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159 ‘Purgatorio’ XXXIII: profezia, missione e purificazione GIUSEPPE CIAVORELLA [email protected] RIASSUNTO: Beatrice spiega a Dante il significato della visione apocalittica che ha chiuso il canto precedente: albero della giustizia divina schiantato, carro della Chiesa metamorfizzato e semidistrutto e infine trascinato lontano. Ma presto, profetizza la beata, verrà un «messo di Dio» che riporterà giustizia e pace sulla terra. Intanto ordina a Dante di scrivere, quando sarà tornato tra i vivi, tutto ciò che ha visto. Il piccolo corteo giunge, infine, presso la sorgente da cui scaturiscono i fiumi Letè ed Eunoè. Dante, che ha già bevuto l’acqua del Letè, si immerge ora nell’Eu- noè e ne esce definitivamente purificato. P AROLE CHIAVE: carro, «cinquecento diece e cinque», nota, scrivi, dottrina, Eunoè, rinnovellato. ABSTRACT: Beatrice explains to Dante the meaning of the apocalyptic vision that closed the previous Canto: the tree of divine justice broken, the chariot of the Church metamorphosed, half destroyed and eventually dragged far away. Yet, as the bea- tified woman prophesies, a “God’s messenger” will soon arrive to restore justice and peace on earth. Meanwhile, she tells Dante to write down all he has seen as soon as he returns among the living. The small procession finally arrives at the source from where Lethe and Eunoe spring. Having already drunk the water of Lethe, this time Dante bathes in Eunoe and comes out totally cleansed.

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GIUSEPPE [email protected]

RIASSUNTO:

Beatrice spiega a Dante il significato della visione apocalittica che ha chiusoil canto precedente: albero della giustizia divina schiantato, carro della Chiesametamorfizzato e semidistrutto e infine trascinato lontano. Ma presto, profetizzala beata, verrà un «messo di Dio» che riporterà giustizia e pace sulla terra. Intantoordina a Dante di scrivere, quando sarà tornato tra i vivi, tutto ciò che ha visto.Il piccolo corteo giunge, infine, presso la sorgente da cui scaturiscono i fiumiLetè ed Eunoè. Dante, che ha già bevuto l’acqua del Letè, si immerge ora nell’Eu-noè e ne esce definitivamente purificato.

PAROLE CHIAVE: carro, «cinquecento diece e cinque», nota, scrivi, dottrina,Eunoè, rinnovellato.

ABSTRACT:

Beatrice explains to Dante the meaning of the apocalyptic vision that closedthe previous Canto: the tree of divine justice broken, the chariot of the Churchmetamorphosed, half destroyed and eventually dragged far away. Yet, as the bea-tified woman prophesies, a “God’s messenger” will soon arrive to restore justiceand peace on earth. Meanwhile, she tells Dante to write down all he has seen assoon as he returns among the living. The small procession finally arrives at thesource from where Lethe and Eunoe spring. Having already drunk the water ofLethe, this time Dante bathes in Eunoe and comes out totally cleansed.

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KEY WORDS: chariot, «five hundred, ten and five», note, writest, doctrine,Eunoe, renewed.

Siamo all’ultimo atto del grandioso dramma liturgico che si svolge nelParadiso terrestre, e che ha come attori protagonisti Dante e Beatrice,come attori secondari Matelda, Virgilio e Stazio e come comparse, più omeno attive, «cento» angeli e alcune decine di figure simboliche. Undramma che si svolge in cinque atti: nel primo, che ha funzione di intro-duzione, Dante arriva nell’Eden e incontra Matelda (canto XXXVIII); nelsecondo, avanza la processione allegorica dei libri sacri del Vecchio e delNuovo Testamento, con al centro il carro della Chiesa (canto XXIX); nelterzo, appare in trionfo Beatrice, che rimprovera duramente Dante pecca-tore e lo costringe ad una umiliante confessione, cui segue l’immersionepurificatrice del pentito nel Letè (cc. XXX-XXXI); nel quarto, Dante as-siste al “mistero” della «pianta dispogliata», è investito da Beatrice dellamissione di scrivere, «in pro del mondo che mal vive», tutto ciò che vede,e assiste alla visione apocalitica della degenerazione della Chiesa (cantoXXXII); nel quinto (quello che ora esamineremo, costituito dal cantoXXXIII) Beatrice rinnova a Dante il conferimento della missione poetica,profetizza la venuta di un «Cinquecento Diece e Cinque», restauratoredella giustizia e della pace nella Chiesa e nell’Impero, e invita infine ilpellegrino all’immersione finale rigenerante nell’Eunoè, che lo rende«puro e disposto a salire a le stelle».Quando incomincia l’ultimo canto del Purgatorio è quasi mezzogiorno:

sono passate sei ore da quando Dante ha messo piede nel Paradiso terre-stre (era da poco sorto il sole). La visione apocalittica è appena terminatae le sette Virtù, che hanno assistito insieme con Beatrice, Dante, Mateldae Stazio al triste spettacolo/visione della progressiva devastazione e cor-ruzione della Chiesa, cantano in lacrime il Salmo 79 [78], che incominciacon le parole: «Deus, venerunt gentes»; e lo cantano in modo antifonale,‘alternandosi’, cioè, nel canto dei versetti, ora le tre Virtù teologali ora lequattro Virtù cardinali.

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‘Deus, venerunt gentes’, alternandoor tre or quattro dolce salmodia,le donne incominciaro, e lagrimando;e Beatrice, sospirosa e pia,quelle ascoltava sì fatta, che pocopiù a la croce si cambiò Maria.

(vv. 1-6)

È una «dolce salmodia» quella cantata dalle Virtù, ma di una dolcezzadolorosa, perché le parole del salmo esprimono dolore profondo, comedoloroso è stato lo spettacolo della visione apocalittica, che al salmo è inparte ispirata:

Deus,venerunt gentes in hereditatem tuam. (polluerunt templumsanctum tuum, / posuerunt Ierusalem in ruinas. […] Usquequo,Domine? Irasceris in finem? […] / Adiuva nos, Deus salutaris no-stri, / propter gloriam nominis tui et libera nos; / et propitius estopeccatis nostris propter nomen tuum. […] Et redde vicinis nostris[…] quod exprobaverunt tibi, Domine» [O Dio, sono venute gentistraniere nei tuoi possedimenti, / hanno profanato il tuo sacro Tem-pio, / hanno ridotto Gerusalemme in rovina. [...] / Fino a quando,o Signore? Sarai sdegnato per sempre? [...] / Soccorrici, o Dio, no-stro salvatore / per la gloria del tuo nome e liberaci; / e perdona lenostre colpe per amore del tuo nome [...] / Fa’ ricadere sui nostrivicini [...] / l’oltraggio che ti hanno fatto, Signore].

Il salmo si riferisce alla conquista di Gerusalemme da parte dei Babi-lonesi, alla sua distruzione e alla conseguente schiavitù degli Ebrei a Ba-bilonia; il canto del Salmo, qui nel Paradiso terrestre, è perciò uncommento melodico alla visione apocalittica, terminata con l’immaginedel carro della Chiesa trascinato nel folto della selva dal gigante: la Chiesaavignonese serva dei re di Francia, come il popolo ebreo fu schiavo deire di Babilonia. Ma il canto è anche in relazione con ciò che Beatrice diràfra poco a Dante: come il salmista invoca la vendetta di Dio sui Babilonesie sui loro alleati (pur ammettendo le colpe degli Ebrei, dimentichi dellalegge del Signore), così Beatrice prometterà la venuta di un «Cinquecento

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diece e cinque, / messo di Dio», che ristabilirà la dignità della Chiesa e ri-porterà l’ordine e la giustizia sulla terra. Intanto, sospirando pietosa,ascolta la «dolce salmodia» delle Virtù, così trasfigurata dal dolore cheMaria, ai piedi della croce, dovette mutarsi nel volto poco più di lei. Tuttoil dolore del Vecchio e del Nuovo Testamento è richiamato, in pochi versi,a dare la misura della tragedia che la Chiesa e l’Europa politica contem-poranea stanno vivendo. «Un gruppo gotico di iacoponica espressività»,commenta Franco Lanza (1967: 1217).

Ma poi che l’altre vergini dier locoa lei di dir, levata dritta in pè,rispuose, colorata come foco:‘Modicum , et non videbitis me;et iterum, sorelle mie dilette,modicum, et vos videbitis me’.

(vv. 7-12)

Beatrice passa, per la terribile visione cui ha assistito e per il canto delsalmo che ha ascoltato, dal dolore all’indignazione, e infine all’appassio-nata profezia della resurrezione morale della Chiesa. Ricordiamo che Bea-trice era rimasta seduta per terra presso il tronco dell’albero dellaconoscenza del bene e del male, ‘innovato’ di foglie e fiori, anche durantelo spettacolo apocalittico; ora si alza in piedi accesa di sacrosanto sdegno.Sembra rivolgersi solo alle Virtù, in risposta al loro canto («rispuose»), male sue parole riguardano anche, anzi soprattutto, Dante, che vede, ascoltae, «ritornato di là», dovrà tutto riferire con assoluta precisione, dando te-stimonianza di come la realtà storica terrena, ecclesiale e politica, sia vistae giudicata in cielo. Le parole latine sono riprese fedelmente dal VangelodiGiovanni (16, 16): Gesù annuncia agliApostoli, durante l’ultima cena,la sua prossima morte («Modicum, et non videbitis me» [Ancora un pocoe non mi vedrete]) e la sua resurrezione («et iterum modicum, et videbitisme» [e di nuovo ancora un poco, e mi vedrete]). Ma il linguaggio di Gesùnon è chiaro: Egli parla «per similitudini» (in proverbiis), e i discepoli

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non capiscono, e glielo dicono, infatti, ma credono ugualmente. E ancheBeatrice parla (e parlerà ancora) «per similitudini», usando le parole diGesù, o un linguaggio simile a quello di Gesù; e Dante crederà, anche senon capirà, e riferirà fedelmente. Beatrice è qui, chiaramente, figura diCristo e della Chiesa. Le sue parole qui, e soprattutto più avanti, come sivedrà, non sembrano alludere ad altro che alla speranza, anzi alla certezzadi una riforma morale della Chiesa (Beatrice vede in Dio e Dante credefermamente nelle parole di Beatrice beata, parola vivente di Dio). Ma al-cuni significativi indizi (il salmo «Deus, venerunt gentes» cantato dalleVirtù, alludente all’esilio babilonese; il fatto che le parole di Beatricesiano una «risposta» al canto delle Virtù; l’allusione inequivocabile, nellavisione apocalittica, al trasferimento della sede pontificia in terra di Fran-cia [Purg. XXXII, 148-60], e quindi al lungo periodo di permanenza inquella regione, definito spesso ‘cattività babilonese’ [o ‘avignonese’] o‘esilio babilonese’; infine il tono acceso, quasi un grido, con cui Beatricecita le parole di Gesù), autorizzano una più precisa, e più semplice, inter-pretazione: la sede pontificia resterà a Roma ancora per poco, poi saràtrasferita in Provenza (1305), adAvignone (1308); ma non resterà a lungoin terra di Francia, poi tornerà nuovamente a Roma. Ovviamente, in que-sta interpretazione, il trasferimento della sede pontificia è una profeziapost eventum (quando Dante scrive il canto XXXIII del Purgatorio [pro-babilmente nel 1313] il trasferimento è già avvenuto), mentre il ritornonon lontano dei pontefici a Roma vuole essere una vera profezia, che perònon si è ancora avverata, né si avvererà essendo Dante vivo: i papi ritor-neranno a Roma solo nel 1377. Il Poeta trasforma in profezia la sua grandesperanza.1 E che Dante possedesse in alto grado la virtù della Speranza,lo sapeva benissimo Beatrice, che nel Cielo Stellato, quando Dante staper essere esaminato da S. Giacomo sulla seconda delle tre Virtù teologali,afferma, sostituendosi al suo «fedele»:

«La Chiesa militante alcun figliuolonon ha con più speranza, com’è scritto

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nel Sol che raggia tutto nostro stuolo:però li è conceduto che d’Egittovegna in Ierusalemme per vedere,anzi che ’l militar li sia prescritto».

Paradiso XXV, 52-57

E ci piace ricordare anche le parole che Bruno Nardi scrive a propositodella convinzione di Dante che Dio avrebbe provveduto a riportare la giu-stizia sulla ‘terra desolata’: «E allora il sangue di Cristo fu dunque versatoinvano? Dio avrebbe dunque abbandonato l’umanità al suo destino, e ilgrande dramma cosmico dovrebbe concludersi colla vittoria dello spiritodel male? L’ottimismo cristiano di Dante e la sua fede nella provvidenzagl’impedivano di pensare, non che di pronunziare, una simile bestemmia»(19902: 265-326, alla p. 271).Continuiamo con la nostra lettura.

Poi le si mise innanzi tutte e sette,e dopo sé, solo accennando, mosseme e la donna e ’l savio che ristette.Così sen giva; e non credo che fosselo decimo suo passo in terrra posto,quando con li occhi li occhi mi percosse;e con tranquillo aspetto «Vien più tosto»,mi disse, «tanto che, s’io parlo teco,ad ascoltarmi tu sie ben disposto».

(vv. 13-21)

Si ricompone, in piccolo, il corteo, ripartendo dall’albero (tutti gli altricomponenti della grande processione sono risaliti in cielo; cfr. XXXII, 88-90). Dirige la piccola processione Beatrice, che dispone l’ordine del cor-teo: davanti stanno le sette Virtù, con in mano i sette candelabri, poi vieneBeatrice, sola, in posizione centrale, seguono infine Dante, Matelda e Sta-zio: «quasi immagine – commenta MarioApollonio – del ricostruirsi dellaChiesa nella illuminazione dello Spirito e con la salvaguardia intellettualedella Rivelazione» (1951: 775). Dopo lo scatto di indignazione, Beatrice

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riacquista la serenità: ella sa, perché lo legge in Dio, che l’umiliazionedella Chiesa non durerà a lungo. Non è possibile dire se i ‘passi’ (nove odieci che siano) abbiano un significato allegorico: le congetture non sonomancate. Ci limitiamo a ricordarne due: la prima (già avanzata dal Pascoli(1952 [1904]: 1534) e riconfermata da M. Palma di Cesnola (1995: 67, maper la datazione degli eventi citati nel canto interessano tutte le pp. 73-97)legge nei “quasi dieci passi” i quasi dieci anni che passano dalla morte diBeatrice (8 giugno 1290) all’inizio del viaggio ultraterreno di Dante (8aprile 1300): ne sarebbe conferma la «decenne sete» di Purg. XXXII 2;la seconda vede nel numero un’allusione agli anni che intercorrono tral’anno del trasferimento della sede pontificia in Francia (1305) e l’annodella morte di Clemente V e Filippo il Bello (1314), gli artefici (o respon-sabili) del trasferimento: tale congettura, avanzata da Ernesto GiacomoParodi (1965 [1921]: 245-47) implica, ovviamente, che questo canto, ul-timo del Purgatorio, sia stato composto dopo la morte dei due personaggi;il che, secondo gli studi più recenti, appare poco probabile. La prima ipo-tesi sembra perciò più plausibile.

Sì com’io fui, com’io dovea, seco,dissemi: «Frate, perché non t’attentia domandarmi omai venendo meco?».Come a color che troppo reverentidinanzi a suo maggior parlando sono,che non traggon la voce viva ai denti,avvenne a me, che sanza intero suonoincominciai: «Madonna, mia bisognavoi conoscete, e ciò ch’ad essa è buono».

(vv. 22-30)

Beatrice (la quale “sa” che Dante desidera spiegazioni su ciò che havisto, perché «ritornato di là», dovrà riferire tutto in un poema) cerca dimettere a suo agio Dante, ancora intimidito dalla bellezza celestiale delladonna, oltre che dalla severità con cui ella lo ha accolto. L’appellativo«frate» (già tante volte usato dai penitenti incontrati lungo i gironi del

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Purgatorio) è espressione della carità che unisce, nel nome di Dio, leanime salve; ma è la prima volta che Beatrice lo usa rivolgendosi a Dante.Nota Umberto Bosco nel suo commento alla Commedia:

il rapporto tra Beatrice e Dante assume, già in questo canto, un ca-rattere nuovo che rimarrà d’ora in poi costante. La donna cessa diessere la donna dello stilnovo e anche la severa rampognatrice, perdiventare sollecita e amorevole ammaestratrice; Dante assume lafigura d’un docile scolaro, desideroso di apprendere, anche se tal-volta sprovveduto, come appare subito in questo stesso canto».

Notazione certamente valida, ma che richiede forse qualche precisa-zione. Noi preciseremmo, per esempio, che Dante conserva, e conserveràsempre, verso Beatrice “troppa reverenza”, un atteggiamento che rasso-miglia molto a quello che oggi si usa definire complesso di inferiorità (ilsenso di colpa, che le accuse di Beatrice avevano ridestato in lui, dovrebbeessere stato, invece, cancellato dall’immersione nel Letè; ma non sempreè così); dimostra ciò anche il «voi» con cui le rivolge (e sempre le rivol-gerà) la parola (ha dato del «voi», per deferenza, anche a Farinata – chein verità sa anche affrontare «a viso aperto» – e lo darà ancora a Caccia-guida), come «a suo maggior parlando». Aggiungeremmo che Dante nonpuò non averlo, il complesso di inferiorità: lo richiedono la situazionenarrativa (Beatrice è non solo beata, e non è solo la sua ‘salvatrice’, ma èapparsa nel Paradiso terrestre fra «cento» angeli, «come Cristo» trion-fante) e la psicologia del personaggio: non solo del Dante viator dell’ol-tretomba, ma dello stesso Dante della Vita nuova, che in presenza diBeatrice era colto da tremore, e che mai a Beatrice viva ebbe il coraggiodi rivolgere la parola. I sentimenti del Dante della Commedia per Beatricebeata, insomma, non sono molto diversi da quelli del Dante della Vitanuova per Beatrice viva, ma già poeticamente ‘angelicata’: c’è sostanzialecoerenza, su questo, tra il libello giovanile e il poema della maturità. Chela Beatrice della Commedia, poi, non sia più ‘la donna dello stilnovo’,

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era già manifesto fin dal suo colloquio nel Limbo con Virgilio (Inf. II, 52-117).

Ed ella a me: «Da tema e da vergognavoglio che tu omai ti disviluppe,sì che non parli più com’om che sogna.

(vv. 31-33)

Si direbbe che Beatrice non apprezzi la risposta di Dante: vi legge an-cora il timore e la vergogna con cui egli ha ascoltato le sue severe accusedi traviamento, dopo ch’ella «di carne a spirto era salita» (Purg. XXX,127). Un simile Dante non può scrivere tutto ‘quel che ha visto’ nellospettacolo apocalittico della devastazione della Chiesa: che non era unsogno ad occhi aperti, ma una terribile realtà storica presentata in formavisionaria e simbolica. Deve perciò ‘svegliarsi’ e ragionare, per capire ve-ramente il dramma religioso e politico che lacera il mondo cristiano e pre-pararsi alla grande e difficile missione che gli è stata affidata. Né, d’altraparte, Beatrice ha finito di ammaestrarlo su ciò che ha visto: ha ancora darivelargli cose importantissime, che dovrà riferire al «mondo che malvive», e ha perciò bisogno di un Dante pienamente padrone di sé. Per que-sto lo scuote imperiosamente: «voglio». Così parlava ai profeti il Diodegli Ebrei.2

Sappi che ’l vaso che ’l serpente ruppe,fu e non è; ma chi n’ha colpa, credache vendetta di Dio non teme suppe.

(vv. 34-36)

È una terzina davvero ermetica (come ermetiche sono spesso le paginedell’Apocalisse, che Dante qui cita) e ne diamo, perciò, la parafrasi e laspiegazione: ‘Sappi che il carro («vaso») che fu rotto dal drago («ser-pente»), non esiste più («fu e non è»); ma coloro che sono colpevoli di ciò,credano pure che la giustizia punitiva («vendetta») di Dio è certa e prestoo tardi colpirà («non teme suppe»)’. Le parole «vaso» e «serpente» ri-chiamano le parole «carro» e «drago» di Purg.XXXII, 131-32 (che si in-

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seriscono nella scena ‘apocalittica’ compresa nei vv. 130-35). Il carrodella Chiesa ha subìto una così mostruosa metamorfosi (Purg. XXXII,136-47) ed è stato trascinato così lontano dalla sua vera sede (Purg.XXXII, 157-60) che si può dire che (al tempo in cui Dante vede, ascoltae scrive) non esista più agli occhi di Dio (qualcosa di simile dichiarerà S.Pietro in Par. XXVII, 23-24: «il luogo mio che vaca / ne la presenza delFigliuol di Dio»).3 L’espressione «fu e non è» è ripresa da Apoc. 17, 8:«bestia quam vidisti fuit et non est» [la bestia che hai visto fu e non è]:Dante cerca sempre un sostegno alle proprie parole profetiche nelle Scrit-ture. Suona, però, piuttosto strana l’espressione con cui Beatrice accom-pagna l’annuncio dell’immancabile castigo divino: «non teme suppe». Lespiegazioni sono state diverse. I commentatori trecenteschi della Com-media fanno riferimento ad un’usanza importata dalla Grecia secondo laquale «se uno uccidea un altro, e egli potea andare nove dì continui amangiare una suppa per die suso la sepoltura del defunto, né ’l Comunené i parenti del morto non faceano più alcuna vendetta. Ed usasi in Firenzedi guardare per nove dì la sepoltura d’uno che fosse ucciso, acciò che nonvi sia suso mangiato suppa» (Jacopo della Lana). Altre interpretazionisono state avanzate da commentatori successivi (fra cui Bernardino Da-niello, Guido Mazzoni, Herbert D.Austin, Francesco Torraca); la più pro-babile, però, è ritenuta ancora quella trecentesca del Lana.

Ma il vocabolo [«suppe»] – commenta Franco Lanza – ha una suaforza sarcastica e dispregiativa sufficiente, anche senza una proie-zione storica, ad inserirlo in quelle espressioni che usualmente con-fortano, nel linguaggio dantesco, il distacco tra la giustizia el’empietà, l’altezza divina e la bassezza umana: simile, in tal fun-zione, a certe invettive dei beati che culmineranno nel “lascia purgrattar dov’è la rogna” di Cacciaguida o nella “cloaca” maledettada San Pietro (Par. XVII 129 e XXVII 25) (Lanza in LDS 1967:1221).

Non sarà tutto tempo sanza redal’aguglia che lasciò le penne al carroper che divenne mostro e poscia preda;

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ch’io veggio certamente, e però il narro,a darne tempo già stelle propinque,secure d’ogn’intoppo e d’ogne sbarro,nel quale un Cinquecento Diece e Cinque,messo di Dio, anciderà la fuiacon quel gigante che con lei delinque.

(vv. 37-45)

Il riferimento è ancora alla visione apocalittica (Purg.XXXII, 124-126e 157-160). L’aquila («aguglia») è simbolo dell’Impero (come il carro èsimbolo della Chiesa); il Poeta (per bocca di Beatrice) intende perciò direche l’Impero (istituzione divina, come la Chiesa) non resterà per semprevacante («sanza reda», ‘senza erede’). Dante, infatti, considerò l’Imperovacante dopo la morte di Federico II (1250) «non ostante che Ridolfo eAndolfo e Alberto poi eletti siano, appresso la sua morte e de li suoi di-scendenti» (Conv. IV III 6). Sarà vero «erede»Arrigo VII (1308-1313). Masi tenga presente che Dante considera vacante (per indegnità di chi lo oc-cupa) anche il soglio pontificio (cfr. Par.XXVII, 23-24, cit.). Le due mas-sime istituzioni terrene non hanno guida. Da questa convinzione scatta laprofezia del «Cinquecento Diece e Cinque». Beatrice usa un linguaggiodi tipo ‘astrologico’, ma è un uso, il suo, che può essere definito strumen-tale, perché, dovendo essa (Dante poeta, in realtà) fare una profezia, nonpuò non parlare «per similitudini» (in proverbiis, per usare la terminologiaevangelica), come usava talvolta Gesù con i suoi discepoli. Beatrice parla‘astrologico’ perché, al tempo di Dante, la dottrina degli influssi stellari(che, non si dimentichi, anche per i teologi avevano come causa primaDio, donde la ‘certezza’ di Beatrice, che in Dio legge il futuro) era comu-nemente accettata, e compresa. Ma per i lettori del nostro tempo è forsemeglio tradurre il linguaggio ‘astrologico’ dei vv. 40-45 in linguaggiocorrente: ‘perché io vedo con assoluta certezza, e perciò lo rivelo a te,stelle ormai vicine a sorgere («propinque»), sicure di poter superare ogniostacolo e ogni sbarramento («sbarro»), che ci daranno («a darne») untempo nel quale un liberatore («un Cinquecento Diece e Cinque»), inviato(«messo») da Dio, ucciderà («anciderà») la meretrice («fuia») insieme

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con quel gigante che con lei commette peccato («delinque»)’. Beatrice, insostanza, annuncia la non lontana venuta di un inviato divino (designatomisteriosamente con il numero «Cinquecento Diece e Cinque», in numeriromani DXV, anagrammabili in DVX; in numeri arabi, 515), che riporteràla giustizia nella Chiesa e nell’Impero, uccidendo sia la «fuia» (la «put-tana sciolta» di Purg. XXXII, 149) sia il «gigante» (il «feroce drudo»della «puttana»; Purg. XXXII, 152 e 155).4 Ci permettiamo di ricordareche era «da ciel messo» l’angelo che aprì la porta della Città di Dite,chiusa dai diavoli che non volevano far entrare Dante (Inf. IX, 85). Losdegno di Beatrice ricorda lo sdegno del «messo» celeste che apre la portainfernale: «Ahi quanto mi parea pien di disdegno! / Venne a la porta econ una verghetta / l’aperse, che non v’ebbe alcun ritegno» (Inf. IX, 88-90). Forse non è arbitrario ipotizzare un nesso fra il canto infernale e icanti XXXII e XXXIII del Purgatorio.5

Ma l’enigma del numero «Cinquecento Diece e Cinque», al quale si èsoltanto accennato, richiede un discorso un po’ lungo. La discussione sulsignificato da attribuire al misterioso numero con cui è identificato il«messo di Dio» incomincia già nel Trecento, con i primi commentatoridella Commedia (Jacopo della Lana, l’Ottimo Commento, Pietro di Dante,Benvenuto da Imola, Francesco da Buti). Subito, nella trascrizione in cifreromane del numero 515, DXV, e nel relativo anagramma, DVX (cioèDUX), si lesse un’allusione generica ad «uno Imperadore», ovvero ad«alcuno giustissimo e santissimo Principe il quale reformerà lo stato dellaChiesa e de’ fedeli cristiani» (Ottimo Commento). Solo nel Cinquecento,con il Vellutello e il Daniello, il «messo di Dio» è identificato conArrigoVII di Lussemburgo, «uomo di grandissimo valore e pieno di singular bon-tade e giustizia» (Daniello). Nel Settecento Pompeo Venturi e BaldassarreLombardi tornano a rilevare (dopo i primi commentatori del Trecento)che Dante, nell’indicare il «messo di Dio» con un numero, imita «lo stileprofetico di san Giovanni nell’Apocalisse, ove il Santo indica il nome del-l’Anticristo: “numerus eius sexcenti sexaginta sex” [il suo numero è sei-cento sessanta sei (in numeri romani: DCLXVI; in numeri arabi: 666)]» (B.Lombardi). Commenta Pietro Mazzamuto (da cui soprattutto traiamo le

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informazioni in sintesi): «sono proposte che resteranno nella storia del-l’esegesi del DXV».6 Nell’Ottocento le interpretazioni risentono spesso delclima politico risorgimentale e nazionalistico. Al ‘tedesco’ Arrigo VIIviene preferito Cangrande della Scala (Niccolò Tommaseo), o addiritturaUguccione della Faggiuola. Quando Dante compone l’ultimo canto delPurgatorio, osserva il Tommaseo, Arrigo VII è già morto [in verità moltistudiosi sostengono che era ancora vivo, e di questo parere siamo anchenoi], mentre Cangrande, già nominato vicario imperiale, sarà capo dellaLega ghibellina nel 1318. Viene anche proposta un’interpretazione neo-guelfa-clericale: DXV è acrostico di “Domini Xristi Vicarius” [Vicariodel Signore nostro Cristo], dove “Vicarius” è un papa; o si collega il nu-mero «Cinquecento Diece e Cinque» con il Veltro di Inf. I, per cui DXV èacrostico di “Domini Xristi Vertagus” [Cane da caccia di Cristo nostroSignore], e si identificano Veltro e DXV. Nel Novecento i contributi piùoriginali vengono da Robert Davidsohn (1902) e, soprattutto, da ErnestoGiacomo Parodi (1965 [1921]). Il Davidsohn ritiene che in «CinquecentoDiece e Cinque» sia da leggere una data, e precisamente il 1315, «sommadell’anno 800, nel quale ebbe luogo l’incoronazione di Carlo Magno, e del515 del verso dantesco» (Mazzamuto): il 1315 è l’anno in cui Ludovicodi Baviera è eletto imperatore, ed è anche l’anno, secondo una leggendamedioevale, in cui incomincerà una nuova fase della storia del mondo.Se si ritiene valida la proposta del Davidsohn, la data di composizionedel nostro canto è da porre dopo il 1315 (o quanto meno ipotizzare una re-visione del canto successiva al 1315). Il Parodi distingue nettamente traVeltro e DXV: il primo corrisponde ad una profezia incerta e approssimata,il secondo ad un preciso personaggio storico, che non può che essere Ar-rigo VII, «vivo e presente» nel momento in cui Dante compone l’ultimocanto del Purgatorio, «stretto e angustiato da terribili ostacoli, ma prede-stinato dalla volontà di Dio e dalla santità della sua missione a trionfarneda ultimo con impreveduta facilità» (Parodi).7 E l’interpretazione del Pa-rodi, per la rigorosa documentazione che la sostiene, è ritenuta ancoraoggi la più convincente tra le moltissime avanzate in sette secoli di studidanteschi. È chiaro, però, che tale interpretazione presuppone che l’ultimo

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canto del Purgatorio sia stato composto prima della morte di Arrigo VII(24 agosto 1313), cosa non impossibile, se si accetta come data certa(come noi riteniamo), per la composizione del canto VI del Purgatorio, ilmese di dicembre 1310. Più recente l’interpretazione di Robert E. Kaske,che vede nel DXV lo stesso Cristo, che ritorna sulla terra per sconfiggeredefinitivamente l’Anticristo e fare giustizia (in DXV sarebbero da leggerele lettere iniziali dell’espressione liturgica «Vere Dignum et iustum est»,insieme con il simbolo della croce «X» [Kaske 1961: 185-254]).AndreaBattistini ritiene convincente l’interpretazione del Kaske (in L’Alighieri29, 2007: 98-99).Nicolò Mineo (1998: 42-43) ritiene opportuno rinunciare ad identifi-

care il DVX con un personaggio storico. Ecco che cosa scrive il critico inun suo recente saggio (premetto che per Mineo la puttana e il gigantedell’“apocalisse di Dante” raffigurano rispettivamente la Curia papalecorrotta e l’Anticristo, secondo l’interpretazione che dell’Apocalisse diSan Giovanni avevano data Gioacchino da Fiore e gli spirituali france-scani, come Pietro di Giovanni Olivi e Ubertino da Casale):

Il nostro problema a questo punto sarà non già stabilire chi possaessere il «Cinquecento diece e cinque», ma cosa questo rappresentidal punto di vista apocalittico-escatologico. Mentre non è certo dadimostrare che la simbolizzazione nella forma del numero sia daricondurre alla strutturazione apocalittica e sia procedimento adot-tato in analogia col testo giovanneo. Orbene, la figura apocalitticaa cui la tradizione esegetica riconosce il compito continuato, dallapassione di Cristo sino alla fine del mondo, di combattere alla testadei buoni contro le forze del male è l’angelo Michele, che in figuradi Cristo combatterà contro l’Anticristo reale. Quest’ultimo com-pito anzi è quello maggiormente messo in luce nei commenti al-l’Apocalisse. [...] Se pertanto l’erede dell’aquila combatterà, nellospirito di Michele, e quindi di Cristo [...] contro l’Anticristo pro-prio, ne deriva che questo è da riconoscere nello stesso gigante.

Per ultima (perché la più recente) diamo l’interpretazione di Michelan-gelo Picone. Questi, convinto che esista una relazione tra la profezia del

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«Veltro» (‘cane da caccia, veloce ma anche grande’), del primo cantodell’Inferno, e la profezia del «Cinquecento Diece e Cinque», dell’ultimocanto del Purgatorio, propone di individuare, nel misterioso personaggioalluso nel numero, Cangrande della Scala (individuazione peraltro nonnuova, come si è già detto); e propone, nello stesso tempo, di leggere (in-vece che «Cinquecento diece e cinque») «cinque cento diece e cinque»(lettura che i manoscritti consentirebbero), cioè, in mumeri romani, VCXV;in questa sigla si possono leggere – dichiara Picone – «le iniziali di unafrase che recita “Vicarius Canis in Christo Victoriosus”» [Cangrande Vi-cario Vittorioso in Cristo]. E spiega lo studioso: «Frase che non ci inven-tiamo noi, ma che corrisponde all’intitolazione dell’Epistola XIII, quellacontenente la dedica del Paradiso a Cangrande. Dice appunto il primocomma di quella lettera: “Magnifico atque victorioso domino Cani Grandide la Scala sacratissimi Cesarei Principatus […] Vicario generali […]»(Picone 2008: 92). In verità nell’intitolazione dell’Epistola XIII non com-pare il nome di Cristo («sacratissimi» è riferito a «Cesarei Principatus»,e Cangrande risulta aver guerreggiato non nel nome di Cristo, ma del-l’Imperatore, di cui era Vicario), ma la proposta di Picone, per la diversae nuova lettura del numero, ci pare che meriti di essere presa in conside-razione non meno delle altre.

Rinunciamo ad esprimere una nostra interpretazione (ma cfr. la nota n.5). Ci limitiamo a dire che la spiegazione data dai primi commentatoridella Commedia del Trecento (fra i quali sono, è bene ricordarlo, due au-tori che conobbero personalmente e intimamente Dante: Pietro figlio diDante, innanzitutto, e l’autore dell’Ottimo Commento [il notaro AndreaLancia?], che poterono ascoltare dallo stesso Poeta l’interpretazione cheessi ci hanno tramandato, e in particolare Pietro), che cioè l’“enigmatico”numero è sigla di DXV=DVX, resta, dopo tanto discutere, la sola (quasi)certezza, sulla quale la stragrande maggioranza degli interpreti non hadifficoltà a consentire.Riprendiamo la lettura del canto.

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E sappi che la mia narrazione buia,qual Temi o Sfinge, men ti persuade,perch’a lor modo lo ’ntelletto attuia;ma tosto fier li fatti le Naiade,che solveranno questo enigma fortesanza danno di pecore o di biade.

(vv. 46-51)

Dopo il linguaggio ‘astrologico’, il linguaggio ‘mitologico’: della mito-logia degli enigmi e delle profezie, che spesso annebbia il cervello, comela stessa Beatrice avverte. Perché il linguaggio mitologico, se non si cono-scono bene i miti, può essere anche meno comprensibile di quello astro-logico (per rinfrescare la memoria del lettore, diamo perciò alcunespiegazioni in nota sui miti citati, tanto più che Dante commette un erroredi citazione, che complica il discorso).8 Per semplificare ulteriormente lalettura delle due terzine, obiettivamente difficile, diamo anche la parafrasidei versi: ‘E sappi che la mia profezia oscura, com’erano oscure quellefatte da Temi o dalla Sfinge, non ti persuade, perché come quelle ottenebra(«attuia») l’intelletto; ma presto i fatti che accadranno saranno («fier») essistessi rivelatori («le Naiade»), e risolveranno questo difficile enigma senzarecar danno né a greggi né a campi coltivati’. Beatrice, cioè, non chiede aDante di sforzarsi di capire la profezia del «Cinquecento Diece e Cinque»:non sarebbe in grado di capire (in verità Dante poeta sa che i lettori delcanto si proveranno a spiegare l’«enigma forte»; ed è questo, anzi, ch’eglivuole, ed è questo che inevitabilmente tenteranno di fare i lettori).9

Tu nota; e sì come da me son porte,così queste parole segna a’ vividel viver ch’è un correre a la morte.E aggi a mente, quando tu le scrivi,di non celar qual hai vista la piantach’è or due volte dirubata quivi.

(vv. 52-57)

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È rinnovato da Beatrice in questi versi il conferimento della missionepoetica e profetica a Dante (cfr. Purg. XXXII, 103-105); e nello stessotempo è imposto al Poeta di riferire con la massima esattezza ciò che havisto e sentito: i fatti chiariranno anche ciò che ora sembra oscuro allostesso Dante, che vede e sente. Il critico Enzo N. Girardi mette in rela-zione, questo momento fondamentale del “viaggio”, con il capitolo con-clusivo della Vita nuova, in cui Dante accenna al progetto di composizionedi un’opera poetica al cui centro sarà Beatrice. Scrive il Girardi (1989:659):

Ora, poiché l’indizio più rilevante di tale progetto costruttivo dellaCommedia lo si trova, com’è noto, già prima della Commedia, nelfinale della Vita nuova, là dove Dante dichiara essergli apparsa una«mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporredi non dire più di questa benedetta infino a tanto che io potessepiù degnamente parlare di lei» – una visione, dunque, di cose le-gate a Beatrice, incentrate su Beatrice, tali da non poterne trattarese non trattando di Beatrice; sembra logico che chi muove da que-sto primo indizio esterno verso il poema, dovendo scegliere unpunto d’arrivo che corrisponda per tema e per linguaggio a quellapartenza, lo trovi proprio qui, in questa mirabile visione di coseassai più ardue e complesse di quelle della Vita nuova, compren-sive dell’esperienza politica, filosofica e letteraria successiva al li-bello giovanile, ma tuttavia imperniate su Beatrice, interpretate dalei, e, ancora, elaborate in un linguaggio traslato e visionario cheè molto simile a quello del libello stesso.

Il linguaggio di Beatrice è effettivamente «traslato e visionario» perquanto riguarda il futuro: è un linguaggio profetico. Ma per quanto ri-guarda il passato e il presente ha la concretezza delle cose viste: quella delduplice spettacolo della «pianta due volte dirubata» e della visione apo-calittica; un linguaggio simbolico, certo, ma concreto, perché fatto di fi-gure identificabili e di atti interpretabili. E se Dante ha qualche difficoltàa capire (e dimostrerà di averle), ella è pronta a dare le spiegazioni neces-sarie. Aggiungeremmo una precisazione. Anche Cacciaguida e S. Pietro,

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nel Paradiso, conferiranno a Dante la missione di narrare al «mondo chemal vive» ciò che ha visto in tutto il suo viaggio ultraterreno, e lo faranno,certamente, con maggiore autorevolezza e solennità, proporzionate al lorosuperiore prestigio gerarchico e al luogo celeste in cui si trovano; ma seDante ha voluto che la missione gli fosse conferita per prima da Beatrice,lo ha fatto certamente per qualche motivo. Ora, noi crediamo che il mo-tivo non possa essere che di riconoscenza; duplice riconoscenza: d’ordinepoetico e d’ordine religioso. Dante riconosce a Beatrice il merito di aver-gli ispirato, prima, la poesia d’amore che lo ha fatto uscire «de la volgareschiera» (Inf. II, 105), e poi il grande «poema sacro», che lo porrà allapari (ne è convinto) con i grandi poeti classici. E riconosce a Beatriceanche il merito, forse superiore al primo, di averlo salvato dalla «selva sel-vaggia», nella quale stava per smarrire irrimediabilmente la «diritta via».E se il «poema sacro» gli è ispirato da Beatrice, poteva non essere Bea-trice a conferirgli per prima la missione poetica e profetica, le cui originisono nella volontà di Dio? L’investitura missionaria che riceve da Beatriceha per Dante un significato più profondo di quelle che riceverà da Cac-ciaguida e San Pietro.Torniamo al nostro testo, e precisamente al v. 54. Esso è la parafrasi di

un aforisma delDe civitate DeiXIII, 10, di S.Agostino: «nihil aliud tem-pus vitae huius, quam cursus ad mortem» [il tempo della vita terrena nonè altro che un correre alla morte] (cfr. Purg. XX, 38-39, dove lo stessoconcetto è espresso con parole diverse). Scrive Vittorio Cian: «Un versotremendo questo, che resta la definizione più profondamente medievalee plastica, nel suo ritmo rappresentativo, della vita terrena: una corsa allamorte» (Cian 1958: 665).Beatrice ricorda in sostanza a Dante, perché loricordi ai vivi, che la vita terrena deve essere vissuta nella prospettivadella vita eterna. Quindi porta il discorso sulla «pianta», cioè sull’alberodella conoscenza del bene e del male, intorno al quale si è svolto il ‘mi-stero’ rappresentato nel canto XXXII. L’espressione «or due volte diru-bata» è interpretata in modi diversi; accenniamo alle due spiegazioni piùaccreditate (che risalgono rispettivamente ai commentatori trecenteschiFrancesco da Buti e Jacopo della Lana). L’avverbio «or» – osservano i so-

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stenitori della prima spiegazione – accenna al tempo presente e sembraperciò far riferimento alla visione apocalittica appena svoltasi; l’espres-sione «due volte dirubata» dovrebbe allora intendersi: ‘derubata primadall’aquila (che scendendo sul carro ruppe foglie, fiori e scorza) e poi dalgigante (che sciolse il carro dalla pianta e lo trascinò con sé nella selva)’.Se si guarda alla sintassi, questa è l’interpretazione più plausibile. Non sipuò non osservare, però, che l’aquila non deruba la pianta, ma la danneg-gia; e la distinzione è netta al v. 58. Se si guarda, invece, a tutta la rappre-sentazione allegorica che si svolge nel canto XXXII (e non solo alla visione)e si dà a «or» il significato di ‘a questo punto, dopo quanto hai visto quinel Paradiso terrestre’, l’espressione «due volte dirubata» può intendersi:‘derubata prima da Adamo (e quando la processione arriva presso lapianta, questa è ancora «dispogliata» di foglie, fiori e frutti) e poi dal gi-gante (che trascina via il carro legato alla pianta: e il carro era stato legatodal grifone alla pianta come cosa a lei appartenente; cfr. XXXII, 49-51)’.Questa seconda interpretazione a me sembra più convincente.

Qualunque ruba quella o quella schianta,con bestemmia di fatto offende a Dio,che solo a l’uso suo la creò santa.Per morder quella, in pena e in disiocinquemilia anni e più l’anima primabramò colui che ’l morso in sé punio.

(vv. 58-63)

Spiega Lino Pertile:

l’albero è l’unica res che Dio creò per sé in tutto il Paradiso terre-stre. Esso è dunque il segno e il simbolo del potere sovrano di Dioe allo stesso tempo della condizione subalterna dell’uomo nelcreato. [...] La giustizia di Dio, dichiara Beatrice, si esprime nonsolo nel decretum che vieta l’“uso” dell’albero all’uomo [Genesi2, 16-17], ma anche nella forma stessa dell’albero (Pertile 1998:165-66).

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La «bestemmia di fatto» è il sacrilegio, e si distingue dalla «bestemmiadi parola»: la prima, ovviamente, più grave della seconda. E poiché l’al-bero (come chiarirà fra poco Beatrice; vv. 71-72) è, simbolicamente, l’al-bero della giustizia divina,Adamo e il gigante (o il gigante e l’aquila, che«schianta» l’albero e il carro, il cui timone è fatto col legno dell’albero[cfr. Purg. XXXII, 51]; o, meglio ancora, Adamo, l’aquila e il gigante)hanno violato la giustizia di Dio. Adamo, secondo la Bibbia, visse 930anni: e furono tutti anni di «pena», perché, avendo commesso il peccatooriginale appena sei ore dopo la sua creazione (cfr. Par.XXVI, 118-142),fu subito cacciato dal Paradiso terrestre; aspettò poi con sofferto «disio»nel Limbo per 4302 anni la Redenzione di Cristo, che lo liberò dal Limboe gli permise di ascendere al Paradiso.

Dorme lo ’ngegno tuo, se non estimaper singular cagione essere eccelsalei tanto e sì travolta ne la cima.E se stati non fosser acqua d’Elsali pensier vani intorno a la tua mente,e ’l piacer loro un Piramo a la gelsa,per tante circostanze solamentela giustizia di Dio, ne l’interdetto,conosceresti a l’arbor moralmente.

(vv. 64-72)

Nell’albero edenico della conoscenza del bene e del male – ammonisceBeatrice – è da riconoscere, in senso morale («moralmente»), la Giustiziadi Dio; esso è raffigurato così alto e con la chioma così singolarmente«travolta» (a forma di cono rovesciato) per significare – come spiega Ben-venuto da Imola – che «scientia Dei est altissima in infinitum; revolutioautem figurat quod nullus potest ascendere vel attingere ad illam altitu-dinem» [la scienza di Dio è eccelsa all’infinito; lo stravolgimento dellacima significa che nessuno può salire e raggiungere quell’altezza]. Lascienza di Dio, e perciò anche la giustizia di Dio (che si esprime anche inproibizioni), è inarrivabile da mente umana.10 Ma Dante, nonostante tuttii segni esterni («circostanze») con cui l’albero della conoscenza del bene

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e del male si presentava, sembra non aver capito il significato morale dellaproibizione («interdetto») fatta da Dio adAdamo di cibarsi dei suoi frutti;e perciò il linguaggio di Beatrice torna severo, quasi come quando ella ac-cusava Dante dei suoi peccati (Purg.XXX e XXXI). La severità si spiegaanche con la necessità che Dante si renda ben conto dell’importanza dellamissione che gli è stata affidata: per compierla perfettamente il suo intel-letto deve essere libero da pregiudizi terreni, la sua memoria lucida e pre-cisa, la sua volontà determinata. Si direbbe che Beatrice voglia che Dantecapisca bene ch’egli ha sì ‘lavato’ i suoi peccati, ma che la sua mente è ri-masta ‘incrostata’ dagli errori della filosofia razionale, da lui seguita peranni: se vuole capire perfettamente le verità delle Sacre Scritture e gli in-segnamenti dei Padri della Chiesa e dei teologi, e soprattutto se vuole ese-guire bene la difficile missione che gli è stata affidata, deve liberarsi dalpregiudizio filosofico che la ragione può spiegare tutto. Per rendere piùefficace il suo discorso Beatrice usa due similitudini: realistica la prima,mitologica la seconda. La prima ha come termine di paragone le acque delfiume Elsa (affluente di sinistra dell’Arno), le quali sono così ricche dicarbonato di calcio che incrostano gli oggetti che vi sono immersi. Bea-trice, cioè, accusa Dante di avere rivolto per così lungo tempo il suo in-teresse, pratico e filosofico, ai beni terreni, da cui ricavava un piacerefalso ed effimero, che la sua mente è rimasta ‘incrostata’ dall’errore; con-seguentemente egli è ora incapace di sollevarsi dalle verità parziali delmondo materiale alla verità suprema dello spirito: dalla filosofia pura-mente razionale (fondata sulle sole virtù cardinali) alla teologia (assistitadalle virtù teologali). La seconda similitudine ha come termine di para-gone il mito di Piramo e Tisbe, al quale Dante aveva già accennato inPurg. XXVII, 37-39: il giovane Piramo amava Tisbe, ricambiato, ma iloro genitori ne ostacolavano le nozze; i due giovani decisero allora difuggire, e si diedero appuntamento sotto un albero di gelso. Giunse perprima all’appuntamento Tisbe, ma la giovane, impaurita dall’apparizionedi una leonessa, fuggì, lasciando cadere il suo mantello, che la belva, cheaveva appena ucciso un bove, macchiò di sangue. Quando Piramo so-praggiunse, vide il mantello di Tisbe insanguinato e, pensando che la sua

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compagna fosse stata uccisa da una belva, disperato si trafisse con laspada. Tisbe, passato il pericolo, tornò indietro e trovò Piramo morente;disperata, si uccise sul corpo del compagno. Il sangue dei due giovani sisparse sulle radici del gelso, che da quel giorno produsse more rosse, in-vece che bianche. La morale del mito sarebbe (dico ‘sarebbe’ perché èpiuttosto forzata) che, come il sangue di Piramo mutò i frutti del gelso,così il piacere dei «pensier vani» ha mutato la mente, già pura e virtuosa,di Dante.

Ma perch’io veggio te ne lo ’ntellettofatto di pietra e, impetrato, tinto,sì che t’abbaglia il lume del mio detto,voglio anche, e se non scritto, almen dipinto,che ’l te ne porti dentro a te per quelloche si reca il bordon di palma cinto».

(vv. 73-78)

Sono versi piuttosto enigmatici, che si prestano a diverse interpreta-zioni; noi diamo qui la nostra: ‘Ma poiché io ti vedo indurito come pietranell’intelletto e, oltre che pietrificato («impetrato»), anche oscurato(«tinto») da quei pensieri vani, così che la luce delle mie parole ti abbaglia,voglio anche che tu le porti dentro di te, se non proprio scritte in chiari ca-ratteri, almeno come un’immagine dipinta che ti aiuti a ricordarle, per lostesso motivo per cui il pellegrino di ritorno dalla Terrasanta porta il ba-stone da viaggio («bordon») ornato di una foglia di palma’. Con l’accennoal «bordone» (il robusto bastone dal manico ricurvo del pellegrino), Bea-trice intende ricordare a Dante che il viaggio che egli compie nell’oltre-tomba è anche un pellegrinaggio di espiazione: come il pellegrino, pervoto, va a visitare la Gerusalemme terrena per vedere i luoghi dove vissee morì Cristo, così Dante, per una speciale grazia divina, ma anche perpurificarsi dai suoi peccati, va a visitare, attraversando prima l’Inferno eil Purgatorio, la Gerusalemme celeste, dove Cristo trionfa (cfr. Par.XXXI,43-45, 103-08); e come il pellegrino terreno cinge con una foglia di palmail bordone, come segno e ricordo del pellegrinaggio compiuto e del voto

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sciolto (la palma è pianta tipica dei Luoghi Santi), così Dante riporteràsulla terra il ricordo di tutto ciò che ha visto e sentito e, come segno dellagrazia particolare che Dio gli ha concesso facendogli visitare l’oltretombaancora vivo e affidandogli un’importante missione, racconterà il suo viag-gio in un poema: questo sarà, per coloro che lo leggeranno, prova della ve-ridicità della narrazione e per lui, Dante, un richiamo continuo ad esserdegno dell’eccezionale grazia che gli è stata concessa. Acuta l’osserva-zione di Peter Dronke (1990: 121-22) a proposito dell’«intelletto impe-trato» di Dante:

Mi sembra che sia difficile non interpretare le allusioni di Beatricealla “pietrificazione” di Dante come richiami caustici al suo legamecon la “bella petra”, la donna che aveva ispiratoCosì nel mio parlare le altre “rime petrose”. È come se Beatrice stesse dicendo cheDante era arrivato ad appartenere a quella “petra” così profonda-mente da non essere più pronto ad accogliere la stessa Beatrice(Dronke, 1990: 121-22).

Ricordiamo che nella «bella petra» si identifica comunemente la filo-sofia, al cui studio Dante si era dedicato dopo la morte di Beatrice. Ma,come abbiamo detto, le interpretazioni di queste due terzine sono diverse;ci limitiamo a riportare quella di Enzo Noè Girardi (1989: 667):

Il senso insomma mi pare questo: ma poiché il tuo intelletto è fattoimpermeabile come pietra e, di più, tale pietra è fatta nera come la-vagna, sicché la luce, il senso delle mie parole ne vien respinto,voglio che tu le porti, se non scritte almeno dipinte su questa nerasuperficie per conservarle fin tanto che sarai in grado di intenderle.

È il caso di far notare come l’espressione «voglio anco» richiami il«voglio» del v. 32: Beatrice intende trasmettere la propria volontà, che èvolontà soprannaturale, a Dante, come faceva Dio con i profeti ebrei. Lemetafore dell’«intelletto impetrato» e «tinto» riprendono le similitudini-metafore dell’«acqua d’Elsa» e di «Piramo a la gelsa».

E io: «Sì come cera da suggello,

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che la figura impressa non trasmuta,segnato è or da voi lo mio cervello.Ma perché tanto sovra mia vedutavostra parola disïata vola,che più la perde quanto più s’aiuta?».

(vv . 82-87)

La prima terzina è la risposta di Dante alla missione affidatagli da Bea-trice: l’impegno del Poeta-pellegrino a comporre la Divina commediaquando sarà tornato sulla terra (impegno che è in corso di attuazione nelmomento in cui Dante scrive questi versi); in termini penitenziali, è ilmomento conclusivo della satisfactio operis, terzo ‘gradino’ del rito dellaPenitenza, dopo la contritio cordis e la confessio oris (cfr. Purg. XXXI,91-102). Ma si noti la solennità della risposta del Poeta: la promessa di ri-ferire fedelmente le parole di Beatrice (cfr. vv. 52-57) si configura comeun voto: Beatrice rappresenta Cristo, e la promessa fatta a lei è una pro-messa fatta a Dio. Dante non può non mantenerla (cfr. Par.V, 19-84, doveBeatrice spiega a Dante l’importanza del voto). Ma mentre esprime solen-nemente la sua promessa, il pellegrino è colto da un dubbio: dovrà riferirealla lettera anche le parole che non capisce? E se gli chiedono spiegazionedi quelle parole, che cosa potrà rispondere? E soprattutto: perché a voltele parole di Beatrice gli sembrano così difficili da capire, che ha l’impres-sione che ella parli un’altra lingua, a lui incomprensibile, di un livellomolto più alto di quello dell’uomo? Dante personaggio esprime il suodubbio usando un linguaggio metaforico, quasi nel tentativo di adeguarsiall’espressione “alta” di Beatrice: la capacità di comprendere è resa conla metafora della «veduta», la ‘vista intellettuale’, che insegue le paroleche ‘volano via’, sfuggendo alla comprensione; a questa metafora si ade-guano i sintagmi «più la perde» e «quanto più s’aiuta». Osserva AndreaBattistini (2007: 96):

Queste continue professioni di inadeguatezza […] potrebbero va-lere non solo come monito all’“umana gente” a stare “contenti alquia”, essendo la Ragione incapace di conoscere, mentre si è an-cora in via, la Rivelazione […], ma anche come avviso agli esegeti

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a non volere chiarire pienamente il senso di una profezia che perdefinizione è oscura e mai completamente decifrabile.

La metafora della ‘parola alata’ è antichissima, com’è noto: risale aOmero.

«Perché conoschi», disse, «quella scuolac’hai seguitata, e veggi sua dottrinacome può seguitar la mia parola;e veggi vostra via da la divinadistar cotanto, quanto si discordada terra il ciel che più alto festina».

(vv. 85-90)

La risposta di Beatrice è severa: un vero atto d’accusa. È l’ultima, epiù grave, accusa che Beatrice rivolge a Dante: egli ha seguito una filo-sofia («dottrina») razionalistica, tutta rivolta a «pensier vani», esclusiva-mente mondani, e la sua mente ne è ancora come ‘incrostata’.

Anche Virgilio, quando era ancora guida – ricorda il Singleton(1978: 165) – aveva parlato della sua “scola” (Purg. XXI, 33) edei limiti ad essa imposti, più che mai evidenti ora che la guida èBeatrice: lo stesso fatto che egli abbia guidato solo fino ad un datopunto, perché “più oltre” non discerneva, sottolinea ancor meglioquelle limitazioni.

Aproposito di queste due terzine, si suole citare, giustamente, Isaia, 55,8: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, né le mie vie sono le vostrevie, dice il Signore; perché, quanto i cieli sono più alti della terra, tantole mie vie sono più alte delle vostre e i miei pensieri dei vostri pensieri».Nel verso 90 si allude al Primo Mobile, il cielo più ampio, più alto e piùveloce; esso è anche il più distante dalla Terra, la quale, nella concezioneastronomica aristotelico-tolemaica, è al centro dell’universo. Ma nel verbo«discorda» è implicato, oltre al significato di distanza, anche quello di

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contrasto: la Terra è concepita da Dante come la parte più impura del-l’universo (e infatti Lucifero ne occupa esattamente il centro), così che icieli che circondano la Terra sono tanto più nobili quanto più distanti sonoda essa. E il Primo Mobile è il più distante (con l’eccezione, ovviamente,dell’Empireo, sede di Dio e dei beati). L’accusa che Beatrice rivolge aDante ha una notevole importanza sia nella biografia culturale di Dantesia per quanto concerne la costruzione del poema. Torneremo, perciò,sull’argomento.

Ond’io rispuosi lei: «Non mi ricordach’i’ straniasse me già mai da voi,né honne coscienza che rimorda».«E se tu ricordar non te ne puoi»,sorridendo rispuose, «or ti rammentacome bevesti il Letè ancoi;e se dal fummo foco s’argomenta,cotesta oblivion chiaro conchiudecolpa ne la tua voglia altrove attenta.Veramente oramai saranno nudele mie parole, quanto converrassiquelle scovrire a la tua vista rude».

(vv. 91-102)

L’accusa di Beatrice sembra cogliere di sopresa Dante, che dichiara dinon ricordare di essersi mai allontanato da Beatrice e dalla «dottrina» dalei rappresentata, cioè dalla retta interpretazione delle Scritture; e ag-giunge di non provare alcun rimorso per uno ‘straniamento’ che non ri-corda.11 L’osservazione di Dante, ingenua nella sincerità della sorpresa,induce al sorriso Beatrice, che cambia atteggiamento nei riguardi del suointerlocutore; non tanto, però, da impedirle di fargli osservare (con logicasottile) che proprio dal fatto che egli non ricorda si deduce la sua colpe-volezza, perché le acque del Letè (e non può non ricordare la sua immer-sione nel fiume) cancellano solo la memoria del peccato (cfr. Purg.XXVIII, 127-132; XXXI, 100-102): se non avesse commesso colpa,

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Dante ricorderebbe ogni cosa. Beatrice promette infine a Dante che daquel momento si rivolgerà a lui con parole semplici, tali da poter esserecomprese da un intelletto limitato, qual è quello di Dante vivo. E già inquesto suo discorso, al mutato atteggiamento verso il pellegrino, corri-sponde un cambiamento del registro linguistico: non più parole alte e mi-steriose, tali da riuscire quasi incomprensibili a Dante, ma parole dellinguaggio comune, dette con tono familiare. L’ultima terzina è tutta co-struita sulla metafora della ‘nudità’ della parola: una parola deprivata dellaluce metafisica che abbaglia l’intelletto umano e la rende inaccessibile(cfr. v. 75: «sì che t’abbaglia il lume del mio detto»).Aggiungiamo ora (come anticipato) qualche altra considerazione a

quanto già detto, poiché l’argomento è importante. Cominciamo col chie-derci: l’accusa che Beatrice rivolge a Dante in questi versi, è la stessa chegli aveva già rivolta, indirettamente, in Purg. XXX, 124-38, e in partico-lare nei versi 130-32: «e volse i passi suoi per via non vera, / imagini diben seguendo false, / che nulla promession rendono intera»? (nei qualiversi è probabile il ricordo di Conv. II XII 5-7, dove Dante parla del suo‘innamoramento’ per la filosofia: «cominciai tanto a sentire de la sua dol-cezza, che lo suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero»).Sembrerebbe di sì, è la stessa accusa, visto che Dante, in risposta (vv. 91-93), afferma di non ricordare di essersi mai «straniato» da lei, che è pro-prio la colpa di cui Beatrice lo ha accusato. Ma perché allora ripetere lastessa accusa? La spiegazione può essere questa: l’immersione nel Letèha cancellato in Dante il ricordo del traviamento filosofico; ma Dantedeve ritornare in mezzo al «mondo che mal vive» e se non ricorda di avergià commesso un errore dottrinario gravissimo, può ricadere nello stessoerrore; ed ecco allora Beatrice ‘restaurare’ il ricordo nella sua memoria.Resta, però, il problema della ‘qualità’ del traviamento di Dante, del

quale sono state proposte diverse soluzioni. Per Scartazzini-Vandelli, la«scuola / c’hai seguitata» è la scuola «della scienza umana, della mera fi-losofia che cerca la verità di ragione, scuola che Dante ha seguitato contanto ardore, che l’amore per la filosofia, da lui giudicata ‘somma cosa’,“cacciava e distruggeva ogni altro pensiero” (Conv. II XII 5-7), e poco egli

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curava la più alta scienza, quella delle verità rivelate, raffigurata in Bea-trice». Dante, cioè, per superbia intellettuale, si sarebbe allontanato dallafede, e ciò sarebbe dimostrato da molti passi del Convivio. Di parere nondiverso è Luigi Pietrobono, per il quale «la “scuola” a cui Beatrice ac-cenna è proprio quella che ritiene d’innalzarsi con il pensiero alla mede-sima altezza della parola rivelata». Non è di questo parere, invece,Michele Barbi (in Bullettino della S.D.I IX, 13), secondo il quale la colpadi cui Beatrice rimprovera Dante nel Paradiso terrestre (sia in Purg.XXXsia in Purg. XXXIII)

è una sola: di aver amato più i beni mondani che Dio; e la «scuola»che ha seguitato è la povera sapienza del mondo, i «difettivi sillo-gismi che fanno battere in basso l’ali», l’«accorger nostro scisso»,la «veduta corta di una spanna»: invece di levarsi dietro a Beatricea conoscer ed amar «lo bene di là dal qual non è a che s’aspiri»,s’era lasciato traviare dal «falso piacere» de «le presenti cose», eaveva volto «i passi suoi per via non vera, Immagini di ben se-guendo false, Che nulla promission rendono intera».

Per il Barbi, insomma, il peccato di Dante è stato non tanto dottrinale,quanto morale, e non ha implicato un allontanamento dalla fede.Dissente dal Barbi Étienne Gilson (1987: 95-96 e nota 13) , che scrive:

In Purg. XXX Beatrice rimprovera a Dante di essere caduto là dovenoi lo troviamo all’inizio della Divina Commedia, con le tre fiere,così in basso che solo la paura dell’inferno poteva ormai correg-gerlo; in Purg. XXXIII Beatrice lo rimprovera di aver aderito ad una«scuola» la cui «dottrina», come Dante adesso vede bene, non puòseguire la sua «parola» e il cui metodo («vostra via») è tanto lon-tano da quello di Dio quanto la terra è lontana dal cielo. [...] Sequesto non gli viene detto per ricordargli che un tempo ha contatotroppo sulle forze della ragione, non si vede davvero cosa potrebbesignificare.

Ma il Gilson sostiene anche che l’amore per la ‘donna gentile’ (la filo-sofia) non venne meno nell’animo di Dante neanche dopo il suo ritorno a

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Beatrice (la teologia): «Vi è stata, a un certo punto, un’inversione della ge-rarchia di questi due amori nell’animo di Dante, e anche una temporaneadimenticanza di Beatrice, ma il ritorno di Beatrice non comportò mail’esclusione della “donna gentile”» (1987: 95, nota 12). Il Gilson, in-somma, sostiene la diversità delle accuse di Beatrice a Dante in Purg.XXXe Purg. XXXIII: colpe morali, nel primo caso, colpe dottrinali, nel secondo.Ame sembra, però, che l’accenno di Beatrice alle eccezionali doti intellet-tive di Dante (Purg. XXX, 109-120) e all’errore da lui commesso quando«volse i passi suoi per via non vera, / imagini di ben seguendo false, / chenulla promession rendono intera» (vv. 130-32) si possa interpretare nonsolo come traviamento morale, ma anche come traviamento dottrinale (pursenza ipotizzare una vera caduta nell’eresia); e che quindi in Purg.XXXIII,85-90, Beatrice non faccia altro che ribadire le accuse precedenti, perchéDante (come abbiamo detto) dovrà tornare sulla terra, per giunta investito,per volontà divina, di una missione profetica e poetica.Ritorniamo ai versi del canto.

E più corusco e con più lenti passiteneva il sole il cerchio di merigge,che qua e là, come li aspetti, fassi,quando s’affiser, sì come s’affiggechi va dinanzi a gente per iscortase trova novitate o sue vestigge,le sette donne al fin d’un’ombra smorta,qual sotto foglie verdi e rami nigrisovra suoi freddi rivi l’alpe porta.Dinanzi ad esse Eufratès e Tigriveder mi parve uscir d’una fontana,e, quasi amici, dipartirsi pigri.

(vv. 103-14)

Riprende la narrazione dopo il lungo e oscuro discorso profetico di Bea-trice e il dialogo, piuttosto animato, fra la beata e il discepolo dalla «vistarude». È ormai mezzogiorno e il sole brilla alto e luminoso («corusco») sul

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meridiano del Purgatorio, dopo essersi gradualmente spostato (secondo laconcezione astronomica medievale) da oriente a occidente, da un meri-diano all’altro. Ora che è quasi a perpendicolo sul monte del Purgatorio(siamo nell’emisfero sud, nell’equinozio di primavera), sembra muoversipiù lentamente. Sono trascorse circa sei ore da quando Dante, poco dopol’alba, ha messo piede nel Paradiso terrestre; fra poco, dopo che l’acquadell’Eunoè lo avrà definitivamente purificato, «salirà alle stelle» insiemecon Beatrice. E non è un caso, probabilmente, che l’ “ascensione” avvengasei ore dopo l’arrivo nel Paradiso terrestre e a mezzogiorno. Dante avevascritto nel Convivio che Cristo, morendo al colmo della sua vita, «l’ora delgiorno de la sua morte [...] volle consimigliare con la vita sua; onde diceLuca che era quasi ora sesta quando morio, che è a dire lo colmo del die»(IV XXIII 11); e aveva aggiunto che «la sesta ora, cioè lo mezzo die, è lapiù nobile di tutto lo die e la più virtuosa» (IV XXIII 15).È, dunque, quasi mezzogiorno quando le sette Virtù, che, con in mano

i candelabri, guidano la piccola processione, si fermano al margine di unaradura, simile a quelle che si incontrano in alta montagna, dove i ruscelli,dalle acque fredde, scorrono in mezzo all’erba verde, sotto i rami neridegli alberi. Quando Dante raggiunge le Virtù, vede davanti a sé, in mezzoalla radura una sorgente, dalla quale escono, abbondanti di acque ma lentinello scorrere, due ruscelli, che si dirigono in direzioni opposte, comefanno due amici che separandosi si salutano. Siamo nel Paradiso terrestre,e al Poeta vengono in mente i nomi dei fiumi Eufrate e Tigri, citati inGe-nesi 2, 10-14: «Et fluvius egrediebatur ex Eden ad irrigandum paradisum,qui inde dividitur in quattuor capita. Nomen uni Phison […] Et nomenfluvio secundo Geon […] Nomen vero fluminis tertii Tigris […] Fluviusautem quartus ipse est Euphrates» [Un fiume usciva da Eden per irrigareil giardino, poi di lì si divideva e formava quattro corsi. Il primo fiume sichiama Pison (…) Il secondo fiume si chiama Ghicon (…) Il terzo fiumesi chiama Tigri (…) Il quarto fiume è l’Eufrate]. Ma forse qui, più che ilpasso della Genesi, Dante ha presente Boezio, De Consol. Philos. V, m.I: «Tigris et Euphrates uno se fonte resolvunt / et mox abiunctis disso-ciantur aquis» [il Tigri e l’Eufrate sgorgano da un’unica fonte / e presto,

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diramandosi le loro acque, si separano]. Ma Matelda gli ha già detto chequei due fiumi hanno nome Letè ed Eunoè (cfr. Purg. XXVIII, 127-33):il Letè lo ha già visto, e vi si è anche immerso, dunque l’altro non può es-sere che l’Eunoè. Resta dunque il fatto che il Poeta, pur citando indiret-tamente la Bibbia e Boezio, dà ai due fiumi che bagnano il Paradisoterrestre due nomi che ricordano la mitologia greco-romana, quasi a signi-ficare che la sua invenzione poetica attinge sia alla fonte cristiana sia allafonte pagana (ricordiamo che la descrizione naturalistica del Paradiso ter-restre è prevalentemente di derivazione ovidiana; cfr. Purg.XXVIII, 1-21,49-51). Il paesaggio (e in qualche modo anche la situazione) è quello chesi era presentato a Dante quando, entrato nella «divina foresta spessa eviva», era giunto sulle rive del Letè (cfr. Purg. XXVIII, 25-33): là eral’inizio del cammino nell’Eden ritrovato, qua è la conclusione del cam-mino. Fra poco, infatti, Dante spiccherà il volo per il Paradiso.

«O luce, o gloria de la gente umana,che acqua è questa che qui si dispiegada un principio e sé da sé lontana?».Per cotal priego detto mi fu: «PriegaMatelda che ’l ti dica». E qui rispuose,come fa chi da colpa si dislega,la bella donna: «Questo e altre cosedette li son per me; e son sicurache l’acqua di Letè non gliel nascose».

(vv. 115-23)

Beatrice è invocata nello stesso tempo come simbolo della Sapienzadivina («luce») e come donna gloriosa («gloria de la gente umana»). L’en-fasi della domanda può giustificarsi con la straordinarietà (la «novitate»del v. 108) del fenomeno, umanamente inspiegabile; straordinarietà che(aggiunta a quella di tutti i mirabili avvenimenti che si sono succeduti nelParadiso terrestre) provoca in Dante non solo stupore, ma anche una mo-mentanea amnesia, perché Dante in effetti sa, e dovrebbe perciò ricor-darsi, che i due fiumi sono il Letè e l’Eunoè. Ma c’è forse dell’altro. Sisvolge, infatti, nelle terzine 115-23 (con epilogo nella terzina 124-26) una

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sorta di commedia degli equivoci: Dante non può (non dovrebbe) averdimenticato le spiegazioni dategli da Matelda in Purg. XXVIII, 121-33(perché il Letè cancella solo il ricordo del peccato); Beatrice non può nonsapere che Matelda ha già informato Dante sui due fiumi e sull’unica sor-gente; Matelda sa che Beatrice e Dante sanno, ma risponde a Beatrice conl’aria di discolparsi. Perché questa commediola, in cui sembra quasi cheBeatrice, rinviando Dante a Matelda, voglia mettere in imbarazzo «labella donna»? È un gioco, indubbiamente: Beatrice prende amabilmentein giro Dante, che si è rivolto a lei con tanta enfasi per chiedergli una spie-gazione inutile; Matelda ha capito e asseconda Beatrice nel gioco. Allafine, a trovarsi realmente in imbarazzo non èMatelda, ma Dante, che è co-stretto ad ammettere la propria amnesia, o sbadataggine, clamorosamentecontraddicendo quanto lui stesso, con enfasi (è recidivo!), aveva affermatonei vv. 79-81 (e ancora Beatrice avrà amabilmente sorriso di lui). Narra-tivamente, la scena ha funzione di “alleggerimento” (e forse anche di au-tocritica: Dante Poeta costringe Dante personaggio ad ammettere, fra lealtre cose – vedi confessione – la propria distrazione). Beatrice ha già ten-tato di mettere a suo agio Dante, ancora pieno di soggezione verso di lei,donna amata e beata, e già così severa nell’accusarlo di peccati gravi: gliha sorriso e si è rivolta a lui con un linguaggio non più enigmatico e quasiincomprensibile (cfr. vv. 46-47, 82-84), ma con un linguaggio quasi po-polare: con «parole nude» (cfr. vv. 94-102). Evidentemente Dante non hacapito, o non è riuscito ancora a vincere il proprio complesso di colpa edi inferiorità. E Beatrice ricorre allora all’ironia (in realtà autoironia delPoeta, sempre presente a se stesso); con maggior fortuna, si direbbe, per-ché da questo momento la narrazione procede speditamente verso il lietofine del canto, che è anche il lieto fine di tutto il Purgatorio.Degno di nota, poi, è che per la prima volta qui viene pronunciato il

nome di «Matelda»: quasi una “agnizione” finale nello stile della comme-dia classica. Ma a questo proposito si può aggiungere un’altra considera-zione. Con la rivelazione del nome della «bella donna», che ha guidatoDante a Beatrice nel Paradiso terrestre, si scioglie un mistero (Chi è la‘bella donna’? Qual è il suo nome?) protrattosi per sei canti. Nell’ultimo

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canto del Purgatorio, cioè, il Poeta (attraverso Beatrice) prima pone allettore un «enigma forte» col numero «Cinquecento diece e cinque» e poi(quasi a compensazione del primo) ne scioglie un altro, che ha portatoavanti astutamente lungo tutto il Paradiso terrestre, con tutti gli accorgi-menti che la retorica gli offriva (perifrasi, soprattutto, elegantemente va-riate secondo le circostanze). Se lo scioglimento del mistero del nome diMatelda avviene in forma di commediola (ma il mistero dell’identità sto-rica del personaggio resta, e resterà, irrisolto; a meno che non si voglia ri-conoscere che Dante, creando la figura di Matelda, abbia inteso creare unnuovo mito cristiano del Paradiso terrestre, in concorrenza con il mito pa-gano dell’età dell’oro, cantato da Ovidio nelleMetamorfosi, con il qualeperciò Dante si confronterebbe;12 e in tal caso ogni riferimento storico delpersonaggio Matelda sarebbe vanificato), il «Cinquecento diece e cinque»resta davvero un «enigma forte», vero e drammatico, e tale vuole restarefino al suo inverarsi nella storia; perché quella del «DXV» vuole essereuna vera profezia, in cui Dante Poeta, e cristiano convinto, crede vera-mente, perché «fede è sustanza di cose sperate / e argomento de le nonparventi» (Par. XXIV, 64-65), e Dante è certo che Dio, prima o poi, faràgiustizia di tutte le ingiustizie e nefandezze che vengono commesse sullaterra dai potenti, laici o ecclesiastici che siano.Ma riprendiamo la lettura dei versi, avviandoci alla conclusione.

E Beatrice: «Forse maggior cura,che spesse volte la memoria priva,fatt’ha la mente sua ne li occhi oscura.Ma vedi Eunoè che là diriva:menalo ad esso, e come tu se’ usa,la tramortita sua virtù ravviva».

(vv. 124-29)

La «maggior cura» può essere stata la visione apocalittica a cui Danteha appena assistito: Beatrice stessa l’aveva invitato a osservare lo spetta-colo con grande attenzione, perché avrebbe dovuto poi riferirne «in prodel mondo che mal vive», una volta «ritornato di là»; o può essere stato

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il trauma psicologico della confessione, a cui Beatrice stessa l’ha co-stretto. Non si può, d’altra parte, escludere che nelle parole di Beatrice cisia una lieve ironia all’indirizzo di Dante (sarebbe intonata al sottile spi-rito di commedia di cui abbiamo parlato); Vittorio Cian (1958: 670), peresempio, ipotizza che l’oblio di cui parla Beatrice sia dovuto «fors’anchealla presenza di lei, che aveva turbato fino al tremore il suo spirito, come,laggiù, in terra, e come, poche ore innanzi, allorché riconobbe i “segnidell’antica fiamma”». Escluderei, invece, che si svolga in queste terzine«una scena finissima di gelosia femminile» (Pietrobono) tra Beatrice eMatelda.Si apprende, poi, dall’invito che Beatrice rivolge a Matelda, che la

«bella donna» ha il compito specifico di guidare le anime, che giungonopurificate nel Paradiso terrestre, all’immersione nel Letè, prima, e nell’Eu-noè, dopo. Che l’Eunoè abbia la virtù di ravvivare il ricordo del bene com-piuto, dopo che il Letè ha cancellato il ricordo dei peccati, è stato già dettoa Dante, appunto, daMatelda in Purg.XXVIII, 127-29 (e non è certamenteun caso che il Poeta rievochi quelle parole in Purg. XXXIII, 127-29, cioèesattamente cinque canti dopo: là quasi all’inizio del viaggio nel Paradisoterrestre, qua quasi alla fine; Dante ama le simmetrie). Il rito dell’immer-sione nell’Eunoè, che sta per celebrarsi, non fa parte, stricto sensu, del ritodella Penitenza (conclusosi con l’abolitio peccati dell’immmersione nelLetè), ma ne costituisce come il naturale coronamento: è espresso, in formarituale, il positivo effetto spirituale che l’abolitio peccati determina sul pe-nitente. Come chiarisceAndrea Battistini (2007: 103), è lo stesso S. Tom-maso a precisare che alla Penitenza segue la «revivificatio virtutum acmeritorum». Dino S. Cervigni (1989: 193) precisa ulteriormente, semprecitando S. Tommaso: «Non solo il penitente può riacquistare “aliquidmaius” – una condizione superiore a quella precedente – ma può ancheriottenere le opere buone compiute in stato di grazia e poi ‘mortificate’ acausa del peccato». E Dante traduce, appunto, in rito le parole di S. Tom-maso: «opera prius mortificata […] recuperant efficaciam perducendi eumqui fecit ea in vitam aeternam: quod est reviviscere. Et ita patet quod operamortificata per poenitentiam reviviscunt» [le opere prima mortificate dal

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peccato […] recuperano l’efficacia di condurre colui che le ha compiuteverso la vita eterna: che è rivivere. E così è chiaro che le opere mortificaterivivono grazie alla penitenza] (Summa theologiae III, q. 4, a. 5). Nei versidi Dante sopravvive la parola di Tommaso: nell’invito che Beatrice rivolgeaMatelda, «la tramortita sua virtù ravviva», è chiara l’eco delle espressioni«revivificatio virtutum» e «opera prius mortificata recuperant efficaciam».E l’eco perdura negli ultimi quattro versi del canto.

Jacques Le Goff (1981: 404), che ha studiato in particolare la “nascita”del Purgatorio, commenta così l’immersione nell’Eunoè: «È la metamor-fosi definitiva della memoria, anch’essa mondata dal peccato. Il male è di-menticato, sussiste soltanto la memoria di quanto vi è di immortalenell’uomo, il bene. Anche la memoria ha raggiunto la soglia escatolo-gica».Ma forse si può leggere nelle parole di Beatrice e nell’immersionenell’Eunoè anche un altro significato, rapportandolo alla missione, e cioè:Dante dovrà comporre il suo poema con mente libera da ogni umano pre-giudizio, ricordando solo ciò che è bene verso Dio e verso gli uomini.

Come anima gentil, che non fa scusa,ma fa sua voglia de la voglia altruitosto che è per segno fuor dischiusa;così, poi che da essa preso fui,la bella donna mossesi, e a Staziodonnescamente disse: «Vien con lui».

(vv. 130-35)

Sembra di capire, da questi e dai precedenti versi, una maggiore auto-rità di Beatrice rispetto a Matelda. Il breve episodio va però inquadrato intutta la vicenda: il viaggio di Dante è voluto da Dio, che ha affidato aBeatrice l’incarico di organizzarlo e guidarlo; Matelda, ubbidendo in que-sto momento a Beatrice, ubbidisce a Dio. Non può esserci vera subalter-nità in cielo, se non a Dio; e Matelda è senz’altro, come Beatrice, creaturaceleste. La rappresentazione in forma di commedia rientra nel realismopsicologico a cui si ispira l’intero poema.

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S’io avessi, lettor, più lungo spazioda scrivere, i’ pur cantere’ in partelo dolce ber che mai non m’avria sazio;ma perché piene son tutte le carteordite a questa cantica seconda,non mi lascia più ir lo fren de l’arte.

(vv. 136-41)

Non è qui chiarito se Dante sia immerso da Matelda nell’Eunoè, comegià nel Letè, o se beva da sé l’acqua. Dalle parole di Beatrice e dal gestodi Matelda, che prende per mano Dante, si dovrebbe supporre che si ripetail rito dell’immersione come nel fiume della dimenticanza; ma non si puònon tener conto del fatto che sulla riva del Letè Dante era svenuto e cheMatelda era stata costretta a trascinarlo dentro le acque del fiume, a im-mergergli la testa nell’onda, perché ne bevesse, e ad aiutarlo a raggiungerel’altra riva. Qui Dante è del tutto cosciente e può quindi immergersi dasolo e bere l’acqua rigeneratrice, come fa Stazio: Matelda si limiterebbead accompagnarli sulla riva, «donnescamente». Quanto alla terzina 139-41, «pare proprio che Dante avesse determinato anticipatamente la lun-ghezza approssimativa di ogni cantica, assegnando a ciascuna un datonumero di carte, come poi, dalla composizione di molti codici, risulta chefecero spesso gli antichi trascrittori del Poema» (Scartazzini-Vandelli).Lo «fren de l’arte», comunque, allude alle norme retoriche (di equilibrio,di simmetria, di proporzione, ecc.) che regolavano le composizioni poe-tiche fin dall’antichità classica. Commenta Franco Lanza (1967: p. 1231):«L’appello di Dante al lettore qui viene pòrto su un piano di affettuosacondiscendenza, come un invito alla comprensione, una scusa per il largotratto del poema che viene contratto in sì breve spazio; […] ed è un mododiscreto di associare chi legge al compito profetico che il poeta si è as-sunto, di farlo partecipe d’un messaggio che riguarda lui come ogni vi-vente».

Io ritornai da la santissima ondarifatto sì come piante novellerinovellate di novella fronda,puro e disposto a salire a le stelle.

(vv. 142-45)

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Ricordi classici (soprattutto da Virgilio: Eneide VI, 205 ss.; XII, 788;Georg. III, 235) e biblici (soprattutto da S. Paolo: Ebrei 6, 6; Efes. 4, 23)e, come si è detto, della Scolastica, confluiscono ad arricchire il senso diquesti versi conclusivi del Purgatorio. Ma il riferimento più vicino è alla«pianta dispogliata» che «si rinovella» di foglie e fiori quando il grifonelega il carro al suo tronco (Purg.XXXII, 52-60): si ripete simbolicamenteper Dante personaggio il mistero della Redenzione operata da Cristo perl’intera umanità: la renovatio è pienamente attuata, il pellegrino dell’ol-tremondo è perfettamente riconciliato con Dio e può salire a Lui. Ma cipare anche che nella replicazione «novelle», «rinovellate», «novella» sipossa cogliere un’eco della Vita nova: come già nel libello giovanile, dopoil ritorno a Beatrice e la ‘mirabile visione’, Dante si sente rinascere a vitanuova («Incipit vita nova...»: diamo un’interpretazione un po’ diversa daquella tradizionale; più precisamente: mentre accettiamo il sintagma vitanova come titolo del “libello giovanile” (confermato del resto dallo stessoDante in Convivio I I 16), pensiamo che Dante, con il medesimo sintagma,alluda ad un suo nuovo modo di intendere la vita, dopo la ‘mirabile vi-sione’, sia come uomo e cittadino sia, soprattutto, come poeta), così ora,dopo aver bevuto l’acqua dell’Eunoè in presenza e per volontà di Beatrice,egli sente rinascere il proprio spirito ad una ancora più alta «vita nuova»,che gli spalanca le porte del Paradiso e della «mirabile visione» di Dio.È mezzogiorno nel Paradiso terrestre, dove Dante è giunto quella stessamattina all’alba, l’ora prima, secondo il calcolo antico-medievale. Frapoco Dante spiccherà il volo per il primo dei Cieli paradisiaci: quellodella Luna. Dante, dunque, rimane nell’Eden esattamente quanto vi ri-maseAdamo, come lo stesso nostro progenitore affermerà in Par. XXVI,139-42: «Nel monte che si leva più da l’onda, / fu’ io, con vita pura e di-sonesta, / da la prim’ora a quella che seconda, / come ’l sol muta quadra,l’ora sesta».Adamo fu cacciato dal Paradiso terrestre e non vi potè più tor-nare; Dante, invece, vi ritorna, grazie alla Redenzione, e vi ritorna da vivoper una speciale grazia dell’Onnipotente, che ha voluto fare di lui il poeta-profeta di una nuova era cristiana.

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NOTE

1Della terzina 10-12 (e di altri versi poco chiari di questo canto) è stata pro-posta una interpretazione piuttosto diversa da Peter Dronke. Scrive lo studioso:«Beatrice assume simbolicamente la parte di Cristo nel suo porgere la rivelazionee la redenzione a Dante. È a Dante (o alle virtù latenti in lui) che effettivamenteella si rivolge usando le parole di Cristo. Ella rimarrà in cielo ed egli dovrà tor-nare sulla terra per ricordare e tramandare le sue parole rivelate: in quel “poco”che Dante ha ancora da vivere non la vedrà, ma poi – come lei ha promesso – larivedrà e starà con lei per sempre (XXXII, 101-2). Esattamente allo stesso modo,nell’episodio narrato da Giovanni, Cristo promette ai discepoli un momento dipianto seguito da un tempo in cui “io vi vedrò di nuovo e il vostro cuore ne gioiràe nessuno vi toglierà la vostra gioia” ([Giovanni]16:22)» (Dronke 1990: 117).L’interpretazione del Dronke mi pare un po’ troppo ‘facile’, quasi una parafrasidei vv. 100-02 di Purg. XXXII, che non hanno certo bisogno di spiegazione. Hol’impressione che lo studioso non tenga conto delle parole del Salmo 79 [78]cantato dalle Virtù, parole alle quali Beatrice risponde («rispuose»), e che si ri-feriscono all’esilio babilonese (con evidente richiamo alla ‘cattività avignonese’del Papa e della sua corte, chiaramente allusa nei versi 148-60 di PurgatorioXXXII).

2 Guglielmo Gorni ricorda Ezechiele 2, 6: «Come già Ezechiele (“Tu ergo, filihominis, ne timeas eos, neque sermones eorum metuas … Verba eorum ne ti-meas, et vultus eorum ne formides” [‘Ma tu, figlio dell’uomo, non temerli, nonaver paura dei loro discorsi… Non temere le loro parole, e non lasciarti impres-sionare dalle loro facce’], Dante per compiere la sua missione, deve liberarsi daogni timore o rispetto umano» (Gorni 1990: 120). Michelangelo Picone interpretadiversamente il v. 33: «Già al v. 33 Beatrice invita Dante a passare dalla fase delsogno a quella della sua interpretazione, dalla visione avuta nel canto XXXII al-l’evidenziamento del senso da attribuire a quella visione» (Picone 2008: 90).

3 Totalmente diversa l’interpretazione di Michelangelo Picone, per il quale ilcarro non simboleggia la Chiesa, ma la poesia, e in particolare la storia della poe-sia di Dante, «dal libello giovanile al poema sacro della maturità, passando attra-verso la drammatica esperienza dell’esilio» (Picone 2008: 81); nei vv. 34-36,sostiene il critico, «Beatrice sta […] semplicemente e coerentemente parlandodella fine della poesia, dovuta all’attuale gravissima decadenza del mondo poli-

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tico e religioso. La “vendetta di Dio”, a cui Beatrice fa riferimento al v. 36, ri-guarda pertanto le persone e i fatti che hanno causato l’eclisse della poesia, l’im-possibilità di fare poesia in un mondo tralignato» (Picone 2008: 91). È inutileprecisare che non siamo d’accordo con Picone.

4Merita una spiegazione etimologica la parola «fuia». Il termine significa let-teralmente ‘ladra’, maschile «fuio», ‘ladro’ (cfr. Inf. XXII, 90, e Par. IX, 75),probabilmente dal lat. «fur», ‘ladro’ o *«fura», ‘ladra’: la meretrice è «fuia» per-ché ha occupato, quasi rubandolo e comunque usurpandolo, il luogo destinatoda Dio alla santa Chiesa (così che la sede pontificia è moralmente vacante). Maper Umberto Bosco la meretrice, simbolo della Chiesa corrotta, è «fuia» perchéè «una ladra del potere terreno, che spetta solo all’impero». Ma a proposito deivv. 37-45, ritengo utile citare le parole di un grande studioso di Dante, BrunoNardi: «Ristabilita l’universalità dell’impero, la chiesa sarà obbligata a rinunziarea ogni dominio terreno e potrà attendere in povertà ed umiltà alla sua missionepuramente spirituale e ad insegnare col suo esempio agli uomini il distacco daibeni caduchi, per rivolgere tutti i suoi desideri alla beatitudine dell’altra vita.Solo così torneranno a splendere i due soli che sono necessari a rischiarare agliuomini il duplice cammino: quello della felicità terrena e quello della beatitudineceleste. […] Disgiunta la spada dal pastorale e ristabilita l’indipendenza reciprocadel papato e dell’impero, la pianta edenica, dirubata una seconda volta, torneràa rinverdire e a germogliare come al momento della Redenzione per opera diCristo» (Nardi 19902: 278-79).

5 Ci sia consentito di rimandare ad una nostra ‘lettura’ del canto IX del Pur-gatorio, dove ipotizziamo che l’angelo «da ciel messo» di Inferno IX, 85, sia fi-gura simbolica della Divina commedia (Ciavorella 2008: 60-62). Vogliamo quiproporre l’ipotesi che anche il «Cinquecento Diece e Cinque» possa alludere allaCommedia? Non esattamente, anzi escluderemmo questa ipotesi, almeno comeallusione diretta. È possibile, invece, ammettere l’allusione indiretta, accettandol’identificazione del DXV con Arrigo VII, l’imperatore che accese in Dante lasperanza sia di un ritorno dall’esilio a Firenze («Se mai continga che ’l poemasacro…»; Par. XXV, 1) sia di una restaurazione della pace imperiale e cristiananel mondo occidentale (Epistola V, indirizzata «Universis et singulis Ytalie Re-gibus et Senatoribus…»). Di questa speranza (di cui si fa profeta Dante attraversol’investitura poetica conferitagli da Beatrice) si alimenta, e risuona, tutta la Com-media. E ne è come il simbolo la corona posta sul «gran seggio» della candida

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rosa su cui siederà l’imperatore «ch’a drizzare Italia / verrà in prima ch’ella siadisposta» (Par. XXX, 133-38).

6 Mazzamuto 19842 (ma cfr. anche Rembadi Damiani 2005). Giorgio Petroc-chi, nel suo testo critico (che noi in linea di massima seguiamo, ma non qui), ri-porta il numero tutto in lettere minuscole. Antonio Lanza riporta il numero conle iniziali maiuscole: “Cinquecento Diece e Cinque”; soluzione accettabile, di-remmo, essendo il riferimento a un nome proprio di persona non identificata (inAlighieri 19962: 530).

7Nota RobertWilson: «Se si ammette che l’aquila (v. 38), come in PurgatorioXXXII, è un simbolo dell’Impero romano, allora la prima parte della profezia (vv.37-39) deve con ogni probabilità riferirsi a un imperatore, l’erede dell’aquila.Per Dante, nel 1300, l’erede dell’Impero è assente, dal momento ch’egli consi-derava Federico II come l’ultimo Imperatore romano legittimo. È possibile, allora,che la profezia si riferisca all’incoronazione di Arrigo VII a Roma il 29 giugno1312» (Wilson 2008: 115 [traduzione nostra]).

8 Temi, Sfinge, Naiade sono personaggi mitologici, presenti nelleMetamorfosidi Ovidio, da cui quasi certamente Dante li deriva.Alla dea Temi, figlia di Uranoe della Terra, era consacrato, sul monte Parnaso, un santuario, dal quale eranoemessi oracoli particolarmente enigmatici (cfr.Metam. I, 347-415: mito di Deu-calione e Pirra). Sfinge era una mostruosa creatura biforme, con corpo di leonee busto di donna; appostata su una rupe lungo la strada che conduceva a Tebe(città vicina al monte Parnaso), poneva domande enigmatiche ai viandanti, e liuccideva se non sapevano rispondere; ma Edipo, figlio di Laio, re di Tebe, riuscìa dare la risposta giusta, e Sfinge, umiliata, si uccise gettandosi dalla rupe(Metam.VII, 759-65). Le Naiadi erano le ninfe delle sorgenti e dei fiumi, e anchedi queste narra Ovidio; ma Dante qui le cita erroneamente, perché, avendo untesto non corretto dell’opera di Ovidio, leggeva «Naiades» invece di «Laiades»(inMetam.VII, 759-60, dove il testo corretto è: «Carmina Laiades non intellectapriorum / solverat ingeniis» [Il figlio di Laio aveva risolto l’enigma che primanessuno aveva capito]; Dante invece leggeva: «Carmina Naiades non intellectopriorum / solvunt ingeniis»): ‘Laiade’, cioè “figlio di Laio”, era il patronimico diEdipo. Come Dante leggevano i suoi contemporanei (e tutti i commentatori dellaCommedia del Trecento), che, nel tentativo di dare una spiegazione plausibiledel testo scorretto di Ovidio, attribuirono alle Naiadi capacità interpretative deglienigmi, immaginando anche che esse suscitassero la gelosia di Temi, perché iTebani preferivano rivolgersi alle Naiadi, piuttosto che a lei. Quanto al v. 51, si

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allude alla vendetta di Temi per la morte-suicidio di Sfinge, causata da Edipo(«Naiade», per Dante): come narra Ovidio, Temi mandò contro i Tebani una belvaa divorare greggi e a devastare campi coltivati (Met. VII, 759-65 e oltre).

9 R. Wilson sente nel termine «enigma» un’“eco” della lettera di S. Paolo 1Cor. 13, 12: «Videmus nunc per speculum in aenigmate, tunc autem facie ad fa-ciem; nunc cognosco ex parte, tunc autem cognoscam, sicut et cognitus sum»[Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa («in aenigmate», da ae-nigma, -atis), allora vedremo faccia a faccia; ora conosco in modo imperfetto, al-lora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto]; e conclude: «Sesi accetta almeno una qualche allusione alla lettera di S. Paolo, si aggiunge un si-gnificato escatologico al verso di Dante e si propone un approccio interpretativoche accetta una comprensione incompleta ora, insieme con una promessa dipiena, diretta conoscenza quando la predizione sarà realizzata» (Wilson 2008:120 [trad. nostra]). La proposta di lettura di Wilson ci pare accettabile. Anchequi abbiamo preferito la lettura «sappi» diAntonio Lanza a quella «forse» di Pe-trocchi. Scrive Lanza: «L’asserzione di Beatrice non ha nulla di dubitativo: ilforse, quindi, è fuori luogo».

10 Degna di nota la precisazione di Kenelm Foster: «the notion of justice im-plies that of order – order in human society and in the cosmos and between cos-mos and its Creator. So much is traditional (see St Thomas, Summa theol., I a, 21,I ad 3)» [la nozione di giustizia implica quella di ordine – ordine nella societàumana e nel cosmo e tra il cosmo e il suo Creatore; vedi S. Tommaso Summaecc.] (Foster 1957: 45). Questa precisazione porta ad includere, nella spiegazionedi Beatrice, il riferimento alla visione apocalittica, nella quale l’ordine dellaChiesa, che è espressione della volontà divina, appare sconvolto dal progressivocorrompersi delle istituzioni politiche ed ecclesiastiche.

11Dino S. Cervigni ha chiarito, con puntuali citazioni della Summa theologiae(III, q. 89, a. 1-6), il significato teologico-penitenziale dei vv. 91-96: «È Dio chedistrugge o dimentica il peccato, secondo una terminologia metaforica comunealla Bibbia, alla scolastica e anche al testo poetico dantesco. […] Primo effettodunque della penitenza è la distruzione o dimenticanza del peccato da parte diDio: ciò che nell’esperienza di Dante pellegrino si verifica tramite l’immersionenel fiume Letè. Vale la pena notare a questo proposito che, mentre nella Bibbial’atto della dimenticanza viene attribuito a Dio, nella Commedia è Dante pelle-grino che dimentica il suo traviamento […]: non solo importante trasferimentod’una metafora dal creatore alla creatura, ma indice anche che Dante è stato pu-

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rificato del suo peccato e di ogni altro debito con esso connessso tramite l’ascesapurificante del Monte Purgatorio» (Cervigni 1989: 191). Aggiungeremmo unaprecisazione, per noi importante: la purificatio di Dante non è completa quandoegli giunge nel Paradiso terrestre dopo l’ascesa del Sacro monte; sarà completasolo dopo il rito sacramentale della confessione (che comporta piena contritiocordis e confessio oris, alle quali Beatrice costringe il pellegrino), e dopo l’im-mersione nel Letè (il momento della deletio peccati, ‘cancellazione del peccato’).Salendo il Purgatorio Dante non si ‘purifica’dei peccati (non c’è, appunto, deletiopeccati, e infatti non è sottoposto, se non simbolicamente, alle pene cui sono sot-toposti i veri penitenti), ma delle istintive tendenze ai diversi peccati (puniti neivari gironi), non controllate dalla ragione. Se così non fosse, sarebbero inutili siala confessione sia l’immersione nel Letè: non avrebbero, cioè, piena giustifica-zione i canti XXX-XXXI.

12 Su Matelda personaggio e sul mito dantesco del Paradiso terrestre ci permet-tiamo di rimandare a una nostra recente “lettura” del canto XXVIII del Purgato-rio: Ciavorella 2011.

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