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Superbia e invidia nell’‘Inferno’ dantesco PIER ANGELO PEROTTI Vercelli [email protected] RIASSUNTO: In questo saggio si indagano le ragioni che hanno indotto Dante a non preve- dere cerchi dell’Inferno riservati alla punizione di superbia e invidia – due dei sette vizi “capitali” condannati dalla Chiesa –, mentre gli stessi due peccati sono espiati nel Purgatorio; in compenso il poeta inserisce il peccato di ignavia, per quanto i dannati per tale colpa siano posti al di fuori dai cerchi infernali, e accorpa i rei di altri due distinti peccati “capitali”, ira e accidia – in qualche modo anti- tetici –, in un unico settore; inoltre, sia nella prima sia nella seconda cantica al- l’avarizia è aggiunto nello stesso luogo di pena il suo opposto, la prodigalità. Si potrebbe ritenere che per Dante la superbia e l’invidia siano peccati per così dire trasversali, che inducono chi ne è responsabile a commettere altre colpe, ossia che sono per certi versi la causa di altri delitti. P AROLE CHIAVE: peccati “capitali”, superbia, invidia, ignavia, egoismo. ABSTRACT: This essay deals with the reasons that led Dante not to plan circles in the In- ferno reserved to the punishment of pride and envy – two of the seven deadly sins 153

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Superbia e invidia nell’‘Inferno’ dantesco

PIER ANGELO PEROTTI

[email protected]

RIASSUNTO:

In questo saggio si indagano le ragioni che hanno indotto Dante a non preve-dere cerchi dell’Inferno riservati alla punizione di superbia e invidia – due deisette vizi “capitali” condannati dalla Chiesa –, mentre gli stessi due peccati sonoespiati nel Purgatorio; in compenso il poeta inserisce il peccato di ignavia, perquanto i dannati per tale colpa siano posti al di fuori dai cerchi infernali, e accorpai rei di altri due distinti peccati “capitali”, ira e accidia – in qualche modo anti-tetici –, in un unico settore; inoltre, sia nella prima sia nella seconda cantica al-l’avarizia è aggiunto nello stesso luogo di pena il suo opposto, la prodigalità. Sipotrebbe ritenere che per Dante la superbia e l’invidia siano peccati per così diretrasversali, che inducono chi ne è responsabile a commettere altre colpe, ossia chesono per certi versi la causa di altri delitti.

PAROLE CHIAVE: peccati “capitali”, superbia, invidia, ignavia, egoismo.

ABSTRACT:

This essay deals with the reasons that led Dante not to plan circles in the In-ferno reserved to the punishment of pride and envy – two of the seven deadly sins

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condemned by the Church –, whereas the same two sins are expiated in the Pur-gatorio; as counterbalance the poet inserts the sin of indolence, though thedamned for that sin are placed outside the infernal circles, and gathers the culpritsof another two distinct deadly sins, anger and sloth – somehow antithetical –, ina single sector; besides, both in the first and in the second part of the Divine Com-edy avarice is joined in the same punishment place with its opposite, prodigality.One might think that, from Dante’s point of view, pride and envy are a kind oftransversal sins which induce those who are guilty to commit other sins, i.e. theyare somehow the cause of other crimes.

KEY WORDS: deadly sins, pride, envy, sloth, egoism.

1. I vizi o peccati “capitali” fanno la loro prima vaga comparsa nel-l’Etica Nicomachea di Aristotele, che li definisce «gli abiti del male».Così come le virtù, i vizi derivano dall’iterazione di azioni che formanoin ogni soggetto che le compie una seconda natura, una sorta di “abito”che inclina in una determinata direzione.

Ma la classificazione dei vizi “capitali” è di origine monastica: il primoa mettere a punto una dottrina sui vizi capitali – di cui non v’è traccia nénella Bibbia né presso i primi Padri della Chiesa – fu un eremita del IVsecolo, Evagrio Pontico, seguìto dal suo discepolo Giovanni Cassiano(IV-V sec.). In origine i vizi “capitali” codificati dai due monaci eranonon sette ma otto: gola, lussuria, avarizia, ira, tristezza, accidia, vanaglo-ria, superbia. Papa Gregorio Magno (590-604), trasferendo l’attenzionedai monaci eremiti agli uomini comuni che vivono in mezzo a loro simili,modificò l’impianto inizialmente regolato da Evagrio e Cassiano da otto-nario a settenario, e tale ordinamento fu accolto e codificato nel XIII se-colo da Tommaso d’Aquino, che nella Summa theologiae elencò i settevizi nella successione che ancora oggi conosciamo, classificata nel Cate-chismo della Chiesa Cattolica:

1. Superbia: è lo sfoggio della propria presunta superiorità rispetto aglialtri;1

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2. Avarizia: è la tendenza all’accumulo eccessivo ed ingiustificato diricchezze, da cui deriva la mancanza di generosità;

3. Lussuria: è la schiavitù al piacere, soprattutto sessuale;

4. Ira: è l’inclinazione alla collera;

5. Gola: è abbandonarsi ai piaceri del cibo e del bere e l’eccedervi;

6. Invidia: è il desiderio malsano di eguagliare o superare chi possiedequalità, beni o situazioni migliori delle proprie, e l’odio nei suoi confronti;

7. Accidia: è l’ozio, la pigrizia, l’apatia, il disinteresse verso gli altri,verso sé stessi e verso la vita.

La tristitia “tristezza” – sentimento indicante il non apprezzare le opereche Dio ha compiuto per gli uomini – fu dunque conglobata nell’accidiao con essa identificata, così come la vanagloria fu considerata un aspettodella superbia, e nel “settenario” fu aggiunta l’invidia, per un totale ap-punto di sette, numero sacrale, com’è noto: anche il totale delle virtù èsette: tre “teologali” (fede, speranza, carità) e quattro “cardinali” (pru-denza, giustizia, fortezza, temperanza).2

Da questi vizi discendono altri peccati ancor più gravi: per es. dall’ava-rizia, dalla gola o dall’invidia possono derivare l’omicidio, la rapina o ilfurto; dalla superbia, dall’invidia o dall’accidia può derivare il suicidio;etc.

Non essendo esperto in teologia, non so se si possano classificare pergravità i sette peccati “capitali”, ma certamente è possibile graduare l’in-tensità di ciascuno, in rapporto al come e al quanto lo si commette; né co-nosco i criteri secondo i quali è stato stilato l’ordine tradizionale di essi.

Resta il fatto che secondo la Chiesa il peggiore dei sette peccati e l’ori-gine di ogni male è la superbia, poiché con questo sentimento si tende-rebbe a mettersi allo stesso livello di Dio, considerandolo quindi inferiorea come è veramente.

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Presso i Greci la superbia, intesa in questo senso, rientrava nel concettodi hýbris,3 che indica non soltanto “violenza, prepotenza, arroganza, in-solenza, tracotanza, orgoglio, presunzione, eccesso, prevaricazione”, maappunto “superbia”, ossia sfida alla superiorità degli dèi, che perciò disolito veniva severamente punita: numerosi sono gli esempi, nella mito-logia greca, di personaggi che ne furono colpevoli, da Prometeo ad Aga-mennone, a Salmoneo, a non pochi personaggi delle tragedie greche.

Il peccato di cui si macchiò Lucifero, e poi Adamo ed Eva, è propriola superbia, che provocò la ribellione dell’uno e la disobbedienza deglialtri; e la sua gravità è tale che questo peccato “originale”, di cui si mac-chiarono i nostri progenitori, deve essere espiato dall’intera umanità, e funecessario il sacrificio di Dio stesso – nella persona del Cristo – per la re-denzione di essa: ecco perché Lucifero – l’angelo ribelle diventato il “ma-ligno”, il “principe dei demoni” – è collocato da Dante nel punto piùprofondo dell’inferno, nel fiume Cocito ghiacciato, in quanto è il peggiorefra i “traditori dei benefattori”: la superbia – ossia l’equipararsi a Dio –lo ha inevitabilmente indotto, ribellandosi, a tradirlo, ancorché Egli avessedato vita alla sua creatura.

2. Nella Divina commedia i peccati “capitali” rientrano tra quelli punitinell’Inferno – nei cerchi degli incontinenti – e tra quelli espiati nel Pur-gatorio. In schema, seguendo l’ordine del Catechismo:

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peccato Inferno Purgatorio cerchio canto dannati girone canto anime purganti

superbia ––– ––– 1° X-XII Oderisi da Gubbio

avarizia (e prodigalità)

4° VII Pluto 5° XIX-XXII Ugo Ciappetta(Capeto), Stazio

lussuria 2° V Paolo e Francesca 7° XXV-XXVII Guido Guinizelli

ira 5° VII-VIII (cfr. accidia)

(Flegiàs), Filippo Argenti

3° XV-XVII Marco Lombardo

gola 3° VI (Cerbero), Ciacco 6° XXII-XXIV Forese Donati

invidia ––– ––– 2° XIII-XIV Sapìa

accidia 5° VII-VIII(cfr. ira)

4° XVII-XIX Abate in San Zeno

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Invece nella struttura del poema abbiamo:

Inferno:

cerchio 2°, canto V: lussuria;cerchio 3°, canto VI: gola;cerchio 4°, canto VII: avarizia (e prodigalità);cerchio 5°, canti VII-VIII: ira e accidia.

Purgatorio:

girone 1°, canti X-XII: superbia;girone 2°, canti XIII-XIV: invidia;girone 3°, canti XV-XVII: ira;girone 4°, canti XVII-XIX: accidia;girone 5°, canti XIX-XXII: avarizia (e prodigalità);girone 6°, canti XXII-XXIV: gola;girone 7°, canti XXV-XXVII: lussuria.

Ma sembra quantomeno bizzarro che Dante – il quale ha collocato il su-perbo per antonomasia, Lucifero, nella zona più bassa dell’inferno, indi-candone la colpa in assoluto più grave (cfr. Inf. VII, 11-2: «là doveMichele / fe’ la vendetta del superbo strupo»)4 – abbia omesso la superbia(oltre all’invidia) tra i peccati puniti nell’Inferno, mentre a entrambi ha ri-servato un girone del Purgatorio, rispettivamente Purg. X-XII e XIII-XIV. Ancor più tale omissione stupisce, se si considera che la superbia èritenuta dalla Chiesa il più grave tra quelli “capitali” (cfr. supra, § 1).

Infatti la superbia sconfina non di rado nell’empietà, nella blasfemia onella sfida alla divinità, come dimostrano gli esempi mitologici e biblici,alcuni dei quali ho ricordato al § 1. Analogamente l’invidia – che pure puòapparire, a prima vista, un peccato veniale, perché in fondo sembra dan-neggiare solo chi lo commette, spingendolo a tormentarsi nell’intimo – èin realtà una colpa gravissima per le conseguenze che produce: essa (be-ninteso quando non è soltanto emulazione – il suo aspetto buono –, chenon è peccato, ma anzi è un pregio) può infatti indurre all’odio, alla ca-

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lunnia, al furto, perfino all’omicidio. Insomma, questa colpa è o può es-sere la madre dei peggiori crimini.

L’invidia è il peccato di chi soffre perché altri stanno bene, perché altrisono o hanno più di lui; l’invidioso è colui che guarda di traverso (in-videt) un altro uomo perché non sopporta che quello goda di qualche beneda lui stesso non posseduto. Nella Bibbia l’invidia è il peccato di Lucifero(oltre alla superbia: cfr. supra, § 1), il quale non tollera che l’uomo godadi una vicinanza a Dio ormai a lui negata; di Caino che non sopporta cheAbele sia più amato da Dio; di Esaù nei confronti di Giacobbe, il fratellofavorito nella successione perché gli ha venduto il diritto di primogeni-tura; di Saul nei confronti di David, più amato di lui dal popolo d’Israele.L’invidia è dunque un sentimento di malanimo, di odio nei confronti dialtri, in contrasto col precetto evangelico dell’amore verso il prossimo, efrantuma la solidale fraternità che Dio pretende dagli uomini. Raramenteresta senza conseguenze: nel migliore dei casi semina sospetto e diffi-denza, e spesso si traduce in conflittualità e violenza. Per invidia Cainouccide Abele, Esaù semina la discordia in famiglia, Saul fa guerra aDavid. L’invidia è, insomma, il peccato sociale per eccellenza, quello chespezza i legami tra gli uomini, distrugge la pace, impedisce la serena con-vivenza.

Già nei Dieci comandamenti, sia nella versione dell’Antico Testamentosia in quella della Chiesa cattolica,5 è implicitamente compresa l’invidia:in alcuni di essi è previsto questo sentimento come causa di gravi peccati.Nel settimo (“non rubare”) e negli ultimi due (“non desiderare la donnad’altri” e “non desiderare la roba d’altri”) è indirettamente condannatal’invidia, che può provocare il furto o almeno il desiderio dei beni altrui,compreso il concupire la moglie di un altro, o il sedurla, o il sottrarla,vale a dire l’adulterio. Ci si può dunque domandare perché il poeta sembriavere, per così dire, derubricato i peccati di superbia e di invidia – en-trambi non certo lievi, come ho ora osservato –, relegandone i colpevolinel purgatorio anziché nell’inferno. Potrebbe nascere il sospetto che que-sta indulgenza abbia una funzione, diciamo così, di auto-assoluzione delpoeta stesso, che non mancando certo d’ingegno ed essendone ben con-

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sapevole, peccava indubbiamente di superbia: a riprova di questa inclina-zione del “divin poeta” possiamo ricordare – oltre al leone (dalla maggio-ranza dei commentatori inteso come allegoria o simbolo6 della superbia),una delle tre fiere che all’uscita dalla «selva oscura» gli impedisconol’ascesa al colle – la sua auto-ammissione tra i grandi poeti antichi, conla frase «sì ch’io fui sesto tra cotanto senno» (Inf. IV, 102), nonché Inf.XXV, 94-99, dove dichiara di considerare se stesso superiore a Lucano eOvidio, già nominati nel passo che ho citato in precedenza;7 o ciò che sifa dire da Cavalcante de’ Cavalcanti (Inf. X, 58-59):

[...]: «Se per questo ciecocarcere vai per altezza d’ingegno»;

o, ancora, le parole che Oderisi da Gubbio pronuncia come elogio di lui(sempre che non si riferisca a qualcun altro, magari indeterminato) inPurg. XI, 97-99:

così ha tolto l’uno all’altro Guidola gloria della lingua; e forse è natochi l’uno e l’altro caccerà del nido,

appena temperate di modestia da quel «forse»; per non parlare degli aned-doti sull’argomento.8

Non possiamo invece affermare che fosse particolarmente soggettoanche a sentimenti di invidia.9 Questo peccato, secondo logica, sembre-rebbe da escludere per il poeta, perché il superbo, ritenendosi superioreagli altri, non dovrebbe invidiare nessuno, che così riconoscerebbe im-plicitamente migliore di sé. Ma l’invidia, sentimento corrosivo e fru-strante, non è necessariamente in contrasto con la superbia, seconsideriamo che il superbo (o presuntuoso), pretendendo di essere ilprimo in ogni aspetto della vita, può credere di ravvisare in altri qualchedote che non individua in sé. Nel caso specifico di Dante, non sembradato sapere se la sua presunta invidia fosse indirizzata ad avversari politicio a poeti concorrenti (dato che queste sono le peculiarità più note della suavita), o a persone a lui eventualmente superiori per altre ragioni.

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3. Può infatti sembrare un paradosso, ma i superbi sono anche invidiosi,e viceversa. Di primo acchito si potrebbe pensare che i due vizi siano an-titetici: il superbo è sicuro della propria superiorità – come indica la stessaetimologia del vocabolo –, e dunque parrebbe non avere motivo di invi-diare altri, che evidentemente considera a sé inferiori; viceversa l’invi-dioso si sente inferiore a colui che invidia, e perciò non dovrebbe provaresuperbia, vale a dire senso di superiorità rispetto all’altro, che invece re-puta migliore di sé per qualche aspetto (più ricco, più bello, più potente,etc.). In realtà, considerato che la superbia, come l’avarizia, non conoscelimiti, ossia induce a desiderare sempre di più, chi ne soffre è natural-mente portato a cercare un’importanza sempre maggiore, e dunque adambire ai traguardi cui altri sono arrivati, oppure ad augurarsi (questa èl’invidia “negativa”) che un altro peggiori la sua condizione, così da po-terlo superare; allo stesso modo, essendo anche l’invidia sconfinata, l’in-vidioso, per tentare di placarla, è indotto a odiare l’invidiato10 e asopravvalutare se stesso o ad accusare un’entità superiore di favorire l’al-tro a detrimento di lui, che è convinto di meritare di più, cadendo cosìanche nel peccato di superbia.

Un amalgama dei due peccati può essere ritenuto l’egoismo – che purenon è annoverato tra i vizi “capitali” –, l’esatto opposto dell’amore o ca-rità, che è il fondamento stesso del Cristianesimo. L’egoista è necessaria-mente superbo, perché convinto di non avere bisogno degli altri, di essereautosufficiente; ma è anche invidioso, perché se crede di riconoscere inun altro qualche dote o bene in misura maggiore di quanto egli possiede,desidera con tutto se stesso di essergli in ciò superiore, o che l’altro subi-sca un peggioramento, per allettare il proprio ego smisurato.

Per altro verso, la superbia e l’invidia sono, se mi si passa il termine,“trasversali”, perché chi le prova è portato a commettere altre colpe o sen-z’altro delitti. Tutti i peccati, quale più quale meno, sono originati, diret-tamente o indirettamente, dalla superbia o dall’invidia, che condizionanoil comportamento di chi ne è schiavo.

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Non certo per caso il poeta, introducendo Ciacco «a discorrere dei malidi Firenze e affidandogli il compito di esprimere quello che è il suo per-sonale giudizio sulle vicende politiche del comune» (Sapegno, in Alighieri19943: 71) (Inf. VI, 40 ss.), gli fa mettere in evidenza l’invidia di cui ri-gurgita la loro città (vv. 49-51):

Ed elli a me: “La tua città, ch’è pienad’invidia sì che già trabocca il sacco,seco mi tenne in la vita serena”,

e poco dopo gli mette in bocca il séguito dell’accusa contro le colpe deiFiorentini, che, oltre all’avarizia, sono appunto la superbia e l’invidia (vv.73-75):

Giusti son due, e non vi sono intesi:superbia, invidia e avarizia sonole tre faville c’hanno i cuori accesi;

altrove Brunetto Latini, maestro di Dante, scaglia un’invettiva contro iconcittadini del poeta, imputando loro questi stessi peccati, ma esposti inordine esattamente inverso rispetto al passo precedente, probabilmenteper caso, o piuttosto per esigenze di rima (XV, 67-69):

Vecchia fama nel mondo li chiama orbigent’è avara, invidiosa e superba:dai lor costumi fa che tu ti forbi.

Questa terna di vizi “capitali”, ripetuta in due diversi momenti dellacantica, ha indotto alcuni commentatori11 a ritenere la lonza, prima delletre fiere che rendono impossibile la salita di Dante al colle, l’allegoria oil simbolo (cfr. supra, n. 6) dell’invidia, ancorché i commentatori antichie la maggior parte dei moderni siano concordi nel reputare che essa per-sonifichi la lussuria;12 per le altre due l’opinione quasi generale è che lalupa rappresenti l’avarizia, e il leone la superbia.

Ma non mancano altre interpretazioni: oltre alla peculiare opinione deltrecentesco Jacopo della Lana, che riconosceva nella lonza «piuttosto o in-

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sieme la vanagloria» (J. Della Lana 1866-67: 19; Alighieri 1939: 22), ab-biamo quella politica – spesso non sostitutiva o sovrapposta, ma aggiun-tiva rispetto a quella morale, considerato che «etica, politica e religionefacevano nella coscienza di Dante un tutto inscindibile» (Ragonese 19842:859) –, secondo la quale la lonza, dato il suo «pel maculato» (I, 33), la sua«gaetta pelle» (I, 42), indicherebbe le fazioni che laceravano Firenze aitempi di Dante (Del Lungo in Alighieri 1924: 13)13 (e la lupa sarebbe ilsimbolo o l’allegoria della Roma papale, il leone della Francia). Secondoil Ferretti (Ferretti 1950: 29) le tre fiere sarebbero l’allegoria di invidia,avarizia e superbia – ma tutte riferite ai Fiorentini, come sembra confer-mato dalle parole di Ciacco e di Brunetto Latini (cfr. qui sopra) –, chepossono essere giudicate le colpe più fatali all’umanità ai suoi albori (l’in-vidia del serpente, la superbia di Adamo, l’avidità di Eva). Per qualchedantista (Casella 1884: 9; Flamini 1904: 11; Singleton 1954: 12) le trefiere rappresenterebbero «le tre disposizion che ‘l ciel non vole» (Inf. XI,81), ossia le tre categorie aristoteliche di peccati che corrispondono allezone dell’Inferno: incontinenza (lonza), violenza (leone) e frode (lupa);alcuni studiosi (Pascoli 1900: 38,14 Pietrobono 1954: 143, Id. 1959: 15;cfr. anche Del Lungo in Alighieri 1924: 13) hanno invertito l’allegoriadella lonza e della lupa, considerando la prima il simbolo della frode, l’ul-tima quello dell’incontinenza, per risolvere l’aporia della peggiore tra lefiere che corrisponderebbe al peccato meno grave; etc.

4. Restando nell’ambito dell’Inferno dantesco, possiamo azzardare al-cune riflessioni. I peccatori in genere sono in qualche misura invidiosi esuperbi, perché la loro trasgressione della legge divina – peraltro codifi-cata dalla Chiesa – è di per sé un atto di rifiuto dell’autorità di Dio (se nonla negazione della sua esistenza), quasi un mettersi al disopra, o almenoal pari, di lui, una sorta di sfida alla sua volontà: il peccato di Lucifero pergli angeli, e di Adamo ed Eva per gli uomini origina e comprende tutti glialtri peccati.

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I superbi e gli invidiosi sono distribuiti tra buona parte dei cerchi infer-nali nei quali sono punite le colpe in qualche modo conseguenti alla su-perbia e all’invidia. Premesso che la qualifica di invidiosi che si puòattribuire ad alcuni personaggi dell’Inferno è opinabile, vediamo qualcheesempio piuttosto lampante di superbia e di invidia.

Nel 7° cerchio sono puniti i violenti – contro il prossimo (omicidi, ti-ranni etc.), contro sé stessi (suicidi), contro Dio (bestemmiatori, etc.) –,tra i quali sono certamente soggetti a sentimenti di invidia e di superbia itiranni assetati di sangue e dei beni altrui, che espropriano i cittadini o limettono senz’altro a morte per invidia delle loro ricchezze o della lorocondizione esistenziale: la loro furia rapace, che li porta a spogliare i sud-diti degli averi e della vita (Inf. XII, 100 ss.):

Or ci movemmo con la scorta fidalungo la proda del bollor vermiglio,dove i bolliti facieno alte strida.Io vidi gente sotto infino al ciglio;e ‘l gran centauro disse: «E’ son tiranniche dier nel sangue e ne l’aver di piglio»

non può avere altre cause che la superbia e l’invidia.

Altrettanto evidente l’origine del peccato dei ladri (7° bolgia dell’8°cerchio), spinti ad appropriarsi illecitamente delle cose altrui certamentedall’invidia per i beni di qualcuno, ma in qualche caso anche dalla super-bia, che li induce ad arrogarsi il diritto di impossessarsi di sostanze nonloro: ricordiamo in particolare Vanni Fucci, reo di furto sacrilego, che nel-l’episodio dantesco conclude le sue parole con un gesto volgare e con unabestemmia spavalda di sfida a Dio (XXV, 1-3):

Al fin de le sue parole il ladrole mani alzò con amendue le fiche,gridando: «Togli, Dio, ch’a te le squadro»,

tanto che il poeta commenta (vv. 13-15):

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Per tutt’i cerchi de lo ‘nferno scurinon vidi spirto in Dio tanto superbo,non quel che cadde a Tebe giù da’ muri.

Il personaggio indicato nell’ultimo verso è, non per caso, il bestem-miatore Capaneo (XIV, 43 ss.), la cui superbia – presa a paragone nelpasso ora citato – non si è spenta o attenuata neppure nel sabbione infuo-cato in cui è punito, per cui Dante domanda a Virgilio (vv. 46-48):

chi è quel grande che non par che curilo ‘ncendio e giace dispettoso e torto,sì che la pioggia non par che ‘l marturi?

L’immagine di costui, uno dei sette re che assediarono Tebe, è bieca esprezzante, e la sua provocatoria ribellione a Zeus (qui Giove), la sua em-pietà non si placano a causa dei tormenti cui è soggetto, ma anzi orgoglio-samente grida (v. 51): «Qual io fui vivo, tal son morto»; e proprio la suastessa rabbia, «con la quale, oltre al fuoco che lo affligge, si rode di sé me-desimo» (Boccaccio), è la peggior punizione, secondo la provocazionedi Virgilio (vv. 63-66):

O Capaneo, in ciò che non s’ammorzala tua superbia, se’ tu più punito:nullo martiro, fuor che la tua rabbia,sarebbe al tuo furor dolor compito.

Insomma, l’empietà, la blasfemia per cui è punito sono effetto, sem-brano quasi accessorie della superbia di cui era gonfio e che – oltre all’iraancora incontrollata – tuttora lo tormenta (Sapegno in Alighieri 19943:157):15 tutto questo corrobora quanto ho osservato supra, §§ 2-3, circa lacomplementarità, in Dante ma non solo, di certi peccati.

La superbia è alla base, oltre che dell’empietà, anche dell’eresia, e Fa-rinata degli Uberti ne è l’esempio più evidente, quasi il simbolo e l’icona.Nell’immagine che ne fornisce Dante, il suo stesso atteggiamento e la suareazione alla pena eterna sono emblematici: sembra non importargli ciò

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che la giustizia divina gli ha riservato, e la sua postura, pur nell’arca in-fuocata, è sottolineata prima da Virgilio (Inf. X, 32-33):

Vedi là Farinata che s’è dritto:da la cintola in sù tutto ‘l vedrai,

e subito dopo da Dante, pur suo avversario politico (vv. 35-36):

ed el s’ergea col petto e con la frontecom’avesse l’inferno a gran dispitto,

che insiste nel presentare il personaggio nella sua fisicità, che esprimechiaramente la superbia (vv. 74-75):

non mutò aspetto,né mosse collo, né piegò sua costa.

L’eretico è necessariamente superbo, dato che non si perita di “sce-gliere” (dal greco hairéō, ‘scegliere’) certe verità religiose a scapito dialtre, contrastando così la dottrina di Cristo e i dogmi e i precetti codificatidalla Chiesa, che al Vangelo si rifà. Tra gli eretici sono inclusi gli epicurei,non proprio correttamente, ma piuttosto in senso lato, perché non “sce-glievano” una parte della dottrina della Chiesa rifiutandone un’altra, manegavano in toto l’immortalità dell’anima, uno dei fondamenti delle reli-gioni in genere, e segnatamente del Cristianesimo (X, 13-15):

Suo cimitero da questa parte hannocon Epicuro tutti suoi seguaci,che l’anima col corpo morta fanno.

La stessa punizione dei dannati, «coricati nelle tombe come morti» (Po-rena in Alighieri 19592:104)16 è un significativo contrappasso, perché essi,che consideravano l’anima mortale come il corpo, «suo cimitero da questaparte hanno» (Giacalone in Alighieri 19682: 145),17 dove giace appunto laloro anima come se fosse morta; e la loro opinione che corpo e animasiano inscindibili – unito al reputarsi padroni sia del proprio corpo sia

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della propria anima – è un chiaro indice di sottovalutazione o di spregiodel Creatore, ossia di superbia.

5. Nel 5° cerchio dell’Inferno (palude Stigia) sono accomunate ancheiracondia e superbia, poiché le due colpe sono alquanto affini. Chi è con-vinto di essere superiore è più propenso ad adirarsi e ad attaccare gli altri.I superbi non sono menzionati da Dante, eppure sono riconoscibili tra gliiracondi: non per caso Virgilio, quando parla di Filippo Argenti, afferma(Inf. VIII, 46-48):

Quei fu al mondo persona orgogliosa;bontà non è che sua memoria fregi:così s’è l’ombra sua qui furiosa [il corsivo è mio].

Dunque, ponendo gli iracondi nel 5° cerchio, Dante vi colloca ideal-mente anche i superbi, perché il superbo, sentendosi migliore degli altri,è spesso pronto ad adirarsi con loro.

È evidente che dalla superbia e dall’ira ha origine la violenza – controil prossimo, contro sé stessi, contro Dio o la natura (in qualche modo coin-cidenti)18 –, e perciò i violenti sono necessariamente superbi, perché nelloro orgoglio abnorme non hanno rispetto né per Dio, cui non riconosconola dovuta superiorità, né per la propria persona, di cui si sentono padroniassoluti, né tanto meno per gli altri, che considerano inferiori a sé. Unacombinazione di due aspetti della violenza – contro un uomo e controDio – che ha origine dalla superbia è rappresentata dal caso di Guido diMontfort, vicario per la Toscana di Carlo I d’Angiò – dal poeta neppurecitato per nome, ma indicato come «colui [che] fesse in grembo a Dio /lo cor che ‘n su Tamisi ancor si cola» (Inf. XII, 119-120) –, il quale, pervendicare la morte di suo padre Simone, fatto uccidere dal re Edoardo Id’Inghilterra, pugnalò (1272) in una chiesa di Viterbo il cugino del re,Arrigo, il cui cuore fu collocato, secondo il cronista Giovanni Villani(Cron. VII, 39), «in una coppa d’oro [...] su una colonna in capo del pontedi Londra sopra il fiume Tamigi». Il luogo in cui l’uccisione fu perpetrata,

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una chiesa, ne fa un delitto sacrilego, e dunque – ripeto – duplice, ispiratoda un istinto di violenza e da una forma di empietà, indubbiamente dettatidalla superbia, che in questo caso, manifestandosi con la vendetta, signi-fica equipararsi o sostituirsi a Dio, senza riguardo alla sua parola: infattinella Bibbia si legge: «mea est ultio» (Deut. 32, 35).

6. Veniamo a un punto nodale di questo studio. Il personaggio grecoche nella Divina commedia meglio incarna la curiositas, e che è l’em-blema della sete di conoscenza portata ai suoi limiti estremi, anche a costodella vita, è certamente Ulisse. Già nell’Odissea (libro XII) egli avevasfidato – senza però trascurare le opportune precauzioni, facendosi assi-curare all’albero della nave – le sirene ascoltandone il canto, per desideriodi conoscere una cosa ignota agli altri uomini. Del resto Dante, nell’incipitdel Convivio (I, 1), citando Aristotele (Met. I, 1) aveva scritto: «tutti liuomini naturalmente desiderano di sapere», ascrivendo dunque anche a sestesso la medesima sete di sapere che avrebbe attribuito a Ulisse.

Com’è noto, nell’8° bolgia di Malebolge (“frodolenti contro chi non sifida”), tra i “consiglieri di frode”, sono puniti Ulisse e Diomede, uniti inuna sola fiamma a due «corni». Ma delle tre colpe che sembrano accomu-nare i due eroi nella stessa fiamma, in quanto entrambi responsabili diesse (Inf. XXVI, 58-63):

e dentro da la lor fiamma si gemel’agguato del caval che fé la portaonde uscì de’ Romani il gentil seme.Piangevisi entro l’arte per che, morta,Deidamìa ancor si duol d’Achille,e del Palladio pena vi si porta,

l’unica che davvero li associa è il furto del Palladio, «violento insieme esacrilego e frodolento» (Sapegno in Alighieri 19943: 294), mentre dellealtre due trame fu colpevole il solo Ulisse: ecco perché il «corno dellafiamma antica» in cui si trova il Laerziade è «maggiore». Se si esclude laprofanazione conseguente al ratto del Palladio – dovuta non tanto alla sot-

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trazione in sé, quanto piuttosto all’averlo trafugato con le mani lorde delsangue delle guardie uccise19 –, Ulisse non è reo di sacrilegio, ma solo difrode: e infatti Dante lo punisce per questo peccato, e sembra non adde-bitargli ulteriori colpe.

Tuttavia, il racconto, per bocca dello stesso eroe, dell’ultima avventurain mare, alla ricerca dell’ignoto – una specie di anticipazione del viaggiodi Colombo – lascia intendere un àgan, un nimis, un eccesso, che sconfinanella violazione di un decreto divino, e dunque nell’hýbris, vale a direnella superbia contro gli dèi. Secondo Dante, Ulisse se ne macchiò, oltre-passando (XXVI, 107-109)

quella foce strettadov’Ercule segnò li suoi riguardi,acciò che l’uom più oltre non si metta,

ossia le “colonne d’Ercole”, i limiti fissati dagli dèi per gli uomini, cheegli è ben conscio di forzare colpevolmente.

Dante, combattuto tra l’umana condivisione della brama di sapere del-l’eroe greco – e dunque provando una sorta di clemenza per questo pec-cato originato dalla superbia, di cui egli stesso si sentiva colpevole –,contigua all’empietà, e l’obbligo, come giudice, di punire Ulisse, lo con-danna all’inferno, ma per un’altra colpa, altrettanto o forse più grave, lafrode che sconfina nel sacrilegio (cfr. qui sopra). La punizione per la su-perbia che lo portò a superare i confini geografici imposti dalla legge di-vina è la morte per naufragio («infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso»,XXVI, 142), quella per la frode e l’empietà ad essa in qualche modo col-legata è il fuoco eterno; ma si può anche osservare che il peccato di su-perbia – comune a entrambi i comportamenti – è per così dire assorbitodagli altri, analogamente ad altri casi presenti in questa cantica. Si pensiagli esempi emblematici di Didone e di Cleopatra, entrambe consideratedal poeta lussuriose, e l’una e l’altra suicida, ma con qualche differenza:la “lussuria” della prima è limitata a non aver rispettato il giuramento difedeltà al marito, per quanto ormai morto, come leggiamo in Virgilio,

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Aen. 4, 552: non servata fides cineri promissa Sychaeo, parole parafrasate,o piuttosto tradotte quasi ad verbum, dal suo più grande “discepolo”,Dante (Inf. V, 61-2):

L’altra è colei che s’ancise amorosa,e ruppe fede al cener di Sicheo»;

invece Cleopatra sedusse prima Cesare, poi Antonio, e infine tentò di ir-retire Ottaviano, per cercare di conservare il regno d’Egitto – una vera epropria forma di meretricio –. Per quanto attiene al suicidio, entrambe sidiedero la morte per non diventare preda di un uomo (Didone di Iarba,Cleopatra20 di Ottaviano) che le avrebbe ridotte alla schiavitù o a qualcosadi molto simile; ma per la prima ci fu anche la componente della dispe-razione dovuta all’abbandono da parte di Enea (con l’elemento eziologicodelle guerre puniche),21 e dunque un comportamento meno spregevole.22

A queste analogie se ne aggiunge un’altra non adeguatamente messa in ri-lievo: il poeta condanna entrambe come lussuriose, e non in quanto sui-cide – come ci si aspetterebbe, dato che il suicidio è, credo, enormementepiù grave della lussuria –, forse perché, come scrissi altrove (PEROTTI

2001-2002 e 2006), «quello è conseguenza di questa, e quindi da Danteviene punita la causa piuttosto che l’effetto».

Non basta: il suicidio di entrambe queste donne è evidentemente l’ef-fetto del tentativo esasperato di salvaguardare il proprio ego, ossia di unaforma di superbia, e dunque in questi casi si fondono ben tre colpe, la cuigravità non è facile graduare. Naturalmente Dante ha dovuto operare unascelta circa la collocazione di queste due donne – non diversamente daaltri “pluripeccatori” citati nella cantica – in uno o nell’altro cerchio del-l’inferno. Non sempre è agevole stabilire i criteri che hanno guidato talescelta del poeta: in genere si può ipotizzare, con ampio beneficio d’in-ventario, che la collocazione di ciascun dannato in un particolare cerchiosia il risultato di un contemperamento tra il suo giudizio di gravità dellevarie colpe e il numero dei peccatori degni di condanna alle diverse pene.Nella fattispecie, se egli avesse collocato i superbi in un luogo specifico,dato che – come abbiamo poc’anzi notato – la superbia è la causa o la

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concausa di altri peccati (se non di tutti), questo luogo sarebbe sovraffol-lato a discapito degli altri cerchi, che sarebbero pressoché deserti.

7. Se per la Chiesa il vizio “capitale” più grave è la superbia (cfr. supra,§ 1), si può presumere che invece per Dante la peggiore delle colpe fossel’ignavia, tant’è vero che i responsabili di essa non sono neppure ammessitra i dannati, ma, oltre che severamente puniti, sono confinati nel “vesti-bolo”, fuori dell’inferno vero e proprio, e dunque nettamente distinti datutti gli altri peccatori, perché «alcuna gloria i rei avrebber d’elli» (Inf. III,42).

A prima vista, all’ignavia sembra affine l’accidia: sono entrambi pec-cati di omissione, che consistono nel non agire quando sarebbe necessario,essendo basati sull’inerzia, sull’indolenza, sull’indifferenza, sulla neghit-tosità. Ma se si analizza con maggiore acribia, la differenza è di non pococonto: l’accidia è essenzialmente la negligenza nell’operare il bene, senzaperaltro commettere il male, mentre l’ignavia è la vile rinuncia a prendereposizione in qualcosa, magari a rischio della propria vita, dei beni, dellasicurezza, anche solo della tranquillità – fisica o esistenziale – o dell’agia-tezza: così sembra intendere il poeta, che nell’inferno oppone l’accidiaall’ira, collocandone i peccatori nello stesso 5° cerchio – ma separandoli,nel purgatorio, in due distinti gironi –, e invece gli ignavi, da soli, fuoridei cerchi. È evidente che Dante, impegnato, come fu, nella vita pubblicaattiva – impegno che pagò con l’esilio –, convinto com’era che l’uomodebba partecipare direttamente all’azione politica nell’interesse della so-cietà, provasse una particolare avversione per questa categoria di pecca-tori, che considerava responsabili della degenerazione morale e civiledella società umana (nonché, almeno in parte, delle proprie sventure), eforse la causa principale del male sulla terra.

Benché l’ignavia non rientri tra i peccati “capitali”, oltre agli accidiosi– la cui colpa è invece prevista dalla Chiesa –, anche gli ignavi hanno laloro punizione nell’Inferno dantesco, e anzi, per loro alla pena si aggiunge

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il disprezzo, manifestato dalle celebri parole che Dante fa pronunciare daVirgilio (Inf. III, 49-51):

Fama di loro il mondo esser non lassa;misericordia e giustizia li sdegna:non ragioniam di lor, ma guarda e passa.

Forse Dante li esclude dall’inferno vero e proprio anche perché – inaggiunta alla ragione esposta qui sopra – il loro peccato non è compresotra quelli inclusi nel Catechismo cattolico, mentre l’accidia è contemplata,ripeto, tra i vizi “capitali”.

Insomma, mentre nel Purgatorio ai peccati “capitali” sono dedicati re-golarmente sette gironi – uno per ciascuno, con l’aggiunta, in quello degliavari (5°), dei colpevoli del vizio opposto, i prodighi –, nell’Inferno i cer-chi occupati dai condannati per vizi “capitali” sono soltanto quattro (dal2° al 5°), ma le colpe punite sono in pratica cinque, perché ira e accidia,considerate opposte, sono riunite in un unico cerchio, il 5°. E se è normaleche avari e prodighi siano raggruppati in un solo cerchio (così come, nelPurgatorio, in un unico girone) – considerato che nella classificazionecanonica dei peccati “capitali” la prodigalità non è nominata –, è alquantocurioso che nell’Inferno gli iracondi e gli accidiosi, ben distinti nella co-dificazione della Chiesa, siano accorpati, quantunque non vi siano pre-sentati esempi di accidiosi, che invece troviamo nel Purgatorio (Abate inSan Zeno).23 A giustificazione di questa bizzarria, si potrebbe presumereche il poeta, non essendogli noti dei personaggi di un certo rilievo grave-mente accidiosi (ossia meritevoli dell’inferno), abbia inteso sì condannareil peccato di accidia – peraltro riconosciuto dalla Chiesa –, ma abbia lasciatoindeterminata l’esemplificazione del peccato; a meno di immaginare che,dato il genere di colpa – forma attenuata dell’ignavia –, egli abbia seguitoun criterio in certo modo simile a quello che ha usato per gli ignavi, cioè«non ha ragionato» di questi dannati, anzi li ha affatto ignorati, perchéanch’essi indegni di menzione, quasi a dire che all’accidia è forse prefe-ribile l’ira.

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8. Dunque la superbia e l’invidia – peccati “capitali” secondo la Chiesa –non sono puniti nell’Inferno dantesco, mentre i rei delle stesse colpe nepagano il fio nel Purgatorio; tuttavia, segnatamente la superbia è rico-noscibile come colpa accessoria, spalmata trasversalmente tra vari altripeccati, se non proprio tutti.

È altresì interessante rilevare che Dante aggiunge ai peccati “ufficiali”l’ignavia, pur lasciandone i colpevoli fuori dai cerchi infernali. In pratica,dei sette vizi “capitali” riconosciuti nel Catechismo cattolico ne sono pa-lesemente puniti nella prima cantica della Divina commedia soltanto cin-que – mentre tutti e sette sono espiati nel Purgatorio –, ma tra i dannatidell’Inferno dantesco sono compresi gli ignavi, per quanto nettamente se-parati dagli altri peccatori, e dunque risulterebbe un totale di sei.

Un’ultima considerazione. L’egoismo – certamente una colpa graveper il cristiano, perché è l’esatto opposto della carità ovvero amore, cheè alla base del rivoluzionario messaggio di Gesù Cristo – non è compresotra i peccati “capitali” condannati dalla Chiesa (forse perché, come ho no-tato supra, § 3, è una sorta di sintesi di superbia e di invidia, oltre che dialtre colpe), e dunque non è annoverato neppure tra i peccati puniti daDante, anche perché si tratta di una colpa che, pur assai grave, è per cosìdire aleatoria e soggettiva; ma neppure l’ignavia è elencata nel Catechi-smo tra i vizi “capitali” (a meno di considerarla un’aggravante dell’acci-dia), eppure il poeta le ha dedicato uno spazio significativo non tanto perl’estensione, quanto per il valore emblematico della colpa, con ogni pro-babilità per le ragioni che abbiamo esposto al § 7.

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NOTE

1 Ricordiamone la definizione di Bernardo di Clairvaux, epist. 42 (1963: 119):«Superbia est appetitus propriae excellentiae», e si veda ciò che, a proposito dellasuperbia, è detto nella Bibbia (Sir. 10, 7 ss.).

2 Tra gli studi più recenti sull’argomento cfr. Casagrande - Vecchio (1994),Eaed. (2000), Galimberti (2003).

3 Nella tragedia greca, l’hýbris è un evento del passato che influenza negati-vamente i fatti presenti. È una “colpa” dovuta a un’azione che viola leggi divineimmutabili, ed è la causa per cui, anche a distanza di molto tempo, i personaggio i loro discendenti sono indotti a commettere crimini o a subire azioni malvagie.Al termine hýbris viene spesso associato, come diretta conseguenza, quello dinémesis, che vale tra l’altro “vendetta degli dèi”, e che dunque si riferisce alla pu-nizione giustamente inflitta dalla divinità a chi si macchia di tracotanza.

4 Cfr. Anonimo Fiorentino 1866: 43: «Chiamalo strupo, però che qualunquesforza una vergine è detto questo peccato strupo; così Lucifero volle sforzare eledere la deità del cielo, la quale è incorrotta et immaculata»; anche Parodi 1957:242-243 e 347.

5 L’ordine del Decalogo e la definizione dei comandamenti differisce nel Ca-techismo della Chiesa cattolica rispetto alla Bibbia (Es. 20, 2-17), dove, in par-ticolare, «non rubare» occupa l’ottavo posto, e «non desiderare la donna d’altri»e «non desiderare la roba d’altri» sono conglobati nel decimo: «Non desiderarela casa del tuo prossimo; non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suoschiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che ap-partenga al tuo prossimo».

6 Scrive infatti Giacalone in Alighieri 19682: 7: «È bene, qui, precisare subitoche si tratta di un simbolo e non di un’allegoria».

7 Cfr. Scartazzini in Alighieri 1874: 33: «Dante era conscio del proprio va-lore»; Steiner in Alighieri 1940: 248: «qui mostra di ritenersi superiore ai due ul-timi»; Porena in Alighieri 19592: 230: «[...]; nello spirito, il vanto dei fatti narratiè un vanto della propria fantasia e della propria arte superiore a quella dei duepoeti latini in episodi del genere: Lucano e Ovidio possono andare a riporsi!»; Sa-pegno in Alighieri 19943: 285: «il vanto di Dante, letteralmente inteso, si riferiscesoltanto alla superiorità dell’invenzione da lui elaborata rispetto a quelle di Lu-

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cano e di Ovidio: [...].È legittimo tuttavia riconoscervi anche una affermazioneconsapevole di superiorità poetica [...]»; Giacalone in Alighieri (19682: 61): «[...],ma forse, più esattamente, vuol precisare la consapevolezza di D. di esserel’unico poeta nuovo degno di stare alla pari dei grandi classici»; etc.; vd. ancheCurtius (1956: 200).

8 Ricordo solo quello secondo cui, dovendo il comune di Firenze mandare unamissione diplomatica a Roma, ed essendo stato chiesto a Dante di far parte delladelegazione, egli avrebbe risposto: «Se vado, chi resta?; e se resto, chi va?».

9 Dante stesso si dichiara poco incline all’invidia – ma non del tutto esente daessa – in Purg. XIII, 133-135: «“Li occhi”, diss’io, “mi fieno ancor qui tolti, / mapicciol tempo, ché poca è l’offesa / fatta per esser con invidia vòlti”». Si veda lachiosa di Benvenuto da Imola (1887), ad loc.: «Quasi dicat: in vita mea egoparum volvi oculos invide ad respiciendum prosperitates hominum [...]; ego fuisemper modicum invidus, ideo faciliter et cito purgabor hic».

10 Cfr. Conv. IV, 13, 13: «E quanto odio è quello che ciascuno al possessorede la ricchezza porta, o per invidia o per desiderio di prendere quella possessione!Certo tanto è, che molte volte contra la debita pietade lo figlio a la morte delpadre intende».

11 Ricordo che la maggior parte dei dantisti associa la lonza alla lussuria (cfr.infra, n. 12); ma alcuni avanzano il sospetto che essa sia l’allegoria dell’invidia:per es., già nel Cinquecento Castelvetro (1886), ad loc.: «Nondimeno non gli di-spiacque tanto l’invidia [...] quanto la superbia e l’avarizia, per ciò che l’invidiaha coperta di bontà, avendo altri invidia spezialmente a color che sono eccellentiper virtù e per bontà [...], similmente la superbia non lo contrasta tanto quantol’avarizia, parendogli che la superbia sia compagna della magnanimità»; diversinell’Ottocento, tra i quali Cipolla (1895: 103) nel secolo scorso, il più autorevolesostenitore di questa interpretazione fu D’Ovidio (1931); tra i più recenti ricor-diamo Gorni (2002); etc.

12 A cominciare dal Boccaccio (1965: 73): «Le quali [scil. fiere], quantunquea molti e diversi vizi adattare si potessono, nondimeno qui, secondo la sentenziadi tutti, par che si debbano intendere per questi, cioè per la lonza il vizio della lus-suria e per lo leone il vizio della superbia e per la lupa il vizio dell’avarizia»; Ot-timo (1827-29) ad loc.; etc.; nel XV sec. per es. C. Landino (1481) e (1536) adloc.: «Vuol Virgilio per Enea dimostrar che l’uomo possa arrivare al sommo bene,e pone tre essere i principali incommodi i quali impediscono che non possiamo

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conseguire il nostro fine; dei quali il primo è la lussuria [...]: leonza è il piacere,lupa è l’utile, leone è l’onore»; in epoche più recenti per es. Scartazzini in Ali-ghieri (1874: 3), che, per avvalorare la sua interpretazione, cita e commenta con-fronti con un passo del Giardino di consolazione (cap. 8) del notaio duecentescoBono Giamboni: «Di questo vizio nasce cechità di mente, poca fermezza (= leg-giera), subitezza (= e presta molto). [...]. La lussuria macchia l’anima, e il corpoisconcia (= di pel maculato era coperta), la borsa vuota, toglie Iddio, offende ilprossimo e l’anima trae all’inferno (= impediva tanto il mio cammino, Che iofui per ritornar più volte vòlto)»; Casini in Alighieri 19226, 18891: 11; ID., 1921:9; Torraca in Alighieri 1915: 10; Mazzoni 1967: 9; Porena in Alighieri 19592:16-17; Sapegno in Alighieri 19943: 8-9; Giacalone in Alighieri 19682: 7-9; etc. Peruna bibliografia – ancorché necessariamente incompleta e non aggiornata – sul-l’argomento, cfr. G. Ragonese 1970: 861.

13 Secondo l’autore, nella lonza va vista la «guelfa, astuta, ingegnosa Firenze»dei tempi del poeta; etc.

14 Ora in Id. 1952, dove gli studi sulle fiere si trovano alle pp. 250-266; 390-444; 1153-1173.

15 Introduzione al canto XIV: «All’ira folle del dannato si contrappone, conpari rilievo, la giusta ira di Virgilio; la superbia del greco si rivela per quello cheessa è ormai, la rabbia impotente del vinto, e proprio in essa è il suo maggior ca-stigo, anzi la sola pena adeguata alla sua follia».

16 Nota finale 1 al canto X.17 N. a X, 13: «cimitero: è il termine esatto per indicare il vero contrappasso

degli eretici»; si veda anche l’esegesi dello Steiner in Alighieri 1940: 91: «Suocimitero: in questa parola è la ragione stessa della pena, che non è che un’appli-cazione rigorosa della dottrina di costoro che furono morti in vita, in quanto dis-sentirono dalla dottrina di Cristo. Questo può dirsi di tutti, ma più rigorosamentedegli epicurei, i quali, praticando la opinione che l’anima muoia col corpo e chequindi tutto finisca nel sepolcro, hanno in queste arche infocate la pena perfetta-mente e ironicamente corrispondente alla loro dottrina. Hanno cioè, ma in modoben più amaro, quello che avevano creduto che dovesse essere di loro, dopo lamorte».

18 Cfr. la celebre frase «Deus sive natura» di B. Spinoza, il quale – oltre quattrosecoli dopo Dante – illustrò questo concetto sostenendo che, essendo unica lasostanza, Dio e le cose che da lui necessariamente derivano sono la stessa realtà,

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pur considerata sotto due diversi aspetti. Se Dio e la natura coincidono, non c’èdifferenza tra Dio e tutte le cose, il che equivale a dire che al di fuori di Dio nonesiste nulla che possa in qualche modo costituirne un limite.

19 Come troviamo precisato da Virgilio, Aen. 2, 165 ss.: «fatale adgressi sacratoavellere templo / Palladium caesis summae custodibus arcis / corripuere sacrameffigiem manibusque cruentis / virgineas ausi divae contingere vittas».

20 Al suicidio di Cleopatra si accenna in Par. 6, 76-78: «Piangene ancor latrista Cleopatra, / che, fuggendoli innanzi, dal colubro / la morte prese subitanae atra».

21 Per questo aspetto cfr. i miei articoli Perotti 2005, Perotti 2006, Perotti 2007.22 Non per caso, nella canzone Così nel mio parlar voglio esser aspro (dalle

Rime petrose), vv. 36-38, Dante aveva attribuito ad Amore la causa del suicidiodi Didone: «E’ m’ha percosso in terra, e stammi sopra / con quella spada ond’elliancise Dido, / Amore [...]».

23 Qualcosa di simile accade per avari e prodighi: nell’Inferno non sono nomi-nati personaggi puniti per questi peccati (omissione giustificata da Virgilio conle parole: «la sconoscente vita che i fé sozzi / ad ogne conoscenza or li fa bruni»[VII, 54]), ma nel cerchio relativo incontriamo soltanto il dio greco della ric-chezza, Pluto – chiamato dalla guida di Dante «maladetto lupo» (Inf. VII, 8) –,qui «simbolo di quella brama di ricchezza, che è la maggior nemica della felicitàumana e dell’ordine sociale» (Sapegno in Alighieri 19943: 77, introd. al cantoVII): certamente Dante aveva in mente l’invettiva virgiliana quid non mortaliapectora cogis, / auri sacra fames! (Aen. 3, 56-57). Invece nel Purgatorio è ricor-dato un esempio di avarizia (Ugo Ciappetta [Capeto], Purg. XX, 40 ss.) e uno diprodigalità (Stazio, Purg. XXII, 27 ss.).

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Pier Angelo PEROTTI Superbia e invidia nell’‘Inferno’ dantesco

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