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Salvo diversamente indicato, le immagini sono tratte dal web

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A singolar tenzone Qualcuno vuole un pomander?

Ancora un passo, Bellori e Caravaggio Rahotep e Nofret

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A singolar tenzone!

Siamo in Italia, a Firenze, in un

momento imprecisato tra l’anno 1410

e il 1415.

Due uomini, uno si chiama Donato di

Niccolò di Betto Bardi, meglio noto

come Donatello e l’altro, Filippo

Brunelleschi, stanno passeggiando e

chiacchierando del mestiere dell’arte.

Sono entrambi artisti.

Donatello si dedica alla scultura con

grande successo mentre Filippo

Brunelleschi è un celebre architetto. Il

primo aveva da poco terminato di

scolpire un Crocifisso ligneo e

secondo la testimonianza scritta da

Giorgio Vasari, aveva deciso di

chiedere all’amico Filippo un parere,

un giudizio sull’opera.

Fu così che quando Brunelleschi vide

il Crocifisso realizzato da Donatello,

opera di grande realismo, gli disse

che bello ero bello, ma sembrava

avesse messo “un contadino in

croce!”.

Il corpo del Cristo di Donatello è

vivo, presente, muscoli forti e sotto

certi aspetti privo della solennità,

della bellezza e dell’eleganza nelle

proporzioni che ci si aspetterebbe da

un soggetto sacro di tale altezza.

Troppo naturale, troppo vero. Il corpo

sofferente è composto in modo

energico, senza concessione alla

convenienza estetica: l'agonia è

sottolineata dai lineamenti contratti,

la bocca dischiusa, la composizione

sgraziata.

Il giudizio, racconta sempre il Vasari,

non piacque a Donatello che,

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Crocifisso Donatello, 1407 - 1408 ca., legno policromo,

168 cm, Basilica di Santa Croce, Firenze

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stizzitosi, sfidò Brunelleschi a fare di

meglio; che ci provasse lui a

realizzare un Crocifisso perfetto e

migliore del suo!

Fu così che l’architetto, creatore della

magnifica e stupefacente cupola di

Santa Maria del Fiore, si mise

all’opera: realizzò anch’egli un Cristo

e quando decise che era giunto il

momento chiamò l’amico per

mostrargli il lavoro.

Donatello giunse, probabilmente

impegnato a fare la spesa, perché

quando vide l’opera realizzata

dall’amico gli caddero le uova che

aveva in mano e infatti il Crocifisso

di Brunelleschi, che potete ammirare

a Firenze nella splendida Chiesa di

Santa Maria Novella, è

soprannominato il “Crocifisso

dell’ova”.

L'opera è un attento studio

dell'anatomia, potremmo dire uno

studio di nudo, manca infatti il

perizoma che veniva aggiunto a parte

con un tessuto, opera essenziale negli

elementi, ispirata al mondo antico.

Misura e proporzione matematica: le

braccia aperte misurano quanto

l'altezza della figura, il naso è in asse

con il baricentro dell'ombelico. Di

belle proporzioni flessuose, degno il

volto, sensibile l’aspetto di un Cristo

che sembra aver esalato davanti a noi

l’ultimo respiro, scivolando in un

sonno sereno.

Se invece siamo a Firenze, nella

Chiesa di Santa Croce, possiamo

ammirare il Crocifisso di Donatello, il

“Cristo contadino”.

Crocifisso Filippo Brunelleschi, 1410 - 1415 ca., legno

policromo, 170 cm, Basilica di Santa Maria Novella, Firenze

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Non sappiamo se questo racconto del

Vasari sia vero o no, ma certamente è

degno di essere conosciuto. Dentro

c’è molto del Cinquecento, il

confronto tra i due crocifissi è

esemplare per dimostrare le

differenze tra due dei padri del

Rinascimento che, nonostante la

comunanza di intenti, avevano

concezioni personali del fare artistico

molto diverse. Da una parte l’arte si fa intellettuale e

idealizzata, dall’altra abbiamo

Donatello che crea con forza

drammatica e realistica.

E da lontano vediamo già camminare

su queste strade Leonardo e

Michelangelo.

Ubicazione del Crocefisso di

Brunelleschi: cappella Gondi in

Santa Maria Novella, Firenze.

Primo piano del Crocefisso di

Donatello, nel transetto sinistro dietro

alle grate della Cappella di San

Ludovico in Santa Croce, Firenze.

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Pomander di artista italiano sconosciuto, in argento, XVII secolo. 6,4 x 2,9 cm. Donato al

Metropolitan Museum of Art di New York dalla signora Arthur Curtis James nel 1920.

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Dal Medioevo fino al XVIII secolo

ebbe grande diffusione, nell’alta

società europea, uno strano

contenitore per profumo, realizzato

generalmente in metallo, traforato

come un merletto allo scopo di lasciar

traspirare la piacevole fragranza in

esso contenuta: il pomander.

Il suo nome significa mela d’ambra e

per il suo contenuto spesso si

sceglieva tra benzoino, storace,

gomma arabica, laudano, radice di

iris, muschio, zibetto, ambra grigia,

noce moscata, chiodi di garofano,

cannella, lavanda, olio essenziale di

rosa, aloe, canfora, dragoncello,

rosmarino e nardo.

I grandi profumieri del Rinascimento

erano spagnoli o italiani.

I primi avevano ereditato la loro

scienza dal mondo arabo, i secondi

approfittarono della ricchezza della

penisola e del gusto dell’aristocrazia

e della borghesia per creare profumi.

Qualcuno vuole un pomander ?

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Pomander, tedesco, del XVI secolo, in argento e argento dorato. Il pomander si apre per

rivelare sei segmenti cavi fissati a un gambo centrale inciso e dorato.

Il coperchio scorrevole di ogni scomparto è etichettato Canel (cannella), Negelren (garofano)

Muskat (noce moscata), Schlag (un composto di ambra grigia, muschio e civet; era

considerato un rimedio per malattie come l’ictus), Bernstein (ambra), Rosamarin (rosmarino).

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Bisogna infatti precisare che nel

corso dei secoli si era sviluppata una

certa ostilità nei confronti dei bagni:

si pensava che l’acqua fosse un

veicolo di contagio e così ci si lavava

sempre meno. Diventava quindi

necessario profumarsi; gli aromi

presero il posto dell’igiene per

nascondere la sporcizia e vincere i

cattivi odori.

Quando Caterina de’ Medici andò in

Francia per sposare il futuro re Enrico

II, portò con sé dall’Italia il suo

profumiere, René Le Florentin che

aprì la sua bottega sul Pont au

Change e divenne presto famoso per i

suoi profumi e le sue pozioni.

La giovane de’ Medici, orfana di

Lorenzo duca d’Urbino e nipote di

Papa Clemente VII, aveva solo

quattordici anni quando entrò in

Marsiglia per convolare a nozze, con

un fastoso seguito di dame, damigelle

d’onore, paggi, guardie pontificie e

una piccola corte di gentiluomini,

giungendo finalmente nel cortile del

palazzo reale in una splendida

giornata d’inizio autunno.

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Pomander, argento parzialmente dorato,

Niello. Italia, 1350 ca.

Victoria & Albert Museum.

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La nobiltà francese, accorsa per

assistere all’avvenimento, non

nascose la delusione nel constatare

che la futura moglie del duca

d’Orléans, piccola, il mento sfuggente

e gli occhi porcini, di una timidezza

imbarazzante, non era certo

ambasciatrice della bellezza toscana

tanto decantata dai poeti.

Enrico d’Orléans invece viene

ricordato dalle cronache come “(…)

bello, di statura media e ben

proporzionato nelle membra, con il

viso lungo, il naso ben formato, gli

occhi piacenti e pieni di una dolce

attrattiva”, un marito ideale per la

giovane Caterina se il ragazzo, quasi

quindicenne, non avesse già per

amante Diana de Poitiers.

La vita e le avventure di René le

Florentin, maestro profumiere alla

corte parigina, si dipanano in eguale

misura tra storia e leggenda. I frati del

convento di Santa Maria Novella in

Firenze, giunti in Francia al seguito di

Caterina, asserivano, spesso

contraddicendosi, che Renato Bianco

fosse un trovatello allevato nel loro

convento con mansioni di garzone.

Verso i dodici anni era stato

assegnato al servizio di un vecchio

frate alchimista che gli aveva

insegnato i segreti della distillazione

delle erbe. Le invidie, i rancori e le

antipatie personali facevano variare

anche di molto, nei racconti dei frati,

le vicende del giovane che, alla morte

del suo maestro (qualcuno affermava

che la vita del vecchio monaco fosse

stata stroncata dalla mano dello stesso

Renato), si ritrovò con un bagaglio di

conoscenze superiore a qualsiasi altro

monaco del convento.

Ambizioso e bramoso di raggiungere

il successo con le essenze odorose

che ormai preparava con somma

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Il matrimonio di Caterina de' Medici ed

Enrico di Valois; affresco del Vasari.

Un ritratto della regina Caterina

de’ Medici (1519-1589), opera di

Santi di Tito (1536-1603).

Sull’abito c’è un pomander.

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maestria, era riuscito a farsi ricevere

dalla giovanissima Caterina de’

Medici la quale, irretita dai profumi e

dalla sua eloquenza, lo ammise al

proprio seguito come profumiere di

fiducia. Le sue opere si sono perse

lungo i secoli, ma è rimasta la

leggenda dell’uomo, un italiano alla

corte di Francia, che con i profumi

mutò una società e pose le basi della

moderna profumeria.

Così la moda dei prodotti profumati

iniziò ad espandersi rapidamente. Le

pelli più fini di Sicilia, di Sardegna o

di Spagna venivano conciate e

profumate.

Non c’è da stupirsi se l’Italia divenne

la terra di elezione della profumeria:

qui si producevano polveri alla

violetta, all’iris, alla rosa muschiata e

al giacinto per pulire e profumare le

capigliature, acque cosmetiche alla

cannella, alla canfora, al limone e alla

camomilla, acque profumate al

muschio, al giglio, all’ambra, ai fior

d’arancio e risciacqui profumati allo

zenzero, ai chiodi di garofano e al

rosmarino per profumare l’alito. Olii

ed unguenti alla rosa, arancio, limone

completavano la panoplia aromatica

dell’epoca.

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Lo studio della storia dell’arte non

può prescindere dall’analisi di alcuni

fondamentali autori che

rappresentano la principale porta

d’accesso alla conoscenza dell’arte

italiana, dal Medioevo al Barocco.

Tra questi, i nomi di maggiore rilievo

sono quelli di Filippo Baldinucci, il

celebre Giorgio Vasari, Giulio

Mancini, Giovanni Baglione e

Giovan Pietro Bellori. Quest’ultimo è

uno dei biografi più importanti per

conoscere e approfondire la storia

dell’arte italiana di epoca barocca.

Nel 1672 Bellori diede alle stampe Le

vite de' pittori, scultori et architetti

moderni, a continuazione ideale del

lavoro di Giorgio Vasari. Nella prima

edizione l’opera conteneva le

biografie di nove pittori (Annibale e

Agostino Carracci, Barocci,

Caravaggio, Rubens, Van Dyck,

Domenichino, Lanfranco e Poussin),

due scultori (François Duquesnoy e

Alessandro Algardi) e un architetto

(Domenico Fontana).

Come Vasari, Bellori riteneva il

disegno l'elemento fondamentale

della preparazione artistica, sia per la

scultura che per la pittura.

Insieme al disegno l’artista doveva

padroneggiare la prudenza, compiere

cioè una serie di scelte e di prove

prima di valutare un risultato finale.

Il traguardo della bellezza veniva

raggiunto solo attraverso una serie di

tappe ponderate grazie alle quali

l'artista, ispirato dalla natura, avrebbe

trovato il suo percorso verso l'opera

finale.

Bellori nella sua vita ricoprì

importanti incarichi, fu curatore ed

antiquario delle collezioni di papa

Clemente X e nel 1671, divenne

segretario dell'Accademia di San

Luca ed infine bibliotecario ed

antiquario della regina Cristina di

Svezia.

Giovanni Pietro Bellori fu dunque

uno dei biografi di Caravaggio e

grazie alla lettura delle sue pagine

veniamo a sapere che

un’Incoronazione di spine venne

eseguita per uno dei maggiori

committenti di Caravaggio, Vincenzo

Giustiniani, annotata all’interno della

Collezioni Giustiniani nel 1638.

La sua datazione è controversa:

secondo alcuni sarebbe una delle

ultime opere di Caravaggio, mentre

Ancora un passo,

Bellori e Caravaggio

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Incoronazione di spine, Michelangelo Merisi da Caravaggio, 1603,

olio su tela, 127×165 cm, Kunsthistorisches Museum, Vienna

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secondo altri sarebbe più vicino,

stilisticamente, alle commissioni per

la Cappella Cerasi.

Al centro della tela è raffigurata

l’incoronazione di Cristo per mano di

due uomini che si accaniscono a

calcargli sul capo, aiutandosi con

bastoni, la corona di spine.

La parte sinistra della tela è occupata

da un uomo in armatura che osserva

la scena senza tuttavia parteciparvi

direttamente, quasi fosse uno

spettatore.

Caravaggio lo utilizza per mettere

alla prova bagliori di luce, giochi di

contrasti, lamiere nere e punti di

grigio.

Il Cristo, figura maestosa e dignitosa,

attende che si compia il volere del

Padre, chinando il capo, forse una

delle figure virili più intensamente

delicate di tutta la storia dell’arte.

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Visitando il Museo Egizio a Il Cairo

uno dei gruppi scultorei che restano

più impressi è, senza dubbio, quello

formato dalla coppia di sposi Rahotep

e Nofret.

Il gruppo è formato da due state

distinte scolpite in un’unica soluzione

in blocchi di pietra calcarea.

La loro impostazione è quella di un

altorilievo perché entrambe le figure

sono assise su un trono con un alto

schienale che ha una funzionalità di

supporto dell’immagine.

Pur risalendo al XXVI secolo a.C. il

gruppo colpisce l’immaginazione del

visitatore per la sua fortissima

espressività che sembra staccarsi

dalla capacità artistica dell’artigiano

che le ha realizzate.

Ci dimentichiamo subito delle tozze

caviglie e dei piedi squadrati tanto

siamo affascinati dai loro visi e dalla

forte luce che emano i loro sguardi.

Le due sculture sono diverse!

Il corpo di Rahotep è piuttosto

spigoloso, ben marcato. Nofret

invece, agevolata da un mantello che

la fascia, risulta più morbida per i

contorni arrotondati che sono anche

tipici dell’anatomia femminile.

La diversità è anche cromatica.

Nofret indossa un mantello bianco

che dà maggior luce alla sua pelle. In

contrasto con i tempi odierni le donne

nobili egizie esibivano molto

volentieri la loro carnagione chiara

che dimostrava il loro stato sociale di

poter stare a casa protette dal sole

escludendo un’attività lavorativa

all’aperto. Rahotep ha la carnagione

scura appunto perché i suoi incarichi

ufficiali di supervisore lo portano a

Rahotep e Nofret

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Iniziamo la nostra analisi filologica dalla sposa.

Poiché nel testo è compreso anche un titolo nobiliare che cita la persona del sovrano, appare il

fenomeno della metatesi onorifica, cioè il sostantivo re, scritto con il carice, è anteposto a tutto il

resto ma, leggendo, noi dobbiamo ripristinare l’ordine grammaticale degli elementi:

anche se è scritto

rxt n (ny-)swt nfrt

rechet Conosciuta en dal ni-sut re, nefert Nofret

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visitare le località dove si sviluppano

gli interessi economici della corte.

Si tratta ovviamente di canoni che

nell’arte egizia sono fortemente

espressi in tutte le varie epoche. Alla

nostra attenzione non può sfuggire

che gli alti schienali dei due

troni sono diventati il supporto

epigrafico di alcuni testi dipinti in

geroglifico.

Per la loro posizione si comprende

subito che sono testi didascalici che

identificano per l’eternità la coppia di

sposi defunta.

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Il testo è identico su entrambi i lati dell’alto schienale del trono.

Il senso di lettura è per entrambi i lati da destra a sinistra, dall’alto verso il basso. Ci saremmo aspettati

però che il testo a destra del visitatore fosse voltato verso la donna poiché essa rappresenta anche

l’asse di simmetria della statua.

La vicinanza al re era un grande onore che non sempre dipendeva dalla consanguineità con la casa

reale. I più intimi compagni del re, quelli che erano quasi amici personali del monarca, per quanto lo

si potesse essere nell’antico Egitto, dichiaravano orgogliosamente di essere noti al re. Alcuni

conosciuti dal re ricoprivano anche cariche amministrative o religiose, ma il titolo noto al re prendeva

il posto d’onore su molte altre qualifiche. Nofret faceva parte della corte poiché era la sposa del

principe ereditario, figlio del re Snefru (IV dinastia). La traduzione dell’antroponimo Nofret è la bella

derivando dall’aggettivo sostantivato nfr bello, buono, perfetto con la t del genere femminile.

Il testo che identifica il principe Rahotep è su sei colonne divise in due gruppi che si leggono tutte da

destra a sinistra, dall’alto verso il basso.

wr n(y)t p (i)m(y)-r(A) sTt ur Il Grande nit di pe Pe, imi-ra il soprintendente secet delle miniere.

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L’ubicazione di Pe, insieme a Dep, formava l’antichissima città di Per Uadjet che i greci chiamarono

Buto. Sorgeva sul delta del Nilo ed era un’importante sede di culti religiosi e interessi economici. Il

principe è qualificato come Il Grande di Pe con il significato di essere il principale sacerdote di quei

culti. Su questa colonna è anche qualificato come il responsabile di tutta l’attività estrattifera,

d’interesse economico diretto della corona.

(i)m(y)-r(A) mSa xrp tmA imi-ra Il soprintendente mescia dell’esercito,

cherep il comandante tema del drappello (di arcieri)

In questa grafia è interessante notare la parola mSa esercito scritta in modo arcaico e dal Medio Regno

non più usata. Così come cadrà presto in disuso l’ultimo geroglifico, la faretra contenente due archi.

Queste qualificazioni attestano gli incarichi militari di prestigio del principe ereditario.

sA (ny-)swt n(y) Xt.f ra-Htp sA Il figlio ni-sut del re, chet.ef del corpo suo, ra-hetep Ra-hotep.

Siamo di nuovo in presenza di una metatesi onorifica: il carice (del re) è davanti al codone (figlio).

In questo testo il principe Ra-hotep è dichiarato figlio carnale del re; ecco perché lo definiamo

principe ereditario. L’antroponimo significa Il dio Ra è soddisfatto.

wr mA(w) iwnw waty sH mdH Ams ur Il Grande mau dei Veggenti iunu di Eliopoli,

uaty l’Unico seh del Consiglio,

medeh il Falegname ames dello Scettro Ames.

Il titolo Grande dei Veggenti era la suprema carica clericale della città cultuale di Eliopoli. Il titolo di

Unico del Consiglio qualifica l’importanza politica del principe alla corte del re. L’ultimo titolo è

nuovamente una qualifica sacerdotale essendo Rahotep indicato come l’artefice per la creazione di

uno scettro che faceva parte dei bastoni divini, oggetti di culto anch’essi. Lo Scettro Ames è spesso

associato al simulacro del dio Min.

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Smsw ist waty S p n(y) Hrw scemesu Il Maggiore ist del Palazzo,

uaty l’Unico esch del Distretto di Produzione pe di Pe ni del (santuario) heru di Horus.

Il titolo Maggiore del Palazzo era una prerogativa del funzionario più importante presso il Palazzo

Reale. La qualifica l’Unico del Distretto di Produzione identificava il responsabile amministrativo

delle risorse economiche di una struttura templare importante. In questo caso si trattava del santuario

del dio Horus situato a Pe (Buto) sul Delta.

sA (ny-)swt n(y) Xt.f ra-Htp sA Il figlio ni-sut del re, chet.ef del corpo suo, ra-hetep Ra-hotep.

Questa colonna è in tutto e per tutto identica alla A3.

Una delle cose sorprendenti di questo gruppo

statuario è la vivacità degli occhi. Sembrano

veri. Furono la causa del terrore che

impressionò gli scavatori arabi che, quando

trovarono le sculture, fuggirono a gambe levate

convinti di aver disseppellito due persone vive

e non due statue. La composizione degli occhi

è formata da una lente di quarzo cristallino

levigato con una superficie anteriore convessa

ed una superficie emisferica concava. Questa

lente aderisce su una superficie piatta che aveva funzione di iride normalmente ricoperta di resina. Il

bianco dell’occhio (sclera) era in calcare bianco oppure in quarzo traslucido o marmorizzato; in alcuni

casi conteneva delle impurezze che simulavano i capillari dell’occhio umano.

Rahotep, probabilmente era un figlio di Snefru, ed aveva un fratello maggiore, Nefermaat, e uno

minore, Ranefer. Nessuno di loro successe al padre perché morirono tutti in gioventù. A Snefru

successe un fratellastro di Rahotep che divenne in seguito decisamente più famoso del nostro

protagonista odierno. Il suo nome? Medjedu Khnum-Khufu. Meglio noto con il nome di Cheope.

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Dettaglio dell’occhio sinistro di Nofret.

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Oxford Library Per essere vicini a chi ha passioni comuni alle nostre

Pillole di Storia dell’Arte a cura di Silvana Cincotti

Pillole di Egittologia e Filologia Egizia a cura di Livio Secco

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A SINGOLAR TENZONE Siamo in Italia, a Firenze, in un momento imprecisato tra l’anno 1410 e il 1415. Due uomini, uno si chiama Donato di Niccolò di Betto Bardi, meglio noto come Donatello e l’altro, Filippo Brunelleschi, stanno passeggiando e chiacchierando del mestiere dell’arte. QUALCUNO VUOLE UN POMANDER? Dal Medioevo fino al XVIII secolo ebbe grande diffusione, nell’alta società europea, uno strano contenitore per profumo... ANCORA UN PASSO, BELLORI E CARAVAGGIO Lo studio della storia dell’arte non può prescindere dall’analisi di alcuni fondamentali autori che rappresentano la principale porta d’accesso alla conoscenza dell’arte italiana... RAHOTEP E NOFRET Visitando il Museo Egizio a Il Cairo uno dei gruppi scultorei che restano più impressi è, senza dubbio, quello formato dalla coppia di sposi Rahotep e Nofret.