1. Le pubbliche amministrazioni nell’era di Inter- 1 net · no-utente nei processi di...

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11 1. Le pubbliche amministrazioni nell’era di Inter- net 1. La complessità organizzativa delle amministrazioni pubbliche e la funzione di comunicazione Per approfondire la rilevanza della funzione di comunicazione nell’amministrazione in rete è utile partire dalla ricostruzione dei processi di riforma degli assetti organizzativi delle amministrazioni pubbliche che hanno portato all’affermazione di nuovi modelli di gestione della cosa pub- blica, caratterizzati da una cultura organizzativa diversa da quella bu- rocratica, più orientata al servizio e ad una maggiore centralità del cittadi- no-utente nei processi di formulazione e implementazione delle politiche. Gli apparati amministrativi delle moderne democrazie occidentali hanno conosciuto, sul finire del secolo scorso, un ampio processo di riforma che, pur avendo seguito modalità di attuazione diverse nei singoli contesti na- zionali, ha determinato ovunque, fra gli altri, un risultato comune: l’accresciuta articolazione della complessità organizzativa delle ammini- strazioni pubbliche. L’obiettivo condiviso di queste iniziative di riforma, tanto nei modelli di tipo anglosassone quanto in quelli più vicini al modello burocratico- weberiano (Silberman, 1993; Pollitt e Bouckaert, 2000), era quello di pro- porre soluzioni organizzative in grado di fronteggiare la crisi fiscale dei bi- lanci pubblici alimentata dall’ipertrofia degli apparati amministrativi e dall’inefficienza dei sistemi di welfare. Anche le amministrazioni degli anni Ottanta del Novecento erano carat- terizzate da complessità organizzativa ma questa, differentemente da quella che si riscontra nelle attuali configurazioni, si declinava in una frammenta- zione delle funzioni, in sovrapposizioni e rigidità che limitavano il rendi- 12 mento degli apparati burocratici 1 . Ed è stata proprio la scarsa efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa, insieme alla perdita di fiducia nelle istituzioni e alla conseguente «pressione democratica» da parte dei cittadini (Mény e Wright, 1994, p. 24), nonché la spinta di fattori esogeni ai sistemi amministrativi, quali il processo di europeizzazione delle politiche e la glo- balizzazione dei processi economici (Campbell, 2004; Knill, 2001; Sassen, 2008), a rendere non più rinviabile la questione del cambiamento ammini- strativo. La soluzione sembrava risiedere nell’adozione dei principi organizzativi del settore privato. Attraverso l’elaborazione di un nuovo paradigma corri- spondente a un orientamento al mercato delle politiche pubbliche – il New Public Management, di derivazione anglosassone 2 (Hood, 1991; Osborne e Gaebler, 1995) – si è cercato di trasferire in ambito pubblico strumenti e modelli gestionali aziendalistici. Termini e concetti quali controllo di ge- stione, management by objectives, responsabilità di budget, controllo dei livelli di spesa, cittadino-cliente, contracting out, separazione tra politica e amministrazione, valutazione del personale, ecc. (OECD, 1995) sono di- ventati in poco tempo sempre più ricorrenti nella retorica dell’innovazione amministrativa (Battistelli, 2002). Ispirati alla dottrina di politica economi- ca del neoliberismo, questi principi volevano essere una risposta anche alle sfide poste allo Stato-nazione dalla deregolazione degli scambi internazio- nali, commerciali e finanziari, all’affermazione di problemi di policy di na- tura sempre più transnazionale e al conseguente trasferimento di poteri e funzioni sia ad organi sovranazionali che ad agenzie di governo locale (d’Albergo, 2002). L’intento di questo policy change 3 era quello di introdurre, nella logica di azione pubblica, nuovi criteri per ottenere un recupero di legittimità non 1 Per ‘rendimento amministratvo’ intendiamo «il modo di essere e di operare di una or- ganizzazione in rapporto all’utile che si può ottenere da essa» (Borgonovi, 1996), da distin- guersi dal rendimento istituzionale definito, invece, da B. Dente (1991) come la capacità di un’istituzione di rispondere alle sfide poste dall’ambiente al proprio funzionamento, ovvero di fornire soluzioni a bisogni, domande od opportunità insoddisfatte. 2 Il termine fu coniato come definizione comune di esperienze simili, ma realizzate in contesti nazionali diversi, quali la Francia con il “Project de Service”, la Gran Bretagna con il “Next Step”, il Canada con “Public Service 2000” (Hood, 1991; 1995) 3 Il tema del cambiamento delle e nelle politiche è stato affrontato dai policy study par- tendo da diversi approcci di ricerca. Quelli che assumono una prospettiva temporale puntua- le (come l’approccio culturalista e quello neo-istituzionalista) definiscono il policy change come il cambiamento dell’esito del processo decisionale in un determinato momento storico, e si soffermano sulle variabili esogene, alternativamente, su quelle endogene per spiegare i mutati esiti del processo. Gli approcci che, invece, assumono una prospettiva diacronica en- fatizzano la naturale dinamicità delle politiche e si soffermano sulle modalità e sulle grada- zioni dei cambiamenti (a tal proposito, si veda la tripartizione proposta da Peter Hall, 1993).

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1. Le pubbliche amministrazioni nell’era di Inter-net 1. La complessità organizzativa delle amministrazioni pubbliche e la funzione di comunicazione

Per approfondire la rilevanza della funzione di comunicazione nell’amministrazione in rete è utile partire dalla ricostruzione dei processi di riforma degli assetti organizzativi delle amministrazioni pubbliche che hanno portato all’affermazione di nuovi modelli di gestione della cosa pub-blica, caratterizzati da una cultura organizzativa diversa da quella bu-rocratica, più orientata al servizio e ad una maggiore centralità del cittadi-no-utente nei processi di formulazione e implementazione delle politiche.

Gli apparati amministrativi delle moderne democrazie occidentali hanno conosciuto, sul finire del secolo scorso, un ampio processo di riforma che, pur avendo seguito modalità di attuazione diverse nei singoli contesti na-zionali, ha determinato ovunque, fra gli altri, un risultato comune: l’accresciuta articolazione della complessità organizzativa delle ammini-strazioni pubbliche.

L’obiettivo condiviso di queste iniziative di riforma, tanto nei modelli di tipo anglosassone quanto in quelli più vicini al modello burocratico-weberiano (Silberman, 1993; Pollitt e Bouckaert, 2000), era quello di pro-porre soluzioni organizzative in grado di fronteggiare la crisi fiscale dei bi-lanci pubblici alimentata dall’ipertrofia degli apparati amministrativi e dall’inefficienza dei sistemi di welfare.

Anche le amministrazioni degli anni Ottanta del Novecento erano carat-terizzate da complessità organizzativa ma questa, differentemente da quella che si riscontra nelle attuali configurazioni, si declinava in una frammenta-zione delle funzioni, in sovrapposizioni e rigidità che limitavano il rendi-

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mento degli apparati burocratici1. Ed è stata proprio la scarsa efficienza ed efficacia dell’azione amministrativa, insieme alla perdita di fiducia nelle istituzioni e alla conseguente «pressione democratica» da parte dei cittadini (Mény e Wright, 1994, p. 24), nonché la spinta di fattori esogeni ai sistemi amministrativi, quali il processo di europeizzazione delle politiche e la glo-balizzazione dei processi economici (Campbell, 2004; Knill, 2001; Sassen, 2008), a rendere non più rinviabile la questione del cambiamento ammini-strativo.

La soluzione sembrava risiedere nell’adozione dei principi organizzativi del settore privato. Attraverso l’elaborazione di un nuovo paradigma corri-spondente a un orientamento al mercato delle politiche pubbliche – il New Public Management, di derivazione anglosassone2 (Hood, 1991; Osborne e Gaebler, 1995) – si è cercato di trasferire in ambito pubblico strumenti e modelli gestionali aziendalistici. Termini e concetti quali controllo di ge-stione, management by objectives, responsabilità di budget, controllo dei livelli di spesa, cittadino-cliente, contracting out, separazione tra politica e amministrazione, valutazione del personale, ecc. (OECD, 1995) sono di-ventati in poco tempo sempre più ricorrenti nella retorica dell’innovazione amministrativa (Battistelli, 2002). Ispirati alla dottrina di politica economi-ca del neoliberismo, questi principi volevano essere una risposta anche alle sfide poste allo Stato-nazione dalla deregolazione degli scambi internazio-nali, commerciali e finanziari, all’affermazione di problemi di policy di na-tura sempre più transnazionale e al conseguente trasferimento di poteri e funzioni sia ad organi sovranazionali che ad agenzie di governo locale (d’Albergo, 2002).

L’intento di questo policy change3 era quello di introdurre, nella logica di azione pubblica, nuovi criteri per ottenere un recupero di legittimità non

1 Per ‘rendimento amministratvo’ intendiamo «il modo di essere e di operare di una or-ganizzazione in rapporto all’utile che si può ottenere da essa» (Borgonovi, 1996), da distin-guersi dal rendimento istituzionale definito, invece, da B. Dente (1991) come la capacità di un’istituzione di rispondere alle sfide poste dall’ambiente al proprio funzionamento, ovvero di fornire soluzioni a bisogni, domande od opportunità insoddisfatte.

2 Il termine fu coniato come definizione comune di esperienze simili, ma realizzate in contesti nazionali diversi, quali la Francia con il “Project de Service”, la Gran Bretagna con il “Next Step”, il Canada con “Public Service 2000” (Hood, 1991; 1995)

3 Il tema del cambiamento delle e nelle politiche è stato affrontato dai policy study par-tendo da diversi approcci di ricerca. Quelli che assumono una prospettiva temporale puntua-le (come l’approccio culturalista e quello neo-istituzionalista) definiscono il policy change come il cambiamento dell’esito del processo decisionale in un determinato momento storico, e si soffermano sulle variabili esogene, alternativamente, su quelle endogene per spiegare i mutati esiti del processo. Gli approcci che, invece, assumono una prospettiva diacronica en-fatizzano la naturale dinamicità delle politiche e si soffermano sulle modalità e sulle grada-zioni dei cambiamenti (a tal proposito, si veda la tripartizione proposta da Peter Hall, 1993).

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più basato su di una condizione dei cittadini strutturalmente subordinata al potere, ma sul riconoscimento di un più adeguato rendimento istituzionale (Lippi, 2003). Il suo parametro di riferimento non doveva essere più il mero adempimento della norma, ma piuttosto la messa in campo di azioni coe-renti e funzionali alla specifica decisione assunta in cui, in breve, i risultati sembravano essere maggiormente rilevanti rispetto delle regole di compor-tamento delle burocrazie. Cresce, in altri termini, l’esigenza di strutturare organizzazioni in grado di rendicontare il proprio operato sia in termini di qualità del servizio erogato sia in relazione alle risorse impiegate.

Insieme a questo paradigma manageriale, negli anni Novanta si è diffu-so anche un secondo paradigma alternativo al modello weberiano di ammi-nistrazione pubblica: quello dello Stato a rete, o anche definito della gover-nance, ricorrendo ad un termine tanto usato su scala internazionale e tanto incerto nei suoi confini semantici da apparire abusato presso la comunità scientifica. Il passaggio dal government alla governance ha sottolineato la perdita di rilevanza di un sistema amministrativo fortemente accentrato e gerarchico ed ha contribuito all’affermazione di una nuova articolazione delle funzioni pubbliche, che risultano distribuite non solo tra diversi livelli istituzionali, secondo una logica di azione multilevel, ma anche tra diversi attori, alcuni dei quali non pubblici (governance orizzontale). Già R. Rho-des nel 1996 aveva utilizzato questo termine per indicare una situazione or-ganizzativa e operativa maggiormente complessa, in cui come preciserà R. Mayntz qualche anno dopo (1999, p. 3) si rileva «un maggiore grado di cooperazione e l’interazione tra lo Stato e attori non statuali all’interno di reti decisionali miste pubblico/privato».

Il paradigma dell’amministrazione a rete è in grado di descrivere ed in-terpretare le nuove modalità di regolazione delle politiche più di quanto non sia possibile fare attraverso il paradigma del New Public Management, ca-ratterizzato da scopi più normativi che conoscitivi, univocamente orientato ad una logica di mercato e fortemente concentrato sulle dinamiche di fun-zionamento interne alle amministrazioni. Con il passaggio dalle politiche condizionali alle politiche di scopo (Hall, 1993), infatti, diventa fondamen-tale per le amministrazioni pubbliche non solo adottare criteri organizzativi e di azione orientati ad una logica di efficienza, ma anche cogliere l’opportunità di sperimentare modelli di regolazione che, pur agendo su una direttrice bottom-up come il modello di regolazione orientato al mercato, adottino come risorsa di integrazione della rete la fiducia anziché gli inte-ressi dei singoli attori coinvolti (Rhodes, 1997; d’Albergo, 2002).

In questo modo possono rilevare i diversi step del cambiamento, che invece sarebbero tra-scurati se l’oggetto dell’analisi fosse unicamente rappresentato da casi di cambiamento radi-cale (Capano e Giuliani, 1996).

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In uno scenario così complesso, pertanto, risulta maggiormente funzio-nale un sistema di coordinamento delle relazioni fra gli attori dei sistemi di governance basato sulla partnership, sia essa negoziale o cooperativa, anzi-ché su interazioni competitive, ed in cui le risorse scambiate tra gli attori (pubblici e privati) sono orientate più all’integrazione degli obiettivi, anche sul piano valoriale e simbolico, che non all’aggregazione di interessi privati (Gualmini, 2003). Riprendendo la distinzione operata da March e Olsen (1992), l’orientamento è quindi ad una governance integrativa piuttosto che ad una governance aggregativa, in cui prevale la condivisione dei significati dell’azione invece che la contrattualizzazione delle relazioni tra gli attori della rete basata sulla coincidenza fra i reciproci interessi.

Tuttavia, già alla fine del primo decennio di riforma a politologi e stu-diosi di organizzazioni era chiaro come il paradigma manageriale non aves-se totalmente soppiantato quello burocratico. Mentre gli attori istituzionali dell’innovazione, infatti, promuovevano convegni e pubblicazioni nelle quali erano ricorrenti le espressioni tipiche di una logica di riforma permea-ta dalla cultura dell’amministrazione manageriale, ossia al servizio del cit-tadino-utente e performance oriented (Bassanini, 2000), G. Capano (2002) ad esempio rilevava come il paradigma egemonico pur non essendo stato immune da critiche e spinte al cambiamento, tuttavia non solo «è riuscito […] a persistere ma anche a mantenere la propria forza» (p. 54). Secondo l’autore, infatti, non si può affermare che ci sia stato un cambio di paradig-ma, e quindi, una rivoluzione culturale, semplicemente osservando la diffu-sione di un nuovo linguaggio4: occorre innanzitutto valutare dove si collo-cano i nuovi concetti rispetto all’universo valoriale del paradigma egemone e, poi, osservare quanto i nuovi concetti informino concretamente le dina-miche di azione delle organizzazioni pubbliche. Per Capano, inoltre, si può parlare di avvicendamento tra paradigmi di azione quando cambia anche la configurazione della policy community di riferimento.

Nel caso specifico della riforma amministrativa italiana degli anni No-vanta è facile osservare come si sia configurato uno scenario di direttrici di intervento sulla PA (separazione tra amministrazione e politica, semplifica-zione, decentramento amministrativo, flessibilità nella gestione del perso-nale) che non erano totalmente estranee al paradigma burocratico, e che quindi sono state più facilmente introiettate dalla policy community della riforma amministrativa. Composta prevalentemente da giuristi, questa non è stata destabilizzata dai nuovi valori manageriali, ma al contrario ha saputo

4 Riprendendo la già citata distinzione di Peter Hall (1993), potremmo dire di essere in presenza di un policy change di secondo ordine, in cui attraverso un processo di apprendi-mento è stata modificata la composizione degli strumenti di policy a disposizione, senza tut-tavia modificare gli obiettivi di fondo della politica pubblica.

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proporne una rilettura in chiave giuridica tale da non mettere in discussione la centralità di un principio di azione secondo conformità: semplicemente si è passati «dalla conformità alla legge […] alla conformità ai criteri operati-vi offerti dallo strumentario economico-aziendale» (Capano, 2002 p. 61). Principi quali la qualità, l’efficacia e la performance sono stati reinterpretati in termini di estrema proceduralizzazione delle azioni, soffocando in questo modo lo spirito innovativo e creativo del contenuto del processo in nome di un rinnovato e sostanziale rispetto della “forma”. Si è determinato, così, un «adattamento reattivo» (Capano, 2002), accompagnato da ambiguità e ma-lintesi (d’Albergo e Vaselli, 1997) alimentati in parte dall’aperta opposi-zione dei sindacati dei dipendenti pubblici, in parte dalla strategia dei qua-dri dirigenziali decisi ad innovare la propria retorica senza tuttavia modifi-care le pratiche d’azione.

La rilevanza della dimensione culturale, e quindi di una dinamica endo-gena al sistema amministrativo, che può determinare l’esito del processo di riforma tanto quanto altre dimensioni maggiormente presenti negli studi comparativi sui processi di innovazione degli anni Novanta (quali la pre-senza o meno del diritto amministrativo, oppure le variabili di politics), è stata sottolineata anche da E. Gualmini (2003). Passando in rassegna le ini-ziative di riforma amministrativa avviate negli Stati Uniti e in Europa (in Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia e Spagna) alla fine del secolo scorso, Gualmini rileva che, in linea generale, i risultati più significativi di implementazione del paradigma manageriale si ritrovano in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, dove in particolare «il policy change si è configurato come un processo di perfezionamento e di miglioramento dell’efficacia del-la prestazione pubblica» (ibidem, p. 176). I sistemi amministrativi dei Paesi dell’Europa continentale5, invece, presentano ancora caratteristiche orga-nizzative e funzionali tipiche del modello burocratico, anche se ibridate dai principi sia del New Public Management che della teoria della governance. E questo esito è riconducibile non solo al fatto di essere ‘sistemi a diritto amministrativo’, quindi con una disciplina specifica rispetto al diritto co-mune, ma soprattutto al fatto di presentare una cultura organizzativa6 strut-

5 Caso a se stante è costituito dalla Germania, il cui sistema amministrativo ha recepito in maniera minore le istanze della riforma manageriale e prevalentemente nei livelli ammi-nistrativi locali.

6 Secondo Edgar Schein (in Bonazzi, 2003), il maggior esponente dell’approccio cultu-ralista alla sociologia dell’organizzazione, la cultura organizzativa è l’insieme coerente di assunti fondamentali che un certo gruppo ha inventato, scoperto o sviluppato mentre impa-rava ad affrontare i problemi legati al suo adattamento esterno o alla sua integrazione inter-na, e che hanno funzionato in modo tale da essere considerati validi e quindi degni di essere insegnati ai nuovi membri come il modo corretto di percepire, pensare e sentire in relazione a tali problemi. Secondo questo approccio, l’analisi dell’organizzazione pertanto consiste

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turata e fortemente connotata dai valori giuridico-legali, che ha permesso a questi sistemi di sopravvivere anche alle turbolenze derivanti da spinte in-novatrici, a volte contrastanti per il fatto di essere promosse da maggioran-ze di governo instabili e in continuo avvicendamento.

Anche spostando l’attenzione dalla retorica degli attori istituzionali all’implementazione delle decisione assunte, e quindi dai programmi di ri-forma alle azioni effettivamente messe in campo, la situazione non appare molto diversa. Sempre in una prospettiva comparativa, l’analisi di Gualmi-ni (2003) evidenzia come in Italia ad una notevole numerosità di interventi normativi per la modernizzazione della PA abbia fatto seguito un esiguo numero di interventi operativi, contrariamente a quanto è accaduto per esempio in Francia.

A questo proposito A. Natalini (2006) adottando un approccio neo-istituzionalista7 (March e Olsen, 1992) ha osservato in una prospettiva dia-cronica i singoli interventi di cambiamento in cui si è articolato il processo di riforma, cercando di verificare in che modo gli assetti istituzionali pre-esistenti abbiano potuto condizionare le direttrici del cambiamento (path dependency). La scelta di questo approccio e, quindi, aver ipotizzato la consistenza di vincoli istituzionali, non porta necessariamente a concludere che essi limitano in modo rigido la possibilità di muovere verso un cam-biamento. Al contrario questo approccio contribuisce a definire le diverse modalità attraverso le quali è possibile realizzarlo e, di conseguenza, i punti di equilibrio che si possono raggiungere.

Tra i diversi ambiti del settore pubblico interessati dal processo di ri-forma ed approfonditi nel volume di Natalini, quello che maggiormente ri-sulta rilevante ai fini della presente riflessione è relativo al rapporto tra amministrazione e cittadini. Ispirate tanto dai principi manageriali quanto da quelli propri di un modello organizzativo reticolare, le iniziative di ri-forma adottate in Italia per migliorare il rapporto tra PA e soggetti ammini-strati hanno individuato cinque obiettivi fondamentali e conseguenti azioni di intervento: - l’istituzione di strutture o uffici dedicate unicamente al miglioramento

del rapporto PA – cittadino; - la garanzia del diritto di accesso ai documenti amministrativi;

essenzialmente nello studiarne la cultura perché questa consente di spiegarne la struttura, le scelte strategiche, il ruolo svolto dai diversi componenti ed infine, permette anche di appro-fondire lo studio della leadership organizzativa perché è la leadership che in larga parte de-termina la cultura organizzativa.

7 Per un’ampia disamina del paradigma neo-istituzionalista si possono vedere, tra gli al-tri, Campbell (2004), Lanzalaco (1995), Sola (2005).

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- l’impegno ad individuare forme di tutela per i cittadini utenti dei servizi pubblici;

- la diffusione di forme di consultazione e ascolto dei destinatari delle po-licies e degli interventi di riforma;

- la promozione di una dinamica paritaria nell’interazione tra amministra-zione e cittadino, anche attraverso l’ideazione di modalità più attive di partecipazione dei cittadini alle fasi di formulazione e assunzione di de-cisioni in risposta ad un determinato problema di policy (concertazione). Nessuno di questi obiettivi è stato raggiunto compiutamente, sottolinea

Natalini, soprattutto a causa delle specificità del contesto di intervento, che ne ha fortemente condizionato le modalità di attuazione e gli esiti. Il rap-porto tra cittadini e amministrazione pertanto non ha registrato sostanziali miglioramenti, mentre sono rimasti in vita i rapporti privilegiati tra le isti-tuzioni e determinati gruppi di interesse (associazioni di categoria e rappre-sentati di interessi collettivi). Addirittura questi hanno avuto l’opportunità di utilizzare forme più legittimate di interazione, grazie al processo di rapi-da diffusione degli strumenti di partecipazione e consultazione, che hanno finito per coinvolgere prevalentemente i rappresentanti della società civile già costituiti in gruppi di pressione.

Spostare l’osservazione dai programmi di riforma alle azioni messe in campo e ai loro effetti permette di valutare anche la forza e la congruità de-gli strumenti di implementazione adottati. Ancora Natalini sottolinea come la debole portata innovativa di queste riforme sia ascrivibile non tanto alle generali strategie di cambiamento perseguite, quanto piuttosto alla scarsa efficacia degli obiettivi operativi individuati, degli strumenti normativi at-tribuiti8 o ancora alle dinamiche temporali dell’azione9. Tanto Gualmini (2003) quanto Natalini (2006), ad esempio, riconoscono che il disegno di riforma del sistema amministrativo italiano è stato caratterizzato da obietti-vi generali ambiziosi e di cambiamento radicale, che avrebbero dovuto mo-dificare l’impianto complessivo della macchina amministrativa. Invece, la

8 Lo strumento della concertazione, ad esempio, è stato pensato come una modalità di

relazione tra PA e cittadini di natura discrezionale: solo in casi eccezionali è stato introdotto attraverso una normazione formale (Natalini 2006)

9 Tempi di attuazione piuttosto dilatati sono stati fissati, ad esempio, per l’innovazione tecnologica dell’apparato amministrativo del nostro Paese, nonostante la situazione di par-tenza piuttosto arretrata rispetto ad altri partners europei intendesse necessario un avvio dei processi di riforma più incisivo.

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fase implementativa si è articolata in scelte meno coraggiose10, a volte con-traddittorie11, che hanno contribuito al permanere del modello burocratico.

Il percorso evolutivo di riforma che non ha proceduto con andamento li-neare (Natalini, 2006), né nel disegno complessivo né nell’applicazione in specifici settori di intervento, l’oggettiva difficoltà di traduzione dei princi-pi manageriali dall’ambito organizzativo privato a quello pubblico (Ghe-rardi, 1998; Gherardi e Nicolini, 1999), ed infine l’inerzia derivante dalle caratteristiche istituzionali consolidate nel tempo (legacies), non solo hanno ridimensionato la portata innovativa del cambio di paradigma, ma hanno contribuito anche alla determinazione dello scenario composito, differen-ziato e complesso dell’attuale assetto amministrativo in Italia.

Nel paradigma post-burocratico emergente della New Public Governan-ce (Girotti, 2007) i processi decisionali che sottostanno alla formulazione e all’implementazione delle politiche pubbliche sono alimentati tanto da meccanismi di mediazione e negoziazione tra gli interessi in gioco, quanto da relazioni di scambio e cooperazione tipiche delle reti. Resta in ogni caso centrale la questione del management, ma non nell’accezione intraorganiz-zativa del modello burocratico e anche di quello manageriale: quanto piut-tosto in relazione alla necessità di coordinare attori con obiettivi e risorse differenti che interagiscono all’interno di reti interorganizzative (Kickert et al. 1997). In altre parole è cruciale per l’apparato pubblico sviluppare stra-tegie di network management (Klijn and Koppenjan, 2000), finalizzate a costruire obiettivi comuni e condivisi e a creare consenso intorno a deter-minate scelte, attraverso l’ascolto, la partecipazione e la consultazione di tutti gli attori della rete, anche quelli non pubblici12.

Con passaggio dal government alla governance si afferma la necessità per le amministrazioni di presidiare le funzioni di management non solo al loro interno, ma anche in tutte le aree dell’azione e dell’organizzazione pubblica nelle quali si sviluppano le varie forme della governance: dai pro-cessi di definizione delle politiche, alle modalità di erogazione dei servizi,

10 L’adozione delle carte dei servizi ad esempio ha visto rapidamente ridursi la forza

propulsiva iniziale della seconda metà degli anni Novanta. 11 Basti pensare allo scarso coordinamento tra due iniziative di riforma istituzionale fon-

damentali, quali la riorganizzazione dei ministeri e il decentramento amministrativo, che avrebbero potuto trarre reciproci vantaggi da un’implementazione pianificata in sinergia e che invece ha portato ad ampie aree di overlapping delle funzioni tra centro e periferia (Na-talini, 2006).

12 L’affermazione del Network Management, ad ogni modo, non si configura come un’alternativa ai due paradigmi – burocratico e manageriale – al contrario è da intendersi come un punto di equilibrio tra i due modelli, una condizione di incontro e di ibridazione reciproca le cui caratteristiche variano tuttavia nei diversi contesti nazionali a seconda delle specificità locali (Fedele, 2002).

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per arrivare perfino alla regolazione degli strumenti per la democrazia. So-no tutte aree accomunate dalla presenza di una specifica dimensione: quella comunicativa. L’affermazione di una struttura amministrativa a rete, che si apre anche ad attori non pubblici (del privato e del Terzo Settore) nei pro-cessi di elaborazione, implementazione e valutazione delle politiche, non può infatti prescindere da una maggiore consapevolezza della rilevanza del-la risorsa comunicativa non solo all’interno della stessa organizzazione pubblica, ma anche tra questa e l’ambiente di riferimento, intendendo con esso sia gli altri soggetti non pubblici impegnati nell’erogazione dei servizi, sia i destinatari (policy takers) delle singole politiche.

In Italia l’importanza della funzione di comunicazione negli apparati pub-blici è stata disciplinata in alcuni interventi di riforma già all’inizio degli anni Novanta e non può perciò essere considerata un risultato recente, deri-vazione delle dinamiche più innovative di governo delle reti. Secondo P. Mancini (2003), in particolare, le radici dell’affermazione del campo della comunicazione pubblica13 sono riconducibili a tre specifici fenomeni che si sono sviluppati nei sistemi sociali occidentali già nel XX secolo. Innanzi-tutto l’ampliamento dei compiti dello Stato con la conseguente affermazio-ne del welfare state e la complessificazione del sistema sociale, che comin-cia a comporsi sempre più di sottosistemi con funzioni specifiche (Luh-mann, 1979) e governati da attori non solo pubblici, ma anche del privato o del privato-sociale. Nello svolgimento di queste nuove funzioni, infatti, lo Stato manifesta significativi livelli di inefficienza e di scarsa efficacia, tanto da essere costretto, con soluzioni organizzative differenti nei diversi conte-sti nazionali, a demandare parte di queste funzioni ad attori privati (realiz-zando forme progressive di privatizzazione dei servizi14) o a soggetti del privato-sociale che cooperano con le istituzioni, prevalentemente a livello locale e nel settore dei servizi sociali, dando forma ad soluzioni diffuse di welfare mix (Ascoli e Ranci, 2003).

La specializzazione delle funzioni da un lato e la diffusione dell’associazionismo civile dall’altro concorrono quindi alla necessità di sviluppare più intensi flussi informativi tra i diversi sottosistemi e tra questi

13 Per un definizione specifica del concetto di ‘comunicazione pubblica’, si rimanda al successivo paragrafo 2.

14 Per un approfondimento, si vedano i recenti contributi di: - Giannelli N. (2010), “Né stato né mercato. La depubblicizzazione dei servizi locali in

Italia”, Rivista Italiana di Politiche Pubbliche, 2: 115-143. - Pedersini R. (2009), “La riforma dei servizi pubblici: oltre le istituzioni”, Stato e Merca-

to, 85, aprile: 95-128. - Pozzoli S. (2010), “La riforma dei servizi pubblici locali. I nodi da risolvere”, Legauto-

nomie, ‘Nuova disciplina dei servizi pubblici locali. Dossier’.

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e i cittadini. Le riforme assumono l’obiettivo di rendere maggiormente in-telligibili le diverse funzioni svolte dalla rete di soggetti coinvolti nei pro-cessi di policy e le conseguenti nuove opportunità disponibili per gli utenti (Grandi, 2009).

Da qui il secondo fenomeno determinante per l’affermazione della fun-zione di comunicazione presso le istituzioni pubbliche: l’aumento di consa-pevolezza da parte dei cittadini dei propri diritti. Il completamento del rico-noscimento di tali diritti (Marshall, 1976), che si attua proprio con lo svi-luppo dello stato sociale, infatti, determina nei cittadini un’accresciuta con-sapevolezza del ruolo e delle funzioni richieste alle amministrazioni e, di conseguenza, un’aumentata esigenza di informazioni. Se in passato essi identificavano l’amministrazione con gli attori politici che la governavano, oggi invece sempre più i cittadini sanno distinguere le specificità funzionali delle singole amministrazioni e rivolgono a queste una domanda di infor-mazione/comunicazione più matura e consapevole (Mancini, 2003).

La disponibilità di informazioni diventa una condizione fondamentale per i cittadini che vogliano partecipare in maniera attiva ai processi deci-sionali pubblici e per questo nell’ultimo ventennio si è notevolmente arric-chito il dibattito intorno alla definizione del diritto di informazione e alla sua articolazione in tre dimensioni: il diritto ad informare, garantito dall’art. 21 della Costituzione; il diritto di informarsi, che rimanda all’obbligo per le istituzioni di garantire l’accesso dei cittadini, in forma singola o associata e degli operatori economici all’informazione ammini-strativa; ed infine il diritto ad essere informato, fondamentale perché si possano esercitare efficacemente i più ampi diritti di cittadinanza e la parte-cipazione alla vita democratica (Grandi, 2009). Oltre a questo, secondo Grandi altri diritti rafforzano la piena titolarità della cittadinanza di un indi-viduo e ristrutturano i rapporti tra apparati amministrativi e comunità di ri-ferimento: innanzitutto il diritto a costituire quelle reti di associazionismo civico che, valorizzando la risorsa di capitale sociale di cui sono portatrici (Putnam, 1993), non solo riescono ad integrare ed arricchire il dibattito pubblico e l’agenda politica di temi e questioni nuove (i cosiddetti ‘nuovi diritti’), ma addirittura possono porsi come interlocutori attenti di un’amministrazione in cerca di nuove soluzioni per nuove domande sociali. Altrettanto rilevanti sono poi i diritti connessi alla cosiddetta ‘cittadinanza digitale’ (Rodotà, 1997) e quindi alla possibilità per i cittadini non solo di avere disponibili quanti più servizi ed informazioni attraverso le infrastrut-ture tecnologiche (flusso unidirezionale), ma soprattutto di partecipare ai processi di discussione pubblica in modo attivo, attraverso l’impiego delle nuove tecnologie della comunicazione (Ict).

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Per l’affermazione della funzione di comunicazione pubblica, infine, si è rivelata cruciale una terza radice (Mancini, 2003): la nuova strutturazione dell’arena della discussione pubblica. In una società sempre più differenzia-ta e articolata in cui è crescente la domanda di informazione, si sono affer-mate specifiche agenzie comunicative – i mezzi di comunicazione di massa – che a volte hanno anche sostituito le istituzioni già esistenti nell’attività di produzione e di diffusione di informazioni di interesse generale. Attraverso un processo di progressiva indipendenza economica grazie all’aumento de-gli investimenti pubblicitari, i media hanno guadagnato rilevanti spazi di autonomia rispetto alle organizzazioni politiche di cui erano espressione all’inizio del secolo scorso, ed ora si configurano come un sotto-sistema sociale al pari degli altri che compongono le moderne democrazie.

La loro rilevanza all’interno della società è tale che D. McQuail (1993) afferma che possono essere considerati una vera e propria istituzione socia-le, perché entrano in relazione con le altre istituzioni che agiscono nella sfe-ra pubblica, perché anch’essi trattano di argomenti di interesse generale e perché sono sottoposti ad una sorta di responsabilità esterna del loro opera-to, rappresentata dall’insieme dei provvedimenti di regolazione pubblica dei sistemi di comunicazione (Rolando, 2009) nonché dal giudizio dell’opinione pubblica. Al pari degli altri sotto-sistemi, anche i media ela-borano un proprio universo simbolico di riferimento – la cosiddetta media logic15 – attraverso il quale contribuiscono a definire le issues di rilevanza pubblica dibattute nell’arena politica, innescando una dinamica competitiva con le altre agenzie sociali al fine di imporre la propria tematizzazione della questione. Infine, in questo passaggio da ‘canali a comunicatori’ (Mancini, 2003) influenzano sempre più le regole per la costruzione del discorso pub-blico: anche gli altri attori della sfera pubblica (istituzioni, politici, rappre-sentanti di interessi, cittadini), se vogliono comunicare con efficacia, devo-no far propri i tempi, i linguaggi e i criteri di costruzione dell’agenda tipici della media logic16.

I tre aspetti di cambiamento sociale prima descritti non hanno solo evi-

denziato la necessità di un ripensamento della funzione comunicativa degli apparati pubblici ma hanno anche segnato il superamento del tradizionale rapporto di asimmetria comunicazionale tra istituzioni e società civile che aveva caratterizzato la società moderna. Se questa infatti era rappresentata dall’istituzione tipica dello Stato-nazione, in grado di sviluppare funzioni di regolazione sia nei processi produttivi sia in quelli di riproduzione sociale

15 Per un approfondimento, si veda Altheide e Snow, 1979. 16 Questa conseguenza è particolarmente accentuata nel campo della comunicazione po-

litica, tanto che G. Mazzoleni (2004: 22) parla di «mediatizzazione della politica».

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(welfare state), e da una chiara distinzione tra sfera pubblica e sfera privata (da cui derivava il concetto di cittadinanza moderna), non altrettanto netta e lineare è l’articolazione dell’organizzazione sociale nella post-modernità (Bogason, 2000; Ducci, 2007). Da un lato, infatti, la differenziazione socia-le ha determinato l’affermarsi di altri attori, privati e semi-privati, che af-fiancano lo Stato nell’adempimento di quelle funzioni di welfare che questo non è in grado di svolgere in maniera soddisfacente per i cittadini. Dall’altro, l’intensificarsi dei flussi informativi e il crescente ruolo dei me-dia ha spinto i diversi attori della nuova agorà a sviluppare codici linguistici e strategie comunicative innovative rispetto a quelle adottate in contesti comunicativi tra amministrazioni e cittadini prevalentemente di tipo ‘diret-to’ (Thompson, 1998): la nuova sfera pubblica è caratterizzata infatti da una decisa centralità dei mezzi di comunicazione di massa come nodi stra-tegici dei flussi comunicativi ed è definita, appunto, “mediata”.

Il passaggio alla post-modernità ha comportato pertanto non solo un progressivo indebolimento dello Stato-nazione, ma anche l’evidenziarsi di significativi problemi di legittimazione delle istituzioni nei confronti dei cittadini e, di conseguenza, l’affermarsi di una nuova definizione del con-cetto di cittadinanza che non ha più come elemento fondante l’appartenenza allo Stato-nazione, ma viene riformulato sulla base di una nuova relaziona-lità consapevole (Ducci, 2007). La cittadinanza infatti non è più individuata come una condizione sancita da diritti calati dall’alto e concessi dallo Stato, ma è espressione di un insieme di diritti-doveri che circoscrivono le rela-zioni di appartenenza dei singoli, in un contesto comunitario in cui lo Stato non deve ricoprire necessariamente un ruolo di gestore monopolistico o re-siduale delle politiche sociali, ma al contrario deve garantire e coordinare le diverse iniziative, intraprese anche da soggetti privati, nei settori di inter-vento sociale (Donati in Ducci, 2007).

Se si accentua la consapevolezza della dimensione relazionale della cit-tadinanza, si modificano anche le modalità di interazione tra amministra-zioni pubbliche e cittadini e i relativi modelli comunicativi. Si possono in-dividuare alcune fasi storiche che descrivono l’evoluzione di tali modelli, ciascuna caratterizzata dall’adozione di uno specifico paradigma comunica-tivo (Mancini, 2003) e da una diversa rappresentazione dello status di “cit-tadino” (Sepe, 2001).

In una prima fase, lo Stato veniva percepito come ‘separato’ dai cittadi-ni, in grado di esercitare un potere di imperium, e di comunicare con i suoi ‘sudditi’ esclusivamente attraverso ordini ed obblighi, alimentando un flus-so comunicativo unidirezionale a forte connotazione ‘legale’ (ibidem, p. 57). Nella prima metà del secolo scorso, fino agli anni Cinquanta, il ruolo dello Stato ha subito delle modifiche: hanno cominciato a svilupparsi poli-

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tiche pubbliche per dare risposta ad una crescente domanda di servizi pub-blici, ma non si sono registrati analoghi progressi nell’attività di comunica-zione di interesse generale. Le amministrazioni erano fortemente identifica-te con l’autorità politica che le gestiva e non si era ancora determinato un alto grado di differenziazione del sistema sociale. Il modello comunicativo adottato era quello che S. Rolando (1995) definisce «storico» o «della co-municazione pubblica in funzione propagandistica», poiché non c’era alcun interesse a sviluppare una comunicazione specifica delle istituzioni, ma la veicolazione delle informazioni era lasciata ai partiti e ai singoli uomini po-litici17. Ciò era possibile anche grazie alla specifica natura dell’opinione pubblica: nell’immediato dopoguerra i cittadini, considerati singolarmente, non raggiungevano ancora una consapevolezza dei propri diritti nel rappor-to con l’amministrazione simile a quella che può essere rilevata attualmen-te, mentre i media, da parte loro, non rivestivano ancora il ruolo centrale di comunicatori che avrebbero assunto nei decenni successivi. Le amministra-zioni, di conseguenza, non dovevano porsi il problema del singolo cittadino come interlocutore, ma potevano decidere di entrare in relazione comunica-tiva solo con i gruppi sociali che, nel frattempo, avevano iniziato ad autor-ganizzarsi per esprimere le proprie istanze di riforma e redistribuzione at-traverso i servizi pubblici.

Bisognerà aspettare gli anni Settanta per rilevare i primi segnali di cam-biamento: i media diventano sempre più protagonisti dell’arena pubblica, realizzando forme autonome di comunicazione che hanno ad oggetto l’operato delle amministrazioni pubbliche, mentre i cittadini si costituisco-no sempre più come pubblico attento all’operato della PA proprio perché maggiormente consapevoli dei propri diritti. Nonostante queste premesse di contesto, il modello comunicativo che si è afferma non è ancora bidirezio-nale, al contrario viene definito “modello informativo a senso unico”18 per-ché le istituzioni pur avvertendo la necessità di rispondere ai bisogni dei cittadini, anche nell’intento di specificare meglio la propria identità ammi-nistrativa, tuttavia ancora non riescono a percepire il cittadino come sogget-to attivo del processo comunicativo.

È solo con gli anni Novanta, ad ogni modo, che si afferma il “modello comunicativo della bidirezionalità” (Mancini, 2003), nel quale viene rivalu-tata la dimensione attiva del cittadino e viene riconosciuta di conseguenza la necessità per le istituzioni di sviluppare strategie di comunicazione che siano caratterizzate dalla circolarità. Grazie anche alla diffusione dei prin-

17 Nel periodo fascista, in particolare, la comunicazione delle istituzioni viene definita come «distorta e negata» (Sepe, 2001 p. 57).

18 Si ispira alla teoria matematica della comunicazione di C. E. Shannon e W. Weaver (in Wolf, 2001)

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cipi del New Public Management, si fanno sempre più comuni tra le ammi-nistrazioni le pratiche dell’ascolto dei bisogni dei cittadini e della rilevazio-ne della customer satisfaction al fine di pianificare attività, decisioni e ser-vizi realmente efficaci. Questo modello comunicativo tuttavia non può es-sere ancora considerato soddisfacente per descrivere la natura del rapporto tra amministrazioni e cittadini auspicato dagli interventi legislativi che, a partire dagli anni Novanta, hanno cercato di normare l’attività comunicati-va delle istituzioni pubbliche19. La natura prettamente trasmissiva di tale modello, infatti, sottolinea ancora una condizione di asimmetria tra i due terminali del flusso comunicativo. Affermatasi all’interno di un più ampio processo di riforma amministrativo che era guidato dai principi dalla supe-riorità dei valori del mercato (anche in ambito pubblico), la relazione co-municativa tra amministrazioni e cittadini in questo modello è viziata dal fatto che generalmente viene attivata per raggiungere gli obiettivi (pretta-mente economicistici) di efficacia ed efficienza dell’azione pubblica, senza mettere in campo azioni specifiche per valorizzare la dimensione valoriale e le finalità sociali del processo stesso.

Per descrivere in maniera più efficace le modalità comunicative che si instaurano tra PA e cittadini è necessario quindi introdurre il paradigma in-terattivo della comunicazione (Boccia Artieri, 1998), secondo il quale i due soggetti o sottosistemi che comunicano non si limitano a trasferire mecca-nicamente un’informazione, ma mettono in relazione e confrontano i rispet-tivi domini cognitivi, dando luogo ad un “dominio consensuale” che si esprime in un comportamento, o una “attualizzazione comune di senso” (Habermas, 1988; Luhmann, 1979). Secondo questo modello, pertanto le istituzioni possono riorientare il proprio universo cognitivo e la propria azione a partire dall’interpretazione delle esigenze dei loro destinatari, svi-luppando così una capacità basata sulla consapevolezza della centralità e della necessità di tale relazionalità.

Questo modello comunicativo supporta bene anche la formula organiz-zativa, proposta da G. Arena (2001), per descrivere il modello a cui do-vrebbe tendere una PA efficiente: l’amministrazione condivisa. L’obiettivo è quello di superare il pregiudizio culturale della separazione tra ammini-strazione e amministrati e rifondare, invece, la relazione tra questi due atto-ri sulla base della fiducia e del reciproco rispetto del proprio ruolo. Arena suggerisce alle amministrazioni di riscoprire la ricchezza di un coinvolgi-mento dei cittadini nel processo di definizione del problema di rilevanza generale e di individuazione delle soluzioni, perché i cittadini sono soggetti

19 Per la disciplina normativa dell’attività di comunicazione delle amministrazioni pub-

bliche si veda il successivo paragrafo 2.

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portatori di competenze e professionalità spesso non possedute dalla stessa PA. Allo stesso tempo, tuttavia, lo studioso sottolinea la necessità di consi-derare, all’interno di questa “amministrazione condivisa” anche un ruolo più attivo del personale, dei dipendenti pubblici. Anche questi soggetti, ri-leva Arena, sono portatori di un patrimonio informativo che deriva loro dal-la lunga esperienza di servizio e che risulta indispensabile per i vertici am-ministrativi, più temporanei nella loro permanenza all’interno di una speci-fica istituzione. Adottare il modello dell’amministrazione condivisa signifi-ca pertanto potenziare i flussi comunicativi verso l’esterno sviluppando non solo la cosiddetta ‘comunicazione di servizio’ (ibidem, p. 52), centrata sull’organizzazione dell’amministrazione, sulle modalità di erogazione del-le prestazioni, sulla normativa di riferimento, ma promuovendo anche quel-la che Arena (ibidem) definisce ‘comunicazione di cittadinanza’, che si ri-volge ai cittadini come membri di una comunità, piuttosto che come singo-li, con il diritto a partecipare alla gestione della cosa pubblica. È altrettanto importante, inoltre, rivalutare l’importanza della comunicazione interna, ossia diretta verso quelli che dall’approccio della Total Quality Manage-ment vengono definiti come ‘clienti interni’ (Battistelli, 1998), il cui benes-sere organizzativo, la cui adesione ai valori guida dell’amministrazione so-no fondamentali perché un’amministrazione – nella retorica prevalente – possa scongiurare resistenze interne al cambiamento e raggiungere quindi soddisfacenti livelli di efficacia ed efficienza. 2. Quale comunicazione per le amministrazioni pubbliche?

La ricostruzione del processo di riforma dell’ultimo ventennio fornisce valide ragioni per affermare che attualmente lo scambio informativo tra istituzioni e ambiente di riferimento dovrebbe essere bidirezionale, o me-glio circolare. Il termine stesso ‘comunicazione’ (composto di cum e di un derivato di munus “incarico, compito”, per cui commune vuol dire letteral-mente “che svolge il suo compito insieme con altri”) suggerisce che l’attività specifica è una relazione di scambio, di “messa in comune” di si-gnificati tra due o più soggetti del processo (Franceschetti, 2009).

Di fronte alla molteplicità di definizioni fornite dalla letteratura italiana di settore (Arena, 1995; Faccioli, 2000; Mancini, 2003; Rolando, 1995; Rovinetti, 2006; Vignudelli, 1992), tuttavia, occorre individuare in maniera attenta l’aggettivo che si accompagna al termine comunicazione anche per-ché, come afferma Binotto (2010), le definizioni non hanno solo un fine eu-ristico, ma anche normativo, in quanto delineano un campo di interesse for-

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nendo anche strumenti d’azione, metodologie: costruiscono «un sapere di-rettamente finalizzato al suo uso, ad un saper fare» (ibidem, p. 16).

Una prima fondamentale distinzione è quella che oppone la comunica-zione pubblica alla comunicazione commerciale, ossia quella proveniente da soggetti privati prevalentemente orientati a logiche di profitto. Se l’attenzione viene posta sui fini dell’attività comunicativa, ecco che l’aggettivo “pubblica” permette di includere tutte quelle attività di comuni-cazione che provengono da soggetti che hanno come obiettivo fondamenta-le la tutela dell’interesse generale e «l’essere “pubblico” della comunica-zione è un dato oggettivo, non soggettivo» (Arena 1995, p. 13). Per quanto nell’ultimo ventennio si sia parlato molto, come si è visto, della possibilità di applicare al settore pubblico i modelli gestionali aziendali, G. Fiorentini (1990) tuttavia sottolinea come tale passaggio dalla logica giuridico-istituzionale a quella aziendale non possa giustificare l’elaborazione di stra-tegie comunicative volte a orientare il «comportamento del consumatore per renderlo più coerente con finalità di tipo reddituale e particolare» (p. 172). Nonostante la visione aziendalistica dell’amministrazione sia basata su una «relazione di scambio» tra aziende pubbliche che mettono in atto processi economici per erogare servizi che soddisfino i bisogni espressi dal-la collettività, e cittadini che corrispondono all’ente risorse monetarie (o non monetarie) per usufruire del servizio, non va dimenticato secondo Fio-rentini che l’obiettivo della PA è comunque quello di tutela dell’interesse generale.

Anche Rolando (1995) approfondisce la distinzione tra comunicazione pubblica e comunicazione di mercato, non solo contrapponendo i principi deontologici della comunicazione delle istituzioni a quelli della comunica-zione d’impresa, ma offrendo una specifica articolazione della comunica-zione dell’area di mercato contrapposta a quella dell’area pubblica. La pri-ma include le attività di comunicazione prodotte da soggetti con forti inte-ressi particolari, e pertanto in essa rientra, oltre alla comunicazione d’impresa, sia la comunicazione di interesse socio-economico, prodotta dal-le lobby, sia quella del sistema dei media, le cui regole di costruzione della notizia (news–making) non corrispondono sempre a criteri di neutralità e di interesse collettivo. La comunicazione pubblica, invece, secondo questa prospettiva è tale perché adotta un profilo di «neutralità possibile» (ibidem, p. 33), ossia riguarda argomenti di interesse generale, anche se questa acce-zione di “pubblico” non esclude che gli stessi si possano essere presentati da un punto di vista predeterminato (Mancini, 2003). Di conseguenza, se-condo Rolando (1995), nell’area pubblica della comunicazione rientrano non solo le attività comunicative delle istituzioni ma anche i flussi che han-no come protagonisti gli attori politici e la cosiddetta comunicazione socia-

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le, ossia prodotta da «soggetti imprenditoriali, associativi, cooperativi e so-lidaristici» (Arena, 1995, p. 37) che si inseriscono nei «vuoti incolmabili» della comunicazione dell’istituzione come fonte alternativa di comunica-zione di interesse generale. A tal proposito, tuttavia, sia Arena (1995) che Faccioli (2000) sottolineano come, nonostante l’ormai diffuso riconosci-mento dell’importanza di questa pluralità di fonti, non si possa sottovaluta-re il diverso tipo di responsabilità nello svolgimento di questa funzione da parte dei soggetti pubblici e di quelli del privato e del privato-sociale. Per quanto entrambi possano perseguire la realizzazione dell’interesse generale, questo comunque resta un dovere per le istituzioni mentre è una possibilità per gli attori dell’associazionismo civile.

Secondo P. Mancini (2003) un’altra dimensione rilevante per identifica-re il campo della comunicazione pubblica, oltre ai fini, è l’oggetto. Questo, secondo l’autore, deve riguardare, utilizzando un termine inglese, i cosid-detti public affairs. Ma cosa si intende per “argomenti pubblici”? Sicura-mente argomenti che assumono un interesse per la collettività, ma anche issues che attengono alla dimensione pubblica, alla pubblicità delle ammi-nistrazioni. Il termine “pubblicità” viene definito da Mancini ancora una volta ricorrendo a corrispondenti lemmi della lingua anglosassone: da un lato il termine publicness, che fa riferimento all’essere pubblico e manifesto sia delle istituzioni che delle issues della comunicazione, dall’altro il termi-ne publicity che, invece, definisce quell’attività delle istituzioni finalizzata ad avere un maggiore spazio nei media, senza occupare tuttavia i tradizio-nali spazi pubblicitari commerciali.

La terza dimensione rilevante è quella che fissa i confini della definizio-ne sulla base della natura pubblica dei soggetti che promuovono la comuni-cazione. P. Mancini (2003) afferma che è una dimensione che non si può trascurare, per quanto a suo avviso rischi di essere riduttiva se assunta come unico criterio di differenziazione: la comunicazione pubblica infatti non può essere definita tale solo perché è pubblica la fonte dalla quale proviene. Incrociata con le altre due dimensioni (fini ed oggetto), invece, questa di-mensione permette di elaborare una tipologia interna della comunicazione pubblica e consente di distinguere tra comunicazione istituzionale, comuni-cazione politica e comunicazione sociale.

La “comunicazione istituzionale”, è generalmente promossa dalla pub-blica amministrazione e dagli enti pubblici e di pubblico servizio (Rolando 1995; Vignudelli 1992), con l’obiettivo di rendere pubblica l’amministrazione e la propria attività in risposta ai bisogni del cittadino. Così descritta, la comunicazione istituzionale sembra esplicitarsi in un’attività prevalentemente informativa, volta ad assicurare all’esterno esclusivamente le informazioni necessarie al cittadino per orientarsi nel la-

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birinto delle norme esistenti (publicness). È possibile tuttavia ampliare que-sta accezione ricordando, con A. Rovinetti (1992, p. 42), che la comunica-zione istituzionale si compone di molteplici funzioni quali «diritto, servi-zio, immagine, dialogo, conoscenza, organizzazione», espressioni di un im-prescindibile cambio di prospettiva d’azione delle pubbliche amministra-zioni: da una logica gerarchico-burocratica in cui fondamentale è il princi-pio del segreto e della sovraordinazione delle istituzioni, ad una logica rela-zionale e di servizio, in cui principi fondamentali diventano quelli della vi-sibilità e della trasparenza, dell’ascolto e della partecipazione. In questa nuova prospettiva, la comunicazione non può più essere un’attività residua-le ed occasionale, ma deve diventare una vera e propria funzione ammini-strativa perché, come rileva G. Arena (1995, p. 135) «si comunica (cioé si parla e si ascolta) soltanto con chi si ritiene che abbia qualcosa di interes-sante da dire; altrimenti, ci si limita ad “informarlo”»: il cittadino, quindi, deve essere posto al centro dell’azione istituzionale.

Ovviamente, come tutti i nuovi principi d’azione introdotti dal paradig-ma manageriale e da quello dell’amministrazione a rete, anche questo della centralità del cittadino è un principio che non conosce immediate ed omo-genee modalità di traduzione organizzativa nelle articolate pieghe della struttura amministrativa italiana. Ancora una volta, è l’approccio culturale allo studio delle organizzazioni (Schein in Bonazzi, 2003) che può fornire interessanti chiavi di lettura per interpretare i diversi esiti del cambiamento. Assumere come centrale il cittadino, infatti, significa modificare le mappe cognitive degli attori dell’istituzione e rivoluzionare le logiche di azione dei dipendenti pubblici. Significa spostare l’attenzione dalle strutture ai proces-si e osservare le relazioni che si instaurano tra i diversi attori in essi coin-volti.

Se “servizio, dialogo, conoscenza, organizzazione” diventano parole-chiave della comunicazione istituzionale, allora all’interno delle ammini-strazioni non possono mancare competenze inerenti il marketing pubblico. Introdurre nella PA una cultura del servizio (Faccioli, 2000, p. 131), infatti, significa «dialogare con i propri utenti e coinvolgere nella definizione del proprio lavoro gli altri soggetti che possono contribuire ad un migliore fun-zionamento dell’amministrazione e ad un’efficace erogazione dei servizi». Queste modalità di azione sono tipiche di una cultura del marketing appli-cata al settore pubblico (Kotler e Lee, 2007), ossia di un orientamento a progettare e pianificare l’erogazione dei servizi in funzione della piena soddisfazione dei bisogni dell’utenza, piuttosto che in esclusiva coerenza con i processi organizzativi dell’amministrazione stessa. Poiché il pubblico di riferimento dell’azione pubblica non è una massa indifferenziata, ma un insieme di cittadini portatori di interessi specifici, sia individuali sia orga-

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nizzati, è fondamentale nell’attività delle istituzioni assumere una prospet-tiva pluralista tanto nella costruzione delle relazioni di scambio con i citta-dini (attraverso processi di segmentazione del mercato di riferimento) quan-to nella promozione di reti di cooperazione pubblico-privato per l’erogazione dei servizi stessi.

Articolando queste diverse funzioni, si possono individuare, inoltre, altri tre tipi di comunicazione delle istituzioni pubbliche: quella istituzionale ve-ra e propria, finalizzata a promuovere l’immagine dell’istituzione stessa, la sua identità e il suo orientamento operativo20; la comunicazione normativa, tesa a rendere pubbliche le decisioni assunte e le norme ad esse conseguen-ti21; infine quella di pubblico servizio, destinata ad informare gli utenti sull’organizzazione dell’amministrazione e sulle attività degli uffici e sulle modalità di fruizione dei servizi22 (Mancini, 2003).

Diversa dalla comunicazione istituzionale è la comunicazione politica, definita come quella proveniente tanto da soggetti pubblici (istituzioni cen-trali e locali) quanto da attori come i partiti, le organizzazioni sindacali, le rappresentanze di categorie, avente ad oggetto argomenti di interesse gene-rale ma a carattere controverso e rispetto ai quali si sostiene un punto di vi-sta determinato.

Una definizione più estesa di questa comunicazione è quella di G. Maz-zoleni (2004) che parla di uno scambio e di un confronto tra sistema politi-co, sistema dei media e cittadino elettore. M. Sorice (2009) approfondisce questo aspetto affermando che nella comunicazione politica possiamo in-cludere tanto i flussi comunicativi prodotti dagli attori politici, quanto quel-li prodotti dagli attori non politici e rivolti agli attori politici, quanto infine tutte le forme di comunicazione sugli attori politici e sulle loro attività.

20 In relazione a questa funzione – definita anche di pubblicità pubblica o publicity – molti autori (Fabris, 1992; Gadotti, 2000) raccomandano la necessità di saper ricorrere in maniera adeguata alle tecniche pubblicitarie tipiche del settore privato, non dimenticando che peculiarità della pubblicità pubblica è «attribuire trasparenza all’attività della Ammini-strazione Pubblica, consentire al cittadino di utilizzare meglio l’apparato dello Stato o i ser-vizi pubblici, sensibilizzarlo su problematiche socialmente rilevanti ed, in termini più gene-rali, stimolare un processo di crescita civile e sociale» (Fabris, 1992, p. 590).

21 Il riconoscimento della rilevanza di questa specifica tipologia di comunicazione istitu-zionale ha animato, soprattutto negli anni Novanta, un lungo e attento dibattito (Ainis, 1997; Cassese, 1993; Fioritto, 1997; Piemontese, 1994) intorno alla peculiarità del linguaggio giu-ridico, e alla necessità di operare una traduzione e una semplificazione dallo stesso a van-taggio dei cittadini-utenti, senza tuttavia inficiarne la natura prescrittivi o sanzionatoria.

22 Secondo lo stesso Mancini (2003, p. XII), la funzione di comunicazione di servizio si pone a metà strada tra la comunicazione istituzionale e quella sociale, all’interno della quale individua una sotto-categoria denominata ‘comunicazione di pubblica utilità’ che meglio descrive i flussi comunicativi orientati a promuovere servizi e a diffondere valori.

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Questa specificazione permette di evidenziare come, secondo gli studiosi, la comunicazione politica si differenzi totalmente dalla propaganda poiché prevede una relazione dialogica tra i tre attori dell’arena pubblica all’interno del quale avviene lo scambio comunicativo. Non è possibile pensare alla comunicazione politica se non in un contesto democratico, in cui lo scambio delle risorse simboliche per la conquista del potere può av-venire senza coercizione (Mazzoleni, 2004). Per comprendere meglio i con-fini di questa arena è necessario recuperare i concetti di spazio pubblico di Hannah Arendt e di sfera pubblica di Jürgen Habermas (1988): per entram-bi gli autori la dialettica politica è originata da un pubblico di cittadini in-formati e consapevoli che decidono di partecipare alla gestione del potere, con modalità rappresentative o dirette, in un contesto pubblico e condiviso.

Le dinamiche relazionali della società di massa, tuttavia, mostrano che questa ampia democratizzazione dello spazio pubblico non si è verificata, anche a causa del progressivo affermarsi di un ruolo nuovo dei mezzi di comunicazione: questi non svolgono più esclusivamente una funzione di canali, ma diventano essi stessi produttori di flussi comunicativi di tipo po-litico. A tal proposito Mazzoleni, riprendendo lo schema interpretativo di McNair (1995), propone un modello descrittivo dei flussi comunicativi che avvengono all’interno dello spazio pubblico in cui i tre attori – i politici, i cittadini e i media – non agiscono con dinamiche comunicative proprie, ma sono fortemente condizionati dalla presenza stessa dei media che «rappre-sentano il canale, la cornice e finanche i meccanismi di attivazione del pro-cesso comunicativo» (Sorice, 2009, p. 1100). Si può parlare in questo caso di uno “spazio pubblico mediatizzato” (Mazzoleni, 2004, p. 23), nel quale l’azione politica dipende in misura rilevante dall’azione dei media.

Questo forte condizionamento si esprime non solo nella determinazione della rilevanza delle issues in agenda, ma anche nella scelta dei modelli comunicativi e dei linguaggi (Bentivegna, 2001; Faccioli, 2000; Grandi, 2009; Mancini, 2003).

Mazzoleni (2004) in particolare parla degli effetti dei media sul sistema politico in termini di “effetti sistemici”23 e li distingue tra effetti mediatici ed effetti politici. I primi fanno riferimento agli aspetti mediali della comu-nicazione politica, alla sfera discorsiva, e si sostanziano in fenomeni quali la spettacolarizzazione della comunicazione politica, l’influenza dei media

23 Gli effetti dei media sull’arena politica, secondo Mazzoleni (2004), si distinguono tra

effetti sistemici ed effetti sugli atteggiamenti e sui comportamenti politici degli elettori (ef-fetti psicosociali). Questa seconda categoria non verrà trattata in questa sede perché oggetto di questo lavoro non è l’analisi di flussi comunicativi orientati a raccogliere consenso politi-co, bensì le attività di comunicazione più direttamente orientate all’attività amministrativa ed istituzionale della PA.

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nella costruzione dell’agenda politica ed infine la frammentazione del di-scorso politico, a causa dell’esigenza di brevità dei recenti format dei me-dia, in primis della televisione. I secondi, invece, attengono alla sfera dell’azione del sistema politico, alla struttura organizzativa e alle modalità di relazione interne e tra il sistema politico e l’ambiente esterno. Si regi-strano in questa area fenomeni nuovi quali la personalizzazione della politi-ca, la leaderizzazione delle organizzazioni di partito ed infine l’adozione di nuovi criteri che guidano le modalità di selezione delle élite politiche.

La distinzione tra comunicazione politica e comunicazione istituzionale è importante in questo specifico lavoro perché consente di osservare quella separazione tra politica e amministrazione che ha costituito un punto di ri-ferimento normativo dei processi di riforma degli anni Novanta. Considera-to infatti che l’obiettivo della ricerca qui presentata è definire un modello di comunicazione on line di qualità, è opportuno essere consapevoli che non sono rari i casi di comunicazione istituzionale fortemente connotati da obiettivi politici. E questo accade soprattutto a livello locale, dove l’innovazione istituzionale ha interessato anche i processi di nomina e/o di elezione dei vertici amministrativi: basti pensare all’introduzione dell’elezione diretta del sindaco (con la legge 25 marzo 1993, n. 81) oppure all’aziendalizzazione delle Unità Sanitarie Locali (Decreti Legislativi 502/92 e 517/93)24 e alla conseguente nomina dei vertici dell’organizzazione sanitaria direttamente da parte dei presidenti delle re-gioni.

Resta da approfondire la terza tipologia di comunicazione pubblica – quella sociale – che Gadotti (2000, p. 24) definisce «quell’insieme di attivi-tà di comunicazione, messo in atto da un soggetto pubblico o privato, volto a promuovere finalità non lucrative e avente per oggetto tematiche di inte-resse sociale ampiamente condivise». Mancini (2003, p. 191) precisa a tal proposito che le tematiche proposte devono essere «a carattere relativamen-te controverso», ossia incarnare valori ampiamente condivisi, rispetto ai quali è possibile rintracciare solo un’esigua minoranza di oppositori, non rilevante rispetto al patrimonio di valori condiviso dalla collettività. In rela-zione ai possibili soggetti promotori F. Faccioli (2000) introduce un’ulteriore distinzione e preferisce utilizzare il termine comunicazione so-ciale quando è prodotta da soggetti pubblici ed invece comunicazione di solidarietà sociale quando le fonti sono organizzazioni non profit. Anche se entrambi hanno come obiettivo l’interesse generale, Faccioli sostiene che non si può trascurare il diverso ruolo giocato da questi soggetti all’interno

24 Cfr. Capitolo 2, paragrafo 1.

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della società. Mentre le istituzioni, attraverso una campagna di comunica-zione sociale intendono promuovere determinati comportamenti oppure raf-forzare la condivisione di specifici valori funzionali al bene comune, i sog-getti del non profit, per quanto mossi da finalità non lucrative, attraverso una campagna di comunicazione sociale, pur promuovendo un valore con-diviso, possono anche perseguire finalità specifiche legate al ruolo che in-tendono assumere nello spazio pubblico in relazione ad una determinata is-sue25. Non va dimenticato, come sottolinea Mancini, infatti che la comuni-cazione «svolge un’azione di advocacy» (2003, p. 191) ossia di individua-zione di alcuni temi rispetto agli altri e di promozione degli stessi nella sen-sibilità collettiva e a volte anche all’attenzione degli attori politici compe-tenti. Se si allarga il concetto di comunicazione sociale oltre il confine delle specifiche campagne di comunicazione fino ad includere il dibattito delle idee, infatti, tra i promotori di questa attività non possiamo non considerare anche le forze politiche (Rolando, 1995; 2001)26.

Mancini (2003), per restare nell’ambito delle attività di comunicazione strutturate e pianificate caratterizzate da specifici linguaggi e format, indi-vidua tre fattispecie all’interno delle attività di comunicazione sociale: alla comunicazione sociale propriamente detta e alla comunicazione delle re-sponsabilità sociali27 l’autore aggiunge anche la comunicazione di pubblico servizio28, ossia quella finalizzata a promuovere servizi di pubblica utilità. Si tratta di attività comunicative simili non solo per le caratteristiche dell’oggetto, ma anche per la dimensione temporale: a differenza della co-municazione istituzionale e di quella politica, che presentano una relativa continuità29 nello svolgimento, le campagne di comunicazione sociale si attivano in contesti temporali specifici e contenuti. In relazione, per esem-

25 In questo caso si può parlare anche di marketing sociale, perché le organizzazioni non

profit realizzano campagne di comunicazione sociale anche per promuovere il sostegno alla propria attività attraverso iniziative di fund raising oppure di people raising.

26 L’autore completa la rassegna dei soggetti promotori di comunicazione sociale consi-derando anche i sindacati e le rappresentanze, tesi a diffondere valori condivisi in determina-ti gruppi sociali, e i media che si occupano di temi di interesse generale a volte per dovere di cronaca a volte per legare l’immagine della testata a specifiche issues di rilevanza sociale (Rolando, 1995, p. 189).

27 Questa fattispecie presenta caratteristiche molto simili alla pubblicità commerciale poiché è generalmente prodotta da aziende private che decidono di promuovere un valore di interesse generale, legandolo comunque al proprio marchio (Mancini, 2003, p. 203 e sgg.).

28 Cfr. nota 22. 29 Tale continuità, nel caso della comunicazione politica, ha portato anche al progressivo

superamento della distinzione tra comunicazione politica e comunicazione elettorale. In un contesto di campagne politiche permanenti, è sempre più difficile distinguere una comunica-zione politica orientata a costruire relazioni su temi e contenuti, da una comunicazione volta a raccogliere consenso in vista della tornata elettorale (Mancini, 2003; Mazzoleni, 2004).

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pio, all’attivazione di un nuovo servizio, oppure in concomitanza con l’aumento dell’incidenza di determinati comportamenti negativi per la col-lettività (assunzione di stupefacenti, consumo di alcol, ricorrenza di inci-denti stradali, danni ecologici), o ancora in occasione di specifiche emer-genze sanitarie (diffusione di patologie specifiche, emergenze ambientali).

Questa tipologia di comunicazione è ampiamente assimilabile a quello che Kotler e Lee (2007, p. 223) definiscono il marketing sociale, ossia «i principi e le tecniche di marketing per indurre il pubblico-obiettivo ad ac-cettare, rifiutare, modificare o abbandonare volontariamente un comporta-mento per il beneficio di individui o gruppi o della società nel suo insie-me», ma con una “cassetta degli attrezzi” più ampia della semplice pubbli-cità sociale: attraverso le “4 P” del marketing30 è possibile pianificare una strategia più efficace della mera produzione di messaggi. Soprattutto per issues che riguardano comportamenti relativi alla sfera della salute – area di intervento pubblico oggetto di analisi in questo lavoro – del resto, è possi-bile individuare diverse fattori che alimentano una certa resistenza da parte dei cittadini ai messaggi di comunicazione sociale. Spesso, infatti, questi chiedono ai soggetti di abbandonare comportamenti che in modo diverso procurano nell’immediato un piacere (fumo, alcol, cibo, sesso senza pre-cauzioni), in cambio della possibilità di ridurre condizioni di rischio sul lungo termine (malattie all’apparato respiratorio o digerente, o all’apparato circolatorio, infezioni veneree o contagio dell’HIV). Oppure, in ambito ambientale per esempio, chiedono al singolo di elaborare uno sforzo di ap-prendimento per assumere abitudini nuove (differenziazione dei rifiuti, consumo razionale dell’acqua), i cui risultati però si potranno misurare pre-valentemente su scala comunitaria (tutela dell’ambiente e sostenibilità delle risorse idriche).

Di fronte a queste criticità sostanziali è chiaro che una comunicazione sociale non strutturata, estemporanea e limitata a singoli messaggi non ha grandi possibilità di essere efficace. Occorre puntare su strategie di inter-vento e scelte metodologiche pianificate e mirate.

Tali scelte si fanno particolarmente rilevanti in un contesto comunicati-vo in cui, abbiamo visto, la pluralità delle fonti di informazione non agisce con scopi complementari, bensì concorrenziali. Di fronte ad uno scenario in cui i media possono esercitare, nei confronti del pubblico, un potere di agenda setting (McCombs e Shaw in Wolf, 2001) imponendo una certa priorità alle issues sociali, diventa sempre più rilevante il ruolo delle istitu-zioni, e a volte delle organizzazioni non profit, per introdurre determinate tematiche sociali nel dibattito pubblico con lo scopo di controbilanciare le

30 Prodotto, prezzo, punto vendita, promozione.

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spinte delle agenzie di informazione a sponsorizzare alcuni temi piuttosto che altri nei confronti dei decisori politici (agenda building) 31.

Appare utile, rispetto alle questioni analizzate, considerare una specifica categoria di analisi della comunicazione pubblica che prende in considera-zione la provenienza dei flussi comunicativi rispetto allo specifico oggetto trattato. È la distinzione tra comunicazione autoprodotta e comunicazione eteroprodotta (Mancini, 2003), che sottolinea la necessità per le istituzioni di non trascurare, in un’attenta attività di pianificazione e programmazione della propria attività comunicativa, tutte le possibili alternative di comuni-cazione rintracciabili nel contesto di riferimento. A seguito dell’articolazione della sfera pubblica in diversi sottosistemi sociali e dell’affermazione del ruolo dei media come protagonisti dell’arena pubbli-ca, infatti, le istituzioni hanno perso l’esclusività nel processo di produzio-ne di messaggi di interesse generale e devono sempre più misurarsi con la possibilità che ci siano altre fonti comunicative (altre istituzioni, o attori semipubblici, o ancor di più i mezzi di informazione giornalistica) interes-sate ad influenzare l’opinione pubblica. Questo può accadere, ad esempio, in riferimento a messaggi che intendono promuovere l’immagine di un ente o un servizio per la collettività (comunicazione istituzionale e/o di pubblica utilità), rispetto ai quali può esserci un interesse dei media ad evidenziarne invece le criticità. Oppure può verificarsi in relazione alla necessità di au-mentare la sensibilità della collettività verso un determinato valore o com-portamento di interesse generale (comunicazione sociale), rispetto al quale, invece, potrebbe essere più forte la sponsorship dei media o di agenzie so-ciali per temi concorrenti. In questi casi, poiché l’istituzione non è nella condizione di prevedere le dinamiche della comunicazione eteroprodotta con la stessa efficacia di quella da essa promossa, ecco che diventa fonda-mentale un attento lavoro di monitoraggio dell’ambiente di riferimento. At-traverso strumenti di ascolto e conoscenza delle percezioni diffuse nella collettività, l’istituzione può infatti mettere in campo azioni comunicative che sappiano contemporaneamente affermare gli obiettivi dell’amministrazione e controbilanciare gli input informativi prodotti da altri fonti.

31 Nell’ambito degli studi sulle comunicazioni di massa, la teoria dell’agenda setting fa riferimento al processo per cui il grado di rilevanza dei temi all’ordine del giorno percepito dai cittadini è diretta conseguenza del grado di rilevanza dei temi espresso dai mass media. È un effetto che si esercita sulla sfera cognitiva dell’individuo.

La teoria dell’agenda building invece, complementare alla precedente, afferma che il processo di costruzione dell’agenda dei temi all’ordine del giorno è determinato dal concor-so di una pluralità di attori (non necessariamente appartenenti all’area dei mezzi di comuni-cazione di massa). Si sofferma, quindi, sugli effetti sistemici dei media, ossia quelli che ri-guardano le relazioni intercorrenti tra attori politici, cittadini e media (Mazzoleni, 2004).

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Poiché il focus di questo lavoro è centrato sulle attività di comunicazio-

ne delle amministrazioni pubbliche e poiché, come è già stato affermato, soprattutto in un modello di amministrazione a rete la comunicazione non può essere solo un’eccezione organizzativa, ma deve diventare un elemento determinante per lo svolgimento della stessa funzione amministrativa per-ché deve contribuire a modificare i comportamenti organizzativi delle isti-tuzioni (Arena, 2004), è importante non solo definire i confini delle tipolo-gie di attività comunicative che la PA può svolgere, ma ancor più ricostrui-re la formalizzazione giuridica di queste attività.

La comunicazione pubblica trova la sua base giuridica innanzitutto nei principi costituzionali perché, soprattutto nella sua declinazione di comuni-cazione di servizio (o di pubblica utilità), è funzionale alla tutela e alla rea-lizzazione dei diritti fondamentali quali trasparenza, pubblicità, partecipa-zione ed efficienza (Azzariti, 2004) dell’azione pubblica. Esiste poi una co-piosa produzione normativa che negli anni Novanta ha contribuito a defini-re confini, finalità, attori e strumenti di questa attività, anche se tale corpus di norme proviene dalla disciplina di ambiti diversi: dalla pubblicità istitu-zionale, alla tutela della riservatezza dei dati personali, alle norme sull’erogazione dei servizi pubblici, ecc. (Marsocci, 2004). Il cosiddetto «decennio d’oro della comunicazione dell’istituzione pubblica» (Mancini, 2003, p. 140) infatti è caratterizzato da una pluralità di interventi legislativi, diversi per tipologia delle fonti del diritto e per ambiti di intervento, quasi nessuno specificatamente dedicato alla funzione di comunicazione.

Indicazioni di principio (Arena, 2004; Faccioli, 2000), per esempio, era-no contenute in tutte le principali norme che hanno cercato di importare nel contesto amministrativo italiano il decalogo del modello imprenditoriale di derivazione anglosassone (Osborne e Gaebler, 1995; d’Albergo e Vaselli, 1997).

Innanzitutto va citato il principio di partecipazione, sancito già nella legge 142 del 1990, per la cui applicazione è fondamentale garantire non solo un’ampia circolazione di informazioni, ma anche un flusso comunica-tivo bidirezionale tra tutti gli attori del procedimento e/o del processo deci-sionale. Strettamente legato al principio di partecipazione è quello di tra-sparenza, introdotto quasi contemporaneamente dalla legge 241 del 1990, che consente il superamento del principio della segretezza dell’azione am-ministrativa, tipico delle istituzioni weberiane, attraverso l’obbligo di in-formazione in merito al responsabile del procedimento e di accesso agli atti amministrativi. E’ tuttavia un principio che si avvale più delle strategie di informazione, che di quelle di comunicazione, considerato che l’etimologia del termine (= “apparire attraverso”) lascia intuire ancora la permanenza di

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una barriera tra i due attori del processo comunicativo. Per alcuni studiosi tale barriera è costituita dal linguaggio, dal codice, dalla complessità delle procedure non del tutto condivise tra istituzioni e cittadini. Per veder cadere questo ostacolo, la norma introduce un altro principio, quello della sempli-ficazione amministrativa (di cui sono espressione il “Codice di stile” e il “Codice di condotta dei dipendenti pubblici” nel 1993 e le leggi cosiddette “Bassanini” del 1997). Anche in questo caso l’affermazione del principio è strettamente condizionata dalla necessità di sviluppare un’attenta funzione di comunicazione. In particolare, un’efficace circolazione di informazione sui compiti e le funzioni delle diverse amministrazioni aiuterebbe i cittadini ad orientarsi nella complessità che caratterizza il sistema pubblico; in più l’aumento di flussi comunicativi tra le istituzioni consentirebbe una ridu-zione delle procedure che il cittadino deve seguire per relazionarsi con le diverse amministrazioni e l’attuazione di sportelli unici di interfaccia tra PA e utenza (ad esempio, gli Sportelli Unici oppure gli Sportelli Polifun-zionali). Anche il rispetto del principio di autonomia (e quindi di responsa-bilità amministrativa) riconosciuto ai diversi livelli della PA negli anni No-vanta (legge 142/1990 e leggi “Bassanini” sul decentramento amministrati-vo) necessita di un’adeguata attività di comunicazione tra i diversi nodi del-la rete organizzativa che rappresenta il sistema pubblico. Non meno fonda-mentale è la comunicazione per sancire la definitiva distinzione tra identità politica e identità amministrativa delle istituzioni (decreto legislativo 29/1993): e questo vale tanto nel caso in cui tale distinzione porta alla costi-tuzione di specifiche unità organizzative esterne (es. le agenzie) quanto nel caso in cui tale distinzione è solo funzionale (e quindi interna) alla singola amministrazione. Stessa rilevanza ha la comunicazione in conseguenza dell’implementazione del principio di sussidiarietà (legge 59/1997), soprat-tutto di quella a carattere orizzontale che contempla la possibilità di mettere in relazione soggetti appartenenti a sottosistemi diversi, allo scopo di rea-lizzare un fine di interesse generale. Infine, non ci si può limitare ad un me-ro flusso informativo quanto si tratta di dare attuazione al principio di valu-tazione dell’azione pubblica (Direttiva del Presidente del Consiglio dei Mi-nistri 27/01/1994 e 11/10/1994), perché qui è determinante l’attivazione di funzioni di ascolto e ricezione del feedback da parte della collettività.

Occorre attendere il 2000 per aver la prima legge organica sulla comu-nicazione pubblica: la legge 150 «Disciplina di informazione e comunica-zione delle pubbliche amministrazioni». Tale legge poggia su una distin-zione di base, quella tra attività informativa e comunicazione, in conse-guenza della quale non solo è possibile individuare diverse strategie e di-versi pubblici di riferimento, ma soprattutto è necessario identificare diversi

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profili professionali chiamati a svolgere queste funzioni32. In particolar mo-do, la legge 150 (art. 1) distingue tre tipi di comunicazione: l’informazione verso i mezzi di comunicazione di massa, la comunicazione delle istituzioni verso l’ambiente esterno e la comunicazione interna, rivolta agli attori or-ganizzativi dell’istituzione stessa.

Le norme di applicazione dalla legge 150/200033 hanno dato un notevole risalto all’attività di comunicazione interna come strumento per favorire trasparenza e condivisione delle informazioni all’interno dell’amministrazione, per creare e rafforzare identità e senso di appartenen-za, per migliorare l’efficacia e l’efficienza dell’azione amministrativa (Ro-lando, 2001). I destinatari interni della comunicazione devono essere consi-derati non meri esecutori delle strategie dei vertici amministrativi, ma veri e propri stakeholders: anch’essi portatori di interessi, bisogni e doveri al pari dei pubblici esterni di riferimento e pertanto in grado di influenzare anch’essi l’organizzazione (Freeman and McVea, 2001). Di conseguenza, per un’amministrazione è necessario adottare una prospettiva relazionale, di ascolto e scambio anche con il proprio pubblico interno, come presupposto fondamentale non solo per conoscerne i bisogni ed elaborare risposte sod-disfacenti, ma anche per poter pianificare azioni efficaci di motivazione dei dipendenti pubblici al fine di assicurare il più ampio consenso possibile alle diverse iniziative di riforma. La specificità di questi soggetti è che essi sono allo stesso tempo destinatari dei flussi comunicativi ma anche produttori del sapere che circola in questi stessi flussi comunicativi. Se vengono coin-volti nei processi organizzativi in maniera occasionale, senza un’adeguata

32 All’art. 6 e sgg. la legge sancisce una specifica attribuzione di ruoli e funzioni alle

strutture organizzative deputate all’attività di comunicazione: dell’attività di informazione ai media è responsabile l’Ufficio Stampa, delle attività di comunicazione è titolare invece l’Ufficio per le Relazioni con il Pubblico (URP). Un’ulteriore differenziazione viene intro-dotta in relazione ai profili professionali specificatamente dedicati a queste funzioni (art. 7, 8, 9) e ai relativi processi formativi caratterizzanti. Anche per porre fine alla querelle che negli anni Novanta aveva visto contrapporsi i professionisti delle comunicazioni di massa con gli operatori degli Urp, la legge 150 istituisce la figura del comunicatore pubblico e la destina alla progettazione, pianificazione e coordinamento delle attività di comunicazione esterna ed interna, da realizzarsi attraverso l’Urp. La qualifica di giornalista invece viene ritenuta imprescindibile per lavorare all’interno degli Uffici Stampa. Meno dettagliata è al contrario la definizione del curriculum formativo della terza figura professionale introdotta, quella del portavoce, la cui specificità professionale è centrata maggiormente sulla relazione fiduciaria che riesce a costruire con il vertice amministrativo di cui è espressione (France-schetti, 2009).

33 Direttiva del Ministro della Funzione Pubblica sulle attività di comunicazione delle pubbliche amministrazioni del 7 febbraio 2002, G.U. 28 marzo 2002, n. 74 e Regolamento di attuazione emanato con D.P.R. 422/2001.

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individuazione dei loro bisogni informativi e senza una metodologia di la-voro strutturata e coordinata rispetto alle strategie d’azione complessive dell’istituzione, si rischia di generare resistenze interne e conseguenti inef-ficienze organizzative.

Ancor di più questa considerazione è valida nei contesti amministrativi più recenti. Con il succedersi degli anni, infatti, i modelli organizzativi del-le istituzioni hanno conosciuto, come si è visto, cambiamenti nelle funzioni e nelle strutture che rendono le finalità della comunicazione interna e le sue metodologie sempre più strategiche in relazione alla mission dell’organizzazione stessa. Nei modelli a rete, infatti, la comunicazione non è più uno strumento di controllo, come nei modelli gerarchici, ma diventa un sistema che crea cultura condivisa, partecipazione e coinvolgimento. Come affermava Invernizzi già a metà degli anni Novanta (1996), pertanto, è necessario introdurre in questi modelli a rete la nozione di comunicazione organizzativa che racchiude e sviluppa quella di comunicazione interna, poiché riguarda la gestione e lo sviluppo dell’organizzazione nel suo com-plesso. Il nuovo paradigma «coinvolge i membri interni, i collaboratori in-terno-esterni e tutti i soggetti esterni in qualche modo interessati o coinvolti nella vita dell’organizzazione, compresi i suoi clienti effettivi o potenziali» (ibidem, p. 172). Viene meno la distinzione netta tra attività di comunica-zione interna e attività di comunicazione esterna e aumenta la consapevo-lezza che ogni singola iniziativa comunicazionale debba essere progettata in coerenza e in sinergia con le altre.

Anche questa articolazione della funzione di comunicazione e i relativi principi di integrazione, coordinamento e sinergia hanno trovato una forma-lizzazione giuridica nella produzione normativa dell’ultimo decennio. La Direttiva del Ministro per la Funzione Pubblica del 7 febbraio 2002 infatti attribuisce un rilievo specifico al concetto di “comunicazione integrata”, e ribadisce che «la comunicazione interna e la produzione di messaggi com-plessi verso l’esterno rappresentano momenti differenti della stessa funzio-ne di informazione e comunicazione delle pubbliche amministrazioni, e pertanto richiedono un coordinamento che ne governi, con efficacia, le inte-razioni e le sinergie». Perché tali affermazioni non restino indicazioni di principio, la norma ha previsto anche uno specifico strumento per pro-grammare, gestire e valutare le diverse iniziative di comunicazione che un’amministrazione intende realizzare: è il Piano annuale di comunicazio-ne. È uno strumento che, se ben compreso dalle singole amministrazioni34, potrebbe risultare davvero strategico nel miglioramento del rapporto tra PA

34 La norma stabilisce l’obbligo di adozione del Piano di Comunicazione per tutte le amministrazioni centrali e periferiche dello Stato, ad eccezione delle Regioni, che hanno piena autonomia normativa in merito.

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e cittadini, non solo perché permetterebbe di razionalizzare le attività di comunicazione rispetto alle specifiche variali interne (obiettivi, attori, mes-saggi, canali, risorse), ma anche perché potrebbe valorizzare il ruolo della comunicazione come funzione a supporto delle diverse azioni pubbliche promosse dalle amministrazioni (Ducci, 2007).

3. Politiche di governo elettronico e nuovi modelli relazionali tra PA e cittadini

Tra le riforme amministrative avviate negli anni Novanta e ricostruite nel paragrafo 1, quelle che hanno contribuito in maniera consistente, anche se a volte in forma indiretta, tanto all’affermazione di modelli reticolari di azione pubblica quanto alla ristrutturazione del rapporto tra istituzioni e cit-tadini sono quelle indicate prima come misure per l’informatizzazione della pubblica amministrazione e poi come politiche per l’e-government.

In entrambi i casi la leva dell’innovazione è rappresentata dalle tecnolo-gie dell’informazione e della comunicazione (Information and Communica-tion Technology-Ict) il cui rapido sviluppo ha caratterizzato l'epoca che stiamo vivendo come “età dell'informazione”. Possiamo ricorrere al lavoro di M. Castells (2004) per sintetizzare il nesso che intercorre tra questi tre processi: lo sviluppo delle nuove tecnologie, la riorganizzazione dei sistemi pubblici e l’affermazione della Società dell’Informazione.

Secondo l’autore, infatti, viviamo in un periodo in cui i processi di so-cializzazione contemporanei sono determinati dall'infrastruttura tecnologi-co-comunicativa della rete che facilita lo scambio di informazioni. «Inter-net non è semplicemente una tecnologia. È il mezzo tecnologico fondante della società dell'informazione, che rende possibile l'illimitata espansione di reti interattive in ogni settore della nostra esistenza. Non si tratta di un frammento del sistema tecnologico: è il cuore del sistema, che forgia e mo-della la nuova struttura sociale di ogni cosa. L'intero mondo attualmente vi-sibile (dall'organizzazione dell'economia ai mercati finanziari, dalla produ-zione dei servizi alla globalizzazione dei mezzi di comunicazione, dalle scienze tecnologiche alla politica) risponde a una logica reticolare.» (Ca-stells, 2004, p. 19).

Questa “logica di networking” permea anche gli apparati pubblici: «per esempio, le istituzioni collaborano sempre più spesso con altri enti e realtà sovranazionali. Insieme costituiscono il cosiddetto Network State, che non è più il tradizionale Stato nazione, ma non ne costituisce nemmeno la defi-nitiva scomparsa. Si tratta solo di una nuova, flessibile forma di Stato» (ibidem, p. 19).

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Secondo alcuni studiosi americani, l’affermazione di questo nuovo mo-do di governare può essere sintetizzato con l’espressione «virtual State» nel quale «the Internet and a growing array of information and communications technologies fundamentally modify possibilities for organizing communi-cation, work, business and government. (…) As a revolutionary technology the Internet (…) provides the technological potential to influence the struc-ture of the state as well as the relationship between state and citizen.» (Fountain, 2001, p. 22)

Per esplicitare le diverse modalità di applicazione delle nuove tecnolo-gie ai sistemi pubblici si usa generalmente in termine “e-government”. In Italia, ad esempio, si comincia a parlare di strategie di e-government nel 2000 con la pubblicazione da parte del governo Amato del Piano nazionale di e-government. Il documento è una risposta alle iniziative europee di promozione della Società dell’Informazione che già nel 1994 con il Rap-porto Bangermann35 avevano posto le basi per una stagione europea dell’innovazione elettronica.

In realtà la diffusione dell’utilizzo delle Ict nell’attività della pubblica amministrazione è un processo che ha radici nei decenni precedenti, il cui sviluppo è parallelo al dibattito scientifico relativo alla definizione del pro-cesso stesso.

Il termine “e-government” non ha un’accezione universalmente condivi-sa nella comunità scientifica e tra le istituzioni internazionali che hanno promosso la diffusione del fenomeno.

D. Holmes (2002, p. 18) per esempio definisce l’e-government come «l’uso dell’Information Technology per l’erogazione di servizi pubblici con maggiore efficacia, usando un metodo customer oriented, più economico e al contempo differente e migliore. Influisce sulle relazioni del singolo ente con gli utenti, con le imprese e con altri enti pubblici oltre che sulle proce-dure commerciali interne e sui dipendenti».

Partendo da questa definizione spesso le esperienze di e-government avviate nei diversi Paesi occidentali sono descritte guardando alle due prin-cipali aree di attività della Pubblica Amministrazione come settori distinti.

Da un lato viene focalizzata la dinamica di applicazione delle Ict all’area interna delle amministrazioni, ossia quella di back office, che com-prende tutte le strutture e le operazioni interne all’organizzazione pubblica, che ne supportano i processi principali e che non risultano direttamente ac-cessibili e visibili agli utenti finali, ma sono fondamentali per la produzione dei servizi pubblici. In quest’ambito, l’applicazione delle nuove tecnologie

35 “Recommendations to the European Council Europe and the Global Information So-

ciety”, Brussels, 26 maggio 1994.

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è circoscritto principalmente alle procedure organizzative, ai flussi informa-tivi e ai processi di decision making, allo scopo di migliorare e razionaliz-zare i processi lavorativi delle Pubbliche amministrazioni e sviluppare la cooperazione e il rapporto reciproco. Esempi significativi sono riscontrabili nell’avvento delle prime banche dati negli anni ’70, dei personal computer negli anni ’80, dei sistemi di web service e della posta elettronica negli anni ’90 e dei recenti sistemi di datawarehouse36, di knowledge management37 e di cloud computing38 adottati sempre più anche nelle organizzazioni pub-bliche.

Dall’altro lato, l’attenzione è posta sull’applicazione delle nuove tecno-logie a tutte le strutture e le organizzazioni di front office della PA, ossia tutte le attività amministrative che sviluppano interazioni con i cittadini e le imprese e con gli altri enti pubblici. In quest’area le nuove tecnologie sem-brano raggiungere risultati più evidenti, dal momento che non solo vengono impiegate per aumentare lo scambio di informazioni con il pubblico e per una più efficace erogazione di servizi on line, ma anche per favorire l’integrazione tra le diverse amministrazioni pubbliche allo scopo di au-mentarne l’efficienza, l’efficacia e l’economicità.

La definizione di Holmes, ad ogni modo, pur sottolineando l'importanza di un'attività di erogazione del servizio che sia più attenta ai bisogni del cit-tadino (customer oriented), rimanda comunque ad una visione piuttosto “tecnologica” dell'e-government, che si concretizza essenzialmente nell'en-fatizzazione di tutti i processi di digitalizzazione delle procedure della Pub-blica Amministrazione.

36 Il sistema di datawarehouse è un “magazzino dati” che contiene l’informazione estrat-ta da altri sistemi dell’azienda che viene così resa disponibile agli utenti aziendali. Si tratta di una sorta di banca dati di secondo livello, per la cui costruzione non è necessario disatti-vare o ricostruire le banche dati esistenti, ma semplicemente interconnetterle in modo tale che le informazioni possano essere prelevate, “normalizzate” secondo criteri condivisi e rese disponibili attraverso una struttura in grado di integrarle.

37 Il knowledge management – naturale complemento del datawarehouse – si fonda sulla concezione per cui l’efficienza aziendale è direttamente proporzionale alla quantità di cono-scenza a disposizione e concerne nell’attività di creazione, organizzazione e diffusione di conoscenza, con il supporto delle tecnologie, allo scopo di migliorare i processi lavorativi e decisionali dell’azienda stessa.

38 Per cloud computing si intende un insieme di tecnologie che permettono di archiviare dati, informazioni e software in luoghi remoti rispetto al luogo della produzione e/o utilizza-zione, e di fruirne poi mediante l’interrogazione di questi stessi archivi attraverso computer (o tablets o phone) distribuiti e connessi al cloud provider tramite un internet browser. I van-taggi di questa soluzione tecnologica, soprattutto per le amministrazioni pubbliche, sono rappresentati dalla riduzione dei costi per le ICT nonché dalla flessibilizzazione e dall’integrazione dei differenti sistemi informatici (www.digitpa.gov.it). Le perplessità, in-vece, riguardano il corretto trattamento dei dati personali attraverso l’utilizzo di questi servi-zi virtuali (Garante per la protezione dei dati personali, 2011).

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I cambiamenti indotti dalle nuove tecnologie invece assumono una du-plice veste in quanto sono allo stesso tempo i risultati del processo di inno-vazione, ma anche i presupposti per l’evoluzione del sistema amministrati-vo. Costituiscono quindi sia le fasi realizzative di un vasto processo di in-novazione avente l’obiettivo di migliorare il governo generale della cosa pubblica, sia le condizioni per la nascita di un “circolo virtuoso” in cui l’amministrazione pubblica innovando se stessa e il proprio modo di opera-re diventa attore propulsivo del cambiamento.

Per quanto sia comunemente condivisa l’idea che il fenomeno e-government sia un processo di trasformazione della struttura organizzativa del settore pubblico, attraverso il quale migliorare i rapporti tra cittadino, impresa e amministrazione pubblica, tuttavia come affermano D. Stedman Jones e B. Crowe (2001, p. 11 e sgg.) «simply automating existing services is not enough: they and the organisational structures which surround then must be transformed if the full potential of Ict is to be realised. (…) most e-government initiatives have focused on increasing efficiency and on cus-tomer responsiveness. (…) e-government is seen as essential to aid busi-ness in their interaction with the state».

Non basta quindi realizzare una mera innovazione tecnologica, ma è ne-cessario un mutamento delle modalità di azione pubblica che si concretizzi nella riformulazione dei processi organizzativi, nello sviluppo delle risorse umane, nell’adeguamento normativo, nella semplificazione delle procedure amministrative e nel riassetto delle autonomie locali nei confronti del si-stema centrale. Le parole-chiave dell’innovazione tecnologica, pertanto, se-condo questi autori descrivono una nuova relazionalità tra amministrazione cittadini: maggiore accountability da parte degli attori pubblici, e forme di cittadinanza più mature da parte degli utenti.

Nonostante il dibattito scientifico si stesse già confrontando sulla neces-

sità di non limitare l’impiego delle Ict alla semplice informatizzazione delle procedure, questa etichetta – e quindi la definizione di e-government come informatizzazione dei processi amministrativi – ben descrive l’esperienza italiana precedente al 2000, quando l’intento degli attori istituzionali re-sponsabili del processo (in particolare il Dipartimento della Funzione Pub-blica e l’Autorità per l’Informatica nella Pubblica Amministrazione) era principalmente quello di favorire una diffusione dell’utilizzo delle Ict nella macchina organizzativa interna della pubblica amministrazione.

In questo caso, riprendendo la distinzione proposta da United Nation-ASPA in uno studio di benchmarking sulle esperienze internazionali di egovernment (2002, p. 54) l’etichetta più efficace è quella di “e-administration” unitamente a quella di e-government. Le due definizioni si

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distinguono perché la prima fa riferimento all’uso delle Ict nelle dinamiche intraorganizzative dell’amministrazione, mentre la seconda valorizza l’uso delle nuove tecnologie per migliorare i processi di erogazione dei servizi ai cittadini e alle imprese.

Gli interventi normativi che a diverso titolo hanno segnato il percorso dell’ammodernamento tecnologico della PA in Italia negli anni Novanta, infatti, erano orientati ad ottenere un miglioramento dell’efficienza dei go-verni e a garantire la trasparenza dell’azione pubblica. Il fatto che l’innovazione tecnologica fosse strumentale a quella amministrativa è di-mostrato non solo dalla tendenza a prevedere misure per l’utilizzo delle Ict all’interno di testi legislativi non specificamente dedicati alla materia, ma anche dall’attribuzione di competenze in materia al Dipartimento della Funzione Pubblica. Ad eccezione del decreto legislativo n. 39/1993 esplici-tamente dedicato a “Norme in materia di sistemi informativi automatizzati delle amministrazioni pubbliche”, infatti, tutte le altre iniziative di innova-zione tecnologica sono contenute in articoli di testi legislativi dedicati a processi di riforma amministrativa più ampi. La validità legale della firma digitale, ad esempio, viene sancita nella legge sulla semplificazione del 199739, così come l’idea della carta d’identità elettronica emerge per la prima volta nella legge Bassanini bis (n. 127/1997). Anche per quanto ri-guarda l’individuazione degli attori di policy più rilevanti occorre guardare al quadro più ampio della riforma amministrativa: prima del 2000, i proces-si di informatizzazione sono promossi dal Dipartimento della Funzione Pubblica, evidenziando la precisa volontà di rendere l’innovazione tecnolo-gica funzionale al miglioramento della macchina amministrativa e al cam-biamento organizzativo (Zuccarini, 2007).

È con la XIV legislatura che cambia l’assetto istituzionale della policy e ne vengono ridefiniti gli obiettivi, arrivando alla formulazione di una poli-tica pubblica che è più vicina alla definizione di “e-government” elaborata dall’OECD40. Con l’insediamento del Governo Berlusconi nel 2001, infatti, si comincia a parlare in maniera diffusa di e-government e si sposta l’asse dell’innovazione dagli assetti organizzativi della PA alle modalità di eroga-zione dei servizi ai cittadini e alle imprese. In realtà, il Piano di azione per l’e-government attuato dal governo Berlusconi era stato varato dal prece-dente Governo Amato nel 200041, ma la notorietà dello stesso è legata al soggetto politico che ne ha curato l’implementazione: il Ministero per

39 È la prima legge Bassanini, la legge n. 59/1997 “Delega al Governo per il conferimen-to di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministra-zione e per la semplificazione amministrativa”.

40 Organisation for Economic Co-operation and Development (http://www.oecd.org). 41 Approvato con D.P.M. del 25 gennaio 2001.

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l’Innovazione e le Tecnologie, nuovo attore istituzionale al quale vengono affidate molte delle deleghe precedentemente appartenute alla Funzione Pubblica42 e ad altri Ministeri responsabili dei processi di introduzione delle nuove tecnologie nei diversi settori di intervento pubblico (Miani, 2005; Zuccarini, 2007).

Le politiche di e-government adottate in Italia successivamente al Piano di azione del 2000 si sono articolate in cinque macroaree – i servizi on line per cittadini ed imprese, l’efficienza interna, la valorizzazione delle risorse umane, la trasparenza e la qualità – e si sono concretizzate nella pubblica-zione di due avvisi pubblici sull’e-government. Il primo, nell’ottobre del 2001, si rivolgeva a Regioni ed enti locali per concorrere a realizzare servi-zi di governo elettronico e infrastrutture tecnologiche regionali o territoria-li. Il secondo, nel novembre del 2003, rispondeva all’obiettivo del governo di sviluppare servizi infrastrutturali locali43, di estendere i servizi prioritari ai cittadini e alle imprese, di abbattere il digital divide e realizzare forme di partecipazione elettronica ai processi decisionali pubblici (e-democracy). Come afferma la Zuccarini (2007, p. 25) «sono azioni che si muovono in un quadro di coinvolgimento del cittadino nel processo di governance, in linea con le indicazioni europee».

Le strategie italiane per l’e-government infatti, come le altre iniziative di riforma amministrativa, hanno origine non solo nella consapevolezza di deficit di legittimità delle amministrazioni, ma soprattutto nella diffusione di iniziative di successo in altri contesti nazionali. In particolare, spinte de-cisive sono venute dall’esperienza statunitense, che ha sviluppato le politi-che di governo elettronico nell’ambito del più ampio processo di Reinven-ting Government degli anni Novanta e con un’attenzione particolare alla dimensione dell’empowerment del cittadino e del dipendente pubblico, per favorirne la partecipazione (Calise e De Rosa, 2003). Ancora più rilevanti tuttavia, considerato l’assetto istituzionale multilevel del nostro ordinamen-

42 Questa decisione, secondo M. Zuccarini (2007, p. 18) «se formalmente intendeva evi-

denziare una maggiore attenzione all’innovazione, non solo della pubblica amministrazione, di fatto ha posto su due binari separati la riforma della pubblica amministrazione e l’innovazione tecnologica, facendo perdere coerenza e uniformità all’intero processo di in-novazione iniziato negli anni addietro.»

43 È in questo periodo (2005) che il progetto della RUPA (Rete Unitaria della Pubblica amministrazione), nato nel 1995 per superare il problema della frammentazione delle reti della pubblica amministrazione, soprattutto centrale, e per garantirne l’interoperabilità, viene assorbito nell’ambito del più ampio progetto del Sistema Pubblico di Connettività e coope-razione (SPC). Questo si sostanzia non solo in un insieme di infrastrutture tecnologiche, ma anche in regole tecniche con lo scopo di “federare” le infrastrutture ICT delle pubbliche amministrazioni, per consentire la realizzazione di servizi integrati mediante regole e servizi condivisi (www.digitpa.gov.it).

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to, sono state le posizioni assunte dalle istituzioni europee in materia. La strategia dell’Unione si differenzia da quella americana per una decisa lotta alle posizioni di oligopolio e alle concentrazioni tecnologiche, a favore in-vece di misure in grado di recuperare i diversi livelli di sviluppo e di utiliz-zo delle Ict tra le singole Regioni dell’Unione, e questo obiettivo è larga-mente ribadito in tutta la normativa di settore.

Il riferimento alla documentazione prodotta da queste istituzioni sovra-nazionali è utile non solo per ricostruire il contesto in cui ha operato la po-licy community italiana dell’e-government, ma anche per individuare una più esaustiva definizione del processo stesso. La Commissione Europea, ad esempio, nel documento “eEurope 2002: An Information Society for All” (del 2000) aveva sottolineato le potenzialità inclusive delle nuove tecnolo-gie, affermando che l’obiettivo del programma eEurope era quello di rea-lizzare entro il 2010 in Europa l’economia basata sulla conoscenza più di-namica e competitiva del mondo. Questo obiettivo di programma ha dovuto misurarsi con successivi, e non previsti, mutamenti economici e sociali che hanno interessato i Paesi europei e che in parte hanno ritardato, in parte an-nullato, il raggiungimento degli obiettivi fissati in questo documento. Le proposte di integrazione, modifica e cancellazione delle linee di azione ori-ginarie, riportate nei documenti successivi, pertanto descrive l’evoluzione diacronica di questa policy, in funzione delle diverse variabili esogene che sono intervenute nel corso di questo decennio.

Due erano le strategie individuate per il raggiungimento degli obiettivi del Piano eEurope 2002: il sostegno e la promozione dell’innovazione (at-traverso la diffusione della banda larga e delle modalità di erogazione on line dei servizi pubblici) e l’inclusione di tutti i cittadini nella Società dell’Informazione (Amoretti, 2004; Amoretti e Musella, 2007). I titoli dei documenti europei prodotti successivamente ribadiscono questa strategia di inclusione e di centralità del cittadino: il libro verde “Living and working in the Information Society-People First” nel 1996, il volume “Strategies for Jobs in the Information Society” nel 2000, l’iniziativa “Sanità in rete: mi-gliorare la sanità e l'assistenza sanitaria attraverso le tecnologie informati-che e telematiche” nel 2004, e poi, nell’ambito dell’iniziativa i2010, il pia-no di azione “Invecchiare bene nella società dell'informazione”44.

44 La strategia europea per la Società dell’Informazione è stata declinata nei seguenti

documenti ufficiali dell’Unione: il Piano di azione eEurope – una Società dell’Informazione per tutti (1999); eEurope 2002 – Impatto e priorità (2001); eEurope 2005 - una Società dell’Informazione per tutti (2002); il quadro strategico i2010 – Una società europea dell’informazione per la crescita e l’occupazione (2005), che si presentava come una politi-ca integrata volta ad incoraggiare la conoscenza e l’innovazione per sostenere la crescita, nonché la creazione di posti di lavoro più numerosi e di migliore qualità; l’iniziativa

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Anche l’OECD in un proprio documento (2001) ribadisce l’importanza di questa dimensione inclusiva dei processi di governo elettronico, sottoli-neando che l’egovernment non si esaurisce solamente nell’uso delle Ict per raggiungere un “better government” ma è volto soprattutto a favorire un maggior coinvolgimento del cittadino nei processi di decision making (e-democracy): «a relationship based on partnership with government in which citizens actively engage in defining the process and content of poli-cy-making. It acknowledges equal standing for citizens in setting agenda, proposing policy options and shapinh the policy dialogue – although re-sponsibility for the final decision or policy formulation rests with govern-ment» (OECD, 2001, p. 23)

In un rapporto di ricerca successivo (2003) l’OECD utilizzerà addirittu-ra un termine nuovo per definire questo processo in modo più completo – “e-governance” – con l’obiettivo di includere in questa etichetta tutte le ac-cezioni finora illustrate (e-administration, e-government, e-democracy).

Il termine e-governance fa principalmente riferimento ai processi di ri-

forma delle istituzioni pubbliche che attraverso l’impiego delle nuove tec-nologie – sia nei processi organizzativi interni sia in riferimento alle rela-zioni tra amministrazioni e cittadini e imprese – mirano al miglioramento del funzionamento della macchina amministrativa, all’erogazione di servizi più efficaci e ad una più diffusa partecipazione dei cittadini ai processi de-cisionali. Può quindi essere utile considerare i diversi livelli di interazione resi possibili dalle Ict nel rapporto tra amministrazioni e cittadini. In parti-colare, in questo caso si fa riferimento alle interazioni che avvengono nel front-office, solitamente in corrispondenza delle attività di pubblicazione delle informazioni e di erogazione dei servizi on line.

Come ricostruisce Hala Al-Khatib della Business School-Brunel Uni-versity (2009) esistono diverse tipologizzazioni dei livelli di interazione possibili tra amministrazione e cittadino attraverso l’impiego delle Ict: al-cune sono formulate da istituzioni internazionali e istituti di ricerca oppure società di consulenza, altre invece da studiosi del settore. Il Gartner Group, ad esempio, in una survey del 2001 distingue tra web presence, interaction, transaction e transformation. La descrizione di questi livelli è molto vicina a quella proposta dall’OECD in uno studio del 2003, “The e-government imperative”, anche se le etichette assegnate ai diversi livelli differiscono tra le due proposte. L’OECD individua 4 livelli di sviluppo dei servizi on line: - la pubblicazione on line di informazioni relative a servizi che continua-

Un’agenda digitale europea (2010) che insieme ad altre sei iniziative costituisce la strategia Europa 2020, a sostegno dell'occupazione, della produttività e della coesione sociale in Eu-ropa (http://europa.eu/legislation_summaries/information_society/strategies/index_it.htm).

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no tuttavia ad essere erogati in modalità tradizionali (information); - la disponibilità on line di tools per la consultazione personalizzata

dell’informazione resa disponibile dall’amministrazione (interactive in-formation);

- la possibilità per l’utente di scambiare informazioni con l’amministrazione ed effettuare transazioni in modalità sicure (transac-tion);

- la possibilità per l’amministrazione di scambiare con altre istituzioni i dati e le informazioni fornite dall’utente, dietro suo assenso, con l’obiettivo, ad esempio, di fornire servizi on line personalizzati (data sharing). Tra i modelli proposti in lavori di ricerca accademici, interessante è il fi-

ve-stage model di F. Moon (2002) che opera una sintesi tra il modello di Layne e Lee45 e il modello di Hiller and Bélanger46. Questo modello si arti-cola in cinque livelli, che rappresentano 5 diverse fasi di sviluppo del mo-dello di interazione tra PA e cittadino attraverso le nuove tecnologie: - Simple information dissemination (one-way communication); - Two-way communication (request and response); - Service and financial transaction; - Vertical and horizontal integration; - Political participation,

La successione proposta non solo descrive gli stadi di sviluppo dei ser-vizi on line che si fondano su una stretta integrazione dei sistemi informati-vi (sia tra i diversi livelli amministrativi che tra questi e sistemi informativi esterni alla pa), ma riesce anche ad includere in questo processo di innova-zione tecnologica l’impiego delle Ict per promuovere pratiche inclusive del-la popolazione nei processi decisionali pubblici (political partecipation). Tuttavia, poiché Moon esemplifica quest’ultima fase con l’e-voting e la partecipazione a survey on line, Hala Al-Khatib ritiene indispensabile ap-portare una modifica alle etichette delle fasi scelte da Moon e sostituisce “political partecipation” con “e-democracy”, nell’intento di includere in questa fase tanto la “political participation”, quanto l’opportunità di «citi-

45 Il modello di Layne e Lee (in Al-Khatib, 2009) si articola in 4 livelli: catalogue, transaction, vertical integration, horizontal integration. In particolare questi ultime due fasi fanno riferimento, rispettivamente, ad un’integrazione delle funzioni tra i diversi livelli am-ministrativi e ad un’integrazione di funzioni tra sistema amministrativo e altri sistemi socia-li.

46 Il modello di Hiller e Bélanger (in Al-Khatib, 2009), invece, si articola in 5 fasi: in-formation, two-way communication, transaction, integration, partecipation. Introduce, per-tanto, una fase dedicata ad un maggiore coinvolgimento dei cittadini ai processi decisionali pubblici attraverso le Ict.

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zen involvement, and politics transparencies» (ibidem 2009, p. 9). Disporre di una scala per classificare i livelli di sviluppo dei servizi on

line è fondamentale nei processi di benchmarking finalizzati a rilevare lo stato di avanzamento dei diversi governi o delle diverse istituzioni nell’impiego delle Ict per migliorare l’erogazione dei servizi on line e le opportunità di partecipazione dei cittadini alla sfera pubblica. In una di-mensione comparativa va rilevato che per quanto in termini di promozione di iniziative per l’affermazione della Società dell’Informazione l’Italia sembra essere al passo con gli altri partner europei, la lettura dei risultati di ricerche sullo stato di sviluppo dei servizi di e-government nei Paesi occi-dentali invece pongono l’Italia costantemente in una posizione al di sotto della media complessiva.

Nel 2002, ad esempio, lo studio dell’United Nation-ASPA collocava l’Italia decisamente in coda ai maggiori Paesi del mondo secondo l’indice di “e-gov enviroment”, un indice sintetico costruito per valutare la capacità dei governi nazionali di lanciare, sostenere e perfezionare un effettivo piano di e-government: l’Italia si attestava al 19° posto in una graduatoria di 36 Paesi, dietro i maggiori Paesi europei (Norvegia, Gran Bretagna, Olanda, Danimarca, Germania, Svezia, Belgio, Finlandia, Francia e Spagna). Ricer-che dello stesso periodo condotte dalla società di consulenza Accenture (in Regonini, 2002), pur lavorando con indicatori diversi, descrivono un qua-dro analogo di lento sviluppo dei servizi di e-government. In una scala di progressione che va dalla pubblicazione on line delle informazioni, all’attivazione di servizi interattivi alla possibilità di realizzare vere e pro-prie transazioni on line, secondo i dati Accenture, l’Italia nella prima metà del 2000 pubblica on line solo il 30% dei servizi e, peraltro, si ferma a mo-dalità che esprimono una bassa maturità del sistema di e-government, dal momento che prevalgono esperienze di mera pubblicazione di informazioni on line.

Secondo G. Regonini (2002) questo ritardo è riconducibile a due cause principali: da un lato un’arretratezza storica dell’amministrazione italiana legata alle rigidità tipiche del modello amministrativo weberiano; dall’altro un limitato sviluppo delle nuove tecnologie, tale per cui è difficile pensare ad un adeguato sviluppo dell’egovernment quando lo stesso livello di diffu-sione dell’uso di Internet nelle famiglie italiane è tra i più bassi d’Europa.

La Regonini individua poi un terzo fattore d’arretratezza dello sviluppo delle politiche di egovernment in Italia: un inadeguato uso delle competen-ze professionali utilizzate nel processo di sviluppo dell’egovernment. L’Italia infatti, contrariamente ad altri Paesi “pionieri” in questa policy qua-li gli USA, ha privilegiato in modo quasi monopolistico il ricorso a compe-tenze di tipo ingegneristico e giuridico. Ha sottovalutato invece l’apporto di

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competenze sociologiche, politologiche e organizzativo-gestionali in grado di far fronte a quegli aspetti tipici del funzionamento dell’amministrazione che non hanno a che fare con le procedure ma con i processi, quali la co-struzione di una vision, la negoziazione delle pratiche informali, la gestione della complessità organizzativa.

Come sottolineano M. Calise e R. De Rosa (2003), uno dei punti di for-za dell’esperienza americana lanciata da Clinton nel 1993 infatti è stato proprio la creazione di una vision orientata a fare degli Stati Uniti un Paese modernizzato nei processi di gestione della PA e quindi più aperto anche alla partecipazione e al controllo democratico, da realizzarsi attraverso ini-ziative che ruotavano intorno a tre parole chiave: downsizing (degli appara-ti amministrativi), partnership (con il privato) e empowerment (del cittadi-no).

Se si scende ad un livello sub-nazionale della rete di governance del processo, si rileva che questi ritardi sono ancora più accentuati nelle ammi-nistrazioni di piccole e medie dimensioni. Eppure proprio su questo livello amministrativo si basa l’articolazione del modello nazionale di e-government proposto dal Governo italiano nel Piano di azione del 2000: una rete di strutture di back office (costituite essenzialmente dalle ammini-strazioni centrali) e strutture di front office (rappresentate dalle amministra-zioni locali). Mentre le amministrazioni centrali hanno il compito di creare portali informativi e portali per l’erogazione dei servizi, le regioni general-mente devono ricoprire ruoli di coordinamento, ad esempio per facilitare l’interconnessione e l’interoperabilità delle diverse reti amministrative che si indirizzano alla popolazione; i comuni invece sono i veri e propri sportel-li dell’e-government, perché sono chiamati a realizzare i punti di accesso per l’erogazione dei servizi integrati (ad es. integrazione delle anagrafi, in-terscambio catastale, ecc.)

A rafforzare questo modello nel 2003 è stato pubblicato dalla Commis-sione permanente per l’Innovazione e le Tecnologie47 il documento “L’e-gov per un federalismo efficiente: una visione condivisa Stato Regioni e autonomie locali (2003-2005)”, con l’obiettivo di elaborare una visione del-lo sviluppo dell’e-government in grado di porsi come un punto di riferi-mento generale delle successive iniziative di collaborazione tra comuni, province, regioni e amministrazioni centrali finalizzate ad individuare stan-dard operativi comuni e architetture di sistema condivise.

Il modello proposto, pur riproponendo in chiave tecnologica l’insieme dei valori che definiscono il principio di sussidiarietà, poteva presentare elementi di criticità se non adeguatamente gestito (Vignati, 2002). Questo

47 Costituita tra i Presidenti delle regioni ed il Ministro per l’Innovazione e le tecnologie

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modello infatti, anche in conseguenza del processo di decentramento am-ministrativo avviato dalle leggi Bassanini nella seconda metà degli anni Novanta e poi completato con la riforma del Titolo V della Costituzione nel 2001, rafforza la naturale vocazione delle amministrazioni locali ad essere sportello di riferimento del cittadino, fino addirittura ad incarnare quel one stop shop promosso dall’UE teso a semplificare le relazioni tra amministra-zione e cittadini, grazie all’integrazione delle basi di dati pubbliche e alla certificazione dei meccanismi di autenticazione.

Tuttavia, come hanno dimostrato studi condotti tanto negli Stati Uniti (Ho 2002) quanto in Italia (Censis-Rur, 2000; DigitPA, 2010), le ammini-strazioni locali possono incontrare significative difficoltà nella realizzazio-ne di questo modello, soprattutto se si tratta di amministrazioni di piccole dimensioni. Il segnale più evidente della difficoltà delle istituzioni locali a comprendere e sviluppare le potenzialità delle nuove tecnologie per miglio-rare le relazioni con i cittadini-utenti è costituito dalle modalità di organiz-zazione on line dell’informazione seguite dagli enti stessi. Questi infatti possono organizzare il proprio sito web secondo un bureaucratic paradigm oppure secondo un e-government paradigm48 (Ho, 2002, p. 437). In genere, i dati hanno dimostrato che amministrazioni con scarse risorse economiche o professionali propendono verso il primo modello, realizzando quindi un sito web di non facile fruizione per gli utenti finali. E anche quando le am-ministrazioni hanno cercato di ovviare a queste criticità mettendo in campo reti di relazioni cooperative per realizzare economie di scala nell’implementazione operativa dei progetti di e-government (Ho, 2002), comunque questa soluzione non ha messo al riparo dal rischio di un’eccessiva tecnologizzazione dei servizi on line. Come rilevato in studi analoghi condotti sul caso inglese (Pratchett, 1999), infatti, spesso tali reti tendevano a privilegiare quasi esclusivamente l’uso delle Ict nella fornitura di servizi e trascuravano le potenzialità di queste tecnologie nella promo-zione di processi di inclusione dei cittadini nel policy making locale.

Riprendendo la tipologia di modelli di interazione tra cittadini e Stato proposta da Chadwick e May (2003), possiamo affermare che nella prima metà del decennio scorso il modello di egovernment più diffuso è proprio

48 Secondo Ho (2002) nella gestione dei servizi pubblici on line il bureaucratic para-digm è espressione di un sistema di management top-down e di modelli comunicativi gerar-chici, mentre l’e-government paradigm è adottato da sistemi organizzativi nei quali sono diffusi i teamworks, i network collaborativi e flussi comunicativi multidirezionali. Nella rea-lizzazione dei siti web, di conseguenza, le amministrazioni che adottano il bureaucratic pa-radigm organizzano le informazioni e i servizi on line secondo una logica administration-oriented, quelle amministrazioni invece che scelgono l’e-government paradigm sono portare a riorganizzare l’informazione e le modalità di erogazione dei servizi on line seguendo il punto di vista e gli interessi dei diversi users groups (user oriented).

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quello “manageriale”, in cui l’enfasi maggiore è posta sulla qualità del flus-so informativo dall’amministrazione al cittadino. Poco sviluppati invece appaiono tanto il consultative model che il partecipatory model (più inno-vativo)49.

In Italia, per superare queste criticità e ritardi nel 2005 è stato approvato il Codice dell’Amministrazione Digitale50 teso a garantire validità giuridica ai principi d’azione già menzionati nel Piano di e-government del 2000. Il testo si articola in un livello tecnico, nel quale vengono descritti i requisiti fondamentali delle nuove tecnologie al servizio dell’amministrazione51, e un livello più ‘filosofico-giuridico’ (Grandi, 2009) in cui si sanciscono i di-ritti dei cittadini nei confronti di un’amministrazione digitale. Viene stabili-to che le amministrazioni debbano servirsi nelle nuove tecnologie per lo scambio dei dati con le altre amministrazioni, per regolare le modalità di accesso ai servizi da parte dei cittadini (carta di identità elettronica e carta nazionale dei servizi), per i servizi di posta (elettronica), per trasferire i fondi, per conservare documenti, scritture contabili e altri atti amministrati-vi. Viene poi sancito il diritto dei cittadini e delle imprese di comunicare e scambiare informazioni e documenti con la PA in formato elettronico, di trovare on line informazioni e moduli aggiornati, di partecipare ai processi decisionali attraverso la Ict.

Il Codice raccoglie e sistematizza la normativa già esistente in tema di utilizzo di tecnologie informatiche nell’azione amministrativa tuttavia, ben-ché sia stato da più parti indicato come “la Magna Charta” (Belisario, 2009) o anche la “nuova costituzione” del mondo digitale (Buccoliero, 2009, p. 240; Zuccarini, 2007), non ha avuto immediata applicazione. Nonostante due Direttive pubblicate nel 200552 per facilitarne l’attuazione, nel 2008

49 Mentre il Managerial Model tende a valorizzare l’impiego delle Ict per migliorare

l’efficienza dei servizi pubblici in termini di velocità e riduzione dei costi, il Consultative Model invece punta sulle nuove tecnologie come una risorsa per raccogliere le opzioni dei cittadini relativamente ad specifiche questioni di rilevanza generale, in modo da «provide ‘better’ policy and administration» (Chadwick and May, 2003, p. 278). Il Participatory Mo-del, infine, sottolinea la possibilità delle Ict di sviluppare flussi comunicativi orizzontali e anche multidirezionali, partendo dal presupposto che le amministrazioni non sono sovraor-dinate alla cittadinanza, ma sono un attore tra altri attori – istituzionali, associativi, ecc. – che compongono la società civile e che hanno pari dignità nei processi di policy making.

50 Decreto legislativo n. 82 del 7 marzo 2005. 51 Il Codice sancisce il valore legale di strumenti informatici quali la firma digitale, la

posta elettronica certificata, i documenti informatici, i siti Internet della PA, le carte elettro-niche per il riconoscimento digitale.

52 Direttiva della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per l’innovazione e le tecnologie del 27 luglio 2005, Qualità dei servizi on line e misurazione della soddisfa-zione degli utenti.

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con l’insediamento del quarto Governo Berlusconi si è sentito il bisogno di dare un chiaro segnale di ripresa al programma per la digitalizzazione della pa. È stato presentato, quindi, il Piano e-gov 2012 (ideale prosecuzione di quello lanciato nel 2005 sempre dal Governo Berlusconi) che ha aperto la terza fase dell’e-government in Italia, e sono stati avviati i lavori per una revisione del Codice dell’amministrazione digitale. L’efficacia del testo del 2005, infatti, era limitata dalla precisazione che esso di applica a tutte le amministrazioni nel rispetto della loro autonomia organizzativa e, poiché le Regioni e le autonomie locali hanno piena autonomia organizzativa secon-do la Costituzione, è stato inevitabile che queste abbiano risposto alle indi-cazioni del Codice con piena discrezionalità. In più, la scarsa efficacia del Codice era dovuta anche alla mancata indicazione di strumenti sanzionatori nei confronti nelle amministrazioni che avessero disatteso le indicazioni della norma e, quindi, non avessero garantito i nuovi diritti digitali ricono-sciuti ai cittadini. È con la legge n. 69 del 18 giugno 200953 che si prevedo-no termini più stringenti per l’adeguamento da parte delle amministrazioni e sanzioni più efficaci per le amministrazioni inadempienti.

La politica dell’e-government, per quanto promossa con la stessa inten-sità da entrambi gli schieramenti politici che si sono succeduti al governo – si è parlato a tal proposito di politica bipartisan (Musella, 2007) così come di politica catch-all-policy (De Rosa, 2007) – e per quanto sia stata capace di mobilitare consistenti quantità di risorse economiche54, ha spesso regi-strato forti deficit di implementazione, anche nella prima metà degli anni Duemila, tanto da essere inclusa nella categoria delle cosiddette “politiche simboliche” (Edelman, 1985; Musella, 2007). La distanza tra i proclami dei programmi e le azioni concrete di attuazione può essere spiegata in parte con l’eterogeneità della realtà amministrativa italiana, caratterizzata da una notevole differenziazione in termini di possibilità di accesso alle nuove tec-nologie (digital divide)55, in parte con l’ancora ampiamente diffusa cultura gerarchico-burocratica delle istituzioni pubbliche.

In relazione al primo aspetto problematico, infatti, non si può trascurare il diverso sviluppo delle tecnologie informatiche sul territorio nazionale

Direttiva della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per l’innovazione e

le tecnologie 18 novembre 2005, Linee guida per la Pubblica amministrazione digitale. 53 Legge 18 giugno 2009, n. 69, recante “Disposizioni per lo sviluppo economico, la

semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile”. 54 Basti pensare al finanziamento complessivo previsto per la I fase dell’e-government

(120 milioni di euro) nel 2001 e per la II fase dell’e-government (200 milioni di euro) nel 2004.

55 In un rapporto del 2004 l’UNPAN sottolinea che «The issue of a digital divide is es-sentially one of a disparity in real access which is inequality in both physical access to ICTs and the ability, know-how and the culture to use the technology well.» (UNPAN 2004, p. 8).

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(divario infrastrutturale) nonché le differenze riscontrabili nelle diverse fa-sce della popolazione in relazione alle conoscenze e alle abilità d’uso delle Ict (divario culturale e sociale) (Forum PA 2010). In preparazione dell’attuale piano E-gov 201256, ad esempio, è stato rilevato (dati al 2007) che in Italia solo il 17% delle famiglie usa Internet, contro una media euro-pea del 32%, e che particolarmente bassa era anche la connessione alla banda larga: fruita dal 25% delle famiglie (le percentuali si abbassavano nella fascia d’età 65-74 anni, in cui si registrava un 5% di cittadini che ac-cede ad Internet tramite broadband). I dati della sezione ‘Cittadini e nuove tecnologie’ dell’indagine multiscopo condotta dall’ISTAT (2010a) annual-mente sugli aspetti della vita quotidiana degli italiani mostrano i progressi compiuti nel nostro Paese57, anche se resta forte il divario rispetto agli altri Paesi europei58: a febbraio 2010 l’Italia si attesta al ventesimo posto in rela-zione all’accesso ad internet da casa (il 59% delle famiglie italiane con al-meno un componente in età compresa tra i 16 e i 64 anni, a fronte di una media europea del 70%) e rispetto alla disponibilità della banda larga (dif-fusa nel 49% delle famiglie, contro un 61% di media europea)59. Soffer-mandoci sulle finalità di utilizzo di Internet, e quindi riflettendo sulle abilità d’uso del mezzo (divide culturale e sociale) emerge che il fine principale è lo scambio di email (78,5%) mentre è contenuta la percentuale di coloro che ricorrono alla rete per cercare informazioni su merci e servizi (62,8%). Questa modesta capacità di sfruttare le potenzialità di Internet è confermata anche dalla risposta alla domanda sul perché non si possiede un collega-mento ad Internet: perché mancano le capacità di utilizzarlo (40,8% di co-loro che dichiarano di non avere l’accesso ad Internet).

Prendendo in considerazione, poi, le abitudini d’uso degli utenti esperti, i dati ISTAT (2010a) evidenziano che solo il 38% usa il web per ottenere informazioni dalla PA, il 27,5% naviga i siti pubblici per scaricare moduli ed un restante 13,4% lo fa per compilare on line ed inviare moduli alla PA.

56 Cfr. documento “Perché il piano e-gov 2012”,

http://www.governo.it/governoinforma/dossier/piano_e_gov_2012/ 57 Rispetto al 2009, l’accesso ad Internet delle famiglie cresce dal 47,3% al 52,4%, così

come cresce il numero di nuclei familiari che dispone di una connessione a banda larga: dal 34,5% al 43,4% (ISTAT, 2010a).

58 Per i dati a livello europeo si faccia riferimento al sito OECD Broadband Portal (http://www.oecd.org/sti/ict/broadband) e alla sezione Information Society del sito Eurostat (http://epp.eurostat.ec.europa.eu/portal/page/portal/information_society/introduction).

59 Secondo il Rapporto e-Gov Italia 2010 del DigitPA, solo l’8,4% della popolazione italiana è in condizione di digital divide, con un netto miglioramento rispetto al 2009 (13%). Non si può fare a meno, tuttavia, di sottolineare una forte differenziazione territoriale di questo dato: percentuali preoccupanti si registrano in Molise (35% circa), in Basilicata (oltre il 20%), in Veneto e in Umbria (17%).

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Questo comportamento permette di approfondire il secondo fattore di criti-cità che determina il basso livello di implementazione delle politiche di e-government in Italia: la cultura gerarchico-burocratica delle istituzioni pub-bliche. Sulla base dei dati ISTAT infatti possiamo sostenere che se le am-ministrazioni, per prime, non rendono disponibili servizi on line di qualità e con un elevato livello di interazione, i cittadini non possono maturare un senso di fiducia nelle soluzioni informatiche e sono portati, quindi, a non esprimere una maggiore domanda di servizi on line che potrebbe essere a sua volta una spinta per l’innovazione tecnologica dell’apparato pubblico.

L’Italia invece, come abbiamo già argomentato, ha preferito optare per una mera informatizzazione dei suoi apparati amministrativi, senza cogliere le potenzialità democratiche delle nuove tecnologie. Ad esempio, una ricer-ca ISTAT su amministrazioni locali e nuove tecnologie (2010b) rileva co-me, nel 2009, l’89,8% delle amministrazioni con sito web ha erogato on li-ne informazioni ai cittadini, il 67,8% ha reso disponibile modulistica scari-cabile e il 15,6% ha attivato anche funzioni di invio on line della modulisti-ca compilata. Solo il 7,6% delle amministrazioni locali presentava un sito web nel quale era possibile realizzare on line l’intero iter connesso ad uno specifico servizio (nelle Regioni questo dato sale al 59,1%).

La scelta di favorire processi di digitalizzazione, invece che di riorga-nizzazione complessiva dei processi e dei modelli relazionali tra la PA e l’ambiente esterno, è espressione della logica organizzativa tradizionale delle amministrazioni italiane: «pur investendo sul digitale, si sono rifiutate di aderire in maniera sincera e convinta a quei principi di interattività, aper-tura e condivisione che restano il principale valore aggiunto delle reti» (Zarro, 2008, p. 75).

In particolare, secondo P. Lévy (2006) il processo di transizione dal modello amministrativo burovratico algoverno elettronico deve essere ac-compagnato da una riduzione dei livelli gerarchici, da una decompartimen-talizzazione dei dipartimenti, da una maggiore trasparenza e dialogo nelle relazioni con i cittadini e da un coinvolgimento del cittadino nel processo di erogazione del servizio. In altre parole, a parere dello studioso (ibidem, p. 13), occorre favorire una «transizione dalla politica del potere alla politica della potenza» (intesa come empowerment della società) non solo per af-fermare il modello di e-government, ma soprattutto per contribuire all’affermazione di una cittadinanza più matura che si esprime, in epoca di media digitali, nelle forme della ciberdemocrazia.

La cultura politica italiana, però, anche in occasione della revisione del Codice dell’amministrazione digitale ha dimostrato di non aver ancora compreso le potenzialità delle nuove tecnologie. Mentre è stata prevista un’immediata vigenza per le norme che determinano un risparmio (come

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nel caso della riduzione del ricorso al formato cartaceo dei documenti pub-blici), non altrettanto cogenti sono le norme che promuovono una maggiore qualità dei servizi erogati on line (Belisario 2009). Ancora una volta, la PA ha dimostrato di interpretare le nuove tecnologie in chiave prettamente or-ganizzativa e administration-oriented.