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«Segnare a li occhi miei nostra favella»: l’immaginazione visiva al servizio della parola nel canto XVIII del Paradiso CORRADO CALENDA Università di Napoli “Federico II” [email protected] RESUMEN: Cuerpos de luz, imágenes móviles, palabras: un milagroso, fantasmagórico es- pectáculo que se vuelve sensible gracias a los infinitos recursos de la imaginación visiva y de la escritura de Dante, y puesto al servicio de la lapidaria Escritura de Dios. En el canto XVIII del Paraíso, un increíble tour de force expresivo y repre- sentativo, sin duda uno de los vértices de la invención verbal dantesca, fija en los ojos y en la mente del lector la tensión ética comprendida en una proverbial cita bíblica del Liber Sapientiae y desarrollada en los tonos lacerantes de un cierre de canto memorable que vuelve sobre uno de los temas favoritos de la Comedia: la inspiración ética contra los malos líderes políticos y religiosos de su tiempo. P ALABRAS CLAVE: Auctor, imaginación visiva, palabras / escritura, justicia, Liber Sapientiae. 185

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«Segnare a li occhi miei nostra favella»:l’immaginazione visiva al servizio della parola

nel canto XVIII del Paradiso

CORRADO CALENDA

Università di Napoli “Federico II”

[email protected]

RESUMEN:

Cuerpos de luz, imágenes móviles, palabras: un milagroso, fantasmagórico es-pectáculo que se vuelve sensible gracias a los infinitos recursos de la imaginaciónvisiva y de la escritura de Dante, y puesto al servicio de la lapidaria Escritura deDios. En el canto XVIII del Paraíso, un increíble tour de force expresivo y repre-sentativo, sin duda uno de los vértices de la invención verbal dantesca, fija en losojos y en la mente del lector la tensión ética comprendida en una proverbial citabíblica del Liber Sapientiae y desarrollada en los tonos lacerantes de un cierre decanto memorable que vuelve sobre uno de los temas favoritos de la Comedia: lainspiración ética contra los malos líderes políticos y religiosos de su tiempo.

PALABRAS CLAVE: Auctor, imaginación visiva, palabras / escritura, justicia, LiberSapientiae.

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ABSTRACT:

Light-bodies, images in motion, words: under our eyes a miraculous, fantasticshow goes on. With powerful visual imagination, Dante represents and writes forus what God wrote for ever in His Scriptures. In Paradise XVIII, Dante, at theheight of his poetic skills, exhibits and impresses in our minds a proverbial quo-tation from the biblical Liber Sapientiae and, in a memorable finale, he returns tothe favourite subject of his Comedy: ethical inspiration against the bad politicaland religious leaders of his times.

KEY WORDS: Auctor, visual imagination, words/Scripture, justice, Liber Sapientiae.

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Chi, in anni recenti, con strumenti d’indagine anche molto sofisticati,si è accostato a questo canto, spettacolare in tutti i sensi, ha oscillato tradue poli ben distinti. Il primo, di matrice più tradizionale, caratterizzatoda una riserva di fondo o almeno da una perplessità di partenza, legata allapresunta natura di canto di passaggio del XVIII del Paradiso e alla qualitàcomposita, sostanzialmente frammentaria della sua trama narrativa. Èun’impostazione di cui risente, almeno nelle premesse, la lectura turicen-sis del compianto Michelangelo Picone (2002), che pure evita poi di trarnele più temibili conseguenze. Il secondo che, viceversa, proprio per reagirea quella tradizione dichiarata prevalente, si impegna a rivendicare con ac-canimento l’organicità unitaria del canto, che sarebbe sorretto da una stra-tegia ideologica e diegetica di consistenza ferrea e dettagliatamentedocumentabile: e qui citerei il saggio, comunque capitale, del 1991 diLino Pertile.

Sono convinto che occorre uscire dalle secche di questa non inedita al-ternativa, che tende a insinuarsi spesso nelle letture dei canti del poema.Il quale, sia detto per inciso, va valutato nella sua qualità di universo pos-sibile unitario, prima o forse a prescindere da giudizi, sempre rischiosi,sulla maggiore o minore riuscita delle parti che lo compongono. Cercheròdunque nella mia lettura di associare alla doverosa spiegazione della let-

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tera del canto e delle sue numerose implicazioni, un’attenzione più strettaai fatti di stile, alle invenzioni e articolazioni espressive che, anche inquesto caso, sbalordiscono il lettore e da cui dipende secondo me, comesempre, la possibilità di una sua moderna, ammirata ricezione.1 Tenendoconto del fatto che, al di là dei suoi contenuti più appariscenti, tra i mes-saggi del canto c’è anche la costante allusione metaletteraria, la rivendi-cazione autoriale, segnalata in particolare da un brillante saggio recentedi Piero Boitani (2004): lo sfruttamento, ancora una volta, del simbolodell’aquila vale anche a dichiarare una sorta di autoinvestitura da partedell’auctor al vertice della poesia di ogni tempo, se continua a valere lacelebre esaltazione dell’«altissimo canto / che sovra li altri com’aquilavola» di Inferno IV 96.

Dunque Cacciaguida ha smorzato, nell’ultima parte del suo discorso,l’“acerbo” della drammatica profezia sull’immediato futuro di Danteuomo e cittadino, con il “dolce” della previsione trionfale del suo destinodi poeta. Con l’uso di un lemma tecnico di origine aristotelica (verbo inquanto ‘pensiero, concetto’ non ‘parola’)2 l’autore contrappone in aperturail placato, definitivo godimento intimo di Cacciaguida, che si specchiadirettamente in Dio, alla perdurante “dissaguaglianza” del viator (cfr. Par.XV, 83) alle spinte contraddittorie da cui questo si sente ancora solleci-tato.3 Notevole qui il prolungamento della metafora ‘alimentare’ (gustava)inaugurata dall’avo alla fine del canto precedente (XVII 130-132):

Ché se la voce tua sarà molesta nel primo gusto, vital nodrimentolascerà poi, quando sarà digesta.

È la logica, così frequente in Dante, dell’implicazione dei campi se-mantici che, vedremo, caratterizzerà anche la parte centrale del canto. Ef-fetto inevitabile della psicologia ancora umana, troppo umana delpellegrino è che l’acerbo prospettato come esito immediato della sua vitaterrena prevalga sul dolce della promessa perentoria, ma più remota(«temprando col dolce l’acerbo», non, secondo la testimonianza minori-taria di alcuni codici dell’antica vulgata, «lo dolce con l’acerbo»). Si badi

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che è proprio in questa persistente “dissaguaglianza”, a prevalenza percosì dire, esistenziale, che si gioca la possibilità di protrarre la narrazionealmeno fino al fulgore istantaneo della visione finale (cfr. Pertile 1991:26-27): quando, per un attimo, il viator conguaglierà la propria sorte aquella di Cacciaguida, di Beatrice e degli altri beati. Ma, intanto, Danteha ancora bisogno della sua guida, di Beatrice: la quale, di tutto ciò con-sapevole, lo invita a ‘mutare pensiero’, rammentandogli con tono rassicu-rante che lei è già al cospetto di Dio, suprema garanzia di protezione esoccorso.

Le prime due terzine qui riassunte offrono già al lettore, nella chiaveannunciata, materia di riflessione. La parola in rima al v. 5 sono inaugurauna costante che si prolungherà nell’intero sviluppo del canto, l’uso cioèdi rimanti che giocano sulla variata dilatazione della forma canonica conesiti di rima ricca, inclusiva, derivativa, equivoca, conferendo pertinenzametrica a quelle che lausbergianamente si definirebbero annominationesper immutationem, per adiectionem, per detractionem (Menichetti 1993:579). Qui sono rima con suono, ma si noti più avanti: 11-13 redire/ridire,35-37-39 atto/tratto/fatto, 50-52 parlato/lato, 62-64-66 arco/varco/carco,65-67 volto/vòlto, 70-72 facella/favella, 98-100-102 quetarsi/arsi/agu-rarsi, 113-115-117 emme/gemme /ingemme, 122-124 templo/contemplo.In punta al v. 6 troviamo poi disgrava, tipico parasintetico dantesco dop-piato dal quasi sinonimo discarchi del v. 66 in figura etimologica («sidiscarchi di vergogna il carco») e preludente al lemma più problematicoe discusso dell’intero canto, quell’ingigliarsi del v. 113 che ha cimentato,come vedremo, l’ingegno e, forse, la fantasia di molti interpreti.

Ancora più significativa, riguardo ai valori espressivi, la terzina d’aper-tura del canto:

Già si godeva solo del suo verboquello specchio beato, e io gustavalo mio, temprando col dolce l’acerbo.

Si consideri la bella chiosa di Natalino Sapegno:

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qui il vocabolo [verbo], adoperato nella sua accezione meno co-mune e più strettamente tecnica, serve al poeta per legare in unsolo nesso sintattico, e al tempo stesso per distanziare e contrap-porre, l’oggetto del pensiero del beato e il proprio: depuratod’ogni scoria terrestre il primo, in cui si rispecchia il Verbo divino;mescolato e composito l’altro, per il concorrere di elementi con-trastanti lieti e penosi. (Sapegno 19853: n. ad locum).

Notazione preziosa non solo per l’esattezza dei rilievi relativi ai due at-tanti, ma soprattutto per l’attenzione prestata alla sintassi scorciata delperiodo così tipica tra le risorse della folgorante brevitas dantesca, capacedi trasformare i terribili vincoli della terzina in occasioni di incomparabiliperformances stilistiche. Vedremo a suo luogo che su procedimenti similisono fondate altre costruzioni sintetiche del canto che contribuiscono allasua splendida forza comunicativa là dove particolari articolazioni dellamateria sono codificate in vigorosi compendi verbali.

Le parole di conforto pronunciate da Beatrice riaprirebbero, secondo al-cuni lettori, uno squarcio sulle tonalità, ormai così lontane, della VitaNuova.4 Opinione che si può condividere solo a patto di interpretare il ri-chiamo in chiave di distanziamento, non di recupero. Per dir meglio, laBeatrice protagonista dei vv. 4-21, che sparisce poi provvisoriamente nelprosieguo del canto, invera le premesse poste dalla “gentilissima” del li-bello, con ciò stesso però distaccandosi per sempre dai termini in cui l’au-tore l’aveva provvidenzialmente ma imperfettamente percepita. Solo inapparenza qui la reazione del pellegrino ‘innamorato’ (vv. 7-18) è com-parabile allo stato di esaltazione più volte denunciato nel libello comeproprio del giovane amante. In realtà l’autore ha cura semmai di inqua-drare il rapporto con la sua guida in una cornice integralmente paradi-siaca proprio accentuandone i tratti distintivi rispetto alle atmosfere‘vitanovistiche’. Basti confrontare ai vv. 7-12 il ritorno del topos dell’in-dicibilità,5 conseguente non solo alla proclamata inadeguatezza delle pa-role disponibili, ma anche all’insufficienza della memoria:6

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Io mi rivolsi a l’amoroso suonodel mio conforto; e qual io allor vidine li occhi santi amor, qui l’abbandono:non perch’io pur del mio parlar diffidi,

ma per la mente che non può rediresovra sé tanto, s’altri non la guidi;

e, soprattutto, ai vv. 16-18 la piena riduzione di Beatrice a puro mediumtra il viator e Dio, realizzata con il ricorso a una delle immagini più tipichedel metaforismo geometrico dantesco, quella del rapporto tra raggio in-cidente e raggio riflesso:

fin che ‘l piacere etterno, che direttoraggiava in Bëatrice, dal bel visomi contentava col secondo aspetto.

Ma è l’ultima battuta pronunciata da lei subito dopo, ai vv. 20-21:

«Volgiti e ascolta;ché non pur ne’ miei occhi è paradiso»,

a confermare, di fatto, il consumarsi definitivo dell’esperienza dell’operagiovanile con il riconosciuto livellamento del ruolo della “gentilissima”alle altre presenze paradisiache («ché non pur ne’miei occhi è paradiso»):quasi un’ostentata palinodia dell’unicità di lei proclamata nella VitaNuova ma ormai insostenibile come tale nel regno della beatitudine e dellacaritas.7 È questa infatti l’accezione a cui, sia detto per inciso, vanno ri-portati, senza residui, amoroso e amor dei vv. 7 e 9: l’“amore” manifestatoqui da Beatrice per Dante e da lui indescrivibile non può essere che il ri-flesso dell’amore della creatura per Dio.8

Dunque, alla conclusione del lungo discorso di Cacciaguida, Dante eil suo avo indugiano, in silenzio, sui propri rispettivi pensieri; Beatriceinterviene a confortare il pellegrino, di cui l’autore si dichiara incapace didescrivere adeguatamente l’esperienza vissuta in quel momento, limitan-dosi a suggerire il riassorbimento estatico dell’“affetto” in cui essa gene-ricamente consiste; e Beatrice indirizza nuovamente l’attenzione di Dante

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verso Cacciaguida incarnando da par suo quell’umiltà che è requisito irri-nunciabile della psicologia, se così si può dire, dei beati.

Cacciaguida palesa, attraverso un incremento del suo fulgore, la vo-lontà di riprendere il discorso interrotto e l’autore, a sua volta, palesa il ri-velarsi di tale volontà attraverso la prima similitudine del canto in cuistrenuamente, come al solito, la barriera dell’ineffabilità viene forzata at-traverso il ricorso ad esperienze della nostra percezione quotidiana:

Come si vede qui alcuna voltal’affetto ne la vista, s’elli è tanto,che da lui sia tutta l’anima tolta,

così nel fiammeggiar del folgor santo,a ch’io mi volsi, conobbi la vogliain lui di ragionarmi ancora alquanto.

Ho detto, non per caso, ‘riprendere il discorso interrotto’, perché ap-punto di questo si tratta. Cacciaguida non vuole fare aggiunte o appendici,più o meno congrue, al memorabile epilogo del discorso pronunciato nelcanto precedente. Tanto meno intende virare bruscamente dalla profeziasolenne alla cronaca di una sorta di ostentata passerella di presenze auto-revoli nel cielo di Marte. La “parata militare”, per usare la bella defini-zione di Pertile, in cui pare consistere la ripresa del suo discorsorappresenta lo sviluppo organico dei celebri versi finali del canto XVII:

Questo tuo grido farà come vento,che le più alte cime più percuote;e ciò non fa d’onor poco argomento.

Però ti son mostrate in queste rote,nel monte e ne la valle dolorosapur l’anime che son di fama note,

che l’animo di quel ch’ode, non posané ferma fede per essempro ch’aiala sua radice incognita e ascosa,

né per altro argomento che non paia.

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Cacciaguida innanzitutto, anche lui in chiave di umiltà e di integraleriassorbimento del tutto nel divino, esclude ai vv. 28-30 la rassegna di VIPin funzione di mero elogio personale tramite la metafora dell’albero chederiva il suo rigoglio dalla cima. L’allusione è alla figura dell’albero ge-nealogico che fa risalire la consistenza dei rami alla nobiltà del capostipite,piuttosto che al paradosso dell’albero naturale rovesciato: ma non esclu-derei che le due metafore interagiscano.9 Quindi segnala a Dante che ipersonaggi che farà istantaneamente muovere per i bracci della croce no-minandoli furono tutti «di gran voce, / sì ch’ogne musa ne sarebbe opima»(vv. 32-33), offrirebbero cioè abbondante materia ad ogni poeta. Si trattadunque proprio di quelle «anime che son di fama note» di cui si parlavain chiusura del canto precedente, mostrate al viator per rendere più effi-cace e autorevole il suo messaggio ai viventi. Ma le implicazioni dellabreve battuta di Cacciaguida non si esauriscono qui. Se è vero infatti che«ogni musa ne sarebbe opima», cioè il racconto delle gesta degli otto per-sonaggi nominati sarebbe sufficiente a fornire ispirazione a qualsiasi poetadegno di questo nome, allora, trattandosi, com’è noto, di inquilini delcielo di Marte e dunque di combattenti per la fede, la musa a loro più ido-nea sarà, come si è visto, quella della poesia epica, di quell’“altissimocanto” il cui rappresentante massimo, Omero, «sovra li altri com’aquilavola». Cacciaguida sta in sostanza destinando il suo discendente al livellosupremo, al primato dell’espressione poetica: a lui e a nessun altro quellarappresentazione è destinata e già ora e qui è lui che se ne sta facendo im-plicitamente cantore; e prefigura inoltre (lo ha notato, come ricorderete,Boitani) l’imminente comparsa dell’aquila, il cui significato ne viene ver-tiginosamente surdeterminato. Tanto è vero che ai vv. 49-51

Indi, tra l’altre luci mota e mista,mostrommi l’alma che m’avea parlatoqual era tra i cantor del cielo artista,

a conclusione della fantasmagorica parata, Cacciaguida mima, per cosìdire, il ruolo da lui assegnato al pronipote, rivelandosi supremo “artista”al rientro nel coro dei beati del cielo di Marte.10 L’inarrivabile perizia

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dell’anima santa preannuncia e prelude a quella di colui al quale il refertodi quella visione viene affidato.11

Non ci soffermeremo sulla specificità delle anime militanti convocateda Cacciaguida: Giosuè, Giuda Maccabeo, Carlo Magno, Orlando, Gu-glielmo d’Orange, Renoardo, Goffredo di Buglione, Roberto Guiscardo.Un calibrato e acronico conguaglio, così frequente nella Commedia e so-prattutto così consustanziale alla logica del Paradiso, fra tradizione bi-blica, storia, leggenda, retaggi letterari. In cui anch’io ritengo possibileintravedere un’eco dei celebri “Nove Prodi” (agli otto elencati occorreaggiungere, appunto, lo stesso Cacciaguida) della tradizione epica e fi-gurativa antico-francese.12

Varrà la pena piuttosto notare come, anche in questa concitata rassegnadi impianto elencatorio, Dante non rinuncia a esercitare sottilmente la suapenna con dettagli che stupiscono il lettore attento. La terzina 40-42:

E al nome de l’alto Macabeovidi moversi un altro roteando,e letizia era ferza del paleo.

è una delle rarissime (Tommaseo ne conta solo tre) (Menichetti 1993:422) in tutta la Commedia integralmente scandite dai “riposi”, cioè ac-centi, di terza e di sesta; inoltre la formidabile metafora sintetica dell’ul-timo verso «e letizia era ferza del paleo» (dunque la letizia suscitatadall’appello di Cacciaguida determinava la velocità del moto di GiudaMaccabeo come il colpo frusta accelera quello della trottola) fa emergerequel bizzarro rimante paleo che è anche, nell’intero poema, l’unico sostan-tivo coinvolto nella rima in –eo, che associa sempre altrove o l’aggettivoreo, o nomi propri (compreso l’inevitabile Deo) o la terza persona in –eodel perfetto indicativo (e cfr. qui stesso feo/Macabeo). Ancora: nei versi49-51 che concludono la scena

Indi, tra l’altre luci mota e mista,mostrommi l’alma che m’avea parlato qual era tra i cantor del cielo artista,

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notevole è non solo la preziosa allitterazione, per così dire in enjambe-ment «Mota e Mista / MostroMMi l’alMa»,13 ma anche quella costru-zione icastica dell’interrogativa indiretta con “quale” scisso dal sostantivodi riferimento «qual era tra i cantor del cielo artista» che aveva già impre-ziosito la dichiarazione di indicibilità all’inizio del canto 8-9 «e qual ioallor vidi / ne li occhi santi amor, qui l’abbandono», a riscontro, ancorauna volta, della memoria ritmico-sintattica che accomuna zone, prossimeo remote, del poema.

Ma in linea più generale, e con maggior peso nella compagine delcanto, Dante sta preparando allusivamente la sequenza maggiore che, fraun istante, inaugurerà il suo ingresso nel cielo di Giove. La scena rappre-sentata (l’istantaneo trascorrere, per otto volte, lungo il braccio della crocedell’anima di volta in volta nominata da Cacciaguida) e la condizione delviator percipiente prefigurano gli elementi paralleli dello spettacolo suc-cessivo, soprattutto nella dichiarata equivalenza e sincronicità (39 «né mifu noto il dir prima che ‘l fatto») tra parola e atto, tra verba e moto. Qui idue elementi, se pur simultanei e correlativi, risultano ancora distinguibili,se è vero che la parola si inscrive ancora nell’ambito dell’oralità; fra poco,la fusione tra movimento e parola (o, meglio, tra movimento, parola e im-magine) sarà perfetta, in una sorta di crescendo tumultuoso di prodigioserivelazioni.

Una volta che Cacciaguida si è riunito definitivamente agli altri spiritimilitanti della Croce, il pellegrino, senza bisogno questa volta di inviti osollecitazioni, si volge spontaneamente alla sua guida per apprenderne ilda farsi: e anche ora Dante torna a insistere, significativamente, suquell’equivalenza atto/parola che attraversa come un filo rosso l’interadinamica del canto (vv. 52-54):

Io mi rivolsi dal mio destro latoper vedere in Beatrice il mio dovere,o per parlare o per atto, segnato.

È il momento del passaggio da Marte a Giove, segnalato innanzitutto da-ll’aumentato splendore di Beatrice. Sulla soglia, due similitudini a distin-

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guere e insieme saldare le zone rispettive dei due cieli. Due autentiche si-militudini, si badi. Nessun dubbio pare suscitare la seconda:

E qual è ‘l trasmutare in picciol varcodi tempo in bianca donna, quando ‘l voltosuo si discrchi di vergogna il carco,

in cui perfettamente il candore improvviso e accecante di Giove14 chesegue al rosseggiante bagliore del cielo degli spiriti militanti, viene ac-costato a quello che torna subito a illuminare il volto di una donna dopoun fugace rossore. Quanto alla prima, di apparenza meno evidente (vv.58-63):

E come, per sentir più dilettanzabene operando, l’uom di giorno in giornos’accorge che la sua virtute avanza,

sì m’accors’io che ‘l mio girare intornocol cielo insieme avea cresciuto l’arco,veggendo quel miracol più addorno,

bastino le dotte considerazioni di Alison Cornish (1995) che procuranodi dimostrare come l’accenno dantesco alla dilettanza che cresce colcrescere del buon operare convoglia elementi del pensiero scientifico dimatrice aristotelica e del pensiero mistico per un’idonea rappresentazionedel concetto di istantaneità: con una sorprendente sintesi tra psicologiacomune e nozioni tecniche.

Siamo, come molti fanno notare, alla metà esatta del canto: e l’ingressonel nuovo mondo del cielo di Giove, con l’impazienza e l’emozione delcimento descrittivo e stilistico che sta per affrontare, suggeriscono all’au-tore una ritmicità ansiosa, quasi incalzante, come di chi voglia accelerarel’accostamento a ciò che incombe. In questa chiave si spiega il non co-mune infittirsi di intense inarcature nelle due ultime terzine della primaparte, quelle occupate dalla seconda similitudine, fino alla rilevata spez-zatura del sintagma inaugurale “stella // sesta” (vv.64-69):

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E qual è ‘l trasmutare in picciol varcodi tempo in bianca donna, quando ‘l voltosuo si discarchi di vergogna il carco,

tal fu ne li occhi miei, quando fui vòlto,per lo candor de la temprata stellasesta, che dentro a sé m’avea ricolto.

La scena che, senza mediazioni, Dio allestisce per Dante pellegrino eDante autore, con i suoi inauditi “versi brevi”, verbalizza per noi, è tra lepiù memorabili invenzioni del poema.15 «Innumerabili faville», cioè unaquantità non misurabile di punti luminosi in cui consistono i beati delcielo di Giove, “volitano” cantando per la volta celeste, aggregandosi finoa formare, per trentacinque volte, una lettera dell’alfabeto. All’apparire diogni lettera, quelle faville si fermano solo un attimo e tacciono, per dareil tempo al privilegiato spettatore di memorizzare e comporre mental-mente nella giusta successione i segni di volta in volta formati e poi dis-solti. La ricostruzione ordinata della sequenza imprime nella mente diDante (nessuna frase, si badi, rimane scritta nel cielo) il primo versetto delLibro della Sapienza: Diligite iustitiam qui iudicatis terram. Finché l’ul-tima lettera della serie, la “emme”, non si accampa, stabile finalmente eisolata, dinanzi allo sguardo del pellegrino. Le forme arrotondate della Mmaiuscola in stile gotico16 subiscono a loro volta una trasformazione peril sopraggiungere dall’alto di “altre luci” che si dispongono nella partecentrale della sommità del segno (apprenderemo di qui a poco che la fi-gura che pare risultare nel passaggio progressivo dal puro segno alfabeticoa una vera immagine è quella di un giglio). A questo punto migliaia di fa-ville già dislocate nella zona inferiore della figura si disaggregano dall’in-sieme, risalgono verso la sommità e modellano la testa e il collo diun’aquila, sviluppo ed esito finale dell’intera mutazione. Da questo puntoin poi (si vedrà nei canti seguenti), l’aquila acquisisce qualità di perso-naggio a pieno titolo, voce unitaria di una concorde molteplicità. Ricor-date tra i primi versi del canto successivo: «io vidi e anche udi’ parlar lorostro, / e sonar ne la voce e «io» e «mio», / quand’era nel concetto e

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‘noi’ e nostro’»; o «Così un sol calor di molte brage / si fa sentir, come dimolti amori / usciva solo un suon di quella image».

Dunque, anime che, muovendosi al ritmo del proprio canto, parlano; o,meglio, per così dire, scrivono, facendosi esse stesse sia strumenti chetracce di scrittura; o, meglio ancora, danno vita a inedite figurazioni visivedi segni grafici, emblemi araldici di un alfabeto aureo, fino al fissarsidell’immagine finale che corona l’incredibile metamorfosi. E, di conse-guenza, un terribile tour de force espressivo dell’autore. Il quale dichiara,come al solito, approssimativa la propria performance riproponendo som-messamente il topos dell’ineffabilità con i “versi brevi” del v. 87,17 e avviapoi la registrazione di un frammentato, graduale atto di lettura che èanche, e simultaneamente, un’inaudita έκφρασισ; è anzi la verbalizza-zione di figurazioni in progress, la riproduzione in versi non solo di im-magini, e di immagini che fanno di sé altre immagini, ma anche di unalunga sequenza visiva.

Ma riprendiamo dall’inizio. L’icastica terzina iniziale dei vv. 70-72,che segue ex abrupto l’ingresso nel nuovo cielo:

Io vidi in quella giovïal facellalo sfavillar de l’amor che lì erasegnare a li occhi miei nostra favella,

fa da prolessi riassuntiva a ciò che sta per essere dettagliatamente descrittoe insieme è destinata a mobilitare la curiosità del lettore, certo disorientatodalla sua arcana significazione. Non solo: ma, se è vero che favella sug-gerisce prevalentemente, nell’uso di Dante, un’accezione concreta, comedi ‘lingua parlata’,18 i versi illudono se non depistano la ricezione dellostesso lettore; o almeno producono un effetto, per così dire, sinesteticogiacché qui non si ‘udiranno’ parole pronunciate. È un effetto da Dantecertamente previsto e voluto. Ai successivi vv. 89-90 infatti l’autore, cheha assistito intanto all’apparizione delle trentacinque lettere, affermerà diaver «notato / le parti sì, come mi parver dette»: ma qui niente, in realtà,viene “detto”19 (solo pochi versi prima, del resto, nell’invocazione alla“diva Pegasea”, l’ausilio richiesto era stato di poter «rilevare / le lor figure

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com’io l’ho concette»):20 e non escluderei perciò un’allusione, più o menoconsapevole, all’implicita vox Dei o, ancor meglio, un acconto sulla “fa-vella” del ‘personaggio’-aquila , già virtualmente attivo sulla scena.

Sorvoliamo, è veramente il caso di dirlo, sulla magnifica similitudinedegli uccelli ai vv. 73-75.21 Segnalerò solo che, se l’insistenza qui su im-magini o allusioni ornitologiche (cfr. v. 41 «muoversi…roteando», v. 45«com’occhio segue suo falcon volando», v. 111 “nidi”) può essere giudi-cata prevedibile in rapporto alla descrizione di una fantasmagoria ‘reale’di anime volanti, è in funzione della centralità dell’aquila, del suo immi-nente protagonismo che Dante allestisce la sua coerente costellazione ver-bale e fantastica.

Le prime lettere che si presentano alla vista di Dante sono D, I ed L enon sarà un caso, come ha mostrato Guglielmo Gorni (1990: 12, 169),che la cosa sia esplicitamente segnalata ai vv. 77-78: «faciensi / or D, orI, or L in sue figure». Sono, banalmente, i fonemi iniziali di Diligite; sonotre, dunque può non sorprendere la loro menzione isolata conoscendo ilruolo del tre nelle convinzioni numerologiche e nelle pratiche compositivee ritmiche del poeta; sono anche, ciceronianamente, le primae litterae dacui è possibile ricavare la parte essenziale dell’intero responso sibillino,e quello che qui verrà offerto a Dante è una sorta di motto-auspicio (ilprimo verso del Liber Sapientiae) da ricostruire e interpretare. Ma sonosoprattutto un geniale compendio dei nomi attribuiti nel tempo a Dio se-condo l’Adamo del prossimo canto XXVI, vv. 133-136:

Pria ch’ i’ scendessi a l’infernale ambascia, I s’appellava in terra il sommo bene onde vien la letizia che mi fascia;

e El si chiamò poi,

con il dettaglio aggiuntivo che almeno un codice autorevolissimo dell’an-tica vulgata, Urb, riporta all’ultimo verso non El ma L appunto come lalettera del nostro canto, da leggersi necessariamente, qui e là, ‘el’22.

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L’inizio della citata invocazione alla “diva Pegasea” ai vv. 82-84 ciconsente finalmente di ritornare, come avevamo promesso, alle terzineiniziali del canto e alla chiosa a suo luogo riportata di Natalino Sapegno.Proviamo ad accostare, intanto, a questi versi la terzina che chiude la partecoreografica del canto (vv. 109-111) esaltando l’opera del Deus artifexautore della scena pirotecnica a cui abbiamo appena assistito:

O diva Pegasëa che li ‘ngegnifai glorïosi e rendili longevi,ed essi teco le cittadi e ‘ regni,

Quei che dipinge lì, non ha chi ‘l guidi;ma esso guida, e da lui si rammentaquella virtù ch’è forma per li nidi.

Le due terzine, genericamente intese o parafrasate, produrrebberoquanto segue: a) il riconoscimento che ‘il poeta immortala ciò di cui parlanella sua opera, e l’opera poetica immortala il poeta’; b) una dichiarazionedi matrice neoplatonica, per cui è nella mente di Dio che giacciono leforme di tutto il reale e dunque ciò che l’uomo percepisce non è che unacopia di quelle (in questo caso, la forma dell’aquila or ora apparsa nelcielo di Giove non è a imitazione delle aquile reali, ma è di queste il mo-dello archetipico).

Eppure si direbbe che proprio i vincoli della struttura ritmico-metricagenerano (appunto come nella terzina di apertura) analoghe costruzionimetrico-sintattiche e fantastiche di impianto sinteticamente contrapposi-tivo («si godeva del suo verbo» / «e io gustava / lo mio»; «li ‘ngegni /fai» / «ed essi teco»; «non ha chi ‘l guidi / ma esso guida»), in cui il nessounico in cui le entità distinte sono avvinte contribuisce alla suprema effi-cacia e memorabilità della forma. Si aggiunga, a proposito dell’ultimaterzina (vv. 109-111), che l’attribuzione a Dio della virtù informativa cheispira e modella tutto il reale implica un riferimento ai “nidi” (metaforadi ogni luogo di gestazione e di nascita nel nostro mondo) ancora visto-samente collegato alla figura dell’aquila. Dove si dimostra, se ce ne fossebisogno, che gli obblighi della rima (nessun dubbio in questo caso che il

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rimante-pilota sia “guidi”, parola-chiave dell’intero dispositivo) si fannoper un poeta come Dante risorse impensate per lo sviluppo del pensieroe della coerenza semantica del proprio universo poetico.

Dunque l’esaltante spettacolo si è concluso. La “emme” finale del ver-setto salomonico si è trasformata in un’aquila: i due segni principali in cuisi materializza il prodigio a cui abbiamo appena assistito (vedremo tra unattimo come valutare la tappa intermedia del giglio) rinviano entrambiindiscutibilmente, fatti salvi significati laterali a cui si è già fatto cenno, almito dantesco dell’Impero, unica istituzione depositaria e titolare dell’ideauniversale di giustizia.23 Per spiegarne la duplice, ma distinta figurazione,valorizzerei anch’io, come ci invita a fare Enrico Malato (1980), un pre-zioso suggerimento dell’attentissimo Buti, per cui il testo mirerebbe a ge-rarchizzare le schiere di anime che intervengono successivamente nellametamorfosi e solo negli ultimi intervenuti (non a caso, dall’alto) occo-rrerebbe individuare i grandi regnanti giusti della storia passata. Prima diprocedere occorre premettere due precisazioni. Innanzitutto, una riprovadello strenuo realismo di Dante, che nel Paradiso più che nelle precedenticantiche gli vale come strumento-chiave per dare alla propria visione qua-lità di esperienza vera, anche se qui fatalmente utilizzabile piuttosto neidettagli che nel quadro di insieme. Si noti come solo ai vv. 95-96 Dantefa uso del paragone della decorazione aurea incastonata su un fondo d’ar-gento a proposito del rapporto tra cielo di Giove e lettera figurata, anchese lo stesso spettacolo si era già presentato trentaquattro volte. Non credodi forzare le intenzioni dell’autore attribuendo anche a questo particolareuna motivazione: il rilievo diventa possibile e verosimile quando ad ac-camparsi definitivamente dinanzi agli occhi del pellegrino è la M finale;prima, la brevissima sosta delle varie lettere e lo sforzo di Dante per me-morizzare le fugaci apparizioni non poteva che impedire l’indugio su det-tagli di questo tipo.

Di rilievo assai maggiore, almeno nella considerazione dei più, laquestione dell’ingigliarsi del v. 113.24 Sulla quale annuncio subito chenon mi soffermerò con particolare accanimento. Non ritengo infatti cheil testo offra alcun appiglio alla lettura di una trasformazione in tre fasi

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della M in Aquila in cui, si badi, ciascuna fase goda dello stesso statutorappresentativo – cognitivo nell’incontrovertibile sviluppo della signifi-cazione allegorica. Il bellissimo e isolatissimo parasintetico, qualora losi volesse caricare di tutte le responsabilità semantiche in chiave storico-polemica che, a partire da un citatissimo intervento di E. G. Parodi,25 glisi sono volute attribuire, occuperebbe una posizione troppo rischiosa-mente marginale e subordinata nella compagine del testo, utilizzato com’è‘a cose fatte’, per così dire retrospettivamente e perciò, a mio parere, sot-tratto all’equivalenza e correlatività con i segni veri tra cui medierebbe.26

Un po’ sorprendente, per tutto quello che qui si è cercato di dire, è chealla questione dell’‘ingigliamento’ della M siano state dedicate, da uncerto momento in poi, tante energie esegetiche, con uso notevolissimo dicompetenze storiche e culturali, di sottigliezze ermeneutiche, di arditecongetture. Si potrebbe addirittura dire che, come accade non di rado, laparte più cospicua degli interventi su un canto di questa portata è statadedicata all’intenzione di contribuire a risolvere un problema probabil-mente inesistente. Ciò precisato, è opportuno tuttavia distinguere tra ledue principali interpretazioni sin qui fornite: quella in chiave storico-po-litica, la quale vede il giglio come emblema della monarchia francese va-namente protesa a usurpare il ruolo dell’Impero, che su di essa trionfacon l’apparizione finale dell’aquila;27 o come polemico cenno alla città diFirenze e alla sua politica anti-imperiale28; e quella, argomentata con laconsueta competenza da Lucia Battaglia Ricci,29 che, sulla base di riscon-tri iconografici articolati e culminanti nel confronto con il celebre affrescodi Ambrogio Lorenzetti nel Palazzo Pubblico di Siena, inclina a leggerenel giglio il simbolo della Sapienza, dote indispensabile dei governantisulla terra. In quest’ultima lettura infatti l’esegeta rinuncia saggiamentea porre sullo stesso piano le tre fasi della trasformazione e suggerisceun’allusione discreta al tradizionale corredo iconografico nella rappre-sentazione della Giustizia che potrebbe aver effettivamente influenzatola creazione del prezioso neologismo.

È proprio la giustizia30 evocata al verso iniziale del Liber Sapientiaeche Dante ha appena letto sul cielo di Giove a incastonarsi come rimante

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centrale nella terzina che segna il passaggio all’ultima parte del canto (vv.115-117):

O dolce stella, quali e quante gemmemi dimostraro che nostra giustiziaeffetto sia del ciel che tu ingemme!

Un brusco passaggio, come ha rilevato Pertile,31 dall’impianto descrit-tivo al pronunciamento etico, per sottolineare che il riferimento al versettosalomonico vale non solo per il suo contenuto semantico specifico, maanche e soprattutto per la creazione complessiva di un simbolo, quellodel testo biblico, della Sacra Scrittura, cui Dante va progressivamente ap-prossimando e assimilando la lettera del poema. Ma non sfugga qui il me-ditato rapporto tra le forme verbali “mi dimostraro” / “sia”, perfetto +presente, indizio del trasferimento in atto dalla forma del referto diegetico,dai tempi del racconto, su cui si è impostata sin qui la trama del canto, allaforma della requisitoria attuale, ai tempi del narratore. Da questo punto inpoi, infatti, è il duro presente sulla terra, il presente dell’auctor che scrive,a dominare la scena. Investito ormai di tutte le prerogative cui lo abilital’imminente conclusione del viaggio provvidenziale, Dante-autore puòpassare dal simbolo alla cronaca, dal cielo alla terra, dal passato al pre-sente. Senza soluzione di continuità e con un transito naturale che è potutodispiacere solo a gelosi custodi del mito di una imprecisata “unità poe-tica”, la rievocazione dell’esperienza esaltante vissuta nel cielo di Gioveinnesca lo sfruttamento della nuova, conquistata autorità di scriba Dei.

Dante proclama dunque la derivazione della giustizia terrena dalla stelladel cielo in cui tale spettacolo gli è stato offerto, rivolgendosi direttamentea Giove il cui luminoso raggio, però, è offuscato attualmente (e l’atten-zione si sposta sul presente del narratore) dal pervertimento della massimaautorità ecclesiastica che «di nova vivanda / è fatta ghiotta» (cfr. Par. XI,124-125) e travolge col suo “malo essemplo” l’intero genere umano. Ilcambio di tono si fa feroce, implacabile. E noi, piuttosto che stupirci dellaviolenta deviazione, ammiriamo stupefatti il modo in cui Dante piombaistantaneamente nelle tonalità del sarcasmo e del disprezzo, impegnandosi

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in un corpo a corpo diretto col Pontefice corrotto, cui addirittura si famostra di concedere l’ultima parola. Che è ovviamente parola blasfemama, occorre riconoscerlo, potentissima, giacché l’irriducibile energia dan-tesca investe di sé anche la voce e i toni attribuiti fittiziamente agli avver-sari per annientarli (è il paradosso, comune nei grandissimi, dellarappresentazione giocoforza seducente del male). Anche in questo caso,infatti, come si è cercato di fare nel corso di tale lettura, sarà bene puntare,piuttosto che sulla scelta delle varie ipotesi formulate a proposito dei ri-ferimenti storici specifici (ma a me pare ormai incontestabile che il pro-tagonista taciuto sia Giovanni XXII, colpevole soprattutto dellascomunica a carico di Cangrande),32 sui valori espressivi che fanno indi-menticabile la battuta finale del papa. Che, di contro alla precedente evo-cazione edificante, da parte dell’autore, della cacciata dei mercanti daltempio (v. 122), dei miracoli di Cristo e del sangue dei màrtiri (v. 123),della perdurante azione dei santi Pietro e Paolo (vv. 131-132), chiude inun agghiacciante sberleffo:

«I’ ho fermo ‘l disirosì a colui che volle viver soloe che per salti fu tratto al martiro,

ch’io non conosco il pescator né Polo».

Un capolavoro di empia irrisione tramata di rovesciamenti e antifrasiironiche: la ‘fermezza’ del “disiro” (ricordate «lo ferm voler» dell’ama-tissimo Arnaut?) indirizzata al fiorino; il fiorino identificato con l’imma-gine del Battista impressa su una delle sue facce; il martirio del Battistaoscenamente mescolato alle danze di Erodiade; l’estremo oltraggio ai duefondatori del Cristianesimo, nominati con apparente familiarità che è bru-tale, ‘comico’ vituperio.33

Le parole del papa traditore sigillano il canto con una tonalità ben di-versa da quella che ne ha dominato l’intero sviluppo. Ma il sorgere dellavena etica, con il suo corredo di accensione emotiva, non pare travolgereil controllo assoluto di Dante sulla sua materia. La logica della simmetriae dell’implicazione governa sotterraneamente anche l’organizzazione di

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quest’ultima parte del canto. Per fermarci solo sui tratti più vistosi, note-remo che dal v. 115 alla fine, cioè a partire esattamente dalla cesura chesepara la descrizione dello spettacolo prodigioso dalla porzione conclu-siva del canto, ci sono sette terzine. Quella centrale (vv. 124-126) è occu-pata dall’invocazione alle anime del cielo di Giove perché intercedano afavore dei viventi e fa da cerniera fra le tre precedenti e le tre successive,in cui l’autore allestisce due discorsi diretti rivolgendosi col ‘tu’ rispetti-vamente alla stella di Giove, prima, e all’‘innominato’ finale, poi. Unaallocuzione, la prima, quasi per paradosso, reale, della realtà inconfutabiledel credente, ma fatalmente senza risposta, se non nella fede del propo-nente; e un dialogo fittizio, immaginario, ma con un interlocutore vivente,cui invece viene concessa l’ultima, ingiuriosa replica: la manifestazioneiconica, direi, forse oltre le intenzioni dello stesso autore, del rassegnatoripiegamento sull’unico colloquio ancora possibile quando ormai tuttoparrebbe compromesso.

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NOTE

1. Irrinunciabile la citazione del celebre giudizio sullo spettacolo del cielo diGiove di un lettore come J.L. Borges (cfr. Borges 1985: 1296: «una delle figurepiù memorabili della letteratura occidentale»). Tra le letture del canto non sempreespressamente citate in seguito, segnalo (precisando che di contributi dello stessoautore che hanno avuto varie redazioni viene riportata solo la più recente): Capetti1912; Marcovaldi 1964; Vazzana 1965; Salinari 1975; Barberi Squarotti 1992;Giglio 2000. Di notevole importanza, anche se non si possono considerare veree proprie letture del canto: Casella 1954; Chierici 1967; Montanari 1977. Le ci-tazioni del poema sono tratte da Alighieri 1966-1967.

2. L’accezione tecnica fu dimostrata dallo Scartazzini a partire dai suggeri-menti, meno precisi, di alcuni antichi commentatori: alla sua bella glossa si ri-manda per un quadro completo della questione che, dopo il suo intervento, puòconsiderarsi definitivamente risolta (cfr. la n. ad locum in Scartazzini 1900).

3. La distinzione tra l’atteggiamento di Cacciaguida e quello del viator risaltagià, come è stato notato soprattutto da F. Torraca (cfr. Torraca 1920, n. ad locum)nell’opposizione tra i verbi, «godeva» e «gustava», ad essi rispettivamente riferitiin rapporto al “verbo”.

4. Cfr. Picone 2002: 266-267, che rinvia alla lettura di Iorio 1989: 472 ss. Piùsfumato l’accenno in Pertile 1991: 28- 29. Per le eventuali relazioni tra queste ter-zine e la “consolatoria” di Cino da Pistoia a Dante per la morte di Beatrice Avegnached el m’aggia più per tempo, cfr. Hollander 1992: 217.

5. Sul topos dell’ineffabilità, il testo di riferimento è ormai Ledda 2002.6. ‘Intelletto’ e non ‘memoria’ sarebbe qui il significato esatto di “mente” se-

condo Bruno Nardi che, anche alla luce di questo passo, rilegge il v. 9 di ParadisoI (cfr. Nardi 1988). Ma, anche accogliendo la proposta di Nardi, resta qui senz’al-tro operante il topos dell’indicibilità.

7. Meno pertinente mi pare una lettura del v. 21 piuttosto diffusa tra i com-mentatori e riferita a Beatrice come allegoria della teologia, che, in quanto stru-mento si salvezza, verrebbe dichiarata pari agli «esempi de’giusti» (cfr.Tommaseo 2004, n. ad locum) o all’ esperienza degli umili (Buti: «Ché; cioè im-però che, non pur ne’ miei occhi; cioè ne le mie esposizioni, o vero ne le appren-sioni de’ Teologi, è Paradiso; cioè sta la beatitudine de’ beati: non pure nelli

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scientifici e gran maestri di Teologia è la beatitudine di paradiso; ma anco ne lementi semplici et idiote», cfr. Buti 1858-1862, n. ad locum; qui si cita dalla ri-stampa anastatica, con premessa di F. Mazzoni, ivi, 1989).

8. Cfr. Picone 2002: 266-267. Per la problematica dell’ amore-caritas il qualesoppianta progressivamente nel poema l’amore-eros che pure ne rappresenta l’ir-rinunciabile antefatto, mi permetto rimandare a Calenda 1998.

9. Sulle filigrane bibliche di questo passo ha richiamato l’attenzione BattagliaRicci 1995, soprattutto p. 11. Le eventuali fonti islamiche della metafora sono se-gnalate nel celebre studio di Asín Palacios (1994, soprattutto pp. 230-231). Nellastessa opera (cfr. soprattutto il cap. III della prima parte, Ciclo II: redazioni del-l’ascensione o mi’rāğ, pp. 26-64) Asín Palacios si sofferma a lungo sul possibileaccostamento della visione dantesca dell’aquila a quella del gigantesco angelo-gallo con cui si inizia il viaggio ultraterreno di Maometto nel Libro della Scala.

10. Il termine «artista», che Dante attribuirà a se stesso nella medesima acce-zione in Paradiso XXX 33, verrebbe qui usato per la prima volta in italiano insenso moderno secondo Hollander 1992: 217-218 (precedente possibile di rife-rimento sarà il rimante del v. 9 del celebre sonetto in cui Cino reagisce a un’ac-cusa di plagio rivoltagli da Cavalcanti, Qua’ son le cose vostre ch’io vi tolgo). CheDante possa al v. 51 riferirsi non a Cacciaguida ma a David, che da Cacciaguidasarebbe additato come massimo cantore tra i beati di Giove, è opinione che Ben-venuto giustamente esclude «tum quia David reponetur infra in spera Jovis, tumquia ista litera non recipit talem expositionem» (cfr, Benvenuto da Imola 1887,n. ad locum).

11. L’incarico da Cacciaguida affidato al nipote tra la fine del canto XVII el’inizio di questo inscrive l’opera di Dante nell’orbita della letteratura esemplare«che il Medio Evo aveva accolto dall’antichità classica, adattandola agli scopidella predicazione e della trattatistica morale», come scrive esattamente, proprioa proposito del nostro canto Del Corno 1989: 195-196.

12. Discute e chiarisce il tema del Neuf Preus, con esatti riferimenti alla lette-ratura oitanica in cui compaiono alcuni dei personaggi qui presenti, Picone 2002:269-270 (utile anche il contributo di R. Hollander 1989. Di rilievo, ma non soquanto persuasiva, l’opinione di Picone secondo cui l’uso del condizionale al v.33 (sarebbe) «mette in evidenza una situazione di squilibrio fra la ricca offertadi materia storica e leggendaria e la, tutto sommato, modesta risposta letterariain campo mediolatino e romanzo» e dunque Dante auspicherebbe qui «la fonda-

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zione di un’epica cristiana di più elevato livello artistico», invito che «sarà rece-pito molto più tardi, nel Quattrocento con il Morgante di Luigi Pulci, e soprattuttonel Cinquecento con la Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso» (2002: 268).

13. Di sottigliezza estrema, ma forse non irricevibile per un poeta come Dante,l’osservazione del padre Lombardi: «Mota all’uso de’ Latini dee qui Dante averescelto in vece di mossa per evitare il mal suono che avrebbero fatto vicine le pa-role mossa e mista» (cfr. Lombardi 1822, n. ad locum).

14. Di rito, per la temprata stella, la citazione del passo del Convivio II XIII 25in cui Dante descrive Giove come «stella di temperata complessione in mezzodella freddura di Saturno e dello calore di Marte».

15. Che la visione descritta in questo canto sia assimilabile o associabile agliepisodi di “visibile parlare” già incontrati nel poema (cfr. Inf. III 1-9 e Purg. X73-96) è opinione frequentemente ripetuta (basti il rimando a Pertile 1991: 38,con i connessi riferimenti bibliografici). Resto però dell’opinione che si tratta diaffinità di superficie che possono indicare una generica attitudine, da parte diDante, a questa pratica specifica senza annullare la necessità di analisi circostan-ziate e distintive, soprattutto in rapporto alle strategie espressive del Paradiso. Èla via intrapresa, tra l’altro, dall’acutissimo J. Freccero nella sua Introduzione al‘Paradiso’, in Freccero 1989: 277-288, secondo il quale la visione descritta daDante nel nostro canto rappresenta forse «la sequenza più ardita di tutto il poema»(p. 281), prototipo ineguagliabile delle “anti-immagini” che dominano la strutturapoetica della terza cantica. Se in un celebre luogo di Par. II Dante, per descriveregli spiriti che compaiono nel cielo della Luna, «usa l’immagine della ‘perla inbianca fronte’…dal punto di vista dell’informazione, si tratta di una similitudinedel tutto impropria: noi apprendiamo semplicemente che il poeta vede bianco subianco. Ciò che conta, naturalmente, è la differenza, che noi non siamo in gradodi percepire, e che pure determina l’intera realtà del Paradiso» (corsivo origi-nale). Qui, esattamente come nel caso della nostra visione, Dante intende «sco-raggiare ogni tentativo di uscire dai confini del testo, impedendoci, per così dire,ogni riferimento al mondo reale che vada al di là della vaga parvenza» (p. 280).A partire proprio dal concetto di differenza messo in luce da Freccero (il saggiocitato risale al 1970, quando fu pubblicato come introduzione alla versione in-glese del Paradiso a cura di John Ciardi, New York, New American Library),l’Aquila del cielo di Giove ha potuto suggerire un impervio ma non trascurabileriferimento ad alcune delle più note posizioni ermeneutiche di Jacques Derrida

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per far luce sulle procedure compositive dantesche nell’ultima cantica del suopoema: cfr. J. Leavey1976.

16. L’esatta spiegazione della trasformazione a partire appunto dalla maiuscolagotica si trova in Caetani 1882. Occorrerà appena rammentare che la rappresen-tazione della M che si offre agli occhi di Dante è ispirata alle lettere incipitarieminiate in oro che compaiono nei manoscritti e che «l’intreccio ‘scritta-figura’ ri-corda le illustrazioni al contempo ‘grafiche e verbali’ delle enciclopedie medie-vali: quella di Rabano Mauro, ad esempio», secondo gli esatti rilievi di unaspecialista come Lucia Battaglia Ricci (1995: 18).

17. Non credo possano esserci dubbi circa il significato del sintagma: ma se-gnalo che Tommaseo vi scorge un’allusione tecnica al fatto che Dante «par chesenta come i numeri italiani siano inuguali a quelli del verso antico» (Tommaseo2004: n. ad locum). A questo proposito è stata forse la glossa di Benvenuto a in-generare qualche ambiguità: «in paucis rhythmis vulgaribus» (Benvenuto 1822:n. ad locum), per l’accostamento tra specifica versificazione volgare e toposdell’insufficienza.

18. Di altro parere, ma acuto, il padre Baldassarre Lombardi che nota: «Segnareagli occhi miei nostra favella, vale quanto segnar, rappresentar, agli occhi mieilettere del nostro alfabeto. Imperocché, se per favella si avessero a intenderedelle parole, essendo le parole che vide da cotali lettere formarsi, state, come inappresso dirà, Latine, e non Italiane, malamente avrebbe Dante detto suo quelparlare, che a’ suoi tempi non era in uso» (Lombardi 1822: n. ad locum).

19. Difficile invocare eventualmente, in questo caso, una possibile influenzadella necessità della rima: facile anzi sarebbe stato l’uso di un più lineare *lette.

20. Sulla carica semantica del verbo rilevare, contro le soluzioni semplicistichedi molti commentatori tra cui il Tommaseo e la Chiavacci Leonardi, importanteLedda 2002: 82, n. 86; ma il significato tecnico del lemma era già stato registratoda Battaglia Ricci 1995: 16, n. 11.

21. Dove agisce, come è segnalato nei commenti, l’ipotesto lucaneo del V librodella Pharsalia, vv. 711-716.

22. Cfr. la n. ad locum di G. Petrocchi in Alighieri, 1966-67, 4. Paradiso. Oc-correrà invece rassegnarsi (con qualche esitazione) a considerare una mera coin-cidenza il fatto che le lettere D, I ed L rappresentano i numeri romani 500, 1 e 50,e dunque, associati, potrebbero costituire una versione per così dire anagrammata

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del celeberrimo e misterioso «cinquecento diece e cinque» di Purg. XXXIII 43.Sull’eventuale valore di acronimo del trigramma iniziale DIL, cfr. Martinelli2002: 283-284.

23. La M rimanda, secondo l’opinione più diffusa, a Monarchia (se non addi-rittura alla dantesca Monarchia secondo Palma di Cesnola 1995: 128 ss.), noncerto a Maria, come voleva Chierici (1967). Ma non mi sentirei di escludere lacandidatura di Mondo, sostenuta per esempio dal Buti: «E per questa fizione alle-goricamente dà ad intendere che questo emme del vocabulo quinto significa lomondo, e però lo figura per la lettera M, perché è la prima lettera che abbia questonome mondo, e però lo pillia dal quinto vocabulo; cioè terram, e non dal secondo,cioè iustitiam che anco v’è l’emme, perché la terra è lo mondo del quale elli in-tende» (1958-62: n. ad locum; si noti però che Dante non avrebbe potuto comun-que far agire la sua trasformazione sulla M di iustitiam, ormai scomparsa, e Buti,per convalidare la propria argomentazione, cade, almeno in questo caso, nell’e-rrore di considerare l’intera scritta come impressa sulla volta di Giove).

24. Per una discussione molto ampia sulla problematica relativa a questo neo-logismo, ma con soluzioni non sempre condivisibili, cfr. Sarolli 1966. Da preci-sare che la lunga dimostrazione del Sarolli, ricca anche di sussidi iconografici,si muove però in un ambito molto diverso da quello percorso successivamente,e a mio parere con maggior pertinenza, da Battaglia Ricci 2006. Solo una men-zione merita l’emendamento insiglarsi proposto da A. Pézard; né giudico essen-ziale l’eventuale accostamento delle figure che appaiono nel canto alleillustrazioni del Liber figurarum di Gioacchino da Fiore, per cui rimando solo aTroncarelli 2002.

25. Parodi 1903; sulla questione Parodi intervenne poi a più riprese nel Bullet-tino della Società Dantesca Italiana.

26. Niente affatto irrilevante mi sembra in questo caso che nessuno dei com-mentatori antichi, sempre preziosissimi per il chiarimento dei riferimenti storicie delle allusioni semantiche del testo dantesco, si soffermi in particolare su questoverbo se non come indicativo di una forma assunta di passaggio dall’effigie in tra-sformazione.

27. Si tratta appunto della proposta esegetica di Parodi (1903). Un rilancio re-cente della parte essenziale di questa proposta (il riconoscimento nel gigliodell’emblema dei regnanti francesi) tenta Fumagalli 2005; Fumagalli intende tut-tavia che le anime impegnate nella metamorfosi siano quelle dei regnanti francesi

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«che hanno creduto in buona fede alla sovranità del loro Paese, e per questo nonsono dannate, ma una volta in Paradiso hanno capito, finalmente, l’errore com-messo» (Fumagalli 2005: 120).

28. Solo così, a mio parere, si potrebbe giustificare eventualmente l’allusionea Firenze, attribuendo cioè alla città un ruolo negativo, di ostacolo al dispiegarsidell’universalismo imperiale vagheggiato da Dante. Per una posizione diversa,cfr. Picone 2002: 277, il quale, leggendo la serie di figure successive in cui sisviluppa la metamorfosi come positive approssimazioni al simbolo finale, escludegiustamente l’identificazione parodiana con la dinastia capetingia ma proponequella, positiva, con la «Firenze del buon tempo antico», evocata da Cacciaguidaai vv. 152-154 del canto XVI proprio attraverso il simbolo del giglio.

29. Cfr. Battaglia Ricci 2006: 108-109; ma della stessa studiosa v. anche la suaimportante lettura del canto (Battaglia Ricci 1995).

30. La centralità del tema della giustizia in questo canto spiega il soffermarsi,da parte di molti commentatori, sulle risonanze in esso riconoscibili di alcuneparti della grande canzone Tre donne intorno al cor mi son venute.

31. Cfr. Pertile 1991: 39-43, dove si notano anche alcune significative coinci-denze del testo salomonico con quello dantesco tra cui, capitale, quella «non…piùsoltanto concettuale, ma lessicale e metaforica» tra le «innumerabili faville» pro-dotte dal «percuoter d’i ciocchi arsi» (vv. 100-101) e il versetto «Fulgebunt justi,et tamquam scintillae in arundineto discurrent».

32. Ricca di riferimenti storici che consentono di orientarsi tra le varie proposteformulate è la lettura di Accame Bobbio 1968. È doveroso però ricordare che ilriferimento a Giovanni XXII risale al commento di G. A.Scartazzini (1900).

33. Pagine molto acute dedica a questo finale ‘comico’ Quaglio 1986.

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