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59 Dalla Commedia al Convivio: Catone e Casella ANTONIO GAGLIARDI Università di Torino In un’età segnata dai profondi mutamenti prodotti dall’ingresso nell’Occidente cristiano della filosofia greco-araba, un intellettuale come Dante, che vive ai margini delle istituzioni culturali ma si riconosce un’identità filosofica piena, si pone sulla frontiera tra conflitto e progetto partecipando, anche se virtualmente, della comune vita intellettuale e scontando fino in fondo le aporie di una controversia che non ha pronta alcuna sintesi efficace o conciliazione senza residui tra filosofia e cristianesimo. Le sue posizioni contraddittorie tra il Convivio e la Commedia sono il segno di un quadro instabile nel quale la divaricazione delle dottrine e delle coscienze è superiore a qualsiasi tentativo di conciliazione con il cristianesimo così come, dall’altra, di censura sulla posizione dei filosofi. Specialmente nel Convivio 1 (Gagliardi 1994), la prima opera delegata a trovare una soluzione efficace alla più dirompente dottrina averroista, la possibilità che l’uomo possa, in vita, giungere alla visione di Dio e alla beatitudine, sono evidenti gli atteggiamenti intellettuali più compromessi con la contemporaneità. Dante progetta soltanto con metodi e formule razionali cercando il sistema metafisico più adatto a impedire l’ascesa dell’uomo a Dio. La scienza filosofica diventa strumento di lavoro e fondamento della propria identità in una progettualità assoluta tra ordine del mondo e forma di coscienza. La sapienza profana offre una razionalità sufficiente e in sintonia col conflitto attuale. Il filosofo prende in consegna il cristiano e lo racchiude all’interno delle proprie prospettive. La crisi del Convivio e

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Dalla Commedia al Convivio: Catone e Casella

ANTONIO GAGLIARDI Università di Torino

In un’età segnata dai profondi mutamenti prodotti dall’ingresso nell’Occidente cristiano della filosofia greco-araba, un intellettuale come Dante, che vive ai margini delle istituzioni culturali ma si riconosce un’identità filosofica piena, si pone sulla frontiera tra conflitto e progetto partecipando, anche se virtualmente, della comune vita intellettuale e scontando fino in fondo le aporie di una controversia che non ha pronta alcuna sintesi efficace o conciliazione senza residui tra filosofia e cristianesimo. Le sue posizioni contraddittorie tra il Convivio e la Commedia sono il segno di un quadro instabile nel quale la divaricazione delle dottrine e delle coscienze è superiore a qualsiasi tentativo di conciliazione con il cristianesimo così come, dall’altra, di censura sulla posizione dei filosofi.

Specialmente nel Convivio1 (Gagliardi 1994), la prima opera delegata a trovare una soluzione efficace alla più dirompente dottrina averroista, la possibilità che l’uomo possa, in vita, giungere alla visione di Dio e alla beatitudine, sono evidenti gli atteggiamenti intellettuali più compromessi con la contemporaneità. Dante progetta soltanto con metodi e formule razionali cercando il sistema metafisico più adatto a impedire l’ascesa dell’uomo a Dio. La scienza filosofica diventa strumento di lavoro e fondamento della propria identità in una progettualità assoluta tra ordine del mondo e forma di coscienza. La sapienza profana offre una razionalità sufficiente e in sintonia col conflitto attuale. Il filosofo prende in consegna il cristiano e lo racchiude all’interno delle proprie prospettive. La crisi del Convivio e

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il salto nella Commedia mostrano l’efficacia delle alternative e il lavoro necessario per formare un diverso intellettuale cristiano.

Questi passaggi è necessario recuperare e il modo in cui Dante rende conto di se stesso nelle diverse fasi del cammino. La ricostruzione della sua vicenda intellettuale è possibile nel riscontro degli scarti di dottrina e nel modo in cui li verifica fornendo le prove di un’autocoscienza vigile. Nel momento in cui è possibile uno sguardo a ritroso sui propri trascorsi intellettuali, Dante marca il guado attraversato e mostra i contrasti personali e i conflitti storici in un confronto serrato tra gli elementi più vistosi delle dottrine e delle forme di coscienza. Il bisogno di riflettere su se stesso e di rendere conto delle variazioni denota anche il modo in cui considera le proprie scritture. Non c’è nulla di privato ma tutto il lavoro deve essere commisurato sulla intelligenza collettiva. C’è una storia interna che trova la ragione nella storicità degli impegni intellettuali e nel confronto vicendevole tra progetti in un mondo segnato dal conflitto. Le coordinate intellettuali personali sono gestibili soggettivamente soltanto se c’è un orizzonte storico in grado di fornire il punto di riferimento. Conflitti e differenze personali sono comprensibili se commisurati sui segni del tempo comune.

Nel passaggio dal Convivio alla Commedia questo bisogno di storicizzarsi diventa autoesegesi drammatica che impone delle scelte non soltanto intellettuali. Dante ha bisogno di far conflagrare il passato sul presente per trovare la chiave dell’errore e renderlo evidente. Una svolta drammatica mette in discussione il filosofo dell’opera precedente e impone un giudizio discriminante non più sull’adeguamento razionale delle costruzioni metafisiche. Il cristiano si libera delle gabbie filosofiche e si pone alla guida del cammino dell’uomo a Dio. La verifica avviene da un altro versante dal quale il giudizio su di sé deve coincidere con il giudizio di Dio, il Dio cristiano che condanna o premia offrendo se stesso come fine di beatitudine. L’uomo non può dipendere dall’ordine metafisico, all’interno di una razionalità che detta il modo in cui si realizzano i fini umani, così come non è

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possibile un’etica autonoma, estranea alla storia della redenzione, in grado di portare l’uomo oltre il velo della mortalità, nella città eterna dei giusti e dei beati. La Commedia pone prima di tutto il rapporto con un Dio che indica all’uomo le condizioni per raggiungere la beatitudine e Cristo come mediazione necessaria.

Per comprendere il Convivio e il suo rovesciamento speculare nella Commedia è necessario ricostruire il teorema averroista del desiderio della visione di Dio così come è esposto nel primo commento al secondo libro della Metafisica. Può l’uomo giungere alla visione di Dio in questa vita e attingere quella beatitudine che il cristianesimo promette nell’altra come attuazione della storia della redenzione? Averroè promette questa visione e la conseguente felicità. L’uomo può vedere Dio in questa vita perché ne ha il desiderio radicato nella propria natura. La natura nulla fa invano, in modo irrazionale e senza scopo. Per questo motivo quel fine può essere raggiunto.

[... ]quia comprehensio veritatis non est impossibilis in multis rebus credimus enim necessario nos scire veritatem in multis rebus. Et signum eius est quod habemus desyderium ad sciendam veritatem quoniam si comprehensio esset impossibilis; tunc desyderium esset ociosum et concessum est ab omnibus quod nulla res est ociosa in fundamento naturae et creaturae[...] (Aristotelis 1962:LII comm.2).

Per il filosofo la natura è sufficiente a indicare il fine dell’uomo e fargli trovare i mezzi per attuarlo. La razionalità della natura diventa la garanzia di un fine che soltanto Cristo può attuare per il cristiano.

Nel terzo trattato quel desiderio e il suo fine sono cancellati dalla prospettiva umana. Il modo in cui Dante corregge nel quarto trattato gli errori del terzo contiene un nodo irrisolto. Manca Cristo per il ritorno dell’anima a Dio e la via dei filosofi gentili esalta le capacità naturali e personali. L’allegoria di Catone e Marzia dimostra come l’anima ritorna a Dio soltanto con le proprie forze morali. Si tratta del

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rischio di un nuovo pelagianesimo, ripristinare le capacità naturali per una salvezza che il peccato di Adamo, secondo la storia cristiana, ha ormai abolito.

La Commedia contiene il Convivio e lo sottopone al proprio giudizio3. Ritornano le parole e i personaggi ma come estranei che devono rendere conto della loro estraneità. La continuità è in grado di rappresentare la differenza perché collocata in un’altra scena nella quale altri valori producono altri significati. La nuova recitazione delle dottrine cancella quella precedente e permette di discriminare secondo il nuovo cammino che Dante sta tentando per giungere alla visione di Dio. Soltanto un’ermeneutica differenziale può rendere conto della lingua interna alle due opere e del modo in cui Dante diventa giudice di se stesso attraverso il giudizio di Dio.

L’esperienza intellettuale del Convivio rimane per Dante l’orizzonte necessario di verifica nel momento in cui si guarda da un’altra sponda dopo aver esaurito tutte le illusioni di una via filosofica alla beatitudine. La filosofia non è in grado da sola di misurare i confini e le frontiere del divino e la strada che porta a una felicità intellettuale anche limitata. Il mutamento della prospettiva intellettuale conforma il filosofo al cristiano ponendo alle radici dell’escatologia della felicità la funzione salvifica della redenzione. Il cristiano giudica il filosofo e costruisce un altro cammino alla visione di Dio.

Il dialogo critico che Dante instaura con se stesso sulle esperienze trascorse trasforma in giudizio di Dio la propria coscienza cristiana. La tragedia del filosofo dinanzi alla catastrofe della logica conclusiva del terzo trattato può trasformarsi nella commedia del cristiano soltanto se verifica la pretesa di determinare i confini dell’umano e del divino. Può l’uomo sancire la fine del desiderio di Dio anche se per combattere un teorema filosofico estraneo alla prospettiva cristiana? Il fine ultimo sulla terra è per l’uomo il raggiungimento della perfezione intellettuale ottenibile per mezzo della scienza? Una volta negato il desiderio di vedere Dio il filosofo si

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chiude dentro la propria biblioteca in cerca di quella felicità che soltanto la scienza può dare. Dio viene obliato dietro la frontiera della Donna gentile. Per tutte queste ragioni è necessario rivisitare quelle categorie e dottrine che hanno portato allo scacco, tutte le logiche che hanno prodotto una conclusione insostenibile.

L’autore, diventato personaggio interno alla sua stessa opera, viene sottomesso alla prova di una nuova verità. Le categorie fondamentali (felicità, desiderio, scienza) con le quali Dante aveva costruito il teorema alternativo a quello averroista ora ritornano per costituire un’altra trama dottrinale sperimentata dal medesimo protagonista attraverso l’impatto drammatico con le leggi della salvezza e della dannazione. I sillogismi dimostrano la loro interna precarietà mentre il giudizio di Dio sulla dannazione e la salvezza non può essere manipolato da nessuna logica umana.

L’incontro con Catone, Casella e Belacqua, tutti gli eventi che si succedono ai piedi del monte sono in funzione della verifica personale. Dante ne è il vero destinatario per fargli prendere coscienza del peccato intellettuale e per aver sedotto alla contentezza intellettuale e al contenimento del desiderio di Dio chi, come Casella, si era lasciato convincere dai suoi sillogismi. Dante ha ancora tutto il tempo di correggersi mentre, per l’amico morto, il giudizio di Dio ha già prodotto la condanna e la pena.

La Commedia parla la stessa lingua del Convivio. La condizione purgatoriale scioglie l’ambiguità sottoponendo le parole e i fatti al giudizio di Dio. Rivivendo in figura, nello specchio dei trapassati, le proprie colpe, il viaggio di Dante diventa cammino di redenzione perché permette quel riconoscimento del peccato che è l’inizio della salvezza.

a) Catone e la virtù

La complessità del lavoro di verifica è visibile nel modo in cui Dante gestisce la figura di Catone in questo passaggio travagliato tra le

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due opere. Non tutto è da condannare dell’esperienza precedente ed è necessario un crivello in grado di scegliere. La dialettica tra i due tempi restituisce al presente una verità esente da errore.

Dante si trova nuovamente ai piedi del monte che porta alla felicità. Ma questa volta, rispetto al prologo dell’Inferno, la posizione è rovesciata. Non c’è più la lotta solitaria contro le passioni ma un atto di umiltà. L’atto di umiltà è duplice, uno del poeta e l’altro del protagonista.

Per correr miglior acque alza le vele omai la navicella del mio ingegno, che lascia dietro a sé mar sì crudele; (Purg. I, 1-3)

Le vele vengono alzate per accogliere il vento. Il vento che deve spingere la navicella rende evidente la debolezza dell’ingegno nell’affrontare il nuovo cammino. Dante poeta si abbandona all’aiuto divino per il proprio ingegno. Già in questa premessa si prendono le distanze da chi ha tentato di sperimentare il varco della trascendenza con un folle volo. Ingegno è termine strategico che già ha significato la capacità soggettiva di superare il confine tra i vivi e i morti. Cavalcante Cavalcanti chiede se è giunto là, nell’oltretomba, “per altezza d’ingegno” (Inferno, X). L’atto di umiltà si ripeterà nella recita del Pater noster per un uomo che non può giungere a Dio: “con tutto nostro ingegno” (Purgatorio, XI). Le simmetrie mettono in risalto il cammino dei filosofi contro la via cristiana dell’umiltà e della grazia divina.

All’atto di umiltà del poeta corrisponde quello del personaggio in cammino.

Venimmo poi in sul lito diserto, che mai non vide navicar sue acque omo, che di tornar sia poscia esperto.

Quivi mi cinse sì com’altrui piacque: oh maraviglia! ché qual elli scelse l’umile pianta, colta si rinacque subitamente là onde l’avelse. (ivi, I, 94-136)

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L’isola, come una fortezza, è circondata soltanto della pianta dell’umiltà e soltanto chi ne fa atto vi può approdare. L’ombra di Ulisse, il suo fantasma intellettuale, è ancora impigliato nelle parole e nelle immagini con le quali Dante descrive questi primi eventi dell’approdo. E’ possibile superare il confine tra l’uomo e Dio ma il ritorno non è assicurato come lo stesso Ulisse insegna. Soltanto chi si affida alla volontà di Dio, sottomettendosi totalmente a lui, può oltrepassare il confine tra l’umano e il divino. Tra le vele del poeta e i remi del folle volo di Ulisse c’è rovesciamento di immagine e viene meno l’atto di forza per attraversare il confine. Dio ha costruito intorno al purgatorio un muro di difesa, una trincea di simboli dell’umiltà, per tenere lontano il filosofo che tenta di approdare a quelle spiagge con un atto di forza e di superbia.

Questo doppio atto di umiltà ripete quello del Convivio. Al filosofo non si addice l’arroganza.

Per che vedere si può che questi due vocabuli fanno questo nome di “filosofo”, che tanto vale a dire quanto ”amatore di sapienza”: per che notare si puote che non d’arroganza, ma d’umilitade è vocabulo (III, XI, 5).

Questo primo atto di umiltà di Dante rende possibile l’ingresso nelle spiagge dell’espiazione. Qui la continuità salda il Convivio e la Commedia e l’umiltà dell’intellettuale si fonde con quella del cristiano. Su quest’umiltà è possibile traghettare da un’opera all’altra perché c’è un’unica coscienza intellettuale. L’umiltà ora ripara la superbia del filosofo Ulisse come nel Convivio era contrapposta a quella di ogni filosofo del tempo. Per Sigieri di Brabante l’umiltà non è una virtù.

L’incontro con Catone formula la differenza tra la capacità etica dell’uomo e la funzione salvifica della grazia. A quali condizioni l’anima cristiana può ritornare a Dio? E’ sufficiente la pratica della virtù? Dante rilegge le ultime pagine del Convivio e apporta le

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necessarie correzioni, fino al rovesciamento, attraverso la medesima allegoria. L’allegoria del ritorno dell’anima a Dio dopo gli errori della vita.

[...]Marzia tornò a Catone e richiese lui e pregollo che la dovesse riprendere [g]ua[s]ta: per la quale Marzia s’intende la nobile anima[....] tornò Marzia dal principio del suo vedovaggio a Catone, per che si significa la nobile anima dal principio del senio tornare a Dio. E quale uomo terreno più degno fu di significare Iddio, che Catone? Certo nullo[...]. Per queste due cagioni si muove la nobile anima; e vuole partire d’esta vita sposa di Dio, e vuole mostrare che graziosa fosse a Dio la sua creazione. Oh sventurati e mal nati, che innanzi volete partirvi d’esta vita sotto lo titolo d’Ortensio che di Catone! Nel nome di cui è bello terminare ciò che de li segni de la nobilitade ragionare si convenia, però che in lui essa nobilitade tutti li dimostra per tutte etadi (IV, XXVIII, 13-19).

Dietro l’allegoria di Marzia c’è tutto il quarto trattato del Convivio e il tentativo di definire la misura etica dell’esistenza per giungere al fine e alla fine della vita. Il filosofo Dante non tiene conto di Cristo quale mediazione necessaria per attraversare la soglia della vita e poter essere accolto nella città dei beati. Cicerone, Lucano e Aristotele sono i maestri dell’esistenza, della vita virtuosa e della buona morte.

“E qui è da sapere, che, sì come dice Tullio in quello De Senectute, la naturale morte è quasi a noi porto di lunga navigazione e riposo[...]così noi dovemo calare le vele de le nostre mondane operazioni e tornare a Dio con tutto nostro intendimento e cuore, sì che a quello porto si vegna con tutta soavitade e con tutta pace[...]. Onde Aristotile in quello De Iuventute et Senectute[...]. E che queste due cose convegnano a questa etade, ne figura quello grande poeta Lucano nel secondo de la Farsalia, quando dice che Marzia tornò a Catone[...] (ivi, 3-13).

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La seconda parte del quarto trattato è un trattato di etica che termina con la morte dell’uomo virtuoso. L’arco della vita disegna un cammino naturale che permette all’uomo di perseguire, secondo le varie età, un disegno morale che porta alla fine della vita. Anche Cristo (IV, xxiii, 10) si è assoggettato volontariamente all’ordine naturale e la sua morte ne è testimonianza. Un’idea forte di etica è capace di segnare la via che porta alla morte e nell’aldilà. L’uomo è solo dinanzi alla morte ma è forte della propria coscienza e questo gli permette di oltrepassare il mondo della finitezza. Dante ha disegnato alla fine del Convivio la morte del filosofo pagano non del cristiano.

Chi ben muore è ben vissuto. Il filosofo che riesce a regolare tutte le stagioni della vita ha il diritto ad essere ben accolto, nel momento in cui oltrepassa la soglia della trascendenza:

E così come a colui che viene di lungo cammino, anzi ch’entri ne la porta de la sua cittade, li si fanno incontro li cittadini di quella, così a la nobile anima si fanno incontro, e deono fare, quelli cittadini de la etterna vita; e così fanno per le sue buone operazioni e contemplazioni; ché, già essendo a Dio renduta e astrattasi da le mondane cose e cogitazioni, vedere le pare coloro che appresso di Dio crede che siano (IV, XXVIII, 5).

Dante ricorda i Campi elisi dove si possono trovare tutti i personaggi di alta levatura morale citati in precedenza e prelevati dalla letteratura e dalla mitologia precristiana.

Questa mancanza di Cristo ora Dante la ripresenta drammaticamente nell’allegoria di Marzia e Catone. Virgilio prega Catone di permettere il loro passaggio proprio in nome di Marzia, quella Marzia che ancora lo ama e gli chiede che la consideri sua. Dante è vivo e lui, anche se morto, non è tra i condannati per qualche peccato. Il suo posto è nel limbo, dove si trova anche Marzia.

Non son li editti etterni per noi guasti, ché questi vive e Minòs me non lega; ma son del cerchio ove son li occhi casti

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di Marzia tua, che ‘n vista ancor ti priega, o santo petto, che per tua la tegni: per lo suo amore adunque a noi ti piega.

Lasciane andar per li tuoi sette regni; grazie riporterò di te a lei, se d’esser mentovato là giù degni. (ivi, I, 76-84)

Virgilio è portatore di un messaggio d’amore da parte di Marzia. Lei chiede soltanto che Catone la consideri ancora come sua donna. Per questo amore dovrebbe accondiscendere ai loro desideri così riporterà alla donna un pensiero e un ricordo grato. Catone ricorda ma senza rimpianto perché ormai è diventato estraneo a ogni passione. Oltrepassato il confine dei viventi non c’è più piacere sensibile. In vita certamente lei ebbe tutto ciò che poteva esserle gradito ma ora c’è una frontiera invalicabile tra i due e non ci sono più sentimenti in grado di smuovere l’animo umano. Da quando un nuovo evento ha rifondato tutte le leggi e gli è stato permesso di abbandonare quel luogo non c’è più nulla in comune con lei. La separazione è totale ed è venuto meno anche il desiderio di vederla

“Marzia piacque tanto a li occhi miei mentre ch’i’ fu’ di là”, diss’elli allora, “che quante grazie volse da me, fei.

Or che di là dal mal fiume dimora, più muover non mi può, per quella legge che fatta fu quando me n’usci’ fora.

Ma se donna del ciel ti move e regge, come tu di’, non c’è mestier lusinghe: bastasi ben che per lei mi richiegge. (ivi, 85-93)

E’ avvenuto uno scambio. Se in cielo c’è una donna, come c’è, che governa e indirizza il viaggio di loro due, Catone non ha bisogno di essere lusingato e blandito. Questa donna del cielo ha tutto il potere. Ormai obbedisce soltanto agli ordini del cielo e non più alle ragioni del cuore. C’è un comando che discende dall’alto e viene riconosciuto

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senza che siano necessarie spiegazioni. Catone non può nominare Maria e Cristo direttamente.

La posizione di Marzia è uguale a quella di Virgilio. Come Virgilio è condannata al desiderio eterno di vedere Dio, quel desiderio “ch’etternalmente è dato lor per lutto”, comune a tutti quelli che risiedono nel limbo. Lei, però, è condannata due volte nel desiderio: nei confronti di Dio e di Catone, precedentemente unificati. Il teorema di Averroè diventa la legge del contrapasso per tutti gli uomini virtuosi vissuti prima di Cristo. Quell’anima non potrà mai più vedere né Dio né Catone e resterà con il suo desiderio senza fine.

La revisione del Convivio ha già trovato un termine di confronto. L’uomo non può ritornare da sé a Dio. L’anima umana guasta, per quanto nobile, non può partirsi e ritornare a Dio secondo un principio etico in lei innato, come nell’allegoria precedente tratta da un mondo precristiano. Ora c’è una diversa legge, la necessaria legge di Cristo, che salva e fa uscire Catone dal luogo senza speranza. Le ragioni della scelta sono insondabili, chiuse nella volontà divina che di per sé è inconoscibile.

Catone passa da un’opera all’altra per verificare la differenza dei progetti e delle assunzioni intellettuali. Ma anche lui deve scontare la sua pena. Passa dalla condizione di dannato a una promessa di beatitudine che sarà realizzata soltanto alla fine dei tempi. Potrà vedere Dio ma sarà l’ultimo ad abbandonare il purgatorio quando si chiuderà per tutti.

Il Catone della Commedia non è il medesimo di quello della parte finale del Convivio. Al Catone di Lucano, nella relazione con Marzia, succede quello di Seneca, l’eroe della libertà. Nei capitoli politici del quarto trattato già questo Catone si era affacciato brevemente: ”O sacratissimo petto di Catone, chi presummerà di te parlare?” (IV, v, 16). La ricerca della libertà, per la quale preferì perdere spontaneamente la vita, è il carattere proprio del Catone di Seneca. Le tante sue presenze nelle Lettere a Lucilio sono sempre

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segnate da questo bisogno di libertà trasferito nel sogno di libertà di Dante.

Libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta. (ivi, 71-72)

“Togli a Catone l’arma con cui rivendicò la sua libertà: gli toglierai una gran parte di gloria” (Ad Lucilium, II, 13,14). […] “Fino a oggi non ho lottato per la mia libertà, ma per quella della patria e non agivo con tanta determinazione per vivere libero, ma per vivere tra uomini liberi: ora, poiché la condizione del genere umano è disperata, possa Catone mettersi al sicuro” (ivi, III, 24, 7).4

Il “santo petto”, come lo apostrofa Virgilio, è citazione originaria del modo in cui Catone si dà la morte (“sacro illi pectori purissimas manus admoventem”). “Guarda Catone che porta al suo sacro petto le mani purissime e allarga le ferite troppo superficiali” (Ad Lucilium, VII, 67, 13).

Catone può entrare nella storia segnata dall’avvento di Cristo se, attraverso lui, si nega l’originarietà naturale di praticare la virtù in vista della beatitudine. La sua salvezza è un dono gratuito e non frutto delle sue virtù. Catone viene salvato, anche se suicida, per verificare un errore intellettuale di Dante. Anche se redento da un atto volontario di Dio rimane al limite della strada della salvezza come esempio di una negatività ancora riconoscibile sui limiti di praticare la virtù. C’è una soglia che deve essere oltrepassata e Catone è questa soglia tra la natura e la grazia.

L’immagine delle virtù etiche che risplendono sul volto di Catone rafforza questa situazione.

I’ mi volsi a man destra, e puosi mente a l’altro polo, e vidi quattro stelle non viste mai fuor ch’a la prima gente. ........................................................

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Li raggi de le quattro luci sante fregiavan sì la sua faccia di lume, ch’i’ ‘l vedea come ‘l sol fosse davante. (ivi, 22-24; 37-39)

Adamo ed Eva, la prima gente, ebbero le virtù etiche innate e nel paradiso terrestre la visione di Dio. Una volta commesso il peccato non fu possibile per loro e per tutti i loro discendenti una misura etica naturale in funzione della beatitudine. Catone viene illuminato dalla luce delle virtù poiché non sono più parte integrante della natura umana. L’illuminazione morale viene dall’alto e non fa parte della sua natura (Gagliardi 2001:28)5.

Adamo ed Eva, prima del peccato, è dubbio se avevano bisogno delle virtù naturali ma ora è Dante ad aver bisogno di ricostruire la condizione discriminante tra etica naturale e salvezza cristiana. Nelle terre settentrionali, quelle abitate dall’uomo, le virtù morali non agiscono direttamente perché non possono produrre la via della salvezza. Soltanto per Cristo, per l’azione salvifica della grazia, l’agire etico dell’uomo può ripristinare la conoscenza di Dio nell’altra vita.

Goder pareva ‘l ciel di lor fiammelle: oh settentrional vedovo sito, poi che privato se’ di mirar quelle. (ivi, 25-27)

La vedovanza della terra settentrionale è stata colmata dalla grazia divina. L’uomo non è più l’Adamo dell’innocenza originaria e per ritornare a Dio deve attraversare la devastazione prodotta dal proprio peccato.

L’infinita nostalgia di Marzia nei confronti di Catone e di Dio serve ad annunciare l’inanità del progetto di felicità intellettuale dei filosofi. La sua virtù può soltanto salvarla dalla pena infernale, come gli altri filosofi, ma non procurare felicità. Più di Catone è lei la protagonista occulta di queste scene iniziali della seconda cantica. Dietro lei e con lei c’è Virgilio, colui che può testimoniare di quel

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desiderio infinito di Dio, e, più lontano ancora, Ulisse, colui che tentò l’approdo a quelle spiagge praticando virtù e conoscenza.

b) Casella e la felicità

Se l’incontro con Catone rimette in discussione il problema della virtù e dei suoi limiti, si pone ora quello della felicità intellettuale. Si tratta di verificare il progetto sulla felicità, l’annullamento del desiderio di Dio e la costituzione di una felicità intellettuale sulla terra.

La digressione scientifica iniziale pone alcuni problemi. Sembra eccessiva l’esibizione di un sapere scientifico accompagnato da un abusato linguaggio poetico. Questo bisogno di scienza si potrà intendere meglio al termine del breve viaggio che porta all’ascesa del monte. Ma già appare il tema del desiderio e la sua funzione di anticipazione del cammino.

Noi eravamo lunghesso mare ancora, come gente che pensa a suo cammino, che va col cuore e col corpo dimora. (II, 10-12)

Il pensiero anticipa e il cuore spinge. Con l’immaginazione è possibile anticipare il termine del cammino mentre il cuore, con il desiderio, spinge verso quella direzione. La meta è il termine del pensiero e il desiderio di raggiungerla può essere ostacolato soltanto dalla pesantezza del corpo. Viene restaurato il desiderio del fine anche se taciuto nella sua oggettualità. La dimostrazione logica del Convivio è già cancellata da un atto naturale sorto dall’interno dell’uomo per i suoi bisogni di assicurasi sul senso del cammino e della meta finale. L’appuntamento con Casella, per volontà provvidenziale, avviene per ripensare il modo in cui già una volta quel desiderio è venuto meno impedendo il cammino verso Dio. Poi sarà Catone a ristabilirlo, sollecitando la ripresa della strada dopo la seduzione di una canto che fa sostare tutti all’ascolto.

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L’apparizione dell’angelo ripropone, come nel canto precedente, la differenza con Ulisse.

Vedi che sdegna li argomenti umani, sì che remo non vuol, né altro velo che l’ali sue, tra liti sì lontani. (ivi, 31-33)

Ulisse diventa la chiave dell’ermeneutica negativa della sfida dell’uomo, con l’immagine dei remi. Ma anche le vele dispiegate dal poeta per accogliere il vento sono inutili. Tutto ciò che è umano non serve a traghettare oltre la terra abitabile e giungere sulla spiaggia dove soltanto i morti degni della beatitudine vengono portati da una barca tanto leggera da sfiorare l’acqua.

Un primo indizio dell’oblio di Dio si può cogliere nel momento in cui le anime si rendono conto che Dante è ancora vivo. Il modo in cui guardano intensamente il vivente che cammina nella terra dei morti è indice della scissione che ancora le porta a interessarsi dell’evento strano piuttosto che richiedere a se stesse l’impegno totale per correre dove le attende la pena purgatoriale, la strada vera che le trasforma dalla bruttezza del peccato alla bellezza della gloria divina. O almeno Dante legge in questo modo la loro esitazione.

così al viso mio s’affisar quelle anime fortunate tutte quante, quasi obliando d’ire a farsi belle. (ivi, 73-75)

Dante anticipa il motivo conduttore di questo canto, la conoscenza e la scienza come oblio di Dio, in terra e, paradossalmente, anche nelle strade della trascendenza.

In questa nuova situazione di pellegrino per i territori dell’oltretomba c’è implicito un tribunale e un giudizio che vanno oltre i termini della consapevolezza intellettuale personale. La felicità prodotta dalla Donna Gentile è l’oggetto del giudizio e comporta una condanna simmetrica all’abbaglio di una contentezza che aveva portato

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ad accontentarsi di quanto veniva offerto dalla filosofia obliando Dio. Il giudizio si riversa in modo speculare su Casella, il compagno della stessa illusione intellettuale, colui che aveva messo in musica il pensiero di Dante.

Io vidi una di lor trarresi avante per abbracciarmi, con sì grande affetto, che mosse me a far lo somigliante.

Ohi ombre vane, fuor che ne l’aspetto! tre volte dietro a lei le mani avvinsi, e tante mi tornai con esse al petto.

Di maraviglia, credo, mi dipinsi; per che l’ombra sorrise e si ritrasse, e io, seguendo lei, oltre mi pinsi.

Soavemente disse ch’io posasse; allor conobbi chi era, e pregai che, per parlarmi, un poco s’arrestasse. (ivi, 76-87)

L’evidente teatralità della scena rappresenta la situazione dottrinale all’interno della forma immaginaria degli avvenimenti. Gli avvenimenti si integrano con i discorsi fornendo un unico piano nel quale la parola non può essere separata da ciò che succede. La vicenda personale di Casella in vita e la sua amicizia con Dante, l’aver musicato la canzone, la lunga attesa prima di poter approdare sulle rive del purgatorio, l’incontro e il dialogo sono tutti elementi di un’unica vicenda che si rappresenta a parole e a fatti. I fatti attuali confermano o smentiscono la verità precedente. Quella canzone cantata ora riproduce la stessa sospensione del tempo e del desiderio, la stessa felicità che aveva prodotto sulla terra, ma per essere condannate. Il Convivio viene nuovamente recitato e cantato su questa spiaggia perché Dio possa dettare le proprie condizioni e i peccatori espiino le loro colpe.

C’è un altro testo che funziona da strumento ermeneutico, l’Eneide. Virgilio non soltanto viene accomunato alla ripetizione della felicità intellettuale prodotta dal canto ma offre alcuni modelli per coglierne il senso e i suoi limiti. Anche lui entra nella scena come

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autore e come personaggio. Dante ha bisogno di trovare la misura precristiana della filosofia per farla conflagrare con la diversa via alla beatitudine cristiana. Continua la verifica tra l’universo dei filosofi contemporanei, regrediti alla condizione dei gentili, e quello cristiano. Si ripete la doppiezza del tempo di Catone e Marzia.

Il confronto pone una differenza fondamentale per far comprendere la venuta di Cristo sulla terra e la portata della redenzione. L’Eneide offre alcune situazioni che mettono in luce questa differenza nell’ambito dell’escatologia cristiana della salvezza. Già dietro l’immagine allusa di Ulisse che non seppe trovare la strada del ritorno si possono ascoltare le analoghe parole di ammonimento della Sibilla.

sed revocare gradum superasque evadere ad auras, hoc opus, hic labor est. Pauci, quos aequos amavit Iuppiter aut ardens evexit ad aethera virtus dis geniti potuere. (Eneide, VI, 128-131)

L’evidente imitazione virgiliana del vano abbraccio tra Dante e Casella, che si comportano come i gentili, li fa regredire in un tempo precristiano, il tempo dei gentili.

Ter conatus ibi collo dare bracchia circum, ter frustra comprensa manus effugit imago, par levibus ventis volucrique simillima somno. (ivi, 700-703)

L’ermeneutica per analogia funziona per significati paralleli. Questa regressione permette di interpretare la relazione antagonista tra il filosofo e il cristiano. Si ripete la differenza poiché i filosofi si comportano nell’oltretomba cristiano come in quello virgiliano. Cristo, per loro, non è ancora venuto (o è stato rifiutato) per una diversa beatitudine. Si costituisce un ulteriore livello critico che discrimina coscienza da coscienza, dottrina da dottrina, tempo storico da tempo storico.

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Nelle parole di Casella, appena riconosciuto l’amico, c’è disappunto nel costatare come le loro strade si incrociano e si divaricano. Per Dante il cammino attuale è il prologo di quello definitivo che deve portare a Dio per sempre (e indirettamente fa comprendere come la sua anima non sia sciolta ma ancora unita al corpo).

Rispuosemi: "così com’io t’amai nel mortal corpo, così t’amo sciolta: però m’arresto; ma tu perché vai?"

"Casella mio, per tornar altra volta là dov’io son, fo io questo viaggio", diss’io; "ma a te com’è tanta ora tolta? ". (ivi, 88-92)

Dante sa che Casella è morto da tempo e dovrebbe già trovarsi nel luogo di espiazione. La risposta dell’amico morto rende evidente come già una certa pena è stata scontata, la pena della sosta forzata dell’anima sulla terra e l’impossibilità di traghettare per esplicito divieto di Dio. In lui si manifesta la legge dello scambio tra tempo dell’attesa e tempo del peccato (Purgatorio, XXIII, 83-84).

Casella sconta, nella sosta sulla terra, la pena del contenimento del desiderio di Dio entro lo spazio di felicità offerto dalla filosofia. Aver abolito, come Dante, il desiderio di Dio per una contentezza terrena avendo accettato, come musico, la prospettiva dottrinale della canzone. Quella mancanza di desiderio viene scontata sulla terra come per i pagani che giacciono insepolti. Come per i pagani morti e insepolti la terra diventa un esilio mentre urge il desiderio della patria definitiva. La terra, per il cristiano, diventa il luogo della pena e non più della contentezza o felicità.

Ed elli a me:"Nessun m’è fatto oltraggio, se quei che leva quando e cui li piace, più volte m’ha negato esto passaggio;

ché di giusto voler lo suo si face: veramente da tre mesi elli ha tolto chi ha voluto intrar, con tutta pace.

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Ond’io, ch’era ora a la marina vòlto dove l’acqua di Tevero s’insala, benignamente fu’ da lui ricolto.

A quella foce ha elli or dritta l’ala, però che sempre qui si ricoglie qual verso Acheronte non si cala". (ivi, 94-105)

Anche qui è necessaria un’ermeneutica analogica. Casella viene punito come Palinuro insepolto. Come Palinuro desidera ardentemente traghettare oltre e non può fino a quando l’angelo non sarà autorizzato a farlo. Un altro pagano diventa la chiave per rappresentare l’analogia e la differenza tra la prospettiva filosofica e quella cristiana.

Haec omnis, quam cernis, inops inhumataque turba est; ............................................................................... Ecce gubernator sese Palinurus agebat, .......................................................... da dextram misero et tecum me tolle per undas, sedibus ut saltem placidis in morte quiescam’. (Eneide, VI, 325-371)

Casella può attraversare le acque oltre la terra mortale per la mano pietosa della chiesa come Palinuro per la mano pietosa di un uomo. Questa forma precristiana di contrapasso, restare fermo nel luogo del traghettamento senza poter salire sulla barca e giungere dove si può trovare la pace e la fine del desiderio, è la prima pena da scontare sulla terra. Nell’immobilità di Casella in attesa di giungere al luogo dell’espiazione e, quindi, alla beatitudine c’è un atto d’imperio divino che ha per oggetto il desiderio di andare oltre. Il desiderio del traghettamento sconta, in modo rovesciato, la negazione del desiderio di Dio e l’accontentarsi della felicità intellettuale. Quel desiderio di Dio, negato in vita, diventa lo strumento della punizione divina.

Questo desiderio è fatto proprio da Tommaso d’Aquino anche se spostato nell’altra vita per l’attuazione.

“L’ultimo fine dell’uomo esaurisce il suo desiderio naturale cosicché raggiuntolo non cerca altro: se infatti tendesse

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ad altro, non avrebbe ancora raggiunto il fine in cui quietarsi. […] Ora, un desiderio naturale sarebbe inutile, se non si potesse mai attuare. Perciò il desiderio naturale dell’uomo è attuabile. Ma non lo è in questa vita, come abbiamo dimostrato. Quindi è necessario che si attui dopo questa vita. Dunque l’ultima felicità dell’uomo è dopo questa vita”.6

In questo capitolo della Contra gentile c’è la sintesi di tutta la questione averroista ed è possibile verificare la diversità di Dante. Dante, per confutare il teorema averroista, sin dal principio dell’opera pone il fine dell’uomo, la felicità, soltanto nell’acquisizione della scienza nella quale c’è anche la perfezione umana.

“Sì come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano sapere. La ragione di che puote essere ed è che ciascuna cosa, da providenza di prima natura impinta, è inclinabile a la sua perfezione; onde acciò che la scienza è ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio siamo subietti”. (I, i, 1)

Il desiderio dell’uomo non va oltre il desiderio di conoscere e acquisire quella scienza che rende perfetti e felici. La scienza diventa il termine di tutti i desideri umani. Felicità e contentezza non sono sinonimi, come Dante scrive nel Convivio forzando il testo di Aristotele e adattandolo ai propri scopi.

“E la ragione è questa: che, con ciò sia cosa che ciascuna cosa naturalmente disia la sua perfezione, sanza quella essere non può [l’uomo] contento, che è essere beato [...]” (III, xv, 3).

Dante usa contento come sinonimo di felice. In realtà in Aristotele non è così. La contentezza è relativa, si è contenti di qualche cosa, mentre la beatitudine o felicità è un assoluto nel determinare il fine ultimo e la fine del desiderio umano, così com’è nel primo libro dell’Etica Nicomachea. C’è una strategia linguistica e Dante crede di

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poter governare le parole e adattarle al proprio progetto limitando una felicità che, per i filosofi, deborda oltre il limite dell’umano.

Ora ne viene offerta la prova. Quando il desiderio di Dio urge per ricongiungersi a lui nell’eterna felicità dei beati, dopo aver scontato la pena, l’essere contenuto, per costrizione, in un luogo è situazione speculare dell’accontentarsi. La sosta forzata diventa la pena inflitta da chi, Dio, quel desiderio ha dato all’uomo come pegno e strumento del ritorno a sé. Può essere la terra luogo della contentezza e sinonimo di una beatitudine limitata dal non avere Dio come proprio oggetto? Soltanto il giubileo indetto dalla chiesa ha potuto porre termine al divieto divino. Casella ha già in parte espiato una condanna, sulla terra, per un peccato veniale la cui pena può essere rimessa interamente per la mediazione delle preghiere e delle indulgenze.

Sotto il giudizio della condanna divina è Amor che nella mente mi ragiona, gli effetti nefasti che ha provocato, nell’autore e negli altri, e quelli che ancora può provocare. Viene condannata la canzone e il commento con i suoi sofismi e il progetto che su quei sofismi Dante aveva fondato. La sua ripresentazione ripete drammaticamente il confronto tra la piccola felicità intellettuale del filosofo e la cristiana beatitudine. Anche tutti i presenti vengono contagiati dalla canzone. Casella prende il posto di Dante per espiare la pena di quel peccato commesso in sintonia intellettuale, uno come poeta e l’altro come musico.

Ora le paroleri compongono la storia interna e ritrovano l’altro testo, il testo da cancellare. Questa situazione è sinteticamente racchiusa nella parola pace. Pace (o quiete) è l’estinzione del desiderio perché realizzato (Etica Nicomachea, I). C’è pace quando non si desidera più. Chi è in pace è felice, chi è costretto a desiderare, di desiderio sensibile o intellettuale, è fuori la beatitudine o felicità.

Casella è la rappresentazione di una seduzione intellettuale che ritorna provvidenzialmente sulla strada del cammino a Dio per riscrivere un canto che da Dio ha allontanato.

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E io:”Se nuova legge non ti toglie memoria o uso a l’amoroso canto che mi solea quetar tutte mie voglie,

di ciò ti piaccia consolar alquanto l’anima mia, che, con la sua persona venendo qui, è affannata tanto!”. (ivi, 106-111)

Anche qui è necessario fare attenzione alle parole e svolgere tutto il potenziale significativo. Sono tre i termini da svolgere. Prima “l’amoroso canto” e poi “quetar tutte mie voglie” e “consolare”. Si tratta, nel primo caso del significato di amore così come è dato dal Convivio (III, XII, 2-3). Amore è studio e il canto d’amore è canzone intellettuale.

Nell’altro caso c’è la definizione aristotelica di felicità in “quetar tutte mie voglie”, l’appagamento di tutti i desideri e non aver niente altro da desiderare, come precedentemente pace. La beatitudine provocata da questa donna, scienza o filosofia, è stata effettivamente l’ultima felicità così come viene detto all’inizio del Convivio. Nel “solea” c’è la memoria di un evento trascorso. Dante effettivamente ha provato in terra l’appagamento di ogni desiderio, la felicità. Questo è stato possibile nell’oblio del desiderio più alto, quello di Dio.

Ora Dante richiede soltanto consolazione e non felicità, diminuzione di uno stato di afflizione e di angoscia. L’anima ha bisogno di essere consolata perché sente il peso del corpo e l’affanno del peccato. Dante sceglie quella consolazione sulla memoria di una precedente esperienza.

“Tuttavia, dopo alquanto tempo, la mia mente, che si argomentava di sanare, provide, poi che né ‘l mio né l’altrui consolare valea, ritornare al modo che ciascuno sconsolato avea tenuto a consolarsi [...]io, che cercava di consolarme, trovai non solamente a le mie lagrime rimedio, ma vocabuli d’autori e di scienze e di libri: li quali considerando, giudicava bene che la filosofia, che era donna di questi autori, di queste scienze e di questi libri, fosse somma cosa (II, XII, 2-6).

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Questa consolazione è in sintonia con la funzione consolatrice della filosofia così come viene definita da Boezio. La filosofia aveva consolato e ora viene richiamata, tramite la canzone, a ripetere quell’atto. L’uomo affannato può ricorrere alla filosofia per sollevarsi dal peso dell’esistenza. Il dualismo tra anima e persona rende evidente quella spiritualità esistenziale che nella conoscenza e nella scienza trova una parziale realizzazione.

La filosofia può consolare ma non può offrire la pace, la fine di ogni desiderio, compreso il desiderio di Dio, e la felicità.

Casella canta e riproduce non solo quella consolazione esistenziale ma anche tutti gli effetti della situazione dottrinale.

‘Amor che ne la mente mi ragiona’ cominciò elli allor si dolcemente, che la dolcezza ancor dentro mi suona. (ivi, 112-115)

Si tratta del momento centrale della rappresentazione. L’intonazione della canzone riproduce la dolcezza. La dolcezza è principio estetico, fondato sulla sensibilità, il gusto, complemento antitetico dell’amarezza per significare il dolore e tutta la fenomenologia negativa della sensibilità, specialmente nell’amore. La lingua diventa ambiguamente lo strumento della parola e del gusto. L’estetica dei poeti diventa il linguaggio di ogni esperienza positiva o negativa, dolce o amara, e il piacere, anche intellettuale, si può chiamare dolcezza per analogia.

La dolcezza rimane anche dopo il ritorno di Dante dal suo viaggio. La dolcezza sperimentata tramite la filosofia non ha ostacolato il cammino a Dio. La dolcezza e la consolazione non sono contrarie alla beatitudine cristiana. Se l’amore della filosofia, però, blocca ogni altro desiderio, come il desiderio di Dio, è venuta meno la vera prospettiva cristiana.

“E da questo imaginare cominciai ad andare là dov’ella si dimostrava veracemente, cioé ne le scuole de li religiosi e a le

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dispute de li filosofanti; sì che in picciol tempo, forse di trenta mesi, cominciai tanto a sentire de la sua dolcezza, che lo suo amore cacciava e distruggeva ogni altro pensiero”.(II, XII, 7)

Le ultime parole affermano il carattere esclusivo di questo amore e la negazione di ogni altro pensiero. La filosofia è realmente in grado di assorbire tutti i desideri umani, “quetar tutte mie voglie”. La dolcezza non cade sotto la condanna e può essere ancora goduta e ripetuta sulla terra. La dolcezza ha superato l’esame del peccato e della pena e la continuità dell’esperienza dimostra che il progetto di dolcezza contenuto nella canzone può essere una conquista in consonanza con i principi cristiani. Non è stata la dolcezza ma la contentezza e l’amore esclusivo, il contentarsi della felicità prodotta da essa a provocare l’interruzione tra l’uomo e Dio.

Certamente c’è analogia con il testo della canzone(e quindi con il commento):“Lo suo parlar sì dolcemente sona,” ma conta soprattutto la continuità tra l’esperienza dell’aldilà e il tempo dell’esistenza dopo aver visto Dio. Anche in questo caso la dolcezza della visione rimane nell’interiorità come sigillo di quell’esperienza irripetibile ad essere vivente. Dante ha visto Dio e la felicità di quella visione continua dentro la propria sensibilità addolcendo l’inquietudine del cuore.

cotal son io, ché quasi tutta cessa mia visione, ed ancor mi distilla nel core il dolce che nacque da essa. (Paradiso, XXXIII, 61-63)

La Donna Gentile viene scissa nelle sue componenti e la contentezza, l’accontentarsi della felicità prodotta da lei, viene espulsa dalla prospettiva cristiana, nella via verso la nuova beatitudine.

Lo mio maestro e io e quella gente ch’eran con lui parevan sì contenti, come a nessun toccasse altro la mente. (Purg., 115-117)

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Quella contentezza è soltanto illusoria, apparente immagine della beatitudine. Tutti i presenti partecipano della seduzione intellettuale della canzone come se la loro mente fosse sgombra da qualsiasi altro pensiero. Ora quell’ ”altro”, nella sua abissale reticenza, pone l’attenzione su quale altro dovrebbe essere il pensiero di chi è appena sbarcato sulle rive del purgatorio. Invece si riproduce esattamente la stessa situazione intellettuale della canzone e del commento, l’oblio di Dio perché è venuto meno il desiderio di giungere fino a lui per attingere la vera beatitudine.

E’ il punto nodale del Convivio ed è necessario ricostruire il piano linguistico originario, la dialettica di contentezza e desiderio. La dialettica si riproduce in questo spazio del purgatorio nel quale i personaggi vengono posti scenicamente per verificare l’originarietà salvifica del desiderio di Dio e come non può esserci alcuna contentezza sulla terra che esaurisca tutti i desideri dell’uomo.

La mente, cioè l’intelletto, dell’uomo è il luogo proprio della felicità. C’è una felicità intellettuale che si ottiene per negazione di ogni piacere sensibile. La perfezione diventa il fine massimo di ogni cosa e dell’uomo e a questo fine anche il desiderio si deve fermare.

“Dove è da sapere che ciascuna cosa massimamente desidera la sua perfezione, e in quella si queta ogni suo desiderio, e per quella ogni cosa è desiderata. E questo è quello desiderio che sempre ne fa parere ogni dilettazione manca; ché nulla dilettazione è si grande in questa vita che a l’anima nostra possa torre la sete, che sempre lo desiderio che detto è non rimanga nel pensiero”.(III, VI, 7).

Nel capitolo ottavo, dopo aver ricostruito l’universo neoplatonico e avervi inserita la Donna Gentile, pone l’essere contento nel significato di essere felice o beato.

“E dico che ne lo suo aspetto appariscono cose le quali dimostrano de’ piaceri [di Paradiso]. E intra li altri di quelli, lo più nobile, e quello che è inizio e fine di tutti li altri, si è

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contentarsi, e questo si è essere beato; e questo piacere è veramente, avvegna che per altro modo, ne l’aspetto di costei. Ché, guardando costei, la gente si contenta, tanto dolcemente ciba la sua bellezza li occhi de’ riguardatori; ma per altro modo, ché p<u>r lo contentare in Paradiso è perpetuo, che non può ad alcuno essere questo”. (III, VIII, 5).

L’uomo deve trovare la propria felicità ultima nella scienza e non varcare con il desiderio il limite costituito dalla Donna Gentile. Questo confine non è attraversabile neanche dall’amore per Dio. La filosofia rimane l’oggetto vero dell’amore mentre spetta a Dio di assimilare, riportare a sé, questo amore.

“Così dico che Dio questo amore a sua similitudine reduce,quanto esso è possibile a lui assimigliarsi”. (III, XIV, 3).

La trascendenza e l’inaccessibilità di Dio sono totalmente assicurate. Dio rimane inaccessibile sia dall’amore che dal desiderio di conoscenza. L’amore di Dio giunge soltanto fino alla filosofia e soltanto Dio può renderlo simile a sé. Poiché l’amor Dei è soltanto intellectualis soltanto la sapienza allegorizzata riesce a trasmettere tutte le tensioni dell’uomo al divino impedendogli nello stesso tempo di ascendere personalmente.

Posta tra l’uomo e Dio, la sapienza, è in grado di far partecipare quel tanto di luce divina quanto è possibile alla natura umana di sopportare. La terra è il luogo nel quale si può realizzare la felicità e la perfezione intellettuale anche se in modo limitato ma può diventare esclusivo se la cancellazione del desiderio di Dio coincide con l’oblio di Dio. Per Dante il desiderio ha termine nel conseguimento della perfezione intellettuale personale.

“E in questo sguardo solamente l’umana perfezione s’acquista […] tanto cioè che l’uomo, in quanto ello è uomo, vede terminato ogni desiderio, e così è beato”. (ivi, XV, 4).

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Come si può vedere Dante usa sempre in modo sinonimico felicità, contentezza e beatitudine. Alla perfezione intellettuale consegue la beatitudine perché l’uomo ha attuato ogni proprio desiderio e non ha altro da desiderare. Il confine tra l’uomo e Dio si è realizzato all’interno stesso dell’uomo, nell’ambito di questa perfezione intellettuale oltre la quale viene meno ogni altro desiderio. Acquisito l’abito della sapienza l’uomo è totalmente realizzato, ha raggiunto la perfezione, e può vivere felicemente dentro i confini della propria biblioteca senza nessun altro desiderio.

“[Essere felice] per l’abito della sapienza seguita che s’acquista, e “felice [essere”]è “essere contento”, secondo la sentenza del Filosofo. Dunque si vede come ne l’aspetto di costei de le cose di Paradiso appaiono”. (ivi, 5).

Questo è il quasi paradiso dei filosofi costruito sulla terra. L’uomo non può conoscere Dio e le sostanze separate in vita, così come vuole Averroè, perché viene abbagliato dalla loro luce.

“Dov’è da sapere che in alcun modo queste cose nostro intelletto abbagliano, in quanto certe cose affermano essere, che lo ‘ntelletto nostro guardare non può, cioè Dio e la etternitate e la prima materia”. (ivi, 6).

Può sorgere il dubbio come l’uomo possa essere felice senza giungere alla conoscenza del divino, secondo il teorema averroista. La risposta di Dante riformula il limite tra l’uomo e Dio nella natura umana.

“A ciò si può chiaramente rispondere che lo desiderio naturale in ciascuna cosa è misurato secondo la possibilitade de la cosa desiderante: altrimenti andrebbe in contrario di sé medesimo, che impossibile è: e la natura l’avrebbe fatto indarno, che è impossibile.[…] Avrebbelo anco la Natura fatto indarno, però che non sarebbe ad alcun fine ordinato”. (ivi, 9).

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Il desiderio di Dio è sproporzionato alla misura della natura umana. La ragione naturale, come per Averroè ma rovesciandone la conclusione, fornisce la motivazione per limitare il desiderio di Dio. La misura di ogni desiderio umano diventa la scienza e la capacità umana di conseguirla. Il desiderio di Dio viene equiparato all’errore di natura. Un limite analogo è insito nella natura angelica e in quella dei santi.

“E però l’umano desiderio è misurato in questa vita a quella scienza che qui avere si può, e quello punto non passa se non per errore, lo quale è si fuori di naturale intenzione. E così è misurato ne la natura angelica, e terminato, in quanto, in quella sapienza che la natura di ciascuno può apprendere. E questa è la ragione per che li Santi non hanno tra loro invidia, però che ciascuno aggiunge lo fine del suo desiderio, lo quale desiderio è con la bontà de la natura misurato. Onde, con ciò sia cosa che conoscere Dio e di certe altre cose quello esse sono non sia possibile a la nostra natura, quello da noi naturalmente non è desiderato di sapere. E per questo è la dubitazione soluta”. (ivi, 9-10).

Dante nega il desiderio naturale di conoscere Dio ed ha bisogno di una legge naturale universale per legittimarlo. La Donna Gentile, posta tra Dio e l’uomo, prende il posto di Dio in quanto fine e storna da lui quel desiderio che era sembrato lo strumento per oltrepassare i limiti dell’umano. Sulla terra e nella sapienza si realizza la contentezza, la beatitudine intellettuale. Contentarsi di questa beatitudine è contenersi, restare al di qua del limite posto tra l’uomo è Dio.

Ora, nell’esperienza di Casella, il peccato ha posto un limite invalicabile. La pena ripristina il desiderio facendo sperimentare sia la momentanea beatitudine provocata da quella canzone sia la riattivazione del desiderio della vera felicità. Nell’incontro con Casella il sillogismo della contentezza viene messo in discussione facendo provare a Dante, per interposta persona, cosa significa dover sostare per decreto divino mentre urge il desiderio dell’altra sponda.

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Quella contentezza si riproduce ora teatralmente facendo sostare anche quelli che si avviano alla beatitudine. Non solo Dante ma tutti quelli che sono scesi dalla barca, e Virgilio, si fermano per ascoltare. La seduzione della felicità intellettuale della filosofia si dimostra oltremodo carica di conseguenze inquietanti se i suoi effetti possono giungere fino al purgatorio e fare sostare, anche se per poco, cancellando il desiderio della vera beatitudine, la visione di Dio.

Il teorema centrale del Convivio da questo mondo rovesciato si dimostra nella sua pochezza di fronte al compito che si era attribuito. Se poteva servire come trappola per la dottrina di Averroè si è dimostrato più negativo nei confronti di Dio. Dio non giudica l’efficacia dei sillogismi ma la capacità dell’uomo di raggiungere il fine ultimo. La sospensione del desiderio di Dio fa intravedere il limite di ogni progetto umano che non tiene conto della relazione originaria tra uomo e Dio.

Straordinario è ciò che avviene a Virgilio. Anche lui si ferma ad ascoltare come se fosse momentaneamente sospesa la pena del desiderio eterno. Anche lui per un attimo ha la possibilità di provare il compimento del desiderio, la felicità intellettuale quale sostituto della beatitudine divina. Ma per lui non ci sono alternative. La felicità intellettuale è effettivamente in grado, sulla terra e sulla via della liberazione, di esaudire ogni desiderio e produrre un quasi paradiso. Dante non ha altri strumenti che sospendere l’assoluto della trascendenza e porre una temporalità ambigua nella quale anche Virgilio può commettere un errore. Non un peccato ma una leggera omissione assieme a tutti le altre anime. Com’è possibile rappresentare nell’oltretomba la sospensione del desiderio di Dio? Tutto il canto sembra uscire dall’ordine della trascendenza per permettere una rappresentazione differenziata, recitazione e teatro, di ciò che è successo sulla terra e che potrebbe ancora succedere. Se la seduzione intellettuale è così potente con i trapassati tanto più è pericolosa con i vivi.

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Virgilio trova nel canto di Casella la sospensione del desiderio di vedere Dio, la sospensione momentanea della pena. Il paradosso divide Virgilio da Dante. Ciò che per Dante è peccato e ripetizione di un peccato, diventa per Virgilio beatitudine riflessa. Per Virgilio che “tutto seppe” (Inf., VII, 3) e ha realizzato le condizioni, secondo Averroè, per raggiungere la visione di Dio, la felicità intellettuale prodotta dalla canzone è il massimo a cui può aspirare. Non oblio di Dio, come per gli altri, ma sospensione del desiderio infinito di Dio dato a lui come pena. La piccola felicità intellettuale può surrogare per un istante la mancanza della grande felicità. Il paradosso di Virgilio serve a misurare il relativo peccato degli altri che ascoltano Casella.

L’irruzione di Catone sulla scena interrompe l’estasi di questa momentanea felicità.

Noi eravamo tutti fissi e attenti a le sue note; ed ecco il veglio onesto gridando: “Che è ciò, spiriti lenti?

qual negligenza, quale stare è questo? Correte al monte a spogliarvi lo scoglio ch’esser non lascia a voi Dio manifesto”. (Purg., II, 118-123)

Quella fissità (come le anime appena sbarcate) e attenzione mostra il grado dell’oblio e l’esclusiva adesione alle parole e alla musica. Il rimprovero sulla sosta e sull’abbandono del fine mette in risalto la situazione prodotta dalla canzone. Costoro hanno dimenticato qual è il vero fine da conseguire: purificarsi per poter vedere Dio. La negligenza del fine e il sostare perché sedotti da un momentaneo piacere ha già prodotto un danno, ritardando il cammino. Questa piccola felicità ha in sé già la pena implicita. La beatitudine è vedere Dio nell’altra vita dopo essersi liberato della vecchia pelle (per i tanti significati di scoglio, Muresu 2001:22-23) del peccato.

L’implicazione di Catone riporta ancora il senso del suo privilegio ambiguo. Catone incita gli altri a iniziare il cammino per lui impossibile perché il suo ufficio di custode gli permetterà di ascendere

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alla visione di Dio soltanto alla fine dei tempi. Il suo desiderio di Dio non rimarrà eterno come quello di Virgilio. Il desiderio di un Dio che lo ha posto sulla strada della beatitudine, sollecita negli altri la voglia di accellerare il cammino.

La similitudine successiva rovescia l’ordine del desiderio e l’oblio delle colombe, attardate al cibo, diventa la misura di questa negligenza del fine vero.

Come quando, cogliendo biado o loglio, li colombi adunati a la pastura, queti, sanza mostrar l’usato orgoglio,

se cosa appare ond’elli abbian paura, subitamente lasciano star l’esca, perch’assaliti son da maggior cura;

così vid’io quella masnada fresca lasciar lo canto, e fuggir ver’ la costa, com’om che va, né sa dove riesca;

né la nostra partita fu men tosta. (ivi, 124-133)

L’ermeneutica parallela delle colombe porta sulla scena purgatoriale l’immagine sintetica sul diverso desiderio dell’uomo. Le colombe devono scegliere tra la quiete (il desiderio o appetito realizzato, sinonimo di felicità) del pasto e la paura improvvisa provocata da un estraneo. Le anime devono scegliere tra la quiete prodotta dalla canzone e la paura di perdere la beatitudine promessa. Il rovesciamento tra il fine vero e il pasto rappresenta il rifiuto di quel convito di sapienza apprestato nell’opera precedente e che ora appare soltanto una sosta che può mettere a rischio il fine ultimo dell’uomo, la conoscenza di Dio.

Una verifica della differenza tra contentezza e beatitudine si ha all’inizio della Commedia, quando Virgilio spiega a Dante il cammino che l’attende prima per i luoghi della punizione eterna e poi per quelli di quella transitoria per giungere, alla fine, al regno dei beati.

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e vedrai color che son contenti nel foco, perché speran di venire quando che sia a le beate genti. (Inf., I, 118-120)

Nella Commedia le parole ritornano al loro significato vero. La contentezza purgatoriale è relativa sia alla punizione eterna dei dannati che alla beatitudine dei salvati. Il purgatorio è il luogo della contentezza, anche in mezzo al fuoco purificatore, mentre la beatitudine è altrove.

c) Belacqua, la prova dell’ironia.

La reazione di Virgilio alle parole di Catone è la più emblematica. Dante legge in Virgilio la propria fretta e la propria coscienza.

El mi parea da sé stesso rimorso: o dignitosa coscienza e netta, come t’è picciol fallo amaro morso!

Quando li piedi suoi lasciar la fretta, che l’onestade ad ogn’atto dismaga, la mente mia, che prima era ristretta,

lo ‘ntento rallargò, sì come vaga, e diedi ‘l viso mio incontr’ al poggio che ‘nverso ‘l ciel più alto si dislaga. (Purg., III, 7-15)

Dopo il breve incantesimo della canzone viene ripristinato il

desiderio. La mente che si era chiusa su se stessa, ora si riapre al desiderio e alla intenzione ultima. Esaurite le forze catturanti dei fantasmi antichi, compiuta la redenzione dell’infausto teorema filosofico, il desiderio si ripresenta ai piedi del monte a misurare l’intenzione di raggiungere il fine.

Dopo aver rivissuto il proprio tempo intellettuale e aver scontato, per interposta persona, la seduzione e la pena, Dante chiude con il suo passato di filosofo della felicità intellettuale. Rimane ancora

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per queste strade che portano verso la cima del monte la tentazione della scienza. La curiosità di sapere non è terminata e la lezione di Virgilio serve a ridimensionarla. Il desiderio di conoscenza dell’uomo deve essere limitato e non collocarsi dentro la sapienza divina. L’uomo non può essere simile a Dio in sapienza.

Matto è chi spera che nostra ragione possa trascorrer la infinita via che tiene una sustanza in tre persone.

State contenti, umana gente, al quia; ché, se potuto aveste veder tutto, mestier non era parturir Maria;

e disiar vedeste sanza frutto tai che sarebbe lor disio quetato, ch’etternalmente è dato lor per lutto:

io dico d’Aristotile e di Plato e di molt’altri”; e qui chinò la fronte, e più non disse, e rimase turbato. (ivi, 34-45)

In una straordinaria sintesi ritorna il teorema della scienza umana, del desiderio e della contentezza. Qui Dante esce dalla scrittura narrativa per parlare ad alta voce sulla scena più vasta del proprio presente storico ed intellettuale, ponendo una legge e una frontiera. Tra l’uomo e Dio la distanza è infinita e neanche la conoscenza del tutto - al contrario, per la dottrina di Averroè, qui citato nel suo emblema fondamentale (De Anima, III, comm.36) - può far portare a termine quel cammino. Se l’uomo effettivamente potesse conoscere tutto e, tramite la scienza, giungere a Dio e ottenere la beatitudine sarebbe inutile la venuta di Cristo sulla terra. Se fosse vera la dottrina di Averroè, i più sapienti, Aristotele e Platone e lo stesso Virgilio, non sarebbero condannati al desiderio infinito di un Dio irraggiungibile da loro mentre lo stesso desiderio diventa condanna eterna. L’uomo si deve accontentare sulla terra, di ciò che è dato dalla conoscenza sensibile, il quia, mentre il desiderio di Dio lo guida alla beatitudine celeste. Ritorna criticamente una contentezza che non può essere felicità e l’accontentarsi del quia è soltanto l’appello all’uomo affinché

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non cerchi da solo, con le sole proprie forze, di oltrepassare il limite tra l’umano e il divino. Oltre il quia soltanto Cristo, il parto di Maria, può aprire la strada. Può essere, l’uomo, felice al quia? La contentezza e la felicità si sono separate.

L’incontro con Belacqua mette alla prova il desiderio di conoscenza in concorrenza con il desiderio di Dio. La distanza ironica serve a Dante per trovare definitivamente per sé quella distanza dalla scienza e dalle sue infatuazioni. Belacqua è stato, sulla terra, l’antitesi di Casella e come tale ora si ripropone. Mentre il musicista si è lasciato facilmente sedurre dall’intellettualismo di Dante, il liutaio ha opposto un’ironica resistenza. L’ironia, in questo incontro nel quale tutto si rovescia, viene assecondata mentre sulla terra aveva prodotto, forse, le vivaci reazioni del poeta-filosofo che nella bottega del liutaio, assieme al musicista, discuteva della felicità prodotta dalla scienza. Quella ironia ora è un antidoto e la cura giunge nel momento opportuno per constatare che l’illusione filosofica non fa più male.

La domanda non ha intento conoscitivo ma di restaurazione dei discorsi come se il loro dialogo si fosse appena interrotto.

................................................e poscia ch’a lui fu’ giunto, alzò la testa a pena, dicendo: ”Hai ben veduto come ‘l sole da l’omero sinistro il carro mena?”. (Purg., IV, 117-120)

L’atteggiamento di Dante rende conto della riconquistata misura. Le parole del liutaio non fanno più male anzi aiutano a provare a se stesso che una rottura è avvenuta fino a non dolersi della canzonatura dell’artigiano nei confronti del filosofo. L’ironia viene corrisposta con l’ironia.

Li atti suoi pigri e le corte parole mosser le labbra mie un poco a riso; poi cominciai: “Belacqua, a me non dole

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di te omai; ma dimmi: perché assiso quiritto se’? attendi tu iscorta, o pur lo modo usato t’ha’ ripriso?”. (ivi, 121-126)

L’ironia non fa più male e sta a significare che Dante ha ormai assunto il punto di vista di Belacqua. Le distanze si sono colmate in questo provvidenziale appuntamento che pone uno dopo l’altro il musicista e il liutaio per verificare i limiti dell’interesse per la scienza. L’ironia e l’autoironia sono all’interno della stessa biografia intellettuale per provare che l’antidoto alle proprie illusioni ha funzionato anche in una prospettiva cristiana.

Ma c’è ancora un momento in cui la tentazione della scienza cerca di bloccare il cammino di Dante.

quando di retro a me, drizzando ‘l dito, una gridò: “Ve’ che non par che luca lo raggio da sinistra a quel di sotto, e come vivo par che si conduca!”. (Purg., V, 3-6)

Non si tratta soltanto della solita meraviglia sul fatto che Dante sia vivo e da vivo cammini per le strade dell’oltretomba. Ancora, su questa continuità autocritica, si pone da parte di un’anonima voce un problema di ordine scientifico, un fenomeno provocato dal sole, l’ombra prodotta dal corpo. Dante sembra stia per cedere e sostare ancora per dare le spiegazioni del caso.

Li occhi rivolsi al suon di questo motto, e vidile guardar per maraviglia pur me, pur me, e ‘l lume ch’era rotto. (ivi, 7-9)

La chiacchiera scientifica ha ancora un certo potere di seduzione ma Virgilio interviene bruscamente per ricordare qual è il vero fine dell’uomo. Ora Virgilio prende il posto di Catone per sollecitare il cammino di Dante bloccato da un estremo e parodico convivio di scienza.

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“Perché l’animo tuo tanto s’impiglia”, disse ‘l maestro,”che l’andare allenti? che ti fa ciò che quivi si pispiglia? …………………………………………

ché sempre l’omo in cui pensier rampolla sovra pensier, da sé dilunga il segno, perché la foga l’un de l’altro insolla”. (ivi, 9-18)

Quando l’uomo tende a un fine non deve abbandonarsi ad altri pensieri che possono distrarlo. Un pensiero indebolisce l’altroe si allontana il fine a cui si tende.

Per Dante è chiaro questo processo di straniamento del cristianesimo da parte della scienza quando la scienza diventa fine a se stessa. L’uomo dimentica il proprio fine e quando attraverso l’acquisizione della scienza pretende di produrre felicità rende inutile Cristo e il cristianesimo, la redenzione e la grazia, il parto di Maria e il sacrificio di Dio nell’incarnazione di suo figlio. La concorrenza tra la scienza e la grazia può aprire uno scenario apocalittico. L’anticristo, qualunque immagine lo rappresenti, è colui che prende il posto di Cristo in funzione della beatitudine e la Donna Gentile, la filosofia, nel momento in cui diventa mediatrice tra Dio e l’uomo, rende inutile Cristo perché assicura la beatitudine. O quasi.

L’intervento di Virgilio sul “sapere tutto” e sulla condanna al desiderio eterno senza speranza diventa il centro geometrico del poema nel segnare l’irruzione della storia, con le forme intellettuali più alte e conflittuali, nel tempo della redenzione. Il “parturir Maria”, assicura il mezzo necessario per raggiungere la conoscenza ultima e la beatitudine conseguente.

Ora si può ritornare all’inizio del canto e comprendere una diversa funzione della scienza. L’apertura del canto è sembrata una gratuita esibizione di sapere in una lingua ambigua tra conoscenza tecnica e appariscente allegoria.

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Già era ‘l sole a l’orizzonte giunto lo cui meridian cerchio coverchia Ierusalem col suo più alto punto;

e la notte, che opposita a lui cerchia, uscia di Gange fuor con le Bilance, che le caggion di man quando soverchia;

sì che le bianche e le vermiglie guance, là dov’i’ era, de la bella Aurora per troppa etate divenivan rance. (Purg., II, 1-9)

In questo secondo canto del Purgatorio, nel quale tutto è rivolto alla critica dei nefasti effetti della scienza, l’esibizione delle proprie conoscenze scientifiche ha una diversa funzione. Non più prova di felicità ma bisogno di offrire informazione. Qui il lettore viene riportato dentro l’orizzonte proprio di chi parla e dentro la sua scena metafisica unendo il luogo della terra e quello della trascendenza. L’indicazione astronomica serve per orientare il lettore fornendogli le coordinate celesti. Una didattica necessaria perché Dante si trova in un luogo dove il lettore non può accedere.

Tra il visibile e l’invisibile c’è un segno comune che permette di trascendere la conoscenza sensibile. Soltanto attraverso questo segno sensibile l’essere vivente può conoscere i luoghi della trascendenza. La conoscenza propria gli è negata e l’esempio di Ulisse insegna. Ora Dante si trova nel luogo dove Ulisse fece naufragio e manda un messaggio indiretto su ciò che Ulisse cercò di conoscere per esperienza personale. C’è una conoscenza mediata della trascendenza e l’uomo si deve accontentare di ciò che la scienza gli acconsente di conoscere finché non potrà varcare le frontiere vietate ai viventi. Questo è il signum e il quia. La scienza e la poesia producono un quia sensibile complementare all’intelligibile. La parola è questo signum sensibile e intelligibile (Gagliardi 2001:28). La scienza è necessaria all’uomo per conoscere ciò che sta oltre le sue possibilità. Ma anche il poeta vi trova spazio. La lingua della scienza si coniuga con quella

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della poesia per offrire l’immagine più opportuna affinché il lettore trovi le proprie coordinate.

Anche la descrizione dell’avvicinamento dell’angelo, con la sua gradualità, è scientifica secondo i modi della conoscenza umana. La conoscenza per analogia tra Marte e l’angelo ripete la modalità conoscitiva precedente tra il sensibile e l’intelligibile.

Ed ecco, qual, sorpreso dal mattino, per li grossi vapor Marte rosseggia giù nel ponente sovra ‘l suol marino,

cotal m’apparve, s’io ancor lo veggia, un lume per lo mar venir sì ratto che ‘l muover suo nessun volar pareggia. (ivi, 13-18)

L’uomo ha a disposizione un segno sensibile per conoscere analogicamente ciò che non può conoscere per esperienza personale, l’intelligibile. Gli angeli sono sostanze intellettuali, filosoficamente sostanze separate, e la loro conoscenza è impedita all’uomo durante la vita. Chi, come Dante, ha questa possibilità, può offrire al lettore un equivalente in grado di far comprendere, per approssimazione, la realtà che gli sta di fronte. L’analogia tra l’angelo e Marte diventa l’unica possibilità, trasferendo l’intelligibile nel sensibile. Ma questo modo di disporre della scienza è funzionale a chi non può assistere di persona alla scena. La scienza è al servizio dell’uomo e non può essere il suo fine. Non c’è felicità, piccola o grande, da richiedere alla scienza.

d) Per Beatrice

Il viaggio nella scrittura di Dante ci ha restituito un uso sapiente della parola formando una strada e una guida che portano dentro i temi più conflittuali del tempo tramite l’autobiografia intellettuale. Il lessico intellettuale si è unito alle forme intellettualizzate dalla propria esperienza in una trama di corrispondenze e di differenze, leggibile attraverso una coscienza critica in grado di operare secondo le verifiche i confronti. Questi segnavia di parole e di immagini

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riconduce Dante sulla strada già percorsa per poter rivedere l’itinerario di perfezione e felicità. Questo straordinario uso del lessico, tutto filtrato attraverso un vissuto che lo satura di intenzioni molteplici, produce una duplice scena sulla quale ogni parola sembra un attore in grado di recitare una parte in due diversi travestimenti.

Se la negazione del desiderio di Dio, con il conseguente amore esclusivo della Donna gentile, è la chiave di tutti gli errori di Dante, le sue tracce possono portare anche altrove nel poema per determinare la sua prima coscienza critica, l’origine e la svolta. Si potrebbe anche trovare una ulteriore spiegazione alla negazione del desiderio di Dio proprio sulla soglia della Commedia, nello smarrimento iniziale in una selva nella quale non giunge più l’illuminazione divina. E’ lo stesso personaggio ad aver interrotto la comunicazione con Dio e la selva oscura lo imprigiona perché è stata posta una frontiera con Dio. Ora Dio non illumina più la strada di un uomo giunto a metà del suo cammino esistenziale.

Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, che la diritta via era smarrita. (Inf., I, 1-3)

Lo smarrimento è attribuito al sonno. Certamente durante il sonno si perde la percezione della realtà esterna ma anche si sogna.

Io non so ben ridir com’i’ v’intrai, tant’era pien di sonno a quel punto che la verace via abbandonai. (ivi, 10-12)

I sogni dell’intelletto, sogni di felicità, portano inconsapevolmente nel buio della perdita di Dio e della sua luce. Dante, nell’antefatto della Commedia, si ritrova a sperimentare lo smarrimento per mancanza di conoscenza del fine.

Quella “diritta via”, che è anche ”verace via”, può significare proprio quel desiderio di vedere Dio, teorizzato da Averroè e fatto

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proprio da Tommaso d’Aquino? La consapevolezza di questo peccato originario, peccato intellettuale che porta alla perdita di Dio quale fine di ogni desiderio, apre il poema e indica lo smarrimento che conduce all’oscurità della ragione non illuminata. Lo smarrimento riporta sin dall’inizio il Convivio nella Commedia e indica la causa di una possibile perdizione che soltanto l’intervento divino può far superare. Dante cancellando quel desiderio ha implicitamente oscurato il cammino verso Dio.

Potrebbe esserci qualcosa di più. In arabo Rushd, il nome originario di Averroè, significa proprio la diritta via. (Urboy 1998:183)7. Il teorema del desiderio si identifica con il suo autore ed è in grado di significare la prospettiva filosofica elaborata da Averroè? Si può opporre che Dante non conosceva l’arabo. Siamo in un tempo di reale egemonia di una cultura e gli emblemi intellettuali scorrono da una lingua all’altra senza frontiere così come per il pensiero. Già il Lemay ha dimostrato che le parole di Nemrod (Inferno, XXXI), apparentemente prive di senso, sono approssimative trascrizioni dall’arabo e in perfetta sintonia con il personaggio storico che nella figura del gigante si nasconde (Gagliardi 1994:306).

In un mondo che parla per immagini mentali ed emblemi intellettuali anche questa figura della latenza può avere senso. Certamente è un’ipotesi e come tale è necessario considerarla.

Il compendio dell’errore intellettuale di Dante si trova nelle parole di Beatrice nel loro primo incontro. Ancora è una strada non vera l’oggetto del rimprovero.

e volse i passi suoi per via non vera, imagini di ben seguendo false, che nulla promession rendon intera. (Purg., XXX, 130-132)

Il cammino verso il bene, creduto da Dante il sommo bene, la felicità, si è rivelato fallace nei suoi esiti e ingannevole. Errore di presunzione intellettuale nel reputare quei fantasmi intellettuali in

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grado di dare all’uomo una completa esperienza di beatitudine. Ma l’interezza non è possibile a chi si trova in via. L’abbandono di Beatrice coincide con la perdita del fine. Il fine, Dio, non viene più cercato e desiderato.

Alcun tempo il sostenni col mio volto: mostrando li occhi giovanetti a lui, meco il menava in dritta parte volto.

Sì tosto come in su la soglia fui di mia seconda etade e mutai vita, questi si tolse a me, e diessi altrui. (ivi, 121-126)

L’amore per Beatrice coincide con l’intenzione rivolta a Dio e l’abbandono del primo amore comporta anche la negazione del desiderio di vedere Dio. Allora l’amore della scienza sostituisce ogni altro desiderio e Dio viene cancellato dalla prospettiva umana perché la Donna gentile prende su di sé l’intenzione massima di felicità.

Ond’ella a me: “Per entro i mie’ disiri, che ti menavano ad amar lo bene di là dal qual non è a che s’aspiri,

quai fossi attraversati e quai catene trovasti, per che del passare innanzi dovessiti così spogliar la spene? (Purg. XXXI, 22-27)

Beatrice fa coincidere il desiderio di lei con il desiderio di Dio, il bene massimo da desiderare perché il suo compimento coincide con la beatitudine. L’abbandono dei due desideri porta alla sosta e alla rinuncia della speranza di poter proseguire nel cammino della conoscenza. La cancellazione dell’amore di Beatrice e del desiderio di Dio ha posto la vera frontiera intellettuale che ha impedito di intraprendere il viaggio verso la conoscenza di Dio. E’ evidente che c’è un nesso di causalità reciproca tra i due eventi. Dante ha rinunciato all’amore di Beatrice perché quella donna, nella sua essenza simbolica, lo portava direttamente sulla via della conoscenza di Dio secondo la dottrina averroista. La rinuncia, prima, alla dottrina averroista, nella

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Vita nuova, e, poi, nel Convivio la confutazione del teorema del desiderio nell’ambito della più ampia negazione della possibilità di ascendere alla visione di Dio, hanno un rapporto necessario con la rinuncia all’amore di Beatrice. Il suo ritorno coincide con il ristabilimento del principio del desiderio e della possibilità di raggiungere quella visione.

La confessione di Dante conferma che la rinuncia al cammino intellettuale che porta a Dio fu dovuta all’attrazione per le cose poste sulla terra. Ma le “cose” non sono gli oggetti del possesso terreno, le povere cose che provocano il piacere più basso. L’abbassamento della felicità intellettuale offerta dalla filosofia a cosa terrena, come gli averi transitori, mostra la pochezza della precedente prospettiva intellettuale del Convivio dal nuovo punto di vista e il suo esaurimento dentro l’orizzonte dell’immanenza.

Piangendo dissi: ”Le presenti cose

col falso lor piacer volser miei passi, tosto che ‘l vostro viso si nascose”. (ivi, 34-36)

Anche quella beatitudine dell’intelletto viene regredita a piacere, così come si produce piacere per le cose terrene. Il rimprovero di Beatrice mostra la relazione tra il venire meno della felicità massima (sommo piacere) e la morte di lei e il darsi di Dante a un desiderio confinato nell’ambito della mortalità. I confini del desiderio di Dante sono tutti dentro la frontiera della trascendenza. Dio non è stato più il fine del desiderio. Dante avrebbe dovuto seguire lei, diventata eterna, nel suo cammino verso Dio. Ma così non è stato fatto.

Ben ti dovevi, per lo primo strale de le cose fallaci, levar suso di retro a me che non era più tale. (ivi, 55-57)

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Invece di portarlo in alto le ali lo hanno condotto in basso. Tutta la connotazione di Beatrice in questi canti del suo ritorno lascia intravedere che dietro lei c’è la figura della sapienza biblico-cristiana e filosofica, unificate in una sola persona. Dante persegue la conciliazione tra filosofia e cristianesimo. Lei è il principio della conoscenza accompagnata dalle virtù, per decreto divino, già prima che si manifestasse al mondo.

“Noi siam qui ninfe e nel ciel siamo stelle; pria che Beatrice discendesse al mondo, fummo ordinate a lei per sue ancelle. (ivi, 105-108)

La sintesi di virtù e conoscenza non è opera dei filosofi, così come predica Ulisse, ma è già nel piano provvidenziale di Dio.

E’ necessario ritrovare, oltre alla generica idea di sapienza, il piano dottrinale nel quale un principio allegorizzato di nome Beatrice coincide con il cammino del desiderio di Dio. La scienza divina di nome Beatrice, proseguimento della scienza umana di nome Virgilio, soltanto nella prospettiva averroista è portatrice di significato per quel desiderio naturale di vedere Dio che l’acquisizione di ogni scienza può realizzare. La scienza di Averroè viene assimilata alla sapienza biblico-cristiana. Restaurata Beatrice nella prospettiva intellettuale, personale e universale, anche il desiderio di Dio può ritornare ad essere guida per giungere alla sua visione. La scienza umana e divina, la sapienza biblico-cristiana e dei filosofi, contribuisce a condurre l’uomo a Dio ma, prima ancora, ha bisogno della mediazione necessaria di Cristo perché la sola scienza non porta alla beatitudine. Bisogna che il “vedere tutto”, Beatrice, e il “parturir Maria”, Cristo si assimilino. Si tratta del momento più critico di tutto il poema, il luogo dove è possibile costruire il ponte tra filosofia e cristianesimo, tra la scienza e la grazia. Dante vede Cristo grifone negli occhi di Beatrice. Gli occhi di Beatrice, principio della conoscenza e dell’amore (come già nella poesia coeva), diventano specchio per far conoscere la doppia natura di Cristo a Dante.

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Mille disiri più che fiamma caldi strinsermi li occhi a li occhi rilucenti, che pur sopra ‘l grifone stavan saldi.

Come in lo specchio il sol, non altrimenti la doppia fiera dentro vi raggiava, or con altri, or con altri reggimenti.

Pensa, lettor, s’io mi maravigliava, quando vedea la cosa in sé star queta, e ne l’idolo suo si trasmutava. (ivi, 121-126)

Il circuito della conoscenza si unifica e Cristo entra nella visione indirettamente tramite colei che è principio della conoscenza. Così è possibile anche unificare i desideri. Sulle ali del desiderio per Beatrice si arriva a Cristo. Il mutamento di natura di Cristo viene conosciuto da Dante attraverso la sapienza che fa da specchio al mistero più alto. Non c’è un modo diretto per conoscerlo. L’occhio umano non può indagare il mistero dell’incarnazione ma leggerne le immagini così come sono rivelate dalla sapienza. Così il desiderio può arrivare fino alla presenza di Dio.

ma già volgeva il mio disio e ‘l velle, sì come rota ch’igualmente è mossa, l’amor che move il sole e l’altre stelle. (Par., XXXIII, 143-145)

L’amore di Dio della tradizione agostiniana, il “velle”, e il desiderio naturale si trovano alla pari. Quel “disio” è proprio il desiderio naturale e deve trovare un equilibrio con la volontà sede dell’amore, della tradizione agostiniana e bonaventuriana. Il teorema del desiderio di Dio ritorna per ristabilire tutta la teleologia del desiderio umano. Quel desiderio posto nell’uomo è il complemento necessario dell’illuminazione divina. L’intelletto umano, nel suo desiderio assoluto di conoscenza, può essere colmato soltanto dal vero assoluto, Dio e l’uomo, in vita, può raggiungere questo vero. L’escatologia averroista per Dante è in sintonia con il cristianesimo in un cammino complementare tra conoscenza e illuminazione.

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Io veggio ben che già mai non si sazia nostro intelletto, se ‘l ver non lo illustra di fuor dal qual nessun vero si spazia.

Posasi in esso, come fera in lustra, tosto che giunto l’ha; e giugner puollo; se non, ciascun disio sarebbe frustra. (Par., IV, 124-129)

Il desiderio dell’uomo, illuminato dalla luce divina, si compie soltanto in Dio e se questo desiderio non giunge al proprio fine nessun altro desiderio può quietarsi, compreso il desiderio di conoscenza. Il desiderio di vedere Dio accoglie in sé tutti i desideri dell’uomo e li porta a compimento. L’uomo si pone in Dio come l’animale dentro la propria tana, luogo dell’accoglienza primordiale. Questa necessità teleologica del desiderio riporta il testo originario di Averroè.

Il cammino dell’uomo a Dio ha una mediazione necessaria in Maria, senza di lei il desiderio umano è senza ali e non può volare fino al suo obbiettivo finale.

Donna, se’ tanto grande e tanto vali, che qual vuol grazia e a te non ricorre, sua desianza vuol volar sanz’ali. (Par., XXXIII, 13-15)

Nel momento più alto, quando gli occhi dell’uomo possono fissarsi nella luce divina, la memoria dello smarrimento ritorna per ricordare come soltanto in Dio si compie ogni desiderio e non è possibile distogliere lo sguardo da lui per un altro oggetto. Non sono più gli occhi della Donna gentile la sorgente della beatitudine.

Io credo, per l’acume ch’io soffersi del vivo raggio, ch’i’ sarei smarrito, se li occhi miei da lui fossero aversi. (ivi, 76-78)

Per quanto gli occhi dell’uomo siano abbagliati e sofferenti per la luce divina non c’è altro da guardare e desiderare. Il cammino dell’uomo e quello del desiderio sono complementari fino a Dio.

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Sul tema del desiderio di vedere Dio si può ricostruire tutta la biografia intellettuale di Dante. Il lavoro sulla scrittura non è sufficiente per comprendere tutto lo spazio nel quale si è prodotta una battaglia lacerante in Dante. Soltanto un’ermeneutica della differenza e del conflitto può rendere conto della sua complessa biografia intellettuale, nel modo in cui la mette a disposizione come allegoria esemplare del proprio tempo e del travaglio per giungere a un progetto valido per tutti. E’ necessario ricostruire lo spazio delle dottrine, la scena storica delle vicende intellettuali e quelle personali affinché i personaggi e le parole prendano corpo e portino dentro la scrittura tutta la corposità della vicenda allusa.

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NOTE 1 GAGLIARDI, A. (1994): La tragedia intellettuale di Dante. Il convivio, Catanzaro, Pullano, 2 ARISTOTELIS (1962): Opera cum Averrois commentariis, Methaphisica, LII comm.1, Venetiis, apud Junctas, anastatica, Frankfurt am Main, Minerva G.m.b. H. 3 Sul rapporto tra la Commedia e il Convivio nelle diverse posizioni: J. Freccero, Dante. La poetica della conversione, Bologna, Il Mulino, 1989; R. Hollander, Purgatorio II: The New Song and the Old, in Lectura Dantis, 6, 1990; G. Gorni, Lettera nome numero, Bologna, Il Mulino, 1990; F. Fido, Dall’Antipurgatorio al Paradiso terrestre: il tempo ritrovato di Dante, in Letture classensi, n.18, Ravenna, 1989; T. Barolini, Il miglior fabbro: Dante e i poeti della Commedia, Torino, Bollati Boringhieri, 1993; G. Muresu, L’inno e il canto d’amore. (“Purgatorio” II), in La rassegna della Letteratura Italiana, a. 104, serie IX, 2001. 4 TOMMASO D’AQUINO (1975): Somma contro i gentili, a cura di T.S. Centi, Torino, UTET, p.660. 5 GAGLIARDI, A. (2001): Guido Cavalcanti. Poesia e filosofia, p, 28, Alessandria, Edizioni dell’Orso. 6 SENECA (1994): Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Milano, Rusconi. 7Urvoy D. (1998): Averroès. Les ambitions d’un intellectuel musulman, Paris, Flammarion, p.183.

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