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121 Metapoetica della lussuria: le gru di Purgatorio XXVI CARLOS LÓPEZ CORTEZO Universidad Complutense de Madrid Asociación Complutense de Dantología Dopo l’illuminante saggio di G. Gorni sulle gru di Dante (1994:11- 34) e, specialmente, dopo la relazione da lui rilevata tra lussuria e letteratura 1 , non rimane se non percorrere i sentieri da lui tracciati. Infatti, stabilita questa relazione e la presenza insistente delle gru in canti nettamente letterari, penso sia coerente domandarsi se la lussuria, oltre ad essere un peccato imputato a determinati autori, non possieda un significato metapoetico o, in altre parole, se a prescindere dalle persone, Dante non stia parlando di poetiche, non moralmente, ma poeticamente lussuriose, non soltanto in ciò che riguarda i loro contenuti, ma anche e soprattutto gli aspetti formali. Ha ragione Gorni quando parla di lussuria e letteratura, ma le gru e i poeti figurano pure a proposito della gola, e non solo nel Purgatorio, se non mi sono sbagliato nel riprendere la ormai vecchia tesi che attribuisce a Ciacco l’identità del poeta Ciacco dell’Anguillara (López Cortezo i.c.s.), identità che confermerebbe che Dante ci sta parlando, oltre che di etica, di un ‘vizio’ poetico, probabilmente espresso nel verso 9 di If. VI: “regola e qualità mai non l’è nova”, agevolmente applicabile, oltre che ai golosi, anche ai poeti grossi, non ancora legati dal nodo della lingua. D’altronde, l’analogia tra etica e poetica non dovrebbe sbalordire nessuno, considerando che l’etica aristotelica è basata in gran misura sulle relazioni tra parte razionale e parte sensitiva dell’anima, distinzione che lo stesso Dante stabilisce riguardo alla lingua: Poiché dunque l’uomo non è guidato dall’istinto naturale ma dalla ragione, e questa a sua volta assume forme diverse nei singoli

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Metapoetica della lussuria: le gru di Purgatorio XXVI

CARLOS LÓPEZ CORTEZO Universidad Complutense de Madrid

Asociación Complutense de Dantología

Dopo l’illuminante saggio di G. Gorni sulle gru di Dante (1994:11-34) e, specialmente, dopo la relazione da lui rilevata tra lussuria e letteratura1, non rimane se non percorrere i sentieri da lui tracciati. Infatti, stabilita questa relazione e la presenza insistente delle gru in canti nettamente letterari, penso sia coerente domandarsi se la lussuria, oltre ad essere un peccato imputato a determinati autori, non possieda un significato metapoetico o, in altre parole, se a prescindere dalle persone, Dante non stia parlando di poetiche, non moralmente, ma poeticamente lussuriose, non soltanto in ciò che riguarda i loro contenuti, ma anche e soprattutto gli aspetti formali. Ha ragione Gorni quando parla di lussuria e letteratura, ma le gru e i poeti figurano pure a proposito della gola, e non solo nel Purgatorio, se non mi sono sbagliato nel riprendere la ormai vecchia tesi che attribuisce a Ciacco l’identità del poeta Ciacco dell’Anguillara (López Cortezo i.c.s.), identità che confermerebbe che Dante ci sta parlando, oltre che di etica, di un ‘vizio’ poetico, probabilmente espresso nel verso 9 di If. VI: “regola e qualità mai non l’è nova”, agevolmente applicabile, oltre che ai golosi, anche ai poeti grossi, non ancora legati dal nodo della lingua. D’altronde, l’analogia tra etica e poetica non dovrebbe sbalordire nessuno, considerando che l’etica aristotelica è basata in gran misura sulle relazioni tra parte razionale e parte sensitiva dell’anima, distinzione che lo stesso Dante stabilisce riguardo alla lingua:

Poiché dunque l’uomo non è guidato dall’istinto naturale ma dalla ragione, e questa a sua volta assume forme diverse nei singoli

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quanto a capacità sia di discernimento che di giudizio che di scelta, tanto che sembra quasi che ogni uomo goda del privilegio di costituire una specie a sé, dobbiamo ritenere che nessuno comprenda un altro attraverso i propri atti e passioni, come fanno le bestie. E neppure si dà che l’uno si immedesimi nell’altro per mezzo di un rispecchiamento spirituale, come avviene negli angeli, perché lo spirito umano è gravato dallo spessore e dall’opacità di un corpo mortale.

È stato perciò necessario che il genere umano disponesse, per la mutua comunicazione dei pensieri, di un qualche segno insieme razionale e sensibile: perché, dato il suo compito di ricevere i propri contenuti dalla ragione e a questa recarli, doveva essere razionale; e doveva essere sensibile data l’impossibilità che si trasmetta alcunché da ragione a ragione se non attraverso una mediazione dei sensi. Per cui se fosse soltanto razionale non avrebbe libero passaggio; se fosse soltanto sensibile non potrebbe ricevere nulla dalla ragione né introdurre nulla in essa.

Ecco, è questo segno quel nobile fondamento di cui parliamo: fenomeno sensibile in quanto è suono; fenomeno razionale in quanto ciò che significa, lo significa evidentemente a nostro arbitrio (VE. I iii 1-3)2.

Se l’analogia stabilita tra sensibilità umana e significante linguistico giustifica ragionevolmente il criterio ‘sensuale’ di selezione del lessico usato dal poeta nella prima parte del trattato, nella seconda si servirà anche della stessa analogia per riferirsi alla poesia, basando la teoria degli argomenti, appartenenti al piano del significato, sulle tre potenze dell’anima umana (vegetativa, animale e razionale):

Ma ora mettiamoci in cerca di quali siano questi argomenti. Per la cui chiara determinazione bisogna sapere che l’uomo, coerentemente al fatto che è fornito di un’anima a triplice dimensione, vale a dire vegetativa, animale e razionale, percorre una triplice via. Poiché, in quanto è essere vegetativo, persegue l’utile, e in questo si accomuna alle piante; in quanto è animale, il piacere, e in ciò sta con le bestie; in quanto essere razionale, cerca l’onesto, e in questo è solo, o partecipa della natura degli angeli. È

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chiaramente in vista di queste tre finalità che noi facciamo tutto ciò che facciamo; e poiché nell’àmbito di ognuna di esse ci sono cose di maggiore e di massima portata, in quanto tali, quelle di massima portata vanno trattate nei modi più alti, e di conseguenza nel volgare più alto.

Ma occorre discutere quali siano queste cose di massima portata. E per prima cosa nell’ámbito dell’utile: qui, se consideriamo attentamente lo scopo di tutti quelli che ricercano l’utilità, troveremo che non si tratta di null’altro che della salvezza. In secondo luogo per ciò che costituisce il piacere: e qui affermiamo che fornisce il grado massimo del piacere in quanto è l’oggetto più prezioso dei nostri appettiti; che è l’amore fisico. In terzo luogo, per l’onesto: e qui nessuno dubita che si tratti della virtù. Perciò queste tre, vale a dire salvezza, amore e virtù, si rivelano quelle realtà auguste che si devono trattare nei modi più alti, o cioè tali si rivelano gli argomenti che hanno più stretta relazione con esse, come la prodezza nelle armi, l’amore ardente e la retta volontà. Solo di questi argomenti, se non sbagliamo, risulta che hanno poetato in volgare i personaggi illustri, cioè Bertrando del Bornio delle armi, Arnaldo Daniello dell’amore, Girardo del Bornello della rettitudine; e così Cino Pistoiese dell’amore, l’amico suo della rettitudine […] Di armi invece non mi risulta che nessun italiano, finora, abbia poetato. (VE. II ii 7-8)3.

Un terzo passo importante riguarda gli aspetti melodici e metrici, assimilati anche alla sensibilità umana (anima sensitiva e corpo):

Quando sappiamo che l’uomo è un animale razionale e che un essere animato consiste in un’anima sensitiva più un corpo, ma ignoriamo cosa siano in realtà quest’anima o questo corpo, non possiamo avere una conoscenza compiuta dell’uomo stesso: perché una perfetta conoscenza di qualunque oggetto deve estendersi fino agli ultimi elementi costitutivi di esso, come garantisce il Maestro dei Sapienti all’inizio della Fisica. Pertanto, per acquisire sulla canzone quella conoscenza cui aspiriamo, dovremo ora esaminare in sintesi gli elementi che definiscono ciò che a sua volta la definisce, e indagare perciò prima sulla melodia, poi sulla disposizione e infine sui versi e le sillabe (VE. II x 1)4.

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A questi passi va aggiunto ciò che dice nel Convivio riguardo all’armonia corporale, applicabile anche agli aspetti formali della poesia: “Intra li effetti de la divina sapienza l’uomo è mirabilissimo, considerato come in una forma la divina virtude tre nature congiunse, e come sottilmente armoniato conviene esser lo corpo suo, a cotal forma essendo organizzato per tutte quasi sue vertudi” (III viii 1).

Considerate queste analogie, e il fatto che nel comportamento etico dell’uomo la parte razionale dell’anima deve sempre guidare e moderare quella irrazionale (sensitiva) e non alla rovescia -caso della lussuria, che sommette la ragion al talento (If. V 39)-, non credo irragionevole ipotizzare che anche nella poesia accada lo stesso; o in altre parole, che Dante, su questa base analogica, trasferisca vizi e virtù dall’ambito etico a quello po-etico, tenendo sempre in conto che l’immaginazione, “da la quale [l’intelletto] trae quello ch’el vede,…è virtù organica” (Cv. III iv 9).

Sarebbe coerente, perciò, distinguere -riprendendo il discorso della lussuria e delle gru- tra poetiche lussuriose ‘ermafrodite’ -caso di Guido Guinizzelli- e poetiche lussuriose ‘sodomite’, anche se -come si sa- Dante, nel Purgatorio, non cita nessun personaggio che stia a purgare quest’ultimo ‘vizio’, a differenza di quel che fa nel canto XV dell’Inferno. Se in Brunetto coincidono la sua condizione d’omosessuale e di letterato, nel Purgatorio invece la situazione cambia: qui si alluderebbe a poeti non omosessuali, ma che peccarono del ‘vizio’ letterario che il poeta attribuisce, per analogia, alla sodomia; e qui va subito avvertito che a Sodoma, oltre ai suoi viziosi cittadini, ce n’era uno che era giusto, Lot, ‘sodomita’ anche lui. In questo senso, si noti che se le due inclinazioni sessuali sono rappresentate da due schiere di gru che volano in direzioni opposte,

Poi, come grue ch’a le montagne Rife volasser parte, e parte inver’ l’arene, queste del gel, quelle del sole schife,

l’una gente sen va, l’altra sen vene; (Pg. XXVI 43-46)

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non meno certo è che nell’episodio di quel che si parla fondamentalmente è di due poetiche inconciliabili, capeggiate da due ‘guide’, Guido Guinizzelli e Guittone d’Arezzo, un argomento proveniente già dai canti anteriori. Il merito di avere stabilito una chiara relazione tra gru ‘ermafrodite’ e poeti appartiene, come si sa, a Guglielmo Gorni (“Gridano, le gru, e hanno una guida, che nel nostro caso, passando al figurato, non è altri che Guido Guinizzelli, come anche il suo nome fa presagire”, 1994: 26), ma io aggiungerei che anche quelle sodomite hanno una loro guida, considerato che Guittone, o Guidone, è un accrescitivo di Guido, che d’altronde si addice agevolmente alla personalità del poeta (vid. Gorni 2001: 34-35). In questo caso, Guido e Arnault Daniel -se mi è concesso l’assurdo- viaggerebbero tra gli uccelli ‘ermafroditi’, mentre l’anonimato della schiera delle gru ‘sodomite’ sarebbe compensato sul piano letterario con i nomi di Guittone e Giraut de Bornelh (quel di Limosì), due autori che, anche se in absentia, sono contrapposti, rispettivamente, a Guido (e i suoi seguaci), e ad Arnault. Questa contrapposizione -oltre ad altre considerazioni che farò più avanti- implica anche il fatto non casuale che Guido e Arnault erano poeti ‘d’amore’, mentre Guittone (quello della sua seconda epoca) e Giraut, poeti ‘della rettitudine’ (cfr. VE. II, II), come fa ‘presagire’ -per usare lo stesso termine di Gorni- anche una probabile interpretatio nominum dei ‘cognomi’ dei due capiscuola italiani: Guinizzelli (gr. gines, ‘donna’ e zelos, ‘amore ardente’), e Aretino (gr. aretes, ‘virtù’). In più, questa distinzione d’argomenti sarebbe pure rappresentata dagli opposti luoghi ove si dirigono le due schiere di gru, dato che in latino si usava la stessa parola, locus, per significare ‘luogo’ e ‘argomento’, e che le gru, quando volano al nord, lo fanno cercando l’amore, mentre quando lo fanno al sud, no. Se le prime sono suscettibili di essere riferite ai lussuriosi ‘ermafroditi’, per la motivazione del loro viaggio (l’amore animale), le seconde invece vanno riferite ai sodomiti, in quanto il loro obiettivo non è certamente l’amore: “l’amore non può darsi se non tra persone di diverso sesso. Infatti, l’amore non può darsi tra due uomini o tra due donne, perché due persone dello stesso sesso non sono in modo alcuno atte a compartire le sorti dell’Amore ne a compiere i suoi atti

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naturali. Poiché quello che la natura non permette, l’Amore si vergogna di accettarlo” (A. Cappellano 1985: 59)5, come d’altronde fanno i sodomiti del Purgatorio (“e aiutan l’arsura vergognando”, v.80); a questo va aggiunto che, come si sa, le gru quando si dirigono al sud lo fanno soltanto per passare l’inverno in un clima temperato in cui potere sopravvivere, alimentandosi e convivendo in buona pace, come Dante aveva letto in Stazio:

Vix ibi, sedatis requierunt pectora curis: ceu patrio super alta grues Aquilone fugatae cum videre Pharon; tunc aethera latius implent, tunc hilari clangore sonant; iuvat orbe sereno contempsisse nives et frigoria solvere Nilo. (Tebaida, XII, 514-518)6

Allo stesso modo che aveva appreso dal poeta latino che questi uccelli viaggiano al nord in primavera per riprodursi in un clima umido e fresco dove poter nidificare:

Qualia trans pontum Phariis defensa serenis rauca Paraetonio decedunt agmina Nilo, cum fera ponit hiems: illae clangore fugaci, umbra fretis aruisque, volant, sonat auius aether. Iam Borean imbresque pati, iam nare solutis amnibus et nudo iuvat aestivare sub Haemo. (Tebaida, V, 11-16)7

Ma questa sarebbe la loro condotta ‘naturale’, molto differente da quella delle gru della similitudine del Purgatorio, dove quelle che vanno al nord -schife del sole- lo fanno al gel, e quelle che si dirigono al sud -schife del gel- alle arene, non solo contro il loro istinto naturale, ma anche contro quel che succede nella realtà, dato che è impossibile che coincidano l’inverno del nord con l’estate del sud. Le gru, infatti, in inverno, fuggono dal gelo, e in state, dall’eccessivo sole, come poeticamente descrive Stazio nei passi citati, e come giustamente osserva Gorni: “Queste gru schife del caldo al tempo dell’inverno boreale, o eventualmente del freddo in tempi torridi, volano verso la loro rovina, infrangendo per un folle desiderio le leggi di natura” (1994: 24)8.

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Infatti, le gru, tanto d’inverno quanto d’estate, cercano un clima ‘temperato’, vale a dire, un ‘giusto mezzo’ (virtus) tra freddo e calore, e perciò fuggono dal nord in autunno, quando giunge l’inverno, e dal sud in primavera, per evitare il calore estivo. In questo senso, a differenza di quelle di Stazio, le gru della similitudine dantesca sono ‘intemperanti’ (vitium), come analogamente lo sono pure, anche se da un punto di vista morale e non climatico, le due opposte classi di lussuria rappresentate nel canto, quella ‘ermafrodita’ e quella ‘sodomita’ (S. Theol. II-II Q. 142 a. 4)9, considerato che nessuna delle due persegue la salus (salvezza), vale a dire l’utile: la sodomia perché non è fertile; e la ‘fornicazione’, perché, in parole di Tommaso, “impedisce il bene della prole” (S. Theol. II-II Q.154). Di fatto, le gru che vanno al gel rendono impossibile la sopravvivenza dei loro potenziali figli, e quelle che vanno alle arene, come ho già detto, non hanno l’intenzione di procreare, nel caso impossibile che tanto le une come le altre riuscissero a sopravvivere. Le gru staziane, proprio perché volano unite verso un habitat ‘temperato’, nella stagione conveniente e ‘utile’ al loro scopo, sono -secondo espressione ciceroniana- congruenter naturae, mentre quelle di Dante, invece, sono incongruenter naturae, perché, rompendo l’unità della schiera, volano in direzioni opposte, avviandosi verso due climi estremi, non ‘virtuosi’ (non temperati), e perciò inutili. Si osservi che nel termine adoperato, congruenza (lat. congruentia, di etimo incerto) figura la parola gru, preceduta da con (cum), con un chiaro valore di ‘unione’ o ‘compagnia’ (lat. congruere, ‘riunirsi’), potendosi agevolmente interpretare come ‘riunione o schiera di gru’. In questo caso, l’immagine delle gru rinvierebbe alla parola congruentia o congruenza e alle sue possibilità significative, senza che vada dimenticato che è termine adoperato da Dante nel De Vulgari Eloquentia, dove distingue tra ‘costrutti’ congruenti e incongruenti:

Bisogna in effetti sapere che chiamiamo costrutto un insieme organico di parole unite secondo regole, come “Aristotele filosofò ai tempi di Alessandro”. Qui abbiamo infatti cinque parole connesse regolarmente, che formano un costrutto unitario. Ma al proposito bisogna per prima cosa tener presente che fra i costrutti

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ce ne sono di congruenti e di incongruenti. E poiché, se ricordiamo bene il principio della nostra distinzione, sono solo le cose supreme di cui andiamo in cerca, nella nostra caccia non può aver posto alcuno il costrutto incongruente, dato che nella scala delle qualità non gli è spettato neppure il grado più basso. Vergogna dunque, vergogna agli ignoranti che hanno tanta faccia tosta da buttarsi a ogni piè sospinto a far canzoni: gente di cui ridere non altrimenti che del cieco che si sforza di distinguere i colori. Quello di cui andiamo in caccia, è chiaro, è il costrutto congruente.

Ma prima di raggiungere ciò che cerchiamo, vale a dire il costrutto tutto pieno di urbanità, c’è una nuova distinzione non meno difficile. Perché i gradi di costrutto sono in realtà molti […] La smettano dunque i paladini dell’ignoranza di esaltare Guittone Aretino e altri simili, tutta gente che nel vocabolario e nel periodare non ha mai perso l’abitudine di popolareggiare. (II vi 2-8)10.

Il passo interessa il nostro caso in quanto vengono opposti a Guittone poeti quali Guido Guinizzelli, lo stesso Dante, Arnault Daniel e Giraut, come esempi di ‘urbanità’ linguistica, a differenza del primo, che viene accusato di adoperare un linguaggio popolare e plebeo. Questa valutazione, però, sembra contraddirsi con il fatto che le due schiere di gru, entrambe ‘intemperanti’ e ‘incongruenti’, siano riferite a Guido e a Guittone, perché in quel caso sarebbero tutti e due i poeti ad essere accusati di ‘incongruenza’, e non solo il secondo, come accade nel De Vulgari. Credo che sia chiarificatrice al riguardo l’annotazione di Mengaldo al passo:

“incongrua: cioè con elementi ‘contra proprietatem’, che ‘ad barbarismos vel soloecismos pertinent’ (Ugo di San Vittore, presso Thurot, op. cit., p. 83); ma non si tratterà solo di scorrettezza grammaticale, bensì anche logica, o se si vuole di frasi ‘non grammaticali’ nel senso della linguistica recente. Si veda questo esempio di Michele di Marbais (Thurot, op. cit., pp. 227-8): ‘hec recipitur a pluribus congrua Sor et Plato currunt, hec autem incongrua Sor vel Plato currunt, et hec etiam recipitur pro congrua

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Sor et Plato currit, hec autem incongrua Sor et Plato currit. Similiter hec est simpliciter congrua homo et asinus currunt, hec autem simpliciter incongrua homo et albus currunt, eo quod iste coniunctiones volunt coniungere inter diversa constructibilia, quorum unum non se habet per informationem respectu alterius’.” (1979: 178).

Insieme a quest’esempio d’incongruenza ‘logica’, e non grammaticale, può considerarsi anche quest’altro di Jacopone: a l’occhio non è congruo de far digestione (Grande Diz. della Lingua Italiana, vox “congruo”). Mi sembra evidente che nel De Vulgari si alluda soltanto all’incongruenza grammaticale, sintattica (solecismo), e non a quella ‘logica’, mentre nel Purgatorio, tramite il comportamento ‘non naturale’ delle due schiere di gru, si faccia riferimento, invece, ai due tipi d’incongruenza, stabilendo un’analogia tra questi e le due classi di peccato, quello ‘ermafrodito’ e quello omosessuale. Si tenga presente al riguardo che soloecismus significava anche ‘peccato’, e che si era soliti parlare dei vitia et virtutes orationis11. In questo caso, dato che Guido Guinizzelli non poteva essere accusato d’incongruenza grammaticale, credo che sia molto probabile che lo sia d’incongruenza ‘logica’, o incongruenza tra livello formale e livello del contenuto, più suscettibile di essere riferita al trobar clus, mentre quella ‘grammaticale’ sarebbe applicata -come nel De Vulgari- a Guittone, al quale non mancava quella ‘logica’.

Ma tornando all’‘intemperanza’ delle gru dantesche, c’è da osservare che questo ‘eccesso’ riguarda tanto al piacere di mangiare e bere quanto a quello del sesso (S. Theol. II-II Q.141 a.4 e 5), vale a dire, “i diletti più importanti, i quali sono relazionati con la conservazione [‘salus’] umana, sia della specie o dell’individuo” (ibid. a. 5), il che giustifica la presenza di gru nell’episodio dei lussuriosi, ma anche in quello dei golosi. Che le gru intemperanti che vanno al nord rappresentino certi poeti d’amore, cioè, quelli che cercano soltanto il diletto, mi sembra ragionevole, come già detto. Per la più difficile identificazione dei poeti della rettitudine, vale a dire, di quelli che cercano la virtù in un modo non conveniente, nelle gru che vanno al sud o gru ‘sodomite’, va considerata, tra l’altro, la

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relazione etimologica tra vir e virtus, segnalata da Isidoro (vid. X,2,7: Vir, a virtute; ma anche viceversa in XI,2,17: Vir…unde et virtus nomen accepit), che servirebbe di base all’analogia tra l’oggetto desiderato dai sodomiti (vir) e quello dei poeti della rettitudine (virtus). Questa ‘vicinanza’ tra le due parole è analoga a quella già segnalata tra i sodomiti viziosi e l’unico giusto, Lot, sodomita in quanto cittadino di Sodoma, ma non omosessuale; un fatto che spiegherebbe che Guittone, poeta della rettitudine (vale a dire, sodomita), ma non omosessuale, abbia una presenza così pregnante nell’episodio. In più, va ricordato pure che per Tommaso d’Aquino, nella rettitudine poteva darsi una certa lussuria, come afferma in questo passo della Somma Teologica, che mi sembra particolarmente applicabile a Guittone: “può darsi anche una specie di fornicazione spirituale riguardo alla bellezza spirituale quando ci si inorgoglisce dell’onestà, secondo quello che dice Ez. 28,17: ‘Si insuperbì il cuore tuo per la tua bellezza, corrompendosi la tua sapienza’” (II-II Q. 145 a. 2).

Si tratta, quindi, di due classi di lussuria o intemperanza: una, sensibile, riferita soltanto al corpo e al piacere; ed un’altra, spirituale, riferita soltanto all’anima. Ma entrambe, ovviamente, non oneste, in quanto che “onestà è virtù per la quale tutte le cose che bisognano alla vita dell’uomo si recano ad uso temperato” (Giamboni). L’impossibile sopravvivenza delle due schiere di gru, l’inutilità del loro operato, conseguenza della loro scelta estremista, contraddice, oltre che le leggi di natura, anche il concetto aristotelico di virtù, centrato sulla medietas, e rimanda -da un punto di vista morale e non metapoetico- alle due sette filosofiche criticate da Dante nel Convivio, opponendole a quell’aristotelica. Mi riferisco naturalmente allo stoicismo e all’epicureismo, due visioni parziali dell’uomo. La prima, per il suo rigido e inutile concetto d’onestà, limitato all’anima; la seconda, per la sua ricerca del solo diletto sensibile, per se stesso, privandolo della sua utilità:

Furono dunque filosofi molto antichi, de li quali primo e prencipe fu Zenone, che videro o credettero questo fine de la vita umana essere solamente la rigida onestade; cioè rigidamente, sanza

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respetto alcuno, la verità e la giustizia seguire, di nulla mostrare dolore, di nulla mostrare allegrezza, di nulla passione avere sentore. E deffiniro così questo onesto: “quello che, sanza utilitade e sanza frutto, per sè di ragione è da laudare” […] Altri filosofi furono, che videro e credettero altro che costoro; e di questi fu primo e prencipe uno filosofo che fu chiamato Epicuro; chè, veggendo che ciascuno animale, tosto che nato è, quasi da natura dirizzato nel debito fine, che fugge dolore e domanda allegrezza, quelli disse questo nostro fine essere voluptade (non dico ‘voluntade’, ma scrivola per P), cioè diletto sanza dolore (IV vi 9-12)

La fonte del passo è sicuramente il De finibus, nel quale Cicerone svolge una puntigliosa critica filosofica delle due sette, non escludendo nemmeno quella linguistica. Infatti, gli epicurei sono accusati di adoperare un “linguaggio falso” (II,23-24), di pensare in un modo e di esprimersi in un altro (II,7,21); mentre gli stoici, di servirsi di uno stile “eccessivamente arido” e ‘meschino’ (IV,3).

Ma le gru di Dante rinviano, oltre che a questo ambito filosofico e alle due classi di lussuria, l’ermafrodita e la sodomita, anche a due poetiche, una amorosa e un‘altra della rettitudine, entrambe ‘intemperanti’, vale a dire, che non s’inquadrano nel giusto mezzo rappresentato dalla temperanza: né troppo freddo né troppo caldo, né gelo né l’aridità delle arene, ma acqua e vegetazione in un clima temperato o medio, risultato di un’interazione di sole e acqua, due elementi che da soli diventano inutili, ma combinati sono imprescindibili per la vita, tanto vegetativa quanto animale: senza sole, nell’oscurità, infatti, il freddo ghiaccia l’acqua; e senza acqua mancherebbe il vapore che tempera il calore dei raggi solari che così diventerebbe eccessivo e inaridirebbe ogni cosa (arene) (vid. Pg. XXX 26 e Pd. V 135). La coppia sole-acqua, rinvia allegoricamente a quella, non meno necessaria, ‘ragione-immaginazione’, avendo l’acqua -elemento sensitivo-, non solo la proprietà di temperare i raggi solari -elemento razionale-, ma anche di riflettere le immagini, il che la rende propizia -come lo specchio- a rappresentare l’immaginazione; ma senza

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il calore e la luce dei raggi del sole, cioè nel freddo e nell’oscurità, non potrebbe riflettere niente, allo stesso modo che senza la ragione che illumini l’immaginazione, le immagini sarebbero inintelligibili, oscure, irrazionali. All’opposto, un’eccessiva razionalità (sole), senza l’immaginazione (acqua), produrrebbe aridità (arene). Credo ragionevole supporre che il tutto rinvii al trobar clus (oscurità) e al trobar leu (chiarezza), anche per i poeti che figurano o che sono citati nell’episodio. Infatti, Arnault Daniel, un poeta d’amore, era il massimo esponente del trobar clus, mentre Giraut, un poeta della rettitudine, era un difensore del trobar leu, essendo conosciuta la sua polemica al riguardo con Rambaldo d’Aurenga. E analoghe disparità si riscontrano, non solo nelle poetiche di Frate Guittone e Guido Guinizzelli, ma anche in quella di Frate Guittone riguardo a quella della sua tappa cortese, come giustamente osserva Picone a proposito della canzone XLIX dell’Aretino: “L’estensione eccessiva della canzone si giustifica con la complessità dell’argomento trattato. ‘Dir poco’ di una ‘gran cosa’ è prassi sconsigliabile, poiché va a detrimento della completezza e della chiarezza (vv. 157-60; si noti l’insistita repetitio di ‘dire’). Mi pare evidente che ‘Frate Guittone’ attacchi qui il trobar clus del ‘Guittone’ cortese: l’oscurità motivata solo da ragioni formali, legate cioè all’ideale retorico della brevitas” (1994: 117-118). Significativo a questo proposito anche il sonetto di Bonagiunta Da Lucca a Guido, dove figurano le stesse immagini (l’alta spera, / la quale avansa e passa di chiarore in opposizione a cotant’ è iscura vostra parlatura). Della risposta di Guido Guinizzelli -e riguardo all’incontro del personaggio Dante con Bonagiunta nel Purgatorio- sono da considerarsi i primi versi (Omo ch’è saggio non corre leggero / ma a passo grada sì com’ vol misura…) e anche gli ultimi (Volan ausel’ per air di straine guise / ed han diversi loro operamenti, / né tutti d’un volar né d’un ardire. / Dëo natura e ’l mondo in grado mise, / e fe’ dispari senni e intendimenti: / perzò ciò ch’omo pensa non dé dire), perché non credo casuale che Dante, nell’episodio purgatoriale, faccia fare una “corsa leggera” ai golosi Forese e Bonagiunta, con implicito rimando a Omo ch’ è saggio non corre leggero:

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così tutta la gente che lì era volgendo ‘l viso, raffrettò suo passo, e per magrezza e per voler leggera (Pg. XXIV, 67-69).

Leggerezza che probabilmente spieghi anche l’umiliante corsa di Brunetto Latini alla fine del canto XV dell’Inferno:

Poi si rivolse, e parve di coloro che corrono a Verona il drappo verde per la campagna; e parve di costoro

quelli che vince, non colui che perde. (121-124)

Riguardo alle varietà di volatili e ai suoi diversi comportamenti e modi di volare della risposta di Guido, di evidente contenuto metapoetico (non si dimentichi che nel De Vulgari i poeti sono chiamati appunto avi-entes), credo che confermi il significato letterario delle gru di Dante, la cui direzione di volo (nord o sud) indica la tematica amorosa o morale (locus), mentre la stagione scelta per farlo la sua utilità o meno, dipendente dalla ‘mixtio’ d’immaginazione e ragione (acqua e sole). Tanto nel caso della poesia amorosa quanto in quello della morale, pertanto, va cercata l’utilità, vale a dire, la ‘salute’, la salvezza, in opposizione a ‘morte’. Se le gru di Dante si dirigono verso la morte, come osserva Gorni, è perché nessuna delle due schiere cerca l’utile, la salus, che soltanto può trovarsi nella ‘temperanza’, in un equilibrio tra sole (significato) e acqua (significante): le une per un eccesso d’oscurità (nascondimento della verità), e le altre, di chiarezza. A differenza di quel che aveva esposto nel De vulgari, separando l’utile dal diletto e dalla virtù, qui i magnalia sembrano implicarsi a vicenda, e l’utile, cioè la salus, acquisisce un ruolo di primo ordine, una funzione basilare, come d’altronde basilare è la potenza vegetativa dell’anima, senza la quale né la sensitiva né la razionale possono sussistere. L’utile, cioè, la salus dell’individuo e della specie, soltanto può darsi nella temperanza, nella necessaria mixtio: amore virtuoso e virtù amorosa (filantropia); o, in altre parole, diletto razionale (non soltanto sensitivo) e virtù dilettosa

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(non insensibile). Al filo-antropo (amante dell’uomo) corrisponde nel piano poetico il filan-tropo, cioè, l’amante dello stile. Queste conclusioni si possono trarre dall’implicito comportamento naturale delle gru, dirette sempre, tanto in primavera quanto in autunno, ad un luogo temperato, rappresentato allegoricamente nella Commedia da quello dove, incamminati verso la salus eterna, dovranno necessariamente confluire i due gruppi di lussuriosi purganti, una volta compiuta la loro purificazione, vale a dire, il Paradiso Terrestre, vero locus amoenus, temperato (Vago già di cercar dentro e dintorno / la divina foresta spessa e viva, / ch’a li occhi temperava il novo giorno [Pg. XXVIII 1-3]), d’acque trasparenti (Tutte l’acque che son di qua più monde, / parrieno avere in sé mistura alcuna / verso di quella, che nulla nasconde [ibid. 28-32]) e abitato da una donna, Matelda, nella quale si conciliano amore e virtù, e il cui dilettoso canto (dolce suono) arriva fino a Dante co’ suoi intendimenti (vv. 59-60).

Ma delle gru dantesche, oltre la direzione di volo, va valutata anche la loro provenienza, implicita nella similitudine nella parola schife, che indica che una parte è fuggita dal locus estremo al quale vola l’altra. Il dato è importante in quanto significa ‘pentimento’ di un eccesso (vizio) per cadere in quello opposto (in vitium ducit culpae fugat si caret arte). Anche in questo caso gru e poeti coinciderebbero, se si considerano le due tappe di Guittone, ma anche quelle del Guido ‘figlio’ di Frate Guittone e il suo posteriore allontanamento.

Non per nulla, nel canto XXVI figurano espliciti rinvii a Guittone, come il vergognarsi dei sodomiti: e aiutan l’arsura vergognando (v. 81), già prima citato. “Vergogna”, infatti, come segnala Picone, “indica questo cambiamento di prospettiva e prova sdegno per il proprio passato peccaminoso” (1994: 113): “Vergogna ho, lasso, ed ho me stesso ad ira; / e doveria via più, reconoscendo / con ‘male usai la flor del tempo mio!”; “Vergognar troppo e doler, lasso, deggio, / poi fui dal mio principio a mezza etade / in loco laido, desorrato e brutto, / ove m’involsi tutto”. Ma specialmente significativo al riguardo mi sembra il fatto che le gru dantesche volino schife del gel, le une, e schife del sol, le

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altre (queste del gel, quelle del sol schife), che considero un sicuro rinvio a un’espressione tipica di Frate Guittone: “…e perché fuste ispecchio e miratore, ove seprovedesse e agenzasse ciascuna valente e piacente donna e prode omo, schifando vizio e seguendo vertù…” (Lettera V); o “fugga vostro core vizio, e apprenda vertute” (Lettera XX), passi che, a mio parere, costituiscono una conferma del significato che ho attribuito ai due opposti loci.

Inevitabile, a questo punto, riferirmi, anche se succintamente, agli ‘slogan’ gridati dai due gruppi di lussuriosi: quello degli ermafroditi, “Ne la vacca entra Pasife, / perché ‘l torello a sua lussuria corra” (vv. 41-42); e quello dei sodomiti, “Soddoma e Gomorra” (v. 40). Siccome il loro significato morale è ovvio, mi limiterò a quello metapoetico, mettendo in risalto, però, soltanto uno degli elementi che hanno in comune i due miti implicati, l’uno pagano e l’altro biblico. Mi riferisco al fatto che in entrambi figuri una ‘immagine’: la vacca di Pasifae e la statua di sale nella quale è trasformata la moglie di Lot; due elementi, l’uno esplicito e l’altro implicito, di alto valore metapoetico, considerata la massima oraziana: ut pictura, poesis. Come ho avuto occasione di dire in altre sedi, quando Dante allude, anche se parzialmente, ad un mito, implica la sua totalità, conferendogli un’esistenza testuale che non va trascurata. Il rimando delle due figure (immagini) alla poesia, mi sembra sicuro. L’una, animale, e perciò irrazionale, frutto dell’ingegno di Dedalo (gr. daidalos, ‘opera d’arte, lavorato abilmente, artistico, statua’), costruita per dilettare sensibilmente, cioè bella e dolce (“perché ‘l torello a sua lussuria corra”), ma ingannevole, considerato che nasconde il suo contenuto; l’altra, invece, umana, razionale, ma in quanto statua, ‘dura’, insensibile e amara (di sale), non dilettevole, guardando sempre al passato e al castigo (morte), e volgendo le spalle alla salvezza, in mezzo al deserto (aridità), illuminata da un eccessivo sole (ragione, chiarezza). Mi sembra indubbio che questi tratti coincidano con quelli che lo stesso Frate Guittone rileva nella sua poesia:

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E dice alcun ch’è duro e aspro mio trovato a saporare; e pote essere vero: und’è cagione che m’abonda ragione, per ch’eo gran canzon faccio e serro motti, e nulla fiata totti locar loco li posso; und’eo rancuro, ch’un picciol motto pote un gran ben fare. (XLIX,157-168)

Per concludere, va considerato pure l’ambito corteggiano e curiale nel quale si svolge il mito di Pasifae (la reggia di Minos), rinviante, oltre che all’amore cortese, anche al volgare illustre o curiale, che -secondo quel che Dante dice nel De Vulgari eloquentia- caratterizzano la poesia di Guido; e, non meno importante, quello non curiale, ma municipale di Sodoma, un altro chiaro rimando al trattato:

Guittone d’Arezzo, che non si è mai rivolto verso il volgare curiale, Bonagiunta da Lucca, Gallo Pisano, Mino Mocato da Siena, Brunetto Fiorentino, i componimenti poetici dei quali, a volerli esaminare con attenzione, si rivelerebbero non di livello curiale, ma soltanto municipale (I, XIII)12.

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NOTE 1 “Letteratura e lussuria, come è evidente, s’intrecciano con stretti nodi in questo canto di poeti: come già in quello di Francesca, gremito di lettori e lettrici, eroi di versi di amor e prose di romanzi; o in quello di Brunetto, frequentato da cherci / e letterati grandi e di gran fama (XV, 106-107). Dunque non è forse casuale, in questi canti, la presenza delle gru: perché le gru son considerate animali letterati, per lunga consuetudine” (p. 28). 2 “Cum igitur homo non nature instinctu, sed ratione moveatur, et ipsa ratio vel circa discretionem vel circa iudicium vel circa electionem diversificetur in singulis, adeo ut fere quilibet sua propria specie videatur gaudere, per proprios actus vel passiones, ut brutum animal, neminem alium intelligere opinamur. Nec per spiritualem speculationem, ut angelum, alterum alterum introire contingit, cum grossitie atque opacitate mortalis corporis humanus spiritus sit obtectus. Oportuit ergo genus humanum ad comunicandas inter se conceptiones suas aliquod rationale signum et sensuale habere: quia, cum de ratione accipere habeat et in rationem portare, rationale esse oportuit ; cumque de una ratione in aliam nichil deferri possit nisi per medium sensuale, sensuale esse oportuit. Quare, si tantum rationale esset, pertransire non posset; si tantum sensuale, nec a ratione accipere nec in rationem deponete potuisset. Hoc equidem signum est ipsum subiectum nobile de quo loquimur: nam sensuale quid est in quantum sonus est; rationale vero in quantum aliquid significare videtur ad placitum”. 3 “Nunc autem que sint ipsa venemur. Ad quorum evidentiam sciendum est quod sicut homo tripliciter spirituatus est, videlicet vegetabili, animali et rationali, triplex iter perambulat. Nam secundum quod vegetabile quid est, utile querit, in quo cum plantis comunicat; secundum quod animale, delectabile, in quo cum brutis; secundum quod rationale, honestum querit, in quo solus est, vel angelice sociatur <nature>. Propter hec tria quicquid agimus agere videmur; et quia in quolibet istorum quidam sunt malora quidam maxima, secundum quod talia, que maxima sunt maxime pertractanda videntur, et per consequens maximo vulgari. Sed disserendum est que maxima sunt. Et primo in eo quod est utile: in quo, si callide consideremus intentum omnium querentium utilitatem, nil aliud quam salutem inveniemus. Secondo in eo quod est delectabile: in quo dicimus illud esse maxime delectabile quod per pretiosissimum obiectum appetitus delectat: hoc autem venus est. Terbio in eo quod est honestum: in quo nemo dubitat esse virtutem. Quare hec tria, salus videlicet, venus et virus, apparent esse illa magnalia que sint maxime pertractanda, hoc est ea que maxime sunt ad ista, ut armorum probitas, amoris accensio et directio voluntatis. Circa que sola, si bene recolimus, illustres viros

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invenimus vulgariter poetasse, scilicet Bertramum de Bornio arma, Arnaldum Danielem amorem, Gerardum de Bornello rectitudinem; Cynum Pistoriensem amorem, amicum eius rectitudinem [...] Arma vero nullum latium adhuc invenio poetasse”. 4 “Scientes quia rationale animal homo est et quia sensibilis anima et corpus est animal, et ignorantes de hac anima quid ea sit, vel de ipso corpore, perfectam hominis cognitionem habere non possumus: quia cognitionis perfectio uniuscuiusque terminatur ad ultima elementa, sicut Magister Sapientum in principio Physicorum testatur. Igitur ad habendam cantionis cognitionem quam inhyamus, nunc diffinientia suum diffiniens sub compendio ventilemus, et primo de cantu, deinde de abitudine, et postmodum de carminibus et sillabis percontemur”. 5 “Amor nisi inter diversorum sexuum personas esse non potest. Nam inter duos mares vel inter duas feminas amor sibi locum vindicare non valet; duae namque sexus eiusdem personae nullatenus aptae videntur ad mutuas sibi vices reddendas amoris vel eius naturales actus exercendos. Nam quidquid natura negat, amor erubescit amplecti” (A. Capellanus, De amore, I, II). 6 “Sono appena arrivate che già sentono l’angoscia calmarsi nel loro cuore al pari delle gru quando, costrette dal soffio dell’Aquillone ad abbandonare la patria terra per affrontare il mare, scorgono alfine Faro: allora si sparpagliano per i cieli con strida di giubilo; sono felici di aver lasciato alle spalle le nevi per trasferirsi in quel clima sereno e di poter scuotersi di dosso il freddo, bagnandosi nel Nilo”. 7 “Così gli stormi delle rauche gru, che il mite clima di Faro ha protetto durante il rigido inverno, quando questo volge al termine si allontanano dal Nilo Paretonio attraversando il mare, volano veloci con grande strepito, passando come un’ombra sul mare e sulla terra, e ne risuona la volta del cielo. Per loro è giunto il momento in cui è bello affrontare il vento del nord e la pioggia, bello nuotare nei fiumi non più gelati e fare il nido estivo sotto l’Emo spoglio”. 8 Anche se Gorni non le qualifica esplicitamente di suicide, mi sembra evidente che lo siano, e l’osservazione non è impertinente se si considera che il protagonista del canto XIII dell’Inferno è non casualmente il suicida e anche poeta Pier delle Vigne. Bisognerebbe tenere presente anche la suicida Dido, alla cui schiera appartengono Paolo e Francesca. 9 “Ma sembra che anche questi possano ridursi alla intemperanza per eccesso. Questo sarebbe il caso di chi si dilettasse nel mangiare carne umana o nel coito con degli animali o con persone dello stesso sesso” (S. Teo. II-II C.142 a.4). 10 “Est sciendum quod constructionem vocamus regulatam compaginem dictionum, ut ‘Aristoteles phylosohatus est tempore Alexandri’. Sunt enim quinque hic dictiones

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compacte regulariter, et unam faciunt constructionem. Circa hanc quidem prius considerandum est quod constructionum alia congrua est, alia vero incongrua. Et quia, si primordium bene discretionis nostre recolimus, sola suprema venamur, nullum in nostra venatione locum habet incongrua, quia nec inferiorem gradum bonitatis promeruit. Pudeat ergo, pudeat ydiotas tantum audere deinceps ut ad cantiones prorumpant: quos non aliter deridemus quam cecum de coloribus distinguentem. Est ut videtur congrua qua sectamur. Sed non minoris difficultatis accedit discretio priusquam quam querimus actingamus, videlicet urbanitate plenissimam [...] Subsistant igitur ignorantie sectatores Guictonem Aretinum et quosdam alios extollentes, nunquam in vocabulis atque constructione plebescere desuetos”. 11 “Vitia apud grammaticos illa dicuntur, quae in eloquio cavere debemus. Sunt autem haec: barbarismus, soloecismus, acyrologia, cacenphaton, et reliqua.” (S. Isidoro, Etymologiarum, I, 34 1). 12 “Puta Guittonem Aretinum, qui nunquam se ad curiale vulgare direxit, Bonagiuntam Lucensem, Gallum Pisanum, Minum Mocatum Senensem, Brunectum Florentinum, quorum dicta, si rimari vacaverit, non curialia sed municipalia tantum invenitur”.

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