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191 Gentucca e il paradigma poetico del dolce stil novo RAFFAELE PINTO Universitat de Barcelona Societat Catalana d’Estudis Dantescos La pertinenza del termine Gentucca alla definizione di stile poetico dei versi seguenti (Purg., XXIV, 52-54): E io a lui: “I’ mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo ch’ e’ ditta dentro vo significando”, fu ben vista e descritta da Edoardo Sanguineti, che integrò le classiche osservazioni di Gianfranco Contini sull’episodio di Bonagiunta mettendo in relazione l’epiteto femmina del v. 43 (“Femmina è nata e non porta ancor benda”) con la distinzione di Vita Nuova, XIX 1 fra le donne “che sono gentili” e quelle che “sono pure femmine”, in rapporto al destinatario selezionato in Donne che avete 1 . La splendida intuizione continiana della necessaria implicazione fra la nuova funzione conoscitiva della poesia e la promozione ontologica dell’oggetto femminile di desiderio (da “pura femmina” a “donna gentile”) 2 , veniva così confermata ed arricchita da uno stringente nesso intertestuale. Proseguendo sulla stessa linea di riflessioni, credo che sia possibile aggiungere qualche capitolo al “romanzo filologico” di Sanguineti. Il primo spunto ce lo offre, senza uscire dall’ambito lessicale esplorato dai due studiosi, proprio la distinzione femmina / donna, addotta, dopo la Vita Nuova ma prima della Commedia, nel De Vulgari Eloquentia (II, VII, 4-5) al fine di esemplificare il lavoro di setaccio necessario per elaborare il lessico del volgare illustre: esclusi, fra gli altri vocaboli, “femina et corpo”, perché “lubrica et reburra”, dovrà essere preferito (fra gli altri) donna, in quanto esempio di vocaboli

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Gentucca e il paradigma poetico del dolce stil novo

RAFFAELE PINTO Universitat de Barcelona

Societat Catalana d’Estudis Dantescos

La pertinenza del termine Gentucca alla definizione di stile poetico dei versi seguenti (Purg., XXIV, 52-54):

E io a lui: “I’ mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo ch’ e’ ditta dentro vo significando”,

fu ben vista e descritta da Edoardo Sanguineti, che integrò le classiche osservazioni di Gianfranco Contini sull’episodio di Bonagiunta mettendo in relazione l’epiteto femmina del v. 43 (“Femmina è nata e non porta ancor benda”) con la distinzione di Vita Nuova, XIX 1 fra le donne “che sono gentili” e quelle che “sono pure femmine”, in rapporto al destinatario selezionato in Donne che avete1. La splendida intuizione continiana della necessaria implicazione fra la nuova funzione conoscitiva della poesia e la promozione ontologica dell’oggetto femminile di desiderio (da “pura femmina” a “donna gentile”)2, veniva così confermata ed arricchita da uno stringente nesso intertestuale. Proseguendo sulla stessa linea di riflessioni, credo che sia possibile aggiungere qualche capitolo al “romanzo filologico” di Sanguineti.

Il primo spunto ce lo offre, senza uscire dall’ambito lessicale esplorato dai due studiosi, proprio la distinzione femmina / donna, addotta, dopo la Vita Nuova ma prima della Commedia, nel De Vulgari Eloquentia (II, VII, 4-5) al fine di esemplificare il lavoro di setaccio necessario per elaborare il lessico del volgare illustre: esclusi, fra gli altri vocaboli, “femina et corpo”, perché “lubrica et reburra”, dovrà essere preferito (fra gli altri) donna, in quanto esempio di vocaboli

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“pexa yrsutaque”. Alla distinzione ideologica e pragmatica formulata nella Vita Nuova, se ne aggiunge così una stilistico-espressiva, nel trattato, perfettamente congruente con la prima. Nella Commedia, allora, accanto alla connotazione etica negativa, il vocabolo femmina usato da Bonagiunta contiene anche una connotazione linguistica negativa, essendo rappresentativo di quel volgare municipale così severamente condannato nel De Vulgari, insieme ai suoi cultori -fra gli altri, il lucchese appunto (I, XIII, 1).

In sintonia con le altre spie testuali allusive del municipalismo di Bonagiunta, il nuovo reperto suggerisce che il trattato linguistico è forse ancora più presente di quanto si sia finora pensato nella ideazione dell’episodio, e che forse, oltre alle ragioni stilistiche, o di linguaggio (ben avvertite da Umberto Bosco 1955:79-101), il De Vulgari possa fornire elementi anche di tipo teorico o ideologico alla sua interpretazione. Col che indico lo scopo del presente studio, che è quello di interrogare l’episodio di Bonagiunta non solo in rapporto alla teoria letteraria del poeta, quale essa si evince dalle polemiche in cui è direttamente o indirettamente coinvolto, ma anche in rapporto alla sua teoria linguistica, quale essa è ovviamente documentata innanzitutto dal De Vulgari.

Il punto di contatto fra piano stilistico e piano teorico è la parola Gentucca, normalmente intesa come nome di persona di cui il vocabolo femmina sarebbe epiteto, e che invece rivela intenzioni di senso più complesse, di tipo gnoseologico, se adeguatamente interrogata secondo la prospettiva della interpretatio nominum, che Carlos López Cortezo suggerisce di estendere a tutti i nomi di persona presenti nella Commedia3. La accusata connotazione municipale di femmina, infatti, si rifrange fatalmente sul significante di Gentucca, illuminandone i sottintesi caratteri di parodia espressiva. In sé considerata (indipendentemente dal suo ipotetico valore onomastico e in assenza di sensi lessematici evidenti), la parola colpisce (quasi in cacofonia) per la rima –ucca, generata dal primo dei tre rimanti, cioè

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Lucca, strategicamente utilizzato, nella terzina precedente, per identificare Bonagiunta:

Ma come fa chi guarda e poi s’apprezza più d’un che d’altro, fei a quel da Lucca, che più parea di me voler contezza.

Si osservi ora che il deittico “quel da Lucca” implica il rinvio anaforico ad altro luogo prossimo del testo in cui Bonagiunta è stato già identificato come lucchese, cioè ai versi 19-20, nei quali Forese lo indica a Dante, fra gli altri penitenti:

Questi”, e mostrò col dito, “è Bonagiunta, Bonagiunta da Lucca...

Se il ricordo dei luoghi citati ora del De Vulgari è qui attivo nella memoria del poeta (ma come potrebbe non esserlo?), è plausibile che la precisazione della provenienza geografica di Bonagiunta sottintenda la denuncia del municipalismo della sua personalità di scrittore. Il toponimico, infatti, lo bolla immediatamente come uno di quei toscani “quorum dicta ... non curialia sed municipalia tantum invenientur”. Si osservi, nella lista nera dei reprobi del De Vulgari, uno per ogni municipio toscano, l’uso del toponimico come epiteto spregiativo:

“Guittonem Aretinum... Bonagiuntam Lucensem, Gallum Pisanum, Minum Mocatum Senensem, Brunectum Florentinum”4.

Ed anche nella Commedia è in questo senso sottilmente spregiativo che Forese lo ridefinisce attraverso il toponimico: “Bonagiunta, / Bonagiunta da Lucca”.

Il municipalismo, però, non è solo caratterizzazione esterna di Bonagiunta, dipendente, cioè, dal giudizio estetico-linguistico di Dante, ma anche interna, cioè positivamente ed orgogliosamente (quindi stupidamente) rivendicata dallo stesso Bonagiunta. E ciò appare innanzitutto nel testo capitale Vo’ che avete mutata la mainera

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(che contrappone le “scure partite” bolognesi ai luoghi, quine, in cui “luce l’alta spera” di Guittone o altro toscano5), ma poi anche in un frammento della canzone Infra le goi’ piacenti (41-44), indicato già da Marcello Ciccuto6 e poi da Luciano Rossi (1998:33) come bersaglio polemico di Dante:

Compita, amorosa, avenente, cortese, donna delle migliori, per cui mi è gioiosa la contrada lucchese.

Il municipalismo di Bonagiunta si riflette qui, oltre che nel linguaggio (partitivo per superlativo in “donna delle migliori”, dativo etico irrazionale in “mi è gioiosa”), anche nel campanilismo erotico: l’oggetto di desiderio non trascende neppure i limiti del contado. Altro che “intelletto d’amore”: la donna del poeta conserva ancora intatto il profumo della contrada (guittonianamente gioiosa)! E sembra allora parodia proprio di questo frammento la maldestra profezia dei versi 43-45 di Purg., XXIV, intesa a riabilitare la fama di Lucca molto più che ad alleviare la pena del futuro esilio di Dante:

“Femmina è nata, e non porta ancor benda” cominciò el, “che ti farà piacere la mia città, come ch’om la riprenda”.

L’insistenza con cui è nominata o indicata la città di Lucca, e il forte localismo di tutto il brano, sono dunque senz’altro funzionali ai connotati municipali della poesia di Bonagiunta, ai quali Dante contrappone un modello di stile poetico che è anche tensione verso il volgare illustre teorizzato nel trattato (ed esemplificato anche lì da Donne che avete, che quindi funziona come principale testo di riferimento normativo da tutte le possibili angolazioni teoriche). La parola Gentucca si rivela allora, nella prospettiva offerta dal De Vulgari, come la contraffazione, lessicalmente deforme, nello stile plebeo di Bonagiunta, delle “donne gentili” di Dante: gent- (da gentile)

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e -ucca (da Lucca)7. Corrisponde certamente ad un nome di persona (per di più attestato nella Lucca del tempo), ma non certo quello di una donna che abbia realmente attraversato la biografia del poeta; è il nome che potrebbe avere la donna amata e cantata da un poeta come Bonagiunta. Cioè pura parodia8.

Ma perché il mormorio indistinto? Perché la frase smozzicata ed inintellegibile al protagonista? Possiamo leggere anche qui una allusione al municipalismo espressivo di Bonagiunta, contrapposto alla trasparenza espressiva che il protagonista rivendica subito dopo como requisito del poeta vero?

Che debba esserci un rapporto, ovviamente di antitesi, fra la difficoltà comunicativa di Bonagiunta e la compiutezza espressiva rivendicata da Dante, lo si intuisce dall’architettura generale dell’episodio, costruito su una serie di distinzioni formali e ideologiche che contrappongono Bonagiunta (in quanto rappresentante del vecchio stile) a Dante (in quanto rappresentante del nuovo). Come riguardo allo statuto ontologico della donna, così anche nel modo di esprimere il femminile (il significato morale di Gentucca e dell’amore che ispira la poesia moderna) Bonagiunta rivela la propria inferiorità: alla sua incapacità di farsi intendere si oppone la perfetta perspicuità delle parole di Dante, non solo in quanto principio di poetica, ma anche in quanto successo pragmatico del suo atto linguistico. L’invito a farsi capire,

“O anima”, diss’io, “che par sì vaga di parlar meco, fa sì ch’io t’intenda, e te e me col tuo parlare appaga”,

rivela la complessità delle sue implicazioni tematiche, e quindi il senso innanzitutto teorico-linguistico di tutto il brano, se pensiamo alla funzione del linguaggio secondo Conv., I, v, 11-12:

Ciascuna cosa è virtuosa in sua natura che fa quello a che ella è ordinata; e quanto meglio la fa, tanto è più virtuosa... Così lo sermone,

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lo quale è ordinato a manifestare lo concetto umano, è virtuoso quando quello fa, e più virtuoso quello che più lo fa... e De Vulg., I, II, 3:

Si etenim perspicaciter consideramus quid cum loquimur intendamus, patet quod nichil aliud quam nostre mentis enucleare aliis conceptum.

Funzione del linguaggio è, per Dante, “manifestare lo concetto umano”, “nostre mentis enucleare aliis conceptum”9. E nel movimento iniziale del dialogo con Bonagiunta, “anima ... che par sì vaga di parlar meco”, viene appunto rappresentata quella tensione comunicativa che è implicita in ogni atto linguistico10. Appunto a tale tensione, ma in un grado altissimo di concentrazione ed esemplarità, allude a sua volta Bonagiunta quando dice “colui che fore / trasse le nove rime”: che non significa affatto un banale “compose”, ma bensì “estrasse da dentro di sé” delle rime, quelle di Donne che avete, la cui novità consiste precisamente nel fatto di intendere la poesia come forma di discorso istituzionalmente destinata a “manifestare il concetto” interno, “mentis enucleare aliis conceptum”11. Conferma tale interpretazione un verso di Cino da Pistoia (S’io mi riputo di niente alquanto, 7) che riprende proprio in questo significato il concetto di Dante: “ch’io tragga del mio cor ciò ched io canto” (concessione di Amore, “che dentro dal mio core alberga e sede”, 4)12.

Si osservi, poi, che tanto il Convivio quanto il De Vulgari presentano la finalità comunicativa del linguaggio non come una condizione strutturalmente inerente ad ogni lingua e ad ogni atto linguistico, ma bensì come compito espressivo che ogni lingua, e al suo interno ogni atto linguistico, realizzano meglio o peggio. Il latino è per ora più virtuoso, perché comunica il concetto della mente meglio del volgare; il rapporto si invertirà quando il volgare avrà assunto quel grado di perfezione formale che gli permetta di esprimere ogni possibile contenuto mentale. E saranno i poeti migliori, secondo Dante, cioè i più illustri, a conseguire nella loro lingua tale grado di efficacia espressiva e comunicativa.

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È evidente allora che nell’episodio di Bonagiunta, tanto nella prima parte del dialogo in rapporto a Gentucca, quanto nella seconda in rapporto al dolce stile, Dante mette in discussione proprio ciò che secondo lui è la finalità essenziale del linguaggio, cioè la manifestazione comunicativa del concetto mentale interno. La poesia non è affatto per Dante un uso alternativo del linguaggio (come potrebbe esserlo per noi), ma al contrario ne rappresenta il suo aspetto istituzionale: è nell’uso poetico che una lingua codifica le sue strutture e realizza le proprie funzioni naturali e sociali, che consistono, innanzittutto, nella adeguata manifestazione del concetto della mente. In tale cornice teorica, il mormorare confuso di Bonagiunta e la lucidità verbale di Dante rappresentano i due limiti, inferiore e superiore, del controllo soggettivo e quindi poetico sulle finalità comunicative del linguaggio.

In tale chiave pragmatico-espressiva deve allora essere interpretata anche la profezia sul benefico effetto che la femmina lucchese avrà sul giudizio di Dante relativo alla città di Bonagiunta, che si conclude con una osservazione sulle “cose vere” che chiariranno l’errore prodotto dal suo mormorare. La difficoltà comunicativa del lucchese non è prodotta da cause estrinseche (per esempio la deformazione del viso e della bocca prodotta dalla magrezza), ma da una incapacità a significare adeguatamente il concetto, che potrà essere dichiarato solo dal referente oggettivo. Strana profezia, questa, che delega ai fatti l’ufficio di manifestare il significato delle parole. Considerato che le “cose vere” sono già rinvio intertestuale allo scambio di sonetti fra Bonagiunta e Guinizzelli (“infin a tanto che il ver l’assicura”), quindi, a norma di Contini, “la realtà sperimentata”, è come se Bonagiunta dicesse: “sono incapace di esprimere adeguatamente il mio concetto, che ti sarà opportunamente significato e rivelato dalle cose stesse”, rivelando con ciò gli effetti nocivi che ha il proprio municipalismo espressivo sul piano comunicativo.

La nuova prospettiva interpretativa che apre sul brano la teoria linguistica del poeta ci fa percepire più chiaramente l’intima

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connessione di tutti gli elementi testuali che intervengono nel dialogo fra i due personaggi, la cui difficoltà di intendersi è drammatizzazione romanzesca di una precisa posizione ermeneutica, como d’altra parte si era già verificato nel canto X dell’Inferno. Come lì la confusione di Cavalcante fra soggetto e oggetto di una frase (“cui Guido vostro ebbe a disdegno”) mette a nudo una poetica, quella di Guido, basata sulla morte del soggetto (in antitesi a una poetica basata sulla morte dell’oggetto, propria di Dante13), così qui il mormorio sconnesso di Bonagiunta mette a nudo una poetica incapace di garantire una adeguata espressione del concetto interno della mente. Ed è appunto in antitesi a questa incapacità che dovremo ora rianalizzare il significato della seconda parte del brano, utilizzando ancora, come prezioso e imprescindibile scandaglio, il trattato sul volgare.

La domanda di Bonagiunta (“Ma di’ s’io veggio qui...”) è ovviamente in rapporto allo scetticismo del poeta sulle innovazioni introdotte da Guinizzelli (in Vo’ ch’avete mutata la mainera). Ma con importanti distinzioni, che ci mostrano un personaggio Bonagiunta molto più informato e avveduto del Bonagiunta storico. Innanzitutto la funzione innovatrice viene dal personaggio attribuita a Dante e non a Guido (come a dire: “la vera rivoluzione si produce con Donne che avete, non prima”). Poi il tono è di calda ammirazione, e non di ironico disprezzo. Infine il senso della innovazione viene individuato nella fonte interiore e mentale della ispirazione (“fore / trasse le nove rime”) e non in quella esterna e scritturale (“traier canson per forsa di scrittura”)14.

Dante calibra la sua risposta rispetto a questi tre elementi, innanzitutto riducendo l’importanza del proprio ruolo nel mutamento di concezione poetica: “’I mi son un...”, professione di (apparente) umiltà che equivale al “Da me stesso non vegno” di Inf., X, 6115; poi compiacendo l’interlocutore con una risposta esaustiva alla sua domanda (risposta che lo lascia infatti quasi contentato); infine esplicitando in modo energicamente sintetico, ma perfettamente chiaro, cosa significa per lui assumere l’interiorità come fonte di

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ispirazione16. Perfettamente chiaro a Bonagiunta, voglio dire, molto meno a noi. Ci sfugge infatti un aspetto logico-linguistico della questione, per il cui chiarimento è necessario ricorrere di nuovo al De Vulgari.

Credo infatti che abbia nociuto, molto più di quanto non abbia giovato, alla comprensione del testo la coincidenza formale fra la definizione di poetica prodotta da Dante (“quando / Amor mi spira noto e a quel modo / ch’ei ditta dentro vo significando”) e il passaggio della Epistola ad Severinum de charitate che Mario Casella indicò come sua fonte diretta:

Quomodo enim de amore loquitur homo qui non amat, qui vim non sentit amoris? De aliis nempe copiosa il libris occurrit materia; huius vero aut tota intus est, aut nusquam est, quia non ab exterioribus ad interiora suavitatis sue secreta transponit, sed ab interioribus ad exteriora transmittit. Solus proinde de ea digne loquitur qui secundum quod cor dictat interius, exterius verba componit; ... qui calamum linguae tingeret in sanguine cordis; quia tunc vera et veneranda doctrina est, cum quod lingua loquitur, conscientia dictat, caritas suggerit et spiritus ingerit.

Dico “nociuto” non perché la connessione fra i due testi sia inesistente; il sintagma “dictat interius” coincide infatti esattamente con il sintagma “detta dentro”, e quindi il legame intertestuale è inoppugnabile. È accaduto però che tale coincidenza, proprio per la sua letteralità, ha fatto perdere di vista altri rinvii intertestuali della definizione dantesca, altrettanto evidenti, e che vanno in una direzione culturale completamente diversa da (e molto più attuale di) quella che indica l’Epistola, il cui commosso misticismo si iscrive in una linea di riflessione che attraverso i Vittorini e Bernardo di Chiaravalle risale ad Agostino17. Ben altro è il livello di complessità del dibattito sul linguaggio che si stava svolgendo nelle università europee, e che Dante conosce perfettamente perché ha dovuto farci i conti nel Convivio e nel

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De Vulgari. Supporre che se ne dimentichi in un momento così essenziale del suo percorso autoesegetico, nella Commedia, sarebbe ingenuo. Soprattutto se si osserva una spia letterale di folgorante evidenza: “a quel modo ... vo significando”.

Modi significandi sive quaestiones super Priscianum maiorem e Modi significandi sono i titoli di due opere, rispettivamente di Boezio di Dacia18 e Martino di Dacia19, di cui è stato ampiamente dimostrato l’influsso sul De Vulgari, e “modi significandi” è espressione tecnica che designa gli universali linguistici descritti dalla grammatica speculativa, cioè quella corrente della scolastica che indaga le regole astratte ed universali di significazione che soggiacciono alle lingue storicamente esistenti.

Le fonti modiste del De Vulgari furono indicate da Maria Corti in un saggio che apriva nuovi orizzonti interpretativi sul pensiero linguistico di Dante (Corti 1982). Sebbene le conclusioni della studiosa fossero acutamente messe in discussione da Franco Lo Piparo, che correggeva sostanzialmente l’idea di una ortodossia modista di Dante20 (Lo Piparo 1986:1-22), la dimensione speculativa del trattato e l’attenzione prestata dall’autore al dibattito contemporaneo sugli universali linguistici è fuori discussione, ed anzi mette in rilievo l’assoluta originalità di pensiero di Dante. La nuova interpretazione del De Vulgari promossa dalla Corti ( avrebbe, però, dato frutti più cospicui sul terreno della teoria poetica di Dante se la stessa studiosa non ne avesse inibito l’estensione dall’ambito linguistico a quello letterario adducendo la fonte vittorina come esclusivo punto di riferimento intertestuale per i versi 52-54 di Purg. XXIV (Corti 1982:53-54). Veniva così autorevolmente preclusa la possibilità di ricostruire il preciso ambito linguistico-filosofico all’interno del quale Dante maturó il proprio paradigma di poesia.

L’idea centrale della teoria modista è che alle concrete lingue esistenti soggiacciono modi significandi universali, cioè principi che regolano la costruzione della frase (in una lingua qualunque) in

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funzione della adeguata espressione del concetto (Boezio di Dacia, Modi significandi, Q. 17):

Modi significandi dictionum sunt principia per quae fit iunctura dictionum in contextu partium orationis ad exprimendum debito modo conceptum intentum.

Si osservi subito la corrispondenza fra “a quel modo”, in Purg., XXIV, 53, e, qui, il sintagma “debito modo”. Come Boezio sul piano grammaticale, così Dante sul piano poetico pone come requisito essenziale del significato (linguistico in un caso, poetico nell’altro) la sua congruenza con il concetto.

Bisogna certo osservare che profondamente diversa è in Dante la concezione linguistica generale, poiché per lui la grammatica è artificiale e secondaria, mentre per Boezio è naturale e primaria, rispetto alle lingue concrete. Se queste ultime non si fossero diversificate, tutti gli uomini parlerebbero naturalmente nello stesso modo (Q. 5):

circumscriptis omnibus idiomatibus et modis loquendis ab hominibus inventis species humana conceptus et affectus naturaliter forte exprimeret et omnes homines eodem modo.

Ma le lingue sono diverse, e quindi (ibid.):

“Est grammatica homini necessaria, ut per se ipsam sciat exprimere conceptum intentum per sermonem congruum.”

In Dante l’elemento regolare del linguaggio non è, come nei modisti, a priori rispetto alle lingue storiche, ma è piuttosto frutto della iniziativa istituzionale dei grammatici (che creano artificialmente sistemi espressivi stabili come il latino) oppure dei poeti (che estraggono dai vari volgari storico-naturali codici letterari unitari,

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come il volgare illustre). Ciò che però Dante mutua dai modisti, e più in generale dall’aristotelismo tardoduecentesco, è l’idea, che abbiamo ora visto in Boezio, della congruitas, cioè dell’adeguamento della espressione verbale al concetto interno, che però per lui è non dispositivo generale del linguaggio, ma compito specifico della nuova poesia, attraverso i procedimenti che il poeta descrive nel trattato (II, vi, 3):

considerandum est quod constructionum alia congrua est, alia vero incongrua. Et quia, si primordium bene discretionis nostre recolimus, sola supprema venamur, nullum in nostra venatione locum habet incongrua, quia nec inferiorem gradum bonitatis promeruit. Pudeat ergo, pudeat ydiotas tantum audere deinceps ut ad cantiones prorumpant: quos non aliter deridemus quam cecum de coloribus distinguentem. Est ut videtur congrua quam sectamur.

Attraverso il concetto della congruitas, applicata alla scelta del registro letterario, Dante traduce in termini di poetica la questione essenziale della grammatica speculativa, cioè il grado di corrispondenza (o isomorfismo) fra i tre livelli in cui si articola il reale in quanto oggetto di conoscenza e significazione (modi essendi – modi intelligendi – modi significandi). La diversa concettualizzazione, nel De Vulgari, non deve occultare la sostanziale identità di problematica, che affiora poi nella Commedia attraverso la esplicita allusione ai modi significandi. È infatti proprio il dibattito, fra gli stessi modisti, sulle modalità della congruitas, che ci mostra la genesi teorica del modello di poetica proclamato da Dante.

Si osservi, in Radulphus Brito (Quaest. S. Priscianum Min.), la riserva sulla necessità che fra i vari livelli del reale esista un rispecchiamento perfetto: “non oportet quod eodem modo quo intellectus intelligit sic vocem ad significandum imponat.”

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Come è stato osservato21, la mancanza di specularità fra i vari piani preserva l’autonomia del grammatico rispetto al filosofo, che verrebbe messa in discussione da una concezione nella quale le proprietà del linguaggio riflettessero esattamente quelle del reale (come era implicito nella classica teoria aristotelica esposta nel De interpretatione22). Esistono però anche posizioni diverse, nell’ambito dei modisti. Boezio parla, infatti, di similitudo, per definire il rapporto fra i tre modi (Q. XXVI):

modi essendi et intelligendi et significandi non sunt idem penitus, quia tunc, statim cum esset modus essendi rei, statim esset modus significandi in dictione illius rei, quod falsum est. Tamen modus significandi accipitur ad similitudinem modi intelligendi et modus intelligendi ad similitudinem modi essendi. Unde non oportet quod illa sunt idem penitus, quorum unum accipitur ad similitudinem alterius.

Identifica, invece, sostanzialmente i tre piani Martino di Dacia: modi essendi et modi intelligendi et modi significandi

sunt idem penitus ... differunt tamen accidentaliter. Et huius probatio est: sicut se habet res extra, intellecta et significata, sic se habent modi essendi, modi intelligendi et modi significandi. Sed res extra, intellecta et significata sunt una et eadem res. Quare et modi essendi, modi intelligendi et modi significandi sunt idem penitus, licet differant per accidens...

Sembra chiaro allora che la fedeltà della parola poetica al dettato interiore (“a quel modo / ch’ei ditta dentro vo significando”) rivendicata da Dante come requisito del dolce stile debba essere interpretata alla luce del dibattito fra i modisti sulla corrispondenza fra le proprietà del linguaggio e quelle delle cose, e che anzi presenti una certa affinità con la posizione di Boezio, che, ponendo fra di essi una relazione di similitudo, distingue i vari piani senza contrapporli né identificarli.

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C’è però un aspetto, della semiotica dantesca, che è indeducibile dalla linguistica dei modisti, ed è l’idea stessa di dettato interiore, che implica la considerazione verbale del concetto mentale: questo, per Dante, è già parola, prima di tradursi esternamente in discorso, il che rende poco produttiva la distinzione fra modi intelligendi e modi significandi, giacché sia gli uni che gli altri hanno strutture di tipo linguistico. Ed è anzi, tale verbalismo interno, una costante della riflessione del poeta, che ha la sua più chiara formulazione nel sintagma “il libro de la mente”, che già nelle Rime e poi nella Vita Nuova caratterizza come originariamente verbale ogni esperienza interna, ed in particolare quella del desiderio23.

Nel dibattito sui modi significandi, la posizione più originale, e più vicina a quella di Dante, di cui costituisce la principale fonte filosofica, è quella di Tommaso d’Aquino, che descrive il rapporto fra cosa, parola e concetto como passaggio da un livello semiotico ad un altro, nel quadro di una noetica fondata sulla sensibilità e l’immaginazione24. Nel frammento che si cita a continuazione (Summa Theol., I, 85, 2), la vox, cioè la parola pronunciata, appare come il punto d’arrivo di un processo che inizia con la ricezione dell’oggetto attraverso la sensibiltà, e prosegue con la sua trasformazione in un idolo, cioè il fantasma della cosa (assente o inesistente). Entrambe le operazioni hanno un seguito (coniungitur) nell’intelletto, che dapprima si informa della specie intellegibile, e poi forma, di questa, la definizione, la divisione o la composizione, che sono infine significate dalla vox come nome (la definizione) e come frase affermativa (la composizione) o negativa (la divisione):

in parte sensitiva invenitur duplex operatio. Una secundum solam immutationem: et sic perficitur operatio sensus per hoc quod immutatur a sensibili. Alia operatio est formatio, secundum quod vis imaginativa format sibi aliquod idolum rei absentis, vel etiam nunquam visae. Et utraque haec operatio coniungitur in intellectu. Nam primo quidem consideratur passio intellectus possibilis secundum quod informatur specie intellegibili. Qua

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quidem formatus, format secundo definitionem vel divisionem vel compositionem, quae per vocem significatur. Unde ratio quam significat nomen, est definitio; et enuntiatio significat compositionem et divisionem intellectus. Non ergo voces significant ipsas species intelligibles; sed ea quae intellectus sibi format ad iudicandum de rebus exterioribus25.

Si osservi, poi, nel De Potentia (Q. 8, a.1), come questa medesima operazione intellettuale venga definita come verbum interno e distinta dal verbum esterno:

Intellectus sua actione format rei definitionem, vel etiam propositionem affirmativam seu negativam. Haec autem conceptio intellectus in nobis propie verbum dicitur: hoc enim est quod verbo exteriori significatur: vox enim exterior neque significat ipsum intellectum, neque speciem intellegibilem, neque actus intellectus, sed intellectus conceptionem qua mediante refertur ad rem.

Come è stato osservato (Panaccio 1999:177-201), la originalità di Tommaso consiste nel fatto di introdurre un livello intermedio fra la specie intellegibile (cioè il dominio dei modi intelligendi) e la vox (cioè il dominio dei modi significandi). Tale livello è il verbum mentis, già teorizzato da Agostino come parola interiore di tipo illuminativo, e ridefinita semioticamente da Tommaso nel quadro della sua noetica aristotelicamente basata sulla sensibilità26.

Dante traduce l’intera problematica dei modi significandi in termini di poetica dell’amore, assumendo il femminile come oggetto esterno che stimola la sensibilità, e il desiderio come principio interno di elaborazione del fantasma che lo riflette nella mente (l’idolum di Tommaso27). Nelle donne che hanno intelletto d’amore (così come ovviamente in Beatrice) si esprime allora il nuovo statuto mentale dell’oggetto di desiderio (da “pura femmina” a “donna gentile”), che non stimola semplicemente la sensibilità e la passionalità (come in

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polemica con Dante vuole Cavalcanti), ma estende, aristotelicamente di similitudo in similitudo, il suo raggio d’azione fino alle zone alte dell’intelletto. La nuova poesia è allora quella che, avendo compreso la natura densamente razionale del femminile, si propone come compito istituzionale la massima congruenza fra la parola pronunciata (o scritta) e quella interna, della mente e del cuore (la quale, come sappiamo da Vita Nuova, XIX, può essere solo parola di lode della donna amata, cioè testimonianza del culto poetico all’oggetto femminile di desiderio). In piena consonanza con il De Vulgari, l’ufficio di creare un nuovo linguaggio letterario (naturale e non artificiale) è demandato non ai grammatici, né ai filosofi, ma ai poeti. Il nuovo paradigma poetico presuppone la continuità analogica (l’isomorfismo, se si vuole) fra il dettato interno del desiderio stimolato dalla donna e il significato della parola che lo esprime. Tale continuità è possibile perché lo stesso desiderio è stato concepito, fin dal principio, cioè già nella Vita Nuova, come tensione essenzialmente espressiva. Ed è in quanto tensione espressiva che l’amore può divenire strumento di rinnovamento esistenziale (di “vita nuova”), centro morale di una antropologia che modernamente liquida l’antico dualismo corpo / anima (platonico ed agostiniano) e finalmente ricompone l’essere umano nella unità sostanziale delle sue funzioni psicofisiche28. Rivelatore è, di nuovo, il paragone con Tommaso: come questi ha ridotto a linguaggio il rapporto conoscitivo (“verbum quod oritur ab intellectu, est similitudo rei intellectae”, De Potentia, Q. VIII, a.129), così Dante ha ridotto a linguaggio il rapporto erotico (“-Noi ti preghiamo che tu ne dichi ove sta questa tua beatitudine-. Ed io, rispondendo lei, dissi cotanto: -In quelle parole che lodano la donna mia-”)30. Per entrambi l’obiettivo è quello di ricomporre il rapporto fra l’interno e l’esterno della persona, quindi fra l’intelletto e la sensibilità, fra l’anima ed il corpo. Ed entrambi concepiscono la parola come punto di confluenza delle funzioni conoscitive ed espressive, cioè come materia verbale che, essendo comune ad ogni attività psichica, ne permette l’interazione sul piano operativo del funzionamento della mente, e l’integrazione sul piano sostanziale della personalità. E

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proprio come l’antropologia di Tommaso rappresenta una svolta nella storia del pensiero occidentale, poiché mette al centro della riflessione filosofica la questione del soggetto che conosce, così il paradigma poetico descritto da Dante (il dolce stil novo) rappresenta una svolta nella storia della letteratura occidentale, poiché indica come compito essenziale della poesia moderna la fondazione espressiva dell’io: “I’ mi son un che...”.

La terzina che segue “O frate, issa vegg’io”, diss’elli, “il nodo

che ‘l Notaro e Guittone e me ritenne di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo”

non presenta alcun problema interpetativo se si accetta la proposta di Lino Pertile di intendere il nodo come allusione metaforica al materiale impedimento (redine o guinzaglio) che trattiene i falchi durante l’addestramento e gli impedisce di volare, metafora ornitologica che richiama da una parte il sonetto di risposta di Guinizzelli a Bonagiunta sui diversi modi di volare degli uccelli (“Volan ausel’ per air di straine guise / ed han diversi loro operamenti, / né tutti d’un volar né d’un ardire”), e dall’altra la doppia comparazione, nel De Vulgari (II, iv, 11), dei poeti illustri alle aquile, e di quelli municipali alle oche (che già Nardi (1966:223) collegó allo scambio di sonetti Bonagiunta – Guinizzelli):

Et ideo confutetur illorum stultitia qui, arte scientiaque immunes, de solo ingenio confidentes, ad summa canenda prorumpunt; et a tanta presumptuositate desistant, et si anseres natura vel desidia sunt, nolint astripetam aquilam imitari.

Al volo gallinaceo dei siciliani e dei toscani, si oppone il volo aquilino dello stilnovisti, le cui penne, strette all’amore che detta, volano alto e dentro, cioè volano alto poiché volano dentro, essendo la fedeltà al concetto interno, ossia la congruenza con la parola del

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desiderio, condizione per il raggiungimento dell’oggetto esterno, tanto più elevato, sul piano metafisico, quanto più è intimo sul piano etico31. Il sonetto Oltre la spera che più larga gira (Vita Nuova, 42), mostra appunto il doppio percorso della mente stimolata dal desiderio, di cui il sospiro è metafora: verso l’alto, dove ora è stabilmente situato l’oggetto di desiderio, e verso l‘interno (il cuore) nel quale è altrettanto stabilmente situato il nome, cioè il ricordo di esso.

Il limite dei prestilnovisti, il nodo che li trattiene al di qua della soglia ermeneutica del dolce stile, è rappresentato dalla incomprensione dei nuovi fondamenti noetici ed espressivi della poesia enunciati nei versi immediatamente precedenti, che Bonagiunta riassume nella formula famosa. Della quale ciò che conta non è la sua estensione predicativa (Dante parla solo di sé, o di un gruppo?), ma bensì il suo valore storico-trascendentale (esprime, quindi, ben più che una poetica). Con essa il poeta definisce un paradigma di poesia che si è storicamente configurato nell’ambito della tradizione lirica romanza, e che ha i suoi precursori (innanzitutto i provenzali), i suoi detrattori (innanzitutto i guittoniani) e i suoi codificatori (innanzitutto lui stesso, e poi quelli che gli sono poeticamente vicini). Tale paradigma (che in Purg. XXVI sarà definito come uso moderno, in opposizione agli antichi che si rifiutano o sono incapaci di accoglierlo) implica delle scelte espressive (il parlar materno inteso come necessaria materia prima di elaborazione formale) ed etiche (l’amor di donna come centro della vita morale e oggetto della riflessione critica) che immediatamente definiscono, sul piano della mentalità e della cultura, la modernità degli scrittori32. In altre parole, l’accesso alla modernità consiste nella interiorizzazione del paradigma poetico che la tradizione lirica è andata poco a poco elaborando, e che Dante ha fissato, al termine di uno sforzo teorico che accompagna tutta intera la sua carriera di intellettuale, nella formula, definitiva e riassuntiva, di dolce stil novo.

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NOTE 1 E. Sanguineti, “Purgatorio” XXIV, in Dante reazionario, Editori Riuniti, Roma, 1992, pp. 189-213 (in particolare le pp. 203-208). 2 G. Contini, Dante come personaggio-poeta della ‘Commedia’, in Varianti e altra linguistica, Einaudi, Torino, pp. 335-361 (in particolare pp. 353-354). 3 C. López Cortezo, L’interpretatio nominum nella Divina Commedia, in Atti del convegno SILFI. 4 Il toponimico usato subito dopo per sé e per i suoi amici (“Guidonem, Lapum et unum alium, Florentinos, et Cynum Pistoiensem”) ha la stessa connotazione negativa, che viene infatti immediatamente neutralizzata attraverso l’osservazione: “si tuscanas examinemus loquelas, et pensemus qualiter viri prehonorati a propria diverterunt...”. D’altra parte, fin dal capitolo IV Dante ha chiarito che per lui “mundus est patria velut piscibus equor”, e che “quamquam Sarnum biberimus ante dentes et Florentiam adeo diligamus ut, quia dileximus, exilium patiamur iniuste, rationi magis quam sensui spatulas nostri iudicii podiamus”. Si osservi, qui, che la distinzione tra municipalismo ed universalismo è parallela a quella fra sensus e ratio (come subito dopo si ribadisce: “ad voluptatem nostram sive nostre sensualitatis quietem in terris amenior locus quam Florentia non existat), che a sua volta si proietta sulla opposizione fra il municipalismo del vocabolo femmina e la nobiltà (illustre) del vocabolo donna. 5 Luciano Rossi, nel suo commento al sonetto (Guido Guinizzelli, Rime, Einaudi, Torino, p. 76) cita come fonte dell’immagine Meo Abbracciavacca, III, 49-51: “Come risprende in iscura partita / cera di foco apprisa, / sì m’à ‘llumato vostra chiara spera”, ed intende quine riferito a Lucca (“e non in Toscana, concetto quanto mai vago in quest’epoca”). Sembra però che il sarcasmo del lucchese miri a colpire proprio il presunto snobismo di chi si ritiene culturalmente superiore per il fatto di appartenere ad un centro culturale internazionalmente famoso (rivendicando per conto suo una patria poetica toscana sentita come linguisticamente unitaria nei confronti di uno straniero) . Un sonetto (enigmatico) di Guittone (O tu, om de Bologna, sguarda e sente) contrappone appunto Bologna a “Toscana e Romagna e Lombardia” (v. 13), addotte come esempi di saggia amministrazione della semina nei confronti di chi semina loglio e pretende di raccogliere grano. 6 Marcello Ciccuto, Reperti allusivi nel canto XXIV del Purgatorio, in “Lettere italiane”, XXXIV, 1982, pp. 386-395 (p. 125). Lo studioso riconduce inoltre “la riduzione in ambito municipale dell’esperienza amorosa” al modello guittoniano di Gente noiosa e villana. 7 Si tratterebbe, quindi, di un ulteriore esempio di quella “costanza dantesca nell’impiego di indicatori allusivi tesi a commutare la valenza semantica originaria di

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materiali verbali propri ad altri autori, con intenti ironici o parodistici”, Ciccuto, op. cit., p. 129. 8 L’utilizzazione della rima in –ucca a fini di satira violenta del municipalismo espressivo, ed in rapporto alla città di Lucca, appare anche in Inf. XVIII, nella descrizione di Alessio Interminei ricoperto di sterco: “e se’ Alessio Interminei da Lucca: / però t’adocchio più che li altri tutti’. / Ed elli allor, battendosi la zucca: / ‘Qua giù m’hanno sommerso le lusinghe / ond’io non ebbi mai la lingua stucca’” (si osservi, qui, la connessione fra l’adulazione, che è peccato della lingua, e la esacerbazione del registro plebeo col quale viebe descritta la situazione dei dannati, e in particolare dell’Interminei, il cui toponimico, in rima, genera i due volgarismi toscani zucca e stucca). Inoltre l’espressione “e non porta ancor benda” (cioè non è ancora maritata) sembra riecheggiare il contesto burlesco del sonetto Anima mia, di Cecco Angiolieri: “Anima mia, cuor del mi’ corp’, amore, / alquanto di merzé e pietà ti prenda / di me, che vivo ‘n contanto dolore / che ‘n ora ‘n ora par che il cuor mi fenda / per la gran pena ch’i’ ho del tremore / ched i’ non t’abbi anzi che porti benda”. Uguale connotazione burlesca ha la benda monacale che secondo gli stolti toglierebbe alle donne i “feminili appetiti”, secondo Boccaccio, all’inizio della novella di Masetto da Lamporecchio (III, 1): “Bellissime donne, assai sono di quegli uomini e di quelle femine che sì sono stolti, che credono troppo bene che, come ad una giovane donna è sopra capo posta benda bianca e in dosso messale la nera cocolla, che ella più non sia femina, né più senta de’ feminili appetiti...”. 9 Si consideri anche De Vulgari, II, I, 8: “Loquela non aliter [est] necessarium instrumentum nostre conceptionis”. 10 Analoga tensione mostra il personaggio di Piccarda, in Par., III, 34-35: “E io a l’ombra che parea più vaga / di ragionar...”. 11 Come d’altronde avverte il testo fin dal principio, distinguendo fra un discorso semanticamente calibrato sull’oggetto esterno (“la sua laude finire”) e un discorso semanticamente calibrato sul concetto mentale (“ragionar per isfogar la mente”): “Donne ch’avete intelletto d’amore, / i’ vo’ con voi de la mia donna dire, / non perch’io creda la sua laude finire, / ma ragionar per isfogar la mente”. Si tratta, certo, di una novità relativa, poiché la localizzazione interna del principio d’ispirazione poetico, e quindi del significato della poesia, è elemento istituzionale della lirica fin dai trovatori. Petrarca lo riformula proprio sulla falsariga dei versi della Commedia che stiamo analizzando (CCCXXXII, 39-40): “... lo stile / che trae del cor sì lacrimose rime”. Ciò che però rende indeducibile dalla tradizione l’assioma dantesco della localizzazione interna alla mente del significato del testo poetico, è la sua giustificazione sul piano della filosofia del linguaggio, cioè il retroterra teorico formulato nel Convivio e nel De Vulgari Eloquentia, ma già attivo nella prassi del poeta fin da Donne che avete.

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12 Non è da escludere, però, una influenza inversa, poiché il concetto appare anche in Merzé di quel signor ch’è dentro a meve, 9-11: “Dunque di cui dottar degg’io parlando / d’Amor? Che dal suo spirito procede, / che parla in me, ciò ch’io dico rimando”, e sostanzialmente anche in Qua’ son le cose vostre ch’io vi tolgo, 7-8: “Queste cosette mie, dov’io le sciolgo, / ben le sa Amor, innanzi a cui le squadro” (cfr. Furio Brugnolo, Cino (e Onesto) dentro e fuori la Commedia, in Omaggio a Gianfranco Folena, Editoriale Programma, Padova, 1993, pp. 369-386, in part. pp. 373-375). Anzi, è suggestiva l’idea di un contributo almeno formale di Cino alla definizione di una poetica, quella di Dante, che è in gran parte andata maturando in polemica con il suo “primo amico”. 13 Cfr. il mio Sensi smarriti. La ermeneutica del disdegno in cavalcanti e in Dante, in “Tenzone”, I, 2000, pp. 97-121 e II, 2001, pp. 39-65. 14 Sul diverso significato del verbo in Dante, rispetto a Bonagiunta, e sulle diverse proposte interpretative, cfr. Franco Suitner, “Colui che fore trasse le nove rime”, in “Lettere italiane”, XXVIII, 1976, pp. 339-345, in particolare le pp. 340-341. Da parte mia osservo che il termine traier, in Bonagiunta, afferisce ad un campo semantico dottrinale o istituzionale caratterizzato dall’opposizione canzone / scrittura, concetti eterogenei che dimostrerebbero la irrazionalità della poesia di Guinizzelli; in Dante, invece, il termine trasse afferisce ad un campo semantico noetico ed antropologico caratterizzato dall’opposizione (dittare) dentro / (trarre) fore, che cambia completamente la interrogazione critica sui procedimenti di composizione del testo poetico, orientandola verso un territorio squisitamente logico-linguistico (per cui vedi infra). In rapporto con la polemica sul municipalismo, si potrebbe, semmai, vedere una connessione fra il trarre usato qui da Dante e il participio electum con cui si descrive la estrazione del volgare illustre da quelli municipali in De Vulgari, I, xvii, 3: “Magistratu quidem sublimatum videtur, cum de tot rudibus Latinorum vocabulis, de tot perplexis constructionibus, de tot defectivis prolationibus, de tot rusticanis accentibus, tam egregium, tam extricatum, tam perfectum et tam urbanum videamus electum ut Cynus Pistoiensis et amicus eius ostendunt in cantionibus suis”. 15 L’allusione al biblico “Ego sum qui sum” (cfr. R. L. Martínez, The Pilgrim’s answer to Bonagiunta and the Poetics of the Spirit, in “Stanford Italian Review”, III, I, 1983, p. 52), come l’allusione all’evangelico “Ex me ipso non veni”, nella frase “Da me stesso non vegno”, di Inf., X, 61 (cfr. R. Pinto, op. cit, 2, p. 65) è procedimento di riduzione metaforica e appropriazione parodica del parlare divino. 16 Un elemento su cui bisogna attentamente riflettere della riposta di Dante a Bonagiunta è la trasformazione del perfetto trasse, usato dal secondo, nel presente son, usato dal primo, giacché si tratta di una evidente e clamorosa rivendicazione di continuità ideologico-espressiva da parte del poeta. Usando il perfetto, Bonagiunta insinua che la novità di Donne che avete è relativa ad un tempo storico e ad una esperienza letteraria ormai conclusi (la giovinezza di Dante). Usando il presente (che

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non può non rifrangersi dal tempo del personaggio a quello del poeta), Dante gli dimostra che quella novità è ancora attualissimo principio di poesia, valido per sé (che lo sta anzi proprio ora praticando in una impresa letteraria mai realizzata), e per tutti quelli che, avendolo compreso, lo condividono. La controrisposta di Bonagiunta, “Issa vegg’io...”, che riprende enfaticamente il presente usato da Dante, esprime la consapevolezza, finalmente raggiunta, che quella novità non ha ancora cessato di essere storicamente attuale (e che anzi continuerà ad esserlo “quanto durerà l’uso moderno”). Come in Inf., X, l’alternativa presente / perfetto viene utilizzata da Dante in chiave metalinguistica, per caratterizzare punti di vista narrativi e posizioni ideologiche differenti e contrapposti. 17 De Trinitate, XV, 11: “Verbum quod foris sonat, signum est verbi quod intus latet”. Sul tema agostiniano del “verbum mentis”, cfr. Gaspare Mura, Ermeneutica e verità. Storia e problemi della filosofia dell’interpretazione, Roma, 1990, pp. 106-117. 18 Boethii Daci Opera, Modi significandi sive quaestiones super priscinaum maiorem, a cura di Joannes Pinborg e Henricus Roos, in Corpus Philosophorum Danicorum Medii Aevi, vol. IV, parte I. 19 Martini de Dacia Opera, Modi significandi, a cura di Henricus Roos, in Corpus Philosophorum Danicorum, Medii Aevi, vol. II. 20 Franco Lo Piparo, Sign and grammar in Dante. A non-modistic language theory, in Amsterdam studies in the theory and history of linguistic science. III – Studies in the history of the language sciences. Vol. 33 – The history of linguistics in Italy, edited by Paolo ramat el al., John Benjamins publishing company, Amsterdam-Philadelphia, 1986, pp. 1-22. 21 Cfr. Roberto Lambertini, Contemporary interpretations of the modistae, in On the medieval theory of signs, edited by Umberto Eco & Costantino Marmo, John Benjamins publishing company, Amsterdam-Philadelphia, pp. 107-142 (in particolare p. 117-118). 22 Liber Aristotelis Peryermeneias, I: “Primum oportet poni quid nomen et quid verbum, deinde quid est negatio et affirmatio et enuntiatio et oratio. Sunt quidem igitur que in voce earum que in anima passionum symbola et que scribuntur eorum que in voce”. 23 In realtà le espressioni “libro de la mente” (E’ m’incresce di me, 59) e “libro de la mia memoria” (Vita Nuova, 1) traducono il concetto tomista di “verbum memoriae”, che è uno degli aspetti più peculiari della noetica dell’Aquinate. Si osservi la riduzione a semiosi linguistica del rapporto fra memoria e intelletto in questo brano degli Opuscula philosophica (De natura verbi intellectus, Caput I, 272-273): “Nascitur enim verbum nostrum ex notitia alicui habiti apud memoriam nostram, quae nihil aliud est in hoc loco quam ipsa receptibilitas animae nostrae, in qua etiam tenet se, secundum Augustinum, etiam cum se non discernit, sed alia quae ab extra acquirit. [273] Primus

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ergo processus in gignitione verbi est cum intellectus accipit a memoria quod ab ea sibi offertur, non eam spolians quasi in ea nihil relinquens, sed similitudinem habiti in se assumens; et hoc est simile illi quod in memoria habetur, et ideo vocatur aliquando illud quod ab intellectu accipitur verbum memoriae...”. 24 Cfr., sul tema, che rappresenta il punto di intersezione della teoria linguistica e della teoria poetica di Dante, il mio Dante e le origini della cultura letteraria moderna, Champion , Paris, 1994, pp. 122-144. 25 Il brano è tradotto e commentato da Alain De Libera in La querelle des universaux. De Platon à la fin du Moyen Age, Seuil, Paris, 1996, p. 274. 26 Si osservi (in Q. D., De Veritate, IV, 1, resp.) la distinzione in loquente, di una triplice parola (“triplex verbum”): “Sicut in artifice tria consideramus, scilicet finem artificii, et exemplar ipsius, et ipsum artificium iam productum, ita etiam in loquente triplex verbum invenitur: scilicet id quod per intellectum concipitur, ad quod significandum verbum exterius profertur: et hoc est verbum cordis sine voce prolatum; item exemplar exterioris verbi, et hoc dicitur verbum interius quod habet imaginem vocis; et verbum exterius expressum, quod dicitur verbum vocis”. 27 La forma idolo appare in Purg., XXXI, 126 per indicare l’immagine del grifone che si riflette negli occhi di Beatrice: “Pensa, lettor, s’io mi maravigliava, / quando vedea la cosa in sé star queta, / e ne l’idolo suo si trasmutava”. 28 Si tratta del programma filosofico-teologico di Tommaso d’Aquino, che così riassume Alain de Libera (op. cit., p. 263): “L’anthropologie de Thomas d’Aquin est à la fois aristotélicienne et chrétienne dans la mesure où elle rejette le dualisme platonicien de l’âme e du corps, et fait de leur union non la marque d’une déchéance originelle (thème évidemment commun à Platon et à l’anthropologie chrétienne platonisante), mais un ‘bénéfice naturel’ et radical pour l’âme elle-même. En termes philosophico-théologiques cela signifie que l’état de séparation de l’âme et du corps est a la fois contraire à la nature humaine comme telle et à l’ ’accomplissement de la personne humaine’ dans sa singularité propre. Une anthropologie non dualiste comme celle de Thomas est une anthropologie qui, fondée philosophiquement sur l’idée d’une naturalité de l’union de l’âme et du corps –c’est le point de vue d’Aristote contre Platon-, est aussi, par là même, capable d’expliquer théologiquement en quoi l’immortalité de l’âme appelle impérieusement le don gratuit, mais promis, de la résurrection corporelle”. 29 Si osservi, nello stesso luogo, l’accuratezza con la quale Tommaso riduce a linguaggio la intelligenza (intelligere), senza confondere, però, con esso l’intelletto: “verbum nostri intellectus, est quidem extrinsecum ab esse ipsius intellectus (non enim est de essentia, sed est quasi passio ipsius), non tamen est extrinsecum ab ipso intelligere intellectus, cum ipsum intelligere compleri non possit sine verbo praedicto”. 30 Sulle origini siciliane (e in particolare lentiniane) della esegesi espressiva del

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desiderio sessuale, cfr. il mio “La parola del cuore”, in La poesia di Giacomo da Lentini. Scienza e filosofia nel XIII secolo in Sicilia e nel Mediterraneo Occidentale, Atti del Convegno tenutosi all’Università Autonoma di Barcellona (16-18, 23-24 ottobre 1997), a cura di Rossend Arqués, Centro di studi filologici e linguistici siciliani, Palermo, 2000, pp. 168-191. 31 Decisiva, sulle penne, è l’osservazione di M. Ciccuto, op. cit., p. 394, che esse sono “affette da probabile amphibolia”. Esse esprimono cioè una doppia metafora, quella ornitologica, che dice il volare in alto, e quella scrittoria che dice la fedeltà alla parola dettata dentro. 32 Sul valore moderno della lingua materna, cfr. il mio La donna come alterità linguistica, in La rappresentazione dell’altro nei testi del Rinascimento, a cura di Sergio Zatti, Maria Pacini Fazzi Editore, Lucca, 1998, pp. 13-32.

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REFERENCIAS BIBLIOGRÁFICAS:

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