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1.1 – La Chimica analitica

La Chimica analitica è la disciplina scientifica che sviluppa e applica metodi, strumenti e strategie per

ottenere informazioni sulla composizione e sulla natura chimica della materia. Comprende molte

conoscenze interdisciplinari: chimica, chimica-fisica, fisica, elettronica, statistica, biologia e biochimica,

tossicologia, informatica, ecc.

E’ quindi un supporto fondamentale di tutte le branche della Chimica nel campo della ricerca, della sintesi e del

controllo di produzione. Ovviamente è di fondamentale importanza in moltissimi altri campi, in quanto tutte le

sostanze esistenti e anche quelle relative alla vita, sono alla fine di natura chimica. Quindi le applicazioni dei

concetti e dei metodi della chimica analitica sono richiesti ad esempio in:

- controllo della produzione industriale (processi di produzione)

- controllo di qualità (materie prime, intermedi, prodotti finali)

- controllo merceologico e degli alimenti (chimica alimentare)

- controllo della salute (chimica clinica)

- controllo e conoscenza dell’ambiente (chimica ambientale)

- controllo delle produzioni agricole (chimica agraria)

- controllo della tossicità (chimica tossicologica)

- controllo delle proprietà, caratteristiche e meccanismo di azione dei farmaci (chimica farmaceutica)

- controllo e conservazione dei beni culturali (chimica del restauro)

- medicina legale (chimica forense e sportiva)

In tutti questi campi ed in molti altri ancora la Chimica analitica può fornire risposte a varie domande, come

ad esempio:

- Qual è la gradazione alcolica di un campione di vino’

- Quanto colesterolo è contenuto in un campione di sangue?

- Quali metalli, oltre al ferro, sono contenuti in un campione di acciaio?

- Una partita di spaghetti è stata preparata utilizzando grano duro (come prescrive la legge) o usando grano

tenero?

- Qual’è il contenuto medio di SO2 nell’aria di Torino nel mese di dicembre?

- Un gioiello venduto con la dicitura “oro a 18 carati” contiene effettivamente il 75% di oro?

- Qual è il contenuto di ioni Na+ in un campione di acqua minerale?

- Quanto N, P e K sono contenuti in un fertilizzante?

- Un campione di olio d’oliva ha i requisiti per essere venduto come “extra-vergine”?

- Qual è il rapporto Pb/Sn in una lega per saldature?

- Un preparato insetticida contiene DDT?

- Un campione di latte è stato annacquato?

- Un telo di lino, considerato una importante reliquia, risale al I o al XIV secolo d.C.?

- Un campione di zucchero, venduto come “zucchero di canna”, è effettivamente tale o è zucchero di

barbabietola?

- Da quali minerali è costituito il suolo di Marte?

- Il contenuto di “cloro libero” dell’acqua di una piscina è a norma di legge?

- Un dipinto del Quattrocento è stato effettivamente dipinto con pigmenti disponibili all’epoca e quindi è

autentico?

- Quanta diossina è presente nei fumi prodotti da un inceneritore?

- Qual è il tasso alcolico dell’alito di un automobilista?

- Qual è la concentrazione di ozono presente al di sopra del Polo Antartico?

Questo elenco comprende domande alle quali è possibile rispondere, direttamente o indirettamente, mediante una

analisi chimica. Si tratta di argomenti molto diversi, che interessano il commercio, i beni culturali, la salute,

l’alimentazione, l’ambiente, ecc. Si stima che il “giro di affari” che interessa le problematiche analitiche sia

annualmente nel modo pari a 1.000 miliardi di euro!

1.1.1 – Classificazione dei metodi analitici

Parte fondamentale della Chimica analitica è il processo analitico, che comprende le diverse fasi del lavoro

analitico e quindi anche l’analisi chimica vera e propria. Un’analisi chimica può avere due scopi:

- analisi qualitativa: viene di solito eseguita per prima su una sostanza o una miscela di sostanze totalmente

incognita ed ha lo scopo di determinare quali elementi e/o sostanze siano presenti in una miscela. Lo scopo è

fornire risposte ai seguenti quesiti:

- cos’è la sostanza esaminata?

- cosa contiene?

- ecc.

- analisi quantitativa: viene ovviamente eseguita dopo l’analisi qualitativa ed ha lo scopo di determinare le

quantità delle specie chimiche presenti. Lo scopo è fornire risposte ai seguenti quesiti:

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- quanta sostanza X contiene?

- che composizione ha?

- in che limiti contiene le sostanze X ed Y?

- ecc.

Questi due tipi di analisi possono essere eseguiti in vari modi:

- metodi classici: qualitativa semimicro, gravimetria, volumetria (titolazioni)

- metodi strumentale: ottici, elettrochimici, cromatografici

Per es. l’analisi qualitativa di un campione può essere fatta in modo classico col metodo semimicroqualitativo

dei gruppi per la determinazione di elementi inorganici; una volta individuate le sostanze presenti, si possono

dosare quantitativamente per es. mediante titolazione, precipitazione, ecc.

L’analisi chimica strumentale persegue gli stessi obiettivi ma utilizza delle tecniche strumentali, cioè degli

apparecchi opportunamente progettati che, sfruttando fenomeni ottici, elettrochimici e cromatografici

consentono di realizzare in modo di solito rapido e riproducibile moltissimi tipi di analisi sia qualitativa che

quantitativa.

Tuttavia l’uso corretto uno strumento (di solito la parte finale dell’analisi!) richiede tutte quelle conoscenze di

base relative alla chimica analitica classica (pesata, stechiometria, diluizioni, titolazione, preparazione e

standardizzazione di una soluzione, ecc.). Infatti nella maggior parte dei casi le difficoltà che insorgono in una

analisi non sono di natura strumentale ma nascono dalle operazioni più opportune necessarie per mettere il

campione nelle condizioni adatte per la misura strumentale.

Le sofisticate tecniche analitiche oggi disponibili sono il risultato di una lunga evoluzione degli strumenti

scientifici e tecnologici:

- inizialmente (fine XVII° secolo – inizi XVIII° secolo) le prime analisi erano di tipo gravimetrico: il

componente da determinare veniva isolato mediante precipitazione selettiva e determinato mediante pesata

mentre a livello qualitativo si sfruttavano reazioni che producevano colori caratteristici.

- in seguito venne introdotta l’analisi volumetrica, che sfrutta la titolazione, cioè la reazione selettiva tra un

titolante e la sostanza da determinare: dalla misura del volume di titolante impiegato si risale alla

concentrazione del campione

- dalla seconda metà del XVIII° secolo sono stati introdotti i metodi strumentali, prima quelli spettroscopici,

poi quelli elettrochimici ed infine i metodi cromatografici

- nell’ultimo decennio l’interfacciamento con PC sempre più veloci e potenti ha consentito un ulteriore grande

progresso delle tecniche analitiche migliorando ed automatizzando anche l’uso di apparecchiature molto

complesse

Nella Chimica analitica è importante utilizzare un linguaggio specifico, in particolare si definiscono:

- campione: porzione di materia sottoposta al processo analitico

- analita: sostanza o sostanze che si vogliono determinare qualitativamente/quantitativamente nel campione

- matrice: tutto il resto del campione ad eccezione dell’analita

- interferenze: sostanze che possono essere presenti nella matrice e che possono disturbare l’analisi

L’esecuzione di una analisi presuppone la scelta di un metodo analitico. Nella scelta del metodo analitico,

compito esclusivo del chimico analista, è fondamentale tener presente alcuni fattori tra cui:

- lo scopo dell’analisi

- la concentrazione dell’analita e la sua quantità assoluta presente nel campione

- la quantità di campione a disposizione

Ad esempio non è la stessa cosa determinare il Ca in un campione di acqua minerale una sola volta, oppure

determinare giornalmente il Ca in 100 campioni di sangue o infine il Ca in un formaggio dove è presente insieme

ad alte concentrazioni di grassi e proteine, che costituiscono delle interferenze. L’analita (il Ca) è sempre lo

stesso ma sono molto diversi i contesti in cui deve essere determinato.

Il metodo analitico utilizzato deve essere scelto anche a seconda del tipo di sostanza da analizzare, come indicato

nel seguente schema riassuntivo:

Ioni inorganici (cationi e anioni) Gravimetria

Volumetria (metodi di precipitazione)

Volumetria (metodi redox)

Potenziometria

Spettrofotometria UV-VIS

Voltammetria/polarografia

Cromatografia ionica

Elettroforesi

Ioni inorganici (soprattutto cationi) Volumetria

Elettrogravimetria

Voltammetria/polarografia

Emissione atomica

Elementi metallici Assorbimento atomico

Emissione al plasma

Acidi e basi Volumetria (metodi di neutralizzazione)

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Sostanze organiche Spettrofotometria UV-VIS

Spettrofotometria IR

HPLC

Sostanze volatili,/volatilizzabili Gascromatografia

Gas-massa

Sostanze otticamente attive Polarimetria/spettropolarimetria

I metodi analitici si possono suddividere anche secondo un altro criterio:

- metodi chimici: sono di solito distruttivi (cioè distruggono il campione e non permettono la sua successiva

utilizzazione in altre analisi) e utilizzano reazioni chimiche:

- titolazioni (volumetria): acido-base, redox, di complessazione, di precipitazione

- sviluppo di gas

distribuzione tra fasi

- cromatografia

- metodi chimico-fisici: possono essere o no distruttivi ed utilizzare o no reazioni chimiche:

- elettrochimici: voltammetria/polarografia, elettrogravimetria, potenziometrica, conduttimetria,

amperometria

- cromatografici

- spettrometrici di massa

- termogravimetrici

- metodi fisici: misurano direttamente alcune proprietà del campione, in modo non distruttivo e senza

reazioni chimiche:

- misura della densità, della costante dielettrica, della viscosità, della polarizzazione, della durezza

1.1.2 – Fasi del lavoro analitico

Il campo di applicazione della Chimica analitica è immenso ed in continua evoluzione, tuttavia un’analisi

chimica, dalla più semplice alla più complessa, presuppone la risoluzione di un problema analitico e quindi una

accurata progettazione e realizzazione di seguenti passaggi:

L’esecuzione pratica di una analisi chimica è pertanto sempre un processo a stadi che utilizza il seguente

schema:

- documentazione:

- definizione del problema analitico

- ricerca di informazione: ricerca bibliografica (letteratura chimica: libri, riviste specializzate,

pubblicazioni, ecc.) o tramite Internet

- definizione della metodica analitica: definizione ed approvvigionamento dei reagenti, definizione della

strumentazione necessaria e suo eventuale approvvigionamento, verifica delle effettuabilità della

metodica analitica (prove su standard), archiviazione della documentazione

- procedimento di campionatura (campionamento): prelievo di una parte significativa del campione. Deve

essere fatto secondo metodologie opportune e standardizzate perché “la parte deve rappresentare il

tutto”. In questa fase la progettazione e l’esecuzione dell’analisi prevedono:

- definizione del numero di campioni

- definizione del protocollo di campionatura (piano di campionamento) e preparazione del materiale

necessario

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- campionamento vero e proprio: prevede la riduzione progressiva del materiale o della sostanza da

analizzare fino ad ottenere il campione per analisi, sul quale si effettueranno le analisi vere e proprie:

Il lotto iniziale (qualche kg o decina di kg)

viene successivamente ridotto ed

omogeneizzato, cercando di mantenere la sua

rappresentatività, nel campione primario,

secondario, di laboratorio (qualche g o decina

di g) che viene poi trasformato nel campione

per analisi, cioè nel campione che viene

effettivamente sottoposto all’analisi chimica

- identificazione (marcatura) dei campioni

- conservazione ed eventuale trasporto dei campioni

- pretrattamento: il campione di solito deve essere trasformato in una forma adatta all’analisi (macinazione,

omogeneizzazione, eliminazione dell’umidità, ecc.) Talvolta sono necessarie delle separazioni cioè

eliminare le sostanza estranee che potrebbero interferire sui risultati dell’analisi (distillazione, estrazione,

cristallizzazione frazionata, ecc.); se la separazione non è possibile si possono “mascherare” le interferenze

mediante reazioni chimiche specifiche

- scelta ed esecuzione del processo analitico: è l’analisi vera e propria, che deve essere condotta con la

procedura analitica (metodica + strumento) opportuna, scelta in relazione al problema analitico ed a fattori

come la precisione, velocità, accuratezza, costo, possibilità di automazione, ecc.

- misura: è lo stadio più veloce e consiste nell’analisi del campione all’apparecchio utilizzato; la misura è

significativa solo se gli stadi precedenti si sono svolti in modo corretto. Presuppone: la preparazione dei

reattivi necessari, la calibrazione dell’apparecchio con la preparazione di eventuali standard e riferimenti,

l’effettuazione della misura vera e propria

- elaborazione, valutazione e presentazione dei dati: si utilizzano i metodi statistici applicati alla analisi

chimica, eventualmente con l’uso di strumenti software (ad es. Excel). Si effettuano calcoli di vario genere,

si prendono decisioni sulla validità dei risultati ottenuti, si procede alla stesura e presentazione dei risultati

ed alla loro archiviazione

- produzione del referto analitico: si procede alla stesura del referto analitico che deve comprendere i risultati

ottenuti e la loro valutazione nella forma più opportuna (numerica, grafica, multimediale, ecc.). Si tratta cioè

di un documento nel quale sono contenute le risposte al problema analitico; quindi un laboratorio chimico

non è altro che un sistema che riceve in ingresso i campioni da esaminare, che costituiscono i problemi

analitici e produce in uscita i corrispondenti referti analitici come risposta ai problemi analitici in ingresso.

Un buon chimico analista deve possedere un adeguata grado di autonomia nei confronti di un problema analitico,

poiché questo è un aspetto rilevante della sua professionalità: di fronte ad un “problema analitico”, cioè ad una

precisa richiesta di analisi, l’analista dovrebbe saper scegliere la tecnica analitica più adatta e dovrebbe essere in

grado di presentare e valutare criticamente i risultati ottenuti. E’ molto importante che l’analista non si limiti a

eseguire meccanicamente una ricetta ma si abitui al “problem solving” cioè alla risoluzione autonoma dei

problemi, utilizzando tutte le sue conoscenze del settore chimico.

1.2 - Richiami sul calcolo stechiometrico

Uno dei problemi più comuni nella pratica di laboratorio è la preparazione di soluzioni e la determinazione del

loro titolo: ciò comporta l’esecuzione di calcoli stechiometrici (per inciso “stechiometria” deriva dal greco e

significa “misura della quantità”).

Una soluzione è una miscela omogenea di un solvente (di solito liquido) e di uno o più soluti (solidi, liquidi o

gassosi); la quantità di soluto disciolta può essere indicata attraverso la concentrazione della soluzione

utilizzando diverse unità di misura:

- concentrazione percentuale: può essere espressa in due modi diversi:

percento in peso (p/p): quantità in g di soluto presente in 100 g di soluzione (è utile quando il soluto è un

solido)

percento in volume(v/v): volume di soluto in ml contenuto in 100 ml di soluzione (è utile quando il soluto è un

liquido)

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percento peso/volume (p/v): peso di soluto in g contenuto in 100 ml di soluzione

La densità (d) è la massa dell’unità di volume: mentre il peso specifico (ps) è il peso dell’unità di

volume: Coincidono come numero. Ad esempio una soluzione di H2SO4 al 70% ha densità pari a

1,60 g/ml: significa che 1 ml di tale soluzione ha una massa di 1,60 g (gmassa) ma anche che 1 ml pesa

1,60 g (gpeso) e questo dato permette di effettuare alcuni calcoli stechiometrici

- parti per milione (ppm): viene utilizzata per concentrazioni molto piccole e sono analoghe alle parti per cento:

Le ppm corrispondono ai mg/l (infatti 1 litro di soluzione con densità 1 g/ml pesa 103 g cioè 10

6 mg)

- molarità: numero di moli di soluto presenti in 1 litro di soluzione. La mole è un modo molto comune in

Chimica di misurare le quantità, perché le reazioni prevedono la combinazione di molecole ovvero di moli

secondo quantità definite (i coefficienti di reazione) e quindi ragionare in termini di moli significa far

riferimento nei calcoli ai coefficienti di una reazione che si sta studiando. Si ricordi che 1 mole rappresenta la

quantità di materia che contiene un numero di Avogadro (6,02·1023

) di unità elementari (atomi, molecole, ecc.).

- molalità: numero di moli di soluto contenute in 1000 g di solvente. Poiché la molarità dipende dal volume,

dipende anche dalla temperatura; ciò non si verifica con la molalità; non è molto usata e compare in alcuni

calcoli relativi alla pressione osmotica

- normalità: numero di equivalenti di soluto presenti in 1 litro di soluzione. Il concetto di equivalente è simile a

quello di mole ma ha un vantaggio: in una reazione chimica, le moli che reagiscono dipendono dai coefficienti

di reazione, mentre reagiscono sempre lo stesso numero di equivalenti, che sono quindi indipendenti dai

coefficienti della reazione; ciò spiega perché la N è molto usata per definire il titolo delle soluzioni e per i

calcoli stechiometrici in genere

per un acido

per una base

per un sale

per ox/rid

Si ha quindi che dove x è il valore indicato in precedenza. Pertanto:

cioè la normalità è sempre un multiplo della molarità e ciò permette di passare rapidamente da una all’altra.

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1.3 - Richiami sull’analisi volumetrica

1.3.1 - La titolazione (volumetria)

Una delle attività di laboratorio più comuni è l’analisi volumetrica: una sostanza viene dosata quantitativamente

mediante una titolazione, cioè la misura del volume della quantità di reattivo (soluzione titolante, a titolo, cioè a

concentrazione nota) necessaria per una reazione stechiometrica con la sostanza da dosare (analita).

Il punto in cui la reazione è completa è detto punto equivalente, la reazione tra analita e titolante è detta

titolazione. Il punto equivalente è il punto teorico di fine titolazione: al punto equivalente gli equivalenti di

titolante sono sempre uguali agli equivalenti di analita mentre ciò non si può dire per le moli, che dipendono dai

coefficienti di reazione. Il punto finale è invece quello pratico, cioè quello in cui l’operatore valuta che la

titolazione sia terminata; la differenza tra il punto equivalente e quello finale rappresenta l’errore di titolazione

e deve essere ovviamente il minimo possibile.

Dalla misura del volume di titolante corrispondente al punto finale mediante una semplice ma precisa buretta

(errore sul volume letto pari a 0,1-0,5%), attraverso semplici calcoli stechiometrici, è possibile risalire alla

concentrazione incognita.

Questa tecnica presuppone la preparazione di una soluzione standard cioè a titolo noto. Il titolo è la

concentrazione della soluzione standard espressa come N o M. Per fare ciò di solito si prepara una soluzione a

titolo approssimativo, per pesata, e quindi si verifica esattamente la concentrazione mediante standardizzazione,

cioè titolazione di una quantità opportunamente calcolata ed esattamente pesata da uno standard primario solido

oppure di un volume di una soluzione a titolo già noto. Dopo aver eseguito alcune prove si potrà avere il titolo

effettivo della soluzione iniziale facendo la media dei risultati ottenuti, dopo aver eliminato eventuali valori

anomali mediante l’uso di adatti test statistici.

Esistono numerosi metodi volumetrici: tutti determinano la formazione di composti chimici molto stabili (poco

solubili o, se solubili, poco dissociati) o una variazione del numero di ossidazione. I più importanti sono:

- metodi di neutralizzazione: titolazioni acido-base nelle loro diverse varianti, con formazione di acqua poco

dissociata

- metodi di precipitazione: si ha la formazione di un composto poco solubile; per es. nell’argentometria si

dosano gli alogeni mediante una soluzione standard di AgNO3 con precipitazione dell’alogenuro di argento

corrispondente (AgCl per i cloruri, ecc.)

- metodi di complessazione: mediante reattivi chelanti (per es. l’EDTA) si formano complessi molto stabili

con vari ioni metallici

- metodi redox: sono basati sul trasferimento di elettroni tra un ossidante ed un riducente; ne è un esempio la

permanganatometria.

Ovviamente le titolazioni possono essere seguite per via strumentale, ma deve però essere chiara l’importanza di

una solida e corretta impostazione di base nella pratica elementare di laboratorio (preparare soluzioni,

standardizzarle, ecc.) anche nell’ambito di una applicazione prevalentemente strumentale della tecnica analitica.

Non tutte le reazioni possono essere sfruttate in una titolazione, ma solo quelle che soddisfano particolari

requisiti. I requisiti richiesti per un dosaggio volumetrico sono i seguenti:

- elevata velocità di reazione: l’equilibrio tra le specie deve essere raggiunto rapidamente

- stechiometria della reazione: il suo decorso deve essere praticamente completo con coefficienti noti

- completezza della reazione: deve avere una elevata costante di equilibrio

- netta variazione di una qualche proprietà della soluzione in corrispondenza del punto equivalente (pH,

potenziale elettrochimico, ecc.)

- disponibilità di un adatto sistema indicatore in grado di rilevare la variazione predetta

- assenza di specie interferenti con quella da dosare, che potrebbero pure reagire col titolante

1.3.2 - Gli indicatori

La rilevazione del punto equivalente/finale di una titolazione può essere fatta con:

- metodi chimico-fisici: si utilizzano le tecniche strumentali

- metodi chimici: si utilizzano gli indicatori.

Gli indicatori sono sostanze, generalmente organiche, che manifestano una netta variazione cromatica al punto

equivalente; solo raramente il titolante può fare da autoindicatore (come per es. il KMnO4)

Esistono vari tipi di indicatori:

- acido-base: sono acidi o basi deboli organiche con forma dissociata ed indissociata di colori diversi (o

incolori); per un determinato intervallo di pH, tipico di ogni indicatore, si ha il viraggio perché prevale

nettamente l’una o l’altra forma. Ad esempio:

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Fenolftaleina: è un acido debole con 2 gruppi fenolici acidi

- intervallo di viraggio: 8,0-9,8

- forma acida: incolore

- forma basica: violetta

L’indicatore viene scelto in modo che la curva di titolazione attraversi nettamente il campo di viraggio

dell’indicatore: in questo modo il viraggio è pressoché istantaneo e permette di rilevare con precisione il

punto finale della titolazione.

F: fenolftaleina – intervallo pH di viraggio 8,0 – 9,9

RM: rosso metile – intervallo pH di viraggio 4,2 – 6,2

MA: metilarancio – intervallo pH di viraggio 3,1 – 4,4

Nel caso della titolazione acido forte - base forte il pH corrispondente al punto equivalente è pari a 7, quindi

l’indicatore migliore è il RM, ma dato che la curva di titolazione presenta una nettissima variazione di pH

che taglia tutti tre i campi di viraggio in modo quasi verticale, anche l’uso della F e del MA è corretto e non

introduce particolari errori.

Nel caso della titolazione acido debole – base forte, la curva è asimmetrica e la pendenza è meno accentuata

nel tratto iniziale (zona tampone); il punto equivalente si trova nel campo basico, a causa dell’idrolisi del

sale formato durante la titolazione. Pertanto l’unico campo di viraggio che viene tagliato nettamente è quello

della F che infatti è l’unico indicatore adatto. L’uso del RM e del MA introdurrebbe errori crescenti, in

quanto il viraggio non sarebbe netto ma richiederebbe l’aggiunta di un volume non trascurabile di titolante

- di precipitazione: sono sostanze che permettono l’individuazione del punto finale in una titolazione di

precipitazione. Possono essere:

- specie ioniche reagiscono con lo stesso reattivo precipitante usato per l’analita, ma solo dopo che

l’analita è stato completamente consumato, dando luogo ad una netta variazione di colore. Ad esempio

nel dosaggio dei Cl- con il metodo di Mohr, il campione viene titolato con AgNO3 a titolo noto in

presenza di K2CrO4: inizialmente si ha la precipitazione di AgCl (che ha il minor prodotto di solubilità)

mentre al punto finale inizia la precipitazione di A2CrO4 rosso mattone, che segnala il termine della

titolazione

- indicatori di adsorbimento: sono sostanze organiche, in genere fluorescenti (fluoresceina, eosina) che

hanno la proprietà di subire modifiche strutturali con conseguente variazione di colore, quando vengono

adsorbite sulle particelle di precipitato per adsorbimento secondario. Ad esempio vengono utilizzate

nell’argentometria col metodo di Fajans

- metallocromici: vengono utilizzati nelle titolazioni di complessazione. Si tratta di acidi poliprotici simili

all’EDTA, in grado di formare complessi chelati e con la caratteristica che, ad un determinato pH, la forma

libera dell’indicatore ha un colore diverso rispetto alla forma complessata. Ad esempio durante la titolazione

del Ca2+

con EDTA si usa il NET (Nero Eriocromo T) che si complessa inizialmente con il Ca: durante la

titolazione l’EDTA, che forma complessi con il Ca molto più stabili, sottrae progressivamente il Ca al NET;

al punto finale prevale la forma non complessata del NET che presente un colore nettamente diverso e

quindi segnala il termine della titolazione

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NET: è un acido poliprotico chelante in quanto possiede 2

gruppi acidi OH in grado di dare legami salini e 2 atomi di

N con i relativi doppietti elettronici in grado di dare legami

di coordinazione

- forma complessata: rosso

- forma libera: blu

- di ossidoriduzione (redox): sono sostanze sensibili alla variazione di potenziale elettrochimico che si ha

durante una titolazione redox; in questo caso le forme ridotta ed ossidata dell’indicatore hanno un diverso

colore ed il viraggio si ha quando si raggiunge un determinato potenziale.

Il punto della titolazione in cui l’indicatore cambia colore è detto punto di viraggio e segnala il punto finale

della titolazione; il punto equivalente teorico è invece quello in cui la reazione di titolazione è completa

stechiometricamente; a causa degli errori che caratterizzano tutte le misure, i due valori non coincidono e la loro

differenza è detta errore di titolazione, che dovrà essere il minimo possibile.

1.4 - Metodi di analisi quantitativa strumentale

1.4.1 - Metodi analitici

L’analisi chimica è un processo in cui non viene analizzato tutto il materiale a disposizione ma solo dei

campioni, che devono quindi avere una loro rappresentatività, cioè devono avere caratteristiche chimiche e

fisiche il più possibile vicine a quelle di tutto il materiale; per tale motivo i campioni devono essere realizzati

mediante opportune tecniche di campionamento che variano a seconda dei casi, che spesso sono previste in

normative di legge e che sono particolarmente importanti in campioni eterogenei.

Quindi i risultati dell’analisi sono in realtà delle stime affidabili dei valori veri delle grandezze chimiche

misurate perché i valori veri on possono essere conosciuti a causa degli errori che si commettono inevitabilmente

durante le misure. Si può quindi affermare che il risultato di un’analisi chimica è una informazione costituita

da:

- un numero

- una incertezza

- una unità di misura

Ad esempio una serie di analisi di un vino per determinare il contenuto di SO2 disciolta ha fornito il seguente

valore medio: 15,3 ± 0,8 mg/l

- 15,3 è il risultato numerico, media di una serie di determinazioni analitiche

- ± 0,8 è l’incertezza della serie di misure

- mg/l è l’unità di misura

Una tale espressione del risultato ottenuto permette una corretta valutazione del risultato stesso e del grado di

precisione ed accuratezza riscontrato nelle analisi effettuate. Infatti anche intuitivamente il confronto tra i

seguenti risultati:

- risultato A: 15,3 ± 0,8 mg/l

- risultato B: 15,3 ± 1,8 mg/l

induce a valutare come risultato più affidabile il risultato A anche se il valore medio è lo stesso in entrambi i

casi, in quanto presenta una minore incertezza e quindi probabilmente più preciso e vicino al valore vero.

Ciò premesso, i metodi analitici utilizzati possono essere suddivisi in:

- assoluti: permettono di ricavare direttamente il dato senza dover eseguire operazioni di calibrazione. Tali

metodi comportano una reazione chimica con equilibrio completamente spostato a destra. I metodi assoluti

sono relativamente pochi: metodi gravimetrici, volumetrici, elettrogravimetrici, coulombometrici. In tali

metodi la quantificazione dell’analita si ottiene in modo diretto attraverso la misura di una quantità fisica

(massa di un precipitato, volume del titolante, quantità di elettricità, ecc.). Ad esempio in una titolazione la

risposta strumentale (la lettura di un volume di titolante su di una buretta) può essere convertita direttamente

nel risultato analitico mediante semplici calcoli stechiometrici

- comparativi (o relativi): richiedono una calibrazione preliminare dell’apparecchio utilizzato mediante

soluzioni standard. In genere la maggior parte dei metodi strumentali è di tipo comparativo cioè il valore

letto sullo strumento non è direttamente trasformabile nel valore cercato, di solito la concentrazione

dell’analita. Nei metodi comparativi viene misurata una proprietà fisica (es. assorbimento o emissione di

luce, conducibilità, corrente) o chimica (ossidabilità o riducibilità) che dipende dalla natura (analisi

qualitativa) e dalla concentrazione (analisi quantitativa) dell’analita. I metodi comparativi si basano su una

relazione matematica, detta funzione di calibrazione, tra il parametro misurato (risposta o segnale fornito

dall’apparecchio utilizzato nella misura) e la concentrazione dell’analita. In questo caso la quantificazione

dell’analita si ottiene per confronto con uno o più riferimenti (calibrazione con standard), tramite la

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produzione di un grafico, in genere una retta, detta retta di calibrazione (o di taratura o di lavoro) costruita

precedentemente all’analisi vera e propria e che può avere validità per più analisi successive dello stesso

analita.

I metodi di analisi applicabili alle tecniche strumentali sono molto numerosi ma si possono riassumere nei tre tipi

seguenti:

1) titolazioni, in cui il punto finale viene individuato non mediante un indicatore ma attraverso una serie di

misure strumentali. Questi metodi hanno il vantaggio di essere oggettivi, mentre la valutazione del

viraggio di un indicatore è soggettivo e possono essere applicati anche a soluzioni colorate. Esistono

diverse varianti del metodo, tra cui principalmente:

a. titolazioni conduttimetriche

b. titolazioni potenziometriche

2) calibrazione mediante retta di taratura costruita con standard esterni al campione che vengono analizzati

separatamente

3) calibrazione mediante aggiunta singola o multipla di standard interni addizionati al campione ed

analizzati insieme a quest’ultimo. Anche in questo caso si ottiene una retta di taratura

1.4.2 - Soluzioni standard

In qualsiasi metodo analitico è necessario preparare una o più soluzioni di riferimento, dette soluzioni standard

o semplicemente standard, contenenti l’analita a concentrazione nota. Gli standard possono essere primari o

secondari.

Uno standard primario deve avere i seguenti requisiti:

- deve avere un grado di purezza superiore al 99,5%

- deve essere stabile, così come la sue soluzioni

- non deve essere igroscopica (cioè assorbire acqua), deliquescente (sciogliersi nell’acqua assorbita come

umidità) o efflorescente (dare cristallizzazione in presenza di umidità)

- non deve subire cambiamenti fisici o chimici quando viene essiccata

- deve essere solubile in acqua o negli acidi o nelle basi più comuni

- deve avere la minima tossicità possibile e deve essere smaltibile facilmente dopo l’uso

- deve essere facile da pesare, maneggiare e reperire

- non deve essere eccessivamente costosa

- deve avere una massa molare elevata per assicurare una pesata più accurata

- se si tratta di una standard primario per titolazioni volumetriche deve avere una stechiometria di reazione

ben definita

Solo le pochissime sostanze che possiedono tutti questi requisiti; alcuni esempi: Na2CO3, ftalato acido di

potassio (KHP), K2Cr2O7

Una soluzione a titolo noto di standard primario può essere preparata direttamente per pesata, con le seguenti

avvertenze:

- usare una bilancia analitica, con una precisione di 0,1 mg o migliore

- per la pesata usare un recipiente pulito ed il più possibile leggero per ridurre gli errori di pesata

- solubilizzare direttamente nel matraccio tarato di classe A in cui si porterà a volume se la sostanza è solubile

in acqua; se bisogna solubilizzare in acidi o basi utilizzare un becher e quindi, dopo completa

solubilizzazione, travasare quantitativamente nel matraccio tarato

- portare a volume con la massima precisione ed attenzione, inizialmente con una spruzzetta e, se è il caso,

addizionare gli ultimi volumi con un contagocce

- è inutile cercare di pesare esattamente la quantità necessaria di standard primario; è fondamentale invece

pesare accuratamente una quantità circa simile e poi calcolare il titolo esatto della soluzione ottenuta; ciò

rende più rapida e sicura la pesata

- la soluzione prodotta deve essere conservata in recipienti adatti (vetro chiaro o scuro, polietilene, ecc.)

preventivamente condizionati cioè sciacquati con piccole quantità di soluzione standard per eliminare le

tracce di acqua di lavaggio che, se non allontanate, altererebbero il titolo

- prelevare la soluzione per l’uso con pipette tarate o burette accuratamente pulite e condizionate; evitare di

prelevare direttamente dal recipiente che conserva tutta la soluzione, per evitare contaminazioni: versare una

piccola quantità in un becher pulito e quindi procedere al prelievo

- riportare su un’etichetta da applicare al recipiente di conservazione della soluzione: formula, concentrazione

di tutti i componenti, data di preparazione, eventuale scadenza, nome di chi ha preparato la soluzione

- le soluzioni standard si possono preparare anche utilizzando fiale acquistate a titolo noto da diluire

Le sostanze che non possono essere considerate standard primari sono dette standard secondari: le loro

soluzioni preparate per pesata sono a titolo approssimativo e devono essere standardizzate con una soluzione di

standard primario. La pesata richiede una bilancia tecnica e per il prelievo di liquidi è sufficiente una pipetta

graduata o addirittura un cilindro.

A questo proposito si rammenta che l’errore commesso nella valutazione dei volumi varia a seconda dello

strumento utilizzato; indicativamente:

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- buretta o matraccio tarato: errore 0,1-0,5%

- pipetta tarata o graduata: errore 0,5-1%

- cilindro graduato: errore 1-5%

- becker graduato: errore 5-10%

E’ evidente che ogni operazione di lettura del volume richiederà lo strumento più adatto. Per esempio se è

necessario preparare una soluzione di HCl 1,5 M da utilizzare come reattivo in una metodica analitico e non

come reattivo titolante in una volumetria, il prelievo di HCl concentrato potrà essere effettuato con una pipetta o

un cilindro e la sua diluizione anche in un becker. La preparazione di HCl 0,1000 M da utilizzare come titolante

richiederà l’uso di matracci e burette per la diluizione e la standardizzazione.

1.4.3 - Soluzioni standard concentrate e diluite

Di solito per le analisi strumentali sono necessarie soluzioni standard molto diluite, che non possono essere

preparate direttamente per pesata perché si dovrebbero pesare quantità molto piccole, vicine al limite di

sensibilità della bilancia analitica, commettendo errori rilevanti. Pertanto durante il processo analitico, in genere,

si prepara inizialmente per pesata una soluzione di standard primario a concentrazione elevata, in modo da

pesare quantità apprezzabili e quindi ridurre l’errore di pesata. Questa soluzione è detta soluzione standard

concentrata (S.S.C.), ovvero soluzione madre.

In seguito si procede a una o più diluizioni, prelevando accuratamente con una buretta precedentemente lavata e

normalizzata volumi calcolati di S.S.C. e portando a volume in matraccio tarato. In tal modo si ottiene la

soluzione standard diluita (S.S.D.)

Infine, si preparano gli standard di lavoro, cioè le soluzioni a diversa concentrazione che vengono utilizzate per

costruire la retta di lavoro, prelevando accuratamente con una buretta volumi calcolati di S.S.D. e portando a

volume in altrettanti matracci tarati. In questo modo si possono preparare soluzioni standard molto diluite senza

commettere errori apprezzabili durante la loro preparazione. Ovviamente l’intera procedura va eseguita con la

massima precisione e accuratezza, perché costruire una retta di lavoro errata significa compromettere i risultati

delle successive analisi.

1.4.4 - Retta di lavoro

Nelle analisi chimiche strumentali, di solito, la risposta fornita dallo strumento deve essere convertita nel

risultato analitico. Uno dei metodi più usati in moltissime tecniche strumentali è la retta di lavoro, un grafico

costruito sperimentalmente per un determinato analita prima di iniziare l’analisi vera e propria del campione.

Uno strumento analitico è un sistema che reagendo a determinate sollecitazioni in ingresso produce una risposta,

che di solito è la misura di una qualche grandezza fisica.

La sollecitazione in ingresso è di solito la variazione della variabile chimica che si vuole misurare (per es. la

concentrazione), indicata genericamente con x. La risposta dello strumento, che dipende dal principio di

funzionamento e che può essere comunicata all’esterno in forma analogica o digitale, viene indicata con y.

In ogni procedura analitica esiste una relazione y = f(x) che lega univocamente le due grandezze e la cui

rappresentazione grafica cartesiana è detta curva di lavoro (o di calibrazione o di taratura): rappresenta la legge

fisica o chimica che descrive la procedura analitica.

Per comodità di lavoro, di solito, si lavora in condizioni tali che la curva di taratura si riduce a una retta, appunto

la retta di lavoro, espressa da una relazione del tipo y = b1∙x + b0 dove:

- b1 è il coefficiente angolare cioè la pendenza della retta, pari alla tangente dell’angolo α

- b0 l’intercetta (o termine noto) della retta cioè l’intersezione con l’asse verticale

Per determinare questa relazione e quindi tracciare la retta di lavoro, che consentirà in seguito la determinazione

quantitativa dell’analita, si utilizzano uno o più standard di lavoro (a concentrazione x nota), leggendo allo

strumento il valore della grandezza y e quindi riportando i punti su di un diagramma cartesiano.

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Tenendo conto che gli errori casuali producono

un’incertezza nella posizione dei punti, si utilizzano

più standard di lavoro (non meno di 3) sui quali viene

misurata una determinata grandezza dall’apparecchio

utilizzato, producendo altrettanti segnali analitici.

Queste due serie di valori vengono riportati in grafico

ed i punti si dispongono secondo una retta, anche se

non sono perfettamente rettilinei per via degli errori

casuali.

La retta di lavoro viene tracciata mediante regressione,

cercando cioè con metodi matematici, la relazione di

dipendenza più probabile statisticamente, che meglio

approssima i punti sperimentali

Ogni retta di lavoro è caratterizzata dal proprio limite di linearità, che viene determinato sperimentalmente (e di

solito è indicato nelle metodiche analitiche disponibili). A concentrazioni elevate, superiori al limite di linearità,

l’andamento non è più lineare ma devia; pertanto la retta deve essere costruita utilizzando standard di

concentrazione opportuna, compresi all’interno di tale intervallo, per evitare errori di misura. Una volta

realizzata la retta di lavoro, può essere usata più volte per analisi successive di routine, eventualmente

controllando periodicamente la calibrazione, mediante un unico standard.

Dopo aver costruito la retta di lavoro è possibile analizzare il campione nelle stesse condizioni operative

utilizzate per costruire la retta di lavoro: il segnale rilevato (cioè il valore della grandezza y del campione), viene

utilizzato nella retta di lavoro per valutare la corrispondente grandezza x, cioè la concentrazione incognita del

campione. In questo modo si trasforma la risposta dello strumento nel dato analitico cercato.

Normalmente un campione è costituito da miscele di sostanze: la sostanza che si intende dosare viene detta

analita mentre tutte le altre costituiscono la matrice, formata dal solvente e dalle eventuali interferenze, sostanze

che producono un segnale nell’apparecchio e quindi dovrebbero essere assenti o “mascherate”. La matrice può

provocare delle anomalie nell’analisi, dette appunto effetto matrice, che possono alterare i risultati ottenuti, in

quanto le interferenze producono nell’apparecchio di misura un segnale che si somma a quello dell’analita e

quindi altera i risultati ottenuti. Per questo motivo la misura degli standard con l’apparecchio è riferita al

cosiddetto “bianco” (italianizzazione del termine inglese “blank”) che deve comprendere la sola matrice,

rispetto al quale viene azzerato l’apparecchio di misura. In questo modo le misure fatte sugli standard e riportate

in grafico nella costruzione della retta di lavoro non risentano dell’effetto matrice e quindi i risultati ottenuti sono

migliori.

Il metodo della retta di lavoro fornisce risultati validi quando si riesce a riprodurre anche negli standard di lavoro

la stessa matrice del campione; in caso contrario, quando cioè la matrice del campione è difficilmente

riproducibile negli standard di lavoro, come ad esempio nel caso di un campione complesso, si devono utilizzare

diversi metodi analitici (metodo delle aggiunte, standard interno, ecc.).

1.4.5 - Parametri di valutazione delle misure

L’analisi chimica strumentale presuppone l’effettuazione di misure e la produzione di una o più serie di dati.

Mentre in passato una singola analisi (per es. una gravimetrica) poteva richiedere molte ore, oggi può svolgersi

solo in pochi minuti e produce una grande massa di dati che devono essere interpretati per costituire una

informazione corretta.

Quando si effettua una misura non si ottiene il valore vero, che di per sé non è valutabile, ma si ottiene una sua

stima, a causa della presenza di fluttuazioni casuali dello condizioni operative, che causano errori; è proprio per

gestire questi errori che sono stati introdotte le elaborazioni statistiche dei dati.

E’ chiaro quindi che ogni misura prodotta da una qualsiasi tecnica analitica, richiede dei parametri di

valutazione delle misure che diano informazioni aggiuntive al valore numerico vero e proprio e che permettano

una valutazione dell’efficacia del processo analitico. Esistono svariati parametri di valutazione.

Accuratezza, precisione: sono parametri derivanti dalla statistica e quindi verranno esaminati in seguito

Rapporto segnale/rumore (S/N): in una qualsiasi misura, il segnale S che viene prodotto dall’apparecchio, riferito

all’analita, è affetto da un “rumore” (N - noise), cioè da disturbi casuali dovuti ad interferenze di vario genere,

sia chimiche che fisiche, che strumentali

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segnale (S)

S

N

tempo

Per variabilità del segnale si intende

la sua fluttuazione casuale nel tempo.

Il segnale S viene prodotto

dall’apparecchio quando si analizza il

campione; naturalmente S deve

essere nettamente maggiore di N in

modo che il rumore di fondo non

influenzi in modo significativo la

misura.

Questo rapporto fornisce informazioni sulla precisione della misura; per esempio supponiamo di effettuare 2

serie di misure, con 2 diverse metodiche, di una grandezza e di ottenere i seguenti risultati:

prima serie: 90 - 100 - 110 seconda serie: 99 - 100 - 101

Affidandosi solo al valore medio, che in entrambi i casi è 100, si avrebbe una informazione incompleta: la

seconda metodica è da preferire perché è più precisa, avendo una variabilità dei dati molto più ristretta, che

potrebbe essere dovuta ad un maggior valore del rapporto S/N, quindi ad una situazione di misura più favorevole

Sensibilità: è la minima concentrazione di analita capace di determinare un aumento del segnale analitico; nella

retta di lavoro è la pendenza della retta stessa.

Si consideri una generica retta di lavoro dove in funzione della concentrazione C di vari standard viene riportato

il segnale S prodotto dall’apparecchio di misura. Dato che la dipendenza di S da C è lineare, si avrà che:

dove S è il segnale misurato in corrispondenza della concentrazione C dell’analita, Sb è il segnale prodotto dal

bianco di riferimento (particolare soluzione contenente solo la matrice e non l’analita), m è la pendenza della

curva e quindi la sensibilità della metodica analitica. Da notare che se Sb è nullo allora la retta passa per l’origine

degli assi, mentre i caso contrario Sb è l’intercetta della retta di lavoro.

Per valutare la pendenza m della retta di lavoro basta

individuare due segmenti qualsiasi ortogonali ΔS e ΔC e quindi

calcolarne il rapporto:

Ovviamente un buon metodo analitico dovrà avere una elevata

sensibilità, cioè una retta molto inclinata, perché per un piccolo

incremento di concentrazione di analita si avrà un elevato

incremento di segnale prodotto dall’apparecchio e quindi si

potranno facilmente “distinguere” campioni con concentrazioni

molto vicine.

La sensibilità permette inoltre di comparare diverse

metodiche analitiche utili per dosare lo stesso analita. Nel

diagramma a fianco sono confrontate 2 diverse metodiche

utilizzabili per lo stesso analita, m1 ed m2, entrambe con

risposte lineari, ma con diversa sensibilità, cioè diversa

pendenza della retta di lavoro.

La metodica m1 è più sensibile in quanto la retta è più

inclinata: infatti a parità di lettura minima possibile Smin,

consente di rilevare una concentrazione minima C1

inferiore a C2 e quindi permette di valutare concentrazioni

minori di analita presenti nel campione. Inoltre a parità di

errore ΔS sulla lettura del segnale prodotto dallo

strumento, la metodica m1 presenta un errore sulla

concentrazione ΔC1 inferiore a ΔC2 e quindi, oltre ad

essere più sensibile, è anche più precisa.

Quindi m1 è da preferita ad m2, a parità di altre condizioni

(costi, reperibilità reattivi, tempi di esecuzione, ecc.)

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Limite di rilevabilità o rivelabilità (LDR): è la minima concentrazione di analita che produce un segnale

significativamente diverso da quello del bianco (dove l’analita è assente), ovvero la concentrazione

corrispondente al minimo segnale significativo. Nel grafico precedente LDR è pari a C1 per la metodica m1 e C2

per la metodica m2: pertanto si può dire che m1 è da preferire in quanto ha un LDR minore. Il limite di

rilevabilità è spesso indicato con LOD (Limit of Detection). Quando, durante una misura, si ottiene un segnale

prodotto dall’analita pari o superiore a LDR allora si può dire che quell’analita è presente nel campione.

Ovviamente LDR dipende dall’apparecchio utilizzato oltre che dalla metodica analitica: ad esempio il Pb che

può inquinare in un campione alimentare può non essere “visto” con una tecnica spettrofotometrica tradizionale,

che ha un LDR superiore alla quantità di Pb presente nel campione, ma essere rilevato con una tecnica di

emissione al plasma che ha un LDR significativamente inferiore. Gli apparecchi più recenti hanno LDR sempre

più bassi e permettono quindi l’analisi di elementi in tracce sempre più esigue.

Limite di leggibilità (LDL): dipende dallo strumento ed è la minima lettura che può essere fatta sullo strumento;

di solito coincide con la più piccola divisione della scala di lettura. Nel grafico precedente LDL è pari a Smin

Limite di dosabilità (LDD): di solito una analisi non si può spingere fino al limite di rilevabilità (LDR/LOD) di

un analita perché in tale situazione diventano molto importanti gli errori e quindi i risultati sono poco affidabili.

In tale situazione infatti il rumore N è dello stesso ordine di grandezza del segnale S (ovvero S/N è circa uguale a

1) e quindi sarebbe vano ogni tentativo di misura significativa. Pertanto si definisce limite di dosabilità LDD la

minima concentrazione (o quantità) di analita che si può determinare con certezza. Ovviamente LDD sarà

superiore a LDR. Tale limite è spesso indicato come LOQ (Limit of Quantification)

Per superare questo problema e per fornire indicazioni valide per tutti i laboratori analitici, esiste una

convenzione internazionale proposta dall’A.C.S. (American Chemical Society) che fissa il valore di LDD pari ad

almeno 10 volte il rapporto S/N (altri autori adottano un valore di 20 volte tale rapporto); i due limiti LDR ed

LDD sono così rappresentabili:

LDR analita non rilevabile analita rilevabile analita rilevabile

LDD analita non dosabile analita non dosabile analita dosabile

0 3 10 S/N

Nella prima regione l’analita non è dosabile né rilevabile poiché il rapporto S/N è troppo basso ed il segnale

prodotto si confonde con il rumore; la seconda è detta regione di rilevabilità: l’analita produce un segnale

distinguibile dal rumore ma non può ancora essere sfruttata a scopi analitici a causa della fluttuazione casuale del

rumore che influenza ancora il segnale dell’analita; la terza zona è la regione di quantificazione, in cui l’analita

può essere rilevato e dosato perché il rapporto S/N è ≥ 10

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Tecniche analitiche più usate per le sostanze organiche

Le tecniche analitiche strumentali sono un utilissimo strumento per identificare sostanze incognite

(analisi qualitativa), ad esempio per riconoscere tutti i prodotti ottenuti in un processo di sintesi o

per determinare la composizione di un refluo industriale, o per indagini ambientali. Sono inoltre

anche utilizzabili per l’analisi quantitativa, ossia per dosare le quantità dei vari composti che

costituiscono il campione analizzato, ad esempio per determinazioni di purezza di un prodotto.

Le principali tecniche analitiche strumentali oggi in uso ricadono per lo più in una delle tre

categorie delle analisi cromatografiche, delle analisi spettroscopiche e delle analisi

elettrochimiche. Tutte queste tecniche si basano su uno strumento in grado di raccogliere i dati di

interesse e su un computer dotato di un software in grado di elaborare il segnale traducendolo in

un tracciato (spettro) o altro tipo di output che l’operatore possa leggere e interpretare.

Metodi spettroscopici

La spettrocopia è la misura e l’interpretazione delle radiazioni elettromagnetiche assorbite, diffratte

o emesse da atomi, molecole o altre sostanze chimiche. L’assorbimento o l’emissione sono

associate a cambiamenti negli stati energetici delle specie chimiche interagenti , ciascuna delle

quali ha determinati stati energetici caratteristici, in base ai quali può essere identificata.

L’eccitazione di elettroni a stati di più alta energia, sia per gli atomi che per le molecole, è

associata ad assorbimento di radiazioni nel campo del vicino UV e del visibile (spettroscopia UV-

Vis). Ad energie di circa un ordine di grandezza inferiori sono invece associati i moti vibrazionali

delle molecole, che danno luogo ad assorbimenti nell’infrarosso (spettroscopia IR). Vi è poi un tipo

di spettroscopia basata sul momento magnetico dei nuclei atomici e sulla loro interazione con

campi magnetici esterni (spettroscopia NMR). Infine, solidi cristallini possono essere analizzati

mediante diffrazione di raggi X per la determinazione della geometria del cristallo.

Spettrofotometria UV

La strumentazione si compone di una sorgente di

radiazione (lampada al deuterio, lampada a

incandescenza ecc.), un monocromatore, ossia un

filtro che permetta di sottoporre il campione a

irraggiamento con luce monocromatica, così da

poter misurare l’intensità dell’assorbimento per ogni

singolo valore di λ, un sistema di specchi e fenditure

tale da suddividere la radiazione in due raggi uguali

di cui uno colpisca il campione da analizzare e l’altro il riferimento (di solito lo stesso solvente puro)

in modo da azzerare le sorgenti d’errore sistematico provenienti dal solvente, dalla cella e dallo

strumento.

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Spettrofotometria IR

La regione spettrale dell’infrarosso si estende dall’estremità rossa dello spettro visibile fino alle

microonde, cioè da 0,7 a 500µm di lunghezza d’onda. La zona usata più di frequente si trova però

a frequenze comprese fra 4000 e 400 cm-1 (λ compresa fra 2,5 e 50 µm).

La molteplicità di modi vibrazionali che hanno luogo simultaneamente durante l’eccitazione

produce uno spettro di assorbimento complesso, caratteristico dei diversi gruppi funzionali presenti

nella molecola.

Esempio di spettro infrarosso relativo al m-dietilbenzene.

In ascissa è riportata la lunghezza

d’onda, che può variare tra il vicino UV

(200-400 nm) e il visibile (400-700 nm). In

ordinata l’assorbanza A, data da

A = εεεεCL

dove C è la concentrazione dell’analita

in soluzione, espressa in mol L-1, L è la

lunghezza della cella in cm e ε è il

coefficiente di estinzione molare espresso

in L mol-1cm-1. A è adimensionale.

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Di seguito sono riportate le frequenze di assorbimento infrarosso caratteristiche dei principali

gruppi funzionali.

Gruppo Classe di composti Intervallo, cm-1 Intensità C − H Alcano 2965-2850 (stretch) forte - CH3 1450 (bend) media 1380 (bend) media - CH2- 1465 media Alchene 3095-3010 (stretch) media 700-1000 (bend) forte

Alchino 3300 (circa) forte

Aldeide 2900-2820 debole

2775-2700 debole

C − C Alcano 700-1200 (generalmente non utilizzabile)

debole

Alchene * 1680-1620 variabile

Alchino * 2260-2100 variabile

C=O* Chetone 1715 forte

Aldeide 1725 forte

Acido carbossilico 1710 forte

Estere 1735 forte

Ammide 1650 forte

Anidride 1820-1760 forte

C − O Alcoli, esteri, acidi carbossilici, eteri 1300-1000 forte

O − H Alcol

monomero 3650-3590 variabile e netta legato con legame H 3400-3200 forte e allargata

Acido carbossilico legato con legame H

3300-2500 variabile e allargata

N − H Ammina primaria e ammide 3500 (circa), stretch** media Ammina secondaria e ammide 3500, stretch** media

CΞN Nitrile * 2260-2240 media C − X Fluoruro 1400-1000 forte Cloruro 800-600 forte Bromuro 600-500 forte Ioduro 500 (circa) forte

Spettrometria NMR

Si tratta di una spettroscopia basata sul fatto che la rotazione dei nuclei atomici su se stessi, a

causa della loro carica elettrica, genera un campo magnetico il quale, introdotto in un campo

magnetico esterno uniforme, si orienta. I nuclei così orientati, per effetto di una radiofrequenza

applicata ad un angolo opportuno, possono assorbire energia a specifiche frequenze invertendo il

proprio asse di rotazione.

Vi sono tipi di nuclei che non danno luogo a questo

effetto, detto di risonanza (NMR = Nuclear

Magnetic Resonance), e altri che invece la

presentano, ciascuno a particolari e specifici valori

di frequenza: fra questi vi sono gli isotopi 1H (il

comune idrogeno, il più usato), 13C, 19F e altri.

Limitandosi alla spettroscopia 1H-NMR, questa può

dare informazioni sul numero, tipo e posizione degli

atomi di idrogeno presenti in una molecola.

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Spettrometria di massa

Il principio su cui si basa la spettrometria di massa è la possibilità di separare una miscela di ioni in

funzione del loro rapporto massa/carica generalmente tramite campi magnetici statici o oscillanti.

Tale miscela è ottenuta ionizzando le molecole del campione, principalmente facendo loro

attraversare un fascio di elettroni ad energia nota. Le molecole così ionizzate sono instabili e si

frammentano in ioni più leggeri secondo schemi tipici in funzione della loro struttura chimica.

Il diagramma che riporta l'abbondanza di ogni ione in funzione del rapporto massa/carica è il

cosiddetto spettro di massa, tipico di ogni composto in quanto direttamente correlato alla sua

struttura chimica ed alle condizioni di ionizzazione cui è stato sottoposto.

Spettrometria di diffrazione di raggi X

Questa tecnica, a seconda dell’apparato strumentale usato, può essere applicata a cristalli

singoli (sostanze organiche o inorganiche di cui è stato fatto crescere un singolo cristallo,

abbastanza grande da essere visibile e trasferibile sul portacampione, e di cui si può determinare

la struttura del reticolo cristallino – lunghezze e angoli che caratterizzano la cella elementare) o a

materiali policristallini (oggetti solidi come lastrine di metallo, oppure polveri, in cui numerosissimi

microcristalli sono presenti e orientati casualmente in tutte le direzioni). La tecnica a cristallo singolo

è applicata più che altro per motivi di ricerca, mentre la diffrazione da polveri ha numerose

applicazioni industriali: il diffrattogramma del campione può essere confrontato con quelli presenti

in archivio in modo da identificare per confronto le possibili fasi cristalline presenti. E’ possibile

anche, almeno in una certa misura, quantificare il rapporto fra le fasi presenti.

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Tecniche cromatografiche

Si tratta di un gruppo di tecniche utili a separare miscele di sostanze organiche nei loro

componenti, per scopi sia analitici (qualitativi e quantitativi) che preparativi (separazione e

recupero dei diversi componenti).

TLC (Thin Layer Chromatography, o Cromatografia su Strato Sottile)

E’ una comune tecnica di laboratorio che consiste nel deporre, su una lastrina di vetro, metallo o

plastica rivestita di uno strato di SiO2, una goccia di soluzione contenente le sostanze organiche da

separare. La base della lastrina viene poi immersa in una miscela di solventi (eluente) di opportuna

polarità, che salendo lungo la lastra trasportano i componenti della miscela in su, più o meno

velocemente in base alla polarità delle diverse molecole: le molecole più polari, più fortemente

legate alla silice, saliranno meno o resteranno alla base mentre le molecole apolari verranno

trasportate più in alto. Quando l’eluente è arrivato quasi in cima, si estrae a lastra e la si fa

asciugare. Per rivelare la posizione dei diversi componenti, qualora non siano in sé colorati e quindi

visibili (da qui il termine “cromatografia”) occorre rivelarli o con luce UV, se si tratta di sostanze con

doppi legami in grado di interagire con queste radiazioni, oppure per trattamento con un

opportuno reagente di sviluppo, in modo da renderle scure.

Cromatografia su strato sottile (TLC)

Questa tecnica serve a capire, qualitativamente, quanti componenti sono presenti in una data

miscela; deponendo, al fianco della macchia relativa alla miscela, una goccia di soluzione per

ciascuno dei (presunti) componenti puri è possibile identificare le varie macchie.

A questo punto, volendo procedere all’effettiva separazione dei componenti della miscela, si può

ripetere il procedimento più in grande, e nell’altro senso, con una cromatografia su colonna.

In un tubo di vetro (colonna) munito di rubinetto e riempito di gel di silice (silice in forma di polvere

molto fine) si fa scendere la miscela di solventi che si vuole usare come eluente, finché la silice ne

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è completamente impregnata e l’aria è tutta stata espulsa. Poi si deposita in cima alla colonna di

silice uno strato, quanto più possibile sottile, della miscela da separare. Il diametro della colonna

dipende dalla quantità totale di sostanza da separare e la composizione dell’eluente dev’essere

tale da assicurare una buona separazione delle macchie in TLC. Poi si aggiunge in alto l’eluente e

lo si fa scendere, per gravità o applicando una pressione mediante aria compressa o azoto (flash

chromatography) raccogliendolo in basso in frazioni di opportuno volume, che si possono poi

analizzare per verificare in quale/i delle frazioni sia contenuto il prodotto che interessa.

Tecniche cromatografiche strumentali

La cromatografia su colonna può essere realizzata per via strumentale mediante la tecnica detta

HPLC (High Pressure Liquid Chromatography), qui schematizzata:

eluente

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Come si vede, i diversi solventi vengono miscelati e spinti lungo la colonna mediante pompe ad

alta pressione, e la miscela da analizzare si inietta e viene spinta dall’eluente attraverso la colonna,

all’interno della quale si trova un’opportuna fase stazionaria solida. Il rivelatore può essere una

lampada UV, uno spettrometro di massa o altro, comunque i dati in uscita vengono gestiti da un

computer che traccia un cromatogramma, in cui l’altezza dei picchi è proporzionale alla quantità

di sostanza e il tempo di ritenzione dipende dalla polarità del prodotto. Questa tecnica, a seconda

delle dimensioni della colonna, può essere usata per scopi sia analitici che preparativi.

E’ possibile anche realizzare la cromatografia in fase gassosa (gascromatografia), come si vede

nello schema seguente:

La miscela da analizzare viene iniettata con una microsiringa nella camera di iniezione, dove viene

volatilizzata e miscelata al gas di trasporto (in genere H2 oppure He, a seconda del rivelatore che si

usa) che la trasporta all’interno della colonna.

Le moderne colonne capillari hanno una lunghezza variabile dai 15 ai 50 metri ed uno spessore di

0.5 - 0,20 mm. La fase stazionaria liquida ricopre le pareti interne della colonna con un film di pochi

micron di spessore. Tra i rivelatori, i più usati sono lo spettrometro di massa, il rivelatore a

termoconducibilità, entrambi di uso universale, il rivelatore a cattura di elettroni (ECD), per le

sostanze alogenate, il rilevatore a ionizzazione di fiamma (FID). Anche qui si ottiene un

cromatogramma simile a quello dell’HPLC. Questa è una tecnica analitica, sia qualitativa che

quantitativa.

Tecniche di analisi termica

La calorimetria differenziale a scansione, nota anche con l’acronimo DSC (dall’inglese differential

scanning calorimetry) è, insieme alla termogravimetria (TGA), la principale tecnica di analisi

termica utilizzabile per caratterizzare molti tipi di materiali.

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Il principio di base di queste tecnica consiste nel ricavare informazioni sul materiale riscaldandolo o

raffreddandolo in maniera controllata. In particolare il DSC si basa sulla misura della differenza di

flusso termico tra il campione in esame e uno di riferimento mentre i due sono vincolati ad una

temperatura variabile definita da un programma prestabilito.

Le informazioni che si possono ottenere da questa tecnica di analisi vanno dal calore specifico del

materiale studiato, alle temperature a cui si verificano transizioni di fase (processi fisici, quindi)

esotermiche o endotermiche. Il tracciato qui riportato riporta una temperatura di transizione

vetrosa (il calore specifico al di sopra della Tg è maggiore), un fenomeno di cristallizzazione

(esotermico) e uno di fusione (endotermico).

La termogravimetria è una metodica di analisi nella

quale si effettua la registrazione continua delle

variazioni di massa di un campione, in atmosfera

controllata e in funzione della temperatura o del

tempo. Questo tipo di analisi riguarda lo studio dei

fenomeni di decomposizione, di ossidazione, di

perdita del solvente di cristallizzazione e altri

processi chimici irreversibili. I termogravigrammi

forniscono informazioni sui meccanismi e sulle

cinetiche di decomposizione delle molecole, tanto

che possono essere utilizzati per il riconoscimento

delle sostanze.

Tracciato di una calorimetria differenziale a scansione

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Cromatografia su strato sottile La cromatografia su strato sottile o TLC, acronimo dell'inglese Thin Layer Chromatography, è una tecnica cromatografica di semplice preparazione e rapida esecuzione; questo la rende particolarmente adatta per l'esecuzione di valutazioni qualitative o semi-quantitative, nonché per seguire una reazione chimica durante il suo svolgersi.

Come tutte le cromatografie, si basa sulla diversa ripartizione di sostanze differenti tra una fase stazionaria ed una fase mobile, in funzione dell'affinità di ogni sostanza con esse.

Separazione dei componenti di una goccia di inchiostro nero per TLC La fase stazionaria è generalmente uno strato dallo spessore uniforme di circa 1 mm di materiale adsorbente, depositato su una lastra di vetro.[1] Il materiale adsorbente può essere gel di silice, allumina, cellulosa in polvere o polvere di diatomee (kieselguhr), a seconda dell'applicazione richiesta. La fase mobile è un solvente opportunamente scelto (o una miscela di solventi), capace di separare i componenti della miscela da analizzare e poco affine per polarità alla fase stazionaria scelta. Uno  strato  di  fase  mobile  alto  circa  1  cm  viene  posto  sul  fondo  di  un  contenitore,  nel  quale  si  immerge  l’estremità  inferiore  della  lastra  di  vetro  preparata  col  materiale  adsorbente,  sulla  quale  è  stata  previamente  posta  una  goccia  del  campione  da  separare  (o  di  una  sua  soluzione).  Il  contenitore  viene  poi  chiuso  in  modo  da  mantenere  l’ambiente  saturo  di  vapori  di  solvente.  Per  effetto  di  capillarità  il  solvente  sale  lungo  la  lastrina,  trascinando  con  sé  in  maniera  differente  i  componenti  della  miscela  e  separandoli.  La  corsa  del  solvente  può  durare  da  una  decina  di  minuti  ad  oltre  un’ora.  Se  la  separazione  non  è  stata  sufficiente,  si  può  ricorrere  ad  una  separazione  bidimensionale:  in  questo  caso  la  lastra  è  di  forma  quadrata  ed  in  un  angolo  di  questa  si  deposita  in  un  unico  punto  la  soluzione  da  separare.  Dopo  aver  proceduto  alla  separazione  come  di  consueto,  si  ruota  la  lastra  in  modo  che  le  componenti  separate  siano  lungo  una  linea  orizzontale,  quindi  si  procede  ad  una  nuova  separazione  con  un  differente  solvente.  Procedendo  in  questo  modo  si  riescono  a  separare  sostanze  molto  affini  fra  loro  e  non  altrimenti  separabili.  

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Rappresentazione  di  una  separazione  per  cromatografia  su  strato  sottile.  L’immagine  a  sinistra  rappresenta  la  situazione  iniziale,  quella  a  destra  rappresenta  la  fine  della  separazione  Qualora  non  sia  possibile  osservare  direttamente  le  macchie  di  campione  sulla  superficie  della  lastrina  -­‐  caso  molto  frequente  -­‐  si  può  ricorrere  all’osservazione  sotto  luce  ultravioletta  o  alla  reazione  con  reagenti  che  sviluppano  composti  colorati.[2][3]  Tra  questi  si  annoverano  lo  iodio,  il  reattivo  alla  para-­‐anisaldeide  (soluzione  di  p-­‐anisaldeide,  acido  solforico  e  acido  acetico  in  etanolo),  la  soluzione  di  Pancaldi  (una  miscela  ossidante  a  base  di  sali  di  cerio  e  molibdeno),  la  ninidrina,  per  rivelare  gli  amminoacidi  evidenziandoli  con  colori  diversi  (giallo  e  svariate  tonalità  di  violetto).  Per  evidenziare  genericamente  composti  organici,  si  usa  anche  spruzzare  le  lastre  con  una  soluzione  concentrata  di  acido  solforico  che,  carbonizzando  i  composti  organici,  lascia  degli  aloni  neri.  Prevedendo  l’osservazione  alla  luce  ultravioletta,  la  separazione  viene  effettuata  su  lastre  già  impregnate  di  una  soluzione  di  fluoresceina.  In  questo  modo  qualsiasi  sostanza  presente  attenuerà  la  fluorescenza  e  sarà  evidenziata  da  aloni  più  scuri.  Per  riconoscere  con  certezza  le  diverse  componenti,  a  fianco  della  miscela  da  separare  si  depositano  sulla  lastra  quantità  note  di  sostanze  di  riferimento  (dette  standard).  Per  effettuare  ad  una  determinazione  quantitativa,  si  utilizza  una  lastrina  fluorescente  per  la  separazione  quindi  si  individuano  e  delimitano  le  zone  contenenti  la  sostanza  da  analizzare  e  si  asporta  l’adsorbente  che  ne  è  impregnato,  raccogliendolo.  Si  procede  quindi  al  dosaggio  della  sostanza  in  questione.  La  medesima  procedura  viene  effettuata  sulle  macchie  degli  standard,  quantitativamente  noti,  in  modo  da  avere  un  termine  di  paragone  per  il  dosaggio.  Con  semplici  proporzioni  dai  dati  del  dosaggio  si  può  quindi  risalire  alla  quantità  presente  in  assoluto.  Una  misura  semi-­‐quantitativa  approssimata  può  invece  essere  condotta  confrontando  l’intensità  dell’alone  scuro  (in  luce  ultravioletta)  o  del  colore  sviluppato  (per  reazione  con  agenti  sviluppanti)  prodotto  dal  campione  con  quella  di  una  serie  di  soluzioni  di  standard  a  concentrazioni  differenti.  Analogamente  alla  HPLC  riguardo  alla  cromatografia  liquida  su  colonna,  la  HPTLC  rappresenta  una  implementazione  ad  alta  prestazione  della  cromatografia  su  strato  sottile.  La  TLC  è  una  tecnica  che  trova  spesso  accoglimento  nelle  industrie  chimiche  specializzate  nella  produzione  di  coloranti  o  tinte  di  vario  genere,  che  permette  di  verificare  la  corretta  composizione  del  colore,  individuando  di  conseguenza  anomalie  o  tracce  di  coloranti  che  non  devono  essere  presenti  nei  prodotti  finiti.  

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1

POLARIMETRIA La polarimetria è una tecnica analitica strumentale che sfrutta il cambiamento di direzione del piano di vibrazione della luce l inearmente polar izzata durante il suo passaggio attraverso uno strato trasparente di una sostanza anisotropa (caratteristiche fisiche diverse in tutte le direzioni). Essa trova applicazione prevalentemente nello studio di strutture molecolari e nell’analisi quantitativa delle soluzioni di sostanze otticamente attive, in quanto la direzione e l’entità della rotazione dipendono dal potere rotatorio di queste. La luce e sue proprietà La luce ordinaria è una radiazione elettromagnetica con proprietà simili ad un’onda che si allontana dalla sorgente lungo la linea di propagazione. Un raggio di luce è costituito da due componenti che vibrano su piani perpendicolari tra loro: un campo elettrico ed un campo magnetico, oscillanti, che variano rapidissimamente di verso ed intensità. I piani su cui avvengono le vibrazioni sinusoidali di ciascun campo (elettrico e magnetico) oltre ad essere perpendicolari tra di loro sono perpendicolari alla direzione di propagazione del raggio. La distanza fra due creste successive è definita lunghezza d’onda (λ). L’ampiezza della vibrazione corrisponde alla sua intensità. L’energia luminosa consiste di più onde elettromagnetiche che vibrano su piani differenti. La luce “ordinaria”, infatti, vibra su un numero infinito di piani perpendicolari alla direzione di propagazione Luce polarizzata Se questa luce ordinaria passa attraverso un filtro polarizzatore ottico, la luce emergente sarà un raggio il cui vettore elettrico vibra su un singolo piano. L’energia risultante è chiamata luce polarizzata su un piano (o linearmente polarizzata). In realtà la luce piano-polarizzata è la risultante di due componenti polarizzate circolarmente opposte, dirette verso destra e verso sinistra, in concordanza di fase e con uguale frequenza ed ampiezza. Quando una delle due componenti è rallentata da un mezzo chirale i vettori destro e sinistro si troveranno fuori fase e quindi cambierà l’orientamento del piano di polarizzazione.

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La luce può anche essere polarizzata circolarmente o ellitticamente: circolarmente, se il piano di oscillazione ruota continuamente, con regolarità periodica, attorno la direzione di propagazione, per cui il vettore rappresentativo del campo elettrico descrive una spirale a proiezione circolare; ellitticamente, se la spirale descritta dal vettore ha proiezione ellittica.

Attività ottica e composti chirali Si definisce attività ottica la capacità di un composto di ruotare il piano di vibrazione della luce linearmente polarizzata, in una direzione o nell’altra. In genere, le sostanze dotate di asimmetria cristallina o molecolare possiedono questa capacità. Le sostanze anisotrope (asimmetriche) quindi fanno ruotare il piano di vibrazione dell’onda-luce polarizzata, per cui sono otticamente attive. Un

esempio è dato dagli zuccheri e dagli amminoacidi. Come è noto, esistono composti organici contenenti uno o più atomi di carbonio al quale sono legati quattro differenti gruppi funzionali. Dal momento che un atomo di carbonio con legami semplici ha una geometria tetraedrica (ibridizzazione sp3), i quattro gruppi funzionali possono esservi legati con due configurazioni diverse, dando origine a due molecole, una immagine speculare dell’altra, cioè una coppia di antipodi ottici (enantiomeri). Questa particolare geometria influenza la trasmissione della luce piano-polarizzata dando a tali molecole la proprietà dell’attività ottica. Quindi, sostanze in grado di ruotare il piano di vibrazione della luce polarizzata sono dette otticamente attive.

Polarizzatori Per l’analisi polarimetrica bisogna disporre di luce polarizzata che si ottiene mediante l’uso di dispositivi detti polarizzatori. Il polarizzatore ha sulla luce naturale una funzione filtrante, che permette di isolare raggi luminosi i cui vettori elettrici vibrano tutti su un solo piano. Sono polarizzatori:

- tormalina1 (la sua trasmittanza però dipende dalla lunghezza d’onda) - prisma di Nicol (due prismi di calcite incollati con balsamo del Canadà) - herapatiti2 (sostanze dicroiche ottenute artificialmente)

Prisma di Nicol Un cristallo di spato d’Islanda 3viene tagliato in due secondo un piano diagonale B. le due parti vengono poi riunite e saldate con balsamo del Canada4. L’inclinazione del cristallo rispetto al raggio incidente I viene studiata in modo che il raggio ordinario O incida sulla superficie B secondo un angolo superiore all’angolo limite5, mentre il raggio straordinario S può penetrare nel balsamo ed emergere, polarizzato, dalla parte opposta del cristallo. Il raggio O deviato verrà assorbito dalla faccia inferiore annerita del cristallo C.

1 Minerale: silicato complesso di metalli diversi, di colore variabile in relazione alla composizione chimica; le varietà trasparenti sono usate come gemme di notevole pregio 2 Sostanze microcristalline polarizzabili elettricamente di origine sintetica derivate da reazioni dello iodio con solfato di chinino 3 Varietà limpida di calcite, in grossi cristalli utilizzabili per strumenti ottici. 4 Liquido secreto da varie piante, costituito per lo più da resine, che all’aria diviene vischioso o solido 5 Valore di angolo oltre il quale si ha riflessione e non rifrazione (quando l’angolo di rifrazione tende a 90°, l’angolo di incidenza assume valore di angolo limite)

luce polarizzata: vettori campi elettrico

e magnetico

luce ordinaria

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3

Quando un raggio di luce naturale, monocromatico penetra nel prisma, esso subisce rifrazione e viene sdoppiato in due raggi linearmente polarizzati (fenomeno della birifrangenza), uno detto ordinario e l’altro straordinario, con piani di polarizzazione perpendicolari tra loro. Il raggio ordinario incide sulla faccia interna del prisma con un angolo tale da farlo riflettere totalmente all’interno e da venire assorbito da una parete appositamente annerita; il raggio straordinario incide sulla faccia interna del prisma con un angolo tale da passare inalterato. Dal prisma di Nicol emerge pertanto un raggio piano-polarizzato parallelo al raggio naturale incidente.

Polarimetro I polarimetri sono gli strumenti che permettono di misurare il potere rotatorio di sostanze otticamente attive. Il cuore di un polarimetro è costituito dal materiale anisotropo che, grazie al fenomeno della birifrangenza, è in grado di polarizzare la luce.

Birifrangenza Un raggio di luce ordinaria r, che attraversa un mezzo anisotropo, si sdoppia nei raggi O (ordinario) e S (straordinario) polarizzati perpendicolarmente tra di loro. Il fenomeno è detto anche doppia rifrazione perché entrambi i raggi risultano deviati rispetto alla direzione del raggio incidente, ma con un diverso indice di rifrazione e risultano polarizzati linearmente su piani ortogonali.

I componenti principali di un polarimetro sono: 1. sorgente luminosa 2. polarizzatore 3. tubo polarimetrico 4. analizzatore 5. oculare 6. scala per misurare l’angolo di rotazione

(A) Schema di un comune polar imetro ot t i co S =sorgente P =polarizzatore principale Pa =polarizzatore ausiliario, parallelo al principale T =tubo contenente il campione An =polarizzatore analizzatore, perpendicolare al principale,

ruotabile e montato su un nonio Lc e Lf =lenti O =oculare (B) Nella fase di azzeramento il polarizzatore An viene ruotato finché nell’oculare O non si nota una condizione di penombra uniforme. A questo corrisponde una posizione αb del nonio. (C) Quando viene introdotto nel tubo un campione otticamente attivo, nell’oculare si notano due semicerchi di diversa intensità. (D) Infine si ruota An fino a ripristinare la condizione di penombra uniforme (posizione αc del nonio). La differenza fra αc e αb corrisponde all’angolo di rotazione della luce polarizzata dovuto al campione.

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In una prima fase il polarizzatore ausiliario e l’analizzatore vengono allineati in modo tale che, quando il tubo è vuoto o riempito di opportuno solvente, all’oculare si possano osservare due semicerchi illuminati di luce gialla con la medesima intensità. In seguito si ruota l’analizzatore per realizzare le condizioni di massima oscurità ed in corrispondenza di questa posizione viene controllata la posizione dello zero. In un secondo momento si introduce la soluzione campione nel tubo e si fa ruotare l’analizzatore in modo da ripristinare le condizioni di uguale intensità dei due semicerchi attraverso l’oculare. Un nonio fornirà l’entità dell’angolo di rotazione misurato.

Valutazione del segno del potere rotatorio Per convenzione, le sostanze che ruotano verso destra il piano della luce polarizzata sono dette destrogire, al contrario, se lo ruotano verso sinistra sono dette levogire. E’ importante sottolineare che non si può dedurre il segno del potere rotatorio specifico di una sostanza incognita con una sola determinazione polarimetrica. In assenza, o con tubo polarimetrico vuoto si ha campo dell’oculare uniforme in corrispondenza di 0° e di 180°; introducendo il mezzo otticamente attivo, si ristabilisce l’estinzione (campo dell’oculare uniforme) facendo ruotare l’analizzatore di un angolo α, ma anche facendolo ruotare in senso opposto di α - 180° Per evitare errori nella valutazione, quando la sostanza in esame non è nota, è indispensabile fare una doppia misurazione utilizzando nella seconda un tubo di lunghezza metà del precedente:

- se la sostanza è destrogira si otterranno valori corrispondenti ad α/2 e α/2 ± 180. - se la sostanza è levogira si otterranno valori corrispondenti ad α-180/2 e α-180/2 ± 180.

Dagli angoli trovati nella seconda misura è possibile ricavare il valore corretto. Esempio La misurazione su una sostanza attiva, in tubo da 4 dm, dà l’uniformità di campo a +78° (α) ed a –102° (α-180). Ripetendo la misura in tubo da 2 dm si trovano i valori –51° e +129°; la rotazione di –51° soddisfa la relazione (α-180)/2 per cui si deduce che la sostanza è levogira e poiché si è utilizzato un tubo polarimetrico di 2 dm il suo potere rotatorio specifico sarà [α] = –51°/2 = –25,5°

Rotazione ottica Per un composto otticamente attivo l’angolo di rotazione sperimentale α (espresso in gradi) del piano di polarizzazione dipende dalla concentrazione c del composto, dalla lunghezza del cammino l e da un fattore k, dove k è una caratteristica del composto, detta “potere rotatorio specifico”

α = c • l • k

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Potere rotatorio specifico Il potere rotatorio specifico, o [α], è una costante fisica e quindi una proprietà intrinseca dei composti che presentano attività ottica. E’ una grandezza che rappresenta la rotazione in gradi provocata da un grammo di sostanza sciolto in 100 ml di soluzione, posta in un tubo polarimetrico di 1 dm; esso dipende dalla temperatura e dalla lunghezza d’onda utilizzata; si indica con: per cui sostituendo nella formula precedente: Da questa relazione, conoscendo il potere rotatorio specifico, è possibile ricavare facilmente, dalla misura dell’angolo α, la concentrazione incognita di una soluzione. esempio di calcolo del potere rotatorio specifico: una soluzione contenente in 10 ml 400 mg di soluto è posta in una cella di 10 cm di lunghezza; la rotazione osservata in questo campione a 20°C usando la riga D del sodio è di +4,36°. Calcolare la rotazione specifica del soluto. La concentrazione è di 400 mg / 10 ml, cioè 0,4 g /10 ml, cioè ancora 4 g / 100 ml; per cui sostituendo

t

[α] λ

20

[α] D

o, standardizzando questi parametri a 20° e riga D dello spettro del sodio, con:

20

α = c • l •[α] D

20 α

[α] = D c • l

da cui:

20

c = α • 100 / l • [α] D

20 +4,36 • 100

[α] = = + 109° D 4 • 1

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ANALISI TERMICA DIFFERENZIALE L’analisi termica viene usata per ottenere alcune proprietà termodinamiche indispensabili per la conoscenza del comportamento di una specie se riscaldata o raffreddata a diverse velocità. L’analisi termica comprende un gruppo di tecniche in cui viene studiata una determinata proprietà di una sostanza consentendo di ottenere l’entalpia, la capacità termica di una sostanza, l’eventuale variazione di massa e il coefficiente di espansione termica. La chimica dello stato solido si avvale di queste tecniche per studiare le transizioni di fase e i diagrammi di fase. Nell’ambito della chimica analitica l’analisi termica differenziale è una tecnica per l’identificazione, l’analisi quantitativa e la composizione chimica di sostanze dall’osservazione del loro comportamento termico quando vengono riscaldate. Con questa tecnica, indicata generalmente con la sigla DTA ( differential thermal analysis), si segue una trasformazione di fase o una reazione chimica misurando il calore assorbito o sviluppato durante tale processo. Il campo maggiore di tale tipo di tecnica analitica è nello studio delle proprietà dei materiali e delle loro trasformazioni di fase, specialmente alle temperature più elevate (si può arrivare a 1500 °C). In particolare gli studi più completi riguardano i minerali, i materiali ceramici e le argille anche se molti studi sono stati fatti sulla stabilità dei composti inorganici, sugli esplosivi e sulle transizioni di fase dei polimeri. Sebbene l’analisi termica differenziale non costituisca un metodo del quale servirsi in via esclusiva essa risulta particolarmente utile nell’ambito della caratterizzazione di una sostanza. Nella DTA la temperatura del materiale testato viene misurata rispetto a un materiale inerte del quale è noto il comportamento nelle condizioni di esercizio. I materiali usati quale riferimento generalmente non fondono né congelano ma rimangono inalterati.

Una termocoppia a contatto con il materiale in esame e un’altra con quello di riferimento vengono collegate e ogni differenza di temperatura che si verifica durante il riscaldamento viene registrata graficamente ottenendosi una serie di picchi su un termogramma. Sia la specie che viene analizzata che il materiale di riferimento, infatti, vengono riscaldati in condizioni controllate.

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Se la specie subisce un cambiamento fisico o una reazione chimica la sua temperatura varierà mentre quella del materiale di riferimento rimane la stessa. Variazioni fisiche in un materiale come cambiamenti di fase e/o reazioni chimiche sono infatti correlate a variazioni di entalpia: mentre vi è una differenza costante di temperatura ΔT tra la specie e il riferimento in quanto essi hanno diverse capacità termiche quando la specie subisce una variazione termica il valore di Δ T diviene diverso. Se non vi è alcuna differenza di temperatura non viene generato alcun segnale mentre quando si registrano variazioni di ΔT queste vengono riportate graficamente da una serie di picchi. La quantità di calore coinvolto e la temperatura alla quale avvengono variazioni sono caratteristiche di ogni elemento o composto pertanto si fa un confronto tra le curve ottenute dal composto incognito con quelle di elementi o composti noti. Un’analisi di tipo quantitativo, invece, può essere fatta relazionando l’area sottostante il picco con la quantità di sostanza presente e tale quantità può essere determinata per confronto rispetto alle aree di picchi di una serie di standard analizzati nelle medesime condizioni.

La strumentazione è costituita da un apparato capace di operare a pressione atmosferica o sottovuoto e dalla temperatura ambiente fino 1500 °C. La temperatura può essere innalzata, a seconda delle esigenze da 1.5 a 20 °C al minuto.

 

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METODI ELETTROFORETICI L’elettroforesi è un processo elettrocinetico nel quale molecole e particelle cariche, in soluzione acquosa, sotto l’influenza di un campo elettrico, migrano in direzione del polo che ha carica opposta.

In campo biologico sono molte le molecole che possiedono gruppi ionizzabili (come aminoacidi, proteine e acidi nucleici) e quindi, a ogni valore di pH, sono presenti in soluzione come specie elettricamente cariche. Ad esempio, grazie alla presenza dei gruppi fosfato, le molecole di DNA sono cariche negativamente e quindi migreranno verso il polo positivo (anodo) se sottoposte a un campo elettrico.

Nel corso degli anni sono state sviluppate varie apparecchiature per separare molecole cariche basate su principi elettroforetici. Fondamentalmente qualsiasi apparecchiatura per elettroforesi è composta da tre componenti principali: un alimentatore, un termostato, che permette il controllo e la regolazione della temperatura, e una camera di separazione, che è la parte principale dello strumento e può essere realizzata in molti modi differenti.

Le separazioni elettroforetiche possono essere fatte in soluzioni libere come nell’elettroforesi capillare o sistemi senza fase di supporto, ma anche su mezzi stabilizzanti come gel. Inizialmente furono utilizzate camere in cui la separazione avveniva in soluzione libera. In tal caso l’efficienza di separazione era limitata dalla diffusione termica e dalla convezione. Per tali motivi, l’elettroforesi tradizionale è stata successivamente eseguita su mezzi di supporto anti-convettivi come poliacrilamide o gel di agarosio. Essa è particolarmente indicata per la separazione di molecole biologiche come acidi nucleici e proteine.

Pur essendo ancor oggi molto usata, tale tipo di elettroforesi non è vantaggiosa a causa di lunghi tempi di analisi, bassa efficienza e difficoltà nell’automazione. L’alternativa è l’elettroforesi capillare che, essendo fatta in tubi stretti anti-convettivi, non necessita del mezzo gel e quindi è realizzata nuovamente in soluzione libera.

In figura 3.1, il principio di funzionamento è il seguente: la miscela campione da separare va sciolta in un tampone, con il quale va anche saturato il mezzo gelatinoso di supporto per consentire la conduzione della corrente, che si genera quando fra i due elettrodi viene applicata una differenza di potenziale.

Il campo elettrico generato fa si che le componenti del campione migrino in una direzione (verso l’anodo o verso il catodo) in base alla loro carica, con velocità che dipende anche dalla loro forma e dimensione, oltre che dall’intensità di corrente. Se il campo elettrico viene tolto prima che le molecole abbiano raggiunto gli elettrodi, si ha una separazione dei singoli componenti in base alla loro mobilità elettroforetica.

Figura 3.1: camera di separazione (o cella elettroforetica) per elettroforesi su gel nel modo verticale.

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Una soluzione si dice tampone (o buffer) se riesce a mantenere un certo valore di pH nella soluzione, nonostante l'aggiunta di reagenti che tenderebbero a farlo variare. Nel nostro caso il tampone determina e stabilizza il pH del mezzo di supporto e i suoi ioni sono necessari per la conduzione della corrente fra gli elettrodi (gli ioni del campione contribuiscono in piccola misura a tale corrente). Il pH influenza la carica e la stabilità delle molecole biologiche.

Una volta terminata la separazione dei campioni, questi vengono visualizzati mediante opportuni metodi di colorazione o rivelazione. Il metodo di separazione descritto è detto elettroforesi a zona (ZE).

Oltre a quello appena citato, esistono altri due metodi base di separazione: l’Isotacoforesi (ITP) e l’Isoelettrofocalizzazione (IEF). Quest’ultima tecnica è indicata per la separazione di composti anfoteri (cioè composti che hanno sia proprietà acide che basiche), come aminoacidi e peptidi, in cui sia la direzione che la velocità di migrazione dipendono dal pH e ha luogo in un gradiente di pH.

3.2 Elettroforesi Capillare (CE)

Con il termine CE, è indicata l’elettroforesi capillare ad alta risoluzione (“High Performance Capillary Electrophoresis” o HPCE).

La versatilità dell’elettroforesi capillare permette, tuttavia, di poter usare tale metodologia per la separazione di un’ampia gamma di composti biologici (come proteine, peptidi, aminoacidi, acidi nucleici…) e quindi si possono distinguere diversi tipi di elettroforesi capillare ad alta risoluzione a seconda del principio base usato per la separazione.

È possibile distinguere: la “Capillary Zone Electrophoresis” (CZE), basata sulla diversa mobilità delle particelle cariche in soluzione libera; la “Capillary Gel Electrophoresis” (CGE), che effettua la separazione in base alle dimensioni e alla carica; la “Micellar Electrokinetic Chromatography” (MEKC), la “Capillary Isoelectric Focusing” (CIEF) e la “Capillary Isotachophoresis” (CITP).

Un generico sistema per elettroforesi capillare è schematizzato in figura 3.2.

Figura 3.2: schema della strumentazione per elettroforesi capillare.

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L’elettroforesi avviene all’interno di un tubo (capillare) stretto, di solito realizzato in silice fusa o teflon, avente diametro interno nel range di 25-75 µm e diametro esterno di 350-400 µm, rivestito da uno strato protettivo di poliamide che lo rende resistente ma anche maneggevole.

Questo tipo di realizzazione permette di minimizzare i problemi derivanti dallo sviluppo di calore che, tradizionalmente, limitano le tecniche elettroforetiche, in quanto causa di gradienti di temperatura non uniformi, cambiamenti locali di viscosità e conseguenti zone allargate.

Il calore generato dal passaggio della corrente elettrica causa un aumento di temperatura che è funzione delle dimensioni dei capillari, della conduttività del buffer e della tensione applicata. Si hanno temperature sensibilmente elevate quando la potenza generata è maggiore di quella dissipata.

La dissipazione termica del calore attraverso le pareti del capillare può dar luogo a temperature più alte nel centro del capillare piuttosto che alle pareti (fig. 3.3).

Figura 3.3: schema del gradiente di temperatura in un capillare, dal centro all'ambiente esterno.

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Tali gradienti di temperatura causano differenze locali di viscosità nel buffer e quindi una migrazione non uniforme.

Si dimostra che per limitare i gradienti di temperatura, è conveniente usare capillari con raggio interno piccolo e grande raggio esterno. Infatti il volume interno piccolo limita la quantità di calore generato, mentre l’alto rapporto tra superficie interna e volume aiuta a dissipare il calore generato attraverso la parete del capillare.

Il grande diametro esterno invece è vantaggioso in quanto consente di ridurre le proprietà isolanti del poliammide e migliora il trasferimento di calore verso la periferia del capillare.

È anche importante la rimozione del calore all’esterno del capillare, che può essere realizzata con un sistema di ventilazione opportuno

È possibile ottenere alte efficienze di separazione utilizzando campi elettrici elevati (nel range 100-500 V/cm). La lunghezza del capillare non influisce sull’efficienza del processo, ma gioca un ruolo importante sul tempo di migrazione e quindi sulla durata dell’analisi.

La situazione ideale consisterebbe nell’applicare un potenziale il più alto possibile, utilizzando un capillare il più corto possibile. Tuttavia ci sono delle limitazioni pratiche: quando la lunghezza del capillare diminuisce, infatti, la quantità di calore che deve essere dissipata aumenta, a causa della diminuzione della resistenza elettrica del capillare.

Nello stesso tempo la superficie disponibile per la dissipazione del calore diminuisce. Gli effetti dovuti al calore pongono quindi un limite pratico all’utilizzo di capillari molto corti. Inoltre, più è alto il potenziale applicato, più alta diviene la corrente che attraversa il capillare e quindi è maggiore la quantità di calore generata.

Diventa necessaria la scelta di un compromesso fra il potenziale applicato e la lunghezza del capillare. Comunemente si utilizzano potenziali di circa 10-30 KV e capillari lunghi 25-75 cm (fig. 3.4)

Figura 3.4: dimensioni possibili di un capillare per elettroforesi.

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Il funzionamento di una apparecchiatura per elettroforesi capillare è il seguente: una piccola quantità di soluzione contenente il campione (tra 1 e 50 nl) viene iniettata nel capillare, che contiene un buffer appropriato, dall’estremità anodica. Per effettuare la separazione viene applicata una differenza di potenziale tra le due estremità del capillare.

All’interno del capillare, oltre all’attrazione dei poli sulle molecole di segno opposto, si ha un flusso elettroosmotico (EOF) verso il catodo. Caratteristica fondamentale del flusso elettroosmotico nel capillare è che il suo profilo è praticamente piatto (fig. 3.5).

Figura 3.5:

Il profilo piatto del flusso è vantaggioso dal momento che non contribuisce direttamente alla dispersione del soluto (cosa che avverrebbe nel caso di flusso laminare dove le componenti che si trovano al centro del tubo migrano ad una velocità maggiore di quelle che si trovano ai bordi).

In figura 3.5 si osserva che la quantità di flusso elettroosmotico scende rapidamente nei pressi della parete a causa dell’attrito. Dal momento che tale strato si estende poco nella soluzione, il suo effetto è poco importante ai fini della separazione (si avrebbero problemi con diametri interni del capillare maggiori di 200 µm). Ulteriore beneficio derivante dalla presenza dell’EOF è che esso causa la migrazione di tutte le specie, indipendentemente dalla carica, nella stessa direzione, cioè verso il catodo.

Anche gli anioni migreranno tutti verso il catodo dal momento che il flusso elettroosmotico è più grande, di almeno un ordine di grandezza, della loro mobilità elettroforetica. In conclusione, anioni, cationi ed elementi neutri in un capillare migrano tutti nella stessa direzione se sottoposti a elettroforesi.

I cationi migrano più velocemente, dal momento che l’attrazione elettroforetica verso il catodo e l’EOF sono diretti nella stessa direzione e quindi si sommano. In vicinanza del catodo le molecole attraversano una finestra dove ne viene rivelato il passaggio attraverso varie tecniche.

I risultati della CE sono presentati sotto forma di elettroferogramma, che mette in relazione la risposta del rivelatore in funzione del tempo di migrazione.

Nella figura 3.6 è mostrato un semplice elettroferogramma risultato della separazione di una miscela di tre componenti di soluti (uno cationico, uno neutro e uno anionico).

Figura 3.6: elettroferogramma. I picchi indicano il passaggio dei prodotti di separazione, l'intensità della risposta serve a distinguere il passaggio di molecole caricate differentemente.

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Spettroscopia  di  emissione  atomica    

La spettroscopia di emissione atomica, spesso indicata con la sigla AES dall'inglese Atomic emission spectroscopy o OES da Optical emission spectroscopy, è una tecnica spettroscopica di emissione utilizzata in analisi chimica. Essa sfrutta la somministrazione di energia relativamente elevata, tanto da provocare la dissociazione in atomi e l'eccitazione di questi ultimi. In base alla lunghezza d'onda emessa è possibile risalire alla specie incognita, dato che gli spettri di ciascuna sostanza sono caratteristici, mentre misurando l'intensità dell'emissione si può effettuare anche l'analisi quantitativa.

In relazione alla sorgente utilizzata per produrre l'eccitazione degli atomi, si hanno diverse varianti strumentali. Le sorgenti utilizzate sono l'arco elettrico, la scintilla, la fiamma e il plasma.

Teoria

Assorbendo un quanto di energia, come risaputo dalla meccanica quantistica, un elettrone è in grado di passare a un livello energetico superiore grazie a transizioni elettroniche che avvengono in accordo con le regole di selezione. Quando l'atomo abbandona lo stato metastabile eccitato, esso ritorna allo stato fondamentale emettendo un classico spettro a righe.

Dal punto di vista teorico, le frequenze di emissione di un atomo idrogenoide sono calcolabili

tramite l'equazione

dove R è la costante di Rydberg, a e b sono costanti numeriche che identificano i possibili valori attribuibili al numero quantico principale, A e B sono altre costanti caratteristiche di ciascuna serie che servono principalmente a tenere in considerazione l'azione schermante degli elettroni interni.

L'intensità delle righe è direttamente proporzionale al numero Ni di atomi che popolano lo i-esimo stato eccitato e alla probabilità Pi che avvenga la transizione stessa, probabilità inversamente proporzionale alla vita media dello stato eccitato:

Ni è ricavabile applicando la distribuzione di Boltzmann. Si osserva che l'intensità di una riga aumenta all'aumentare del peso statistico del livello interessato e della probabilità di transizione, mentre diminuisce all'aumentare dell'energia del livello da cui si origina la transizione.

Arco elettrico e scintilla

Il campione viene posto tra le estremità dei due elettrodi; qualora non sia un conduttore viene mescolato e foggiato in pasticca con un eccesso di grafite.

La scarica elettrica, in base alle diverse caratteristiche che possono distinguerla, può essere classificata secondo i seguenti criteri:[1]

• L'arco è una scarica a bassa o media tensione (200-5.000 V), a carattere continuo, intermittente o oscillatorio (in questi ultimi casi a bassa frequenza). La scintilla è una scarica a media o alta tensione (2.000-40.000 V) con carattere oscillatorio ad alta frequenza.

• Continua o intermittente nel caso, rispettivamente, dell'assenza o presenza di interruzioni periodiche.

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• In corrente continua o alternata. • In bassa o alta tensione (quest'ultima > 10.000 V). • Condensata o non condensata se sia dovuta alla scarica di un condensatore o direttamente

alla tensione di alimentazione. • Autoiniziata o con iniziatore esterno se è necessaria la presenza di un innesco. Le scariche

ad alta tensione si innescano facilmente da sole. • Il numero di scariche può essere controllato se viene esattamente regolate in funzione del

tempo o incontrollato nel caso contrario.

Lo spettro generato da un arco viene detto spettro d'arco ed è dovuto all'atomo normale eccitato, mentre i diversi livelli di energia implicati con l'utilizzo della scintilla generano quello che viene definito spettro di scintilla, dovuto invece all'atomo ionizzato.

I tipi di scarica che trovano maggior impiego a livello analitico sono l'arco continuo in corrente continua, l'arco in corrente alternata, l'arco intermittente in corrente continua e la scintilla ad alta tensione, quest'ultima l'unica capace di eccitare tutti gli atomi eccetto quelli dei gas nobili. I circuiti delle moderne strumentazioni permettono contemporaneamente di potere realizzare vari tipi di scariche.

Un monocromatore permette di isolare una singola lunghezza d'onda utile per l'analisi quantitativa. Il rivelatore utilizzato è un fotomoltiplicatore associato a un condensatore d'integrazione.

Fiamma

La fiamma, col suo contenuto energetico derivante dalla reazione esotermica tra combustibile e comburente, è una sorgente adatta a produrre l'atomizzazione e l'eccitazione utile per l'analisi in emissione. Emette anche un debole spettro continuo, compensabile con l'utilizzo di un riferimento. In base al tipo di analita da esaminare, la tipologia di fiamma viene opportunamente scelta tenendo conto di parametri quali la temperatura, la velocità di combustione, le proprietà ossidoriducenti e l'intensità di emissione.

La tabella sotto riportata riassume le caratteristiche salienti delle fiamme più utilizzate.[2]

Combustibile Comburente Temperatura (°C) Velocità (cm/s) Metano Aria 1875 70 Gas di città Aria 1900 55 Propano Aria 1930 80 Idrogeno Aria 2045 440 Acetilene Aria 2300 160 Idrogeno Ossigeno 2660 1150 Acetilene Ossigeno 3100 2480

La successione dei fenomeni che avvengono durante la nebulizzazione del campione nella fiamma si può così riassumere: evaporazione del solvente e formazione di aerosol solido/gas, fusione e formazione di aerosol fuso/gas, vaporizzazione con formazione di molecole, atomizzazione (dal cui decorso dipende l'analisi), ionizzazione (da minimizzare). La fase critica di questa serie di passaggi è l'atomizzazione e occorre lavorare a una temperatura di compromesso per evitare l'insorgere di una massiva ionizzazione del campione.

Strumentazione

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Il bruciatore è il dispositivo che genera la fiamma e immette contemporaneamente la soluzione contenente l'analita in forma nebulizzata. Esistono due tipi di bruciatori: bruciatori a regime turbolento e bruciatori laminari. I bruciatori a regime turbolento, gli unici che consentono l'utilizzo di ossigeno puro quale comburente, realizzano la miscelazione di combustibile, comburente e analita dirrettamente al momento stesso di reagire in prossimità dell'ugello. Tra i vantaggi figurano la sicurezza d'uso (mancanza di ritorno di fiamma) e il totale utilizzo della soluzione in esame. Di contro, la fiamma è piuttosto disomogenea e ricca di disturbo ottico, mentre il diverso volume delle gocce prodotte nell'aerosol porta ad atomizzazione non completa con conseguente abbassamento della sensibilità. I bruciatori laminari attuano invece una premiscelazione dei tre componenti destinati alla fiamma, selezionando solo le gocce più fini (centesimi di nanolitro) che evaporeranno in fiamma rapidamente e in modo omogeneo dando origine a una ben definita zona di atomizzazione. L'inconveniente consiste nell'abbassamento di sensibilità dovuto all'immissione di una piccola quantità di soluzione (meno del 10%).

I moderni spettrometri utilizzati permettono di lavorare sia in emissione che in assorbimento; un monocromatore permette di isolare la riga analitica, mentre il rivelatore è costituito da un fotomoltiplicatore. Se l'emissione è di tipo fluorescente, si può realizzare la spettroscopia di emissione atomica in fluorescenza apportando piccole modifiche strumentali che consentano il rilevamento del segnale in posizione ortogonale rispetto alla direzione in cui avviene l'eccitamento e la separazione del segnale di fluorescenza dovuto all'analita da quello emesso dalla fiamma.

Plasma

L'utilizzo di una sorgente al plasma accoppiato induttivamente (ICP-AES) è caratterizzata dalle elevate temperature peculiari del plasma (6500-10000 K) che consentono di atomizzare o ionizzare ed eccitare quasi tutti gli elementi. I limiti di rivelabilità sono molto bassi e vanno da poche unità di µg/L fino a frazioni centesimali di µg/L.[3] Il segnale risulta stabile e altamente riproducibile, con la possibilità di effettuare agevolmente analisi multicomponenti avendosi basse interferenze chimiche. I costi di uno spettrometro per ICP-AES sono maggiori, inoltre bisogna considerare anche i costi di funzionamento di una torcia al plasma.

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Viscosimetria La Viscosimetria è una tecnica di analisi che si basa sulla determinazione della viscosità.

La viscosità rappresenta l'attrito interno di un liquido, ed esprime la maggiore o minore facilità di scorrimento di uno strato del liquido rispetto ad uno strato adiacente.

Per una corretta interpretazione di questo fenomeno, si deve ammettere che il movimento del fluido all'interno, per esempio, di un condotto cilindrico, sia dovuto al movimento di strati lamellari concentrici. Gli strati lamellari scorrono con una velocità che è massima per quello centrale, decresce gradualmente per quelli sempre più esterni ed è nulla per lo strato aderente alla parete del condotto cilindrico.

Movimento lamellare di un liquido che scorre all'interno di un condotto cilindrico.

Per esprimere quantitativamente la viscosità, consideriamo un liquido in quiete contenuto all'interno di un recipiente e supponiamo di applicare una forza F tangenzialmente alla superficie libera del liquido: la lamina superficiale del liquido inizierà a muoversi con una certa velocità (che indichiamo con u) trasmettendo il suo movimento alle lamine sottostanti che inizieranno a muoversi con velocità via via decrescenti:

Movimento delle lamine di un liquido provocato dalla forza F

Indicando con:

• F = modulo della forza applicata tangenzialmente al liquido (N);

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• A = area della lamina superficiale del liquido (m2); • u = velocità della lamina superficiale del liquido (m/s); • h = distanza tra la lamina superficiale e la lamina aderente al fondo del recipiente (m);

risulta che:

in cui η è la viscosità dinamica del liquido espressa nel S.I. in (N · s / m2).

In pratica però la viscosità dinamica di un liquido viene espressa in unità poise (si legga puas) (simbolo P) che corrisponde a un decimo dell'unità espressa in (N · s / m2):

La viscosità dinamica di un liquido viene calcolata con la legge di Poiseuille.

Viscosità cinematica

Oltre alla viscosità dinamica, viene talvolta utilizzata anche la viscosità cinematica v (si legga nì) che corrisponde a:

in cui d è la densità del liquido espressa in kg/m3.

La viscosità cinematica v nel S.I. viene espressa in: m2/s; in pratica però viene utilizzata l'unità stokes (simbolo St) che corrisponde a un millesimo dell'unità espressa in (m2 /s):

Fattori da cui dipende la viscosità

La viscosità dei liquidi diminuisce di norma con l'aumentare della temperatura. Da un punto di vista miscroscopico e quindi particellare, il valore della viscosità dipende sia dalla forma e dalla grandezza delle molecole sia dall'entità delle interazioni tra esse.

Così, ad esempio passando dall'esano (C6H14) all'ottano (C8H18) al decano (C10H22) le molecole diventano più lunghe e la viscosità aumenta.

Passando invece dall'alcol metilico (CH3OH) al glicole etilenico (CH2OH—CH2OH) alla glicerina (CH2OH—CHOH—CH2OH) la viscosità aumenta di molto a causa della possibilità di formare sempre più numerosi legami idrogeno e anche (in piccola parte) all'aumento delle dimensioni molecolari.

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ANALISI TERMOGRAVIMETRICA L’analisi termogravimetrica (TGA) è una tecnica analitica che fa parte delle analisi termiche a cui appartengono l’analisi termica differenziale (DTA) e la calorimetria differenziale a scansione (DSC). Queste tecniche si basano sulla misura di una grandezza fisica di una sostanza in funzione della temperatura sottoponendo il campione a un ciclo termico controllato.

In particolare l’analisi termogravimetrica viene usata per determinare la stabilità termica di una specie e dei componenti della sua frazione volatile misurando la variazione di massa che avviene quando la specie viene riscaldata. Un grafico della massa in funzione della temperatura permette di valutare la stabilità termica, le velocità di reazione, i processi di reazione e la composizione del campione.

L’analisi termogravimetrica può essere usata anche per la determinazione della variazione di peso di un materiale in condizioni isoterme in funzione del tempo.

La misura viene condotta in presenza di aria o di una atmosfera inerte come elio o argon in cui viene misurato il peso in funzione della temperatura.

In taluni casi le misure vengono effettuate in un’atmosfera povera di ossigeno (dall’1 al 5%) onde rallentare eventuali reazioni di ossidazione.

L’analisi termogravimetrica è una tecnica molto versatile in quanto può fornire informazioni relative a fenomeni fisici come transizioni di fase, e a fenomeni chimici come chemiadsorbimento, desolvatazione ed in particolare disidratazione, decomposizione e reazioni solido-gas. Attraverso questa tecnica analitica si può determinare la termodinamica e la cinetica di processi in cui si ha una perdita di massa come la corrosione e l’ossidazione. L’analisi termogravimetrica è una tecnica analitica quantitativa ma non fornisce indicazioni per identificare la natura dei componenti in esame.

Nel caso dei polimeri, il riscaldamento provoca delle modificazioni chimiche con scissione dei legami che di solito portano alla formazione di prodotti volatili.

Un’importante applicazione della TGA è la valutazione del contenuto di riempitivi presenti in polimeri e compositi . Il contenuto di riempitivi determina le proprietà del polimero in relazione alla sua dilatazione termica e rigidità ed è quindi un indice importante per nel controllo della qualità del polimero.

In particolare questa tecnica consente di ottenere con facilità il contenuto di vetro presente in un polimero in quanto la maggior parte dei polimeri sono costituiti da carbonio e quindi hanno una temperatura di decomposizione non superiore a 650°C. A questo valore di temperatura il vetro è stabile e rimane come residuo: la variazione della massa del campione polimerico rende quindi conto della quantità di vetro presente nel campione originale.

Tale tecnica fornisce inoltre indicazioni sulla stabilità relativa dei polimeri e sul loro comportamento complessivo nel processo di degradazione a prodotti volatili.

La strumentazione consiste di:

1) Bilancia termica ad elevata sensibilità ovvero di una bilancia su piattello su cui è posta la sostanza in esame la cui temperatura può essere misurata da una termocoppia

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2) Forno che riscalda con una velocità programmabile

3) Sistema di gas di spurgo che garantisce una atmosfera controllata

4) Elaboratore per il controllo dello strumento, l’acquisizione e la visualizzazione dei dati

Registrando in funzione della temperatura (o del tempo) il peso del campione, si ottiene una curva a gradini detta termogravigramma che si presenta come in figura:

da cui si possono trarre le informazioni volute. Attualmente, la strumentazione consente di combinare il metodo termogravimetrico, con l’analisi termica differenziale. I termogravigrammi ottenuti risultano dunque molto più utili a fornire le informazioni necessarie alla caratterizzazione di un manufatto.

 

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Calorimetria differenziale a scansione Nelle linee generali la calorimetria è una metodologia analitica che quantifica il calore coinvolto in un determinato processo come una reazione chimica o un passaggio di stato. Ci si può avvalere della calorimetria per determinare la variazione di entalpia ΔH associata al processo. Se tale valore è negativo il processo è esotermico e si ha sviluppo di calore, mentre se il valore di ΔH è positivo il processo è endotermico e avviene con assorbimento di calore. Il calorimetro, dispositivo utilizzato per tali determinazioni, è un sistema chiuso separato dall’ambiente circostante in cui può essere trasmesso il calore ma la massa dell’analita rimane costante. La calorimetria può essere condotta a pressione o volume costante e permette di monitorare la variazione di temperatura associata al processo. La calorimetria differenziale a scansione è un particolare tipo di calorimetria che si avvale di una sostanza di riferimento e di una sostanza campione che vengono poste in due ambienti diversi. La sostanza di riferimento è posta in un alloggiamento ed è in genere costituita dal solo solvente, mentre nell’altro alloggiamento viene posta la stessa quantità di solvente a cui è stata aggiunta la sostanza campione. La variazione di entalpia del solvente è la stessa in entrambi gli alloggiamenti quindi ogni differenza tra i due deve essere imputata alla presenza dell’analita. Il principio di funzionamento della DSC si basa sulla richiesta di uguaglianza tra le temperature del riferimento e del campione; allo scopo unità di riscaldamento e sensori di temperatura distinti sono incorporati nei portacampioni stessi. La differenza nelle temperature rivelata dai sensori fornisce un segnale di correzione per le potenze delle unità di riscaldamento incaricate di realizzare la coincidenza tra le temperature. I due crogioli vengono riscaldati in modo che le loro temperature rimangano uguali in tal modo qualunque variazione di temperatura che si verifica è dovuta a fenomeni che si verificano nella sostanza da analizzare; in tal caso verrà fornito calore all’alloggiamento che ha la temperatura più bassa. Nel corso dell’esperimento un sistema di termocoppie rileva i dati di temperatura inviandoli a un elaboratore che genera l’output che è detto termogramma differenziale che ha la temperatura sull’asse delle ascisse e la differenza di calore rispetto a una data temperatura sull’asse delle ordinate. Un tipico termogramma è rappresentato in figura:

esso indica la variazione di energia quando le temperature delle due celle vengono gradualmente incrementate. Una reazione endotermica provoca un aumento di energia quando la temperatura aumenta in quanto viene richiesto ulteriore calore per far avvenire la reazione e

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mantenere costante la temperatura. Quando avviene una reazione esotermica si verifica l’effetto opposto in quanto viene richiesta una minore energia di riscaldamento stante il calore sviluppato dalla reazione. La calorimetria differenziale a scansione può essere usata per la determinazione della capacità termica specifica, della temperatura di fusione, di cristallizzazione e dell’entalpia ad esse associata, della temperatura di transizione vetrosa, del percento di cristallinità, della cinetica della reazione, della purezza del materiale. Viene utilizzata sia per analisi qualitative confrontando termogrammi realizzati in condizioni analoghe con campioni noti che per analisi quantitative avvalendoci dell’area sottostante le curve che sono proporzionali alla quantità di sostanza presente. L’integrale del picco fornisce la variazione totale di entalpia del processo:

∫(dH/dT)specie = ΔHspecie

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Risonanza magnetica nucleare

La risonanza magnetica nucleare (RMN), in inglese Nuclear Magnetic Resonance (NMR), è una

tecnica di indagine sulla materia basata sulla misura della precessione dello spin di protoni o di altri

nuclei dotati di momento magnetico[1] quando sono sottoposti ad un campo magnetico.

La risonanza magnetica trova impiego anche in chimica. A grandi linee si possono distinguere

quattro grandi aree di ricerca: spettroscopia di correlazione, spettroscopia ad alta risoluzione,

spettroscopia imaging MRI e infine spettroscopia Rheo-NMR. La spettroscopia di correlazione e

quella ad alta risoluzione sono utilizzate principalmente come tecniche per caratterizzare la struttura

delle molecole. La spettroscopia di correlazione include gli esperimenti di disaccoppiamento e

disaccoppiamento selettivo e le spettroscopie pluridimensionali (essenzialmente bidimensionali).

La spettroscopia imaging e la Rheo-NMR sono solitamente utilizzate per individuare parametri

chimico-fisici. La tecnica di imaging NMR può visualizzare, in una specifica immagine, il profilo

delle velocità del flusso e la densità molecolare all'interno di una cella reologica. Il metodo è non

invasivo e fornisce informazioni sull'esatta natura del flusso di deformazione. È possibile infatti

immettere un rotore all'interno del probe NMR imaging e determinare immagini di velocità di

flusso generate dallo shear all'interno della couette che crea flussi stazionari all'interno del sistema.

L'impiego contemporaneo delle due tecniche reologia e risonanza magnetica permette di eseguire

misure utilizzando solo piccole quantità di campione ed inoltre, grazie alle piccole dimensioni della

cella, è possibile raggiungere alti valori di velocità di flusso.

La spettroscopia monodimensionale in chimica-fisica viene utilizzata solitamente per il calcolo del

coefficiente di autodiffusione. La tecnica Pulsed Gradient (acronimo: PG-NMR) fornisce un

metodo conveniente e non invasivo per misurare il moto traslazionale molecolare correlabile al

coefficiente di autodiffusione D. La tecnica PG-NMR permette di seguire spostamenti quadratici

medi compresi tra i 100 Å e 100 µm, cioè nel range relativo alle dimensioni delle molecole

organizzate in sistemi supramolecolari, come le fasi liquido-cristalline. La sequenza utilizzata per

questa tecnica è stata proposta da Stejskal e Tanner.

 

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Norme di sicurezza nei laboratori di chimica Per svolgere un lavoro sicuro per sè e per i propri compagni, ogni studente deve seguire nel laboratorio di chimica alcune norme di sicurezza e consigli pratici.

Per la sicurezza nel laboratorio di chimica è bene seguire queste fondamentali norme di comportamento:

1) Durante l'esecuzione di un esperimento indossare sempre camice da laboratorio, guanti monouso e occhiali protettivi.

2) Prima di iniziare qualsiasi attività, accertarsi di avere capito scopo e finalità che l'esperimento si prefigge.

3) Seguire scrupolosamente e nell'ordine stabilito tutte le operazioni discusse con l'insegnante necessarie per portare a termine l'esperimento. Non prendere iniziative di alcun genere e non tentare alcuna variante all'esperimento che non sia stata preventivamente approvata dall'insegnante.

4) Durante l'attività di laboratorio non portare nulla alla bocca (mani, cibo, bevande, ecc.). Anche i cibi toccati con le mani possono essere stati contaminati da reagenti chimici e quindi potenzialmente dannosi per la salute.

5) Fare molta attenzione quando si utilizzano liquidi infiammabili. Nelle esercitazioni in cui è previsto l'uso di solventi infiammabili (acetone, alcol, etere di petrolio, ecc.) tutti i bunsen devono essere spenti.

6) Minimizzare l'inquinamento dell'ambiente privilegiando esercitazioni in scala ridotta. Disporre in laboratorio opportuni recipienti di raccolta per le sostanze tossiche ed inquinanti. Questi recipienti vanno consegnati a ditte specializzate per lo smaltimento.

7) Maneggiare con cura le apparecchiature di vetro facendo attenzione a non tagliarsi. Se le apparecchiature in vetro sono state appena ritirate dalla fiamma, appoggiarle su una reticella isolante e non direttamente sul banco di lavoro.

8) Non aspirare mai i vapori che possono svilupparsi in una reazione chimica o che possono essere esalati da alcuni contenitori; in questi casi è opportuno lavorare sotto cappa aspirante.

9) Non lavorare da soli in laboratorio. In caso di incidente nessuno vi potrà soccorrere.

10) Per il travaso di liquidi fare scorrere il liquido lungo una bacchetta di vetro o, per volumi di liquido maggiori, farlo scorrere lungo le pareti del recipiente.

11) Avvertire l'insegnante in caso di incidente.

12) Tenere ogni cosa pulita ed in ordine; in particolare il banco di lavoro deve essere sgombero da reagenti e apparecchiature inutilizzate.

13) Estintori, doccia, cassetta di pronto soccorso, uscite di sicurezza devono essere facilmente raggiungibili e accessibili.

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13) Nella diluizione dell'acido solforico, versare sempre l'acido nell'acqua e non viceversa poichè la solubilizzazione è fortemente esotermica.

14) Quando si utilizza una pipetta, non aspirare i liquidi con la bocca ma con l'ausilio della propipetta.

15) Utilizzare spatole pulite per prelevare dai contenitori i reagenti solidi. Al fine di non inquinare il contenuto dei recipienti, la stessa spatola non deve essere mai utilizzata per il prelievo di più sostanze diverse.

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GLOSSARIO

Fluorimetria

Analisi qualitativa e quantitativa di sostanze che si basa sulla valutazione della loro fluorescenza

Bianco analitico

In chimica analitica, un bianco analitico, o semplicemente bianco, è una miscela del tutto simile al campione da analizzare ma priva degli analiti di interesse.

Il bianco viene trattato con tutti i reagenti con cui è stato trattato il campione e subisce tutti i trattamenti che ha subito il campione: bagno riscaldante, microonde, sonicazione, ecc.

Nella maggioranza dei casi i reagenti e i trattamenti vengono usati su un contenitore vuoto come nel caso delle soluzioni acquose in cui l'effetto matrice è trascurabile. È possibile distinguere il bianco reagente, quello appunto in cui l'effetto della matrice è considerato trascurabile, dal bianco matrice che invece tiene conto più strettamente della presenza della matrice.

Il bianco serve ad ottenere un'indicazione di quanto analita arriva da fonti esterne, per questo è indispensabile per calcolare i limiti di rivelabilità e di quantificazione. Serve anche ad individuare eventuali contaminanti presenti nel laboratorio o accidentalmente aggiunti dall'operatore e a valutare il livello di pulizia delle attrezzature e del laboratori

Reagente

Si definisce reagente qualsiasi sostanza che prende parte ad una reazione chimica consumandosi.[1]

Col procedere della reazione, i reagenti (indicati solitamente nella parte sinistra di un'equazione chimica) si trasformano nei "prodotti di reazione" (indicati solitamente nella parte destra dell'equazione chimica).

Spesso i prodotti di una reazione chimica a loro volta possono essere reagenti di altre reazioni, anche concomitanti.

Esempio: nella reazione:

A + B → C + D

A e B sono i reagenti, C e D sono i prodotti di reazione.

Affinché la reazione abbia luogo, le molecole dei reagenti devono urtarsi con un'energia, detta energia di attivazione, sufficiente per produrre uno stato di transizione che evolve successivamente nei prodotti di reazione.

Reazione chimica

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Una reazione chimica è una trasformazione della materia che avviene senza variazioni misurabili di massa, in cui una o più specie chimiche (dette "reagenti") modificano la loro struttura e composizione originaria per generare altre specie chimiche (dette "prodotti"). Ciò avviene attraverso la formazione o la rottura dei cosiddetti "legami chimici intramolecolari", cioè attraverso un riassestamento delle forze di natura elettrostatica che intervengono tra i singoli atomi di cui sono costituite le entità molecolari che sono coinvolte nella reazione. Tali forze elettrostatiche sono a loro volta riconducibili all'effetto degli elettroni più esterni di ciascun atomo.

Alcuni processi in cui intervengono reazioni chimiche sono:

• la corrosione del ferro a ruggine (che è composta da ossidi di ferro); • la combustione del metano o altri combustibili (il metano con l'ossigeno si trasforma in

anidride carbonica e vapore acqueo); • la digestione (gli alimenti sono decomposti dai succhi gastrici in sostanze chimiche

assimilabili dall'organismo); • la solubilizzazione e la formazione di miscele negli stati liquidi e solidi genera reazioni di

complessazione e di dissociazione.

Una reazione non può avere luogo, o viene rallentata fino a fermarsi o addirittura a regredire se non è soddisfatta una serie di condizioni, come ad esempio presenza dei reagenti in misura adeguata e condizioni di temperatura, pressione e luce adatte alla specifica reazione.

Reattività

Con il termine reattività si intende la tendenza di una particolare specie chimica a reagire in presenza di altri particolari reagenti. Si parla quindi di reattività per una determinata sostanza chimica nei confronti di un altro determinato reagente.[1]

Il contrario di reattività è stabilità: infatti tanto meno una sostanza è portata a reagire, tanto più essa è stabile (cioè mantiene inalterata la propria natura chimica).

La reattività è una proprietà caratteristica della sostanza in esame, mentre la velocità di reazione fa riferimento ad una particol

Prodotto (chimica)

I prodotti di una reazione chimica sono le sostanze che si formano durante una reazione,[1] come conseguenza della ricombinazione dei legami che tengono uniti gli atomi che costituiscono le sostanze reagenti.

Una reazione chimica è rappresentata da un'equazione chimica, dove compaiono due termini: solitamente nel termine di sinistra sono indicati i reagenti, mentre nel termine di destra sono indicati i prodotti.

Per la legge di Lavoisier, la massa dei prodotti è uguale alla massa dei reagenti.

Se il prodotto della reazione viene utilizzato da un'altra reazione come reagente subito dopo la sua generazione, si parla più propriamente di "intermedio di reazione".

I prodotti dell'industria chimica vengono spesso classificati dal punto di vista commerciale in base al loro volume di produzione e al loro valore aggiunto a partire dalla matrice di Kline.

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Catalizzatore

Un catalizzatore è una specie chimica che interviene durante lo svolgimento di una reazione chimica che, modificando il complesso attivato della reazione, permette un abbassamento dell'energia di attivazione, aumentando quindi la velocità, rimanendo comunque inalterato al termine della stessa (a differenza dei reagenti, che si consumano al procedere della reazione).

L'uso di catalizzatori fa sì che processi che avverrebbero molto lentamente (ad esempio anni) si compiano e si concludano in tempi relativamente brevi (ad esempio secondi, minuti, o ore). Durante il procedere della reazione, il catalizzatore può perdere progressivamente la sua efficacia (si parla in questo caso di disattivazione del catalizzatore), ad esempio a causa di stress termico (degradazione termica) o a causa dell'intervento di sostanze che si depositano su di esso, bloccando i centri attivi (sporcamento) o per un fenomeno chiamato avvelenamento.

L'aumento di velocità viene reso possibile grazie alla variazione del meccanismo di reazione, che quindi comporta un diverso (e minore) livello dell'energia di attivazione (energia potenziale), che deve essere raggiunto per far sì che i reagenti evolvano poi spontaneamente verso il prodotto/i. L'effetto è tale da rendere possibili reazioni che in condizioni normali non procederebbero in maniera apprezzabile: i casi più eclatanti si hanno in biochimica, sia in laboratorio che nella ingegneria biochimica, dove gli enzimi aumentano la velocità delle reazioni anche di 1020 volte.