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11 Con angelica voce in sua favella CARLOS LÓPEZ CORTEZO Universidad Complutense de Madrid Asociación Complutense de Dantología RESUMEN: En una primera parte del trabajo, y a la luz de la teología agustiniana, se considera el significado ‘verbal’ de Beatriz; en la segunda parte se analiza el episodio de Giovanna-Primavera, evidenciándose una implícita referencia a los bautismos de Juan y de Cristo, en cuanto claves que permiten diferenciar cualitativamente dos poéticas, la de Guido Cavalcanti y la del propio Dante. Palabras clave: Verbo encarnado, verbo interior, verbo exterior, bautismo, Gracia, significado literal, alegoría. ABSTRACT: The first part of the essay considers, under the light of Augustine theology, the “verbal” significance of Beatrice; the second part analyses the episode of Giovanna-Primavera, revealing an implicit reference to the baptism of John and Christ, the key to distinguishing the quality of two different poetics, that of Guido Calvacanti, and that of Dante himself. Key words: Incarnated Verb, interior Verb, exterior Verb, baptism, Grace, literal meaning, allegory.

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Con angelica voce in sua favella

CARLOS LÓPEZ CORTEZO

Universidad Complutense de Madrid Asociación Complutense de Dantología

RESUMEN:

En una primera parte del trabajo, y a la luz de la teología agustiniana, se considera el significado ‘verbal’ de Beatriz; en la segunda parte se analiza el episodio de Giovanna-Primavera, evidenciándose una implícita referencia a los bautismos de Juan y de Cristo, en cuanto claves que permiten diferenciar cualitativamente dos poéticas, la de Guido Cavalcanti y la del propio Dante.

Palabras clave: Verbo encarnado, verbo interior, verbo exterior, bautismo, Gracia, significado literal, alegoría.

ABSTRACT:

The first part of the essay considers, under the light of Augustine theology, the “verbal” significance of Beatrice; the second part analyses the episode of Giovanna-Primavera, revealing an implicit reference to the baptism of John and Christ, the key to distinguishing the quality of two different poetics, that of Guido Calvacanti, and that of Dante himself.

Key words: Incarnated Verb, interior Verb, exterior Verb, baptism, Grace, literal meaning, allegory.

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Tenzone nº 9 2008

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Nel canto II dell’Inferno, Dante concede al personaggio Virgilio il privilegio di fare la prima descrizione di Beatrice:

Lucevan li occhi suoi più che la stella; e cominciommi a dir soave e piana, con angelica voce, in sua favella (55-57)

In questi versi si mettono già in risalto i due tratti fisici di Beatrice più significativi: la ‘luce’ dei suoi occhi e la sua ‘angelica voce’. Sul significato ‘intellettuale’ e ‘spirituale’ di questo sguardo ‘illumi-nante’ e, a sua volta, ‘illuminato’ dalla luce divina, si è detto forse a sufficienza; non invece, o almeno non convincentemente, sullo specifico modo di ‘favellare’ della gentilissima1. “Angelica voce”, infatti, non è «una libera indicazione metaforica», come difende F. Salsano (E. D. vox “angelico”), ma piuttosto un’espressione deno-tativa: Beatrice parla proprio come parlano gli angeli, cioè, «per spiritualem speculationem», a differenza degli umani, che lo fanno mediante segni allo stesso tempo razionali e sensibili, come si dice nel De vulgari eloquentia:

Cum igitur homo non nature instinctu, sed ratione moveatur, et ipsa ratio vel circa discretionem vel circa iudicium vel circa electionem diversificetur in singulis, adeo ut fere quilibet sua propria specie videatur gaudere, per proprios actus vel passiones, ut brutum animal, neminem alium intelligere opinamur. Nec per spiritualem speculationem, ut angelum, alterum introire contingit, cum grossitie atque opacitate mortalis corporis humanus spiritus sit obtectus.

Oportuit ergo genus humanum ad comunicandas inter se conceptiones suas aliquod rationale signum et sensuale habere: quia, cum de ratione accipere habeat et in rationem portare, rationale esse oporuit; cumque de una ratione in aliam nichel deferii possit nisi per medium sensuale, sensuale esse oportuit. Quare, si tantum rationale esset, pertransire non posset; si tantum sensuale, nec a ratione accipere nec in rationem deponete potuisset.

Hoc equidem sigum est ipsum subiectum nobile de quo loquimur: nam sensuale quid est in quantum sonus est; rationale vero in quanto aliquid significare videtur ad placitum (I, III).

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Alla natura spirituale di questo ‘linguaggio’ bisogna aggiungere anche il suo ‘motore’ divino; è l’amore di Dio, infatti, a far parlare Beatrice, un argomento sul quale si tornerà più avanti:

I’ son Beatrice che ti faccio andare; vegno del loco ove tornar disio; amor mi mosse, che mi fa parlare (70-72)

Questo carattere ‘verbale’ della gentilissima ed il suo particolare modo di parlare, non si giustificano soltanto dal fatto che sia una ‘beata’: Beatrice, oltre ad essere un’anima gaudente, ha un suo specifico significato, attinente all’ambito della ‘contemplazione’, e perciò gnoseologico. Non a caso, nell’empireo siede accanto a Rachele, simbolo della vita contemplativa:

Lucia, nimica di ciascun crudele, si mosse, e venne al loco dov’ i’ era, che mi sedea con l’antica Rachele (If. II 100-102) Non si dimentichi al riguardo che l’ultima felicità dell’uomo

consista proprio nella conoscenza di Dio, vale a dire nella sua contemplazione, dalla quale deriva la beatitudine (Beatrix).

Fin qui mi sono riferito alla Beatrice paradisiaca della Commedia; ma le dimensioni e i contorni del personaggio erano già stati più e meno delineati nella Vita nova con mire ad una sua proiezione futura, a cominciare dall’episodio di Giovanna-Primavera, nel quale la gentilissima si manifesta palesemente come figura Christi, mentre la Giovanna di Guido Cavalcanti è destinata a svolgere il ruolo di Giovanni Battista, vale a dire, quello di precedere “la verace luce”2:

E se anche vòli considerare lo primo nome suo, tanto è quanto dire Primavera, però che lo suo nome Giovanna è da quello Giovanni lo quale precedette la verace luce dicendo: «Ego vox clamantis in deserto: parate viam Domini». E anche mi parve che mi dicesse dopo queste parole: «E chi volesse sottilmente considerare, quella Beatrice chiamerebbe Amore per molte somiglianze che à meco».

Tralascio le implicite e pertinenti considerazioni letterarie3, per affrontare quelle teologiche esplicitamente messe in rilievo dal poeta:

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se Beatrice è figura Christi, in buona logica dovrebbe esserlo anche delle sue due nature, l’umana e la divina. In altre parole, la gentilissima, oltre che ‘immagine’ di Cristo, lo è pure della seconda persona della Trinità, il Figlio, il Verbo di Dio, di cui Cristo è l’incarnazione. Questo fatto spiega che sia qualificata di “miracolo”, essendo i miracoli causati della Trinità:

Ma più sottilmente pensando, e secondo la infallibile veritade, questo numero fue ella medesima: per similitudine dico, e ciò intendo così. Lo numero del tre è la radice del nove, però che, sanza numero altro alcuno, per sé medesimo fa nove, sì come vedemo manifestamente che tre via tre fa nove. Dunque se lo tre è factore per sé medesimo del nove, e lo factore per sé medesimo delli miracoli è tre, cioè Padre e Figlio e Spirito Sancto, li quali sono tre e uno, questa donna fue acompagnata da questo numero del nove a dare ad intendere ch’ella era uno miracolo, la cui radice, cioè del miracolo, è solamente la mirabile Trinitade (19)4

San Tommaso, infatti, valuta di «miracolum omnium miracolorum» l’incarnazione del Figlio (III Sent., d. 3, q. 2, a. 2). Si tenga anche presente a questo proposito il capitolo 14 del libello, nel quale Dante vede Beatrice salire al cielo in forma di «una nebuletta bianca», senza che possa distinguere la sua figura, allo stesso modo che Cristo agli occhi degli apostoli: «Et cum haec dixisset illis, elevatus est: et nubes suscepit eum ab oculis eorum» (Actus Apostolorum, I, 1, 9); così come il fatto, che la gentilissima non muoia né di malattia né di vecchiaia5; come nel caso di Cristo, di cui è figura, resta soltanto la possibilità di una morte ‘violenta’, non inflitta da altri, ma dal proprio Dante che pone il suo personaggio nell’empireo.

Questa doppia natura di Beatrice, analoga a quella del Cristo, complica fino all’esasperazione l’esegesi del libello, se si considera che, se è figura del Verbo incarnato, cioè, della seconda persona della Trinità, e come tale, consustanziale al Padre e allo Spirito santo, non dovrebbero mancare nella Vita nova altri personaggi che siano a sua volta figurae non solo dei genitori di Cristo (cioè, della sua natura umana in quanto incarnazione del Figlio), ma anche delle due

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restanti persone trinitarie, riguardanti la sua natura divina: il Padre e lo Spirito santo.

BEATRICE E LA TRINITÀ Il fatto che Beatrice, in quanto che figura Christi, sia anche

immagine della seconda persona della Trinità, facilita il rinvenimento del suo significato o al meno di uno dei suoi significati. Dante, infatti, aveva letto nel De Trinitate di Agostino, la fonte dottrinale più importante al riguardo, che nell’anima umana si possono rintracciare diversi vestigi della Trinità, tra i quali il primo —base di una gerarchia progressiva che culmina nella scoperta dell’immagine di Dio nell’anima razionale— è quello dell’amante, l’amato e l’amore (VIII, 10, 14: amans, et quod amatur, et amor), —una triade analoga a quella costituita da Dante, Beatrice e Amore, i tre protagonisti della Vita nova—, tenendo sempre conto che in questo caso l’oggetto dell’amore (quod amatur) dell’amante è la propria anima. Le ‘immagini’ trinitarie rilevate da Agostino nell’uomo sono nove, forse non per caso il numero di Beatrice6:

PADRE FIGLIO SPIRITO SANTO

amans quod amatur amor

mens notitia eius amor

mens verbum eius amor

memoria intelligentia voluntas

corpus ipsa visio intentio (quod videtur)

memoria interna visio voluntas

fides cogitatio amor

memoria intelligentia amor

memoria Dei intelligentia Dei amor Dei

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La prima colonna corrisponde alle successive ‘immagini’ del Padre; la seconda a quelle del Figlio; la terza, a quelle dello Spirito santo. Si noti come in quella del Figlio prevalgono i tratti intelligentia e verbum, gli stessi rilevati da Virgilio nella sua descrizione di Beatrice (If. II 55-57), ai quali va aggiunto quello di immagine, dato che il Figlio è anche Immagine del Padre, come si vedrà. In questo senso, alla gentilissima corrisponderebbe la colonna centrale delle nove ‘immagini trinitarie’ di Agostino, mentre nella terza colonna, quella che riguarda le ‘immagini’ dello Spirito santo, non è difficile rintracciare il terzo personaggio della Vita nova, cioè, Amore; anche perché Amore è il ‘nome proprio’ dello Spirito santo, allo stesso modo che Verbo è quello del Figlio:

Il termine amore, parlando di Dio, può riferirsi all’essenza o alle persone. Se è riferito a una persona è un nome proprio dello Spirito santo: come Verbo è un nome proprio del Figlio. Per chiarire la cosa si deve tener presente che in Dio ci sono due processioni: una di ordine intellettivo, cioè la processione del Verbo, l’altra di ordine volitivo, cioè la processione dell’Amore (S. Teol. I, q. 37, a. 1).

Verbo, applicato a Dio in senso proprio, è un termine o nome proprio della persona del Figlio. Infatti esso significa una emanazione intellettuale, e la persona che in Dio procede per emanazione intellettuale è detta Figlio, e tale emanazione è detta generazione. Resta quindi che in Dio soltanto il Figlio è detto propriamente Verbo (ib. q. 34, a. 2).

Si noti a questo proposito che se Dante ama Beatrice tramite Amore, nella Trinità «il Padre e il Figlio si amano per lo Spirito santo» (S. Teol. I, q. 37, a.2), essendo lo Spirito santo l’amore per cui il Figlio è amato dal Padre e il Padre dal Figlio (De Trin. VI, 5, 7).

Riguardo a chi svolge nel libello il ruolo d’immagine del Padre, cioè della memoria (ma anche della mente)7, c’è da considerare che la parte dell’amante corrisponde al personaggio Dante; ma anche l’importante funzione che nella Vita nova svolge questa facoltà: «In quella parte del libro della mia memoria dinanzi alla quale poco si potrebbe leggere8, si trova una rubrica la quale dice Incipit Vita

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Nova». Come osserva Gorni, «Copista, autore e responsabile prima di questa oculata trascrizione è la memoria stessa, come dirà a chiare lettere il poema: ‘o mente che scrivesti ciò ch’io vidi, / qui si parrà la tua nobilitate’ (Inf. II 8-9)» (1996: 243). Qui la memoria appartiene al Dante che ricorda se stesso e scrive ciò che ricorda di se stesso, dovendosi distinguere quindi tra il Dante che ricorda e il Dante ricordato, il quale, in quanto rimembrato, è ‘immagine’ della memoria del Dante che ricorda.

Ne risultano, quindi, tre ‘trinità’, delle quali due sono ‘immagini’ rimandanti alla suprema e unica Trinità divina: Dante, Beatrice e Amore, sono immagini rispettivamente della memoria, dell’ intelligenza e della volontà; e tramite loro, del Padre, del Figlio e dello Spirito santo: Dante (pers) immagine della memoria immagine del Padre (di Dante)

Beatrice immagine dell’ intelligenza immagine del Figlio

Amore immagine della volontà immagine dello Spirito S. (di Dante)

Beatrice, quindi, in quanto che è ‘immagine’ dell’intelligenza e del verbo di Dante, diventa anche ‘immagine’ dell’Intelligenza e del Verbo divini, anche se ci sono forti dissimilitudini tra la Trinità e le tre potenze dell’anima umana:

Aliud est itaque trinitas res ipsa, aliuh imago trinitatis in re alia, propter quam imaginem simul et illud in quo sunt haec tria, imago dicitur; sicut imago dicitur simul et tabula, et quod in ea pictum est; sed propter picturam quae in ea est, simul et tabula nomine imaginis appellatur […] Nec rursus quemadmodum ista imago quod est homo habens illa tria una persona est, ita est illa Trinitas; sed tres personae sunt, Pater Filii, et Filius Patris, et Spiritus Patris et Filii (De Trin. XV, 23, 43).

Il processo operato da Dante consiste, quindi, nel personificare, o piuttosto ‘personaggificare’, le tre potenze dell’anima; ‘immagini’, a loro volta, delle tre persone della Trinità. Nell’operazione, però, ciò che nella realtà è accidente, diventa nella finzione sostanza. Le

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potenze dell’anima, infatti, a differenza di quello che accade in Dio9, sono ‘accidenti’ della sostanza:

Sede o soggetto delle potenze dell’anima o è la sola anima, la quale appunto può essere soggetto di accidenti in quanto ha in sé una certa potenzialità, oppure è il composto. Ma il composto è reso attuale dall’anima. È chiaro quindi che tutte le potenze dell’anima, sia che loro sede si trovi nell’anima sola, sia che si trovi nel composto, emanano dall’essenza dell’anima come dal loro principio: poiché, come si è già detto, l’accidente è causato dal suo soggetto secondo che quest’ultimo è in atto, ma viene ricevuto in esso in quanto è in potenza (S. Teol. I, q. 77, a. 6).

Il poeta, a questo punto, si vede costretto a giustificare questo fatto nell’unico capitolo teorico del libello, cioè in quello che segue l’episodio della Giovanna-Primavera, limitando però la sua spiegazione al personaggio Amore, anche se i suoi ragionamenti riguardano pure gli altri due protagonisti, il personaggio Dante e Beatrice10:

Potrebbe qui dubitare persona degna da dichiararle ogne dubitatione, e dubitare potrebbe di ciò che io dico d’Amore come se fosse una cosa per sé, e non solamente sustantia [separata da materia, cioè] intelligentia, ma sì come fosse sustantia corporale: la quale cosa, secondo la verità, è falsa, ché Amore non è per sé sì come sustantia, ma è uno accidente in sustantia. E che io dica di lui come se fosse corpo, ancora come se fosse uomo, appare per tre cose ch’io dico di lui. Dico che lo vidi venire: onde, con ciò sia cosa che venire dica moto locale, e localmente mobile per sé, secondo lo Phylosofo, sia solamente corpo, appare che io ponga Amore essere corpo. Dico anche di lui che ridea, anche che parlava; le quali cose paiono essere proprie dell’uomo, e specialmente essere risibile; e però appare ch’io ponga lui essere uomo […] Dunque, se noi vedemo che li poete ànno parlato alle cose inanimate sì come se avessero senso o ragione, e fattele parlare insieme; e non solamente cose vere, ma cose non vere: cioè che detto ànno, di cose le quali non sono, che parlano, e detto che molti accidenti parlano, sì come se fossero sustantie e uomini, degno è lo dicitore per rima di fare lo somigliante; ma non sanza

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ragione alcuna, ma con ragione la quale poscia sia possibile d’aprire per prosa (Vn. 16).

I due significati fondamentali di Beatrice, cioè l’intelligenza e il verbo, sono fortemente connessi tra di loro, essendo l’uno ‘espressione’ dell’altra. Tommaso, appoggiandosi in Agostino, spiega con precisione le differenze tra il verbo umano e quello divino:

Se il termine Verbo è presso in senso proprio, in Dio è un nome personale, e in nessun modo essenziale. Per capire questo si deve notare che noi prendiamo il termine verbo in tre sensi propri, mentre un quarto senso è improprio o metaforico. Più comunemente, e in modo più ovvio, chiamiamo verbo [cioè parola] ciò che viene espresso con suoni vocali. Ma esso proviene dal nostro interno quanto ai due elementi che si riscontrano nel verbo esterno, cioè la voce stessa e il suo significato. Infatti, secondo il Filosofo [Periherm. 1, 1], la voce significa il concetto della mente; ed essa ancora nasce dall’immaginazione [cfr. De anima 2, 8]. Invece i suoni vocali che non significano nulla non possono essere detti parola [verbo]. Quindi la voce esteriore è detta verbo perché esprime il concetto interiore della mente. Di qui si ha che in primo luogo e principalmente si dice verbo il concetto interiore della mente, secondariamente la voce che lo esprime e in terzo luogo il fantasma [o immagine sensibile interiore] della voce [che servirà ad esprimerlo]. E queste tre accezioni del verbo sono indicate dal Damasceno [De fide orth. I, 13] quando egli afferma che “si chiama verbo quel moto naturale della mente per cui essa è in atto, pensa e intende, e che è come la luce e lo splendore”: prima accezione”. “Ancora, il verbo è ciò che” non si proferisce con la bocca, ma “si pronuncia nel cuore”: terza accezione. “Finalmente il verbo è ancora l’angelo”, cioè il nunzio, “dell’intelligenza”: seconda accezione. In senso traslato poi, o metaforico, si dice verbo, quarta accezione, la stessa cosa significata o fatta mediante la parola: come quando per indicare semplicemente un fatto o per accennare a un comando siamo soliti dire: “questo è il verbo che ti ho detto”, o [il verbo] “che fu comandato dal re”.

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Ora in Dio il verbo in senso proprio indica il concetto dell’intelletto. Quindi S. Agostino [De Trin. XV, 10] afferma: “Chi è in grado di capire che cosa sia il verbo non solo prima che risuoni, ma anche prima che il suono si rivesta di un’immagine nella fantasia, può già intravedere una certa sembianza di quel Verbo di cui fu detto: ‘In principio era il Verbo”. Ora, lo stesso verbo mentale ha la proprietà di procedere da altro, cioè dalla conoscenza di chi lo ha concepito. Se quindi il verbo si applica a Dio in senso proprio significa qualcosa che procede da altro: e questa è una caratteristica dei nomi personali, poiché le persone divine si distinguono appunto in base alle origini. Quindi si deve dire che il nome Verbo, applicato a Dio in senso proprio, è un nome non essenziale, ma solo personale (S. Teol. I, q. 34, a. 1).

Il rimando di Tommaso al De Trinitate è pertinente al nostro caso. Agostino, infatti, descrive il processo verbale umano partendo da ciò che lui chiama verbo interiore, non appartenente a nessun idioma, e diverso quindi dal verbo esteriore o ‘parola’, sia questo proferito o pensato, che si esprime sempre in una lingua. Il verbo interiore è generato dalla scienza, mentre il verbo esteriore è soltanto segno e voce di quello interiore. Il fatto che questo verbo interiore sia concepito dalla conoscenza o dalla scienza nella mente dell’uomo, ci rivela la sua entità: il concetto (cfr. Cv. I v 12: «Lo latino molte cose manifesta concepute ne la mente che lo volgare far non può»)11. In altre parole, il verbo interiore o concetto, per potersi manifestare ai sensi dell’uomo, si fa ‘parola’, allo stesso modo che il Verbo di Dio si fecce ‘carne’ per potersi manifestare ai sensi degli uomini12:

Proinde verbum quod foris sonat, signum est verbi quod intus lucet, cui magis verbi competit nomen. Nam illud quod profertur carnis ore, vox verbi est: verbumque et ipsum dicitur, propter illud a quo ut foris appareret assumptum est. Ita enim verbum nostrum vox quodam modo corporis fit, assumendo eam in qua manifestetur sensibus hominum; sicut Verbum Dei caro factum est, assumendo eam in qua et ipsum manifestaretur sensibus hominum (XV, 11, 20).

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È in questo verbo interiore dove possiamo intravedere un’ immagine, anche se imperfetta, del Verbo di Dio:

Sed transeunda sunt haec, ut ad illud perveniatur hominis verbum, per cuius qualemcumque similitudinem sicut in aenigmate videatur utcumque Dei Verbum […] Perveniendum est ergo ad illud verbum hominis, ad verbum rationalis animantis, ad verbum non de Deo natae, sed a Deo factae imaginis Dei, quod neque prolativum est in sono, neque cogitativum in similitudine soni, quod alicuius linguae esse nocesse sit, sed quod omnia quibus significatur signa praecedit, et gignitur de scientia quae manet in animo, quando eadem scientia intus dicitur, sicuti est (De Trin. XV, 11, 20).

Abbiamo fin qui considerato la doppia natura ‘concettuale’ e ‘verbale’ di Beatrice servendoci delle analogie stabilite da Agostino, nelle quali il verbo interiore si fa verbo esteriore, come il Verbo di Dio s’incarna nella persona di Cristo, di cui Beatrice è figura; ma non abbiamo contemplato l’accenno a Giovanni a proposito di Giovanna, rinviante, come detto, all’incontro tra il Battista e Cristo, cioè, all’inizio del vangelo di Giovanni e al suo prologo, quando il precursore stava, come di solito, svolgendo la sua attività battesimale, essenzialmente diversa da quella analoga di Cristo, come si vedrà più avanti. Dante non ignorava di certo che la figura di Giovanni e le parole a lui attribuite nel libello («Ego vox clamantis in deserto: parate viam Domini») erano già state interpretate allegoricamente almeno da Allano di Lillo (vid. Liber in distinctionibus dictionum theologicalium: «vox: dicitur Joannes Baptista, unde Evangelio: ‘Vox clamantis in deserto’, quia, sicut vox praecedit verbum, sic Joannes praecessit Christum») e da Ugo di San Vittore:

Praeco Domini vocem Christi se confitetur, quod nullus praecedentium dicere potuti. Est enim vox animi interpretes, quae sine fructus est, nisi eam verbum sequatur. Sic et Joannes vox est, id est praeco animi, id est Christi, qui est sapientia Patris, et mens quae vox omnino inutilis esset, nisi Verbum eam sequeretur. Vel vox dicitur Joannes, quod nullus aliorum dici potuit, quia quemadmodum

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inter vocem et verbum nihil est, sic inter Joannem et Verbum Dei nihil medium fuit (ib. pp. 838-839).

Giovanni dunque è voce, interprete e banditore (verbo esteriore) del verbo interiore (Cristo), qualcosa che non si può dire di nessuno di quelli che lo ‘precedettero’. Quest’interpretazione, però, contraddice, almeno apparentemente, ciò che il Vittorino aveva scritto previamente, dove il Verbo divino significava il concetto della mente, ed il Verbo incarnato, cioè Cristo, la sua manifestazione orale:

Hem quaeritur quare Verbum Filius hic dicatur Verbum autem duo significat, sicut et logos Graecum, cui aequipollet, scilicet mentis conceptum, et oris prolationem. Mens enim prius intus concipit, quod postea oris prolatione manifestat. Sic et Pater Filium de substantia sua gignit per quem omnia disponendo ipse innotuit, et eum in tempore incarnando visibilem mundo exhibuit, et sic maxime mundo innotuit (Hugonis de S. Victore opp. pars I.-Exegetica dubbia. Allegoriae in Evangelia, liber V, In Joannem, p. 831).

La contraddizione si risolve se si considera che Giovanni è voce di Cristo soltanto fino al momento del loro incontro; cioè, prima che Cristo si manifestasse in pubblico e parlasse ‘personalmente’, il che implicherebbe allegoricamente che il verbo interiore si era manifestato prima con una voce non propriamente sua, e dopo con quella sua. Ugo stabilisce, infatti, tre tappe: quella rappresentata da quelli che precedettero Giovanni, dei quali non si può dire, però, che fossero voce del Cristo, ma solo che lo annunciano13; quella rappresentata da Giovanni, la cui voce ‘sostituisce’ quella ancora non manifestata di Cristo (vita ‘occulta’); ed infine quella rappresentata dal proprio Cristo che parla da sé (vita ‘pubblica’):

La divinità di Cristo non doveva essere svelata alla sua nascita, ma piuttosto venire occultata nella debolezza dell’età infantile. Una volta però raggiunta l’età matura, in cui egli doveva insegnare, fare miracoli e attirare gli uomini a sé, allora bisognava che il Padre proclamasse la sua divinità, affinché il suo insegnamento fosse più

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credibile […] E ciò soprattutto nel battesimo, mediante il quale gli uomini rinascono come figli adottivi di Dio (S. Teol. III, q. 39, a. 8).

Se si applicano alla Beatrice-Cristo-Verbo interiore le tre fasi rilevate in Ugo di San Vittore, vuol dire, che anche riguardo alla sua espressione verbale, si possono stabilire tre tappe: una prima nella quale non c’è una corrispondenza tra lei (verbo interiore) e quella che dovrebbe essere la sua voce, ma non lo è (verbo esteriore), rinviante al periodo che si chiude con le donne schermo; una seconda in cui la sua voce paradossalmente non è la sua, ma quella di un altro, di cui la Giovanna-Giovanni-Guido è figura: il rinvio alla tappa cavalcantiana della Vita nova (cap. 6-9 [XIII-XVI])14, in cui «la voce era quella del Cavalcanti» (De Robertis 1970: 73)15 mi sembra chiaro; ed una terza, quella dello stile della lode, in cui la gentilissima si ‘mostra’ di persona a tutti, e «par che sia una cosa venuta / da cielo in terra a miracol mostrare»16, come il Cristo di cui è figura (cfr. Donne ch’avete intellecto d’amore e Tanto gentile con Tommaso: «Ma una volta raggiunta l’età matura, in cui doveva insegnare, far miracoli e attirare gli uomini a sé, allora bisognava che il Padre proclamasse la sua divinità»).

Quando parliamo di voce, però, intendiamo naturalmente non solo il ‘suono’, ma anche il suo significato (senso letterale), dato che la voce dovrebbe essere «animi interpretes, quae sine fructu est, nisi eam verbum sequatur», secondo Ugo di San Vittore. L’inter-pretazione del Vittorino sarebbe dunque applicabile, per analogia, anche alla Giovanna (Giovanni) dantesca, che precede a Beatrice (Cristo), come il senso letterale precede a quello allegorico, vale a dire, alla verità. Nel prologus del vangelo di Giovanni, infatti, si dice del Battista che Non erat ille lux; mentre di Cristo che Erat lux vera, / quae illuminat omnem hominem / venientem in hunc mundi. In questo senso, la figura di Giovanni rimanda alla poesia di Guido sì, ma anche al periodo cavalcantiano di Dante, cioè, all’influenza di Guido17, attinente però alla ‘lettera’, non all’allegoria (lux vera):

E in dimostrar questo, sempre lo litterale dee andare innanzi, sì come quello ne la cui sentenza li altri sono inchiusi, e sanza lo quale sarebbe impossibile ed inrazionale intendere a li altri, e

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massimamente a lo allegorico. È impossibile, però che in ciascuna cosa che ha dentro e di fuori, è impossibile venire al dentro se prima non si viene al di fuori: onde, con ciò che sia cosa che ne le scritture [la litterale sentenza] sia sempre lo di fuori, impossibile è venire a l’altre, massimamente a l’allegorica, sanza prima venire a la litterale. Ancora, è impossibile però che in ciascuna cosa, naturale ed artificiale, è impossibile procedere a la forma, sanza prima essere disposto lo subietto sopra che la forma dee stare: sì come impossibile la forma de l’oro è venire, se la materia, cioè lo suo subietto, non è digesta e apparecchiata; e la forma de l’arca venire, se la materia, cioè lo legno, non è prima disposta e apparecchiata. Onde con ciò sia cosa che la litterale sentenza sempre sia subietto e materia de l’altre, massimamente de l’allegorica, impossibile è prima venire a la conoscenza de l’altre che a la sua. Ancora, è impossibile però che in ciascuna cosa, naturale ed artificiale, è impossibile procedere, se prima non è fatto lo fondamento, sì come ne la casa e sì come ne lo studiare: onde, con ciò sia cosa che ‘l dimostrare sia edificazione di scienza, e la litterale dimostrazione sia fondamento de l’altre, massimamente de l’allegorica, impossibile è a l’altre venire prima che a quella. Ancora, posto che possibile fosse, sarebbe inrazionale, cioè fuori d’ordine, e però con molta fatica e con molto errore si procederebbe. Onde, sì come dice lo Filosofo nel primo de la Fisica, la natura vuole che ordinatamente si proceda ne la nostra conoscenza, cioè procedendo da quello che conoscemo meglio in quello che conoscemo non così bene: dico che la natura vuole, in quanto questa via di conoscere è in noi naturalmente innata. E però se li altri sensi dal litterale sono meno intesi — che sono, sì come manifestamente pare—, inrazionale sarebbe procedere ad essi dimostrare, se prima lo litterale non fosse dimostrato. Io adunque, per queste ragioni, tuttavia sopra ciascuna canzone ragionerò prima la litterale sentenza, e appresso di quella ragionerò la sua allegoria, cioè la nascosa verità; e talvolta de li altri sensi toccherò incidentemente, come a luogo e a tempo si converrà (Cv. II i 8-15).

Una chiave per la teoria dei sensi e per come questi si relazionano tra loro, la troviamo nelle considerazioni teologiche sulla doppia natura, umana e divina, di Cristo, di cui Beatrice è figura. Il

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problema di come la natura divina, spirituale, abbia potuto ‘mischiarsi’ alla ‘carne’ viene spiegato, infatti, dai teologi ricorrendo, analógicamente, al processo verbale:

Lo spirito nell’unire la nostra parola alla voce non funge da intermediario formale, ma efficiente: infatti dalla parola pensata interiormente procede lo spirito, che forma la voce. E similmente dal Verbo eterno procede lo Spirito Santo, che ha formato il corpo di Cristo (S. Teol. III, q. 6, a. 6).

Ma c’è da avvertire che qui “voce” comprende non solo il suono, ma anche il significato, allo stesso modo che per “corpo” s’intende il corpo ‘animato’, vale a dire, ‘umano’18, inseparabile — nei mortali— dall’anima razionale se non con la morte.

Quest’analogia permette a sua volta di spiegare il processo verbale basandoci in quello dell’incarnazione, così descritto da Origene,

L’anima di Cristo serve di vincolo d’unione tra Dio e la carne, poiché non sarebbe possibile che la natura divina si mescolasse direttamente con la carne; è allora che sorge il Dio-uomo. L’anima è come una sostanza intermedia, poiché non è contro la sua natura l’assumere un corpo, e, d’altra parte, essendo una sostanza razionale, nemmeno è contro la sua natura ricevere Dio, al quale ella tende come al Verbo, alla Sapienza e alla Verità (De Principiis, II, 6, 1; in Vives, J. 1971: 316-317).

e più estesamente da Tommaso: Il Damasceno [De fide orth. 3, 2] scrive: “Nel medesimo istante il Verbo di Dio si fece carne, la carne ebbe un anima, l’anima fu razionale e intellettuale.”

Il corpo umano è assumibile dal Verbo per il rapporto in cui sta con l’anima razionale, che è la sua forma. Ma tale rapporto non lo ha prima di ricevere l’anima razionale, poiché non appena la materia viene disposta a una forma, subito riceve quella forma: per cui in un medesimo istante giunge a compimento l’alterazione preparatoria e viene introdotta la forma sostanziale. Quindi il corpo non doveva

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essere assunto prima di essere un corpo umano, il che avviene al momento dell’infusione dell’anima razionale. Come dunque l’anima non fu assunta prima del corpo, essendo innaturale per l’anima esistere prima dell’unione con esso, così il corpo non doveva essere assunto prima dell’anima, non essendo esso un corpo umano prima di avere l’anima razionale (S. Teol. III, q. 6, a. 4).

In altre parole è l’anima razionale a servire d’intermediaria tra l’elemento ‘spirituale’ (divinità) e quello ‘sensibile’ (corpo); ma l’anima razionale, a sua volta, è razionale e intellettuale; cioè, svolge due funzioni, a proposito delle quali Agostino parla di ragione superiore e ragione inferiore:

Dice Agostino [De Trin. 12,4] che la ragione superiore e quella inferiore non si distinguono che per le loro funzioni. Non sono quindi due potenze.

La ragione superiore e la ragione inferiore, come le intende S. Agostino, in nessun modo possono essere due potenze. Infatti egli dice che la ragione superiore è quella “che è ordinata a contemplare e a consultare le verità eterne”: a contemplarle in quanto le considera in se stesse, a consultarle in quanto ricava da esse le regole dell’agire. Invece la ragione inferiore è, a suo dire, la facoltà “che si applica a disporre delle realtà temporali. Ora, questi due tipi di realtà, le temporali e le eterne, rispetto alla nostra conoscenza si presentano in questo rapporto, che le une sono il mezzo per conoscere le altre. Seguendo infatti la via dell’indagine, mediante le realtà temporali arriviamo alla conoscenza delle realtà eterne, secondo il detto dell’Apostolo [Rm. I, 20]: «Le perfezioni invisibili di Dio possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute»; seguendo invece la via del giudizio, mediante le verità eterne già conosciute giudichiamo delle realtà temporali, e in base ai valori eterni le ordiniamo […] Quindi la ragione superiore e quella inferiore non sono che un’unica e identica potenza. Si distinguono però, secondo Agostino, per le funzioni dei loro atti e in base ai loro

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diversi abiti: infatti alla ragione superiore è attribuita la sapienza e a quella inferiore la scienza (S. Teol. I, q. 79, a. 9).

Dunque il Verbo divino, assimilato al verbo interiore o concetto, assunse il corpo (verbo esteriore) mediante l’anima intellettuale e razionale (significato) (Damasceno, De fide orth. 3, 6); ma l’anima è razionale e intellettuale, a seconda che «si applica a disporre delle realtà temporali» (scienza) o «a contemplare e a consultare le verità eterne» (sapienza). Quindi, il significato (anima) può riguardare le realtà temporali (in questo caso è razionale, e legato al sensibile) o le verità eterne (in quest’altro è intellettuale, e separato dal sensibile). Questi due tipi di significato, come le realtà alle quali si riferiscono, hanno tra loro un rapporto tale che l’uno, quello razionale, è mezzo per conoscere l’altro. In altre parole, si tratta del senso letterale, legato alla ‘lettera’, e di quello allegorico o spirituale, al quale si può arrivare mediante quello letterale.

Si noti, a questo proposito, come nel caso di Giovanna-Giovanni, nel separare l’averroista Guido dall’anima l’intelletto, viene a mancare il significato allegorico.

Ho considerato fin qui alcuni aspetti relativi alla natura di Beatrice quale figura dell’incarnazione del Verbo divino. Bisogna dunque distinguere, come in Cristo, una Beatrice ‘immagine del Verbo divino’, da quella che è figura del Verbo incarnato, cioè, di Cristo; rimandante la prima ad un’esistenza non ancora ‘verbale’, ma ‘concettuale’ (verbo interiore); mentre la seconda è rappresentata dalla manifestazione ‘sensibile’ della prima (verbo esteriore), vale a dire, dalla Beatrice che si mostra agli altri uomini, come in “Tanto gentil…”. Va osservato al riguardo che la gentilissima, come verbo interiore, non si esprime in nessun idioma, il che spiega il suo speciale modo di “favellare” in If. II, 55-57; mentre che come verbo esteriore, lo fa in volgare19. Il processo verbo interiore > verbo esteriore riguarda ovviamente il processo di scrittura di Dante (cfr. Rime LXXXIV: «Parole mie che per lo mondo siete»)20, tale quale lo descrive nel canto XXIV del Purgatorio, dove Amore (nome dello Spirito santo: “mi spira”)21, detta dentro (verbo interiore), e Dante

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‘significa’ i ‘concetti’ dettati, cioè, li trasforma in ‘segni’ (voce esteriore): I’ mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo ch’e’ ditta dentro vo significando (52-54).

Ma questo processo di significazione, che si svolge dall’interno (concetto) verso l’esterno (segno), trova la sua giustificazione e la sua completezza nella sua ricezione da parte di un ascoltatore o lettore, la cui operazione si muove in senso contrario; vale a dire, partendo dal segno (esterno) deve arrivare al concetto (interno). In altre parole, la poesia, oltre che essere scritta, deve essere letta e capita, e questo implica un altro processo: l’interpretazione (vid. Baránski, Z. 2002-03).

E acciò che ne pigli alcuna baldanza persona grossa, dico che né li poete parlavano così sanza ragione, né quelli che rimano deono parlare così non avendo alcuno ragionamento in loro di quello che dicono; però che grande vergogna sarebbe a colui che rimasse cose sotto vesta di figura o di colore retorico, e poscia domandato non sapesse denudare le sue parole da cotale vesta, in guisa che avessero verace intendimento. E questo mio primo amico e io ne sapemo bene di quelli che così rimano stoltamente (Vn. 17, 10).

IL BATTESIMO

C’è una forte tendenza a considerare soltanto ciò che è esplicito nei testi danteschi; ma come si fa a separare la figura di Giovanni dalla sua attività fondamentale, vale a dire, il battezzare? Non a caso, come già ricordato, è chiamato il Battista (nomina sunt consequentia rerum). È ovvio, dunque, che quando Dante, a proposito di Giovanna e Beatrice, paragona le figure di Giovanni e di Cristo, impli-citamente sta comparando pure i loro battesimi, anche perché le parole del Battista, citate nell’episodio, furono pronunciate appunto quando stava battezzando, come si legge nel vangelo di Giovanni. Il

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sacramento del battesimo e il verbo esteriore hanno in comune, infatti, l’essere signa visibili di qualcosa d’invisibile:

Sacramentum est in aliqua celebratione, cum res gesta ita fit ut aliquid significare intellegatur, quod sancte accipiendum est […] Quae ob id sacramenta dicuntur, quia sub tegumento corporalium rerum virtus divina secretius salutem eorundem sacramentum operatur; unde et a secretis virtutibus vel a sacris sacramenta dicuntur. Quae ideo fructuose penes Ecclesiam fiunt, quia sanctus in ea manens Spiritus eundem sacramentorum latenter operatur effectum» (Etym. VI, 19, 39-41).

Ma forse è S. Agostino, in XIX Contra Faustum, a mettere in risalto più palesemente il carattere verbale dei sacramenti: «Che altro sono i sacramenti materiali se non delle parole visibili?». Tommaso commenta così questo passo: «Le realtà visibili usate nei sacramenti sono chiamate parole in senso metaforico. Cioè in quanto partecipano la capacità di significare che risiede principalmente nelle parole stesse» (S. Teol. III, q. 60, a. 6). Le parole, infatti, sono signa del pensiero (vid. Etym. I, 9: «Sunt autem verba mentis signa, quibus homines cogitationes suas invicem loquendo demonstrat»), cioè, di qualcosa di ‘non visibile’ e di ‘non trasmissibile’ se non mediante un mezzo sensibile, come Dante spiega nel De vulgari:

Oportuit ergo genus humanum ad comunicandas inter se conceptiones suas aliquod rationale signum et sensuale habere; quia, cum de ratione accipere habeat et in rationem portare, rationale esse oportuit; cumque de una ratione in aliam nichel deferii possit nisi per medium sensuale, sensuale esse oportuit. Quare, si tantum rationale esset, pertransire non posset; si tantum sensuale, nec a ratione accipere nec in rationem deponete potuisset. Hoc equidem signum est ipsum subiectum nobile de quo loquimur: nam sensuale quid est, in quantum sonus est; rationale vero, in quantum aliquid significare videtur ad placitum (I, iii, 2-3).

L’Alighieri, dunque, si serve implicitamente del battesimo per spiegare come il verbo interiore si possa unire ad un elemento sensibile quale il suono, divenendo così verbo esteriore. La base la

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trova in Tommaso, che si rifà, come Agostino riguardo al verbo interiore, all’incarnazione del Verbo divino, cioè, ad un fatto ‘misterioso’ e ‘miracoloso’:

In primo luogo infatti si può considerare in essi [i sacramenti] la causa santificante, che è il Verbo incarnato: al quale il sacramento in certo qual modo si conforma per il fatto che aggiunge a una realtà sensibile la parola, come nel mistero dell’incarnazione il Verbo di Dio si unì alla carne sensibile (S. Teol. III, q. 60, a. 6).

Ne risulta, quindi, un’analogia tra le due coppie concetto-suono e parola-acqua, in cui, essendo il suono e l’acqua gli elementi sensibili, necessariamente il concetto e la parola rappresentano quelli ‘non sensibili’: infatti, nel paragone di Tommaso, la ‘parola’ viene assimilata al Verbo divino, un essere spirituale, la cui immagine, per Agostino, sarebbe il verbo interiore. In altre parole, il verbo esteriore è signum di quello interiore, come il sacramento è un segno sensibile ed esterno che rimanda ad un significato interiore ‘segreto’, cioè, occulto e difficilmente accessibile (cfr. Ugo di San Vittore, De Sacram. I. 1, p. 9, c. 2; PL 176, 317: «il sacramento significa qualcosa per istituzione divina»). Si ricordi a questo proposito come per Dante il suono equivale anche al senso letterale: «E non è qui mestiere di procedere dividendo e a lettera esponendo; chè volta la parola fittizia di quello ch’ella suona in quello ch’ella ‘ntende, per la passata sposizione questa sentenza fia sufficientemente palese» (Cv. II xii 10).

Il battesimo, inoltre, quale ‘sacramento della fede’ (Mt 28, 18-19: «Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo»), e il verbo esteriore, cioè, la poesia quale retorica (cfr. VE II, IV: «que nichel aliud est quam fictio rethorica musicaque poita») hanno in comune altri effetti importanti tra cui la fede del ricettore ed il conseguente stimolo ad operare. A questo riguardo basti considerare questo passo della Retorica di Brunetto:

chi considera la verità di quest’arte e’ troverà che tutto intendimento del parliere è di far credere le sue parole all’uditore. Dunque questo è lo fine, cioè far credere; ché ‘mmanente che l’uomo crede ciò ch’è

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detto si risolve lo suo animo a volere et a ffare ciò che ‘l dicitore intende (1968: 52).

Se per Dante le parole «sono quasi seme d’operazione» (Cv. IV ii 8), uno degli effetti del battesimo è proprio il ‘bene operare’:

i battezzati vengono illuminati da Cristo con la conoscenza della verità, e fecondati da lui con la fecondità delle buone opere mediante l’infusione della grazia […] È effetto del battessimo la fecondità per cui uno produce opere buone (S. Teol. III, q. 69, a. 5).

Le considerazioni fatte fin qui portano, dunque, ad interpretare il sacramento del battesimo come un’immagine della poesia, essendo tutti due non solo ‘segni’ sensibili di un significato, ma anche produttori di un effetto. Le differenze qualitative tra il battesimo di Giovanni e quello di Cristo, messe in rilievo dalla teologia battesimale, servono al poeta a distinguere anche la sua poesia da quella di Guido. In questo senso, anche se il battesimo di Cristo è ‘esteriormente’ (il rito) simile a quello di Giovanni, vale a dire, l’abluzione con l’acqua, è, invece, del tutto diverso in ciò che concerne l’’interno’, vale a dire, il suo significato ed i suoi effetti.

IL BATTESIMO DI CRISTO

A proposito del sacramento del battesimo Tommaso distingue il sacramentum tantum o segno sacramentale, dalla res et sacramentum e la res tantum:

Il sacramentum tantum, è l’elemento visibile ed esterno, segno dell’effetto interiore: ciò infatti costituisce la nozione di sacramento. Ora, (nel sacramento del battesimo) l’elemento offerto esteriormente ai sensi è l’acqua stessa e il suo uso, cioè l’abluzione […] Infatti i sacramenti della nuova legge causano una santificazione; e quindi essi risiedono dove la santificazione si compie. Ora non è l’acqua che viene santificata; ma in essa viene a trovarsi piuttosto una virtù strumentale, non permanente, bensì fatta per raggiungere l’uomo, che è il vero soggetto della santificazione. Perciò il sacramento non consiste nell’acqua stessa, ma nell’applicazione dell’acqua all’uomo,

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ossia nell’abluzione del corpo, fatta con la formula verbale prescritta. La res et sacramentum non è che il carattere battesimale: che è la cosa significata dall’abluzione esterna ed è segno sacramentale della giustificazione interiore. Quest’ultima è la res tantum di questo sacramento: vale a dire, è la cosa significata, senza ulteriori significati (S. Teol. III, q. 66, a. 1).

In altre parole, si tratta, dunque, di un segno sensibile ed esterno che rimanda ad un significato interiore, segno a sua volta di un ulteriore significato, senza che quest’ultimo sia più segno di nulla. Nel caso del battesimo, per intenderci, il segno sensibile, o sacramentum tantum, sarebbe l’abluzione con l’acqua, il cui significato è il lavaggio del corpo (res et sacramentum), segno a sua volta del lavaggio dell’anima o santificazione (res tantum). Si noti come questa stratificazione di sensi che, partendo dall’elemento «offerto esteriormente ai sensi», penetra nell’interno, assomiglia fortemente alla teoria dei sensi della scrittura quale viene esposta da Tommaso:

Se quindi nelle altre scienze le parole hanno un significato, la sacra Scrittura ha questo di proprio: che le stesse realtà indicate dalle parole a loro volta significano qualcosa. Dunque l’accezione ovvia dei termini, secondo cui le parole indicano le realtà, corrisponde al primo senso, che è il senso storico o letterale. L’uso delle realtà stesse espresse dalle parole per significare altre realtà prende il nome di senso spirituale, il quale è fondato sopra quello letterale e lo presuppone […] In quanto dunque le realtà dell’antico Testamento significano quelle del nuovo si ha il senso allegorico; in quanto invece le cose compiutesi in Cristo o significanti Cristo sono un segno di ciò che dobbiamo fare noi si ha il senso morale; in quanto finalmente significano le cose attinenti alla gloria eterna si ha il senso anagogico (S. Theol. I, q. 1, a. 10).

Ed è ripresa dall’autore dell’Epistola a Cangrande, come segnala E. Fenzi (2002: 162-163):

primis sensus est qui habetur per litteram, alius est qui habetur per significata per litteram. Et primis dicitur litteralis, secundus vero

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allegoricus sive moralis sive anagogicus [...] Et quomodo isti sensus mistici variis appellantur nominibus, generaliter omnes dici possunt allegorici, cum sint a litterali sive historiali diversi (20-22).

All’elemento sensibile, cioè, all’acqua (sacramentum tantum) corrisponderebbero le voces, i cui significati (res et sacramentum-senso letterale) diventano segni di un altro significato (res tantum- senso spirituale):

Abluzione con l’acqua > mondezza del corpo> mondezza dell’anima

sacramentum tantum > res et sacramentum > res tantum

(segno) > (senso letterale) > (senso spirituale)

Inoltre, materia del battesimo (l’acqua) e materia poetica (‘argomento’ o tema)22 coincidono, in quanto che l’acqua del battesimo possiede dei tratti che rimandano ai tre magnalia danteschi:

Per istituzione divina l’acqua è la materia propria del battesimo. E ciò opportunamente. Primo, per la funzione stessa che il battesimo esercita, consistente nella rigenerazione alla vita soprannaturale: compito quanto mai consono all’acqua. Infatti i semi dai quali si sviluppano tutti i viventi, cioè le piante e gli animali, sono umidi e composti d’acqua. Per questo alcuni filosofi considerarono l’acqua come il principio di tutte le cose. Secondo, per gli effetti del battesimo, ai quali si adattano le proprietà dell’acqua. Essa infatti lava con la sua umidità: indicando e causando così l’abluzione dei peccati. Per la sua freschezza poi mitiga l’eccesso di calore: indicando così la mitigazione del fomite della concupiscenza. Per la sua trasparenza inoltre è permeabile alla luce: e ben si adatta al battesimo in quanto questo «è il sacramento della fede». Terzo, perché serve a esprimere i misteri di Cristo con i quali siamo stati giustificati (S. Teol. III, q. 66, a. 3).

In sintesi, l’acqua è umida ed è il principio della vita (potenza vegetativa); l’acqua è fresca e mitiga il fomite della concupiscenza (potenza sensitiva); l’acqua è trasparente e permeabile alla luce

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(potenza razionale): le tre potenze dell’anima dalle quali Dante deriva i tre magnalia: salus, venus et virtus (Ve. II, ii).

Possiamo dunque concludere che Dante si serve di modelli teologici e sacramentali per spiegare la sua poetica, contemplata nella sua fase di ‘produzione’ (significazione: dal ‘concetto’ al segno), e in quella di ‘interpretazione’ (significato: dal segno al concetto). Per la prima, ricorre alla teoria verbale agostiniana, dove trovava una base per il processo di significazione del verbo interiore; per la seconda, al battesimo e alla teologia battesimale, dove, oltre che una base per i vari livelli di senso, rinveniva un modello esegetico che partiva dal significato del signum sensibile (senso letterale) per arrivare ad un ulteriore significato fondato su quello (senso spirituale). IL BATTESIMO DI GIOVANNI

Tommaso d’Aquino dedica un’intiera questione della Somma Teologica a caratterizzare il battesimo di Giovanni riguardo a quello di Cristo, distinguendo nel suo battesimo due aspetti, il rito e l’effetto:

Nel battesimo di Giovani possiamo considerare due cose: il rito e l’effetto del battesimo. Il rito certamente non proveniva dagli uomini, ma da Dio, che con una rivelazione personale dello Spirito Santo mandò Giovanni a battezzare. L’effetto invece proveniva dall’uomo: perché quel battesimo non produceva niente che l’uomo non potesse fare (S. Teol. III, q. 38, a. 2).

Il ‘rito’ (lat. “ritus”: oltre che ‘ceremonia religiosa’, anche ‘modo, maniera’) rimanderebbe al ‘modo’, cioè, allo ‘stile’ (cfr. Cv. IV ii 11: «Dico: ‘poi che da aspettare mi pare, diporroe’, cioè lascerò stare, ‘lo mio stilo’, cioè modo, ‘soave’ che d’Amore parlando hoe tenuto»), che sarebbe simile in entrambi i casi. Lo stesso possiamo dire riguardo alla ‘materia’: tanto Giovanni quanto Cristo adoperarono l’acqua per battezzare, vale a dire, la ‘lingua’. La differenza fondamentale, quindi, risiede nel fatto che il battesimo di Giovanni

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era soltanto ‘d’acqua’, mentre quello di Cristo era ‘d’acqua’, sì, ma ‘con lo Spirito santo’ (cfr. Matteo 3, 11: «Io vi battezzo con l’acqua; lui vi battezzerà con lo Spirito santo»). Le conseguenze di questa mancanza nel battesimo di Giovanni riguardano pure i suoi effetti:

1. Purifica soltanto il corpo, non l’anima, come quello di Cristo.

2. È un battesimo di penitenza; non conferisce la grazia né imprime il carattere.

3. Non ‘apre le porte del cielo’, a differenza di quello di Cristo.

4. È soltanto una preparazione al battesimo di Cristo.

Il fatto che sia di solo acqua, e non con lo Spirito Santo, implica il suo significato metapoetico, essendo l’acqua, come detto, l’elemento sensibile, cioè, il segno, che significa la mondezza del corpo (senso letterale), senza che questa mondezza corporale abbia un ulteriore significato, come accade nel battesimo di Cristo. In sintesi, la poesia di Guido, è limitata al solo senso letterale, cioè, razionale, a differenza di quella di Dante, nella quale il senso letterale diventa segno di quello spirituale (cioè, «con lo Spirito santo»). Questa mancanza di senso allegorico sarebbe conseguenza del rifiuto, da parte dell’averroista Cavalcanti, dell’analogia; vale a dire, del rapporto analogico tra ‘sensibile’ e ‘spirituale’ (mondezza del corpo = mondezza dell’anima), base dell’allegoria:

Nella formulazione più elementare, potremmo dire che l’uso poetico della somiglianza è incompatibile con una concezione dualistica del rapporto fra l’anima intellettiva ed il corpo. La frattura della personalità che tale dualismo implica, impedisce l’uso di uno strumento espressivo la cui finalità, sul piano poetico, è appunto quella di ricucire il lato sensibile ed il lato intellettuale della mente. Ciò spiega innanzitutto la sistematica assenza di analogie nei testi di Guido […] Essa però spiega anche l’altrettanto sistematico uso di analogie in Guinizzelli e in Dante, poiché quella formulazione può essere perfettamente ribaltata invertendone i termini concettuali: l’uso poetico della analogia presuppone una concezione integrata del

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rapporto fra anima e il corpo, cioè fra intelletto e sensibilità (Pinto 2004: 32-33).

Pinto fa notare come la teoria poetica di Tommaso si basi proprio su questo principio:

È conveniente che la sacra Scrittura ci presenti le realtà divine e spirituali sotto la figura di realtà corporali. Dio infatti provvede a tutti gli esseri in modo conforme alla loro natura. Ora, è naturale all’uomo elevarsi alle realtà intelligibili attraverso le realtà sensibili, poiché ogni nostra conoscenza ha inizio dai sensi. È dunque conveniente che nella sacra Scrittura le realtà spirituali ci vengano presentate sotto immagini corporee (S. Teol. I, q. 1, a. 9).

La figura di Giovanna, dunque, tramite quella di Giovanni e il suo battesimo, riguarda, da una parte, Guido e la sua poetica, ma allo stesso tempo anche quella di Dante, rappresentandone il ‘senso letterale’ che necessariamente precede quello ‘spirituale’, attinente al verbo interiore (Beatrice). Va rilevato, infine, il carattere ‘razionale’ del senso letterale, basato sul sensibile (Giovanna-Giovanni)23 —ma anche della poetica cavalcantiana—, a differenza di quello spirituale (Beatrice-Cristo), riguardante la fede:

il battesimo è chiamato ‘il sacramento della fede’. Ora, con la fede noi contempliamo le cose celesti, che superano i sensi e la ragione umana. E per ciò significare al battesimo di Cristo il cielo si aprì […] Per il battesimo di Cristo viene aperto a noi in maniera speciale l’ingresso al regno dei cieli, che era stato chiuso al primo uomo a causa del peccato. Ecco perché al battesimo di Cristo i cieli si aprirono, per indicare che i battezzati hanno via libera per il cielo (S. Teol. III, q. 39, a. 5).

Sul confronto dei due battesimi credo che Dante ebbe in mente le due questioni che Tommaso dedica al tema nel terzo trattato della Somma Teologica, in una delle quali, la 38, sul battesimo di Giovanni, oltre che dottrina teologica al riguardo, figura anche una similitudine che favoriva il transfert all’ambito metapoetico:

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Come abbiamo già detto, tutto l’insegnamento e l’attività di Giovanni era una preparazione al Cristo: come i manovali e gli artigiani subalterni preparano la materia alla forma che darà l’artefice principale. Ora, la grazia doveva essere conferita agli uomini per mezzo di Cristo, come afferma l’evangelista: «La grazia e la verità è stata fatta da Gesù Cristo». Ecco perché il battesimo di Giovanni non conferiva la grazia, ma ad essa soltanto preparava, in tre maniere. Primo in quanto l’insegnamento di Giovanni induceva gli uomini alla fede in Cristo. Secondo, abituando gli uomini al rito del battesimo di Cristo. Terzo, mediante la penitenza, preparandoli a ricevere gli effetti del battesimo cristiano (S. Teol. III, q. 38, a.3).

In altre parole, la materia preparata dai ‘subalterni’ equivale al battesimo di Giovanni; mentre la forma data dall’’artefice principale’, la grazia trasmessa dal battesimo di Cristo, mediante la quale «l’uomo viene configurato alla passione e alla resurrezione di Cristo, in quanto muore al peccato e inaugura una nuova vita di giustizia» (S. Teol. III, q. 66, a. 2). Segno di questa ‘giustificazione’ —o res tantum— è la res et sacramentum del sacramento, vale a dire, «la cosa significata dall’abluzione esterna». La ‘giustificazione’ corrisponderebbe, quindi, al senso ‘spirituale’ rilevato prima: è questo ad implicare una nuova vita e un cantico nuovo, mancanti invece nel battesimo di Giovanni, cioè, nella poesia di Guido, il quale viene ridotto alla condizione di artigiano subalterno il cui ruolo è quello di preparare «la materia alla forma che darà l’artefice principale», vale a dire, Dante.

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NOTE 1 «Beatrice si rivolge a Virgilio con angelica voce, in sua favella, ‘cioè in fiorentino volgare, non ostante che Virgilio fosse mantovano’ (Boccaccio, poi Tommaseo). Ma forse a questa interpretazione così specifica del termine è preferibile quella, più generica, di ‘modo di parlare…diverso dal nostro, imperò che il nostro è con errore e difetto, questo è sempre vero e perfetto’ (Buti; analogamente Benvenuto, Landino, Andreoli); ‘con angelica voce nel suo favellare’ (Parodi, che riporta altri esempi del vocabolo [cfr. Lingua 338]; Scartazzini-Vandelli); se non si vuol condividere il parere del Sapegno, che vede nell’espressione ‘un modo ridondante, che riprende il dir del v. precedente (come al v. 97: chiese…in suo dimando); così anche il Chimenz» (A. Bufano, E. D., vox “favella”). 2 Si noti che nell’affermare che Cristo-Beatrice è la ‘verace luce’ si sta negando a Giovanna-Giovanni questa condizione. 3 «un piccolo episodio galante compendia dunque, per l’autore, la storia di una redenzione annunciata; e lascia indovinare, dietro la gerarchia delle due donne, una dignità graduata da riconoscere per analogia ai loro amanti» (Gorni 1996: 264). 4 Cito dall’edizione di G. Gorni. 5 «Il passo, ispirato dalla teoria dei quattro umori (‘Quatuor umores in humano corpore constat, / Sanguis cum colera, phlegma, melancholia’) e dei quattro stati stati fisiologici (caldo, freddo, umido, secco) è illustrato bene da Cv. IV xxiv 5: “e però che la nostra natura si studia di salire, e allo scendere raffrena, però che ‘l caldo naturale è menomato e puote poco, e l’umido è ingrossato (non per[ò] in quantitade, ma pur in qualitade, sì ch’è meno vaporabile e consumabile), aviene che oltre la senettute rimane della nostra vita forse in quantitade di diece anni o poco più o poco meno: e questo tempo si chiama senio”, da leggere soprattutto nel commento ricciardiano di Cesare Vasoli (1958). Insomma Beatrice non è morta di vecchiaia (e non di malattia, o discrasia degli umori, come finora si è interpretato): perché non par dubbio che Beatrice, come già Platone e Cristo, fosse ‘ottimamente…naturata’ (sempre a norma di Conv. IV XXIV 6-7), e dunque sottratta ‘per la sua perfezione e per la fisonomia’ ai fastidi

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del secolo» (Gorni 1996: 178). «Nella seconda stanza si narrano le condizioni meravigliose di questo trapasso, prodotto non già da cause naturali, bensì dalla benignitate e umilitate di lei (vv. 20 2 21), virtù che indussero il Signore a richiamare in cielo tanta salute (v. 25), nel regno degli angeli (v. 16), come in una sorta di dormizione mariana» (ib. p. 268). 6 Si noti pure che se si moltiplica nove (colonna verticale) per tre (colonna orizzontale) il risultato è 27, la cui somma (2+7) fa anche nove. 7 Vid. Vn. 1: «quando alli miei occhi apparve prima la gloriosa donna della mia mente». 8 «Tra i miei primi ricordi precisi» (Contini). Indubbiamente si riferisce a quelli della sua primissima infanzia, mancante di ricordi precisi, come afferma Agostino nel De Trinitate: «Sed hanc aetatem omittamus, quae nec interrogari potest quid in se agatur, et nos ipsi eius valde obliti sumus» (XIV, 5, 8). Infatti, i ricordi del poeta cominciano ai nove anni: «Nove fiate già apresso lo mio nascimento era tornato lo cielo della luce quasi a uno medesimo puncto quanto alla sua propria giratione, quando alli occhi miei apparve prima la gloriosa donna della mia mente» (1). 9 «Dobbiamo necessariamente ammettere che l’intelletto è una potenza dell’anima e non la sua essenza. Infatti il principio immediato dell’operazione è l’essenza stessa di chi opera solo quando l’operazione si identifica con l’essere dell’operante: poiché una potenza sta all’operazione, che ne è l’atto, come l’essenza sta all’essere. Ora, solo in Dio l’intendere si identifica col suo essere. Dunque solo in Dio l’intelletto si identifica con l’essenza, mentre nelle altre creature intellettuali l’intelletto non è che una potenza dell’essere intelligente» (S. Teol. I, q. 79, a. 1). 10 Si tenga presente al riguardo che Amore è l’unica ‘personificazione’ esplicita, mentre Dante e Beatrice, ‘letteralmente’ sono sempre ‘persone’, come nella Commedia, anche se possiedono un significato occulto. 11 Cfr. «In ciascuna cosa di sermone lo bene manifestare del concetto si è più amato e commendato» (Cv. I xii 13); «Oh quanto è corto il dire e come fioco / al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi / è tanto, che non basta a dicer ‘poco’» (Pd. XXXIII 122). 12 Si noti come l’analogia con Cristo implichi anche la Vergine, nel cui

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ventre fu concepito il Verbo incarnato, allo stesso modo che la scienza concepisce il verbo interiore nella ‘mente’ umana: i tratti ‘verginali’ della madonna vengono così trasferiti alla ‘mente’. Questo fatto implicherebbe anche ai genitori di Beatrice: se la gentilissima è figura Christi, la sua genitrice —mancante nella Vita nova— dovrebbe essere figura della madonna, cioè, della ‘mente’ umana, in questo caso del proprio Dante: «A ciò di manifestare che quel corpo era lo stesso Verbo di Dio, fu conveniente che nascesse dal seno incorrotto di una vergine […] Nemmeno il nostro verbo corrompe la mente quando esce da essa. E Dio, scegliendo il parto, nemmeno distrugge la verginità» (S. Teol. III, q. 28, a. 2). 13 «L’Antico Testamento non è ‘vangelo’ (buona nuova), perché non mostra chi doveva venire, ma soltanto lo annuncia» (Origene, Com. in Jo, I, 17; in Vives, J. 1971: 301). 14 «I capitoli che seguono, XIII-XVI, e che rappresentano appunto questo contatto, quest’esperienza, costituiscono un blocco unitario, il primo che s’individui nel libro» (De Robertis 1961: 71). 15 «All’unità d’ispirazione fa riscontro l’unità prosa-poesia; e questa è essenzialmente unità d’immaginazione e di linguaggio. Ma questa immaginazione, questo linguaggio hanno dei connotati ben precisi: quelli della poesia di Cavalcanti» (De Robertis 1961: 72). 16 «È innegabile d’altra parte che fuori di questo émpito programmatico, tradotto nel giro raccolto del sonetto [“Tanto gentil…”] e in un unico movimento dell’immaginazione, lo stile della lode toccasse una grazia ed una musicalità di pronuncia e di idoleggiamento eccezionali. In questo incanto, in questa misura trovava forma e verità la condizione essenziale della lode: quel suo obbedire unicamente alle proprie ragioni interne, l’assoluta sottrazione alle occasioni, all’evento (e parlare sempre per ‘indiffinita persona’: ogn’om ver lei si gira’, ‘chi parlar la sente’, ‘quand’ella altrui saluta’, ‘ogne lingua’, ‘chi la mira’, ‘onne cosa’, ‘nessun’): quel perpetuo miracolo, quello stato di grazia, la storia in atto dell’umanità intera. E chiara risultava, ad un tempo, la natura di questo stato: la sua stretta rispondenza all’intima sostanza affettiva, qui prorompente (quel continuo sentimento di ‘dolcezza’, il motivo, vitale, del ‘sospiro’), di quelle ragioni» (De Robertis 1961: 136).

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17 Si tenga presente a questo riguardo che Cristo, prima d’istituire il proprio battesimo, si fece battezzare da Giovanni. 18 «Nella frase “Il Verbo si fece carne”, il termine carne sta per tutto l’uomo, come se si dicesse: ‘il Verbo si fece uomo’» (S. Teol. III, q. 5, a. 3). 19 «Perveniendum est ergo ad illud verbum hominis, ad verbum rationalis animantis, ad verbum non de Deo natae, sed a Deo factae imaginis Dei, quod neque prolativum est in sono, neque cogitativum in similitudine soni, quod alicuius linguae esse necesse sit, sed quod omnia quibus significatur signa praecedit, et gignitur de scientia quae manet in animo, quando eadem scientia intus dicitur, sicutis est» (De Trinitate, XV,11, 20). 20 Si ricordi che nella Vita nova ‘dire parole’ equivale a ‘poetare’: «mi mosse una volontade di dire anche parole» (IX, 1); «vennemi volontade di dire anche in loda di questa gentilissima parole» (XII, 1); «mi venne volontade di dire anche parole» (XXV, 3) (vid. E. D. vox “parola”). 21 Si noti come il verbo “spirare” rimandi a “spirito”. Al riguardo vid. E.D. vox “spirare”; e S. Teologica, I, q. 36, a. 1. 22 Per materia come ‘argomento’, vid. E. D. vox “materia”. L’argomento, ovviamente, appartiene al senso letterale, e così va interpretato il passo di Cv. I i 14: «quattordici canzoni sì d’amor come di vertù materiate», nel quale non si esclude che le canzoni di tema amoroso possano avere un ulteriore e diverso significato allegorico. 23 «E in questo si accorda [Plotino] col Vangelo in cui si legge: ‘Vi fu un uomo mandato da Dio che aveva nome Giovanni; questi venne in testimonianza, per offrire testimonianza alla luce, affinché tutti credessero per mezzo di lui. Egli non era la luce ma era per rendere testimonianza alla luce. Questi era la luce vera che illumina ogni uomo che viene in questo mondo’. Nella distinzione si mostra chiaramente che l’anima razionale, cioè intellettuale, quale era in Giovanni, non poteva essere luce a sé ma splendeva della partecipazione di un’altra luce vera. Giovanni stesso lo conferma quando rendendogli testimonianza afferma: ‘Noi tutti abbiamo ricevuto della sua pienezza» (Agostino, La città di Dio, X, 2).

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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