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199 Il viaggio di ritorno: Pd. XXXIII, 142-145 RAFFAELE PINTO Universitat de Barcelona Societat Catalana d’Estudis Dantescos A l'alta fantasia qui mancò possa; ma già volgeva il mio disio e 'l velle, sì come rota ch'igualmente è mossa, 144 l'amor che move il sole e l'altre stelle. 1. Non sarebbe esatto dire che il senso generale di questi versi sia stato oggetto di controversia fra i critici. Se una controversia esiste, essa riguarda un punto estremamente circoscritto del brano, la rota del penultimo verso, e l'avverbio che determina il suo predicato: igualmente. E' in sostanza il verso 144 che, nel suo insieme, ha messo alla prova l’ingegno degli interpreti. Il fatto che esso sia un inciso, nel corpo del periodo, e che, in quanto similitudine, sia estrapolabile dalla struttura sintattica, la quale risulta in tutto il resto, almeno apparentemente, abbastanza chiara, produce il singolare contrasto fra una zona d'ombra perfettamente delimitata, ed una più ampia zona di luce, che include l'altra senza, però, perdere nulla della sua trasparenza semantica. Noi potremmo, infatti, leggere i versi 142, 143, 145 come un enunciato completo nelle sue parti e perfettamente perspicuo: A l'alta fantasia qui mancò possa; ma già volgeva il mio disio e 'l velle l'amor che move il sole e l'altre stelle, isolando la zona oscura (“sì come rota ch'igualmente è mossa”) per operare su di essa come su un elemento forse non marginale o estraneo, ma certo esterno, o comunque aggiuntivo rispetto al corpo principale del periodo. La metrica e la sintassi agevolano l'esperimento, che ha il merito di mettere in salvo il significato principale del brano, sul quale non c'è, infatti, discussione, se non di sfumature.

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RAFFAELE PINTO Universitat de Barcelona

Societat Catalana d’Estudis Dantescos

A l'alta fantasia qui mancò possa; ma già volgeva il mio disio e 'l velle, sì come rota ch'igualmente è mossa, 144 l'amor che move il sole e l'altre stelle.

1. Non sarebbe esatto dire che il senso generale di questi versi sia stato oggetto di controversia fra i critici. Se una controversia esiste, essa riguarda un punto estremamente circoscritto del brano, la rota del penultimo verso, e l'avverbio che determina il suo predicato: igualmente. E' in sostanza il verso 144 che, nel suo insieme, ha messo alla prova l’ingegno degli interpreti. Il fatto che esso sia un inciso, nel corpo del periodo, e che, in quanto similitudine, sia estrapolabile dalla struttura sintattica, la quale risulta in tutto il resto, almeno apparentemente, abbastanza chiara, produce il singolare contrasto fra una zona d'ombra perfettamente delimitata, ed una più ampia zona di luce, che include l'altra senza, però, perdere nulla della sua trasparenza semantica. Noi potremmo, infatti, leggere i versi 142, 143, 145 come un enunciato completo nelle sue parti e perfettamente perspicuo:

A l'alta fantasia qui mancò possa; ma già volgeva il mio disio e 'l velle l'amor che move il sole e l'altre stelle,

isolando la zona oscura (“sì come rota ch'igualmente è mossa”) per operare su di essa come su un elemento forse non marginale o estraneo, ma certo esterno, o comunque aggiuntivo rispetto al corpo principale del periodo. La metrica e la sintassi agevolano l'esperimento, che ha il merito di mettere in salvo il significato principale del brano, sul quale non c'è, infatti, discussione, se non di sfumature.

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Tale significato principale può essere così formulato: “la visione dell'essenza divina, sperimentata in modo

folgorante dal protagonista, eccede le sue possibilità intuitive (l'”alta fantasia”); tuttavia l'amore divino innalza, potenziandole, le sue capacità volitive ed intellettuali, e le modula secondo il ritmo dinamico da esso stesso imposto all'universo, così che la suprema intellezione di Dio da parte di Dante coincide con la fusione del suo spirito con il movimento del cosmo”.

Questa formulazione costituisce una parafrasi di cui mi interessa sottolineare ora un solo elemento, comune a tutte le interpretazioni moderne di quei versi: il risarcimento, da parte divina, dell'impotenza fantastico-intellettuale del protagonista. Per il Chimenz (1951:25), per esempio: "prima dunque che mancasse possa all'alta fantasia, l'anima di Dante riceveva da Dio, nella visione di Lui, quell'uniformità di movimento che è, rispetto al centro, in ciascun punto di un cerchio in moto... ". Oppure, per L. Pertile (1993:133): “nel momento in cui gli venne meno l’immaginazione –ossia la facoltà che traduce in immagini intelligibili i dati dell’esperienza sensibile- Dante si trovò ad essere in perfetta armonia intellettiva ed affettiva con Dio, motore immoto dell’universo; il pellegrino, giunto finalmente a destinazione, conobbe per un istante fuori del tempo la condizione permanente dei beati; oppure ancora, per S. Rizzardi (2000:70): “Dio come sommo Amore e motore di tutto l’universo, muoveva il mio desiderio di conoscenza e la mia volontà in modo tale, da rendermi a sé conforme come la ruota dentata di un orologio meccanico si muove sincronicamente rispetto all’altra”. Si tratta di un dato interpretativo "forte", poiché rileva nel movimento finale del poema un contenuto intensamente mistico che fatalmente si rifrange sull'ultimo canto e, in qualche misura, sull'ultima cantica. Nella generale tensione al superamento dei limiti imposti alla ragione dalla teologia, e come suo esito naturale, l'ultima terzina sarebbe un tentativo di razionalizzare, in forma densamente allusiva, ciò che per definizione non è razionalizzabile: il momento unitivo dell'anima di Dante con l'anima divina del mondo; un finale in crescendo secondo il bonaventuriano schema dell'”itinerarium mentis in Deum”, la cui ricca

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documentazione scritturale, mistica e neoplatonica è stata saccheggiata dagli interpreti moderni (si segnalano in particolare B. Nardi [1944] e J. Freccero [1989: 144] al fine di reperire le fonti specifiche riecheggiate dal poeta.

Soprattutto interessa qui l’interpretazione di B. Nardi, poiché, come ha ben visto L. Pertile, fu un suo intervento ad orientare la densa bibliogafia che negli ultimi decenni si è accumulata intorno a questi versi. L’insigne studioso della filosofia di Dante osservò infatti una incongruenza fra il movimento dell’anima che si è finalmente unita all’oggetto ultimo del suo desiderio e la quiete che Dante invece indica come inerente alla gioia del desiderio soddisfatto in Purg., XVIII, 28-33:

Poi, come ‘l foco movesi in altura per la sua forma ch’è nata a salire là dove più in sua matera dura, così l’animo preso entra in disire, ch’è moto spiritale, e mai non posa fin che la cosa amata il fa gioire.

È evidente, qui, che la distinzione di moto e quiete (posa) traduce in termini fisici la dialettica morale fra la tensione del desiderio (disire) e la gioia del possesso (gioire). Se i versi finali della Commedia dicono la gioia somma di un desiderio interamente compiuto nel suo oggetto, l’immagine di movimento che essi descrivono è in stridente contraddizione con questi versi. Per eliminare tale contraddizione, Nardi ricostruisce una linea di riflessione originariamente platonica e plotiniana, poi assorbita dalla teologia altomedievale e infine confluita nell’aristotelismo latino, che assegna al moto circolare delle intelligenze celesti il primato metafisico nella cosmologia cristiana, primato di cui anche Dante si farebbe portavoce, nell’ultimo atto della Commedia, adottandone lo schema nella rappresentazione della propria visione di Dio:

nella perenne uniformità del moto circolare della mente, percossa dall’apparir del sommo Bene, consiste la vita, senza tedio e senz’affanni, dello spirito beato. La quiete del desiderio appagato

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non significa inerzia e sonnolenza, che anzi non si scompagna dall’eterno moto dell’amore; moto circolare ed uniforme che esprime la perfetta concordanza del volere umano col volere divino1.

In realtà gli interventi successivi a quello di Nardi hanno mirato quasi sempre ad arricchire la documentazione relativa a tale linea di riflessione, integrando nella generale interpretazione platonica del movimento circolare anche la similitudine del verso 144: “sì come rota ch’igualmente è mossa”. La esigenza di ricondurre la teoria dantesca del desiderio agli schemi di una antropologia di ispirazione platonica o neoplatonica ha spinto alcuni interpreti a modificare anche la lettura più ovvia dei versi del Purgatorio citati prima, intendendo il fin che come “per tutto il tempo che” (invece di “fino a quando”), e quindi il desiderio come una tensione che non cessa con il possesso dell’oggetto, e che anzi mantiene attivo il soggetto, che continua a desiderare il bene posseduto (cfr. G. Padoan e G. Stabile2).

Proprio da questi versi bisogna partire per chiarire la teoria dantesca del desiderio e riconsiderare il senso della chiusa del Paradiso; leggedoli, beninteso, nella loro trasparente semplicità. Che la unica lettura plausibile del testo sia quella più ovvia, e cioè che il possesso della cosa amata è al desiderio ciò che la quiete è al moto, lo dimostra innanzitutto un passaggio intimamente connesso a quello che stiamo ora leggendo, di cui anticipa la tematica (Purg., XVII, 127-129):

Ciascun confusamente un bene apprende nel qual si queti l'animo, e disira; per che di giugner lui ciascun contende.

È evidente qui che il desiderio ha come finalità la quiete dell'animo nel bene desiderato: esso è rappresentabile come un movimento proprio perché tende al riposo che consegue al raggiungimento dell'oggetto. I motivi di tale dialettica mentale fra movimento e quiete, cioè fra desiderio e appagamento, sono spiegati attraverso la ampia riflessione che Dante dedica al problema in Cv., IV, xii, e in particolare attraverso la analogia fra l’anima umana ed il

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peregrino che scambia l’agognato albergo con ogni casa che da lungi vede:

E la ragione è questa: che lo sommo desiderio di ciascuna cosa, e prima dalla natura dato, è lo ritornare allo suo principio. E però che Dio è principio delle nostre anime e fattore di quelle simili a sé (sì come è scritto: "Facciamo l'uomo ad imagine e simiglianza nostra"), essa anima massimamente desidera di tornare a quello. E sì come peregrino che va per una via per la quale mai non fue, che ogni casa che da lungi vede crede che sia l'albergo, e non trovando ciò essere, dirizza la credenza all'altra, e così di casa in casa, tanto che all'albergo viene; così l'anima nostra, incontanente che nel nuovo e mai non fatto cammino di questa vita entra, dirizza li occhi al termine del suo sommo bene, e però, qualunque cosa vede che paia in sé avere alcuno bene, crede che sia esso.

Posto che ogni desiderio è, in ultima istanza, desiderio del "sommo bene", i singoli beni presenti nelle cose sono desiderati in quanto hanno una analogia, reale o apparente, con esso. Lo scarto fra i simulacri e il modello, cioè il fatto che nessuno dei beni desiderabili in questa vita coincide con Dio, garantisce che la dialettica desiderio-appagamento non abbia mai fine, e che una volta conseguito un oggetto (metaforicamente la casa scambiata per l'albergo), immediatamente ne appaia un altro che riaccende il desiderio. Non avrebbe senso, l’ampia similitidine, se albergo e casa non fossero metafora della quiete e del riposo ai quali ogni desiderio naturalmente tende3.

Ancora più esplicito è il senso noetico e antropologico della dialettica moto / quiete nella comparazione, svolta nel capitolo successivo, fra il cattivo desiderio delle ricchezze, che è perverso in quanto non ha perfezione possibile (cioè termine ultimo in cui l’anima possa posare) e il desiderio buono della scienza, che è naturale in quanto procede di perfezione in perfezione, in una serie di movimenti discontinui, ciascuno dei quali termina e posa in un oggetto definito:

Lo desiderio della scienza non è sempre uno ma è molti, e finito l’uno, viene l’altro; sì che, propiamente parlando, non è crescere lo suo dilatare, ma successione di picciola cosa in grande

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cosa. Che se io desidero di sapere li principii de le cose naturali, incontanente che io so questi, è compiuto e terminato questo desiderio. E se poi io desidero di sapere che cosa e com’è ciascuno di questi principii, questo è un altro desiderio nuovo, né per l’avvenimento di questo non mi si toglie la perfezione a la quale mi condusse l’altro; e questo cotale dilatare non è cagione d’imperfezione, ma di perfezione maggiore. Quello veramente de la ricchezza è propriamente crescere, ché è sempre pur uno, sì che nulla successione quivi si vede, e per nullo termine e per nulla perfezione4.

La compattezza terminologica e concettuale della teoria dantesca del desiderio, identificato senz’altro con il dinamismo dell’anima che naturalmente tende verso le cose esterne, e nitidamente distinto dalle sue perfezioni (cioè la quiete indotta dal desiderio di volta in volta soddisfatto), induce a ritenere che nel confronto esegetico fra i brani di Purg., XVIII, 28-33 e Par., XXXIII, 142-145, la strategia più appropriata per rendere concettualmente coerenti i due frammenti l’uno rispetto all’altro sia inversa a quella adottata da Nardi. Sembra cioè più plausibile, invece di cercare improbabili fessure nell’impianto teorico dantesco relativo al desiderio, riconsiderare il senso dell’immagine finale del Poema, che non può non essere idealmente compatibile con tale impianto, riflettendo anch’essa quella dialettica moto/quiete che abbiamo visto sistematicamente svolta dal poeta in ogni sua argomentazione al riguardo.

Viene subito in aiuto un luogo di stringente intertestualtà con i brani sul desiderio fin qui citati e in particolare con la terzina finale della Commedia. Si tratta del famosissimo inizio dell’ottavo del Purgatorio:

Era già l'ora che volge il disio ai navicanti e 'ntenerisce il core lo dì c'han detto ai dolci amici addio; e che lo novo peregrin d'amore punge, se ode squilla di lontano che paia il giorno pianger che si more...

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La parentela fra questi versi e quelli di Par., XXXIII non è solo quella letterale, evidente in volge il disio (= volgeva il mio disio), ma bensì quella ampiamente concettuale che intende il movimento affettivo del desiderio come radicalmente connesso al movimento spaziotemporale del cielo e degli astri. Il desiderio del protagonista, al termine del suo viaggio, in perfetta analogia con quello dei navicanti e del peregrin, è volto (cioè stimolato ed orientato) dalle sfere astrali che governano le creature secondo leggi naturali valide per l’intero creato, per le sfere celesti non meno che per la regione sublunare. L’amore che punge il peregrin, al tramonto, è infatti lo stesso amore da cui è punto il cerchio dei serafini in Pd., XXVIII, 40-45:

La donna mia, che mi vedëa in cura forte sospeso, disse: “Da quel punto depende il cielo e tutta la natura.

Mira quel cerchio che più li è congiunto; e sappi che il suo muovere è sì tosto per l’affocato amore ond’elli è punto”,

un amore che ha per oggetto in ultima istanza, e direttamente per le intelligenze separate, Dio, ma che si va diversificando, per l’anima umana, negli infiniti beni che la natura presenta alla considerazione del suo desiderio (per i navicanti e il peregrin, le persone care lasciate in patria). Tale amore è causa del movimento locale del cerchio angelico (ed anzi la velocità del movimento è direttamente proporzionale alla intensità dell’amore). Ma esso è causa anche dei sentimenti che spontaneamente invadono l'animo umano: la dinamica del desiderio governa tanto il macrocosmo quanto il microcosmo.

Relativamente all'animo umano, la mobilità psichica prodotta dall'amore e dal desiderio è descritta in Purg., XVIII, 19-27:

L’animo, ch’è creato ad amar presto, ad ogne cosa è mobile che piace, tosto che dal piacere in atto è desto.

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Vostra apprensiva da esser verace tragge intenzione, e dentro a voi la spiega, sì che l’animo ad essa volger face;

e se, rivolto, inver di lei si piega, quel piegare è amor, quell’è natura che per piacer di novo in voi si lega.

Poi, come ‘l foco movesi in altura per la sua forma ch’è nata a salire là dove più in sua matera dura,

così l’animo preso entra in disire, ch’è moto spiritale, e mai non posa fin che la cosa amata il fa gioire5.

Si osservi innanzitutto la frequente connessione del verbo volgere con il campo semantico del desiderio, dovuta all’idea di movimento che assiomaticamente definisce tale campo. Oltre i brani già citati, vanno segnalati il “volgibile cor” di Cino da Pistoia, “ove stecco d’amor mai non fe’ foro”, del sonetto Degno fa voi trovare ogni tesoro (3-4)6; la divisione del sonetto Gentil pensero che parla di vui (Vita Nuova, XXXVIII, 3: “Questo sonetto ha tre parti: ne la prima comincio a dire a questa donna come lo mio desiderio si volge tutto verso di lei”); il commento al verso “Questa è colei ch’umilia ogni perverso” (Amor che ne la mente mi ragiona, 71), in Conv., III, xv, 14:

E soggiungo che, mirando costei –dico la sapienza- in questa parte [che morale filosofia si chiama], ogni viziato tornerà dritto e buono; e però dico: Questa è colei ch’umilia ogni perverso, cioè volge dolcemente chi fuori di debito ordine è piegato7.

Ma volgere offre a Dante anche la possibilità di esprimere, relativamente al desiderio, una idea concomitante con quella di movimento, e deducibile dall’assioma iniziale della teorizzazione formulata in Conv., IV, xii (e citata prima: “lo sommo desiderio di ciascuna cosa, e prima dalla natura dato, è lo ritornare allo suo principio”), e cioè l’idea del ritorno, che adombra, in alcune esperienze di desiderio intramondano, quel desiderio di ritorno al principio divino

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che si occulta in ogni tensione verso oggetti particolari. Il desiderio che il tramonto induce nei navicanti e nel peregrin, è, appunto, nostalgia di persone e cose abbandonate, quindi ritorno della mente al passato. D’altra parte, anche nella Vita Nuova (XL, 1-2) i pellegrini che vanno a “vedere quella imagine benedetta la quale Iesu Cristo lasciò a noi per essemplo della sua bellissima figura” sono sospesi fra il desiderio di un oggetto distante nel futuro e la nostalgia di persone che appartengono al passato:

Questi peregrini mi paiono di lontana parte, e non credo che anche udissero parlare di questa donna, e non ne sanno neente; anzi li loro penseri sono d'altre cose che di queste qui, ché forse pensano de li loro amici lontani, li quali noi non conoscemo8.

La esplicitazione del rapporto di implicazione sintagmatica fra i verbi volgere e ritornare, infine, la ritroviamo all’altro estremo della Commedia, proprio al suo inizio: la lonza impediva tanto il cammino del poeta “ch’io fui per ritornar più volte volto”9.

L’insieme di tali riscontri permette di formulare la ipotesi di un senso generale sostanzialmente diverso da quello tradizionalmente attribuito ai versi 143-146 di Pd., XXXIII. Se ammettiamo che qui i verbi “muovere” (mossa, move) e “volgere” (volgeva) alludono da una parte ad un desiderio (disio) e a una volontà (velle) non estinti nell’appagamento, già realizzato, e invece ben attivi nella loro tensione vitale verso oggetti non posseduti, e dall’altra ad un ritorno verso luoghi già propri del poeta, e comunque a lui familiari (un paesaggio morale compatibile con i dolci amici dei peregrini di Vita Nuova XL e dei navicanti di Purg. VIII), otterremo una interpretazione che chiama in causa non l’esperienza dell’unione dell’anima di Dante con Dio, ma bensì l’esperienza, successiva a tale unione, del suo reinserimento nelle procedure naturali della normalità esistenziale, e quindi del ritorno ideale alla sfera dei rapporti affettivi propri della normalità dell’esistenza intramondana. E cioè, anticipando elementi esegetici che saranno chiariti in seguito:

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"(la mia mente fu folgorata dalla esperienza sensibile di Dio, e la mia immaginazione, resa impotente, sarebbe stata definitivamente distrutta -cioè sarei fisicamente morto) se quell'Amore che è principio e fine del movimento cosmico non avesse reinserito la mia persona in tale naturale movimento, regolando il mio desiderio e la mia volontà con lo stesso ritmo uniforme con il quale una ruota gira intorno al proprio asse”.

2. Una lettura del tipo di quella ora proposta è necessaria, oltre che per mettere d’accordo Dante con se stesso sul piano teorico, anche per ragioni inerenti alla logica narrativa e romanzesca del testo. Per intendere tali ragioni bisogna però considerare il canto XXXIII nel suo insieme, e poi, più in particolare, un momento del canto di cui non è ancora stata messa in luce l’essenziale funzione strategica rispetto alla trama generale del Poema. Si tratta della preghiera alla Vergine di S. Bernardo, e in particolare dei versi 22-37, nei quali il santo precisa il tipo di intervento soprannaturale di cui Dante ha bisogno per portare a termine il suo viaggio e la sua missione:

Or questi, che dall’infima lacuna de l’universo infin qui ha vedute le vite spiritali ad una ad una, supplica a te, per grazia, di virtute tanto, che possa con li occhi levarsi più alto verso l’ultima salute. E io, che mai per mio veder non arsi più ch’i' fo per lo suo, tutti i miei preghi ti porgo, e priego che non sieno scarsi, perché tu ogne nube li disleghi di sua mortalità co' prieghi tuoi, sì che 'l sommo piacer li si dispieghi. Ancor ti priego, regina, che puoi ciò che tu vuoli, che conservi sani, dopo tanto veder, li affetti suoi. Vinca tua guardia i movimenti umani...

Il soccorso esterno necessario a Dante in questo momento del viaggio si articola in due interventi: il primo consiste nel fatto che possa

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“con li occhi levarsi / più alto verso l’ultima salute”, e il secondo che “conservi sani, / dopo tanto veder, li affetti suoi”. Relativamente alla prima grazia, quella che consentirà a Dante di elevare il suo sguardo verso Dio, dissipando le nubi “di sua mortalità”, bisogna osservare che una esperienza simile il poeta l’aveva già fatta in un contesto diverso, più frivolo e mondano, in cui la divinità era sì presente, ma rappresentata dalla interposta persona di Beatrice, che in quanto “donna de la salute” poteva già legittimamente aspirare a rappresentare analogicamente “l’ultima salute” (Vita Nuova, XIV, 4-6):

E nel fine del mio proponimento mi parve sentire uno mirabile tremore incominciare nel mio petto da la sinistra parte, e distendersi di subito per tutte le parti del mio corpo. Allora dico che io poggiai la mia persona simulatamente ad una pintura la quale circundava questa magione; e temendo non altri si fosse accorto del mio tremare, levai li occhi (= con gli occhi levarsi), e mirando le donne, vidi tra loro la gentilissima Beatrice. Allora fuoro sì distrutti li miei spiriti per la forza che Amore prese veggendosi in tanta propinquitade a la gentilissima donna, che non ne rimasero in vita più che li spiriti del viso; e ancora questi rimasero fuori de li loro istrumenti, però che Amore volea stare nel loro nobilissimo luogo per vedere la mirabile donna. E avvegna che io fossi altro che prima, molto mi dolea di questi spiritelli, che si lamentavano forte e diceano: «Se questi non ci infolgorasse così fuori del nostro luogo, noi potremmo stare a vedere la maraviglia di questa donna così come stanno li altri nostri pari».

Il riscontro intertestuale è di grande interesse, poiché ci mostra quello che succederebbe a Dante, nel Paradiso, se levasse gli occhi verso “l’ultima salute”, senza la mediazione della Vergine: la presenza ravvicinata dell’oggetto ultimo del desiderio distruggerebbe le sue facoltà psicofisiche, stimolandole a tal punto da impedire il ritorno alle normali procedure della sensibilità, lo condurrebbe cioè “in quella parte de la vita di là da la quale non si puote ire più per intendimento di ritornare”, ossia alla morte10. Sul piano noetico, e all’interno di un modello psicografico in cui la percezione viene intesa come un tipo di movimento, il ritorno concettualizza il ripristino del ritmo biologico

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ordinario, temporaneamente alterato da una stimolazione troppo intensa della sensibilità11.

Il problema che Dante deve affrontare nel tratto finale del suo viaggio è appunto quello della resistenza del suo apparato percettivo ad una stimolazione eccessiva (quale è la visione di Dio con organi sensibili). Aristotele lo illustra in questi termini (De anima, II, 12, 424ª):

Ciò che sente deve essere una quantità, ma né l'essenza della facoltà sensitiva né la sensazione sono quantità, bensì una forma e capacità del sensorio. E' manifesto di qui anche per quale motivo gli eccessi dei sensibili distruggono i sensori. Infatti, se il movimento da cui è mosso il sensorio è troppo forte, si distrugge la forma (e cioè la sensazione) come l'armonia e il suono, se le corde vengono toccate violentemente12.

Tommaso, a sua volta, nel commento al brano, osserva che, posto che il senso è provvisto di organo corporeo, e che tale organo implica una proportio fra la capacità ricettiva del senso e l’intensità del sensibile percepito, è necessario dedurre che “se il moto sensibile è più forte di quanto l’organo sia capace di sopportare, si rompe la proporzione fra l’uno e l’altro e quindi l’organo sensibile si corrompe”13.

Intendiamo, a partire da queste considerazioni, il significato preciso della seconda richiesta di Bernardo alla Vergine, di conservare “sani / dopo tanto veder gli affetti suoi”. Il rischio a cui Dante si espone, nella percezione visiva di Dio, è che la excellentia (cioè l’eccesso) dell’oggetto sensibile corrompa l’organo della sensibilità. I suoi affetti sono appunto la sua sensibilità, mentre i movimenti umani, che devono essere vinti, cioè difesi e potenziati, dalla guardia della Vergine, sono la reazione percettiva dell’organismo allo stimolo esterno, il “motus sensibilis” di cui parla Tommaso. Dante deve essere aiutato non solo nella fase dell’innalzamento della sua sensibilità al cospetto di Dio, ma anche nella fase del ritorno alla normalità esistenziale, che l’eccesso di potenza del sensibile potrebbe compromettere distruggendo le sue facoltà psicofisiche prima che questo ritorno si produca.

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Il problema del ritorno probabilmente non si porrebbe se, d’accordo con una noetica di tipo platonico-agostiniano (o averroista), si ammettesse la possibilità di separare sostanzialmente, in vita, l’intelletto dalla sensibilità. Se il Paradiso di Dante fosse davvero platonico, il poeta non avrebbe bisogno di chiedere una grazia speciale per mantenere sani i suoi affetti: la visione di Dio sarebbe una visione puramente mentale, che non interferirebbe con la sua anatomia. Dante, invece, si mantiene coerentemente fedele, fino alla fine, alla sua antropologia aristotelico-tomista, per la quale il rapporto fra anima e corpo, cioè fra intelletto e sensibilità, è di unità sostanziale: in quanto viene sperimentato da un essere vivente, Dio non può non percuotere, con la mente, anche il corpo14. È questo, insomma, il motivo per cui è necessario un miracolo, o una grazia, per realizzare il desiderio di unirsi a Dio: la indissolubile unità fra anima e corpo. In una prospettiva platonico-agostiniana o averroista, l’unione della mente con Dio è perfettamente plausibile in questa vita senza che si produca alcun miracolo, poiché intelletto e sensibilità non sono organicamente connessi, e quindi la mente può separarsi dal corpo con le sue proprie risorse psichiche15.

Le letture tradizionali del canto non tengono conto del problema noetico che sta dietro la visione divina del canto XXXIII, e interpretano unanimemente i versi finali della preghiera alla Vergine di Bernardo come riflesso di una preoccupazione semplicemente etico-religiosa del protagonista: la Vergine dovrebbe aiutarlo a conservare, per il resto della sua vita, uno stato di grazia, cioè ad evitare che egli, dopo aver ottenuto il privilegio di un rapporto diretto con Dio, possa ricadere nel peccato. Si veda, per tutti, il commento del Chimenz:

La grazia che Bernardo chiede è quella che i teologi chiamano della perseveranza finale, cioè il persistere nel bene e nella grazia, di non poter più peccare fino alla morte.

La lettura "fisiologica" degli affetti e dei movimenti del protagonista, oltre che più aderente al significato che tali termini hanno nella cultura scientifica dell'epoca, è senz'altro più congruente con la drammaticità e la violenza della situazione descritta dal canto16, ed

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inoltre illumina contestualmente il senso dei versi finali, i quali dicono che è stata concessa non solo la prima grazia, quella relativa alla visione dell’”ultima salute”, che infatti si produce non per autonomo innalzamento del poeta (“ma non eran da ciò la proprie penne”), bensì per l’intervento diretto di Dio (“se non che la mia mente fu percossa / da un fulgore in che sua voglia venne”), ma anche la seconda, quella relativa alla conservazione delle facoltà psicofisiche di Dante, che non sono in grado di sostenere una esperienza così eccessiva rispetto alla loro, pur alta, materiale potenza ricettiva (“A l’alta fantasia qui mancò possa”), e quindi sarebbero state definitivamente annichilite, se Dio stesso non avesse reinserito immediatamente (Ma già...) Dante nelle normali procedure psicofisiche dell’esistenza. Dopo aver folgorato per un istante la mente del protagonista, annullando nei suoi confronti la distanza che esiste fra sé e tutte le creature, Dio riproietta Dante nel mondo, torna ad essere per lui quel bene supremo che, muovendo il creato dall’esterno como ultimo oggetto d’amore (secondo il principio per cui Dio “movet sicut amatum” l’universo17), stimola il suo desiderio e la sua volontà secondo il ritmo naturalmente uniforme del movimento del cosmo.

Il tema del ritorno, cioè del rientro del protagonista nella normalità quotidiana dell'esistenza (dall'eterno al tempo), è poi necessario alla logica narrativa e romanzesca del testo poiché ci informa e rassicura su uno snodo essenziale della sua trama, e cioè sulla trasformazione del protagonista in poeta, una volta terminato il viaggio e perché il racconto di esso possa essere iniziato e portato a termine18. Dante infatti non potrebbe scrivere la Commedia se il suo viaggio non terminasse, se cioè non si producesse quel rientro nella realtà terrena che gli permette di distanziare nel tempo l'esperienza vissuta al fine di poterla narrare. È infatti solo nella radicale immanenza di una soggettività interamente calata nella propria sensibilità umana che questa poesia può darsi. E si intenda ciò non nel senso banale che qualunque poesia implica un essere in carne ed ossa che la produca, ma bensì nel senso estetico-trascendentale per il quale la narrazione del viaggio dantesco è condotta secondo processi fantastici, memorativi ed

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intellettuali che implicano l’ancoraggio della soggettività che scrive ad una sensibilità perfettamente operante: tale sensibilità fornisce al poeta l’hic et nunc di una scrittura che modernamente si organizza a partire dalle coordinate esistenziali di un soggetto empirico19.

Ciò significa, fra le altre cose e relativamente all’ultima cantica, che per quanto spirituale e romanzescamente escatologica sia la zona di realtà che il personaggio attraversa nel suo viaggio verso Dio, concretissima, e quindi materiale e reale, è l’esperienza verbale vissuta dal poeta che la narra. Il suo discorso sgorga interamente dalle facoltà mentali che presiedono all’esercizio del linguaggio: e cioè (secondo la tripartizione più frequente) fantasia, memoria e cogitativa, così come sempre saldamente ancorato alla sua sensibilità è stato il personaggio durante la sua avventura. L’ultimo canto della Commedia è appunto un inno alla poesia in quanto facoltà suprema della mente umana, il cui potere poeticamente creativo non conosce limiti neppure verso l’alto (cioè la dimensione di massima spiritualità e trascendenza). Neppure l’idea di Dio resiste ad una fantasia verbale capace di dispiegare al massimo grado le risorse poetiche della sensibilità e dell’intelligenza umane. La distinzione fra il carattere spirituale e mistico dell’oggetto descritto nel Paradiso, e il carattere materiale e reale dell’esperienza di linguaggio che tale narrazione produce è chiarissima fin dal principio della cantica (Pd., I, 1-12):

La gloria di colui che tutto move per l’universo penetra, e risplende in una parte più e meno altrove.

Nel ciel che più de la sua luce prende fu’ io, e vidi cose che ridire né sa né può chi di là sù discende; perché appressando sé al suo disire, nostro intelletto si profonda tanto, che dietro la memoria non può ire. Veramente quant’io del regno santo ne la mia mente potei far tesoro, sarà ora materia del mio canto.

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Per quanto strabilianti e soprannaturali siano le cose che il personaggio vide nel Paradiso (ed anzi strabiliante e soprannaturale è già il solo fatto che egli ci sia andato da vivo), e per quanto indicibili siano tali cose (poiché lì l’intelletto si avvicina tanto al suo ultimo oggetto di desiderio che la memoria, e quindi la sensibilità, non può seguirlo), tuttavia quelle, e solo quelle, di cui egli poté far tesoro nella sua mente (cioè la sua memoria, coadiuvata dalla fantasia e dalla cogitativa) "saranno ora materia del suo canto". La continuità esistenziale del personaggio e del poeta, cioè la funzione essenziale che memoria e sensibilità hanno svolto sia nel momento di sperimentare la trascendenza, sia nel momento di narrarla, rappresentano il fondamentale apriori estetico della poesia della Commedia. La narrazione, nei versi finali della cantica, del rientro del personaggio nella immanenza, dà fede di tale continuità esistenziale, per la quale l'io che agì nel passato è lo stesso io che scrive nel presente, e rassicura il lettore sulla plausibilità storica dell’evento miracoloso (il viaggio nel suo complesso) che gli è stato descritto20. Si osservi, in Par., X, 70-75, come la dicibilità dell'esperienza soprannaturale sia garantita (nel momento stesso in cui ne viene dichiarata la inopia espressiva) proprio attraverso la affermazione che colui che parla è tornato (rivegno) dai luoghi che descrive. È appunto tale radicale immanenza del soggetto che scrive, di cui il rientro fa fede, e quindi la sua continuità esistenziale col soggetto narrato, ciò che fonda la pretesa veritativa del testo:

Ne la corte del cielo, ond'io rivegno, si trovan molte gioie care e belle tanto che non si posson trar del regno; e 'l canto di quei lumi era di quelle; chi non 'impenna sì che là sù voli, dal muto aspetti quindi le novelle.

3. La similitudine del verso 144, “sì come rota ch’igualmente è mossa”, una volta chiarito il senso degli altri versi, perde ogni carattere enigmatico. Il suo significato è quello che già gli antichi commentatori avvertirono:

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come si volge la rota, che è mossa parimente, non più ratto l’una volta che l’altra: la mente umana mossa da l’amore d’Iddio si muove equalmente a tutte le cose, accordando la sua volontà co la volontà d’Iddio (Buti).

D’altra parte Dante stesso chiarisce, in altro luogo, il senso della similitudine (Mn., I, xv, 1-4):

Constat igitur quod omne quod est bonum per hoc est bonum: quod in uno consistit. Et cum concordia, in quantum hiusmodi, sit quoddam bonum, manifestum est ipsam consistere in aliquo uno tanquam in propia radice. Que quidem radix apparebit, si natura vel ratio concordie summatur: est enim concordia uniformis motus plurium voluntatum; in qua quidem ratione apparet unitatem voluntatum, que per uniformem motum datur intelligi, concordie radicem esse vel ipsam concordiam.

Il moto uniforme (della ruota intorno al propio asse) è figura della concordia della volontà di Dante con quella di Dio, ricercato e voluto in tutte le cose che naturalmente cadono nel campo della sua umana esperienza. Che di umana e naturale esperienza si tratti, e non sovrumana e soprannaturale, lo dimostra in modo inequivoco questo passaggio del Convivio (III, ii, 7):

Però che naturalissimo è in Dio volere essere ... l’anima umana essere vuole naturalmente con tutto desiderio; e però che ‘l suo essere dipende da Dio e per quello si conserva, naturalmente disia e vuole essere a Dio unita per lo suo essere fortificare. E però che ne le bontadi de la natura e de la ragione si mostra la divina, viene che naturalmente l’anima umana con quelle per via spirituale si unisca, tanto più tosto e più forte quanto quelle più appaiono perfette; lo quale apparimento è fatto secondo che la conoscenza de l’anima è chiara o impedita. E questo unire è quello che noi dicemo amore21.

Si noti, in questo brano, innanzitutto il binomio (“l’anima umana ... naturalmente”) disia e vuole (“essere a Dio unita”), analogo a quello (“il mio disio e il velle”) che naturalmente è mosso dall’amore di Dio dopo la folgorazione finale; e poi il fatto che la bontà divina si mostra

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“ne le bontadi de la natura”, cioè in “tutte le cose”, come hanno perfettamento inteso i commentatori antichi.

Per quanto riguarda la distinzione fra disio e velle, molto variamente interpretata dai critici, non c’è nessun motivo di intendere il binomio diversamente da quanto i due termini letteralmente significano, e cioè “desiderio” e “volontà”, che sono volti o mossi dall'oggetto dell'uno e dell'altro. Anche in questo caso è Dante stesso che spiega con chiarezza il senso della distinzione e lo fa in un luogo che abbiamo in parte già esaminato per esplorare la teoria dantesca del desiderio. Si tratta dei versi 19-75 del canto XVIII del Purgatorio. Qui Dante distingue fra la tensione dell’anima verso l’appetibile (che comprende due movimenti: uno interno, l’amore, che è il piegarsi di essa verso l’oggetto22; e uno esterno, il desiderio, che è il tendere di essa verso l’oggetto23), e l’assenso che il giudizio di ragione (la virtù che consiglia) emette o no in rapporto alla desiderabilità dell’oggetto (a partire dalla conformità di questo con i primi appetibili, naturalmente buoni)24. Possiamo quindi senz’altro tradurre disio e velle come “desiderio” e “volontà”, i due momenti, distinti ma indissolubilmente connessi, in cui si articola la vita morale di qualunque essere umano.

Il fatto che Dante intenda la eticità del soggetto come collegata all’amore e al desiderio è significativo, modernamente, perché amore e desiderio sono anche il principio ispiratore della sua poesia (e, a norma di Vita Nuova XXV e Purg. XXIV e XXVI, della poesia volgare in generale). Risultano allora pertinenti, per chiarire ulteriormente l’immagine della rota, due luoghi nei quali l’amore viene definito appunto in rapporto analogico al centro del cerchio (l’asse della ruota). Il primo l’abbiamo già visto:

La donna mia che mi vedéa in cura forte sospeso, disse: “Da quel punto depende il cielo e tutta la natura. Mira quel cerchio che più li è congiunto; e sappi che il suo muovere è sì tosto per l’affocato amore ond’elli è punto”.

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La velocità dei cieli è qui direttamente proporzionale all’amore delle intelligenze motrici (ed inversamente proporzionale alla distanza da esso25). Tale algoritmo appare a Dante come una serie di cerchi concentrici che ruotano attorno ad un punto che è Dio. Si tratta, certo, di una metafora (parvenza, v. 74), poiché nella realtà cosmologica Dio non è interno al mondo, ma, esterno ad esso, lo comprende. Infatti, in Par. I, 76-77, dove proprio l'immagine della ruota viene utilizzata per indicare il movimento regolare dei cieli indotto dall'amore di Dio, questi agisce, come motore del movimento, non dall'interno ma dall'esterno: "Quando la rota che tu sempiterni / desiderato...".

Come osserva G. Contini (1970:481)26, con la metafora della rotazione degli angeli intorno a Dio, Dante ottiene l’effetto di contrarre l’infinito in un punto, e di invertire la spontanea immagine geocentrica o antropocentrica, in rappresentazione teocentrica dell’universo. La metafora però è anche una singolare conferma dell’assioma relativo al desiderio formulato in Conv., III, 10:

è da sapere che quanto l’agente più al paziente sé unisce, tanto e più forte è però la passione, sì come per la sentenza del Filosofo in quello De Generatione si può comprendere; onde, quanto la cosa desiderata più appropinqua al desiderante, tanto lo desiderio è maggiore, e l’anima, più passionata, più si unisce a la parte concupiscibile e più abbandona la ragione,

e poi in Monarchia, I, xi, 15: “omne diligibile tanto magis diligitur quanto propinquius est diligenti”. L’intensità dell’amore/desiderio è sempre funzione diretta della prossimità dell’oggetto al desiderante, come d’altra parte anche nella Vita Nuova, nel rapporto con Beatrice, Dante aveva potuto a sue spese sperimentare (cfr. il già citato frammento del cap. XIV: “la forza che Amore prese veggendosi in tanta propinquitade a la gentilissima donna”). Il che permette a Dante di considere pienamente omologabili, e quindi traducibli l'uno nell'altro, il desiderio sensibile (del corpo e la mente umani) e quello intelligibile (delle intelligenze separate). Si inverte, però, il segno morale ed intellettuale del desiderio: sulla terra, un avvicinamento eccessivo della

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cosa desiderata al desiderante potenzia la "parte concupiscibile" dell'animo (come dimostra l'episodio del cap. XIV della Vita Nuova); in cielo, invece, dove non sono possibili errori di valutazione relativamente all'oggetto desiderabile, al massimo avvicinamento corrisponde la partecipazione spirituale più intensa, il più alto grado di fusione con l'oggetto desiderato. È lo stesso amore, però, quello che governa tanto l'universo nel suo insieme, fisico e metafisico, quanto la singolarità esistenziale della persona.

G. Contini aveva già osservato la perfetta traducibilità fra l’amore divino, inteso come motore dell’universo, e l’amore umano inteso come motore della vita morale del poeta (ibid.):

(Il contrasto fra visione geocentrica e visione teocentrica) in termini di Vita Nuova, è il contrasto fra “Oltre la spera che più larga gira” (dove, con verbo e sostantivo già ugualmente paradisiaci, “tira” una “intelligenza nova”) e “Ego tanquam centrum circuli27.

Proprio quest’ultima immagine, che nell’opera giovanile presentava l’amore come principio interno di movimento affettivo (il centro del cerchio), equidistante da ogni oggetto femminile che lo attualizza nella mente del soggetto (“cui simili modo se habent circunferentie partes”), e quindi destabilizzante per la psiche del poeta finché i vari oggetti non si riducano ad uno solo (nella persona di Beatrice), si riaffaccia allora nella similitudine finale del Poema (la “rota ch’igualmente è mossa”). Essendo l'amore principio tanto del movimento affettivo (verso Beatrice) quanto del movimento cosmico (verso Dio), esso può essere rappresentato attraverso una coppia di parvenze geometricamente analoghe, centro di un cerchio ed asse di una ruota: nell'ultima metafora viene così ricompattata visualmente una esperienza poetica e vitale che non ha mai cessato di tendere, nel suo vertiginoso viaggio centrifugo, verso il suo principio.

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NOTE 1 Op. cit., p. 349. Si tenga presente che la componente mistico-unitiva della teologia medievale è fortemente sottolineata dalla interpretazione globale che lo studioso dà di Dante: “Al misticismo platonico-aristotelico, che assegnava come mèta ultima dell’ascesa morale dell’uomo la somiglianza con Dio, per mezzo della conoscenza, Dante sostituisce la mistica unione cristiana dell’anima con Dio in un supremo atto d’amore” (Dante e la filosofia, in op. cit., p. 245). 2 G. Padoan, Purgatorio, XVIII, in Lectura Dantis Scaligera, 3 voll., Le Monnier, Firenze, 1967-68, II, p. 666; G. Stabile, ‘volontà’, in E.D., p. 1136. Legge invece bene A. M. Chiavacci Leonardi, Purgatorio, Mondadori, Milano, 1994, p. 525: “quel moto non si ferma finché non raggiunge la cosa amata, e ivi trova la sua gioia e la sua quiete. È questo il terzo stadio, con il quale si chiude il circolo del processo di amore; il moto finisce là di dove era partito:”et ultimo quies, id est gaudium”, scrive Tommaso [S.T., I-II, q.26, a.2] dove ritroviamo il posare e il gioire del verso dantesco. Da qui appare chiaro il senso contestato del mai non posa / fin che: il moto trova la sua quiete nel raggiungimento dell’oggetto amato. Che non vuol dire che cessi l’amore, ma nell’appagamento cessa la spinta, il disire che mette in moto l’animo, concetto più volte espresso da Dante: cfr. Par. XXXIII 46-8: E io ch’al fine di tutt’i disii / appropinquava, sì com’io dovea, / l’ardor del desiderio in me finii; XXVIII 108: nel vero in che si queta ogne intelletto; III 85: E ‘n la sua volontade è nostra pace”. Un concetto analago, in rapporto ai requisiti della beatitudo, si trova, presso Tommaso, anche in S.T., I-II, q.4, a.6: "Delectatio causatur ex hoc quod appetitus requiescit in bono adepto. Unde, cum beatitudo nihil aliud sit quam adeptio summi boni, non potest esse beatitudo sine delectatione concomitante". 3 Una variazione sullo stesso tema è la similitudine di Conv. II, i, 2, in cui la distinzione “movimento (del desiderio) / quiete (della sua soddisfazione)" viene resa attraverso l’immagine del vento che spinge la nave da un porto all’altro: “lo tempo chiama e domanda la mia nave uscir di porto; per che, dirizzato l’artimone de la ragione a l’òra del mio desiderio, entro in pelago con isperanza di dolce cammino e di salutevole porto e laudabile”. Fuor di metafora, la quiete in cui necessariamente consiste la soddisfazione del desiderio è affermata in Conv., III, vi, 7: “È da sapere cha ciascuna cosa massimamente desidera la sua perfezione, e in quella si queta ogni suo desiderio, e per quella ogni cosa è desiderata”. 4 C. Vasoli, nel suo commento a questi brani (p. 674), oltre a indicare le fonti aristoteliche del ragionamento di Dante, opportunamente ricorda i versi di Pd., IV, 124-132: “Io veggio ben che già mai non si sazia / nostro intelletto, se ‘l ver non lo illustra / di fuor dal qual nessun vero si spazia. / Posasi in esso, come fera in lustra, / tosto che giunto l’ha; e giugner puollo: / se non, ciascun disio sarebbe frustra. / Nasce per quello, a guisa di

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rampollo, / a piè del vero il dubbio; ed è natura / ch’al sommo pinge noi di collo in collo”, e spiega: “il procedere del desiderio, nella lenta conquista di una vetta sempre più alta e ardua, è dunque fatto non di un unico, bensì di molti desideri, ognuno dei quali succede all’altro in un crescente processo di perfezione che è, però, compiuto e ‘terminato’ in ognuno dei suoi momenti”. 5 Tutto il ragionamento riproduce esattamente la concezione di Tommaso (S.T., I-II, q.26, a.2, “Utrum amor sit passio”): “Agens autem naturale duplicem effectum inducit in patiens: nam primo quidam dat formam, secundo autem dat motum consequentem formam... appetibile enim movet appetitum, faciens se quodammodo in eius intentione, et appetitus tendit in appetibile realiter consequendum, ut sit ibi finis motus, ubi fuit principium. Prima ergo immutatio appetitus ab appetibili vocatur amor, qui nihil est aliud quam complacentia appetibilis; et ex hac complacentia sequitur motus in appetibile, qui est desiderium; et ultimo quies, quae est gaudium”. Si osservi, in particolare la distinzione fra amor (“complacentia appetibilis”) e desiderium (“motus in appetibile”), che corrisponde alla distinzione dantesca fra il piegarsi dell’animo verso l’oggetto amato e il “moto spiritale” con cui l’animo tende ad esso. Anche la similitudine fra il desiderio umano ed il movimento del fuoco verso l’alto è letteralmente ripresa da Tommaso (S.T., I, q.80, a.1,): “... considerandum est quod quamlibet formam sequitur aliqua inclinatio: sicut ignis ex sua forma inclinatur in superiorem locum, et ad hoc quod generet sibi simile”. 6 Volgibile vuol dire “volubile”, ed indica una eccessiva esposizione agli stimoli esterni, cioè la incapacità di fissare il desiderio erotico su un oggetto sessuale unico (per cui, nel cuore di Cino, “stecco d’amor mai no fe’ foro”). Nell’altro sonetto a Cino, Io mi credea, lo stesso rimprovero viene formulato con espressione analoga “leggier cor così vi volve”. D’altra parte, nella epistola a Moroello Malaspina (commento alla canzone Amor, da che convien), la perdita del dominio di sé prodotta dal nuovo amore fa sì che “non quo ego, sed quod ille (cioè l’amore) vult, me verti operteat”. 7 Si osservi, in quest’ultimo brano, la perfetta coerenza terminologica e concettuale con i versi di Purg. XVIII, 22-26 appena citati: “Vostra apprensiva da esser verace / tragge intenzione, e dentro a voi la spiega, / sì che l’animo ad essa volger face; / e se, rivolto, inver di lei si piega, / quel piegare è amor...”. 8 L'idea del ritorno sembra intrinsecamente vincolata al pellegrinaggio in Par., I, 49-51: "E sì come secondo raggio suole / uscir del primo e risalire in suso, / pur come pelegrin che tornar vuole". 9 Una eccezione di grande rilievo ideologico alla connessione fra i due verbi è in Purg., XIX, 22-24, cioè nel discorso con cui la "femmina balba" ("dolce serena") rivendica con orgoglio di aver distolto Ulisse dal suo cammino: "Io volsi Ulisse del suo cammin vago / al canto mio; e qual meco s'ausa, / rado sen parte; sì tutto l'appago". Nel quadro delle implicazioni suggerite dal presente studio, il contenuto perverso del canto della sirena si arricchisce di un nuovo elemento: l'eroe desideroso di ritornare in patria ("del suo cammin

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vago") viene distratto dalla strega e quindi indotto a dirigersi nella direzione opposta. Poiché, infatti, nella sirena di questi versi si allude alla Circe che, in Inf. XXVI, "sottrasse (Ulisse) più d'un anno là presso a Gaeta", la naturale connessione fra l'impulso di desiderio e l'ansia di ritorno viene confermata da Ulisse e contrario, cioè attraverso una esperienza altamente rappresentativa della colpa e del danno prodotti dalla inversione del naturale movimento del desiderio verso la propria meta (cioè il ritorno in patria). 10 Si osservi che anche “il fulgore, in che sua voglia venne” (d'accordo con S.T., Suppl., a.92, q.1: "quidam ... dixerunt quod ipsa essentia non videbitur, sed quidam fulgor, quasi radius ipsius" -su cui cfr. P. Boitani, Il tragico e il sublime nella letteratura medievale, Il Mulino, Bologna, 1992, p.348) ha un precedente nella prosopopea degli spiritelli: “Se questi non ci infolgorasse così fuori del nostro luogo” (in Amor, da che convien gli occhi della donna sono il “fiero lume / che sfolgorando fa via a la morte” [65-66], e la donna, secondo l’Epistola che spiega la canzone, è un “fulgur descendens”). Inoltre il sintagma “la mia mente fu percossa” (v. 140) riprende una immagine già usata per esprimere la violenza dell’incontro con Beatrice in Purg. XXX, 40-42: “Tosto che ne la vista mi percosse / l’alta virtù che già m’avea trafitto / prima ch’io fuor di puerizia fosse”. In realtà, in quanto oggetti ultimi di desiderio, ciascuno nel suo ambito ma identici nella prospettiva unica del soggetto desiderante, Dio e Beatrice producono sul poeta gli stessi effetti psichicamente devastanti, poiché entrambi rappresentano una stimolazione eccessiva, e quindi innaturale, della sua sensibilità. 11 Sulla coincidenza semantica fra movimenti e sensibilità, si veda questo passaggio del Convivio (III, ii, 11): “Dico adunque che lo Filosofo, ne lo secondo de l'Anima, partendo le potenze di quella, dice che l'anima principalmente hae tre potenze, cioè vivere, sentire e ragionare: e dice anche muovere; ma questa si può col sentire fare una, però che ogni anima che sente, o con tutti i sensi o con alcuno solo, si muove; sì che muovere è una potenza congiunta col sentire". 12 "Magnitudo quidem enim quaedam erit, quod sensum patitur. Non tamen sensitivo esse, neque sensus magnitudo est, sed ratio quaedam et potentia illius. Manifestum autem ex his, et propter quid sensibilium excellentiae corrumpunt sensitiva. Si namque sit fortior sensitivo motus, solvitur ratio: hoc autem erat sensus. Sicut et symphonia et tonus, percussi fortiter chordis". Il concetto ritorna alla fine del libro III (13, 435, b), in cui si distingue fra l'eccesso (excellentia) del tatto, che distrugge l'animale, e l'eccesso degli altri sensibili, che può limitarsi a distruggere solo il senso implicato. Ciò che comunque resta assodato è che "omnis sensibilis superfluitas corrumpit sensum". 13 "Quia enim dixerat quod sensus est susceptivus specierum sine materia, quod etiam intellectui convenit, posset aliquis credere quod sensus non esset potentia in corpore, sicut nec intellectus. Et ideo ad hoc excludendum, assignat ei organum: et dicit quod primum sensitivum, idest primum organum sensus est in quo est potentia huiumodi, quae scilicet est susceptiva specierum sine materia… Et dicit quod manifestum est ex praedictis, propter quid excellentia sensibilium corrumpat organa sensuum. Oportet enim in organis

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sentiendi, ad hoc quod sentiatur, esse “quamdam rationem” idest proportionem, ut dictum est. Si ergo motus sensibilis fuerit fortior quam organum natum sit pati, solvitur proportio, et corrumpitur sensus, qui consistit in quadam proportione organi, ut dictum est. Et est simile, sicut cum aliquis fortiter percutit chordas, solvitur simphonia et tonus instrumenti, qui in quadam proportione consistit”. Il problema posto qui da Tommaso è perfettamente noto a Dante, il quale, oltre a drammatizzarlo nel capitolo XIV della Vita Nuova, lo formula anche, in una diversa prospettiva teorica, nella Epistola a Cino da Pistoia: “Omnis namque potentia que post corruptionem unius actus non deperit, naturaliter reservatur in alium: ergo potentie sensitive, manente organo, per corruptionem unius actus non depereunt, et naturaliter reservantur in alium. Cum igitur potentia concupiscibilis, que sedes amoris est, sit potentia sensitiva, manifestum est quod post corruptionem unius passionis qua in actum reducitur, in alium reservatur”. Dante spiega, qui, il dislocarsi della potenza sensitiva da una passione all’altra (“quod corruptio unius generatio sit alterius”), purché essa “non depereat”, cioè “manente organo”. Il rischio che la visione di Dio rappresenta è appunto la distruzione dell’organo, cioè della sensibilità e dell’apparato psicofisico che ne garantisce il funzionamento. 14 Il che, ovviamente, non vuol dire che la visione divina e il viaggio nell'al di là poeticamente immaginati da Dante come esperienza sensibile siano teologicamente giustificabili. Tommaso è chiarissimo al riguardo: "impossibile est quod homo in statu viae videat Deum per essentiam sine abstractione a sensibus" (S.T., II-II, q. 175, a. 4). Ma se l'essenza divina non potesse essere "vista", cioè sperimentata con i sensi (l'"alta fantasia"), non sarebbe possibile descriverla poeticamente. 15 Il rapporto fra l'anima e il corpo, organico in vita, si spezza solo temporaneamente dopo la morte, per Dante. Esso, infatti, diverrà nuovamente indissolubile alla fine dei tempi, quando la loro naturale unione sarà consacrata con la resurrezione della carne. Il tema è svolto dal poeta in Par., XIV, 37-66. Si osservi in particolare il "disio d'i corpi morti" (v. 63), che alimenta negli spiriti beati un costante rimpianto dei corpi abbandonati sulla terra, senza i quali la loro essenza, sia pur in Paradiso, è imperfetta. 16 P. Boitani (op. cit., p. 262) avverte, accanto al significato morale, anche quello fisico della seconda grazia chiesta da Bernardo: "... sani significa non solo 'puri', ma anche 'in salute'. Bernardo, quindi, chiede a Maria di concedere a Dante la sua integrità come uomo e poeta dopo la visione beatifica". 17 Il concetto, di origine aristotelica, appare in Conv., II, iii, 9: “E questo è cagione al Primo Mobile per avere velocissimo movimento; ché per lo ferventissimo appetito ch’è ‘n ciascuna parte di quello nono cielo, che è immediato a quello, d’essere congiunta con ciascuna parte di quello divinissimo ciel quieto, in quello si rivolve con tanto desiderio, che la sua velocitate è quasi incomprensibile” (si osservi qui la opposizione fra il “velocissimo movimento” del primo mobile e il “divinissimo ciel quieto” dell’Empireo), e in Par., I, 76-77: “Quando la rota che tu sempiterni / desiderato...”.

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18 Benvenuto da Imola intende appunto che la concessione della seconda grazia è necessaria perché possa essere portata a termine la redazione del Poema: "Hic Bernardus facit secundam petitionem, et petit quod post talem visionem conservet conceptus suos. Dicit ergo: ... che tu conservi sani gli affetti suoi, idest, bonas affectiones suas, dopo tano veder, idest, post visionem summi boni: et hoc ut possit scribere in suo opere ad removendum mortales a vitiis et revocandum ad virtutes". L'idea è stata ripresa modernamente da G. Barberi Squarotti, La preghiera alla Vergine: Dante e Petrarca, in Studi in onore di Ch. Singleton, Salerno Editore, Roma, 1995, pp.365-374. 19 Così empirico che nella penultima allusione del Poema al presente della scrittura, il poeta può paragonarsi ad un lattante: "Omai sarà piú corta mia favella, / pur a quel ch'io ricordo, che d'un fante / che bagni ancor la lingua alla mammella". 20 Il Buti, nel suo commento ai versi finali, intuì che la preoccupazione del poeta era quella di giustificare la dicibilità della sovraumana esperienza vissuta dal personaggio: “Ma all’alta fantasia; la quale sopra ciò io avea, qui; cioè in questa parte, mancò possa; cioè di poterlo sì apprendere, che io lo potesse dire e scrivere. Ma già volgea il mio disio; cioè ma già volgea lo mio desiderio, che io avea di scrivere e dirlo...”. A sua volta Pietro di Dante osserva che nei versi finali del Poema la finzione poetica viene sussunta dal senso comune e dalla fantasia: “Et sic vide quomodo auctor hanc suam fictam poesim ponat sub sensu communi et phantasia, in qua quilibet sensus particularis non judicat nisi de proprio objecto sicut visus de colore, auditus de sono... Qui sensus communis, in quantum non obedit rationi, dicitur phantasia; qui sensus communis est vis animae sensibilis ordinata in prima concavitate cerebri, recipiens per se ipsam proprie omnes formas, quae imprimuntur a quinque nostris sensibus secundum Avicennam”. 21 Ugualmente chiara è la cosmologia dantesca, e in essa la funzione del desiderio come naturale motore delle cose create verso Dio, nel discorso di Beatrice del primo canto del Paradiso, nel quale la teoria dell’amore e del desiderio umani del canto XVIII del Purgatorio viene estesa, come istinto e come volontà, a tutto il creato (vv. 109-120): “Ne l’ordine ch’io dico sono accline / tutte nature, per diverse sorti, / più al principio loro e men vicine; / onde si muovono a diversi porti/ per lo gran mar dell’essere, e ciascuna / con istinto a lei dato che la porti. / Questi ne porta il foco inver’ la luna; / questi ne’ cor mortali è permotore; / questi la terra in sé stringe e aduna; / né pur le creature che son fore / d’intelligenza quest’arco saetta, / ma quelle c’hanno intelletto e amore”. La fonte principale del brano e della connessa teoria è Tommaso (S.T., I, q.59, a.1): "cum omnia procedant ex volunate divina, omnia suo modo per appetitum inclinantur in bonum, sed diversimode. Quaedam enim inclinantur in bonum, per solam naturalem habitudinem, absque cognitione, sicut plantae et corpora inanimatae. Et talis inclinatio ad bonum vocatur appetitus naturalis. Quaedam vero ad bonum inclinantur cum aliqua cognitione... inclinatio autem hanc cognitionem sequens, dicitur appetitus sensitivus. Quaedam vero inclinantur ad bonum cum cognitione qua cognoscunt ipsam boni ratione; quod est proprium intellectus. Et haec perfectissime inclinantur in bonum; non quidem quasi ab alio solummodo directa in bonum, sicut ea quae cognitione carent; neque in bonum

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particulariter tantum, sicut ea in quibus est sola sensitiva cognitio; sed quasi inclinata in ipsum universale bonum. Et haec inclinatio dicitur voluntas". È appunto a tale ultima inclinatio, perfettamente orientata verso Dio, che Dante allude negli ultimi versi del Poema. 22 VV. 19-27: "L'animo, ch'è creato ad amar presto, / ad ogni cosa è mobile che piace, / tosto che dal piacere in atto è desto. / Vostra apprensiva da esser verace / tragge intenzione, e dentro a voi la spiega, / sì che l'animo ad essa volger face, / e se, rivolto, inver' di lei si piega, / quel piegare è amor, quell'è natura / che per piacer di novo in voi si lega". Il "piacer di novo" che lega la natura all'animo deve essere inteso alla luce del passaggio già citato di Cv., IV, 13: "E se poi io desidero di sapere che cosa e com’è ciascuno di questi principii, questo è un altro desiderio nuovo, né per l’avvenimento di questo non mi si toglie la perfezione a la quale mi condusse l’altro"; si tratta cioè della novità inerente alla dialettica dell'amore-desiderio, che procede, per movimenti discontinui, da una perfezione all'altra, ciascuna delle quali rappresenta un nuovo piacere rispetto a quella anteriore. In perfetta coerenza con tali principi, le sostanze separate, le quali "... poi che fur gioconde / de la faccia di Dio, non volser viso / da essa...", "... non hanno vedere interciso / da novo obietto... " (Par., XXIX, 76-80), cioè non sono soggette alla discontinuità del desiderio e alla logica del "novo obietto" che ne costituisce la dialettica intramondana. 23 VV. 28-33: "Poi, come 'l foco movesi in altura / per la sua forma ch'è nata a salire / là dove più in sua matera dura, / così l'animo preso entra in disire, / ch'è moto spiritale, e mai non posa / fin che la cosa amata il fa gioire". 24 VV. 55-72: "Però, là onde vegna lo 'ntelletto / de le prime notizie, omo non sape, / e de' primi appetibili l'affetto, / che sono in voi sì come studio in ape / di far lo mele; e questa prima voglia / merto di lode o di biasmo non cape. / Or perché a questa ogn'altra si raccoglia, / innata v'è la virtù che consiglia, / e de l'assenso de' tener la soglia. / Quest'è 'l principio là onde si piglia / ragion di meritare in voi, secondo / che buoni e rei amori accoglie e viglia. / Color che ragionando andaro al fondo, / s'accorser d'esta innata libertate; / però moralità lasciaro al mondo. / Onde, poniam che di necessitate / surga ogne amor che dentro a voi s'accende, / di ritenerlo è in voi la potestatate". G. Stabile (in E. D., volontà), intende che tale giudizio, e quindi il libero arbitrio che su di esso si fonda, sia posteriore al movimento interno del volgersi dell’anima all’appetibile ed anteriore al movimento esterno del piegarsi dell’anima verso l’appetibile: “Se ci rivolgiamo di nuovo alla teoria della semplice appetizione, si svela allora come tale potestate di trattenere ogne amor, vale a dire il giudizio di legittimità che regola il segno della forma intenzionale derivata dall’oggetto, non potrà che esercitarsi tra il momento del volger e quello del piegare dell’animo verso l’oggetto (Pg. XVIII 24-26)”. 25 Il concetto è in Alpetragio (De motibus celorum, citato da C. Vasoli, D. A, Opere Minori, t. I, p. II, p. 301: “virtus motus qui movet mundum, qui est corporis moventis

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totum, apparet in illo secundum illum eundem modum, quia illud quod est ei propinquius est magis festini motus et fortioris quam illud quod est remotius”. 26 Un esempio di poesia dantesca, in Varianti e altra linguística, Eininaudi, Torino, 1970, p. 481. 27 Si osservi che il teocentrismo di Amore, rivendicato da questi attraverso la autocomparazione con il centro della circonferenza, avrà poi una clamorosa applicazione numerologica nella centralità dei canti dedicati al tema dell'amore rispetto alla struttura della Commedia (il XVI del Purgatorio è il 51º del Poema).

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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