLIO(STRADE DEL PAESE)VERNIO (PO) GIOVEDI' 28 LUGLIO (PALAZZOCOMUNALE)

Roma incontra il mondoIl festival estivo sulle sponde dellaghetto di Villa Ada propone nell'ul-tima settimana di programmazioneconcerti di Eugenio Bennato, Cesa-ria Evora, Kultur Shock, Tuck & Pat-ti, The Original Wailers, Luciano &Irievibrations, Daniele Sepe.ROMA DA SABATO 23 A VENERDI'29 LUGLIO (LAGHETTO DI VILLA ADA)

Lucca Summer FestivalLa rassegna chiude con Jamiroquai.LUCCA DOMENICA 24 LUGLIO (PIAZZANAPOLEONE)

Ferrara sotto le stelleLa sedicesima edizione del festivalrock indipendente chiude i battenticon la seconda serata della miniras-segna «Bands Apart/Acoustic Ses-sion», in programma l'unica appari-zione italiana della arpista, cantantee autrice Joanna Newsom con JoshT. Pearson.FERRARA MERCOLEDI' 27 LUGLIO (CORTILEDEL CASTELLO ESTENSE)

OrientoccidenteSettima edizione del festival di cultu-re e musiche migranti. In cartello-ne: l'Orchestra Multietnica di Arez-zo diretta da Enrico Fink con MoniOvadia e la Banda Regional Mixefeat. Steven Brown.AREZZO DOMENICA 24 LUGLIO(ANFITEATRO)MONTEVARCHI (AR) LUNEDI' 25 LUGLIO(PIAZZA VARCHI)

Luglio Suona BeneIl festival estivo al Parco della Musi-ca dopo la parentesi dedicata allarassegna «MIT-Meet In Town», ri-prende il programma con Gino Pao-li, Fabrizio Boltro, Danilo Rea, Rosa-rio Bonaccorso, Roberto Gatto inUn incontro in jazz (domani), LouReed & Band (il 25), Caro Emerald,(il 26), Joe Cocker (il 27), BuenaVista Social Club feat. Omara Por-tuondo (il 28), Mario Biondi (il 29)e Sting (il 30).ROMA DA DOMENICA 24 A SABATO30 LUGLIO (AUDITORIUM PARCODELLA MUSICA)

Locus FestivalSono attesi Bad Plus, Joan as PoliceWoman e Mirko Signorile.LOCOROTONDO (BA) SABATO 23,DOMENICA 24 E SABATO 30 LUGLIO (LARGOMITRANO E PIAZZA ITALIA)

We Love VintageMusica, spettacoli, mostre e dibattitia tema vintage. Sul palco nelle ulti-me due serate Altare Thotemico,Arti e Mestieri con David Cross eMel Collins (oggi), Stereokimono,Prophexy e Accordo dei Contrariospite Richard Sinclair (domani).BOLOGNA SABATO 23 E DOMENICA24 LUGLIO (POLISPORTIVA DUE MADONNE)

Voci per la LibertàUn festival per Amnesty. Con AfricaUnite, Simone Cristicchi e, in chiusu-ra, Grazia Negro feat. Roy Paci,Gianmaria Testa, Riserva Moac eRoberto Citran.VILLADOSE (RO) DA SABATO 23 A LUNEDI'25 LUGLIO (STADIO DI RUGBY)

Sexto 'npluggedUn appuntamento in esclusiva nazio-nale per il festival, con Tim Burgess& Mark Collins dei Charlatans in un«acoustic set and string quartet».SESTO AL REGHENA (PN) DOMENICA24 LUGLIO (PIAZZA CASTELLO)

MusicalzooIl festival prevede Babylon Circus +Magicaboola Brass Band e PaoloBenvegnù + The R's + Kaufman.BRESCIA SABATO 23 E DOMENICA 24 LUGLIO(CASTELLO)

Black & Blue FestivalL'ultimo appuntamento è con ilJohn Hammond Quartet.VARESE SABATO 23 LUGLIO (GIARDINIESTENSI)

Rock CityOltre a una serie di «tribute» (StevieWonder, Genesis con la band italia-na The Watch, Otis Redding e Ja-mes Brown) sono previsti concerticon Sensitiva Immagine, l'ex vocalistdei Marillion Fish e i Belladonna.ROMA DA SABATO 23 A SABATO 30 LUGLIO(PARCO DEGLI ACQUEDOTTI)

ChamoisicSeconda edizione del festival dedica-to a jazz, musica contemporanea edi ricerca. Sul palco Eniac e GuanoPadano (il 29), Fabio Barovero Swe-et Limbo e Balanescu Quartet (il30).CHAMOIS (AO) VENERDI' 29 E SABATO30 LUGLIO (PIAZZA)

10 Giorni suonatiL'ottima rassegna nella cittadina delpavese porta sul palco, nell'ultimoappuntamento, Jack Johnson e labravissima chitarrista, cantante eautrice Kaki King.VIGEVANO (PV) DOMENICA 24 LUGLIO(CASTELLO)

Trasimeno BluesMolti gli appuntamenti divisi nellevarie località sulle rive del lago. Siva da Shaolin Temple Defenders eTy Le Blanc & Jazzy Soul (oggi aCastiglion del Lago e Torricella), adAwa Ly (domani a Passignano), Cy-borgs, Max Prandi, Terry Bean (sem-pre domani tra Castiglione e Corcia-no), Lurrie Bell e One Man 100%Bluez (il 25 a Magione), Dump-staphunk, Ivan Neville (il 26 a Tuo-ro), Jimmy Burns, Luca Giordano,Martin's Gumbo Street band, Qui-que Gomez (il 27 a Tavernelle),Maurizio Pugno e Mz Dee (il 28 aPiegaro), Alligator Nail, Max Sbara-gli, P-Funking Band, Paolo Venturi,Randy Hansen (il 29 a Passignano),Kokolo Afrobeat Orchestra, LouisianMojo Queen, Morblus Band, Veroni-ca & The Red Wine Serenaders, Wal-do Weathers (il 30 a Castiglion delLago, Castiglion Fosco e Paciano).LAGO TRASIMENO (PG) DA SABATO 23A SABATO 30 LUGLIO

!50!Si avvia a conclusione il viaggio so-noro isolano di Paolo Fresu. Il pro-gramma itinerante dell’ultima setti-mana (conclusione il 31 a Cagliari)prevede i seguenti concerti; duocon Furio Di Castri; progetto Sonos‘e memoria; Fresu, Daniele Di Bona-

ventura e l’Orchestra da Cameradella Sardegna diretta da SimonePittau; duo con Paola Turci; duettocon il danzatore Giorgio Rossi; Fre-su, Antonello Salis e Kocani Orke-star; duo con Ascanio Celestini; trioFresu/Gavino Murgia/Bebo Ferra.TRESNURAGHES, MEANA SARDO,GUSPINI, OLLOLAI, S. TERESA DIGALLURA, SANT’ANTIOCO, LOGORO,SIDDI DA SABATO 23 A SABATO 30 LUGLIO

Atina JazzL’edizione 2011 si intitola Condivide-re per crescere. Il ricco cartellonevede Wynton Marsalis & The JazzLincoln Orchestra, Franco D’Andrea4tet, Hilario Duran Trio, Al Jarreau eIncognito.ATINA (FR) SABATO 23, DOMENICA 24 EDA GIOVEDI' 28 A SABATO 30 LUGLIO (PIAZZAMARCONI, CORTILE PALAZZO DUCALE)

Odio l’estate/Festivaldi Villa CarpegnaRassegna nella rassegna. «Una stri-scia di terra feconda» (storico festi-val, XIV edizione, diretto da PaoloDamiani e Armand Meignan checonnette le scene jazz italiana e fran-cese) trova ospitalità a Villa Carpe-gna dal 26 al 30 con una serie didoppi recital: Francois CorneloupTrio/Antonello Salis; Sivia BolognesiAlmond Tree/Christophe MonniotVivaldi Universel; Sidony Box Trio/Danilo Rea; Benjamin Flament/Cle-ment Janinet e la Paolo DamianiBand; Dado Moroni/Radiation 10. Inprecedenza sono di scena il quintet-to di Frank McComb, la Saint LouisBig Band con Enrico Intra ospite elo stesso organico con Javier Girottoin Escenas argentinas.ROMA DA SABATO 23 A SABATO 30 LUGLIO(VILLA CARPEGNA)

Casa del Jazz FestivalSi comincia con uno spettacolo dedi-cato a Tiziano Terzani (narrazione ecommenti di Angela Terzani Staude,musiche di Francesco Bruno) perproseguire con il trio di Yaron Her-man, il Rendez Vous Quartet diMaurizio Giammarco e Riccardo DelFrà e i concerti latin jazz di StefanoRossini Batuque Percussion, ClaudiaMarss & Quartetto Novo, NatalioMangalavite, Gianni Savelli MediaRes, quartetto di Michael Rosen.ROMA DA SABATIO 23 A SABATO 30 LUGLIO(CASA DELLA JAZZ)

Clusone JazzLa manifestazione ha in programmail duo Paolino Dalla Porta/GiovanniFalzone, Eric Boeren 4tet nel reper-torio di O. Coleman, il progetto Ecu-ba con il gruppo Enten Eller e JavierGirotto, duo Bebo Ferra/J. Girotto,trio Fabrizio Puglisi/Ernst Glerum/Han Bennink, Ravi Coltrane 4tet.CLUSONE (BG) DA SABATO 23 A SABATO30 LUGLIO (MAT MUSEO, TEATRO TOMASINI,PIAZZA DELL’OROLOGIO)

Teano JazzUltime due serate per il festival conBilly Cobham Band West e JohnMcLaughlin & 4th dimension.TEANO (CE) SABATO 23 E DOMENICA24 LUGLIO (AUDITORIUM DIOCESANO)

Peperoncino JazzConcerti in provincia di Cosenzacon Ravi Coltrane Quartet, EddieGomez con Salvatore Bonafese eJoe La Barbera (omaggio a Scott LaFaro), John Scofield Quartet, PaoloDamiani in solo. A Spezzano dellaSila e Lorica (Cs) recital dei jazzistinorvegesi Tore Brunborg, MariKvien Brunvoll, Dag Arnesen Trio.MORANO CALABRO, S. PIETRO INAMANTEA, ROSSANO (CS) TAVERNA (CZ)SABATO 23 E DA LUNEDI' 25 A SABATO30 LUGLIO

Calagonone Jazz FestivalDedicato a Miles Davis, il festivalpropone il quintetto di Tom Harrell(impegnato nel repertorio modaledi Davis), la Kocani Orkestar, il triodi Hilario Duran e quello di AlbertoPibiri.CALAGONONE-DORGALI (NU) SABATO 23,VENERDI' 29 E DOMENICA 30 LUGLIO(TEATRO COMUNALE)

a cura di Roberto Peciola con Luigi Onori (jazz)(segnalazioni: [email protected])

Eventuali variazioni di date e luoghi sonoindipendenti dalla nostra volontà.

ON THE ROAD

ALIAS N. 29 - 23 LUGLIO 2011 (15

■ INCONTRI ■ INTIMISTA, ROMANTICO, POLITICO ■

Adesso basta,parola di Raiz

di Grazia Rita Di Florio

Alpha Blondy, nome diriferimento del reggae, sostieneche l’origine di tutte le questionireligiose non siano i profeti bensìil modo in cui le loro parole vengo-no interpretate e diffuse dai disce-poli. Non è una boutade, AlphaBlondy ne è convinto. In quest’ot-tica non è possibile rintracciare inMosè, Gesù o Maometto la causadelle divisioni religiose, ma nell’in-terpretazione della loro «parola»da parte dei seguaci.

Un colpo al cerchio e l’altro allabotte, da una parte solleva il gran-de tema delle religioni monotei-ste, dall’altro ne condanna le isti-tuzioni. In uno dei suoi brani piùcelebri, Jerusalem, la star ivorianacanta: «A Gerusalemme puoi vede-re cristiani, ebrei e musulmani, vi-vere insieme e pregare, amen».Un esempio di coesistenza pacifi-ca e di tolleranza nelle società plu-rali. Alpha Blondy ha anche dedi-cato una canzone a Yitzhak Ra-bin, assassinato da uno sciovini-sta ebraico. Jerusalem è stata og-getto di rivisitazione, da Alborosiea Raiz, che ne hanno fatto coverpiù che convincenti. Quest’ultimo

ha pubblicato di recente un nuo-vo disco, Ya!, per l’etichetta Uni-versal. Ya! è un’esortazione ara-bo-israeliana che incita al movi-mento, e trova una similitudinecon una sillaba, ja, usata a Napoli,città natale di Raiz, nel senso di,«dai, facciamo pace». Il disco, vadetto, non all’altezza dei trascorsicon gli Almamegretta, incuriosi-sce per l’attitudine a guardare alfuturo pescando nel passato, sal-dati assieme dal timbro sgranatodi Raiz. E per il messaggio che, asuo modo, tenta di dare, focalizza-to più su una visione di unificazio-ne, volto a smorzare i toni estremi-sti di entrambi i popoli coinvoltinel conflitto israelo-palestinese.L’intento di Raiz è quello di pro-muovere la pacificazione a partireda una semplice sillaba per giun-gere all’attuazione di un disegnopiù grande, quello di due popoli,due Stati.

L’artista è di origine ebraica perparte di madre, un’ebrea-polacca,e Raiz ci spiega la sua educazioneall’ebraismo che lo ha portato aprendere posizione in favored’Israele e ad abbracciare la causasionista; una scelta di campo chegli ha precluso l’affetto di diversifan, delusi e arrabbiati a causa dialcune dichiarazioni del cantante,una sorta di presunto tradimento

del materialismo espresso ai tem-pi di Almamegretta. Il disco è sta-to concepito ai piedi della collinadi Posillipo con la collaborazionedei Planet Funk, il cui apporto èfondamentale per la virata sullacassa in quattro, e dei soliti Radi-canto pronti ad aiutare Raiz a tes-sere le trame di quella «musicamediterranea immaginaria» e im-maginata, in nome della quale fusfornato l’album Imaginaria(2001) con Almamegretta.

Cominciamo a parlare delle sfu-mature musicali del disco, degli in-gredienti che Raiz continua a usa-re per rappresentare la diversità, edei testi e delle canzoni.

«Sì è vero - dice - che i miei di-schi da solista hanno una propen-sione più intimista, più romanti-ca. Ero io il più romantico delgruppo all’interno degli Almame-gretta, quello più orientato allacanzone d’amore. Sin dall’epocaritenevamo di fare però con le no-stre canzoni la politica con la "p"minuscola, di occuparci di quellache viene più comunemente defi-nita la micropolitica, quella bran-ca, quella parte della politica chesi occupa delle cose di tutti i gior-ni, del vivere civile, del vivere unoin relazione con l’altro. Ecco, cre-do che con gli Alma abbiamo sem-pre dimostrato di essere un grup-

po anti-razzista, anti- sessista, an-ti-omofobo, fautore del dialogotra diverse musiche e diverse cul-ture. All’epoca abbiamo dichiara-to la nostra propensione per unacoesistenza pacifica dei popoli edelle culture, che non devono ne-cessariamente mescolarsi se nonlo vogliono, ma quantomeno con-vivere uno accanto all’altro senzafarsi la guerra. E io come singoloindividuo, la penso esattamentein questa maniera».

Da quando ha iniziato la carrie-ra da solista, nel 2003, uscendodal collettivo partenopeo per dedi-carsi ad altri progetti come cantan-te e attore, Raiz si è concentratopiù sulla scrittura di canzoni a te-ma sul conflitto arabo-israeliano,come Rev Rav (da Uno, Universal,2007), in cui aveva già espressouna posizione in favore di unaconciliazione definitiva; nel nuo-vo disco l’intento va rintracciatotra i solchi, tra le strofe delle can-zoni, in cui ritroviamo anche unacover di una ballata israeliana damatrimoni, di Zohar Argov, Hape-rach Begani, qui trasformata in A'rosa ('e int'o ciardino mio), assie-me a un’altra cover, One Blood,del giamaicano Junior Reid, checoniuga la passione del cantanteper i ritmi sincopati con l’idea diunità e uguaglianza. Prima di

Raiz, altri personaggi, più illustri,si sono dichiarati a favore dellostato d’Israele: ad esempio BobDylan che nella canzone Nei-ghborhood Bully (contenuta inuno dei suoi album più politici, In-fidels, 1983), dichiara: «Well, theneighborhood bully, he’s just oneman. His enemies say he’s on the-ir land, They got him outnumbe-red about a million to one» (Il bul-lo è uno solo (…) i nemici sono mi-lioni), in cui il menestrello di Dulu-th esprime il disagio di un piccoloStato nei confronti di un popolonumeroso e ostile.

Il realtà il pericolo di una coali-zione massiccia del mondo arabonei confronti del nemico sionistaappare improbabile (in tempi diprimavere arabe e di un auspicatorisorgimento delle forze progressi-ste), e pur sottolineando le conse-guenze di una jihad permanente,del mancato riconoscimento del-lo stato di Israele, resta il fatto cheè Israele a tenere i palestinesi sot-to assedio, e che è Israele uno Sta-to che esiste grazie all’uso dellaforza. «Io - dice Raiz - auspico la fi-ne degli stati mononazionali, cioèstati fondati sull’equiparazionegruppo etnico/nazione, e propen-do più per un’idea di stato in cuiogni cultura sia parimenti ricono-sciuta». Bisogna però riflettere sul

fatto che gli stati plurinazionali sono potenzialmente carenti di requisiti democratici, e ciò avvie-ne nelle situazioni in cui una nazione o un’etnia è superiore percentualmente alle altre, come av-viene nella cosiddetta democrazia di Israele.

«Dal mio punto di vista - aggiunge - ciò che preclude realmente il processo di pace è il fatto chei palestinesi non abbiano un interlocutore credibile, il mancato riconoscimento di Israele rendevano qualsiasi sforzo che un governo sia di destra o di sinistra può voler fare per far cessare il con-flitto, qualsiasi cosa dica Netanyahu; il fatto è che in Israele esiste un governo che può impegnarsi

a tener fede agli accordi presi in vi-sta di un processo di pace, mentrei palestinesi non hanno una rap-presentanza univoca disposta a se-dersi a un tavolo di trattative; am-messo che gli esponenti di Hamasvogliano farlo, il giorno seguenteci sarà sempre una frangia salafitao qualche altro gruppo fondamen-talista, che si opporrà».

Il nodo da sciogliere resta dun-que da un lato la questione delfondamentalismo islamico, dall’al-tra quella dell’imperialismo israe-liano, perpetrato con le guerre diespansione su territori tuttora ri-vendicati; importante anche laquestione che riguarda la conce-zione antropologico-essenzialistache affonda le radici nel giudai-smo, utilizzata come strategia poli-tica dallo stato d’Israele (sull’argo-mento si vedano i saggi di HannaArendt, Antisemitismo e identitàebraica 1941-1945, e Illuminismoe questione ebraica, 1932).

«La cosa che mi irrita è che nonsi riconosce il fatto che l’emigra-zione degli ebrei in Palestina (or-ganizzati in kibbutz, ndr) fu favori-ta dagli inglesi che governavanoquei territori con la dichiarazioneBalfour del 1917, i quali fecerocombutta con i sultanati arabi perla vendita dei terreni ai coloniebrei; ora la cosa che vorrei è cer-care di guardare avanti e lavorareper il processo di pace, che passanecessariamente per il riconosci-mento dello stato d’Israele, unacosa che neanche i filo-palestinesiitaliani accettano. Non ho maisentito i sostenitori della causa pa-lestinese esprimere una volontàdi dialogo con i sionisti di sinistrao con quelle frange della popola-zione israeliana che si oppongonoalla politica di Israele. Io nel miopiccolo, come artista e come indi-viduo, cerco di promuovere l’ideadi convivenza pacifica di dialogofra i popoli. Dico che bisogna ri-partire dalle cose semplici, risco-prire l’umanità».

L’artista, di origine ebraica, spiega

la sua posizione sul conflitto

istraelo-palestinese. Schierato

con la causa sionista, alcune sue

dichiarazioni

hanno seriamente

irritato i fan

della prima ora

Un’immagine di Raiz RITMI

16) ALIAS N. 29 - 23 LUGLIO 2011

13 & GODOWN YOUR GHOST (anticon.)

6Il collettivo 13 & God dopo un silenzio duratosei anni ci riprova. E lo fa senza preoccuparsipiù di tanto di dover stare dietro alle nuove

formule sonore, alle mode ecc. Si ripete esattamente perquello che è, ossia un progetto che mette insieme mem-bri di una band tra le più importanti dell’elettronica, itedeschi Notwist, e il combo hip hop sperimentale statu-nitense Themselves (costola dei cLOUDDEAD) e il cuirisultato non è altro che l’esatta somma delle due ani-me. Prendere o lasciare, e chi se ne importa se non suo-na particolarmente «attuale». (r.pe.)

AA. VV.LET ME TELL YOU ABOUT THE BLUES: NEW ORLEANS BLUES (Fantastic

Voyage/Goodfellas)

6Consueto episodio discografico che la F.V.dedica alle città statunitensi. In questo casoNew Orleans. La struttura della compilazione

è la solita: settantacinque brani in tre dischetti. Non con-vince però la scelta di definire la pubblicazione come«New Orleans Blues», appare improbabile immaginaregente come Carter, Chatman o i Miss. Sheiks come espo-nenti della città. Nelle linee di presentazione si argomen-ta ciò con l’importanza di Nola come sede di registrazio-ne, particolarmente con il riferimento agli studi del leg-gendario Cosimo Matassa. Tutto vero, ma non sarebbestato più onesto dare un altro nome al tutto? (g.di.)

MARCELLO ALULLI TRIOHERMANOS (Zone di Musica)

7Si respira una confortante, corroborante ariadi libertà in questo disco del Mat Trio, guida-to da un ottimo musicista come Marcello

Alulli, sassofonista a proprio agio, infatti, anche con lespigolose e imprevedibili partiture zappiane quandocollabora con l’ottetto Mainerio. E un po’ dello spiritozappiano, se non della forma, lo trovate anche qui, in unlavoro capace di passare fulmineamente da concitate,puntute escursioni nell’elettricità più pura a incredibilioasi di quiete, magari sottolineate da un coro di amici,come nel brano che intitola il tutto. Ospite Fabrizio Bos-so alla tromba, colto al suo meglio. (g.fe.)

ALFIO ANTICOMALAVOGLIA (Crocus-Borgatti)

7La rivisitazione del mito di Verga in chiaveultra moderna che trova però proprio nellemusiche di Alfio Antico un tema di continuità

con un’appartenenza inequivocabile, quella della terra edella musica della terra, ritmo, armonie, tribali suoni cherendono lo score di questo lavoro di Pasquale Scimecainteressante, univoco nel tempo e nella dimensione delrecupero della memoria e Alfio Antico saggiamente ciconduce in una dimensione quasi spirituale. (m.ra.)

BARON BANELPTO (Despotz/Audioglobe)

6Qualche spunto interessante ogni tanto appa-re, come il viandante della leggenda che da-rebbe il nome alla band svedese, giunta al

secondo lavoro, ma il succo del discorso resta abbastan-za insipido. Dream pop in salsa electro con riferimentipiù o meno palesi a ben più illustri predecessori delgenere, il tutto condito di molte buone intenzioni masenza quell’appeal necessario a farci propendere per unvoto che vada oltre la - stentata - sufficienza. (b.mo.)

ALOE BLACCGOOD THINGS (Carosello)

7Dice - questo trentaduenne novello soul croo-ner da Los Angeles - che I Need a Dollar èpura autobiografia. Era rimasto senza il becco

di un quattrino dopo un paio di di dischi hip hop passatiquasi senza lasciar traccia. Il risultato è un singolo damesi colonna sonora portante di spot pubblicitari, im-mancabile in ogni scaletta radiofonica che si rispetti. E ildisco - che incredibilmente viene stampato da noi conmesi di ritardo, per iniziativa della Carosello - non è dameno: concentrato soul di alta scuola che, a costo diesser tacciati per vecchi tromboni, non passa mai di mo-da. C'è anche una cover e, sorpresa, non r'n'b: è Femmefatale dei Velvet Underground. Come dire, mai metterepaletti alla buona musica... (s.cr.)

CREMALA MIA CARTA D'IDENTITÀ (Breakmagik)

7Qualcuno lo ricorderà in Ke ne sai?, il pezzopiù incisivo della raccolta Epicentro romanoVol. 3. All’epoca era Baby G Crema oggi solo

Crema ma la voce ruvida e graffiante è la stessa. Questedoti vocali e un flusso di rime teso e infervorato rendonoil rapper romano di origine capoverdiana nato nel 1981tra i migliori in circolazione. Sulle basi più dure, comePrima porta di Dj Baro, il nostro dà il meglio. Ma il princi-pale produttore musicale è Cukiman che dà al suonouna veste aggiornata alle ultime tendenze urbane, nonsolo hip hop (vedi la bass music): la notturna I guardia-ni dello zoo in questo senso è emblematica e in altripaesi sarebbe una hit. L'album contiene un remix di IceOne. Tra gli ospiti Esa, Gente de Borgata, Julia Kee eMatt er Negretto. (l.gr.)

AA.VV.PROG EXHIBITION (Immaginifica/Edel)

8Il cofanetto (sottotitolo 40 anni di musicaimmaginifica) contiene 7 cd (9 ore di musi-ca), 4 dvd e un booklet con molte foto, e

restituisce il concerto svoltosi a Roma il 5 e 6 novembre2010 al teatro Tendastrisce. Durante due serate affollatis-sime, a quarant’anni della nascita del rock progressive, sisono susseguiti sul palco alcuni dei più grandi rappresen-tanti italiani del genere, con alcune guest star straniere.Quindi troviamo la Premiata Forneria Marconi con IanAnderson dei Jethro Tull, il Banco del Mutuo Soccorso,David Cross dei King Crimson, Thjis Van Leer dei Focus,David Jackson dei Van der Graaf Generator, Gianni Leo-ne del Balletto di Bronzo, gli Osanna, The Trip, NuovaRaccomandata con Ricevuta di Ritorno, Claudio Simonet-ti, Aldo Tagliapietra, Tony Pagliuca, Tolo Marton, o nuoveproposte come Periferia del Mondo, Maschera di Cera,Sinestesia e gli Abash. Un ricco cofanetto da collezioneper rivivere quel concerto o per vederlo e ascoltarlo final-mente, se non si ha avuto la fortuna di potervi assistere.Per lasciarsi avvolgere dalla bellezza della psichedelia efarsi trasportare in un non-tempo estetico e musicaledove gli anni Settanta si coniugano al presente. (g.lu.)

EL V & THE GARDENHOUSEDESDE LA CALLE (Molto Records/Universal)

7El V&The Gardenhouse, è una band emi-liana fondata e capitanata da Marco Vec-chi che va in scena da oltre vent’anni con

il suo particolare stile reggae, latino-emiliano. El Vha fatto tanta gavetta, tanti mestieri, i più umili, finoal cantante con equivalenti soddisfazioni, tra cuiquesto secondo album, Desde la calle (un ripescag-gio del 2010 che vale la pena di segnalare) in salsa-muffin e reggaeton, con sprazzi hip hop, soul, cherecupera lo spettro della black music a 360 gradi,cantato in spagnolo, italiano e inglese. Il disco sicompone di quindici tracce (tre bonus) rivelando,una dopo l’altra, per prima cosa, una band versatile,ben amalgamata, con un alto livello di affiatamentoe una grossa capacità di sopravvivere in situazionidifficili, poi il contributo delle due voci e contro-vocifemminili, una vera carta vincente. Insomma scopri-teli, se ancora non li conoscete, sono uno spassoassicurato. (g.d.f.)

PAT JORDACHEFUTURE SONGS (Constellation/Goodfellas)

7Canzoni del futuro che guardano al passa-to. Pat Jordache, nome d’arte del canade-se ex Sister Suvi Patrick Gregoire, ha «pub-

blicato» questo suo esordio un paio di anni fa su,udite udite, musicassetta! Un album registrato intotale solitudine (a parte qualche ospite alla batte-ria), in casa, con l’ausilio di un vecchio computer edi software obsoleti. Il risultato è un noise pop dalsapore, e come potrebbe non esserlo, lo-fi, ma ditutto rispetto E anche la voce - che non si può certodefinire «aggraziata» - concorre al fascino di un di-sco che ora la Constellation mette a disposizionenei formati più «moderni»... (r.pe.)

GAETANO LIGUORI IDEA TRIONOI CREDEVAMO (E CREDIAMO ANCORA) (Bull/Ird)

8Il pianista milanese, quarant'anni dopo,rifonda il trio con gli stessi Roberto DelPiano (basso elettrico) e Filippo Monico

(batteria e percussioni) per ribadire gli ideali di sem-pre, mai sopiti, a cominciare dalla triade Marx, Le-nin, Mao Tse Tung, messa all'inizio di un lungo elen-co di credo (e crediti). Nelle due lunghe suite crono-logicamente invertite, poi, Gaetano si conferma ere-de legittimo del free jazz politico tra citazioni disong protestatarie e scatti di rabbia atonale: tra laprima (registrata lo scorso gennaio) e la seconda(un inedito del 1972) c'è ancora la stessa voglia diimpegnarsi, credere, lottare e «resistere, resistere,resistere». (g.mic.)

QUEENSRYCHEDEDICATED TO CHAOS (Roadrunner/Warner)

4Gli «esperti» del settore sono concordi neldefinire i Queensryche una band fonda-mentale, a cavallo tra Ottanta e Novanta,

nel suono metal «colto», un qualcosa di molto vici-no al prog metal. Altrettanto concordi sono nel giu-dicare la formazione di Seattle come morta compo-sitivamente ormai da quasi vent’anni. Per onestàdiremo che chi scrive non li ha mai amati, neanchenel loro momento migliore, trovandoli sempre ec-cessivamente artefatti. Oggi tornano con il dodicesi-mo album della carriera, hanno lasciato da parte ilprog metal e si dedicano a un più «semplice» rockdi ispirazione hard, ma il risultato, a parer nostronon cambia. Il loro rock è finto come le immaginiche li ritraggono sul retro di copertina e all’internodel booklet. (r.pe.)

JILL SCOTTTHE LIGHT OF THE SUN (Warner)

8Cantante, attrice - tre Grammy Award econ questo quattro dischi da studio - l'arti-sta statunitense regala ai fan canzoni fon-

damentalmente hip hop ma con un occhio attentoal passato. L'apertura Blessed è un evidente omag-gio a Marvin Gaye e al suo capolavoro assoluto usci-to proprio quarant'anni or sono, What's Going on,ma il resto della raccolta è di livello assoluto e sind'ora sembra candidarsi fra le migliori opere delgenere uscite nel 2011. (s.cr.)

WAYNE SHORTERINTRODUCING (Essential Jazz Classics/Egea)

7Il cd raccoglie i primi due dischi dell’allora(1959) ventiseienne tenorista, uno a pro-prio nome (Introducing Wayne Shorter),

l’altro (With Kelly) sotto la guida del pianista Wyn-ton Kelly, ma, salvo la batteria, con la stessa forma-zione. All’epoca Shorter era anche il saxman deiceleberrimi Jazz Messengers di Art Blakey; e di que-st’ultimo l’innovativo spirito hard bop pervade so-prattutto il primo disco, con un altro eccitante «mes-saggero», Lee Morgan alla tromba, a inventare unclimax focoso da jam session, con galoppate soliste,che già fanno presagire il radioso avvenire di Waynebraccio destro nel Miles Davis Quintet e poi da lea-der, con Joe Zawinul, dei Weather Report. (g.mic.)

stefano crippagianluca diana

grazia rita di florioguido festineseluca gricinella

gabrielle lucanotnioguido michelone

brian mordenluigi onori

roberto peciolamarco ranaldi

L E G E N D A

Guido Michelone

Rolling Stones, miglior rock’n’roll band,ma anche l’esempio sociologico piùeclatante e contraddittorio di come artee industria, ricchezza e provocazione,narcisismo spontaneo e auto distruttivi-tà calcolata possano andare d’accordosino alla perfezione maniacale, sino afar scorrere fiumi d’inchiostro a opinioni-sti, semiologi, critici rock e osservatoridel costume. Prima i libri «sui», oggi an-che quelli «dei» Rolling Stones. Giungo-no in contemporanea, almeno in Italia,tre libri che raccontano in prima perso-na altrettante vite spericolatissime nellafront line delle Pietre Rotolanti: KeithRichards e Ron Wood, le chitarre, e MickJagger la voce, si rendono ulteriormenteprotagonisti debordanti ed esagerati,raccontandosi senza peli sulle lingue,proprio com’è nel loro stile, sia pur conle ripetizioni e i manierismi che si devo-no all’età (rispettivamente 68, 64 e 68anni). Il testo più bello è senza dubbioLife (Feltrinelli, pagine 524, euro 24) diKeith Richards, anzitutto perché narratodal vero genio degli Stones, da semprel’anima nera, hippy, trasgressiva, anarcoi-de dell’intera band, nonché soffertocompositore e trascinante performer neiriff alle Telecaster di un repertorio male-ducato, sporco, profondamente bluesy.E poi Richards scrive come parla e comesuona: la prosa, riarrangiata dal giornali-sta James Fox, sa quasi di beat genera-tion nell’insistere sui particolari, nel gio-care sempre a «épater le bourgeois», nelribadire, tra fermezza, autoironia, sinceri-tà, la filosofia del «sex and drugs androck’n’roll». Un esempio: «I Rolling Sto-nes trascorsero il loro primo anno di vitagirando per locali, scroccando cibo e

facendo prove. Pagavano per essere iRolling Stones. Il posto dove stavano -Mick, Brian e io - al 102 di Edith Grove,a Fulham, era davvero ripugnante. Aven-do poche possibilità di migliorarlo, eradivenuto quasi un nostro dovere profes-sionale mantenerlo in quello stato».

Come si sa, Richards è, assieme a Jaggere Charlie Watts, il membro originario diuna band che cambia tre chitarre soli-ste; dopo Brian Jones e Mick Taylor, Wo-od è dunque l’ultimo arrivato, ma perparadosso quello meglio inserito, un«rollingstone» completo, se non altroper la salda amicizia con Keith che nel1975 lo preleva dai Faces di RodStewart. Questo e altro spiega, con l’aiu-to di Jack McDonald e Jeffrey Robinsonin Ronnie. Giorni e notti dei Rolling Stones(Rizzoli, pagine 318, euro 19.50), avva-lendosi persino di pitture e disegni. So-no interessanti, nel libro, i primi capitoli,

quando il chitarrista diventa tra le figuredi spicco della british invasion primacon i Birds, poi con il Jeff Beck Group einfine con il quartetto post-beat che rap-presenta la naturale evoluzione degliSmall Faces. Fra le tante avventure (tal-volta speculari ai «misfatti» di Richards),Ronnie dedica alcune belle pagine an-che alla musica giamaicana.

Infine Jagger: da un po’ afferma che nonscriverà mai un’autobiografia, ecco allo-ra una storia per immagini: Mick Jagger.The Photobook (Contrasto, pagine 100,euro 35) a cura di François Hébel. 71click dal 1971 al 2008 di 36 grandi foto-grafi che lo ritraggono glamour, modelloideale di una Swingin’ London perenne,dove il volto, il corpo, i capelli, gli abitiesprimono un’identità dirompente cheoscilla, con nonchalance, tra avanguar-dia e furbizia, in un microcosmo anch’es-so in bilico tra business e rivoluzione.

ULTRASUONATI❙ ❙ B O O K N O T E ❙ ❙

Il rock che rotola.Keith, Mick & Ronnie,duri come le pietre

NGUYÊN LÊSONGS OF FREEDOM (Act)

8Il chitarrista franco-vietnamita è artista dipunta della label tedesca e del suo etno-jazz.Lê è stato ospite del trio di Céline Bonacina

(Way of Life, 2010), titolare di un cd scritto con MiekoMiyazaki (koto) e il tablista Prabhu Edouard (Saiyuki,2009), oltre ad aver avuto l’onore di una Signature Edi-tion (due cd, 2010), serie antologica della Act che pre-mia i suoi migliori artisti. La dizione etno jazz al chitarri-sta-compositore-arrangiatore sta stretta; è vero chepesca dai folklori di mezzo mondo e che la sua chitarra,di scuola hendrixiana, ha metabolizzato soprattutto icordofoni dell’Estremo Oriente. Tuttavia egli agisce inmodo sofisticato e postmoderno, ha un’ottica sonoratransnazionale e planetaria lavorando su timbri, metri-che, vocalità con risultati alterni. Spesso Nguyên Lê èstraordinario come sideman e meno convincente comeleader. Anche nel suo ultimo disco Songs of Freedom(tra gli ospiti Dhafer Youssef, David Linx, Chris Speeed),dove attinge a un repertorio prevalentemente rock,centra il bersaglio quando mondializza brani come Elea-nor Rigby, Black Dog, il suo More Over e l’inno marle-yano Redemption Song. Global-local. (l.o.)

PAOLO BONFANTITAKIN’ A BREAK (Club de la Musique)

8Uno può anche provare a sgranare il rosario della memoria roots rock,ma i conti non tornano mai con nessuno, in Italia, o quasi. E se riuscia-mo a mettere sul piatto qualche unità, a confronto con le decine e le

centinaia di grigi epigoni, non ci sarebbero esitazioni a mettere Paolo Bonfanti,nelle schiere risicate di chi può andare in giro a testa alta. Bonfanti è un bluesmanprestato al rock, o viceversa, con il dono della scrittura forte, e una tecnica sulla seicorde ammaliante. Collabora da pari a pari con i «roots rockers» a stelle e strisce e

adesso arriva questo Takin’ a Break, ed è festa grande per chi ama il songwriting arioso e puro, di gran classe, e perchi ama rintracciare piste e ascendenze sfiorate, proposte e suggerite con sottile gusto dell’accumulo: già a iniziare dalblues arcaicizzante di Dark and Lonesome Night, sepolto sotto una coltre di elettricità, alla Alvin Youngblood. Passi aShoot ‘em All Down, e ritrovi il passo ruggente dei Credence, nella storia di un ragazzino obeso che va in giro con unapistola. E poi il country rock, il groove alla New Orleans di Isolation Row, le ombre sorridenti di un Bob Dylan sgualcito,la poetica indolenza di certe pagine di Neil Young. Una enciclopedia di popular music tra le dita. E nel cuore. (g.fe.)

ALIAS N. 29 - 23 LUGLIO 2011 (17

di Cecilia Bello Minciacchi

Allievo dell’umanesimodi Watanabe, che fu esemplare stu-dioso della letteratura e della filo-sofia del Rinascimento francese,Kenzaburo Oe ha concepito il pro-prio lavoro di romanziere nellasperanza che «serva a guarire daldolore individuale e di un’interaepoca sia coloro i quali si esprimo-no attraverso le parole, sia il loropubblico, e che serva a curare le fe-rite della loro anima». Così diceva,con la sua chiarezza consueta, alconferimento del Nobel nel 1994.Il discorso che pronunciò allora,tradotto in Italia insieme al testopiù politicamente scandaloso diOe, Il figlio dell’Imperatore (Marsi-lio, 1997), ribadiva la forza della let-teratura e insieme le lacerazioniprovocate in lui dal suo «ambiguoGiappone». La disposizione di Ken-zaburo Oe, è stata, fin dagli esordi,quella di chi nella letteratura ripo-ne profonda fiducia, di chi alla let-teratura sa affidare l’impegno di«lenire e curare» traumi individua-li e collettivi. La sua scrittura, cheesplicitamente mira a creare im-pressioni durevoli, affronta allostesso tempo, in giochi finissimi dirispondenze simboliche, il doloredel singolo e della storia, nel tem-po presente come in epoche lonta-ne. E l’inesprimibile viene raccon-tato, prende forma mutevole, a vol-te malinconica o introspettiva, avolte grottesca e sarcastica, ma co-munque affiora con tutto il suoportato misterioso, prima sfuggen-te e poi costretto a cedere, a risol-versi di fronte allo «straordinariopotere terapeutico» che hanno,per Oe, arte e letteratura. Potrem-mo parlare di catarsi, se fossimonella Grecia antica, ma siamo in

Oriente e la soluzione, luminosa eallusiva insieme, si arresta appenaprima, e non è mai apodittica an-che se è potente: è più spesso l’in-dicazione di una strada da percor-rere che non la guarigione ottenu-ta. E così la libertà è garantita aogni lettore, e il sollievo che loscrittore desidera dare non si tra-sforma mai in violazione dell’inti-mità, né in conforto facile o grosso-lano. Come dire che la consapevo-lezza di quanto rimane comunqueimmedicabile è parte del gioco edella sua soluzione. Il dolore ha,nella scrittura di Kenzaburo Oe,una sua spessa e vischiosa storici-tà. I suoi personaggi sanno parlar-ne, non si limitano a subirlo; san-no collocarlo nella propria biogra-fia anche quando non lo capisco-no fino in fondo, quando il traumada cui nasce non è ancora affiora-to alla coscienza, e sanno ricono-scerlo nelle rivolte e nelle offesedei secoli passati.

Questi temi, questo spessore ap-partengono all’ultimo romanzo diKenzaburo Oe pubblicato in Ita-lia, La vergine eterna (traduzio-ne dal giapponese di Gianluca Co-ci, Garzanti, pp. 250, € 18,60). Ildolore che prende forma in un in-cubo oscuro e ricorrente ha ac-compagnato la vita di Sakura OgiMagarshack, bellissima star del ci-nema hollywoodiano, colta e «fon-damentalmente taciturna». Insie-

me al produttore Komori Tamot-su e allo stesso Kenzaburo Oe,Sakura si è dedicata a immagina-re e studiare per diversi mesi unruolo femminile di vigorosa cara-tura morale da inserire in un filmgiapponese ispirato al romanzodi von Kleist, Michael Kohlhaas,sulla rivolta contro un crudelejunker al tempo di Lutero. Oe hail compito, non facile, di scriverela sceneggiatura trasponendo lastoria di Michael Kohlhaas all’epo-ca delle «due rivolte contadinedello Shikoku nel periodo dellaRestaurazione Meiji». A Sakura do-vrebbero essere affidati due perso-naggi, quello della moglie diKohlhaas, Lisbeth, ingiustamenteassassinata, e quello di una zinga-ra che predice il crollo della Sasso-nia. Lentamente, durante il lavo-ro di rielaborazione, l’eroe che ca-peggiò la prima rivolta nelloShikoku, il giovane Meisuke, fau-tore delle rivendicazioni dei con-tadini, cede il ruolo protagonistaa una figura carismatica in cui sisovrappongono i caratteri di Li-sbeth e della zingara: la Madre diMeisuke, «il prototipo della don-na straziata dal dolore che ardedal desiderio di vendetta».

Il progressivo slittamento è favo-rito da una visita di Sakura nelloShikoku, la regione dove è natoKenzaburo Oe e dove continuanoa vivere madre e sorella. Agisce da

scintilla il ricordo di una rappresentazione teatrale allestitadalla madre di Oe, il dramma intitolato La Madre di Meisukescende sul campo di battaglia, di cui fu lei stessa protagoni-sta dilettante. Tutto allora diviene evocativo, affilato nel nito-re dei dettagli che hanno sempre squisita qualità visiva, matutto è potentemente, moralmente evocativo. Il senso diquel dramma legato alle leggende tradizionali, celebrazionedi una rivolta contro malvagi op-pressori, si sposa perfettamentecon la «forte coscienza politica» divon Kleist. Il romanzo è fitto di in-trecci fascinosi e di legami perso-nali con la storia, sia quella delGiappone, sia quella costruita nelromanzo; le pagine sono tramatedi echi via via più distinguibili.Kenzaburo Oe aveva solo diciasset-te anni quando per la prima voltaaveva visto, o meglio contempla-to, in un 8mm poco più che amato-riale presso il Centro culturaleamericano di Matsuyama, Sakurabambina, con indosso una «vestecandida e fluente», nella parte diAnnabel Lee dall’omonima poesiadi Poe. Per entrambi le scene finalidi quel film girato dal soldato ame-ricano che aveva adottato l’orfanaSakura, David Magarshack, poiprofessore di nipponistica negliStati Uniti e marito di Sakura, ri-mangono per decenni avvolte dimistero. I segni rivelatori sono di-sposti nel romanzo con delicataeleganza: qualche sospetto (maipronunciato) della signora Yanagiamica di Sakura, l’immagine diuna fotografia (o pellicola?) intravi-

sta tra le pagine di un libro da Ken-zaburo adolescente, la suggestio-ne della poesia di Poe che piangela piccola Annabel Lee raggelatada un vento oscuro in riva al mare,qualche nucleare citazione da Loli-ta di Nabokov, un libro di fotogra-fie pedopornografiche del dopo-guerra, You can see my tummy, se-questrato alla dogana a turisti inpartenza. E poi la leggendaria, tri-ste fine della Madre di Meisuke,violentata a turno dai soldati delsuo persecutore e privata del figlioucciso in riva a un fiume. E la«“scatola nera” del professore»,una «collezione molto speciale»che il vanitoso Komori dovrà gesti-re per Sakura rischiando grossoper guarirla dalla «paura indicibi-le», dal «terrore indefinito» del suoincubo. E la passione di giustiziadella sorella di Oe che interroga leanziane del villaggio per ricostrui-re il commovente monologo dellaMadre di Meisuke.

La profondità delle stratificazio-ni letterarie e personali fa la ric-chezza di questo romanzo e per-mette di collocarne la lettura nella

luce dell’impegno: «mi devi assicu-rare una cosa... – chiede Komori –engager. Ti ricordi, no? Engager,Kensanro, engager...». Questo im-pegno certo non stupisce in chi,compiendo personalmente unviaggio «estenuante», ha scritto leimprescindibili Note su Hiroshima(Alet, 2008), in chi ha dichiarato ri-cevendo il Nobel: «lo stile di fondodella mia letteratura trova le suebasi proprio nella concretezza delmio personale vissuto che poi col-lego a più ampio ambito, la socie-tà, lo stato, il mondo». Sta a noi leg-gere in filigrana la levità e il reali-smo della Vergine eterna, ricorda-re che interi giorni di stupri segui-rono l’inizio dell’occupazioneamericana del Giappone. Rilegge-re dunque la storia entro un ro-manzo in cui abbondano dettagli«lirici e profondi», come il ricordoevanescente di Kenzaburo bambi-no sul palco accanto alla madreche intonava la «litania solenne»della maestosa e umanissima Ma-dre di Meisuke, il suo «canto inces-sante simile a un ululato lamento-so e denso di rabbia».

■ «LA VERGINE ETERNA»: DA GARZANTI L’ULTIMO ROMANZO DEL GIAPPONESE KENZABURO OE ■

Oe, storicità del dolore

Tatsuno Toeko, «Work 89-P 35»,1989. In foto, Kenzaburo Oe

Aveva 17 anni Oe

quando in un 8mm

vide recitare

bambina Sakura,

la futura star

hollywoodiana:

la ritroverà anni

dopo, carica

di incubi e misteri

esistenziali, come

sceneggiatore

di un film tratto

da Kleist, con lei

protagonista.

Un libro fitto

di fascinosi

e di drammatici

legami personali

con la Storia

18) ALIAS N. 29 - 23 LUGLIO 2011

di Massimiliano Papini

Nella cornice di un ci-clo espositivo sugli imperatori al Co-losseo, dopo il divo Vespasiano toc-ca stavolta a Nerone, in una mostraarticolata anche per gli spazi dellaCuria Iulia, del Criptoportico nero-niano e del Museo Palatino; il per-corso include la terrazza degli OrtiFarnesiani, dove sono riemerse par-ti della Domus imperiale nella qualeNerone visse insieme alla madreAgrippina e fu proclamato imperato-re (ma, senza una pianta, chi capiràdavanti al groviglio di muri?); infine,nell’area della ex Vigna Barberini re-sta una possente struttura, una spe-cie di torre, identificata con la cena-tio rotunda menzionata da Sveto-nio, la principale sala da pranzo del-la Domus Aurea con il soffitto girevo-le senza sosta, giorno e notte: se sul-la proposta i pareri già si dividono,le posizioni pro e contro dovrannoperò esser meglio sostanziate.

Come capita per gli imperatoripazzi, sembra di conoscerle già tut-te le storie su Nerone, e forte è il ri-

schio di trasformarlo in macchietta;e poi alcuni storici antichi per grati-tudine non si erano curati della veri-tà, mentre altri per odio avevano ec-ceduto in falsità; concludeva alloragià Flavio Giuseppe, un po’ rasse-gnato: chi non ha riguardo per la ve-rità scriva pure quel che gli pare seci prova tanto gusto. Solo in partepone rimedio l’archeologia.

Nerone giganteggiò sugli altri edebbe una concezione sublime delpotere imperiale, ma non per parti-colari meriti: era grande perché re-gnava e viceversa. Il debutto comeimperatore non fu dei peggiori; madopo un quinquennio clemente sot-to la guida di Seneca si diede alleuccisioni: madre, mogli, cavalieri egenerali, e a lui anche la responsabi-lità della prima persecuzione di cri-stiani – però Traiano ne tolse dimezzo di più ed ebbe stampa mi-gliore. Nerone non conobbe mezzemisure: poco interessato all’accre-scimento dell’Impero, fu animatoda una grande sete di conoscenza eavviò grandiosi piani rimasti peròallo stato di abbozzo, quasi che acontare fosse più l’idea: come il ta-glio del canale dal lago del’Avernosino a Ostia (avrebbero dovuto

provvedere tutti i detenuti dell’Im-pero) e quello dell’Istmo di Corinto(lui stesso diede il primo colpo divanga).

Egli ruppe con il pesante passatoromano, e gli spettacoli greci da luitanto amati (teatro e corsa dei carri)innalzarono al potere i valori elleniciin una maniera ancor più pubblica-mente sfacciata che in precedenza(grazie agli scavi della metropolitanasi è forse recuperato l’effimero ginna-sio nel Campo Marzio davanti allachiesa di Sant’Andrea della Valle).Nerone dal 64 in poi si esibì in pub-blico come musicista, attore e aurigaprofessionista e, ligio ai regolamenti,prese molto sul serio le gare, convin-cendosi dei suoi talenti, magari nem-meno a torto, poiché qualcuno ave-va davvero goduto del suo canto edelle sue poesie. Per paradosso, unsimile creativo artista ebbe semmaiil dubbio se partecipare a spettacoliprivati dopo che un pretore gli offrìun milione di sesterzi; non ci avreb-bero invece pensato troppo Beyon-cé o Shakira, pronte a offrire un con-certo per pochi intimi agli straricchiarabi o russi per compleanni o matri-moni… Fu allora adorato dalla ple-be per i tanti ludi pubblici e privati

durante il regno – sua l’invenzione dei Neronia,esemplati sui Giochi Olimpici –, così che anche do-po la morte la gente comune continuava a depor-re fiori sulla sua tomba, mentre si vestivano le suestatue nel foro con abiti solenni, come se fosse sta-to ancora vivo. Tuttavia, un momento critico ful’incendio del 64, del quale Nerone profittò per rea-lizzare quella Domus Aurea che, sottolineavano lemalelingue, inghiottì la città rubando ai poveri lecase. Ne fu lui stesso il mandante? I pareri si divi-dono tra innocentisti e colpevolisti, e tra questi ul-timi si annoverano la maggior parte degli storiciantichi, salvo l’incerto Tacito, e studiosi odierni co-me Edward Champlin e Andrea Carandini. Dell’in-cendio, che risparmiò solo quattro regioni su quat-tordici, parecchie sono le tracce archeologiche nel-le valli tra Palatino e Celio e del Colosseo e sullependici settentrionali del Palatino; eccellente per-

ciò l’idea della simulazione della pro-pagazione giorno per giorno nel set-tore dell’esposizione al Colosseo. Vi-sto il bisogno di una ricostruzione,l’imperatore concertò una sorta dipiano regolatore per l’eliminazionedella bruttezza degli edifici antichi el’ammodernamento dell’assetto si-no ad allora poco razionalmente pia-nificato della città. Ma se la nova ur-bs fu poi soprattutto opera dei Flavi,impressionò l’enorme Domus Au-rea, composta di un vestibolo e diuno stagno simile al mare (profondonon più di quattro metri?) sul qualesi affacciavano edifici alla maniera diarchitetture urbane, oltre a campi, vi-gne e pascoli che destarono perfinopiù meraviglia delle gemme e del-l’oro, alla cui provocazione ormai siera fatta l’abitudine sin dal I sec. a.C.Villa suburbana trapiantata nel cen-tro della città o palazzo a imitazionedelle grandi regge ellenistiche (comead Alessandria)? Ma questa brusca al-ternativa ha senso? Piuttosto, il pro-getto fuse al meglio le tipologie roma-ne di domus e horti, senza che vi siabisogno di leggere nelle sue compo-nenti complessi simbolismi solari oreminescenze dell’omerico Scudo diAchille. Siccome l’architettura è «unfatto di atmosfera, di idee, di tempo,non di piante o di alzati, di ordini oelementi decorativi» (F. Giuliani), lamostra sa comunicare l’aspetto dellaDomus Aurea con alcune ricostruzio-ni informatizzate che volgono nelladirezione della modellistica: ci si ren-de così ben conto dei volumi del pa-diglione del colle Oppio (l’idea di Lar-ry F. Ball che la sua ala occidentalesia una parte riusata già pertinente al-la precedente Domus Transitoria de-sta poco entusiasmo) e del nucleocentrale vestibolo-stagno. Proprionel vestibolo era prevista la statua co-lossale in bronzo di 36 metri, che Ne-rone non fece però in tempo a vede-re ultimata: doveva effigiare nelle in-tenzioni iniziali l’imperatore per es-ser poi dedicata al Sole, come dice

Plinio il Vecchio? O si trattò di unastatua di Nerone assimilato al Solegià in partenza? Oppure ancora unastatua del Sole, commissionata solocome tale da Nerone, venne con luiidentificata dall’antica retorica postu-ma? Al solito, gli studiosi discordano,e qualcuno di loro fa finta di sapernedi più delle fonti antiche, che, pur secon qualche ambiguità, insistono sul-l’iniziale opzione ritrattistica. A ognimodo, un altare iscritto di Firenze vi-sibile al Criptoportico e dedicato alSole e alla Luna da Eumolpo, unoschiavo che lavorava nella DomusAurea, effigia il dio proprio con il vol-to dell’imperatore.

Questi fu anche uomo da frasi a ef-fetto e in parte sibilline negli istanticruciali. Costruita la Domus Aurea,esclamò che finalmente aveva unadimora conforme a un uomo (eppu-re, Vitellio non vi si trovò bene a cau-sa dello scarso comfort). Una voltadichiarato nemico pubblico dal sena-to, Nerone finì però in una casa inperiferia messagli a disposizione daun liberto tra la Via Salaria e la No-mentana a quattro miglia da Roma;mentre faceva scavare una fossa del-la misura del suo corpo, vi dispose at-torno qualche pezzo di marmo, epiù volte ripeté un detto poi notissi-mo: qualis artifex pereo. Artifex chesignifica? Artista (teatrale), organizza-tore artistico o artigiano?

Aurea fu l’età di Nerone; aurea lasua dimora; aureo il giorno di finemaggio del 66 quando l’imperatoreincoronò Tiridate re d’Armenia nelteatro di Pompeo, per l’occasione in-dorato nella scena e nelle pareti; inci-se in lettere d’oro le sue poesie; d’orola sua rete da pesca e lo scrigno in cuiteneva il veleno. Un po’ stucchevoletanta luxuria, e non è solo morali-smo. Infatti, Nerone fece dorare an-che una statua di Alessandro Magnofanciullo; siccome l’ornamento ave-va fatto scomparire la bellezza artisti-ca, l’oro fu poi tolto, e l’opera così ri-dotta, malgrado qualche ammaccatu-ra, venne ritenuta più preziosa di pri-ma… A proposito di statue: poco onulla spiegate nella mostra (specie alColosseo), per il visitatore rimarran-no per lo più mute.

Con i Flavi nuovo stile: restituite alpopolo le delizie che furono di un so-vrano, e al posto dello stagno ecco ilColosseo. Un po’ beffarda per Vespa-siano la rievocazione di Nerone nel-l’anfiteatro; spiritoso però com’era,ce lo immaginiamo pronunciarequalche battuta salace, e comunquesi consoli: la precedente mostra suiFlavi aveva meritato un catalogo conpiù pagine, il che di per sé vorrebbedir poco, ma con gli oggetti espostisenz’altro meglio schedati.

Scelgo la notte (Mattioli 1885, pp.140, € 14,90), esordio narrativo diCarlo Virgilio, antiquario a Roma, èritmato sul tempo lento del sogno,dell’avventura e della visione profe-tica, e ambientato nell’Amburgo del1938 gonfia di umori aspri, dove lagioventù hitleriana riempie le stra-de con canti di morte e dovel’ebreo Max Warburg, fratello diAby, viene estromesso dalla propriabanca. Lo scenario è appunto laGermania alle soglie della guerra,che pratica il culto del capo affasci-nata dall’esoterismo della simbolo-gia nazista. In bilico tra giallo e ro-manzo psicologico, Scelgo la notteiscena una serie di crimini legati aun misterioso cammeo, il cosiddet-to «cammeo Gonzaga», che ritraedue personaggi imperiali, probabil-mente Tiberio e sua madre LiviaDrusilla. I fili intrecciati sono vari epassano tutti per la progressiva defi-nizione della natura del protagoni-sta, un antiquario dal profilo in defi-nitiva sinistro: uomo più che matu-ro, notevole per gusto, eleganza escetticismo, una specie di dandyche sta scontando gli esiti di anti-che colpe. Il linguaggio è molto sor-vegliato con periodi ampi e com-plessi che introducono sulla paginal’immagine di una dilatazione deltempo e di uno sfibramento mora-le. Nulla è offerto come narrazionepura poiché tutto ciò che accadeviene filtrato nella coscienza delprotagonista e rallentato fino a per-dere quasi del tutto la qualità dina-mica dell’azione per assumere laluminescenza interna e soggettivadell’epifania. L’oggetto centrale delromanzo è una storia generazionaledi debolezza e di ignavia, in cui vie-ne analizzato il meccanismo cheporta un individuo a una colpevoleacquiescenza in un processo opacoper la coscienza fino a che la rifles-sione e la scrittura non ne rivelinole autentiche inconfessabili ragioni.L’attività dell’antiquario è stare se-duto al caffè nella Burgenstrasse,costantemente intento a scrivere,convinto com’è di avere un appun-tamento con il destino. Che ci siauna presa di posizione nei confrontidell’intellettuale esteta che vive incontemplazione della bellezza pro-veniente dal passato (la warburghia-na pathosformel ha qui un qualcheruolo) lo si desume dall’unico attodi coraggio compiuto dal protagoni-sta in favore del vecchio Kazimir,con cui l’antiquario spera di condur-re in porto l’affare del cammeo, maper il quale ha sentito nascereun’amicizia. Se per difendere Kazi-mir è in grado di affrontare quattroenergumeni e di intimorirli ciò signi-fica che la sua indifferenza è acquie-scenza perseguita per scelta. E dun-que l’atmosfera stagnante che sipercepisce in tutta la narrazione èl’effetto di un atteggiamento malsa-no di cui il protagonista assumegradualmente coscienza e contro ilquale non sa prendere posizione.Questo mercante d’arte è un perso-naggio borghese assolutamentenon eroico e nemmeno satanico. Èl’uomo delle adunate per indifferen-za, dell’ossequio all’autorità percalcolo, deferente e freddo: uno diquegli esseri privi di forza propriasu cui poggia la forza dei condottie-ri dallo sguardo di fiamma. Capacidi uccidere o di lasciar morire e dicondannarsi per questo a una lun-ga vita di inutile espiazione.

BERSAGLII N L I B R E R I A

CARLO VIRGILIO,CROLLO MORALECON CAMMEOdi Graziella Pulce

■ LA MOSTRA SULL’IMPERATORE, AL COLOSSEO ■

Pazzo forse,di certo aureo

Poco interessato

ad accrescere l’Impero,

Nerone fu animato

da sete di conoscenza

e megalomania

urbanistica: la mostra

ce lo spiega così,

con qualche limite

di didattica

Ritratto di Nerone,rilavoratocome Domiziano,e poi restauratocome Nerone, Roma,Musei Capitolini

Curata da Maria Antonietta Tomei e Rossella Rea,la mostra su Nerone al Colosseo (catalogo Electa)

dura fino al 12 settembre (orari fino al 31 agosto 8.30-19.15,ultimo ingresso 18.15; poi 8.30-19.00, ultimo ingresso 18.00)

ALIAS N. 29 - 23 LUGLIO 2011 (19

Piet Mondrian, «Composizionecon rosso, giallo e blu»,Londra, Tate Gallery

di Mario Porro

«Nel divenire del-l’arte, del conoscere e della scien-za s’incontrano ripetuti tentatividi fondare e svolgere una dottri-na che a noi piace chiamare Mor-fologia», scriveva Goethe ne Lametamorfosi delle piante. Fin dal-l’origine la teoria delle forme èuna teoria delle trasformazioni:la forma non è tanto Gestalt, enti-tà fissa, ma Bildung, formazione,a partire dalla polarità delle forzedi espansione e contrazione. AGoethe si ispira il biologo D’ArcyThompson in Crescita e formadel 1917; le forme degli organi-smi sono «un riflesso delle formerigorose contemplate dalla geo-metria», a partire dai solidi pita-gorici che Platone elencava nel Ti-meo, associandoli agli elementinaturali (acqua-icosaedro, fuo-co-tetraedro, terra-cubo, aria-ot-taedro, cosmo-dodecaedro). Manella realtà la forma vive sempree solo in formazione, è l’esitoscolpito dal tempo di un diagram-ma di forze: le immagini di Thom-pson, costruite con il metodo del-le griglie ortogonali già utilizzatoda Dürer, si incurvano fino a di-ventare sinuose per mostrare co-me si sviluppi il carapace di ungranchio o lo scheletro di un pe-sce, così da svelare le affinità traspecie differenti, la «struttura checonnette» i viventi.

La morfologia è il tema dell’ulti-mo libro di Giuseppe Di Napoli(docente all’Accademia di Brera),I principi della forma (Einaudi«Piccola Biblioteca», pp. XX-466,€ 30,00): otto principi (centro, mi-nimo, polarità, crescita, costanzae mutamento, parte-tutto, amor-fia e caos, campo e vuoto), comu-ni alla natura e alla percezione,vengono assunti come basi diuna tavola di Mendeleiev degli «apriori morfologici» e come model-li euristici delle poetiche artisti-che. È alla forma che la nostra tra-dizione filosofica affida il ruoloprimario, in termini ontologici, discolpire l’identità degli enti e, intermini gnoseologici, di renderliosservabili; la percezione, spiega-no i teorici della Gestalt, è un pro-cesso formativo, tende a comple-tare le forme aperte per rintraccia-re la «forma buona», totalità stabi-le e unitaria, preparando così lastrada all’elaborazione del concet-to. La morfologia si edifica come«scienza diagonale», nel senso diRoger Caillois: svela insospettateanalogie fra la formazione del-l’embrione e la struttura delle ga-lassie, fra la chimica delle particel-le e le leggi della composizionepittorica. Al posto delle vecchie di-stinzioni disciplinari ecco appari-re nuovi saperi «di sintesi», rileva-va François Dagognet: dalla fisicadei materiali o dalla biomedicinaapprendiamo a divenire morfolo-gi, lettori dei segni che sulla super-ficie e nei punti di interfaccia sve-lano le tracce che portano l’inter-no all’esterno. Scriveva MichelSerres negli anni settanta, inter-pretando la stagione strutturali-

sta, che «ogni scienza è una mor-fologia»: il mondo è una rete di co-municazioni dove si trasportanoforme, informazioni che si impri-mono sulla materia.

La morfologia insegue uno sta-tuto autonomo tra l’arte e le scien-ze, ha mostrato Maddalena Maz-zocut Mis, nei saggi dedicati al de-forme e al mostruoso nella biolo-gia dell’Ottocento e nella narrati-va di Hugo e Balzac. Anche l’esteti-ca è una morfologia, ha scrittoRené Thom, pensando soprattut-to alle proprietà topologiche delcontorno e del bordo, ai punti incui compare una «catastrofe»,una discontinuità qualitativa sudi uno strato continuo. Ma l’idea-le di un’estetica come scienza del-la forma ha mosso le indagini diHenri Focillon o di Étienne Sou-riau sulla «vita delle forme» e ilsuccedersi degli stili nella storiadell’arte, o le ricerche diBaltrušaitis: nelle deformazionifantastiche dei capitelli medioeva-li, nelle anamorfosi o nei giochidegli specchi, la forma è soprattut-

to luogo dell’inganno, mascherache svela però la faccia nascostadel reale. Dopo Disegnare e cono-scere (2004) e Il colore dipinto(2006, sempre per Einaudi), al cen-tro del lavoro di Di Napoli eccoun altro luogo della soglia: la for-ma sta all’incrocio dei piani che lanostra tradizione filosofica ha se-parato, sensibile e concettuale,l’astrazione geometrica e l’imma-ginario, il singolare e l’universale.Sul crinale fra natura e cultura, framateriale e «spirituale», la formaabita l’intramondo, quel mundusimaginalis dove il reale apparenella sua purezza, de-materializ-zato. Il visivo (tema che giunge fi-no al «figurale» di Lyotard), più an-cora che metafora del razionale, èportatore di una ricchezza che sirivela solo a chi sa percorrere il Pa-ese d’Enciclopedia.

Ma l’ordine immanente al«mondo sensibile» oggi non obbe-disce più alla regolarità dei polie-dri né trova posto fra le rassicu-ranti coordinate del piano carte-siano. Le forme primordiali di vi-

ta, dalle diatomee ai radiolari, pas-sando per le proteine dei virus, so-no raffigurabili in base ai modelliproposti fra le due guerre mondia-li dal bio-architetto Richard Buck-minster Fuller; la sua geometriaenergetica e sinergetica esprimel’azione combinata delle forze dicompressione e tensione su diuna superficie sferica, dove le li-nee si incurvano. La tensegrity è ilsegreto strutturale della natura, ri-sponde al principio del minimolegame e del minimo dispendiodi energia, lo stesso che opera sul-le superfici delle bolle di sapone enella progettazione di tensostrut-ture e cupole geodetiche. Il librodella natura continua a esserescritto nella lingua della geome-tria, come voleva il Galileo delSaggiatore, ma si tratta ormai diuna lingua non-euclidea, topolo-gica, in cui raramente si eviden-zia il «suggerimento cristallografi-co di Dio» (Gadda). La forma, cheda Platone a Kant era associata albello, abita oggi una «morpholo-gie autre» (come si diceva dell’in-

formale di Dubuffet e Fautrier),quella che viene messa a temadalle scienze del caos e della com-plessità; le strutture dissipative diPrigogine, i frattali di Mandel-brot, le catastrofi di Thom descri-vono forme instabili e irregolaricome il frangersi dell’onda, le an-frattuosità di una scogliera o laschiuma della birra. Si rinnova co-sì un’antica tradizione che, daiGreci alla rêverie bachelardianapassando per Leonardo, si rivolgeall’inconscio della materia: l’im-maginazione si risveglia di frontea macchie, screpolature, profili dinuvole, di fronte alle potenzialitàespressive dell’informe.

A una Natura disincantata dal-lo sguardo delle scienze la morfo-logia sembra poter restituire unsenso, ritrovando nella genesi del-le forme analogie insospettate traopera della natura e opera dell’uo-mo. L’artista, diceva Klee, deveporsi nel punto in cui le cose han-no origine, dove le forze generanole forme originarie; non è la for-ma formata ma l’impulso formati-vo a essere rilevante («buona è laformazione, cattiva è la forma»), ese l’arte ripete la morfogenesi èperché anche la natura può inten-dersi come opera d’arte. La storiadella pittura sembra progredireverso un grado zero della forma,

nel quadrato bianco su fondo bianco di Malevic, in Mon-drian o Rothko. Per altre vie l’arte del Novecento ritrova co-sì le suggestioni della cultura cinese, che Di Napoli ben co-nosce anche attraverso gli scritti di François Jullien; una cul-tura in cui la nozione di forma (che noi vorremmo universa-le) non è che una pausa nella trasformazione incessante, in-separabile dal processo del mondo. Per la pittura cinese sitratta di dipingere il senza-forma, il fondo d’immanenza dacui le cose provengono, il vuoto non come mancanza o as-senza ma come apertura: richiamandosi a essa, Picasso di-ceva che non si tratta di imitare lanatura nel senso di riprodurne leapparenze visibili, ma di operarecome lei, di rinnovarne cioè il pro-cesso di formazione.

L’epoca delle macchine è nata inuna temperie storica legata allavolontà di ricondurre tutto a unadimensione di estrema concretez-za, di disperata praticità, senzamettere in gioco, in alcun modo,riferimenti all’anima. Eppure, findall’inizio del Novecento, la di-mensione spirituale è tornataspesso prepotentemente all’atten-zione in quegli stessi laboratoriche di pari passo alle prime auto-mobili varavano apparecchi foto-grafici per riprendere fate e altremagiche creature che continuava-no a ossessionare le menti degliscienziati. Henry Ford, estensoredi un sistema di pensiero capitali-stico che trasformava gli esseriumani in elementi di un sistemadi produzione (secondo la suavisione distopica immortalata neIl mondo nuovo di Aldous Huxley)era anche tra i maggiori finanziato-ri della potente Società Teosofica,che univa figure di rilievo di ognicampo. René Guenon, maestrodegli studi tradizionali, nel corsodi tutta la sua esistenza votata allaricerca di una dimensione spiritua-le del vivere ebbe sempre grandeinteresse per la matematica, dicui volle dimostrare la forte com-ponente metafisica. Adelphi pub-blica l’importante saggio I principidel calcolo infinitesimale (nella pre-cisa traduzione di Pietro Gori, conuna sostanziosa nota di PaoloZellini, pp. 223, € 14,00), uscitonel 1946. A quel tempo lo scritto-re viveva da molti anni al Caironella sua identità di devoto al-l’Islam e venerato sheikh; dallasua nuova patria riassumeva i filidi un pensiero che seguiva dadecenni. Bersaglio di questa ricer-ca è Leibniz, fondatore del calco-lo infinitesimale, e i suoi seguaci.Tutto il loro pensiero viene passa-to a fil di spada dallo studiosofrancese, che per prima cosa criti-ca aspramente il simbolo stessoscelto per l’infinito, che è in realtàimmagine di compiutezza. L’accu-sa principale, in sostanza, è quel-la di far rientrare in questo concet-to una dimensione non riassumi-bile nei parametri scientifici, sem-pre negata a spada tratta, comeaccade nelle ricorrenti diatribe traastrologia e astronomia, in cui gliosservatori telescopici neganoogni parentela con chi scruta lecarte del cielo. Al centro di questarequisitoria sta il rifiuto, netto,categorico, di confondere infinitoe indefinito, confusione che ponesecondo Guenon la difficoltà diun linguaggio astratto, incompren-sibile a molti. L’esoterismo, chel’argomento della ricerca sia Dan-te e i fedeli d’amore o il misterio-so Re del Mondo dimorante nelregno mitico di Agarthi, rimane ilpunto di riferimento. La scrittura,come nei saggi più noti, è densa,articolata, ma non perde mai divista il filo, accumulando proveper dimostrare la propria teoria.La stessa che l’autore de L’erroredello spiritismo già aveva espres-so nel 1911 in un durissimo j’ac-cuse inserito nel recente volumeadelphiano Il demiurgo. «La mag-gior parte delle scienze profane,le sole che i moderni conoscanoo che ritengano possibili, non rap-presentano in realtà che sempliciresidui snaturati delle antichescienze tradizionali».

DI NAPOLI

Fu Goethe a immaginare una scienza, la morfologia, sulla forma

come metamorfosi. Questo saggio organizza tutti i risvolti estetici,

epistemologici, scientifico-percettivi dell’affascinante problema

BERSAGLII N L I B R E R I A

RENÉ GUENON,UNO SHEIKHCONTRO LEIBNIZdi Luca Scarlini

■ «I PRINCIPI DELLA FORMA» DI GIUSEPPE DI NAPOLI ■

Vita delle forme:accomodatevi

20) ALIAS N. 29 - 23 LUGLIO 2011

■ ULTIMO MOVIMENTO DEL PROMEMORIA PER MILANO: LA GIUNTA MORATTI ■

Grand Hôtel BoccioniBERSAGLI

M O S T R E

Gianfranco Ferroni,ostinato del reale (con foto)

di Giuseppe Frangi di Giovanni Agosti

Nel campo della cultu-ra la cosa più importante prodot-ta a Milano durante l’amministra-zione di (che non vuole affatto di-re «da») Letizia Moratti, cioè tra laprimavera del 2006 e quella del2011, è il Tristano e Isotta di Wa-gner, diretto da Daniel Ba-renboim e messo in scena da Pa-trice Chéreau, con le scene di Ri-chard Peduzzi. Lo spettacolo hadebuttato, alla Scala, il 7 dicem-bre 2007; solo lì ho avvertito – inquesto tratto di storia – il rianno-darsi dei fili con una grande tradi-zione espressiva e civile, primaconsueta a Milano e oggi perduta.Sembrava dietro l’angolo, anchese era il 1979, la Lulu di Berg, anco-ra con la regia di Chéreau e la dire-zione di Boulez e Teresa Stratasnel ruolo della protagonista: unodegli choc visivi che hanno condi-zionato la mia formazione, pro-prio mentre si chiudevano gli an-ni sperimentali e i più grandi sierano già fatti laudatores tempo-ris acti. Atri giganteschi e scalonimonumentali dove lo stile 1930era quello che si reinventava –contemporaneamente o poco pri-ma – nel Conformista di Bertoluc-ci e in Despair di Fassbinder. An-che quella volta Eine Reise ins Li-cht. E pensare che nello stessofrangente, e con assoluta natura-lezza, a sere alterne, c’era il Wozze-ck di Abbado e Ronconi con lequindici magnifiche scene, su pia-ni inclinati, di Gae Aulenti.

L’eccellenza del Tristano stavanella forza del pensiero dietro lospettacolo, nella cura di ogni det-taglio, nella moralità che avevasorretto il lavoro della messinsce-na, nella preparazione meticolo-sa, durata anni: da qui le sondepsicologiche in grado di racconta-re, in maniera nuova e necessaria,una storia eterna. Chéreau rivendi-cava l’urgenza dell’erudizione (diqui, per esempio, i richiami ai mi-stici spagnoli, da Teresa d’Avila aSan Giovanni della Croce) ma con-temporaneamente l’impegno a su-perare i dati per riconfigurarli inesperienza: e così lo sterminatoduetto del secondo atto diventavauna riflessione sull’amore comequando, a una certa età, nelle tem-peste emotive le parole sostitui-scono i gesti e si vorrebbe solo po-tere morire insieme. I cantanti ditre quarti si muovevano – senza ci-tazionismi, senza allusioni – conconquistata naturalezza tra unaCornovaglia e una Bretagna eun’Irlanda dove la chiatta del pri-mo atto sembrava approdare aipiedi del romano Muro Torto,una montagna di tessere di tufo inopus reticulatum, lì sotto il Pincio,visto con gli occhi di Poussin e diDavid e le ombre di Courbet. E, infondo, dietro a tutto, anche Bre-cht, anche Strehler, anche Mila-no: l’impressione indimenticata,da rubare per la vita, delle luci del-le goldoniane Baruffe chiozzotte,come garantiscono le memoriedel regista.

La prodigiosa recitazione di chista in palcoscenico, fino a fare di-menticare l’innaturalezza del can-to nell’emissione delle voci, la si èpotuta cogliere anche, nel 2010, inDalla casa dei morti di Janácek,ancora con la regia di Chéreau,giunto alla Scala grazie al soprin-

tendente Lissner: come all’uscitadel Limbo, come all’ingresso dellamensa dei poveri in viale Piave,con i negri di Géricault e omaggistrazianti ai risultati più alti di Pi-na Bausch ma anche agli antichiexploit di Jerzy Grotowsky. Che laplatea non fosse strapiena esortaa qualche riflessione sui reali inte-ressi culturali nella Milano di og-gi. Del resto colma non era nem-meno la sala del Teatro Strehlerqualche mese fa quando è arriva-to a Milano il Rêve d’automne, lospettacolo, dal testo del norvegeseJon Fosse, che Chéreau aveva con-cepito al Louvre: una storia qualsi-asi che si svolge in un cimitero travivi e morti ambientata invece inuna sala di museo – anzi proprionel Salon Denon del Louvre –, ri-costruita nei minimi dettagli, dailambris ai cartellini. E anche lì, an-cora una volta, a cinquant’anni, epur con un amico vicino, ti venivada dire che l’amore è più freddodella morte. Salvo provare i brivi-di, fin dall’inizio, al solo entrarenella scena e ad ascoltare un vec-chio pezzo di Chavela Vargas.

Vano è cercare un’equivalenzadi questi standard in quanto è sta-to realizzato a Milano tra le tanteiniziative del Comune negli anniintercorsi tra l’apparente uscitadi scena di Sgarbi, primavera2008, e l’esaurirsi, l’altrieri, dellagiunta Moratti. L’assessore allacultura è stato, in questo frangen-te, il monfalconese MassimilianoFinazzer Flory: «autore e interpre-te, saggista ed editorialista, cura-tore di rassegne culturali su tuttoil territorio nazionale ed ideatoredi nuovi format in cui si intreccia-no filosofia e letteratura». Così siautodefinisce, tra Notti bianche eInterviste impossibili, plurime edi-zioni del Gioco serio dell’Arte, Pro-getto Montenapoleone, Manzonicoast to coast, Weekend Futuristi,Performing Street-Via Torino, Mi-lano scopre Guareschi e Guare-schi scopre Milano, lo Specchio diBorges e la Vita di Mahler, l’Ani-ma dell’Acqua, incontri sul Mito ela Donna... Quanti scambi tracommesse e collane, recital e pa-trocini. Ci sono persino un pu-gno di libri Skira e il Premio di Po-esia Lorenzo Montano e la tesse-ra di socio onorario della Direzio-ne Nazionale Poliziotti Italiani. Èanche a Finazzer che si deve, nel2010, la discussa messa in operadella scultura, in marmo di Carra-ra, di Maurizio Cattelan: L.O.V.E.,una mano gigantesca con il ditomedio alzato, quasi un resto degliacroliti costantiniani. È perfetta-mente ambientata tra i palazzidella Borsa di Milano, tanto cheper un istante hai l’impressioneche sia stata lì fin dall’inizio, findagli anni Trenta. Sono altre leiniziative di cui sdegnarsi: peresempio la mostra di Angiola Tre-monti – sorella del ministro delleFinanze e membro della Commis-sione arredo e decoro urbano delComune di Milano –, che nelle sa-le neoclassiche della Villa Realeespone, nel 2010, le sue Mabille:Mabille alberi, il Bosco delle Ma-bille, Mabille crocifisse, Mabillain attesa, Mabilla ranocchia, Ma-billa universale... Ma nel suo cata-logo ci sono anche una Donna gatto e un Gattoca e un Piedofilo e una Marmotta triste e una Gallina bendatae Spermatozoo femmina. E persino un libro Bompiani: La valle degli orsi. Al di là del plauso di sindaco e asses-sore, che cosa dicevano i conservatori del Museo? Schiene da piegare una volta di più, secondo secoli di sto-ria italiana. Per poi magari mettersi a discettare di cronologie o tecniche di esecuzione o restauro del contem-poraneo o archivi del Novecento.

Si è già tanto vituperata la tournée del piccolo Crocifisso ligneo, che lo Stato italiano ha acquistato, credendo-lo un’opera giovanile di Michelangelo, nel 2008, e che è stato esposto anche a Milano, al Castello Sforzesco, nei

pressi della Pietà Rondanini, in oc-casione della Pasqua 2009. L’asses-sore citava Péguy e le foto di Tho-mas Struth, «scandalo nello scan-dalo», e il «percorso spirituale chesollecita tanto i credenti quanto inon credenti», «una maniera diffe-rente per celebrare la Pasqua nelricordo del cammino religioso ri-percorso sulle tracce dell’arte»:ma non va dimenticato, in questasagra del malcostume, che le saledel Castello, cioè di un museo co-munale, erano contemporanea-mente occupate dalla mostra Il so-gno e i segni, un’antologica di Cor-delia von den Steinen, una scultri-ce svizzera, nata nel 1941, che nel1966 ha sposato Piero Cascella(1921-2008), lo scultore predilettoda Silvio Berlusconi. Le opere –tra cui La poltrona aspetta e Colpeso dei libri ma c’era anche unferro da stiro in terracotta – eranoesposte accanto ai marmi di Boni-no da Campione, dell’Amadeo,del Bambaia... Il catalogo dellamostra, con testi ispirati, era dellaSilvana editoriale, affermatasi, nelfrattempo, accanto all’Electa e al-lo Skira, come fornitrice di questogenere di pubblicazioni; rispettoalle concorrenti, era ed è però ingrado di fornire prodotti low-cost.Negli stessi giorni della primavera2009 il David bronzeo di Donatel-lo veniva spostato dal Museo delBargello di Firenze per esseremandato a Milano – con tutte leautorizzazioni ministeriali – allaFiera campionaria delle qualitàitaliane, volta a mostrare «i capola-

vori delle aziende italiane, piùuno»; l’Università statale conferi-va al presidente della Skira, Massi-mo Vitta Zelman, la prima laureahonoris causa dopo quelle, che ri-salivano al 1961, a Riccardo Bac-chelli e ad Eugenio Montale.

Non è certo mancata la quanti-tà alle iniziative sostenute dal Co-mune di Milano. Spesso, quasisempre, preparate all’ultimo mo-mento alla rincorsa di centenari ecelebrazioni o, più semplicemen-te, degli autori di cassetta. Un re-cinto che negli anni si è progressi-vamente ristretto, con poche in-clusioni di novità: da Tamara DeLempicka a Jean-Michel Ba-squiat. Ma che dire della mostradi Goya al Palazzo Reale nel 2010?Quale museo serio avrebbe presta-to i propri Goya, cioè dei capola-vori, a un’iniziativa senza capo nécoda dove i dipinti del pittore spa-gnolo stavano accanto a una gene-rica antologia di pittori dell’Otto edel Novecento? O meglio qualemuseo, dopo avere prestato leopere a una mostra del genere, or-ganizzata da una delle solite so-cietà di servizi, avrebbe ripresta-to a Milano dei capolavori? Vec-chie questioni moralistiche, lo so:lo farebbero tutti oramai; bastapagare il fee, il noleggio. È andatacosì, infatti. Da qui le file davantia Palazzo Marino per vedere, co-me feticci, singoli capolavori – Ca-ravaggio, Leonardo, Tiziano –giunti da vicino o da lontano e re-si imperdibili, per un pubblicosemplice, da martellamenti pub-

Ho un ricordo preciso dell’unicavolta che mi capitò di entrare nellostudio di Gianfranco Ferroni. Unedificio qualunque, in zona ParcoRavizza a Milano, una scala chescendeva e ti portava in uno scanti-nato con il pavimento a piastrellee i muri spogli, le finestre che face-vano scendere un po’ di luce dal-l’alto. Si respirava un’aria di traslo-co sempre imminente, eppurequello studio per Ferroni era ilmondo. Un mondo evidentementeridotto all’osso, smangiato e denu-dato, ma custodito con una calibra-ta trasandatezza. Ci si può chiede-re cosa gli impedisse di superare lecolonne d’Ercole di quella portache si affacciava sulla città. La rispo-sta è una sola: non era costrizionema scelta. Ferroni aveva scelto l’au-toreclusione avendo molti motiviper sentirsi straniero rispetto aquello che avveniva là fuori: eranofallite tutte le utopie politiche («ciòche alcuni uomini credevano giu-sto costruire si è rivelato contropro-ducente»); e, quanto all’arte, chesistema era quello che «non sape-va trarre indicazioni di sviluppo»dall’avvento di un gigante comeFrancis Bacon?Ma il Ferroni che, dopo la fase piùpartecipata del realismo esistenzia-le milanese negli anni settanta,aveva chiuso dietro di sé le portedel suo studio, non è un Ferronicorroso dal tarlo della solitudine edelle ossessioni come è stato ac-creditato da un’interpretazioneforse un po’ troppo letteraria dellasua opera. Ferroni rivendicava l’au-tosufficienza di quel microcosmo,dove accadeva tutto quel che con-tava per la vita di un pittore: com-presa la sorpresa che un giorno sipotesse palesare in quello scanti-nato il grande Chet Baker, un mitoassoluto per lui che era pittore conla passione per il sassofono. EChet Baker, su invito di Gianfranco,suonò. Possiamo solo immaginarela sua faccia, impassibile ma felicee lievemente beffarda sotto quellapelle aspramente butterata.Ferroni morì nel maggio 2001 aBergamo dove negli ultimi anniaveva preso un altro studio. E oggiBergamo gli dedica un doppioomaggio molto riuscito proprioperché sdogana Ferroni da un cli-ché che alla lunga rischiava di im-prigionarlo dentro la casella di unrealismo esistenziale tormentatocome la leggendaria pelle del suoviso. Alla Gamec sono state presen-tate una cinquantina di opere frut-to della donazione di Arialdo Ceri-belli, gallerista, che di Ferroni erastato inseparabile e fedelissimoamico. Lo stesso Ceribelli nella suagalleria ha raccolto una serie diopere sul tema dell’autoritratto:una sfilata omogenea, serrata e a

tratti davvero carica di grande ener-gia, che permette di scoprire conchiarezza come funzionavano idispositivi creativi di Ferroni.La rivelazione più sorprendentedella mostra è il ruolo che assume-va la fotografia in questo processo.La scoperta del Ferroni fotografo ècosa abbastanza recente. Testorinel 1966 aveva fatto un accenno aquei «lacerti» su carta sensibile chel’artista poi lavorava con penna omatita. Ma solo nel 1994, in occa-sione della personale alla Galleriad’arte moderna di Bologna, Mauri-zio Fagiolo dell’Arco aveva ottenu-to di poter esporre un piccolo cam-pione di queste fotografie. Nel2003, in occasione della mostraalla Fondazione Longhi, ne venne-ro presentate una ventina, in unasezione apposita, con un approfon-dimento critico di Renzo Mangili.Ferroni parlava delle fotografie co-me di uno strumento necessarioper fissare l’immagine visiva del-l’opera che aveva in testa, vincen-do così il rischio paralisi davantialla tela bianca. Infatti in mostra sivedono le immagini stampate afianco degli sviluppi che avevanodi volta in volta generato, con tecni-che diverse. È un rapporto stringen-te, in cui si capisce come l’obiettivodella macchina sia essenziale percircoscrivere con precisione il cam-po d’indagine e per fermare conesattezza l’attimo dell’indagine stes-sa. Nel mirino c’è sempre lui, unicapresenza che popolava lo studio-cella e che dialogava soltanto congli oggetti e con la propria ombra.È una presenza più ostinata cheangosciata. Infatti, se è pur correttocogliere in quelle pose sempre stu-diate una dimensione evidente diattesa, la vera ragion d’essere diqueste fotografie, e del lavoro cheda loro si era generato, sembra unaltro: ricorrendo alle sue parole, lafedeltà dell’immagine fotograficagli era essenziale per «affinare lasensibilità sul vero». In un bel li-bro che raccoglie i pochi e magriscritti di Ferroni (La luce dell’ateo,a cura di Domenico Gnoli, Bom-piani 2009), si trova una chiaveper decifrare questa insistita fedel-tà al reale, così forte da reggere atutte le scosse dell’inquietudine.«Devo cercare, fermamente deci-so, la possibilità di un raccontoattraverso le cose, determinatodalle cose stesse». La fotografiaquindi rappresentava una spondaoggettiva, un ancoraggio visivoper evitare di rotolare giù, lungo lachina degli «alambiccamenti iden-titari». Lo spazio chiuso del suostudio e della sua autoreclusionecosì rivela la sua vera ambizione aessere «spazio esatto». Esatto co-me lo spazio, sempre chiuso, delsuo amato Vermeer.

Gianfranco Ferroni,«Autoritratto», 1981

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blicitari e dalla cinica intelligenzadelle due organizzatrici. E magarilo stesso pubblico in coda per laDonna allo specchio di Tizianonon ha mai messo piede a Breraper vedere, di Tiziano, il San Gero-lamo con il bosco che crepita, da-vanti a cui si sarebbero inchinatiRembrandt o Kiefer. L’enfatizza-zione delle manifestazioni cultu-rali non giova infatti alle realtà lo-cali, e tanto più alle più piccole,ma operose e dignitose, che cer-cano, nella difficoltà dei tempi, diportare avanti una gestione all’al-tezza del proprio nome: è il caso,per esempio, del troppo poco visi-tato Museo Bagatti Valsecchi, do-ve hai davvero l’impressione disentire battere uno dei cuori, edei più deliranti, di Milano. Quan-to Gadda si capisce in quelle saletra via Santo Spirito e via Gesù.

Su questo sfondo, e nell’ambito della politica culturaleche si è cercato di tratteggiare, va proiettata l’inaugurazio-ne, il 6 dicembre 2010, del Museo del Novecento nell’Aren-gario, accanto al Palazzo Reale, in piazza del Duomo: «il piùimportante progetto museale europeo dell’ultimo decen-nio», «un sogno che Milano dedica al mondo», «universal-mente riconoscibile», «oltre 20 milioni di euro di investi-mento da parte del Comune di Milano per un’area espositi-va di circa 5000 metri quadrati», «un traguardo eccezionaleportato a termine in soli tre anni», a stare alle dichiarazionidel sindaco in apertura del catalogo delle collezioni, editodall’Electa e stavolta pressoché privo di refusi. Ma com’è ilMuseo del Novecento? Brutto.

Non poteva che essere brutto per l’assenza di dialetticacon cui è stato concepito, per la subalternità alle volontàdei progettisti, a cui il così competente comitato scientificonon è riuscito a fare fronte («il meno peggio possibile, sicstantibus rebus»), salvo garantirsi – e pur non è poco – unordinamento di natura cronologica e non, come oggi va perla maggiore, tematico. Il museo è brutto anche per l’inade-

guatezza degli spazi e per il lin-guaggio espositivo adottato, in ga-ra con il mondo della moda e coni suoi rapidi consumi. Di qui, an-che data l’effettiva velocità di mes-sa in opera, l’impressione appa-rente, e tanto apprezzata, di novi-tà: ma è la novità di una vetrina,

di una collezione, di un padiglio-ne da fiera. E non è un caso allorache le sale del museo si trovino acoincidere per forme espressivecon le fantasiose hall dell’albergoBoscolo, in corso Matteotti, unedificio degli anni tra le due guer-re, ristrutturato dallo stesso grup-po di progettisti e destinato a unaclientela danarosa e spesso cafo-na. Persone con altre disponibilitàeconomiche possono conoscerecosì forme dell’abitare a loro pre-cluse: ma è questo il senso di unmuseo pubblico? Lounge, per de-gustazioni o riunioni? Privé? Sui-te? La piscina è di là o sul tetto? EFontana? Divino.

Anche Carlo Scarpa ed Edoar-do Detti avevano utilizzato precisielementi messi in opera in museie gallerie per risistemare, nel1961, l’Hotel Minerva a Firenze:ma erano le soluzioni pensate peril Gabinetto Disegni e Stampe de-gli Uffizi che ricorrevano nell’al-bergo. A Milano si ha l’impressio-ne del contrario: dall’albergo almuseo. E questo stupisce a frontedi un architetto come Italo Rota,formatosi nel cantiere della Gared’Orsay, e autore di sale bellissi-me al Louvre: per la chiarezza del-la luce, per la sobrietà degli inter-ni, per il rispetto destinato alleopere, per l’equilibrio degli am-bienti. Ci devono essere state altreforme di dialogo con la commit-tenza, evidentemente.

A Milano un atrio importante,un po’ Art Deco, come la scena diun vecchio Bob Wilson (Death De-struction & Detroit) o, addirittura,un fondale luminoso per un Bu-sby Berkeley: non ti strappano unbiglietto ma ti danno un cartellinoda metterti al collo, perché devo-no averlo visto da qualche partein giro per il mondo. Se scendi,vai in metropolitana, passando da-vanti ai resti dei Bagni misteriosi

di De Chirico, la fontana incanta-ta del parco Sempione (a un pas-so dal Teatro continuo di Burri, di-strutto nel 1989), affogati in unmare di plastica azzurra; se sali,percorri una spirale, dove ti si pa-ra davanti, dietro a un vetro da ac-quario, su un fondo nero, il Quar-to stato di Pellizza da Volpedo: esembra lo schermo retroillumina-to di un gigantesco computer; al-tro che apprezzare da vicino il pro-cedimento divisionista. Seguono,separati dal resto, i quadri dellacollezione Jucker: le uniche operedel museo di cui si dichiara l’illu-stre provenienza e la data di acqui-sizione. Altrove nessun cartellinoindica quando e per che viaun’opera è entrata a fare parte del-le raccolte comunali: eppure cheun Boccioni giunga nel 1934 perlegato di Ausonio Canavese o siaacquistato dal Comune nel 1917,all’indomani della morte del pitto-re, non è la stessa cosa e non sonocerto io il primo a dirlo. Lo attesta-no le ricerche svolte negli ultimianni, e di cui il catalogo esponecon esemplare chiarezza gli innu-merevoli risultati, che discendonoda un approccio storico alle vicen-de del passato prossimo. D’altraparte i costosi, e credo poco flessi-bili, cartellini del museo segnala-no il nome e il cognome degli au-tori ma i luoghi e le date di nascitae di morte sono rigorosamenteomessi: eppure si tratta di artistidel XX secolo, non di Giovanni Bel-lini o di Giorgione per cui posso-no sussistere incertezze. In com-penso sotto il nome sta scritto, co-me in un esercizio tautologico dipoesia visiva, «autore» e, ovvia-mente, «author». Una scarsa sa-pienza drammaturgica regola ipassaggi tra le sale o gli scambi trale opere: basta pensare alla se-

SEGUE A PAGINA 22

Milano: in alto,interno del Museodel Novecentoall’Arengario;a sinistra, internodell’hotel Boscoloin Corso Matteotti

Il caso più recente di questa storia del malcostume milanese

è il Museo del Novecento all’Arengario, su cui il sindaco uscente

puntò molte carte. Qui le collezioni che fanno l’identità moderna

della città sembrano finite dentro un albergo alla moda...

22) ALIAS N. 29 - 23 LUGLIO 2011

di Stefano Gallerani

Diversamente dal soli-to, c’è una ragione profonda – e,diremmo, superiore – per cui la fa-scetta che cintura Il nome giusto(Ponte alle Grazie, pp. 234, €

16,00), dell’esordiente Sergio Ga-rufi, porta la firma di TommasoPincio. E questa ragione fa leva al-meno su due dati: il primo, contin-gente ma non occasionale, è di na-tura anagrafica, essendo Pincio eGarufi pressoché coetanei; più co-gente e interno, il secondo si riflet-te, invece, sulla qualità della pagi-na e sull’angolo prospettico chece la restituisce, organizzata estrutturata, in forma di romanzo.Cionondimeno, se nel caso di Ho-tel a zero stelle di Pincio l’ascrivibi-lità a un genere – nient’altro che ilmodo, dopotutto, in cui uno scrit-tore organizza il reale – rispondeall’esigenza di collocare in qual-che maniera il testo di Pincio fuorie oltre tanto la categoria saggisti-ca che quella, surrettizia, di scrittu-ra «altra», per Garufi la scelta «ro-manzesca» è all’origine dello stes-so tentativo di esorcizzare, nellatragica carriera esistenziale delprotagonista del Nome, il fallimen-to che si nasconde dietro ogni at-to creativo, riuscendo così là dovel’alter ego fittizio non può chemancare denunciando la propriaassenza. Ricostruita a ritroso, ecioè dalla fine che ci svela le suemodalità solo nella parte termina-le del libro (chiusa da un’immagi-ne di dissoluzione potente e origi-nale), la trama sovrappone alla co-scienza dello scrittore quella delnarratore in prima persona, se-guendo in quindici capitoli altret-tanti libri che da una costipata ri-vendita sulla CirconvallazioneClodia di Roma (dove è finita la bi-blioteca del fantasma che ne scor-ta passo passo la fortuna) finisco-no nelle mani le più diverse; pure,al presente, il protagonista, cheda subito sappiamo per morto,non manca di opporre il passato –prossimo e remoto – che lo ha por-tato al punto di non ritorno, al cul-mine di un annientamento che,fuori di metafora, è la vera e piùcoerente conclusione di un desti-no. Senza indulgere nel meta-let-terario (che pare non gli si addi-ca) e pur con qualche eccessivapedissequità nel tratteggiare unafigura che si vorrebbe paradigma-tica – e perciò memorabile -, Ser-gio Garufi (classe 1963) orchestraogni capitolo come una stazionelegata a quella che la precede e al-la seguente da una rete sottile diconnessioni che, tra piccoli affan-ni e qualche sbavatura stilistica,non si cura di mettere in scacco:ed è così che il rifugio romano (daMilano, dal Nord-Italia, dalla fa-miglia e dai tracolli finanziari – for-tuiti o voluti che siano) finisce peressere la penultima tappa di unafedeltà estrema, appassionata epresentita: «Avrei dovuto capirlosubito, quel pomeriggio di novem-bre con Anna a San Luigi dei Fran-cesi, che chi segue la propria voca-zione rischia di finire male, che vo-cazione e martirio sono associati(…) Ama nesciri, “compiaciti di es-sere ignorato”, era il mio motto.Cosa c’era di più nobile di incar-nare una rinuncia che rinunciavainnanzitutto a sé stessa, revocan-do ogni possibile ipoteca sul pro-prio oggetto?».

di Enzo Di Mauro

Non so, francamente,quale tipo di traffico interiore con-tinui a intrattenere Marina Man-der (che da molti anni vive ormaia Milano) con Trieste, sua città dinascita. Pure c’è da chiedersi – eio almeno me lo chiedo da quan-do lessi, per la verità un po’ in ri-tardo rispetto alla data di uscita,quel suo felice libro d’esordio inti-tolato Manuale di ipocondria fan-tastica e pubblicato da Transeuro-pa nel 2000 – se quella genealogiaculturale abbia una qualche fun-zione, e in che misura e profondi-tà, nella sua attività di scrittrice,vale a dire per la maniera sbilencae a volte addirittura rovesciatache ha di afferrare le cose e le si-tuazioni e i destini dei suoi perso-naggi, per lo sguardo scentrato eimprevedibile sempre piegato acreare effetti di autentica dissimu-lazione visiva, per l’acutezza maisvagata nel saper delineare unacondizione di confine netta e tut-tavia friabile, un taglio o un’incri-natura insidiosa tra ciò che chia-miamo normalità (ad esempio, loscorrere naturale del tempo del-l’esistenza) e l’emersione di ungrumo psichico irrisolto che dinetto la trancia, la chiude, la bloc-ca in una sospensione dolorosa.Ebbene, il grottesco che predomi-nava nella sua prova d’avvio, ora,qui nel nuovo romanzo (La pri-ma vera bugia, et al. Edizioni,pp. 130, € 13,00), vira decisamen-te e va a incastonarsi, al pari diuna pietra maligna, nella più ca-suale e irrimediabile delle espe-rienze possibili ovvero nell’irrom-pere di quel guasto fatale al fragi-le, delicato congegno della vita.Non si tratta, in questo caso, di ne-vrosi, ma di un evento oggettivo,concreto. Il protagonista-narrato-re è un bambino, il quale ci testi-monia di una sequenza di giorniquasi sempre trascorsi nel chiusodi un appartamento dove l’aria,resa via via irrespirabile, comin-cia a mancare. Egli, finché può,nasconde anche a se stesso lasemplice, netta e non di menooscura presenza della morte dicolpo installatasi nella casa. Anzi,più che nascondersela, egli la ri-muove e insieme la dilata in un’at-tesa tanto fervida quanto vana. Ilbambino procede come se tuttofosse come prima: esce per anda-re a scuola, invita a casa un com-pagno di giochi, spende gli ultimispiccioli per comprare qualcosada mangiare. In altri termini, eglimette in scena una parodia delquotidiano. Il suo scrutare, però,è meticoloso, attentissimo, preci-so nel rendiconto, e crudele nelcogliere i cosiddetti dettagli – co-me spesso si dice che sia lo sguar-do dei bambini. Il timbro, icasticoe mercuriale, è quello della crona-ca, e per un curioso effetto quellavoce ci pare registrata, direi persi-no che sembra tinta di sfumaturequasi metalliche. Ma, al dunque,è proprio una simile suggestionelinguistica, ossia un che di inclina-to all’artificio, a rendere La primavera bugia un romanzo toccantee disperato che sfida, ai limiti del-l’insopportabile, i sentimenti(chiamiamoli così) del lettore, ilquale di fatto è necessario che sene debba difendere. Non so se ciòrappresenti un pregio o un difet-to. Di sicuro è un dato.

di Massimo Bacigalupo

Acosa servono i libri?Sfogliati, studiati, amati, irrisi, si af-follano su scaffali e tavolini con leloro belle copertine. Più belle avolte ben esposte e illuminate in li-breria che quando le inseriamonel disordinato ambiente domesti-co. Come sassi colorati tolti dal-l’acqua. Il neoeditore genovese IlCanneto (dal nome di uno dei lun-ghi vicoli del centro storico, vedi ilsuo sito) propone fra le sue primeuscite due libretti anomali di unvecchio artigiano della grafica edella scrittura, Carlo Vita. Sono vo-lumi da sfogliare e guardare piùche da leggere, incarnazioni diun’idea con un pizzico di ossessio-ne. Il primo, firmato C.V. & E.M.,s’intitola Felicità raggiunta si cam-mina. 33 variazioni sul tema delladeambulazione (pagine non nu-merate, € 10,00). Il verso del titolosuona familiare, e infatti è il contri-buto di E.M. (la prima edizioneuscì nel 1974, ma non si sa che neabbia detto il poeta degli Ossi).Questi aggiungeva «si camminaper te su fil di lama», sul taglio diun coltello. Carlo Vita offre trenta-tré variazioni su questo fondo del-la improbabile felice camminata.Da «Felicità raggiunta, camminaper te sul fil di fumo» a «Felicitàraggiunta, cammina per te sul fo-glio bianco». Ma anche «sul filod’oro», «sul Filarete», «sul filofort»,«sul fascistone», «sul fantolino»,«sul fallo eretto»... Ognuna delle33 variazioni è accompagnata daun allettante disegno in punta dipenna in cui un pagliaccetto si li-bra sull’oggetto evocato. Carlo Vi-ta, che è nato a Verona nel 1925,aveva nel 1974 meno di 50 anni.In seguito ha pubblicato fra l’al-tro un curioso libro di versi e rac-contini, Illusioni ottime (Campa-notto, 2006). Ora ha intrapresouna nuova sfida, iniziata dice il 25maggio 2010 ma di cui solo oggi IlCanneto ci offre i primi risultati:un libretto intitolato Contare i sas-si (pp. 75, € 12,00). «Quanti sonosulla Terra i sassi?» chiede C.V.nella breve premessa. Il numerodeve essere finito anche se perora non appurato. Ecco dunquel’idea di contarli. Il libretto constadi una serie di disegni (guarda ca-so 33), in cui vediamo delineatauna teca contenente via via 1, 2,3, 4, 5, 6... sassi, ciascuno contras-segnato da un numerino. È ungioco misterioso che chissà doveporterà. Fatto con molta pazien-za, illuminato dalla serietà e dal-l’umorismo. Che sfiori lo zen o leteorie dei sistemi? Tutto è lasciatoal fruitore di questo libro-jeud’esprit. L’artista ha la serietà delfantolino specie se come Vita stacamminando ad ampi passi versoi novant’anni. Nella forbita pre-messa invoca persino l’assistenzadell’ascetico sant’Agostino: «Cipiacerebbe che il Vescovo di Ippo-na non abbandonasse anzitempola nave dei sensi, che proseguissecon noi il viaggio noverante, so-prassedendo per un attimo a spre-giare la materia del mondo. Gui-dandoci anzi a conoscerla ognigiorno di più nella sua quantità.A numerarla per meglio (modesta-mente) padroneggiarla». Istituireun rapporto interlocutorio e sem-pre attento con la «materia delmondo». Un grande insegnamen-to per un piccolo non-libro.

ITALIANA■ SERGIO GARUFI ■

Ama nesciri,vocazione!

■ CARLO VITA ■

Pagliaccettomontaliano

■ MARINA MANDER ■

Il bambinometallico

MILANO DA PAGINA 21

quenza di Boccioni memorabilisu fondi grigiastri e in tralice. IMorandi e i De Chirico e i Manzo-ni invece sono su pareti bianchis-sime, in piccoli ambienti, tra i viavai delle scale mobili e il lampeg-giare degli ascensori cromati, tan-to che pensi di essere sui mezza-nini di una FNAC, mentre a ognipiano stanno erogatori gratuiti diun liquido igienizzante per le ma-ni («Sanitizza qui le tue mani»,sta scritto). Ma ci sono anche di-stributori vuoti di riviste: «MuseoMagazine» et similia. Non è il ca-so di censurare i prelievi, pur nu-merosissimi (per esempio la qua-si totalità dei Fontana esposti) enon dichiarati abbastanza, a fron-te della generosità dei donatori,dalla sterminata raccolta BoschiDi Stefano, che pure ha, in viaJan, una disposizione museale,ma non mi pare giusto avere tra-sportato all’Arengario la Bambi-na x balcone, il capolavoro di Bal-la, che fa parte della raccoltaGrassi nei sottotetti della Villa Re-ale magnificamente sistemati daIgnazio Gardella e lì esposta, finoall’altro ieri, accanto a un crucia-le studio coevo. E poi: le liberato-rie ridicole per avere accesso, damaggiorenni, nelle camere scuredell’arte cinetica, pur così careagli ambienti Olivetti. Le opereprivate in deposito non sembra-no qualche volta – da Matino aOlivieri – necessarie a colmare ilracconto delle vicende figurativedel XX secolo: come giudicare al-trimenti l’assenza di Pino Pasca-li? La storia del Novecento correigienizzata, come le mani, dalletempeste ideologiche e sulla ba-se di parametri di qualità, nel se-condo tratto del secolo almeno,su cui sarebbe bello discutere (laRoma di Schifano e Tano Festanon vale quanto la Milano di Ada-mi e Tadini): ma non manca unasala riepilogo che fa venire allamente i tempi del liceo con la for-tunata Guida al Novecento di Sal-vatore Guglielmino. Ci sono i li-bri futuristi in teche di corian,ma non quelli della neoavanguar-dia: che occasione perduta permettere a confronto gli anni Die-ci e gli anni Sessanta, i più vitalidel secolo andato. I grandi e beisaloni ricavati all’ultimo piano diPalazzo Reale ospitano non i pez-zi cruciali, quelli per cui le raccol-te civiche milanesi sono famose(Boccioni in primis) ma una sor-ta di appendice, di coda, con ac-canto – quasi un bubbone (tantoche non è nemmeno inserito nelcatalogo) – tre stanze con le ope-re di Marino Marini. Ma soprat-tutto manca nel Museo del Nove-cento, così pesantemente utiliz-zato durante la campagna eletto-rale, qualunque riflessione tra icontenuti e il contenitore: nientespiega che l’Arengario, costruitoa partire dal 1937 da Griffini, Ma-gistretti, Muzio e Portaluppi, edecorato all’esterno con sculturedi Martini, non era un edificioqualsiasi, un belvedere da cuiammirare scorci insoliti dellavecchia Milano, spesso sagace-mente individuati in quest’occa-sione, ma il luogo, voluto dal fa-scismo, da cui il Duce BenitoMussolini avrebbe arringato lafolla, tra le camicie nere suglispalti e sulle gradinate. In questadepurazione del passato mancainsomma qualunque brividod’orrore. Adesso sarebbe bene,percorso il periplo e giunti allameta, avanzare proposte concre-te e percorribili per il futuro, ci siaugura, migliore. Non intendosottrarmi all’esercizio; ma nonora: fa troppo caldo.

7-fine

ALIAS N. 29 - 23 LUGLIO 2011 (23

■ «CONVERSAZIONI COL VENTO VOLATORE» ■

Riprendere con Celatilo spazio comune

A bordo della rollante Mormagaocombattevano il mal di mare acolpi di Madeira gli americani di-retti a est, aggrappati al banconee cantando sempre più forte. Eintanto. fuori, «il vento ululava egli spruzzi volavano mentre la bar-ca affondava sempre più nel ven-tre delle onde». Comincia conun’immagine «alla Coloane» illungo viaggio verso Oriente diJohn Dos Passos, sempre più spro-fondandovi, dalla costa atlanticaamericana fino all’Iran, che chia-ma ancora Persia. Strada facendosi chiede perché tutta quella vo-glia di trascinarsi tra «frammentiavvizziti di vecchi ordini», tra «reli-gioni defunte», tra «rovine chepullulano dalle larve della storia».Realizza che il suo somiglia più aun viaggio di fuga che a un viag-gio d’esplorazione. Fuga dalla vitaterribile in un Occidente che «stadistruggendo i germogli del rinno-vamento tra l’immondizia dei de-positi ferroviari russi, nell’odoredei tubi di scappamento nelle sta-zioni di servizio di Detroit». OrientExpress (Donzelli, pp. 205, €18,00) è il racconto di un viaggiodel 1921, attraverso un mondoche va ridisegnandosi dopo gliscombussolamenti prodotti dallaGrande Guerra e dalla rivoluzionesovietica. Da Ostenda, terminaldella nave transoceanica nel nordEuropa, scende in treno fino aCostantinopoli, attraverso i Balca-ni, la Bulgaria e la Grecia. Vedebrillare il Bosforo, «intorno allasfilza di corazzate grigie all’anco-ra», mentre «tra le colline brune inprimo piano e le colline azzurresullo sfondo si srotola una spessacolonna di fumo». Fissa sulla cartaimmagini che pare di vederle. Etalvolta le visualizza davvero, pen-nellando quadri dai colori accesi,anch’essi contenuti nel libro. Regi-stra ogni storia gli arriva alle orec-chie e la amalgama con le suevisioni, che non di rado assomi-gliano ad allucinazioni, perenne-mente in bilico tra realtà e imma-ginazione. Procede lento, osser-vando e orecchiando, si dissociadalla prima persona quando gli vadi prendere le distanze da sé eguardarsi agire da fuori come«l’americano diretto ad est», inter-prete non protagonista di un rac-conto corale, mescolato a tantialtri e fuso nel contesto, col qualenon è necessario identificarsi.«Non c’è né passato né futuro,solo questo movimento soporife-ro e inesplicabile che porta versoLevante attraverso un mondo cherotola», annota. Dunque «rotola»anche lui, fino alla baia di Trebi-sonda e da lì avanti, «fiancheg-giando la costa verso le tenebredell’Est». Altri treni, folle cencioseche si aggirano per le stazioni ecarrozze stipate di soldati. Il Cau-caso e l’Ararat, l’Armenia e la pia-nura di Tabriz, storie raccapriccian-ti e pensieri che «si muovono len-ti in una densa salsa di stupore».Persia e retromarcia lungo la viadei pellegrini che conduce in Iraq.E da lì 37 giorni attraverso il deser-to di pietre di Damasco con unacarovana. È un reportage di quasiun secolo fa, ma non si avvertealcun anacronismo nell’approccioe nella scrittura. O forse sì, masolo perché la specie dei reporterè oggi quasi estinta.

di Daniele Giglioli

Ci sono due Gianni Ce-lati. Il primo è (per usare il mole-sto gergo calcistico che forse lo fa-rà imbestialire, ma pare si debba)uno dei più grandi scrittori italia-ni. Ovvero qualcuno che ha trova-to un paese tutto suo, una linguariconoscibile ad apertura di pagi-na, un complesso di idee immagi-ni ritmi pause e cadenze che lorendono inconfondibile, altro, im-possibile da imitare se non per pa-rodia o pastiche; il tutto sostenu-to da una riflessione teorica pro-fonda e coesa come ce ne sono po-chi o nulli esempi. È vero che que-sto sembra contraddire molti de-gli assunti teorici di Celati medesi-mo, di cui si trova ampia docu-mentazione nel libro che qui sipresenta (Conversazioni col ven-to volatore, Quodlibet «Compa-gnia Extra», pp. 170, € 14,00): chenon si è mai un individuo singoloma un popolo, o comunque ilmembro di una tribù immagina-ria che si aggrega e si riconoscevia via che procede il proprio scri-vere; che il narrare è sempre«ascolto e visitazione fantasticadegli altri», in quanto nasce dal-l’aver ascoltato i racconti di una«popolazione di individui a cui as-sociarsi anche solo fantasticamen-te»; che quella dell’individuali-smo proprietario (di cui fa partela Mitologia dell’Autore) è la leb-bra metafisica che corrode irrepa-rabilmente il nostro tempo; e al-tro ancora.

Ma questo di per sé non fareb-be fatto (in ogni artista e anzi inognuno di noi sono proprio i pun-ti di frattura, le tensioni e non lesoluzioni, a costituire il centro vi-vo di un pensiero e di un’immagi-nazione), se qui non si innestasseappunto il secondo Celati. Un Ce-lati della conversazione, più chedello scritto, dell’intervento pub-blico, che è anche, lo voglia o nonlo voglia, una figura guida, un ca-popopolo, o capotribù, o capo-

scuola, un ideologo perfino, nellacui opera, lingua, pensiero e an-che vezzi, in tanti si riconosconofino a un grado di identificazioneproiettiva impressionante: stessigiri di frase, stessi idoli polemici(uno per tutti: il famoso o famige-rato «Entrò Carla» degli Indifferen-ti di Moravia), trapianto letteraledi invenzioni verbali (per esem-pio la parola «fantasticazioni»), epiù in generale una postura, un at-teggiamento, una mimica, un si-stema prescrittivo del come si de-ve e non si deve scrivere. Il checonfigura il paradosso di uno scrit-tore che, nato e vissuto all’internodi un’ininterrotta battaglia disganciamento (dalle finzioni del-l’Io, dalle pretese disciplinatricidella razionalità utilitaristica,ecc.), finisce per assumere il ruolodi legislatore e principe di una po-etica che dice parole di liberazio-ne mentre di fatto opera un pro-cesso di assoggettamento al cari-sma del padre fondatore.

A voler essere superficiali ci sipotrebbe accontentare del dettoche si nasce incendiari e si muorepompieri – magari nei discepoli,ma il senso del discorso non cam-bia. O dello sconsolato storicismoassoluto di un Sanguineti secon-do il quale ogni avanguardia devepensarsi fin dalla sua genesi comeuna futura arte da museo. O delfatto che se i maestri non vengo-no mangiati in salsa piccante(copyright Giorgio Pasquali e PierPaolo Pasolini) sono guai. Ma sa-rebbe ingiusto, ingeneroso e so-prattutto cieco. E non solo per il ri-lievo ovvio ma sacrosanto che Ce-lati pompiere non c’è mai diventa-to; tutt’altro. Ma perché in questatensione tra liberazione individua-le (degli umori del corpo, dellefantasticherie mattoidi della men-te, dei ghiribizzi della lingua) epratica collettiva si misura tutto ilvalore di interrogazione politicache l’arte di Celati pone tanto ailettori quanto agli autori che simettono nel suo solco.

Quando si parla di politica aproposito di Celati bisogna inten-dersi. Nulla a che vedere con l’en-

gagement dell’intellettuale, con ildovere del realismo o del reporta-ge, con la prosopopea del corag-gioso testimone deciso a dire la ve-rità costi quel che costi. Ma sì pe-rò con qualcosa che ha profonda-mente a che vedere con la verità,non foss’altro nella forma dellacritica spietata che Celati condu-ce contro la menzogna sociale or-ganizzata, di cui sono sintomo al-la stessa stregua tanto la pretesametafisica della conoscenza og-gettiva quanto la letteratura indu-striale su cui non perde occasioneper sparare. Contro di essa, Celaticonvoca il potere maieutico dellafantasia, per fantasia intendendovia Aristotele e Vico qualcosa di in-trinsecamente collettivo, pubbli-co, comune. Alla radice delle fan-tasie più eterodosse di ogni singo-larità c’è sempre un prelievo da, eun ritorno al, comune, all’intellet-to comune averroista, evocato nelVento volatore, il che spiega per in-ciso l’amore di Celati per due for-me così italiane come la novella eil poema cavalleresco, e il disprez-zo per il romanzo, con la sua coa-zione alla razionalizzazione del-l’intreccio e alla messa a fuoco diuna psicologia individuale.

Il punto è però che il comune èuno spazio esaltante ma anche pe-ricoloso. Non è abitato solo dagentili fantasticazioni, ma ancheda demoni. Giustamente Celatinota come in molta parte della ri-nascita del fantastico contempora-neo (Harry Potter, Il Signore deglianelli) la fantasia è evocata comequalcosa di tenebroso, torbido,mostruoso. Ma non lo è per caso.Perché attraverso la fantasia tran-sitano e praticano non solo bene-voli sciamani ma anche turpi de-magoghi, non solo la liberazionema il carisma, non solo lo scartocapriccioso ma anche l’assoggetta-mento alla norma. E se questo fat-to, forzando un poco i termini del-la questione, si spinge fino a lam-bire la sua stessa opera, non do-vremo vedere in ciò una banalecontraddizione nei termini delpredicare bene e razzolare male,ma il segno, il limite, il confine, ad-

ditatoci appunto da quell’opera,del luogo in cui si è spinto ma an-che arrestato fino a questo mo-mento il suo e il nostro pensiero.Come si pensa e si fantastica in co-mune? È sufficiente ritirarsi in pic-cole tribù di nomadi, in prosecuto-ri del giardino di Epicuro che sfrut-tano tutti gli spazi interstiziali ri-masti disponibili per sottrarsi allaviolenza e alla menzogna del pote-re? Non si è perso qualcosa nelmomento in cui si è rinunciato agettare apertamente in faccia aquel potere il guanto della sfida? Ecosa ne è di tutti gli altri, i non sal-vati, i condannati alla letteraturaindustriale? Non ci impoveriscetutti il fatto di considerarli perdutiper il nostro comune, abbando-nandoli senza rimpianti al comu-ne privatizzato da quegli altri?

Sono, come si vede, i problemipolitici più stringenti della nostraepoca. Sintetizzando, l’idea di eso-

do che dà il cambio a quella di rivoluzione.Non senza validi motivi: la rivoluzione non hadato buona prova di sé (l’unica vera rivoluzio-ne che ho visto, scrive Celati nel Vento, è stataquella della Thatcher). Da qui sono nati o rina-ti Bartleby e Robert Walser e gli strambi e i pa-scolanti. Il problema è: per quanto ancora? Lospazio si riduce giorno dopo giorno. Urge ri-mettersi a fantasticare qualche cosa di nuovo,naturalmente in comune.

Baobab di 13-14 metri di diametroriassociano sulla verticale delle rela-zioni visive (cui più siamo usi affi-darci) un affiorare al suolo del pa-linsesto delle trame di forme, fun-zioni, memorie e simboli che, nellasempre rinnovata cosmogonia divillaggio cui tutte concorrono, si faluogo di invenzione di una comuni-tà, della sua identità. Taneka Beri èil luogo altro, villaggio del nord-ovest del Benin, sulle colline Ta-neka, cui è dedicata l’edizione2011 del Premio InternazionaleCarlo Scarpa per il Giardino (a cu-ra di Domenico Luciani e PatriziaBoschiero, con l’antropologo Mar-co Aime, pp. 192, € 20,00, AntigaEdizioni). Ventiduesima edizione diuna «campagna di attenzioni» pro-mossa dalla Fondazione BenettonStudi Ricerche dove premiare unluogo significa indagarlo nel suofarsi «rapporto tra forma e vita».Dialetticamente, sempre in bilicotra conservazione e reinvenzionepartecipata. Una rapida scorsa all’in-dice dei luoghi selezionati neglianni dà la misura di come per in-tenderne in tal senso il valore sianecessario affilare una particolareattenzione. Considerando comel’accento sia posto non tanto sul«talento dell’inventore, ma sullasapienza e la continuità di una gui-da che riesce a far vivere nel tempoquella stessa invenzione». E comealla «eleggibilità» dei luoghi si vo-gliano operativamente intrecciatiorientamenti pratici per attivarecoscienza e cultura del loro «gover-no». Da I sentieri di fronte all’Acro-poli, di Dimitris Pikionis, alle archi-tetture erratiche della Val Bavonanel Canton Ticino, dagli interventidi Bogdan Bogdanovic nel Com-plesso memoriale di Jasenovac odi Sven-Ingvar Andersson sul Mu-seumplein di Amsterdam, fino daultimo al villaggio di Taneka Beri. Equi, ricalcando e variando le proffer-te di un territorio accudito e venera-to, la trama di insiemi abitativi efunzionali del lontano villaggio delpopolo Taneka (quelli delle pietre)si sovrappone a quella degli spazirituali in una mappa fisica e menta-le di relazioni e proiezioni simboli-che (nella documentazione, le ta-belle di percorrenza «in passi» con-temperano le aspirazioni alla misu-razione spaziale e al rilievo geome-trico di una metodologia paesaggi-stica rimeditata dal filtro «antropo-logico»). Alberi secolari, pietre op-portunamente scelte e posizionateordinano spazi-funzione destinati ariti e socialità. Grotte, affioramentidi rocce si integrano nel tracciatodel muretto eretto a protezione dairazziatori di schiavi, puntello identi-tario del mito di fondazione di unasocietà nata in difesa della libertà,esito della compresenza di diverseetnie confluite integrando fuggitiviin una particolare organizzazionesociale. Interpretando un territorioche la accoglie e la plasma nel co-mune senso di appartenenza, lacomunità rispecchia la propria iden-tità anche nell’invenzione di unpaesaggio. Espressione dell’irriduci-bilità delle differenze con cui sia-mo chiamati a confrontarci, il micro-cosmo di Taneka Beri è al tempostesso occorrenza di un «universaleconcreto» che dalla sua alterità ciinterroga, proponendosi perfinocome «possibile paradigma di svi-luppo sostenibile».

In questo suo

libro-patchwork

Gianni Celati

ci consegna il senso

del suo profilo

intellettuale:

allo scrittore

unanimemente

riconosciuto,

si sovrappone

il maieuta

della fantasia

e del contropotere.

Ed è a quest’ultimo

che va prestato

credito nelle attuali

urgenze politiche

Luigi Ghirri,Sassuolo (Modena), 1983

VAGABONDINGL I B R I E V I A G G I

JOHN DOS PASSOS,AMERICANODIRETTO A ESTdi Roberto Duiz

VÌRIDECRITICA DEL GIARDINO

SCARPA IN BENINPER UN VILLAGGIOPARTECIPATOdi Andrea Di Salvo