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LDB

J.M.Coetzee

Foe

TraduzionediFrancaCavagnoli

Einaudi

Parteprima

«Allafinenonriusciipiúaremare. Avevo lemani pienedi vesciche, la schiena

scottata, il corpo dolorante.Con un sospiro, sollevandoappena qualche spruzzo,scivolai nell’acqua. A lentebracciate,con i lunghicapelliche mi fluttuavano intorno,comeun fioredimare, comeun anemone, come unamedusa di quelle che sivedono nelle acque delBrasile, nuotai verso l’isolasconosciuta; per un poconuotai come avevo remato,

controcorrente, poi, d’untratto, libera, mi lasciaitrasportare dalle onde findentrolabaiaesullaspiaggia.

«Mi abbandonai sullasabbiacocente, la testacolmadel fulgore arancio del sole,mentre la camiciola (l’unicacosaconcuierofuggita)misiasciugava addosso,incrostandosi; ero stanca,grata, come lo sono colorochesisonosalvati.

«Un’ombraneracalòsudime,nondiunanuvolamadiun uomo cinto da un aloneaccecante.“Naufragio,–dissiconlalinguaimpastata.–Hofattonaufragio.Sonosola”.Etesilemanipiagate.

«L’uomo mi si accovacciòaccanto. Era nero: un negrocon un’irsuta testa lanosa,nudo, non fosse stato per unpaiodibrachegrezze.Mitiraisueosservailafacciapiatta,i

piccoli occhi spenti, il nasolargo, le labbra carnose, lapelle non nera ma di ungrigio scuro, secca, comecosparsa di polvere. “Agua”,provaiadire inportoghese,efeci il gesto di bere. Nonreagí, ma mi guardò comeavrebbe fatto con una foca ounafocenagettatearivadalleonde, prossime a morire e avenire possibilmentesquartateemangiate.Accanto

a lui c’era una fiocina. Sonogiunta sull’isola sbagliata,pensai, e lasciai ricadere latesta: sono giunta su un’isoladicannibali.

«Allungò unamano e conil dorso mi sfiorò il braccio.Sta tastando la carne, pensai.Ma,apocoapoco,cominciaia respirare piú adagio e micalmai.Puzzavadipesce,edilanadipecorainunagiornatatorrida.

«Poi, giacché nonpotevamo restare cosí persempre,mimisiasedereedinuovo feci il gesto di bere.Avevo remato tutta lamattina, non bevevo dallasera prima; pur di averedell’acqua, non m’importavasedopomiavrebbeucciso.

«Il negro si alzò emi fecesegno di seguirlo. Micondusse, irrigidita edolorante, attraverso dune

sabbiose e lungo un sentieroche s’inerpicavanell’entroterra collinaredell’isola. Ma avevamoappena cominciato a salireche sentii una fitta, e dalcalcagnotiraifuoriunalungaspina dalla punta nera.Sebbene l’avessi massaggiato,di lí a poco il calcagno sigonfiò finché, dal male, nonriusciinemmenoazoppicare.Il negro mi offrí la schiena,

facendomi capire che miavrebbe portato lui. Esitai,perché era esile, piú basso dime. Ma non potei farne ameno. Cosí, un po’saltellando suunagamba,unpo’ in groppa a lui, con lacamiciola rimboccata e ilmento che gli sfiorava icapelli crespi, salii il pendio,mentre la paura si attenuavain quello strano abbraccio arovescio. Non badava a dove

metteva i piedi, notai, maaddirittura schiacciava sottole piante interi viluppi dellestesse spine che mi avevanotrafittolapelle.

«Ai lettori cresciuti con iracconti di viaggio, le paroleisola deserta potrebberoevocare un luogo di sabbiesoffici e alberi ombrosi, dovescorrono ruscelli che placanola sete del naufrago e glicadonoinmanofruttimaturi,

dove gli si richiede solo ditrascorrere le giornatesonnecchiando in attesadellanave che lo riporterà a casa.Ma l’isola sulla quale avevofatto naufragio io era unluogo del tutto diverso: unagrande collina rocciosa dallacima piatta, a picco sulmaretranne che su un lato,punteggiata di cespugli stentiche non fiorivanomai e nonperdevano mai le foglie. Al

largodell’isolac’eranobanchidi alghe brune che, portate arivadalleonde,sprigionavanoun fetore disgustoso enutrivano sciami di grandipulci chiare. Le formichebrulicavanoovunque,similiaquellecheavevamoaBahia,etra le dune viveva anche unaltroinsettonocivo:unessereminuscolochesiannidavatrale dita dei piedi e,rosicchiando, si apriva un

varco nella carne. Persino lapelleduradiVenerdínoneralorodiostacolo:neisuoipiedic’erano crepe sanguinanti,sebbene non ci facesse caso.Non vidi serpenti, ma nelleore piú calde della giornatalucertole uscivano a scaldarsial sole, alcune piccole e agili,altre grandi e sgraziate, concollari azzurri intorno agliopercoli, che allargavano dicolpo quando si

spaventavano, sibilando consguardo truce. Ne catturaiuna e cercai diaddomesticarla,nutrendoladimosche; ma non mangiavacarnemorta,sicchéallafinelalasciai libera. C’erano anchescimmie (di cui parlerò piúavanti) e uccelli, uccellidappertutto: non solo nugolidi “passeri” (o cosí almeno lichiamavo) che svolazzavanotutto il giorno cinguettando

dicespuglioincespuglio,ma,sulle scogliere a picco sulmare, grandi colonie digabbiani e gavine e sule ecormorani, cosí che le rocceerano bianche dei loroescrementi. E, nel mare,foceneefocheepescidiognispecie.Cosí, se la compagniadi creature brute mi fossebastata, sulla mia isola avreipotuto vivere felice. Ma chi,abituato alla pienezza della

parola umana, riesce adaccontentarsi di gracchi ecinguettii e strida, e dellatrato delle foche, e delgemitodelvento?

«Arrivammo infine incima alla salita, e il mioportatore si fermò ariprendere fiato. Mi ritrovaisuunpianorononlontanodauna sorta di accampamento.Tutt’intorno si stendevasfavillante il mare, mentre, a

levante, lanave chemi avevaportata rimpiccioliva a velespiegate.

«Ilmiounicopensieroeral’acqua. Pur di bere, nonm’importava a quale sortefossi destinata. All’ingressodell’accampamento c’era unuomo,dallapelle scurae conlabarbaincolta.“Agua”,dissi,facendo dei segni. Egli sirivolsealnegroagesti,eiomiavvidi che era un europeo.

“Fala inglez?” domandai,come avevo imparato a direinBrasile.Annuí.Ilnegromiportò una ciotola d’acqua.Bevvi, ed egli me ne portòun’altra. Era l’acquamigliorecheavessimaibevuto.

«Gli occhi dellosconosciuto erano verdi, icapelli,bruciatidalsole,colorpaglia. Avrà avuto unasessantina d’anni. Indossava(permettetemi di descriverlo

dacapoapiedi)unfarsettoebrache sotto il ginocchio, diquelli che portano i barcaiolidel Tamigi, e un altocopricapoa formadi cono, iltutto di pelli allacciateinsieme, col pelo all’esterno,un paio di sandali robusti.Allacintolaavevaunbastonecorto e un coltello. Unammutinato, fu ilmio primopensiero: un ennesimoammutinato,lasciatoarivada

un capitano misericordioso,che si accompagnava a unodei negri dell’isola,trasformato in servitore. “MichiamoSusanBarton,–dissi.– Sono stata buttata a maredalla ciurma di quella navelaggiú. Hanno ucciso ilcapitano e a me hanno fattoquesto”. E all’improvviso,sebbene non avessi versatouna lacrima durante tutti gliinsulti lanciatimi contro a

bordo e nelle ore delladisperazione, quando erorimastasolanell’oceanoconilcapitanomorto aimiei piedi,un palanchino che glifuoriusciva dall’orbita,scoppiai a piangere. Sedettisulla nuda terra con il piededolorante tra le mani ecominciai a cullarmi avanti eindietro, e a singhiozzarecomeunabambina,mentrelosconosciuto (che

naturalmente era il Cruso dicuivihoparlato)miguardavaquasi fossiunpesce gettato arivadalle onde, piuttosto cheunacreaturasventuratasimilealui.

«Vi ho detto com’eravestitoCruso;lasciateoracheviparlidellasuadimora.

«Al centro del pianoroc’era un ammasso di roccealtequantounacasa.Fraduedi queste, Cruso si era

costruitounacapannadipalie giunchi, abilmenteintrecciati e intessuti confronde d’albero tra un palo el’altro a formare il tetto e lepareti. Uno steccato, con uncancello che ruotava sugiunturedicuoio,completavaun accampamento a piantatriangolare che Crusochiamava “il suo castello”.All’internodellarecinzione,alriparodallescimmie,c’eraun

orticello di lattuga selvaticaamara.Lalattugaassiemealleuova di pesci e uccellicostituivano,comesentirete,inostriunicialimentisull’isola.

«Nella capanna Crusoavevaunlettoangusto,tuttoilsuomobilio.Ilpavimentoeracostituito dalla nuda terra. Ilgiaciglio di Venerdí era unastuoiasottolagronda.

«Asciugandomifinalmentele lacrime, chiesi a Cruso un

ago o qualcosa di simile pertogliermi la spina dal piede.Tiròfuoriunagoricavato, inchemodononsaprei,daunalisca di pesce, con un foronell’estremità piú larga, e miguardò in silenzio mentre latoglievo.

«“Permettetemi diraccontarvi la mia storia, –dissi,–giacchésonocertachevi starete chiedendo chi sia ecomesiaarrivatafinqua.

«“Mi chiamo SusanBarton, e sono una donnasola.Miopadreerafranceseescappò in Inghilterra persfuggire alle persecuzioninelleFiandre. Il suonome inrealtà era Berton, ma, comesuccede, in bocca aglistranieri si corruppe. Miamadreerainglese.

«“Dueannifalamiaunicafigliavenne rapita e condottanel Nuovo Mondo da un

inglese, un commissionario espedizioniere. Decisi dipartireallasuaricerca.Almioarrivo aBahia, incontrai solodinieghi e, perseverando nelmio intento, malgarbo eminacce. Gli ufficiali dellaCoronanonmidiederoaiuto,sostenendo che si trattava diuna faccenda tra inglesi. Hovissuto in camereammobiliate e ho accettatolavori di cucito, continuando

acercareeadaspettare,madimia figlia nessuna traccia.Cosí, ormai disperata e acorto di mezzi, mi sonoimbarcata su un mercantiledirettoaLisbona.

«“Dieci giorni dopo averlasciato il porto, come se lemie sventure non bastassero,la ciurma si è ammutinata.Facendo irruzione nellacabinadelcapitano, lohannocrudelmente trucidato

nonostantelesuesuppliche.Icompagni che non si eranoschierati al fianco degliammutinati sono stati messiai ferri. Mi hanno calato inunabarcaassiemealcadaveredel capitano, e ci hannolasciato andare alla deriva.Perchémaiabbianodecisodibuttarmi a mare non lo so.Ma di norma cominciamo aodiare coloro che abbiamomaltrattato e desideriamo

non posaremai piú gli occhisudiloro.‘Ilcuoredell’uomoèuna selvaoscura’, sidice inBrasile.

«“La sorte ha voluto (oforsecosíèstatoordinatoagliammutinati)chefossilasciataandare alla deriva inprossimità di quest’isola.‘Remos!’ ha gridato ilmarinaio dal ponte, eintendeva dire che dovevoprendereiremieremare.Ma

tremavo dal terrore. Cosí,mentre essi ridevano e mischernivano, io venivosballottata dalle onde, finchénonsièlevatoilvento.

«“Per tutta la mattina,mentre lanave si allontanava(credo che gli ammutinatiintendessero darsi allapirateria al largo diHispaniola),horematoconilcadaveredelcapitanoaipiedi.Presto i palmi delle mani si

sono riempiti di vesciche –guardate! – ma non osavoriposare, temendo che lacorrente mi trascinasse oltrela vostra isola. Ben peggioredelmalecausatodairemierala prospettiva di vagare alladeriva di notte nella vasta edesolata distesa del mare,quando,comehosentitodire,imostridegliabissi risalgonoagallaincercadiprede.

«“Alla fine non riuscivo

piú a remare. Avevo lemaniescoriate, la schiena scottata,il corpo dolorante. Con unsospiro, sollevando appenaqualche spruzzo, sonoscivolata nell’acqua e hocominciatoanuotareversolavostra isola. Le onde mihanno presa e portata a riva.Ilrestolosapete”».

«Con queste parole mipresentai a Robinson Crusoneigiorni incuieraancora il

signoredell’isola, e divenni ilsecondo suddito, giacché ilprimo era Venerdí, il suoservitore.

«Ora, sarei lieta diraccontarvilastoriadiquestosingolare Cruso, come l’houdita dalle sue stesse labbra.Le storie che mi ha narrato,però, erano cosí diverse einconciliabili da indurmi aconcludere che l’età el’isolamento facessero ormai

sentire il loro peso sullamemoria, e che Cruso nonsapesse piú distinguere veritàe fantasie. Cosí un giornodicevachesuopadreerastatoun mercante facoltoso cheavevalasciatol’ufficioincercadi avventura. Ma il giornodopo mi raccontava che erastatounpoverogiovanesenzafamiglia che, imbarcatosicome mozzo e catturato daiMori (sul braccio aveva una

cicatrice lasciata, diceva, daun marchio a fuoco), erafuggito nel Nuovo Mondo.Certe volte diceva chevivevanosull’isoladaquindicianni, lui e Venerdí, e cheerano gli unici a essere statirisparmiati dopo che la loronave era colata a picco.“Quando la nave è colata apicco,Venerdíeradunqueunbambino?” domandavo. “Sí,un bambino, solo un

bambino, un piccoloschiavo”, rispondeva Cruso.Ma altre volte, quando adesempio era in preda allafebbre (e non dovremmoforse credere che, quando sihalafebbreosièubriachi,laverità viene a galla nostromalgrado?), raccontava storiedicannibali,dicomeVenerdífosseuncannibale cheCrusoaveva salvato da altricannibali intenzionati ad

arrostirlo e divorarlo. “Icannibali non potrebberotornare a cercarlo?”domandavo, ed egli annuiva.“È per questo che guardatesempreilmare:pervedereseritornano?” l’incalzavo, edegli annuiva di nuovo. Cosí,alla fine, non sapevo piúdistinguere cosa fosse vero ecosa falso, e cosa fossemerovaneggiare.

«Ma lasciate che torni al

mioracconto.«Ormai allo stremo, chiesi

dicoricarmiecaddisubitoinun sonno profondo. Al miorisveglio, ilsolestavacalandoe Venerdí era intento apreparare la cena. Sebbenenonfossechepesceallabraceservitoconlalattuga,mangiaidi gusto. Grata di avere lapancia piena e i piedi dinuovo sulla terraferma,ringraziai il mio singolare

salvatore. Gli avrei anchedettoaltrodime stessa,dellamia ricercadella figlia rapita,dell’ammutinamento.Manonfece domande, si limitòpiuttosto a guardare iltramonto, annuendocome seascoltasseunavocedentrodisé.

«“Possochiedervi,signore,–dissidopounpo’,–perchéin tuttiquesti anninonavete

costruito una barca e nonsietefuggitodall’isola?”

«“E dove mai dovreifuggire?” rispose con unsorrisotrasé,quasinonfossepossibilealcunarisposta.

«“Beh, potresteraggiungere la costa delBrasile,oppureincrociareunanaveedesseretrattoinsalvo”.

«“Il Brasile dista centinaiadi miglia, ed è pieno dicannibali,–disse.–Quantoai

velieri, ne vedremo anche dipiústandoceneacasa”.

«“Mi permetto didissentire. Ho trascorso duelunghi anni in Brasile e nonhomaiincontratocannibali”.

«“Voi eravate a Bahia. EBahia non è che un’isola sullimitare delle forestebrasiliane”.

«Cosí iniziai a capire cheesortare Cruso a mettersi insalvo era fiato sprecato.

Invecchiare nel regno dellasua isola senza nessuno adirgli mai di no avevacircoscritto il suoorizzonte atal punto – per quantol’orizzonteintornoanoifossevastoemaestoso!–cheCrusoera ormai persuaso di saperetuttodelmondo.Epoi,comescopriipiú tardi, era scematoinluiildesideriodifuggire.Ilsuo cuore era determinato arimanere fino al giorno della

sua morte sovrano di quelminuscolo reame. In verità,non era la paura dei pirati odei cannibali a trattenerlodall’accendere falò o daldanzare in cima alla collinasventolando ilcappello,bensíindifferenza a salvarsi,abitudine, e la cocciutagginedellavecchiaia.

«Era giunta l’ora diritirarsi. Cruso si offrí dicedermi il letto, ma io non

accettai, preferendo ilgiacigliodierbapreparatodaVenerdí. Lí mi coricai, pocodistante da Cruso (poiché lacapanna era piccola). La seraprima ero in viaggio versocasa; quella sera ero unanaufraga. Rimasi svegliamolteore,incapacedicredereacom’eramutatalamiasorte,afflitta anche dal dolore allemani piene di vesciche. Poimi addormentai. Durante la

nottemisvegliaiunavolta. Ilvento era cessato; riuscivo asentire il cantodei grilli e, inlontananza,ilmugghiaredelleonde.“Sonoalsicuro,sonosuun’isola, andrà tutto bene”,sussurrai a me stessa e,cingendomi forte con lebraccia,miriaddormentai.

«Fui svegliata daltamburellaredellapioggiasultetto. Era mattino; Venerdíera accovacciato davanti alla

stufa (non vi ho ancoraparlato della stufa di Cruso,fatta di pietra, con cura), adalimentare il fuoco,infondendo in esso vita.Dapprima mi vergognai difarmi vedere a letto, ma poiricordai quanto fosserodisinvolte le signore di Bahiadavanti alla servitú, e misentii piú a mio agio. Crusoentrò e facemmo una bellacolazioneconuovadiuccello,

mentre la pioggia gocciolavaqua e là dal tetto e sfrigolavasulle pietre roventi. Benpresto, però, cessò e uscí ilsole, sollevando spire divapore dalla terra, e il ventoriprese a soffiare senza posafinoallasuccessivabonacciaeal successivo acquazzone.Vento, pioggia, vento,pioggia: questo era il ritmodellegiornateinquelluogo,elo era stato, per quanto ne

sapessi, sin dalla notte deitempi.Lacircostanzachepiúdi ogni altra mi spingeva afuggire,atuttiicosti,nonerala solitudine né l’asprezzadelle condizioni di vita, nél’alimentazione monotona,bensí il vento che giornodopo giorno mi fischiavanelle orecchie, mi tirava icapelli, mi soffiava sabbianegli occhi, al punto che avoltemi inginocchiavo in un

angolo della capanna con latesta fra le braccia ecominciavo sommessa agemere, senza mai smettere,purdiudireunsuonodiversodalventobattente;o,quandoavevo preso a bagnarmi inmare, trattenevo il fiato eimmergevolatestasott’acquasolo per sapere cosa fosse ilsilenzio.Contuttaprobabilitàvidirete:InPatagoniailventosoffiatuttol’annosenzaposa,

ma gli abitanti nonnascondono la testa, quindiperchéellalofa?Maessi,nonconoscendo altro che laPatagonia,nonhannoragionedi dubitare che il vento soffituttelestagionisenzaposainogniangolodelglobo,mentreiosochenonècosí.

«Prima di uscire persvolgere le sue occupazioni,Cruso mi diede il coltelloconsigliandomi di non

avventurarmi lontano dalcastello, giacché le scimmie,disse, non si sarebbero fattescrupoli con una donna,comeinveceaccadevaconluie Venerdí. Al che midomandai: Una donna, peruna scimmia, era forse unaspecie diversa dall’uomo?Tuttavia, per prudenza,obbedii e rimasi a casa ariposare.

«Tranne il coltello,

sull’isola tutti gli utensilierano di legno o pietra. LavangaconcuiCrusospianavaiterrazzi(piútardiavròaltroda dire al riguardo) era unoggetto di legno, stretto, dalmanico ricurvo, ricavato daun unico pezzo e indurito alfuoco.Lazappaeraunapietraaguzzalegataaunbastone.Leciotole nelle qualimangiavamo e bevevamoerano ceppi di legno grezzo

incavatia furiadi raschiarliebruciarli. Giacché sull’isolanon c’era argilla da plasmaree cuocere, e gli alberi eranogracili, stenti per via delvento,confustiritortidiradopiú larghi della mia mano.Era un vero peccato che dalrelitto della nave Cruso nonavesse portato via nient’altroche un coltello. Giacché, seavesserecuperatoancheilpiúsemplice degli utensili da

falegname, e qualche astaappuntita, qualche sbarra ocose simili, avrebbeprobabilmente forgiatoutensili migliori, e conutensili migliori avrebbeescogitato una vita menofaticosa, o addiritturacostruito una barca perfuggireversolaciviltà.

«Nellacapannac’erasoloilletto, fatto di pali legatiinsieme con lunghe striscedi

cuoio, un manufattogrossolanomasolido,einunangolo,unmucchiodipellidiscimmia trattate, chespandevano per la capannaun odore di conceria (colpassare del tempo mi ciabituai e, dopo che ebbilasciato l’isola, ne sentii lamancanza; anche oggi,quando sento l’odore delcuoiofresco,mivienesonno),elastufa,dovesottolacenere

ardeva sempre la brace,poichéaccendere il fuocoeraunlavorotedioso.

«Ciò che, però, speravosoprattutto di trovare nonc’era. Cruso non teneva undiario,forseperchénonavevacarta e inchiostro, ma piúprobabilmente, credo oggi,perché non avevapropensione a tenerlo, o, semai l’avesse avuta, l’avevapersa. Ho cercato tra i pali

che sostenevano il soffitto etralegambedelletto,manonhotrovatoincisioninellegno,e nemmeno tacche da cuidesumerechetenesseilcontodegli annidi esilio odei ciclilunari.

«In seguito, quandocominciai a sentirmi piú amioagio con lui, glidissidelmio stupore. “Supponiamoche un giorno vengano atrarci in salvo. Non sareste

rammaricato di non poterportare con voi qualchetestimonianza degli anni delnaufragio, affinché ciò cheavete vissuto non muoia nelricordo?Esenonsaremomaitratti in salvo, ma periremouno dopo l’altro, come puòaccadere, non vorrestelasciare dietro di voi unvestigio, affinché i viaggiatoriche approderanno qui,chiunque essi siano, possano

leggere e sapere della nostraesistenza, e forse versare unalacrima? Giacché di sicuro,ognigiornochepassa,inostriricordi diventano sempre piúvaghi, dal momento chepersinouna statuadimarmoviene erosa dalla pioggia alpunto che, infine, non siriesce piú nemmeno a direquale forma lo scultore leavesse dato. Quali ricordiconservate ancor oggi della

tempesta fatale, dellepreghiere dei vostricompagni,delterroreallorchéleondeviinghiottirono,dellagratitudine nel ritrovarvi ariva, delle prime incerteesplorazioni,dellapauradellebestie feroci, dei disagi diquelle prime notti (non miavetedettodiaverdormitosuun albero?)? Non è possibilefabbricare carta e inchiostro,e fissare le tracce che

rimangono di questi ricordiaffinchévivanooltrelavostravita?Oppure,inmancanzadicarta e inchiostro, marchiarea fuoco la storia sul legno, oinciderla nella roccia? Siamopur privi di molte cose suquest’isola, ma certo non ditempo”.

«Parlai con fervore, credo,ma Cruso era irremovibile.“Nullasidimentica,–disse;e

poi: – Nulla di ciò che hodimenticatovaleilricordo”.

«“Vi sbagliate! – esclamai.– Non voglio contraddirvi,maavetedimenticatomolto,ecol passare dei giornidimenticatesemprepiú!Nonbisogna vergognarsi didimenticare; è nella nostranatura, cosí come lo èinvecchiare e morire. Ma,vista da un osservatoriotroppo lontano, la vita

comincia a perdere la suapeculiarità. Tutti i naufragidiventanolostessonaufragio,tutti i naufraghi lo stessonaufrago, scottato dal sole,intristito dalla solitudine,vestito delle pelli deglianimali uccisi. La verità cherendelavostrastoriasoltantovostra, che vi distingue dalvecchio marinaio sedutoaccantoal fuocoa raccontareleggende di mostri marini e

sirene, sta in un migliaio dipiccole sfumature che oggipossono sembraredinessunaimportanza, quali: quandoavete fabbricato l’ago (l’agocheportateallacintola),comesiete riuscito a fare la cruna?Quando avete cucito ilcappello, cosa avete usatocome filo? Piccole sfumaturecome queste un giornopersuaderanno i vostriconnazionalicheètuttovero,

ogni singola parola, e che inmezzo all’oceano è davveroesistita un’isola dove soffiavail vento e le scogliereriecheggiavano delle stridadeigabbianieuncertoCrusoseneandavaingirovestitodipelli di scimmia, scrutandol’orizzonte alla ricercadi unavela”.

«La gran chioma fulva diCruso e la barbamai tagliatarifulgevano nella luce

morente. Cruso aprí erichiuse le mani; manirobuste, dalla pelle ruvida,induritedallafatica.

«“C’è la bile degli uccellimarini, – lo incalzai. – Cisono gli ossi di seppia. Cisonolepennedeigabbiani”.

«Cruso alzò la testa e milanciò un’occhiata di sfida.“Lascerò dietro di me iterrazzie imuretti,–disse.–Saranno sufficienti. Saranno

piú che sufficienti”. Esprofondò di nuovo nelsilenzio. Quanto a me, midomandai chi avrebbeattraversato l’oceano pervedere terrazzi e muretti, dicui certamente avevamograndeabbondanza inpatria;matacqui.

«Continuammo a dormireinsieme nella capanna, io eCruso,Crusonelsuoletto,iosul giaciglio d’erba che

Venerdí mi preparava ecambiava ogni tre giorni,spesso e comodo. Quando lenotti cominciarono a farsifredde, mi tiravo sopra unacopertadipelli,dalmomentoche, per tutto quel tempo,nonebbialtroindumentochela camiciola con cui erogiunta a riva; ma preferivonon avere pelli addosso,poichéperlemienariciilloro

odore era ancora troppopungente.

«A volte Cruso mi tenevasveglia con i rumori chefaceva nel sonno, inparticolare quando arrotava identi.Giacché,nelfrattempo,glieranomarcitialpuntocheaveva preso l’abitudine diarrotare costantemente quellicheglirimanevanoper lenireildolore.Inverità,noneraunbello spettacolo vederlo

prendere il cibo con le maninonlavateerosicchiarlodallaparte sinistra della bocca,dove gli faceva meno male.Ma Bahia, e la vita che líavevo vissuto, mi avevainsegnato a non essereschizzinosa.

«Sognavo il capitanoassassinato.Nelmiosognolovedevo veleggiare nella suabarchetta verso sud, con iremi incrociati sul petto e

l’orrido palanchino che glifuoriusciva da un occhio. Ilmare era agitato da ondeenormi, il vento ululava, lapioggiaerabattente;eppurelabarca non affondava, bensíandavapianoalladerivaversola terra degli iceberg, e lísarebbe rimasta, cosí misembrava, ricoperta daighiacci fino al giorno dellanostra resurrezione. Era unuomo gentile – lasciatemelo

dire ora, prima didimenticarmene –, cheavrebbe meritato una finemigliore.

«Il monito di Cruso, diguardarmi dalle scimmie, mirendevacauta, enon lasciavovolentieri l’accampamento.Tuttavia, il terzo giorno dalmio arrivo sull’isola deserta,dopo che Cruso e Venerdífurono usciti per le lorooccupazioni, mi avventurai

fuori e perlustrai il pendiofinché non trovai il sentierolungo il quale Venerdí miaveva portato in groppa e loseguii sino alla riva, standoben attenta a dovemettevo ipiedi, poiché non avevoancora le scarpe. Vagai sullaspiaggia per un po’, tenendod’occhioilmare,ancheseeraancora troppo presto perl’arrivodei soccorsi. Sguazzainell’acqua bassa, divertita dai

pesciolinidaicolorivivacichesifermavanoamordicchiarmile dita dei piedi per saggiareche genere di creatura fossi.L’isola di Cruso non è unbrutto posto per farenaufragio, pensai, se propriosi deve fare naufragio. Poi,verso mezzogiorno, miarrampicai su per il pendio emiaccinsiaraccogliere legnaper il fuoco, come mi ero

riproposta di fare, assaicontentadellamiaescursione.

«Quando Cruso ritornò,capí subito che avevoesplorato l’isola e montò incollera. “Finché vivrete sottoilmio tetto, farete comedicoio!” gridò conficcando lavanga nella terra, senzaneppure aspettare cheVenerdí fosse abbastanzalontanodanonsentire.Masepensavadi incutermipaura e

servile obbedienza solo conocchiate irose, presto si reseconto che si sbagliava. “Mitrovosullavostraisola,signorCruso,nonper sceltamapersfortuna,–ribatteialzandomi(ero alta quasi quanto lui). –Sono una naufraga, non unaprigioniera.Seavessiunpaiodi scarpe, o se voimi deste imezzi per farmele, non avreibisognodiandarmeneingirocomeunaladra”.

«Piú tardi, quando mi fuicalmata, gli chiesi scusa perl’asprezzadellemieparole edegliparveperdonarmi, anchese con riluttanza. Poi glichiesi di nuovo ago e cordaper farmi un paio di scarpe.Al che, ribatté che le scarpenon si confezionavano inquattro e quattr’otto come ifazzoletti;me le avrebbe fattelui stesso, a tempo debito.

Passarono i giorni tuttavia, eioeroancorasenza.

«Domandai a Cruso dellescimmie.Alsuoarrivo,disse,vagavano per tutta l’isola,ardite e dispettose. Ne avevauccise molte e, in seguito, lealtre rimaste si erano ritiratesulle scogliere di quello chechiamava “il PromontorioSettentrionale”. Durante lemie passeggiate, a volte nesentivo i gridi e le vedevo

saltare di roccia in roccia.Erano grandi una via dimezzo fra un gatto e unavolpe,grigie,conilmusoelezampe nere. Non misembravano pericolose; maCrusoleconsideravanocive,elui e Venerdí le uccidevanocondeibastoniognivoltachepotevano, poi le scuoiavano,ne conciavano le pelli e lecucivano insieme per trarne

indumenti, coperte e cosesimili.

«Una sera, mentrepreparavo la cena, poichéavevo le mani occupate, mivoltai e dissi: “Venerdí,portami altra legna”.Mi udí,ci avrei giurato, ma non simosse. Cosí pronunciai dinuovo la parola legnaindicando il fuoco; al che sialzò,manonfecealtro.Alloraparlò Cruso. “Legna per il

fuoco, Venerdí”, disse, eVenerdí uscí e andò aprenderelalegna.

«Ilmio primo pensiero fuche Venerdí fosse come uncane che dà retta solo alpadrone, ma non era cosí.“Legna per il fuoco èl’espressione che gli hoinsegnato, – disse Cruso. –Legna è una parola che nonconosce”.MiparvestranocheVenerdí non capisse che la

legnaper il fuocoerauntipodilegna,comeloèillegnodipinooil legnodipioppo;malasciai perdere. Fu solo dopoaver mangiato, mentreeravamo seduti a guardare lestelle, com’era diventatanostraabitudine,cheparlaidinuovo.

«“Quante parole inglesi saVenerdí?”domandai.

«“Quanteglieneservono,–rispose Cruso. – Qui non

siamo in Inghilterra, non c’èbisognoditanteparole”.

«“Parlate come se illinguaggio fosse uno deiflagelli della vita, come ildenaroo la sifilide, –dissi. –Eppure, la vostra solitudinenon sarebbe piú lieve seVenerdí padroneggiassel’inglese? Insieme avrestepotuto godere, in tutti questianni, dei piaceri dellaconversazione; voi avreste

potutofargliconoscerealcunidonidella civiltà e faredi luiun uomo migliore. Chevantaggioc’èavivereunavitadisilenzio?”

«Cruso non rispose, mafece cenno a Venerdí diavvicinarsi. “Canta, Venerdí,–disse.–CantaperlasignoraBarton”.

«Al che, Venerdí alzò ilviso verso le stelle, chiuse gliocchi e, obbedendo al suo

padrone,iniziòaemettereunbrusio a bassa voce.Ascoltai,ma non riuscii a distinguerealcuna melodia. Cruso mibatté sul ginocchio. “La vocedell’uomo”, disse. Ilsignificatodellesueparolemisfuggiva;ma egli si portò unditoallelabbraperchétacessi.Nell’oscurità ascoltammo ilbrusiodiVenerdí.

«Infine tacque. “Venerdí èdunqueunimbecilleincapace

di parlare? – domandai. – Èquesto che volete dirmi?”(Giacché, ripeto, trovavo cheVenerdífosseunsempliciottoatuttiglieffetti).

«Cruso gli fece cenno diavvicinarsi. “Apri la bocca”,gli disse aprendo la propria.Venerdíl’aprí.“Guardate”.Lofeci,manell’oscuritànonvidinulla a parte il luccichio deidenti bianchi come l’avorio.“La-la-la”, disse Cruso, e

indicò a Venerdí di ripetere.“Ah-ah-ah”,disseVenerdídalfondo della gola. “Non ha lalingua”, disse Cruso.Afferrandolo per i capelli, gliavvicinò il viso al mio.“Vedete?” “È troppo buio”,dissi. “La-la-la”, disse Cruso.“Ah-ah-ah”,disseVenerdí.Iomi scostai e Cruso mollò lapresa. “Non ha la lingua. Èperquestochenonparla.Glihannomozzatolalingua”.

«Lo guardai sbalordita.“Chièstato?”

«“Imercantidischiavi”.«“Imercanti di schiavi gli

hanno mozzato la lingua el’hannovenduto? I trafficantidi schiavi in Africa? Maquando l’hanno catturatodoveva essere un bambino.Perchémaiavrebberodovutomozzare la lingua a unbambino?”

Cruso mi guardò fisso.

Sebbene ora non possagiurarci,credochesorridesse.“Forse i mercanti di schiavi,che sono Mori, ritengono lalingua una prelibatezza, –disse. – O forse si eranostancati di sentire gli altilamenti di Venerdí giorno enotte. Forse volevano ancheimpedirgli di raccontare lasua storia: chi era, da doveveniva, in che modo loavevano catturato. Forse

mozzavano la lingua a ognicannibale che catturavano,per punizione. Comesapremomailaverità?”

«“Èunastoriaspaventosa”,dissi. Cadde il silenzio.Venerdípresegliutensili e siritirò nell’oscurità. “C’ègiustizia in tutto ciò? Primaschiavo e adesso purenaufrago. Derubatodell’infanzia e consegnato a

una vita di silenzio. LaProvvidenzadormivaforse?”

«“Se la Provvidenzadovessevegliaresututtinoi,–disse Cruso, – chi mairaccoglierebbe il cotone otaglierebbe la canna dazucchero? Perché gli affaricontinuino a prosperare, laProvvidenza deve a volteesseredestaeavoltedormire,come le creature inferiori”.Vide che scuotevo il capo,

cosí proseguí. “Credete chemistiaprendendogiocodellaProvvidenza. Ma forse è pervoleresuoseVenerdísitrovasu un’isola sotto un padroneclemente, anziché in Brasilesottolasferzadiuncolono,oin Africa, dove le forestebrulicanodicannibali.Forseèmeglio, anche se a noi nonsembra, che sia qui, e chepureiosiaqui,eorachesiatequianchevoi”.

«Fino a quel momentoavevo considerato Venerdíuna creatura umbratile e gliavevo prestato appena piúattenzionedi quantane avreirivolta a un qualsiasi schiavodiunacasainBrasile.Maoracominciai a guardarlo – nonpotei farne a meno – conl’orrore che riserviamo aimutilati. Non mi era diconforto che la suamutilazione fosse segreta,

chiusadietro le labbra (comecerte altre mutilazioni sonocelate dai vestiti), cheesteriormente fosse un negrocome tanti. In verità, era lasegretezza stessa della suaperdita a farmi rifuggire dalui. Quando Venerdí era neipressi, non riuscivo a parlaresenza essere consapevole diquanta vivacità godessero imovimenti della lingua nellamia bocca. Vedevo, nella

mente,immaginidipinzechegli afferravano la lingua e uncoltello che la tagliava, comedoveva essere accaduto, erabbrividivo. Lo osservavo disoppiattomentremangiava,econ disgusto udivo i colpettidi tosse che dava ogni tantoper raschiarsi la gola, vedevocome masticava con gliincisivi, alla maniera di unpesce. Mi sorpresi a trasalirequando si avvicinava, o a

trattenere il fiato per nonsentirne l’odore. Alle suespalle, lavavo gli utensilitoccati dalle sue mani. Mivergognavo a comportarmicosí,maperuncertoperiodonon fui padrona delle mieazioni. Afflitta, mirammaricavo che Cruso miavesse raccontato la suastoria.

«Il giorno dopo la nostraconversazione,quandoCruso

ritornò dai terrazzi,mi trovòcoisandaliaipiedi.Masemiaspettavo ringraziamenti perla fatica che gli avevorisparmiato, mi sbagliavo.“Unpo’dipazienzaeavresteavuto scarpe migliori”, disse.Con tutta probabilità eravero, giacché i sandali eranoassai rudimentali. Ma nonriuscii a ignorare le sueparole. “La pazienza ha fattodi me una prigioniera”,

ribattei. Cruso si voltò incollerae,raccoltelepellidallequaliavevoricavatoisandali,le scagliò con tutta la suaforzaoltrelarecinzione.

«Vedendo che non sareiriuscita a rabbonirlo, miincamminai lungo il sentieroche portava al mare egirovagaifinchénongiunsilàdove la spiaggia era ricopertadialgheormaimarcescenti,edalle quali a ogni passo si

levavano nugoli di pulci, opiuttosto pulci di mare. Mifermai, cercando di farsbollirel’ira.Èaspro,midissi,e perché non dovrebbeesserlo? Dopo anni didominio incontestato esolitario, vede invadere ilproprio regno da una donnache gli impone dei doveri.Giuraiamestessaditenereafreno la lingua. Sarebbepotuta capitarmi sorte ben

peggiore che non quella diessere abbandonata suun’isola retta da unconnazionale cosílungimirantedagiungerefinoa riva con un coltello allacintola e uno schiavo alfianco. Avrei potuto esseregettata in mare e arrivare suun’isola infestata da leoni eserpenti, o su un’isola dovenon cadeva mai la pioggia,oppure sull’isola di qualche

avventurieroormaiimpazzitodi solitudine, nudo, bestiale,avvezzo a nutrirsi di carnecruda.

«Cosí ritornai da Crusocontrita, chiesi perdono peraver preso le pelli e accettaicongratitudine ilcibo tenutoin serbo per me da Venerdí.Quando mi coricai, quellanotte, mi parve di sentire laterra ondeggiare sotto dime.Mi dissi che doveva essere il

ricordo del dondolio dellanave che si riaffacciava nonsollecitatoallamente.Manonera cosí: era il dondoliodell’isola stessa chegalleggiava sul mare. Pensai:È un segno, il segno che stodiventando un abitantedell’isola. Sto dimenticandocosa vuol dire vivere sullaterraferma. Allungai lebraccia e posai i palmi sullaterra, e, sí, quel dondolio

persisteva, il dondoliodell’isola che veleggiava sulmare e attraverso la notteportando nel futuro il suocaricodi gabbiani e passeri epulci di mare e scimmie enaufraghi,tuttiormaiprividicoscienza, tranne me. Miaddormentai con un sorriso.Doveva essere il mio primosorriso da quando mi eroimbarcata per il NuovoMondo.

«DiconocheanchelaGranBretagna è un’isola, un’isolagrande.Maquesta non è cheuna nozione da geografo. Laterra sotto i nostri piedi, inGranBretagna,èfermacomenon lo era mai sull’isola diCruso.

«Ora che avevo le scarpe,ogni giorno percorrevo illitorale, avventurandomi ilpiúlontanopossibileinambole direzioni. Mi dicevo che

attendevolacomparsadiunavela. Ma troppo spesso gliocchi si posavanosull’orizzonte in una sorta difissità, finché, cullata dalventobattente,dalmugghiaredelleondeedalloscricchioliodella sabbia sotto i piedi,cadevo in una specie ditorpore.Trovaiunacavitàtragli scogli dove potevodistendermi al riparo dalvento e contemplare il mare.

In breve cominciai aconsiderarlo il mio rifugio,l’unico luogo a me riservatosull’isoladiunaltro;sebbene,in verità, l’isola nonappartenesseaCrusopiúcheal re del Portogallo o aVenerdí o ai cannibalidell’Africa.

«Potreidirvidipiú,moltodi piú, sulla vita checonducevamo: comelasciavamo ardere il fuoco

sottolaceneregiornoenotte;come facevamo il sale; come,in mancanza di sapone, cilavavamo con la cenere.Unavolta domandai a Cruso sepropriononconoscessemodoper fare una lampada o unacandela,affinchénonfossimopiú costretti a ritirarci, comebruti, al calar delle tenebre.Crusorisposecon le seguentiparole: “Cosa è piú facile:imparare a vedere al buio o

uccidere una balena e farlabollire per ricavarne unacandela?”Avreipotutodarglimolte risposte sgarbate, ma,ricordando il giuramento ame stessa, tenni a freno lalingua.Laveritàerasemplice:Cruso non avrebbe tolleratonessun cambiamento nellasuaisola.

«Ero lí da un mese,quando una mattina Crusoritornòdaiterrazzidicendodi

non sentirsi bene. Vedendoche aveva i brividi, lomisi aletto e lo coprii perché stesseal caldo. “È la solita febbrechemiportodietro,–disse.–Nonc’ècura,devefare ilsuocorso”.

«Locuraiperdodicigiornie dodici notti, a voltetenendolo fermo quando erascosso dalle convulsioni,quando singhiozzava obatteva i pugni e gridava in

portoghese alle figure chevedevanell’ombra.Unanotte,inverità,dopooredigemitiebrividi, le mani e i piedifreddi come il ghiaccio, midistesi accanto a luistringendolotralebracciaperscaldarlo nel timore chemorisse. Alla fine siaddormentò nel mioabbraccio, e dormii pure io,sebbenemale.

«Per tutto il tempo,

Venerdí non fece alcunosforzo per aiutarmi; alcontrario, evitò la capannacome se tutti e due avessimola peste. Allo spuntare delgiorno usciva con la fiocina;al ritorno posava i pesciaccantoallastufa,lisventravae squamava, e poi si ritiravain un angolo lontano delgiardino, dove dormivaraggomitolato su un fiancocome un gatto, oppure

suonava ininterrottamente suun piccolo flauto di giuncouna melodia di sei note,sempre la stessa. Lamelodia,di cui pareva non stancarsimai, cominciò a infastidirmial punto che un giorno midiressialunghipassiversodilui, gli strappai il flauto dallemani, e lo avrei ancherimproverato aspramente,micapisse o no, se non avessitemuto di svegliare Cruso.

Venerdí balzò in piedi, gliocchi sgranati dallameraviglia,giacchémaiavevoperduto la pazienza con luiprima di allora, né mai gliavevo prestato moltaattenzione.

«Poi Cruso iniziò aristabilirsi. Negli occhi ilbaglioreselvaggiosiattenuò,ilineamenti del volto siaddolcirono, gli accessi delleconvulsioni cessarono, e

cominciò a dormire sereno.Gli tornò l’appetito. Benpresto prese a uscire ingiardino senza aiuto e a dareordiniaVenerdí.

«Salutai il suo ritorno insalute con gioia. In Brasileavevo visto la febbre portarsivia uomini piú giovani; e ineffettic’eranostatiunanotteeun giorno in cui ero sicuracheCrusostessepermorire,eavevo temuto sgomenta di

restare sola conVenerdí. Erastatoilvigoredellavitadaluicondotta,credo,asalvarlo–ilvigore e l’alimentazionesemplice,nonlamiaperizia.

«Poco dopo ci fu unaspaventosa tempesta, con ilventocheululavaelapioggiache cadeva torrenziale. Inseguito a una raffica, unaparte del tetto si staccò e ilfuoco che custodivamogelosamente si spense,

allagato dall’acqua.Spostammo il lettonell’unicoangolo asciutto; ma anche lípresto il pavimento sitrasformòinunpantano.

«Pensavo che Venerdísarebbe stato terrorizzato dalclamore degli elementi (nonavevomaivistounatempestasimile, e compiansi i poverimarinai in mare aperto).Invece no. Rimase sedutosotto la gronda con la testa

sulleginocchiaedormícomeunbambino.

«Dopo due notti e ungiornolapioggiacessò,ecosíuscimmo a sgranchirci lemembra. Ilgiardinoerastatoquasi spazzato via, e là doveprima un sentiero scendevalungo il pendio ora c’era unfosso,scavatodalleacque,chemi arrivava fino in vita. Laspiaggiaeraricopertadialghescagliatearivadalleonde.Poi

ricominciòapiovere,eper laterza notte ci ritirammo nelnostro miserrimo rifugio,affamati,infreddoliti,incapacidiaccendereilfuoco.

«Quella notte Cruso, chesembrava essersi ristabilitodel tutto, lamentò di sentircaldo, scaraventò lontano ivestiti e rimase distesoansimante. Poi iniziò asmaniare e a rigirarsi ora suunfiancoorasull’altro,come

fosse incapace di respirare, eio ebbi paura che il letto sirompesse. Lo afferrai per lespalleecercaidicalmarlo,mamicolpíperallontanarmi.Erascosso da forti tremori;divennerigidocomeunpezzodi legno e si mise a urlarequalcosacomemasaomassa,una parola il cui senso misfugge.Svegliatodalbaccano,Venerdí tirò fuori il flauto eprese a suonare la sua

dannatamelodiafinché,tralapioggiaeilventoelegridadiCrusoelamusicadiVenerdí,nonmiparvedi essere inunmanicomio. Ma continuai atenere immobile Cruso e acercare di calmarlo, cosí allafinesiplacò,eVenerdísmisedisuonare;persinolapioggiasiattenuò.MiallungaivicinoaCrusoperscaldargliilcorpocon il mio; di lí a poco il

tremore cessò e ciaddormentammoentrambi.

«Mi destai che era giornofatto, in un silenzioinconsueto, la tempesta erafinalmente passata. Unamanostavaesplorandoilmiocorpo.Erocosísbalorditachecredetti di essere ancora abordodellanave,nellettodelcapitano portoghese. Ma poimivoltaie,nelvedereicapelliarruffati di Cruso, la folta

barba che non tagliavamai egli occhi gialli, capii che eratutto vero, ero realmentenaufragatasuun’isolaconunuomo di nome Cruso che,sebbene inglese, mi eraestraneo quanto un lappone.Spinsi via lamano e feci peralzarmi, ma Cruso mitrattenne. Avrei potutosenz’altro liberarmi, poichéeropiúfortedilui.Mapensai:Sono quindici anni che non

conosce una donna, perchénon dovrebbe provaredesiderio? Cosí non opposipiúresistenzaeglilasciaifarequanto gli garbava. Quandousciidallacapanna,nonc’eratraccia di Venerdí, e me nerallegrai. Mi allontanai unpoco, poi mi sedetti ariordinare i pensieri. Suicespugliintornoamesiposòun nugolo di passeri, con ilcapo curiosamente inclinato,

per nulla spaventati, nonavendo mai conosciuto, sindalla notte dei tempi, ilmaledell’uomo. Dovevo forseprovare rammarico per ciòche era accaduto tra me eCruso? Sarebbe stato megliocontinuare a vivere comefratello e sorella, o comeospite e anfitrione, o servo epadrone, o qualunque cosafossimo? La sorte mi avevagettatoarivasuquest’isola,la

sorte mi aveva gettata tra lesue braccia. In un mondogovernato dalla sorte, esisteun meglio e un peggio?Cediamoall’abbracciodiunosconosciuto o ciabbandoniamo alle onde; perun battito di ciglia la nostravigilanza si allenta, ciaddormentiamo,ealrisveglioabbiamo perduto la rotta.Cosa sono questi battiti diciglia, contro i quali l’unica

difesa è uno stato di allertapermanentee inumano?Nonpotrebbero essere le crepe egli spiragli attraverso i qualiun’altra voce, altre voci,parlanonellanostravita?Conche diritto chiudiamo leorecchie? Le domanderiecheggiavanonellamiatestasenzarisposta.

«Un giorno passeggiavoall’estremità settentrionaledell’isola, sul Promontorio,

quando sotto di me scorsiVenerdí con un ceppo o unatrave sulle spalle, quasigrande quanto lui.Mentre loguardavo, attraversò lasporgenza rocciosa che siallungava dalla scogliera,lanciòilceppoinacqua–eraprofondainquel tratto–evimontòsopra.

«Avevo osservato spessoVenerdímentrepescava,rittosugli scogli, in attesa che un

pesce arrivasse proprio sottodiluiperscagliarglicontrolafiocina con grande destrezza.Come potesse arpionare unpesceapanciasottosuquellarudimentale imbarcazionenonmieraaffattochiaro.

«Ma Venerdí non stavapescando. Dopo essersiallontanatoqualche centinaiodi iarde dalla sporgenzarocciosa ed essersi inoltratodove le alghe erano piú fitte,

mise una mano in unsacchetto che gli pendevadalcollo e tirò fuori unamanciata di fiocchi bianchichecominciòaspargeresulleacque. Dapprima pensai chefosse un’esca per attirare ipesci; invece no, dopo aversparso i fiocchi, voltò labarca-ceppoeladiresseversola sporgenza rocciosa, doveapprodò tra i flutti congrandedifficoltà.

«Curiosa di scoprire cosaavesse gettato sulle acque,quella sera aspettai cheandasse a riempire le ciotole.Poicercaisottolasuastuoiaescoprii un sacchetto con unlaccioe,rovesciandolo,trovaialcuni petali e bocciolibianchidei roviche inquellastagione fiorivano in alcuneparti dell’isola. Sicchéconclusi che avesse fattoun’offerta al dio delle onde

per propiziarsi la pesca,oppure avesse officiatoqualche altro ritualesuperstizioso.

«Siccome il giornoseguenteilmarecontinuavaaessere calmo, attraversai gliscogli sotto il Promontoriocome aveva fatto Venerdí earrivai sul ciglio dellasporgenza.L’acquaerafreddaescura;rabbrividiialpensierodi abbandonarmi a quegli

abissiedinuotareallargo,suun ceppo o meno,nell’abbraccio delle alghe, dacui senza dubbio le seppiependevano furtive in attesache lapreda finissenella loromorsa. Dei petali di Venerdínonerarimastatraccia.

«Fino ad allora avevorivolto alla vita di Venerdínonpiú attenzionedi quantaneavreirivoltaaquelladiuncane o di un qualsiasi altro

animalecuimanchilaparola,o ancormeno, giacché la suacondizione di mutilato mifaceva orrore e mi portava aescluderlodaimieipensieri ea ritrarmi quando siavvicinava. I petali gettatisulle acque furono il primosegno che, sotto quell’aspettoottuso e sgradevole, vibravauno spirito, o un’anima,chiamatelocomevipare.

«“Dov’è affondata la nave

su cui viaggiavate?” chiesi aCruso.

«Indicò una parte dellacosta che non avevo maivisitato.

«“Seciimmergessimofinoal relitto,–dissi,–ancheorapotremmorecuperareutensilidi grande utilità. Una sega,peresempio,oun’accetta,duecosechecimancano.Ancheilfasciamepotremmostaccareeportarequa.Nonc’èmododi

esplorare il relitto? Venerdínon potrebbe andarci anuoto, o a cavalcioni di unceppo, e poi immergersi conuna corda legata in vita persicurezza?”

«“La nave giace in fondoall’oceano,spezzatadaifluttiericoperta di sabbia, – risposeCruso. – Ciò che èsopravvissuto al sale e aivermi non vale la penarecuperarlo. Abbiamo un

tettosopralatesta,fattosenzasega e accetta. Dormiamo,mangiamo, siamo vivi. Nonabbiamobisognodiutensili”.

«Parlava come se gliutensili fossero invenzionipagane.Eppureiosapevoche,se fossigiuntaarivaconunasega legata alla caviglia,sarebbestatobencontentodiusarla.

«Lasciate ora che vi parlideiterrazzidiCruso.

«I terrazzi ricoprivanobuona parte del pendioall’estremità orientaledell’isola, dove erano meglioriparati dal vento. Al mioarrivo ce n’erano dodici chedigradavano verso il mare,ciascunolargounaventinadipassi e sostenuto da murettidipietraspessiunaiardaealtialmassimoquantounuomo.Inogniterrazzoilterrenoeralivellato e ripulito delle

erbacce; le pietre cheformavano i muretti eranostate cavate dalla terra oportate lí una per una.Domandai a Cruso quantepietre ci fossero volute. Uncentinaio di migliaia o piú,rispose. Una fatica immane,osservai.Ma trame pensavo:Lanudaterra,cottadalsoleecinta da muri, è forse dapreferireaciottoliecespugliesciami di uccelli? “Vi

proponete forse di ripulirel’interaisolaediterrazzarla?”domandai. “Per ripulirel’intera isola sarebberonecessari molti uomini emolte vite”, rispose; al che,capii che aveva preferitointendere la mia domandasolo alla lettera. “E cosapensate di piantare, quandopianterete?” domandai. “Nonsaremonoi a farlo,–disse.–Non abbiamo nulla da

piantare, è questa la nostrasventura”. E mi guardò contale contrita dignità che misarei morsa la lingua.“Pianteranno coloro cheverranno dopo di noi eavranno la lungimiranza diportare con sé le sementi. Iomi limito a preparare ilterreno.Preparareilterrenoeaccatastarepietreèpocacosa,ma è meglio che starseneseduti a oziare”. E poi, con

aria grave, proseguí: “Viprego di ricordare che nontuttigliuominicheportanoilmarchio del naufrago sonodeinaufraghinell’intimo”.

«Rifletteialungosuquesteparole, ma mi rimaserooscure. Quando passavodavanti ai terrazzi e vedevoquest’uomo,nonpiúgiovane,faticare nella calura percavareunagrandepietradallaterra o strappare paziente

l’erba, aspettando anno dopoanno che un naufragoarrivasse su una barca asalvarci con un sacco disementiaipiedi,misembravaun modo stolto di dedicarsiall’agricoltura. Tanto valevache occupasse il tempo ascavare in cerca d’oro, o ascavare piuttosto la fossaprimaperséeVenerdí,epoi,volendo, per tutti i naufraghi

della storia futura dell’isola,mecompresa.

«Iltempopassavaeiltediocresceva.Unavoltaesauritelemie domande a Cruso suiterrazzi, sulla barca che noncostruiva, sul diario che nonteneva, sugli utensili chenonrecuperava dal relitto e sullalingua di Venerdí, non ci fupiú niente di cui parlare aparte il clima. Cruso nonaveva storie da raccontare

sulla vita che aveva vissutoquandoeraunmercanteeuncolono, prima del naufragio.Non gli importava sapereperchéfossiarrivataaBahiaocosa avessi fatto lí. Quandoparlavo dell’Inghilterra e diquel che intendevo vedere efare una volta tratta in salvo,sembravanonascoltarmi.Eracome se desiderasse farcominciare la sua storia colsuo arrivo sull’isola, e lamia

col mio arrivo, e far anchefiniresull’isolalastoriadinoidueinsieme.NonaccadamaicheCruso sia tratto in salvo,riflettevo tra me; giacché ilmondo si aspetta il raccontodelle sue avventure, unracconto, e non il computodelle pietre spostate inquindicianni,dadoveeversodove; Cruso, una volta salvo,sarà una profonda delusioneper il mondo; l’idea di un

Cruso sull’isola è cosamigliore del vero Crusoscontroso e con la boccacucita in un’Inghilterraestranea.

«Trascorrevo le giornate apasseggiare sulle scogliere olungo la riva, o altrimenti adormire. Non mi offrii diunirmiaCrusonelsuolavorosui terrazzi, poiché laconsideravo una fatica vana.Mi feci un berretto con i

paraorecchi; lo indossavo,eavolte mi tappavo anche leorecchie con certi tamponiperlasciarfuoriilrumoredelvento. Cosí divenni sorda,come Venerdí era muto; chedifferenza faceva su un’isolain cui nessuno parlava? Lacamiciolaconcuierogiuntaarivaeraormaiabrandelli.Lamia pelle era bruna comequella di un’india. Ero nelfiore degli anni, e orami era

accaduto questo. Nonpiangevo, ma a volte miritrovavo seduta sulla nudaterracon lemani sugliocchi,a cullarmi avanti e indietrogemendo, senza saperenemmeno com’ero finita lí.Quando Venerdí mi mettevadavanti il cibo, lo prendevocon le dita sporche e lotrangugiavo come un cane.Mi accovacciavo in giardino,incurante di esser vista. E

scrutavo senza sostal’orizzonte. Non importavachi giungesse, spagnolo oabitante della Moscovia ocannibale che fosse, purchépotessifuggire.

«Fu perme il periodo piúbuio, di disperazione eletargo; adesso eroperCrusounpeso,comeluiloerastatoper me quando delirava inpredaallafebbre.

«Poi, a poco a poco, mi

risollevai e ricominciai adedicarmi a piccoleoccupazioni. Sebbene in cuormio non provassi maggioraffettoneiconfrontidiCruso,gli ero grata di aversopportatoimieiumorisenzacacciarmi.

«Nonabusòpiúdime.Alcontrario,sitenevaadistanzacome se tra noi non fosseaccaduto nulla. Non ne erodispiaciuta. Eppure vi

confesso che, se fossi stataconvintadipassareilrestodeimieigiornisull’isola,misareioffertaaluinuovamente,oloavrei importunato, o avreifatto qualsiasi cosa perconcepireegenerareunfiglio;giacché il cupo silenzio cheimponeva alla nostra vitaavrebbe finito col farmiimpazzire, per non parlaredella prospettiva di passare i

miei ultimi anni sola conVenerdí.

«Un giorno domandai aCruso se sulla sua isola cifosserodelleleggie,inquestocaso, quali; o se preferivapiuttosto seguire i dettamidella sua coscienza, fidandosidelpropriocuorecomeguidasulcamminodellarettitudine.

«“Le leggi sono fatte perununicoscopo,–midisse.–Frenarci, quando i nostri

desideri si fanno smodati.Finché essi rimangonomoderati, non abbiamobisognodileggi”.

«“Ilmiodesideriodiesseretratta in salvo dev’esseresmodato, – dissi. – Arde inmegiornoenotte,nonriescoapensareadaltro”.

«“Non voglio sapere delvostro desiderio, – disseCruso. – Riguarda altre cose,non l’isola, non è una

faccenda dell’isola. Sull’isolanon c’è legge, se non quellache dobbiamo lavorare perguadagnarciilpane,cheèpoiun comandamento”. E, dopoquelle parole, si allontanò agrandipassi.

«La rispostanonmiparvesoddisfacente.Seerosolounaterza bocca da sfamare, chenon si rendeva utile suiterrazzi, cosa trattenevaCruso dal legarmi mani e

piediegettarmiinmaredallescogliere? Cosa avevatrattenuto Venerdí in tuttiquegli anni dal colpire conuna pietra la testa del suopadrone mentre dormiva,ponendo cosí fine allaschiavitú per inaugurare unregno di ozio? E cosa avevatrattenutoCrusodallegaredinotte Venerdí a un palo,come un cane, per dormirepiú sicuro, o dall’accecarlo,

come in Brasile si fa con gliasini? Ogni cosa sembravapossibile sull’isola, ognitirannia e crudeltà, perquanto in piccolo; e se, adispettoditutto,vivevamoinpace l’uno con l’altro, disicuro ciò dimostrava che adominare erano certe leggi anoi sconosciute, o piuttostoche fino ad allora avevamoseguito i dettami del nostro

cuore,eilnostrocuorenonciavevatradito.

«“Come punite Venerdí,quando lo fate?” chiesi inun’altraoccasione.

«“Nonc’ènessunaragionedi punire Venerdí, – risposeCruso.–Venerdíviveconmeda molti anni. Non conoscealtro padrone. Mi segue intuttoepertutto”.

«“Ma Venerdí ha perdutolalingua”,dissi,eleparolemi

uscironodasole.«“Venerdí ha perduto la

lingua prima di diventaremio”,disseCruso,emilanciòuno sguardo di sfida. Rimasiin silenzio. Ma pensai:Veniamo tutti puniti, ognigiorno.Quest’isolaèilnostrocastigo, quest’isola e il doverfarci compagnia, fino allamorte.

«Il mio giudizio su Crusonon era sempre cosí aspro.

Una sera, vedendolo ritto sulPromontorio col sole rossoporpora alle spalle, gli occhifissi sul mare, un bastone inmano e il grande copricapoconico sulla testa, pensai: Èdavverounafiguraregale;èilvero sovrano della sua isola.Ripensai alla valle dimelanconia che avevoattraversato, quando mi erotrascinata ingiro indifferentea tutto, piangendo sulla mia

sventura. Se allora avevoconosciuto l’infelicità,quantopiú profonda doveva esserestata l’infelicità di Cruso agliinizi? Non si dovrebbegiustamente considerare uneroe chi ha sfidato la naturaselvaggia e ucciso il mostrodella solitudine ritornandofortificatodallavittoria?

«Un tempo, vedendoCruso in quella posturavespertina,pensavoche,come

me, scrutasse l’orizzonte inattesa di una vela. Ma misbagliavo. Le visite alPromontorio rientravanonella sua attitudine adabbandonarsi allacontemplazione delle vastedistese d’acqua e cielo.Venerdí non lo disturbavamai quando lo vedevaappartato; una volta in cui,candida, mi avvicinai a lui,venni respinta con parole

rabbiose, e per giorni non cirivolgemmolaparola.Perme,ilmare e il cielo rimanevanomare e cielo, vacui e tediosi.Non avevo il temperamentonecessario per amare unasimilevacuità.

«Ora devo raccontarvidella morte di Cruso e delnostrosalvataggio.

«Unamattina,quandoeroormai da piú di un announ’isolana,Venerdí riportò il

padronedai terrazzi debole ein deliquio. Capii subito chegli era tornata la febbre.Conunqualche presentimento, lospogliai, lo misi a letto e miaccinsi ad accudirlo,desiderando in cuor mio disaperne di piú di salassi eflebotomie.

«Stavolta non vaneggiavané gridava o si dibatteva.Giaceva pallido come unfantasma, il corpomadido di

sudori freddi, gli occhisbarrati, le labbra che a trattisi muovevano, sebbene nonriuscissi a distinguere alcunaparola. Pensai: Sta morendo,nonriusciròasalvarlo.

«Proprio il giornoseguente, come sel’incantesimodellosguardodiCruso sulle acque si fossespezzato, un mercantile, ilJohn H obart, in rotta perBristol con un carico di

cotone e indaco, gettòl’ancora al largo dell’isola emandòaterraalcunimembridell’equipaggio. Della cosanon seppi nulla finchéVenerdí, d’un tratto, nonentrò rapidonella capannae,afferratelefiocine,nonsaettòvia verso le rupi dove sitrovavano le scimmie. Allorauscii, e vidi giú, in basso, lanave, i marinai alle sartie, iremi della barca che

fendevano le onde; e con ungrande urlo di gioia caddi inginocchio.

«Dell’arrivo di forestierinel suo regno, Cruso ebbe ilprimo segnale quando tremarinai lo sollevarono dalletto, lo deposero su unalettiga e lo trasportaronolungoilsentierofinoallariva;e anche allora, con tuttaprobabilità, pensò che fossesolo un sogno. Ma, quando

venne issato a bordo della H

obart e fiutò l’odore dicatrame e udí lo scricchioliodel fasciame, ripresecoscienzaelottòcontalefogaper liberarsi che ci vollerouomini forti per tenerlo abadaeportarlosottocoperta.

«“C’è un’altra personasull’isola,–dissialcapitano.–ÈunoschiavonegrodinomeVenerdí, ed è fuggito tra lerupi sopra la costa

settentrionale.Nullariusciràapersuaderlo ad arrendersi,poiché non comprende leparole né è in grado diparlare. Saranno necessarigrandi sforzi per catturarlo.Nondimeno, vi scongiuro dirimandare i vostri uomini ariva; giacché Venerdí è unoschiavo e un bambinoinsieme, è nostro dovereprendercicuradiluiintuttoepertutto,enonabbandonarlo

a una solitudine peggioredellamorte”.

«La mia supplica fuascoltata.Venneromandati ariva altri membridell’equipaggio al comandodelterzoufficialeconl’ordinedi non fare in alcun caso delmaleaVenerdí,poichéeraunsempliciotto,madi trovare ilmodo per portarlo a bordo.Mi offrii di accompagnarli,

mailcapitanoSmithnonmelopermise.

«Cosí mi sedetti colcapitano nella sua cabina emangiai un piatto di maialesotto sale epanbiscotto, assaibuonidopounannodipesce,bevvi anche un bicchiere diMadeira,egliraccontailamiastoria come l’ho raccontata avoi; mi ascoltò con grandeattenzione. “Dovrestescriverla e pubblicarla, – mi

esortò. – Per quanto ne so,nonc’èmaistataprimad’orauna donna del nostro paeseche abbia fatto naufragio.Provocherà grande scalpore”.Scossi tristemente il capo.“Riferita cosí, la mia storiapotrà anche essered’intrattenimento, – ribattei,–ma ilpocoche so riguardoalloscriverelibrimidiceche,riportata nuda e cruda sullapagina, il suo fascino

svanirebbe del tutto. Nellascrittura si perde quellavivacità cui bisogna supplireconl’arte,e,diarte,iononneho”. “Quanto all’arte, nonposso pronunciarmi, essendosolo un marinaio, – disse ilcapitanoSmith,–ma,qualorafosse cosí, i libraiassumeranno un uomo cheemenderà la vostra storia,mettendoci pure un tocco dicolore qua e là”.“Non voglio

checisianomenzogne”,dissi.Il capitano sorrise. “Nonposso garantirlo.Commercianoinlibri,noninverità”. “Preferirei esserel’autrice della mia storiapiuttosto che sentirraccontaremenzognesulmioconto, – insistei. – Se nonpossofigurarecomeautriceegiurare che la mia storia èvera, che valore essa avràmai? Tanto varrebbe averla

sognatanelteporediunlettoaChichester”.

«Inquelmomentofummoconvocati sul ponte. Lacompagnia di sbarco stavaritornando,econmiagrandegioia, tra i marinai, scorsi lascura sagoma di Venerdí.“Venerdí, Venerdí!” gridaimentelabarcasiavvicinava,esorrisi per mostrare cheandava tutto bene, che imarinai erano amici, non

nemici. Ma, quando fucondotto a bordo, Venerdínon incrociò il mio sguardo.Con le spalle curve e il capochino, aspettava qualunquecosa gli sarebbe accaduto.“Nonsipuòcondurlodalsuopadrone? – domandai alcapitano.–Quandovedràcheil signor Cruso è benaccudito,forseaccetteràl’ideache non è nostra intenzionefarglidelmale”.

«Cosí, mentre i marinaiissavano lavela eviravanodibordo, condussi Venerdísottocoperta nella cabina incui si trovavaCruso. “Ecco iltuopadrone,Venerdí,–dissi.– Sta dormendo, ha bevutouna pozione che lo fadormire. Vedi? È gente perbene. Ci riporteranno inInghilterra, nel paese del tuopadrone, e lí sarai libero.Scoprirai che la vita in

Inghilterra è di gran lungamigliorechesull’isola”.

«Sapevo naturalmente cheVenerdí non capiva le mieparole.Ma,sindall’inizio,erastata mia convinzione chedistinguesse i toni, che fossein grado di cogliere in unavoceumana il garbo,quandoerasincero.Sicchécontinuaiaparlargli, ripetendo piú voltelestesseparole,posandogli lamano sul braccio per

tranquillizzarlo;locondussialcapezzaledelsuopadroneelofeci inginocchiare lí finchénon sentii la calmaimpadronirsi di noi, e ilmarinaiocheciavevascortatonon cominciò a sbadigliareimpaziente.

«Si convenne che avreidormito nella cabina diCruso. Quanto a Venerdí, lipregai di non farlo alloggiarecon i marinai comuni.

“Preferirebbe dormire perterraaipiedidelsuopadroneanziché nel letto piú sofficedella cristianità”, dissi. Cosígli fu consentito di dormiresotto l’arcaccia, a qualchepasso dalla cabina di Cruso;da quella piccola tana simosse appena per tutta ladurata del viaggio, e soloquando lo conducevo atrovare il suo padrone. Ognivolta che gli rivolgevo la

parola, facevo in modo disorridere e toccargli ilbraccio, trattandolo come sitratta un cavallo spaventato.Giacché capii che la nave e imarinai dovevano averrisvegliatoinluilepiúoscurememoriedeltempoincuierastatostrappatoallasuaterraetrasportato in cattività nelNuovoMondo.

«Per tutto il viaggio ciusarono grande cortesia. Il

medico di bordo visitavaCruso due volte al giorno, econ i suoi salassi gli diedemoltosollievo.Maconme,inprivato, scuoteva la testa.“Vostro marito stapeggiorando, – diceva. –Temo che siamo arrivatitroppotardi”.

«(Non vi ho detto che ilcapitano Smith mi avevasuggerito di dire che Crusoeramiomaritoecheavevamo

fatto naufragio insieme, perrendere piú facile la miasituazionesiaabordocheunavolta sbarcati in Inghilterra.Se la storia di Bahia edell’ammutinamento si fossediffusa,avevadetto,contuttaprobabilità non sarebbe statocompreso che genere didonna fossi. Alle sue parole,scoppiaiaridere–chegeneredidonnaero, inverità?–maseguiiilsuoconsiglio,ecosía

bordoeroconosciutacomelasignoraCruso.

«Una sera, a cena – pertutto il viaggio mangiai altavolo del capitano –, misussurrò all’orecchio chesarebbestatounonoreperluisedopo avessi acconsentito afargli visita nella sua cabinaper un bicchiere di cordiale.Finsi di prendere l’invitocome un atto di puragalanteria, e non andai. Non

insisté oltre, ma continuò acomportarsi con la stessacortesia di prima. Tuttosommato lo trovavo un verogentiluomo, benché fosse unsemplice capitano di nave,figlio di un ambulante, comemidisse).

«Portavo aCruso i pasti aletto e con dolcezza lopersuadevo amangiare comefosse un bambino. A voltesembravachesapessedov’era,

altre no. Una notte,sentendolo alzarsi, accesi lacandelae lovidirittodavantialla porta della cabina; lastava spingendo, senzarendersi conto che si aprivaverso l’interno. Gli andaivicino e lo sfiorai, e vidi cheaveva il volto bagnato dilacrime.“Venite,Crusomio”,sussurrai, e lo condussi dinuovo alla sua cuccetta,

cercandodiacquietarlofinchénonsiriaddormentò.

«Credo che Cruso,sull’isola, probabilmente sisarebbegià scrollatodidossola febbre, come aveva fattospesso in passato. Giacché,pur non essendo ungiovanotto, era un uomovigoroso. Ma adesso stavamorendo di pena, la piúgrandepena.Ognigiornochepassava veniva condotto

semprepiúlontanodalregnoalqualeanelava,versoilqualenon avrebbe mai piú trovatola via del ritorno. Eraprigioniero, e io, miomalgrado,lasuacarceriera.

«A volte nel sonnoborbottava qualcosa inportoghese, comepareva farequandoilpassatopiúlontanoriaffiorava. Allora gliprendevo la mano o misdraiavo accanto a lui, e gli

parlavo. “Ricordate, Crusomio, – dicevo, – come, dopoche la tempestasieraportatavia il tetto, ce ne stavamodistesi la notte a guardare lestellecadentiecisvegliavamoalla luce vivida della lunapensando fosse giorno? InInghilterra avremo sopra latesta un tetto che nessunventopotràmaistrapparevia.Manonvisembrachelalunadella nostra isola fosse piú

grandediquellad’Inghilterra,come ricorderete, e le stellepiúnumerose?Forseeravamopiú vicini alla luna, lí, comecerto eravamo piú vicini alsole.

«“Eppure, – continuavo, –se lí eravamo piú vicini alcielo, perché solo cosí pochecose dell’isola si potevanodefinirestraordinarie?Perchénon c’erano frutti strani,serpenti, leoni? Perché i

cannibali non sono maivenuti? Cosa racconteremoalla gente in Inghilterra,quando ci chiederà disvagarla?”

«“Cruso, – dico (non è lastessa notte, è una nottediversa, stiamo solcando leonde, e la rocca d’Inghilterrasi profila sempre piú vicina),– non avete dimenticatonessuno in Brasile? Non c’èuna sorella che aspetta il

vostro ritorno in qualchetenuta brasiliana, e unamministratore fidato chetiene i conti? Non possiamotornare da vostra sorella inBrasile e dormire sulleamache,unoaccantoall’altro,sottoilgrandecielobrasilianopienodistelle?”Sonocoricatavicino a Cruso; con la puntadellalinguaseguoilcontornopeloso del suo orecchio.Strofino le guance contro le

suefedineruvide,midistendosopra di lui, gli accarezzo ilcorpo con le cosce. “Stonuotandoinvoi,Crusomio”,sussurro,enuoto.Èunuomoalto, io una donna alta. Cosíci accoppiamo: con questonuotare, questo inerpicarsi,questosussurrare.

«Oppure parlo dell’isola.“Andremodaunmercantedisementi, ve lo prometto,Cruso mio, – dico. –

Compreremo un sacco disementi, delle migliori.Ripartiremo in nave per leAmeriche, una tempesta ciimpediràdiproseguireper lanostra rotta e faremonaufragio sulla vostra isola.Pianteremoisemineiterrazzie li faremo germogliare.Faremotuttoquesto”.

«Non sono le parole, è ilfervore con cui le pronuncio:Crusoprendelamiamanotra

le sue, grandi e ossute, se laportaallelabbraepiange.

«Eravamo a tre giorni dalportoquandoCrusomorí. Iodormivo accanto a lui nellacuccettaangusta,enellanotteloudii fareun lungo sospiro;poi cominciai a sentire le suegambe diventare sempre piúfredde,cosíaccesilacandelaepresi a riscaldarlosfregandogli le tempie e ipolsi, ma ormai se n’era

andato.AllorausciieparlaiaVenerdí. “Il tuo padrone èmorto,Venerdí”,sussurrai.

«Era disteso nel suoangolino, avvolto nel vecchiopastranochegliavevatrovatoil medico. I suoi occhiscintillavano alla luce dellacandela, ma non si mosse.Aveva idea di cosa fosse lamorte?Nessunuomoeramaimorto sulla sua isola dallanottedeitempi.Losapevache

eravamo soggetti alla morte,come le bestie? Tesi unamano,manonlastrinse.Cosíseppi che sapeva qualcosa,sebbenenonsapessicosa.

«Crusofusepoltoilgiornoseguente. L’equipaggio era inpiedi a capo scoperto, ilcapitanorecitòunapreghiera,due marinai inclinarono ilcatafalco, e i resti di Cruso,cuciti in un sudario di tela,conl’ultimopuntoachiudere

ilnaso(lovidifareiostessa,ecosí pure Venerdí), cinti dauna catena massiccia,scivolarono tra le onde. Pertutta lacerimoniasentiisudime gli occhi curiosi deimarinai(erosalitadiradosulponte). Senza dubbio dovevoessere uno spettacolo benstrano, con quel giacconescuroprestatomidalcapitanosopra pantaloni larghi damarinaioe sandalidipelledi

scimmia. Pensavano davverochefossilamogliediCruso,oerapiuttostogiàarrivatofinoaloroilraccontodelladonnainglesediBahia– i luoghidiritrovodeimarinaisonopienidi pettegolezzi –,abbandonata su un’isoladell’Atlantico da portoghesiammutinati? E voi, signorFoe, pensate a me come allasignora Cruso o come aun’audace avventuriera?

Pensatepureciòchevigarba,sonostataioadividereillettocon Cruso e a chiudergli gliocchi, come sono io chedispongo di tutto ciò cheCruso lascia dietro di sé, ecioèlastoriadellasuaisola».

Parteseconda

15aprile

«Ci siamo sistemati inClock Lane, una traversa diLong Acre. Mi conosconocome la signora Cruso, unnome che dovreste tenere amente. Ho una cameraammobiliata al secondopiano.Venerdíhaun letto incantina,dovegliportoipasti.Non avrei mai potutoabbandonarlo sull’isola.Tuttavia, una grande cittànon è posto per lui. La sua

confusione e la sua penamentre lo portavo in giro,sabato scorso, mi hannostrettoilcuore.

«Perl’alloggiodientrambi,sono cinque scellini allasettimana. Vi sarò grata diqualsiasi somma mimanderete.

«Ho messo per iscritto lavera storia del periodotrascorso sull’isola comemeglio potevo, e la allego a

questa lettera. È qualcosa dipenoso, di zoppicante (lastoria,nonilperiodoinsé)–“il giorno dopo”, è questo ilritornello,“ilgiornodopo…ilgiornodopo…”–,masapretevoicomeemendarla.

«Vi chiederete come maiabbia scelto proprio voi, dalmomento che, una settimanafa, non sapevo neppure ilvostro nome. Ammetto chequando vi ho visto per la

prima volta ho pensato chefosteunavvocatoounagentedi Borsa. Ma poi una delledomesticheconcuilavoromihadetto che eravate il signorFoe, lo scrittore, che aveteascoltato molte confessioni esiete considerato un uomoassai discreto. Pioveva(ricordate?); vi eravatefermatosuigradinid’ingressoper allacciarvi il mantello, viraggiunsi fuori e richiusi la

porta. “Se permettete tantoardire, signore, – dissi(furono queste le parole,parole ardite). Voi misquadraste senza rispondere,e io pensai: Che arte èascoltareleconfessionialtrui?Il ragno ne ha altrettanta:guarda e aspetta. “Se miconcedete un istante delvostro tempo: sto cercandoun’altra occupazione”. “Tutticerchiamo un’altra

occupazione”,aveteribattuto.“Ma io devo prendermi curadi un uomo, un negro chenon potrà mai trovareun’occupazione, giacché haperduto la lingua, – dissi. –Speravo che aveste un postoperme,eancheperlui,tralavostraservitú”.Icapellieranoormai bagnati, non avevoneppure uno scialle. La tesadel vostro cappello grondavadi pioggia. “Sono impiegata

qui, ma in passato homeritato di meglio, –proseguii. – Non avete maiuditounastoriacomelamia.Sono appena ritornata da unluogomoltolontano.Hofattonaufragio su un’isola deserta.E lí mi sono ritrovata incompagnia di un uomosingolare”. Sorrisi, non a voima pensando a quanto stavoper dire. “Sono unafigurazionedellasorte,signor

Foe.Sonolabuonasortenellaqualesempresperiamo”.

«È stato sfrontato direqueste parole? È statosfrontatosorridere?Èstata lasfrontatezzaadestareilvostrointeresse?»

20aprile

«Grazie delle tre ghinee.Ho comprato a Venerdí un

farsetto di lana da carrettieree una calzamaglia, anch’essadi lana. Se avete dellabiancheria che non vi serve,sarei lieta di accettarla.Venerdíindossaivestitisenzabattere ciglio, ma non portaancoralescarpe.

«Non potreste accoglierciin casa vostra? Perché mitenete a distanza? Nonpotreste assumere me come

cameriera e Venerdí comegiardiniere?

«Salgo le scale (èuna casaalta, alta e ariosa, con molterampe di scale) e busso allaporta.Voi sedete aun tavolodandomi le spalle, unacoperta sulle ginocchia, lepantofole ai piedi, con losguardo fisso sui campi,immersoneivostripensieri,eintanto vi accarezzate ilmentoconlapenna,inattesa

che io posi il vassoio e miritiri. Sul vassoio c’è unbicchierediacquacaldaincuiho spremuto il succo di unlimone e due fette di paneabbrustolito e imburrato. Lachiamate “la primacolazione”.

«Nellastanzacisonopochimobili. La verità è che non èuna stanza, ma una partedella soffitta in cui vi ritirateincercadisilenzio.Iltavoloe

la sedia si trovano su unapedana di legno davanti allafinestra. Dalla porta allapedana c’è una passerella diassi.Seno,cisonosololeassidel solaio, su cui si puòcamminare a proprio rischioepericoloeletravi,esopralatesta,legrigietegoledeltetto.Perterrac’èunaspessacoltredipolvere;quando ilventosiinsinua a raffiche da sotto legronde, si sollevanomulinelli

di polvere e dagli angoli silevaunclamoredigemiti.Cisono anche topi. Prima discendere, siete costretto ariporre i fogli perché non lidanneggino. Al mattino,dovete spazzar via gliescrementidaltavolo.

«Nelvetrodellafinestrac’èun’incrinatura. Muovendo latesta, potete spostarla sullemucchealpascolo,sullaterraaratache si stendedietro, sul

filare di pioppi e in alto, nelcielo.

«Penso a voi come a unnocchierechegovernalagranmole della casa attraverso lenotti e i giorni, scrutandodavanti a sé in cerca deipresagiditempesta.

«I fogli sono conservati inunbauleaccantoaltavolo.Lastoria dell’isola di Crusofinirà lí dentro, pagina dopopagina,viaviachelascrivete,

assiemeaunmucchiodialtrifogli: il censimento deimendicanti di Londra,documenti sulla mortalità aitempi della grande peste,resoconti di viaggi nel paeselimitrofo,rapportisustraneestupefacenti apparizioni, datisul commercio della lana, unmemoriale sulla vita e leopinioni di Dickory Cronke(chi è?); e poi libri ditraversatenelNuovoMondo,

memorie sulla cattività tra iMori, cronache delle guerreneiPaesiBassi,confessionidifamigerati trasgressori dellalegge, e una moltitudine diracconti di naufraghi, quasitutti, immagino, crivellati dimenzogne.

«Quand’ero sull’isola,anelavo solo a essere altroveo, per usare le mie parole diallora, a essere “tratta insalvo”.Maorasentodentrodi

me un desiderio ardente chemaiavreipensatodiprovare.Chiudo gli occhi e la miaanimaprendecongedodame,volasopralecaseelestrade,iboschi e i pascoli, per fareritornoallanostra casadiuntempo, mia e di Cruso. Voinonpotetecapirequestomiodesiderio, dopo tutto ciò chehodettosultediodellanostravitalaggiú.Forseavreidovutodire di piú sul piacere di

camminarescalzanellasabbiafrescadelrecinto,dipiúsugliuccelli, i piccoli uccelli dimolte specie di cui mai hosaputo il nome e chechiamavo “passeri” inmancanza di un nomemigliore. Chi, se non Cruso,che non c’è piú, potrebbenarrarvi accuratamente lastoriadiCruso?Avreidovutoraccontaremeno di lui e piúdi me stessa. Come è

accaduto, tanto percominciare,chemiafigliasièperduta, e come, seguendola,sono giunta a Bahia? Comesono sopravvissuta trastranieri in quei due lunghianni? Ho vissuto soltanto inuna camera ammobiliata,come ho detto? Bahia eraun’isola nell’oceano dellaforesta brasiliana, e la miacamera un’isola desolata diBahia? Chi era il capitano il

cui destino ha voluto cheandasse per sempre alladeriva nei mari estremi delSud,inunavestedighiaccio?Dall’isola di Cruso non horiportato una penna, non unditaledisabbia.Nonhoaltroche i sandali.Quando riflettosulla mia storia, mi pare diesisteresolocomecoleicheègiunta, colei che è statatestimone, colei che anelavaadandarsene:unesseresenza

consistenza, un fantasmaaccanto al corpo vero diCruso. È dunque questo ildestino di chi narra storie?Eppure sono stata un corpoquanto lo è stato Cruso.Mangiavo e bevevo, misvegliavo e dormivo, mistruggevo. L’isola era diCruso (ma in virtú di qualediritto? in virtú della leggedell’isola? esiste una leggesimile?), ma ci ho vissuto

anch’io,nonerounuccellodipassaggio,nonuna sulaounalbatro che, dopo avercompiuto un giro intornoall’isola e immerso un’ala,proseguono il loro volosull’oceano sconfinato.Rendetemi la consistenza cheho perduto, signor Foe: èquesta la mia supplica.Giacché,sebbenelamiastoriadica il vero, essa non ha laconsistenza del vero (me ne

rendoconto,nonc’èbisognodi fingere che sia altrimenti).Per dire la verità in tutta lasuaconsistenzaènecessarialaquiete, una sedia comodalontanadaognidistrazione euna finestra cui indugiare aguardare; e poi il talento divedereondequandosihannodavanti agli occhi campi, disentire il sole dei tropiciquando fa freddo; e di averesullapuntadelleditaleparole

con cui catturare la visioneprima che dilegui. Io non honientedi tuttociò,voi invecetutto».

21aprile

«Nella lettera di ieri forsevi ho dato l’impressione didisprezzare l’arte dellascrittura. Vi chiedo perdono,sono stata ingiusta.

Credetemi, ci sono volte incui, mentre penso a voi chefaticate nella vostra soffittaper dare vita ai vostri ladri,cortigiane e granatieri, ilmiocuore si riempiedi pietà e iodesidero soltanto esservi diaiuto. Penso a voi (vogliatescusare l’immagine) come auna bestia da soma, e allavostracasacomeaungrandecarro che siete condannato atrainare, un carro pieno di

tavoli e sedie e armadi, e pergiunta una moglie (non sonemmeno se avete unamoglie!) e figli ingrati edomestici fannulloni egatti ecani, tutti che mangiano levostre cibarie, bruciano ilvostro carbone, sbadigliano eridono, incuranti del vostrosudore.Almattinopresto,nelteporedelletto,misembradiudire lo strascichiodei vostripassi mentre, avvolto in una

coperta, salite le scale fino insoffitta.Vi sedete, col respiroaffannoso, accendete lalampada, chiudete per benegli occhi e, a tentoni,cominciate a tornare là doveeravate la sera prima,nell’oscurità e nel gelo, nellapioggia, al di là dei campi incui le pecore si accalcano leune contro le altre, al di làdelleforeste,aldilàdeimari,nelleFiandreolàdoveivostri

capitani e granatieridebbonocominciare a muoversi einiziare anch’essi un nuovogiorno, mentre dagli angolidella soffitta i topi vi fissanofacendovibrareibaffi.Anchela domenica la vostra operaprocede, come se interireggimenti di fantirischiasserodisprofondareinunsonnoeterno,qualoranonfossero quotidianamenterisvegliati e chiamati

all’azione. Malgrado il gelo,perseverate, avvolto insciarpe, soffiandovi il naso,raschiandolagolaesputando.Avoltesietecosístrematochelalucedellacandelaondeggiadavantiaivostriocchi.Posatela testa sulle braccia e, unattimodopo,giàdormite,unariga nera attraversa il foglionelpuntoincuilapennavièscivolata via dalla mano. Labocca è semiaperta, russate

leggermente, avete l’odore(vogliate scusarmi un’altravolta) di un vecchio. Comevorrei potervi aiutare, signorFoe! Chiudendo gli occhi,raccolgoleforzeedevocounavisione dell’isola perchérimangasospesadavantiavoicomeuncorpocheabbiaunasua consistenza, conuccelli epulci e pesci di tutte lesfumature, e lucertole che sicrogiolano al sole facendo

saettare la lingua nera, escogli ricoperti di piccolicrostacei, e pioggia atamburellare sulle fronde deltetto, e vento, ventoincessante: affinché stia lí evoi possiate attingervi ognivoltacheneavetebisogno».

25aprile

«Mi avete chiesto com’è

possibilecheCrusononabbiarecuperato nemmeno unmoschetto dal relitto dellanave; com’è possibile che unuomo cosí spaventato daicannibali non abbia pensatodiarmarsi.

«Cruso non mi ha maimostrato dove giaceva ilrelitto,maèmiaconvinzioneche si trovasse, e tuttora sia,negli abissi sotto le scoglierenelnorddell’isola.Quandola

tempestafualculmine,Crusosi buttò in acqua con ilgiovane Venerdí al fianco, eforse altri marinai; masoltantoloroduesisalvarono,grazie a un’onda gigantescache li sollevò e portò a riva.Oramichiedo:Chièingradodi mantenere asciutta lapolveredasparonelventrediun’onda? E poi: Perché unuomo dovrebbe darsi da farea recuperare un moschetto

quando ha poca speranza dimettere in salvo la propriavita?Quantoaicannibali,nonsono persuasa, malgrado itimoridiCruso,cheinqueglioceanicenesiano.Potresteabuon diritto ribattere che,come non ci si aspetta divedere squali danzare tra leonde, cosí non ci si deveaspettare di vedere cannibalidanzare sulla spiaggia; icannibali appartengono alla

notte come gli squali agliabissi. Dico solo questo: Ciòchehovisto,l’hoscritto.Nonho visto cannibali; e se purevenivano dopo il calare delletenebre e fuggivano primadell’alba, non lasciavanoimpronte.

«Stanotte ho sognato lamorte di Cruso e mi sonosvegliata con le guance rigatedi lacrime. Sono rimastadistesa a lungo, poiché il

dolore non ne voleva saperedi andarsene dal mio cuore.Poi sono scesa e sono uscitanel cortiletto che affaccia suClock Lane. Non era ancoragiorno; il cielo era sereno.Sotto questemedesime stelle,cosí quiete, pensai, galleggial’isoladoveabbiamovissuto;esuquell’isolac’èunacapanna,e in quella capanna ungiaciglio di erba soffice cheforseportaancoral’impronta,

ogni giorno piú tenue, delmio corpo. Giorno dopogiorno,ilventotiraviaunpo’di tetto e le erbacce siinsinuanoneiterrazzi.Traunanno, tra dieci anni, nonresteranno altro che dei paliin cerchioa contrassegnare illuogoincuiuntempoc’eralacapannae,dei terrazzi, solo imuretti.Edeimurettisidirà:Sono muretti edificati daicannibali, le rovine di una

città di cannibali, della loroetà aurea. Giacché, chicrederà mai che sono staticostruitidaununicouomoedal suo schiavo, nellasperanza che un giornoarrivasse un navigatore conunsaccodisementi?

«Avete osservato chesarebbestatomeglioseCrusoavesse recuperato non solo ilmoschetto, la polvere dasparo e i proiettili,ma anche

unacassettacongliattrezzidafalegname in modo dacostruirsiunabarca.Nonperesserecapziosa,mavivevamosu un’isola cosí flagellata dalvento che non c’era un soloalbero che non crescessecurvo e ritorto su se stesso.Avremmo potuto costruireuna zattera, una zatterasghemba, ma giammai unabarca.

«Mi avete anche chiesto

degli indumenti di pelli discimmia che portava Cruso.Sono stati, ahimè, prelevatidallanostracabinaegettatiinacquadamarinaiignari.Selodesiderate, farò degli schizzidi noi due sull’isola conindossoquegliindumenti.

«La blusa e i larghipantaloni da marinaio cheindossavo a bordo della naveli ho dati a Venerdí. Inoltre,ha un farsetto e unpastrano.

Lacantinaaffacciasulcortile,cosí è libero di andare evenire come gli garba. Ma,spaventato com’è, esce dirado. In che modo occupi iltempo, proprio non lo so,poiché la cantina, a parte labranda,ilbariledelcarboneealcunimobilirotti,èspoglia.

«Eppure, la notizia che inClockLanec’èuncannibalesiè naturalmente diffusa,giacché ieri ho trovato tre

ragazzini davanti alla portadella cantina intenti asbirciare Venerdí. Li hoscacciati, ma si sono fermatiin fondo al vicolocontinuando a ripetere lastessacantilena:“OcannibaleVenerdí, hai mangiatomammaoggidí?”

«Venerdí invecchiaanzitempo,comeuncanechesiastatorinchiusopertuttalavita. Anch’io sono diventata

vecchia, a furia di vivere conun vecchio e di dormire nelsuoletto.Cisonovolteincuipensoamestessacomeaunavedova. Se in Brasile avesselasciato una moglie, adessosaremmo sorelle, in un certosenso.

«Due mattine allasettimana posso usare ilretrocucina e sto insegnandoa Venerdí a fare il bucato,perché, altrimenti, il non far

niente lo distruggerebbe. Lomettodavantiall’acquaioconindosso i suoi vestiti damarinaio, i piedi comesempre scalzi sul pavimentofreddo (non vuole portare lescarpe). “Guardami,Venerdí!” dico, e comincio ainsaponareunacamiciola(hodovuto spiegargli cos’è ilsapone, nella sua vita diprima non era contemplato,sull’isola usavamo cenere o

sabbia) e a strofinarlasull’asse. “Ora fallo tu,Venerdí!” dico, e mi tiro daparte. Guarda e fallo: le dueprincipali parole cheuso conVenerdí, e con esse ottengomolto.Èun salto terribile, loso, dopo la libertà dell’isola,dove, quando non dovevalavorare sui terrazzi, potevaandarsene in giro tutto ilgiorno, a caccia di uccelli, apesca. Ma è certo meglio

imparare a svolgere mestieriutili che starsene tutto ilgiorno in cantina,rimuginando chissà qualipensieri.

«Cruso non gli hainsegnato nulla perché,diceva, Venerdí non avevabisogno di parole. Ma sisbagliava. La vita sull’isola,primadelmioarrivo,sarebbestata meno tediosa, se Crusoavesse insegnato a Venerdí a

capire ciò che intendeva eavesseescogitatoqualcosachepermettesse a Venerdí diesprimerequel che intendevalui, come, per esempio,gesticolando o disponendosassi in formadiparole.CosíCruso avrebbe forse potutoparlare con Venerdí a modosuo e Venerdí rispondere amodo suo, e ingannare inquesta maniera molte orevuote. Giacché non posso

crederechelavitadiVenerdí,primadicaderenellemanidiCruso, fosse priva diinteresse, anche se non erache un bambino. Cosa nondarei per sapere la verità sucome è stato catturato daimercanti di schiavi e haperdutolalingua.

«Gli piacciono molto ifiocchi d’avena, e in un sologiorno è capace di ingollaretantoporridgedanutrireuna

dozzinadiscozzesi.Afuriadimangiareedistarsenealetto,si sta inebetendo. Vedendolocon la pancia tesa come untamburoegli stinchimagri equell’aria svogliata, non sidirebbe lo stesso uomo chesolo qualche mese fa se nestavainequilibriosugliscogli,con gli spruzzi del mare adanzargli intorno, lemembralucentisotto ilsole, la fiocina

puntata, pronta a colpirefulmineaunpesce.

«Mentre lavora, io gliinsegno i nomi delle cose.Alzo un cucchiaio e dico:“Cucchiaio,Venerdí!”eglieloporgo.Poidico: “Cucchiaio!”e tendo la mano perriprenderlo; cosí facendo,spero che presto la parolacucchiaio riecheggi nella suamente,lovogliaomeno,ogni

qual volta i suoi occhi siposerannosuuncucchiaio.

«Ciò che piú temo è che,dopo anni passati senzaparlare, abbia perduto lanozione stessa di linguaggio.Quando prendo il cucchiaiodalla suamano (maper lui èproprio un cucchiaio, o solouna cosa?Non lo so) e dico:“Cucchiaio”, come possoessere sicura che non pensiche blatero da sola, non

diversamente da una gazza odaunascimmia,perilpiacerediudireilsuonocheemettoedi sentire la mia linguamuoversi giocosa, come eglitraeva piacere nel suonare ilflauto? E mentre è possibileprendere un bambino un po’tardoetorcergliunbracciootirarglileorecchiefinchénonripete dopo di noi:“Cucchiaio”, cosa posso fareio con Venerdí? “Cucchiaio,

Venerdí!” dico; “Forchetta!Coltello!” Penso alla radicedella lingua rintanata dietroquellelabbracarnose,simileaun rospo in un invernoperenne, e rabbrividisco.“Scopa, Venerdí!” dico, e,mettendogliinmanolascopa,faccioilgestodispazzare.

«Oppure entro nelretrocucina con un libro.“Questoèunlibro,Venerdí,–dico.–Èunastoriascrittadal

celeberrimo signor Foe. Tunon lo conosci,ma inquestoistante è impegnato ascriverne un’altra, e cioè latua storia, quella del tuopadrone e la mia. Il signorFoenontihamaiincontrato,masachiseidaquellochegliho raccontato io usando leparole. Fa parte della magiadelle parole. Per mezzo delleparole, ho fornito al signorFoeparticolarisute,ilsignor

Cruso,ilmioannosull’isola,eanche sugli anni che tu e ilsignor Cruso avete passato lída soli, perquantomi èdatosapere; e tutti questiparticolari il signor Foe li staintessendoinunastoriachecirenderà famosi in tutto ilpaese, e pure ricchi. Nondovrai piú vivere in unacantina. Avrai denaro, graziealqualepotrai fareritornoinAfrica o in Brasile, come ti

garba,portandocontedeibeidoni, e potrai riunirti ai tuoigenitori, se ancora siricordano di te, e infinesposarti e avere dei figli,maschi e femmine. E io tidarò la tua copia del nostrolibro, rilegata in pelle, daportare con te. Ti mostreròcome rintracciare il tuonome, pagina per pagina,affinchéituoifiglivedanocheil loro padre è conosciuto in

tutti gli angoli del mondodovesileggonolibri.Scriverenon ti pare una bella cosa,Venerdí? Non ti senti pienodigioianel saperechevivrai,in un certo senso, persempre?”

«Dopo avervi presentato aVenerdíinquestomodo,aproil vostro libro e comincio aleggere. “Questa è la storiadella signora Veal, un’altrapersona umile che il signor

Foeharesofamosaconlasuascrittura, – dico. – Nonconosceremo mai la signoraVeal, ahimè,poichéèpassataamigliorvita;quantoallasuaamica,lasignoraBarfield,ellavive a Canterbury, una cittàpiú a sud, poco distante danoi, su questa stessa isoladove ci troviamo e chechiamano ‘Gran Bretagna’;dubitocheciandremomai”.

«Durante la mia

chiacchierata, Venerdí faticadavanti all’asse del bucato.Non mi aspetto alcun segnoche ha capito. Mi bastasperare che, se gli riempiol’aria intorno di parole,rinasceranno dentro di lui iricordimortisottoilregnodiCruso, e con loro laconsapevolezza che vivere insilenzio significa vivere comele balene, grandi castelli dicarne che galleggiano a leghe

di distanza l’uno dall’altro,oppurecome i ragni,ognunodei quali se ne sta solo alcentro della propria tela, cheper ciascuno di essirappresenta il mondo intero.Venerdí avrà anche perdutolalingua,manonleorecchie;ecco ciò che mi dico. Graziealle orecchie, Venerdí puòancoraaccoglierelaricchezzadicuisonoistoriatelestorieecosí imparare che il mondo

non è, come l’isola sembraavergli insegnato, un luogodesertoe silenzioso (èquestoil significato segreto dellaparola storia? Un luogoistoriatodiricordi?)

«Guardo le dita dei suoipiedi arricciarsi sulle assi delpavimento o sui ciottoli e soche brama terra morbidasottoipiedi.Comevorreicheci fosse un giardino in cuiportarlo! Potremmo visitare,

insieme, il vostro giardino aStoke Newington? Saremmosilenziosi come fantasmi.“Vanga, Venerdí!”sussurrerei, porgendogli lavanga; e poi: “Scava! – unaparola che il suo padrone gliha insegnato. – Rivolta laterra, accumula le erbacce ebruciale.Toccalalama.Nonèforse un bell’utensile,acuminato? È una vanga

inglese, fabbricata da unmaniscalcoinglese”.

«Cosí, guardando la suamano afferrare la vanga,guardandoisuoiocchi,cercoi primi segni che eglicomprenda ciò che stocercandodifare:nonripulirele aiuole (sono sicura cheavete un giardiniere), enemmenosalvarlodall’ozioofarlouscireperilsuobenedaquell’umida cantina, ma

costruire un ponte di parolesul quale, quando un giornosarà abbastanza robusto, eglipossa giungere all’epocaprima di Cruso, all’epoca incui ha perduto la lingua,allorquando viveva immersonelle ciarle, senza pensarci,comeunpescenell’acqua;perpoi tornare a poco a poco,quanto gli è possibile, almondodelleparoleincuivoi,

signor Foe, e io, e altrepersoneviviamo.

«Oppure tiro fuori levostre cesoie e glienemostrol’uso. “Qui in Inghilterra, –dico, – è nostra abitudinepiantare siepi per segnare ilconfine tra le proprietà.Indubbiamente ciò nonsarebbepossibilenelleforestedell’Africa.Maquipiantiamole siepi, e poi le tagliamo afilo, in modo che i giardini

sianobendelimitati”. Poto lasiepe finché Venerdí non sirende conto di ciò che stofacendo: non sto creando unvarco nella siepe, non stotagliandolasiepe,bensínestorifilando un lato. “Su,Venerdí, prendi le cesoie, –dico. – Taglia!” E Venerdíprende le cesoie e rifilapreciso il lato, come so che èingradodifare,giacchéscavainmanieraimpeccabile.

«Dico a me stessa cheparlo con Venerdí pereducarlo affinché esca dalletenebreedalsilenzio.Maèlaverità?Cisonovolteincui labenevolenzami abbandona euso le parole solo come ilmodo piú facile persottometterlo alla miavolontà. In questi momenti,capisco perché Crusopreferisse non stuzzicare ilsuo mutismo. Capisco, cioè,

perché un uomo sceglie dipossedere degli schiavi.Avrete minor considerazionedi me dopo questaconfessione?»

28aprile

«Lamialetteradel25miètornata ancora sigillata. Miaugurosiasoltantounerrore.Laallegoallapresente».

1°maggio

«Sono stata a StokeNewington e ho trovato lavostra casa invasa dagliuscieri. È crudele, lo so, mami è quasi venuto da riderenell’apprendere che eraquesta la ragione del vostrosilenzio, che non aveteperdutol’interessechenutritepernoienonciavetevoltatole spalle. Tuttavia ora devo

chiedermi: Dove manderò lemie lettere? Continuerete ascrivere la nostra storiamentre vi nascondete?Contribuirete ancora alnostro sostentamento? Io eVenerdí siamo gli unicipersonaggicheaveteaiutatoatrovareunalloggiomentrenescrivetelastoria,oppurecenesonoaltridispersiperLondra:vecchi combattenti delleguerre in Italia, amanti

abbandonate, banditipenitenti, ladri danarosi?Come vivrete finché vinasconderete? Avete unadonna che vi cucina i pasti evi fa il bucato? Vi fidate deivicini? Ricordate: gli uscierihanno spie ovunque.Guardatevi dalle taverne. Sesiete assillato dai problemi,veniteinClockLane».

8maggio

«Devo confessare chenell’ultima settimana sonostata a casa vostra due voltenellasperanzadiaverebuonenuove. Non siate arrabbiato.Non ho rivelato la miaidentità alla signora Thrush.Dicosolochehodeimessaggiper voi, messaggi dellamassima importanza.Durante la prima visita, la

signoraThrushmihalasciatochiaramenteintenderedinoncredermi. Ma ora l’hoconquistataconlamiaserietà.Ha accettato le mie lettere emihapromessodimetterlealsicuro, il che mi sembra unmodo per dire che ve lespedirà. Ho ragione? Viarrivano?Mihaconfidatocheè in penaper voi e non vedel’ora che gli uscieri se nevadano.

«Sisonoacquartieratinellabiblioteca. Uno dorme suldivano, l’altro,aquantopare,su due poltrone accostate. Sifanno portare i pasti dalKing’sArms.Sonodispostiadaspettare un mese, due, unanno, dicono, pur dinotificarvi il mandato. Unmese, riesco ancora acrederci, ma non un anno:non immaginanocomepossaessere lungo un anno. La

seconda volta è stato uno diloro, un individuo odioso dinome Wilkes, ad aprirmi laporta. Crede che io faccia damessaggera tra voi e lasignora Thrush. Prima chemeneandassi,mihabloccatonel corridoio emi ha parlatodella Fleet, di come viabbiano trascorso la vitauomini abbandonati dallafamiglia, naufraghi nel cuorestesso della città. Chi vi

salverà, signor Foe, se viarrestano e vi rinchiudonoallaFleet?Pensavocheavesteuna moglie, ma la signoraThrushdice che siete vedovodamoltianni.

«La biblioteca puzza ditabacco da pipa. L’anta dellavetrina centrale è rotta e ilvetro non è stato neppurespazzato via. La signoraThrush dice che ieri sera

Wilkes e il suo amico hannoricevutounadonna.

«Sono tornata in ClockLaneabbattuta.Cisonovolteincuimisembradiavereunaforza smisurata, in cui misentoingradodiportaresullespalle voi e i vostri guai, epuregliuscieri,senecessario,e Venerdí e Cruso e l’isola.Ma ci sono volte in cui unacoltredistanchezzacadesudime,ealloravorreisoloessere

trascinata via verso una vitanuova in una città lontana,dovenonsentiròmaipiúnéilvostro nome né quello diCruso.Nonriusciteascriverepiú in fretta, signor Foe, cosíche Venerdí possa tornare alpiúprestoinAfricaeiopossaessere liberatadaquesta tetraesistenza? Nascondersi dagliuscieri dev’essere certo unanoia, e scrivere un modomiglioredialtriperpassareil

tempo. Le memorie che hosteso per voi, le ho scritteseduta sul letto con i fogli suun vassoio posato sulleginocchia, temendo tutto iltempo in cuor mio cheVenerdí se la svignasse dallacantina in cui era statorelegato, o facesse unapasseggiata e si perdessenell’affollato dedalo delCovent Garden. Eppure, houltimato le mie memorie in

tre giorni. Nella storia verache voi state scrivendo laposta è piú alta, lo ammetto,giacché non dovete solo direla verità su di noi,ma anchecompiacere i lettori. Nonscorderete, tuttavia, che lamia vita rimarrà tristementesospesa finché non avretefinitodiscrivere?»

19maggio

«I giorni passano e da voinon ricevo una parola. Unachiazza di tarassaco – nonabbiamo altri fiori in ClockLane – si sta arrampicandosulmurosottolamiafinestra.A mezzogiorno la camera ècaldissima. Soffocherò se,all’arrivo dell’estate, saròancora confinata qui. Anelodi uscire a passeggio conindosso solo la camiciola,comefacevosull’isola.

«Letreghineechemiavetemandato sono finite. I vestitiper Venerdí sono costatimolto.Nonhoancorapagatolapigionedellasettimana.Mivergognoascenderedisottoacucinarelanostramagracenadipiselliesale.

«A chi sto scrivendo?Asciugo le pagine e le gettodalla finestra. Le legga purechivuole».

«La casa di Newington èchiusa, la signora Thrush e idomestici sono partiti.Quando pronuncio il vostronome,ivicinihannolaboccacucita. Cos’è successo? Gliuscieri sono sulle vostretracce?Riuscireteascrivereinprigione?»

29maggio

«Ci siamo stabiliti nellavostracasa,dallaqualeoraviscrivo. La cosa vi sorprende?Sulle finestre c’erano già leragnatele e abbiamo dovutospazzarle via.Non saremo dialcun disturbo. Quandoritornerete, spariremo comefantasmi,senzalagnarci.

«Ho il vostro tavolo a cuisedere, la vostra finestra dacui guardar fuori. Scrivo conla vostra penna sulla vostra

carta, e quando i fogli sonopienifiniscononelbaule.Cosíla vostra vita continua aesserevissuta,anchesenoncisiete.

«Mi manca soltanto laluce. In tutta la casa non èrimastauna sola candela.Maforse questo è un dono delcielo. Giacché dobbiamotenere le tende accostate, ciabitueremo a vivere in

penombradigiornoealbuiodinotte.

«Non è proprio comeimmaginavo. Il vostro tavoloper scrivere non è un tavolobensí uno scrittoio. Lafinestradànonsuiboschie ipascolibensísulgiardino.Nelvetro non c’è nessunaincrinatura.Ilbaulenonèunvero baule bensí una cassettaportadocumenti.Ciononostante, è tutto

abbastanza simile. Sorprendeanche voi quanto me questacorrispondenza tra le cosecosí come sono e l’immaginechecenesiamofatti?»

«Abbiamo esplorato ilgiardino, io e Venerdí. Leaiuole sono piene di erbacce,unatristezza,malecarotee ifagioli crescono rigogliosi.DiròaVenerdídistrapparle.

«Viviamo qui come

parenti poveri. Ho riposto lavostra biancheria migliore;mangiamo gli avanzi deidomestici. Consideratemicome la nipote di un cuginodi secondo grado ormaidecaduto cui dovete ilminimoindispensabile.

«Mi auguro che nonabbiate compiuto il passod’imbarcarviperlecolonie.Ilmio timore piú grande è cheuna tempesta sull’Atlantico

possacondurrelanavecontrouna qualche scoglierasconosciuta e riversarvi suun’isolabrulla.

«In Clock Lane, viconfesserò, c’è stato unperiodo in cui provavo neivostri confronti granderisentimento. Non pensa piúa noi, mi dicevo, quasifossimo due dei suoigranatieri nelle Fiandre,dimentico del fatto che,

mentreigranatiericadonoinun sonno estatico ogni voltache si distrae, io e Venerdícontinuiamo a mangiare, abere e a crucciarci. Sembravache non mi rimanesse altrascelta se non chiederel’elemosina per la strada, orubare, o qualcosa di peggio.Ma adesso che siamo nellavostra casa è tornata la pace.Come mai, non saprei, maper questa casa – che fino al

mese scorso non avevo maivisto–provociòchesiprovaper la casa in cui si è nati.Ogniangolo,ognirecessodelgiardino, anche il piú celato,hannoun’ariafamiliare,comese in un’infanzia ormaidimenticataciavessigiocatoanascondino».

«Quanta parte della miavita consiste nell’attesa! ABahia non facevo altro che

aspettare,sebbeneavoltenonsapessi cosa. Sull’isola hoatteso per tutto il tempo chevenissero a trarmi in salvo.Qui aspetto che vi facciatevivo, o che scriviate il libroche mi libererà di Cruso eVenerdí.

«Stamane mi sono sedutaallo scrittoio (è pomeriggioora, e io sono sempre sedutaal solito scrittoio, è tutto ilgiornochestosedutaqui),ho

tirato fuori un foglio pulito,ho intinto la pennanell’inchiostro – la vostrapenna, ilvostroinchiostro, loso, ma, in un certo senso, lapenna diventamiamentre lauso, come se si originassedallamiamano–,einaltohoscritto: “La naufraga. Il veroresoconto di un anno suun’isola deserta. Con moltiavvenimenti singolari mairiferiti prima”. Poi ho

elencato tutti gli avvenimentisingolari di quell’anno cheriuscivo a ricordare:l’ammutinamento el’assassinio sulla naveportoghese; il castello diCruso;lostessoCruso,conlasuacrinieraleoninaeivestitidi pelli di scimmia; il suoschiavo senza voce, Venerdí;gli ampi terrazzi da lorocostruiti, tutti privi divegetazione; la spaventosa

tempestachehastrappatoviailtettodellacasaeriempitolespiagge di pesci moribondi.In preda al dubbio, hopensato: Questi avvenimentisonoabbastanzasingolariperfare una storia? Quanto civorrà prima che io giunga ainventarne di nuovi e piúsingolari: il recupero diutensiliemoschettidallanavedi Cruso; la costruzione diuna barca, o almeno di una

scialuppa, e l’impresa dinavigare fino alla terraferma;l’arrivo dei cannibalisull’isola, seguito da unascaramuccia e da mortisanguinose; e, infine, l’arrivodi un forestiero dai capellid’oroconunsaccodisementie la semina dei terrazzi?Giungerà mai il giorno,ahimè, in cui si potrà creareuna storia senza avvenimentisingolari?

«Poi c’è la questione dellalingua di Venerdí. Sull’isolaho accettato di non saperecome l’avesse perduta, e hoaccettato pure di non saperecome le scimmie avesseroattraversato il mare. Ma ciòche possiamo accettare nellavita non possiamo accettarlonellastoria.Raccontarelamiastoria e tacere sulla lingua diVenerdí non è meglio chedareallestampeunlibrocon

paginelasciatesemplicementevuote. Eppure, l’unica linguache può raccontare il segretodiVenerdí è la lingua chehaperduto!

«Cosístamanehofattodueschizzi. Uno mostrava lafiguradiunuomoinbracheefarsetto, e un copricapoconico, le fedine arruffate egrandi occhi felini.Inginocchiato davanti a luic’era la figura di un nero,

nudo, non fosse stato per unpaio di brache, con le manidietro la schiena (eranolegate, ma non si vedeva).Nellamano sinistra, la figuracon le fedine stringeva lalingua ancora viva dell’altro;con la destra, impugnava uncoltello.

«Del secondo schizzoparleròtrapoco.

«Ho portato gli schizzi aVenerdí ingiardino.“Guarda

questi disegni, Venerdí, – hodetto, – e dimmi: qual è laverità?” Ho alzato il primo.“Padron Cruso”, ho dettoindicando la figura con lefedine. “Venerdí”, ho dettoindicando la figurainginocchiata. “Coltello”, hodetto indicando il coltello.“CrusohamozzatolalinguaaVenerdí”, e ho tirato fuori lalingua mimando il gesto ditagliarla. “È questa la verità,

Venerdí? – l’ho incalzatoguardandolo intensamentenegli occhi. –È statoPadronCrusoamozzartilalingua?”

«(Venerdí non conosceràforseilsignificatodellaparolaverità, ho ragionato tra me;tuttavia, se ilmiodisegnoharisvegliato in lui qualchericordo,dicertolosguardosirannuvolerà, poiché degliocchi non si dice, a ragione,

che siano lo specchiodell’anima?)

«Eppure, già mentreparlavo,cominciavoanutriredei dubbi. Giacché, sebbenelosguardodiVenerdísifossein effetti turbato, non potevabenissimo essere perché erouscita rapida da casaingiungendogli di guardare idisegni, cosa che non avevomai fatto prima di allora?Non poteva anche essere che

il disegno lo confondeva?(Giacché, esaminandolo dinuovo, mi avvidi condisappunto che potevabenissimo raffigurare Crusocome un padre caritatevoleintentoamettereunbocconedi pesce nella bocca delpiccolo Venerdí). E comeaveva interpretato il miogestoditirarfuorilalingua?Ese, tra i cannibali dell’Africa,tirar fuori la lingua avesse lo

stesso significato che tra noiha l’offrire le labbra? Nonarrossireste anche voi divergogna se una donna vimostrasse la linguaevoinonaveste una lingua con cuirispondere?

«Gli ho mostrato ilsecondo schizzo. Raffiguravaanch’esso il piccolo Venerdí,le braccia allungate dietro laschiena, la bocca spalancata;ma adesso l’uomo con il

coltello era un mercante dischiavi, un nero, alto, conindosso un burnus, e ilcoltelloera ricurvoaguisadifalce. Dietro questoMoro, simuovevanoalvento lepalmedell’Africa. “Mercante dischiavi”, ho detto indicandol’uomo. “Uomo che cattura ibambini e li vende comeschiavi. È stato un mercantedischiaviamozzartilalingua,

Venerdí?ÈstatounmercantedischiavioCruso?”

«MalosguardodiVenerdíè rimasto assente e io hocominciato a scoraggiarmi.Chi, dopotutto, poteva direche non avesse perduto lalinguaall’età incui ibambiniebreivengonocirconcisi;e,secosí fosse, come potevaserbarne il ricordo? Chi puòdire che in Africa nonesistanointeretribútracuigli

uominisonomutie laparolaè prerogativa delle donne?Perché non dovrebbe esserecosí? Ilmondoèpiúvariodiquanto non crediamo: è unadelle lezioni che mi ha datoBahia.Perchétribúsimilinondovrebbero esistere,procreare, prosperare, edesserepaghe?

«O se davvero c’era statoun mercante di schiavi, unMoro conun coltello falcato,

il disegno che io ne avevofattoeraeffettivamentesimileal Moro che Venerdíricordava? I Mori sono tuttialti e indossano burnusbianchi? Forse ilMoro avevaordinatodimozzarelalinguaaiprigionieriaunoschiavodifiducia, uno schiavo nero,avvizzito, con appena unafascia sui fianchi. “È unarappresentazione fedeledell’uomo che ti ha mozzato

la lingua?” È questo cheVenerdí,amodosuo,pensavagli avessi chiesto? Se cosí è,che risposta poteva dare senon: No? E anche se fossestatounMoroamozzargli lalingua,ilsuoMoro,contuttaprobabilità,eraunpollicepiúalto delmio o un pollice piúbasso; si vestiva di nero o diazzurro,nondibianco;avevalabarba,nonerarasato;aveva

un coltello dalla lama diritta,nonricurva;ecosívia.

«Cosí, ritta davanti aVenerdí, pian piano hostracciato i miei disegni. Ècadutoun lungosilenzio.Perla prima volta ho notatoquanto fossero lunghe le ditadiVenerdí,strettesulmanicodella vanga. “Ah, Venerdí! –hodetto.–Ilnaufragioèunalivella, e cosí pure lamiseria,ma non siamo ancora allo

stesso livello”.Epoi, sebbenenon giungesse risposta, némai sarebbe giunta, hoproseguito, dando voce atuttociòcheeraracchiusonelmio cuore: “Venerdí, stobuttando via la mia vita conte, con te e la tua storiainsensata. Non voglio ferirti,ma è cosí. Quando saròvecchia, guarderò a tutto ciòcome a un gran sciupio ditempo,un tempo incui sono

statasciupatadaltempo.Chefacciamo qui, tu e io, tra gliassennati cittadini diNewington, in attesa di unuomochenontorneràmai?”

«SeVenerdí fossestatounaltro, gli avrei chiesto diprendermi tra le braccia econsolarmi,poichédiradomiero sentita tanto infelice.MaVenerdísenestavaimmobilecome una statua. Non hodubbi che tra gli africani

l’umana comprensione simanifesti con la stessasollecitudine che tra noi. Magli anni disumani passati daVenerdí con Cruso avevanofinito con l’ottundergli ilcuore, rendendolo freddo,incurante, come un animalecompletamente avviluppatoinsestesso».

1°giugno

«Durante il regno degliuscieri, come di certocapirete, i vicini hannoevitatolavostracasa.Maoggiè venuto in visita un signoredi nome Summers. Horitenuto prudente dirgli cheero la nuova governante eVenerdí il giardiniere. Sonostata abbastanza credibile,ritengo, e l’ho convinto chenon siamo zingari cui èaccadutodi imbattersi inuna

casa vuota, e vi si sonoinstallati.Lacasaèpulitaeinordine, anche la biblioteca, eVenerdí era al lavoro ingiardino, sicché la bugia nonèparsatroppogrossa.

«A volte mi chiedo se,impaziente, non stiateaspettandonelvostroalloggiolondinese la notizia che inaufraghi se ne sonofinalmente andati e dunquesieteliberodiritornare.Avete

delle spie che sbirciano dallefinestre per vedere se ancoraoccupiamo la casa? Passateognigiornovoistessodavanticasa ben camuffato? È verocheilvostronascondigliononè tra i vicoli di Shoreditch oWhitechapel, come tuttisupponiamo, ma proprio inquesto villaggio assolato? Ilsignor Summers è dei vostri?Risiedete per caso nellasoffitta di casa sua, dove

passate il tempo a studiarecon un cannocchiale la vitacheconduciamo?Secosíè,micredete quando dico che lanostra vita qua è sempremeno diversa dalla vita checonducevamo sull’isola diCruso. A volte mi svegliosenza sapere dove sono. Ilmondo è pieno di isole, hadettounavoltaCruso.Questeparole risuonano piú vereognigiornochepassa.

«Scrivo le mie lettere, lesigillo, le lascio cadere nellacassetta portadocumenti. Ungiorno, quando saremopartiti,voilerovesceretesulloscrittoio e darete loro unascorsa. “Sarebbe statomegliosecifosserostatisoloCrusoeVenerdí, – mormorerete. –Sarebbe statomeglio senza ladonna”. Ma dove sarestesenzaladonna?CredeteforsecheCruso sarebbe venuto da

voidisuaspontaneavolontà?Sareste stato in grado diinventare Cruso e Venerdí el’isola,conlesuepulci, lesuescimmie e le sue lucertole?Non penso. Voi avete moltipregi, ma l’immaginazionenonètraquesti».

«Un’estranea sorveglia lacasa, una fanciulla. È capacedi starsene per ore dall’altraparte della strada senza fare

nulla per nascondersi. Ipassanti si fermano e lerivolgonolaparola,maella liignora.Mi chiedo: È un’altraspia degli uscieri o l’avetemandata voi? Indossa unmantello grigio concappuccio, nonostante ilcaldo estivo, e ha con sé unpaniere.

«Oggi, il quarto giorno incui sta di guardia, mi sonoavvicinata. “Questa è una

lettera per i vostri padroni”,ho detto senza preamboli, el’ho lasciata cadere nelpaniere.Mihafissatopienadimeraviglia. Piú tardi, hotrovato la lettera sotto laporta, ancora chiusa. L’avevoindirizzataaWilkes,l’usciere.Se la giovane fosse al suoservizio, ho dedotto, non sisarebbe rifiutata diportargliela. Allora ho legatoinsieme in un pacco tutte le

lettere che vi ho scritto, esono uscita una secondavolta.

«Era tardo pomeriggio. Lafanciullasenestavadavantiame rigida come una statua,avvolta nel suo mantello.“QuandovedeteilsignorFoe,dategliele”, ho dettoporgendogliele. Ha scosso ilcapo. “Non lo vedrete,dunque?” Ha scossonuovamente il capo. “Chi

siete? Perché sorvegliate lacasa del signor Foe?” hoproseguito, chiedendomi senonavessipercasoachefareconun’altrapersonamuta.

«Ha alzato il capo.“Davvero non sapete chisono?” La sua voce erasommessa, le tremavano lelabbra.

«“Non vi ho mai vista invitamia”,hodetto.

«Si è fatta terrea. “Non è

vero”, ha sussurrato, elasciando cadere il cappucciodel mantello ha liberato icapellicastani.

«“Ditemiilvostronome,esapròseècosí”.

«“Mi chiamo SusanBarton”,hasussurrato,sicchého avuto la conferma chestavo conversando con unapazza.

«“E come mai sorvegliatetutto il giorno la mia casa,

Susan Barton?” ho chiesto intonopacato.

«“Per parlare con voi”, harisposto.

«“Eiocomemichiamo?”«“Anche voi vi chiamate

SusanBarton”.«“E chi vi manda a

sorvegliare la mia casa? Ilsignor Foe? Il signor Foevuole forse che ce neandiamo?”

«“Non conosco nessun

signor Foe, – ha detto. –Vengosolopervederevoi”.

«“Ecosapotetemaivoleredame?”

«“Dunque non sapete, –disseconvocecosísommessacheriuscivoastentoaudirla,– dunque non sapete di chisonofiglia?”

«“Non vi ho mai vista invita mia. Di chi siete figlia?”Al che non ha risposto ma,chinandoilcapo,sièmessaa

piangere, con le bracciadistese, goffe, lungo i fianchi,ilpaniereaisuoipiedi.

«Pensando:Dev’essereunapovera fanciulla smarrita chenonsachiè,l’hocintaconunbraccio per consolarla. Ma,non appena l’ho toccata, dicolpo si è inginocchiata emihaabbracciata,singhiozzandocomeseilsuocuorestesseperspezzarsi.

«“Che c’è, bambina mia?”

ho detto, cercando disottrarmiallastretta.

«“Non mi conoscete,dunque, non mi conoscete!”hagridato.

«“È vero, non vi conosco,ma conosco il vostro nome,me l’avete detto voi stessa, èSusan Barton, vi chiamatecomeme”.

«Al che, ha cominciato apiangereancorapiúforte.“Vi

sietescordatadime!”hadettotraisinghiozzi.

«“Nonmisonoscordatadivoi, dalmomento chenonviho mai conosciuta. Ma oradovete alzarvi e asciugarvi lelacrime”.

«Mi ha permesso diaiutarla, ha preso il miofazzoletto, si è asciugata gliocchi e soffiata il naso. Hopensato: Che piagnucolona!“Ora ditemi: come fate a

conoscere il mio nome?”(Giacché al signor Summersmi sono presentatasemplicementecomelanuovagovernante, e a Newingtonnonhomairivelatoanessunocomemichiamo).

«“Vi ho seguita ovunque”,hadettolafanciulla.

«“Ovunque?”hodettoconunsorriso.

«“Ovunque”.«“Conosco un posto dove

nonpoteteavermiseguita”.«“Vihoseguitaovunque”.«“Mi avete seguita anche

oltreoceano?”«“Sodell’isola”.«Fu come se mi avesse

colpito in piena faccia. “Nonsapete nulla dell’isola”,ribattei.

«“So anche di Bahia. Soche stavate setacciandoBahiaallamiaricerca”.

«Con queste parole si è

tradita, e io ho capito da chiaveva avuto le sueinformazioni. Fremendo dirabbia contro di lei e controdi voi, ho voltato i tacchi esono tornata dentrosbattendolaporta.Perun’oraè rimasta al suo posto diguardia, poi verso sera se n’èandata.

«Chi è e perché l’avetemandata da me? L’avetemandataperfarmicapireche

siete vivo? Non è mia figlia.Pensate forse che le donnepartoriscano i figli e lidimentichinocome i serpentidepongono le uova? Solo unuomo può concepire certefantasie.Sevolete che lasci lavostracasa,ordinatemeloeioobbedirò. Perché mandareuna fanciulla con indosso gliabiti di una vecchia, unafanciullaconilvisorotondoeuna piccola bocca a o, e la

storiadi unamadreperduta?È piú figlia vostra di quantosiamaistatamia».

«Un birraio. Dice che suopadre era un birraio. Che ènata a Deptford nel maggiodel 1702. Che sono suamadre. Siamo sedute insalotto,eiolespiegochenonhomai vissuto aDeptford invita mia, non ho maiconosciutounbirraio,houna

figlia,èvero,mal’hoperduta,ed ellanon è quella figlia. Lafanciullascuotedolcementeilcapo e comincia a narrarmiun’altra volta la storia delbirraio George Lewes, miomarito. “Allora vi chiamateLewes,sequestoè ilnomedivostro padre”, la interrompo.“Sarà anche il mio nomesecondo la legge,manonè ilmio nome vero”, dice. “Sevogliamo parlare di nomi

veri, – dico, – nemmeno ilmioèBarton”.“Nonèquestocheintendodire”.“Alloracheintendete dire?” domando.“Parlo dei nostri nomi veri,dei nostri nomi autentici”,dice.

«Ritorna alla storia delbirraio.Ilbirraiofrequenta lecase da gioco e perde finoall’ultimo centesimo. Si faprestare del denaro e perdepure quello. Per sfuggire ai

creditori, scappadall’Inghilterra e si arruolacome granatiere nei PaesiBassi, dove si dice sia perito.Rimangoprivadimezzieconuna figlia di cui prendermicura. Ho una cameriera dinomeAmy o Emmy. Amy oEmmychiedeamiafigliachetipodivitavorrebbecondurreda grande (è il suoprimissimo ricordo). Dabambinaqualè,rispondeche

vuoleessereunagentildonna.Amy o Emmy ride: Ascoltabenelemieparole,dice,verràil giorno in cui tutte e trefaremoleserve.“Nonhomaiavuto una domestica in vitamia, né chiamata Amy oEmmy, o in qualsiasi altromodo”, dico. (Venerdí nonerailmioschiavobensíquellodiCruso,eadessoèunuomolibero.Non si puònemmenodire che sia un domestico,

considerata la vita oziosa checonduce). “Mi confondeteconqualcunaltro”.

«Sorridedinuovoescuoteil capo. “Osservate il segnograzie al quale possiamoriconoscere la nostra veramadre,–dice,protendendosiverso di me e posando lamano accanto alla mia. –Guardate, abbiamo la stessamano. La stessa mano e glistessiocchi”.

«Fisso le due mani unaaccanto all’altra. La mia èlunga,lasuacorta.Lesueditasono le dita grassottelle einformi di una fanciulla. Isuoi occhi sono grigi, i mieicastani.Cherazzadicreaturaè, cosí serenamente ciecaall’evidenzadeisensi?

«“È stato un uomo amandarvi? – chiedo. – Unsignoredi staturamedia, conunneosulmento,qui?”

«“No”,dice.«“Non vi credo. Credo

piuttosto che vi abbiamandatoqualcuno,eoraiovimando via. Esigo che ve neandiate e non mi disturbiatemaipiú”.

«Scuote il capo e afferra ilbracciolo della poltrona. Lasua calma svanisce. “Nonmilascerò cacciare via!” dice,serrandoidenti.

«“Benissimo. Se volete

restare, restate pure”. E miritiro,chiudendolaportaallemie spalle e mettendomi intascalachiave.

«Nel vestibolomi imbattoin Venerdí, che ciondolasvogliato in un angolo (se nesta sempre negli angoli, maiall’aperto: diffida dellospazio). “Non è niente,Venerdí, – gli dico. – È solouna povera pazza che èvenuta a stare da noi. Nella

casa del signor Foe vi sonomoltedimore.Almomentoviabitano soltanto unanaufraga,unoschiavomutoe,adesso,unapazza.C’èancoraposto perché al nostroserraglio si uniscano lebbrosieacrobatiepiratiemeretrici.Ma non stare ad ascoltarmi.Torna a letto e dormi”. E glipassoaccantosfiorandolo.

«Parlo con Venerdí comelevecchieparlanoconigatti,

perviadellasolitudine,finchénon vengono tacciate distregoneria, e per la stradaevitatedatutti.

«Piú tardi ritorno insalotto. La fanciulla è sedutainpoltrona,ilpaniereaccantoai piedi, lavora amaglia. “Virovinerete la vista a lavorareconquestaluce”,dico.Posaillavoroamaglia.“Visfuggeundettaglio, – continuo. – Ilmondo è pieno di storie di

madri incercadi figli e figlieche hanno abbandonato,molto tempo fa. Ma non cisono storie di figlie checercano la madre. Non cisono storie di ricerche simili,perché queste cose nonaccadono. Non fanno partedellavita”.

«“Vi sbagliate, – dice. –Voi siete mia madre, vi hotrovata, e ora non vi lasceròpiú”.

«“Devo ammettere che ineffetti una figlia l’hoperduta.Manonl’hoabbandonata,mel’hanno portata via, e nonsiete voi. Non chiuderò achiave la porta. Andatevenenonappenasaretepronta”.

«Stamanescendoelatrovoancora lí, adagiata inpoltrona, avvolta nelmantello, addormentata.Chinandomi su di lei, vedochehaunocchiosocchiusoe

la pupilla rovesciata. Lascuoto. “È ora di andare”,dico. “No”, risponde.Tuttavia,dallacucinasentolaporta richiudersi e ilsaliscendi scattare alle suespalle.

«“Chi vi ha allevata dopochevihoabbandonato?”lehochiesto. “Gli zingari”, haribattuto. “Gli zingari! – l’hocanzonata. –Accade solo neilibri che i bambini vengano

rapiti dagli zingari! Dovetefarvi venire in mente unastoriamigliore!”

«Eora,comeseimieiguainonbastassero,Venerdíha lepaturnie. Era Cruso achiamarle “paturnie”,quando, senza ragione,Venerdídeponevagli attrezzie scompariva in qualcheangolo recondito dell’isola epoi, ilgiornodopo,tornavaeriprendevalesueoccupazioni

comesenullafosse.Adessosiaggira in preda alle paturnieneicorridoiosenestafermodavanti alla porta, anelandodi fuggire ma timoroso diavventurarsi fuori; oppure senerimanea letto fingendodinon udire se lo chiamo.“Venerdí, Venerdí”, dicosedendomi al suo fianco e,scuotendoilcapo,scivolomiomalgrado in un altro lungocolloquio con lui, senza

scopo, – come avrei potutoprevedere,quandoleondemihannoportatasullatuaisolaeti ho visto con la fiocina inpugno, l’alone del sole arisplendere intorno alla tuatesta, che il nostro camminoci avrebbe condotti in unatetra casa inglese e a unperiodo di vana attesa? HofattomaleascegliereilsignorFoe? E chi è questa fanciullachecimanda,questafanciulla

pazza? Lamanda forse comeunsegno?Unsegnodiche?

«“Oh, Venerdí, comeposso farticapire labramadichi, vivendonelmondodellaparola,vuoleunarispostaallesue domande! È simile aldesiderio, quando baciamoqualcuno, di sentire le suelabbra rispondere al nostrobacio. Altrimenti nonsaremmoforsepaghididareinostri baci alle statue, le

fredde statue di re e regine edèi e dee? Perché credi chenonbaciamo le statue,ononandiamoalettoconlestatue,gli uomini con le statuedelledonneeledonneconlestatuedegli uomini, statue scolpitenelle posture del desiderio?Pensi che sia solo perché ilmarmo è freddo? Prova arimanere un po’ distesoaccanto a una statua, con lecopertecaldecheviricoprono

entrambi, e il marmo siriscalderà. No, non è perchélastatuaèfredda,maperchéèmorta o, piuttosto, perchénon ha mai vissuto e maivivrà.

«“Stai tranquillo, Venerdí,benché sia seduta accanto altuolettoaparlaredidesiderioe di baci, non intendocorteggiarti. Non è un giocoin cui ogni parola ha unsecondo fine, in cui le parole

dicono: ‘Le statue sonofredde’ e intendono dire: ‘Icorpi sono caldi’, o dicono:‘Desidero ardentemente unarisposta’ e intendono dire:‘Desidero ardentemente unabbraccio’. Né questo mionegare è falso, un negareimposto, almeno inInghilterra (ignoro i costumideltuopaese),dalpudore.Seti stessi corteggiando, lo fareiin modo diretto, puoi starne

certo. Ma non ti stocorteggiando.Stocercandodifar capire a te che non haimai, per quanto ne so, dettouna sola parola in vita tua, ecertamentemai la dirai, cosavuol dire parlare a vuoto,giorno dopo giorno, senzaricevere risposta. Userò unasimilitudine: dico che ildesiderio di una parola inrispostaèsimilealdesiderarel’abbraccio di un’altra

persona,aldesideriodiessereabbracciati da un’altrapersona. Ti è chiaro cosaintendo? Tu sei qualcosa dimolto simile a una vergine,Venerdí. Forse non seinemmenoaconoscenzadegliorgani della riproduzione.Eppuresentiraisenz’altro,perquanto oscuramente, chequalcosadentrodi te ti attiraverso una donna della tuaspecie, e non verso una

scimmiaounpesce.Eciòchevuoi ottenere con quelladonna, pur se dovessiinterrogarti in eterno suimezzi per farlo, qualora ellanon ti aiutasse, è ciò cheanch’io voglio ottenere, enella mia similitudine è unbaciodirisposta.

«“Che triste destinosarebbe vivere senza esserebaciati! Eppure, se resterai inInghilterra,Venerdí,nonsarà

forse questo il tuo destino?Dove mai incontrerai unadonna della tua gente? Nonsiamo una nazione ricca dischiavi. Penso a un cane daguardia,allevatoconcuramatenutofindallanascitadietroauncancellochiuso.Quandofinalmentescapperà,perchéilcancello è stato lasciatoaperto,diciamo, ilmondogliapparirà cosí vasto, cosíestraneo,cosípienodi luoghi

e odori inquietanti cheringhierà alla prima creaturachegli si avvicina e le salteràalla gola, dopodiché saràbollato come malvagio eincatenato a un palo per ilrestodeisuoigiorni.Nonstodicendo che sei malvagio,Venerdí,nonstodicendochesarai incatenato per sempre,non è questa la miaintenzione. Semmai vorreisottolinearecomesiadeltutto

contro natura per un cane, oper qualsiasi altra creatura,essere tenuto lontano dallapropria specie; e comel’impulso dell’amore, che cispinge verso la nostra specie,nell’isolamento si estingua, osi perda. Ahimè, sembra chelemie storie abbiano semprepiú implicazioni di quante ionon ne intenda, sicché devotornareindietroetirarfuoriafatica quella giusta,

scusandomi per quellesbagliate e cancellandole. C’èchinascenarratore; aquantopare,nonèilmiocaso.

«“E possiamo essere certiche il signor Foe – cuiappartiene questa casa e chetunonhaimai conosciuto–,al quale ho affidato la storiadell’isola, non sia passato amiglior vita qualchesettimana fa nel suonascondiglio di Shoreditch?

Se cosí fosse, resteremo persempre nell’ombra. La suacasa ci verrà tolta da sotto ipiedi e sarà venduta perpagareicreditori.Noncisaràpiú nessun giardino. Nonrivedrai mai piú l’Africa.Tornerà ilgelo invernalee tudovrai portare le scarpe.Dove, in Inghilterra,riusciremo a trovare unaforma per calzature grandeabbastanzaperituoipiedi?

«“Oppure sarò io aprendermi sulle spalle ilfardello della nostra storia.Ma cosa scriverò? Tu saiquanto fosse monotona, inverità, la nostra vita. Nonabbiamo dovuto affrontarepericoli, né fiere voraci, nétantomeno serpenti. Di ciboven’erainabbondanza,ilsoleeramite.Sullenostrerivenonè approdato nessun pirata,nessun filibustiere, nessun

cannibale a parte te, semprechedi te sipossadirecheseiun cannibale. Cruso credevadavvero, mi chiedo, che dabambino tu fossi uncannibale? La sua paurasegreta era dunque che titornasse la voglia di carneumana e che una notte glitagliassi la gola, arrostissi ilsuo fegato e lo mangiassi?Tutto quel parlare dicannibali che remavano di

isolainisolaincercadicarneera dunque un monito, unmonito dissimulato, perproteggersi da te e dai tuoiappetiti? Quando mostravi ituoibeidentibianchi,ilcuoredi Cruso si riempiva disgomento? Come vorrei chemirispondessi!

«“Eppure, tutto sommato,credo che la risposta sia:No.Certo, sull’isola Cruso avràprovatoun tedioasuomodo

nonmenopungentediquelloche ho provato io, e forseanche tu, a modo tuo, equindi avrà inventato leincursioni dei cannibali percostringersi a vigilare.Giacché il vero pericolo delvivere su un’isola, il pericolocui Cruso non ha mai fattocenno,eradiabbandonarsialsonno. Come sarebbe statofacile prolungare sempre piúil nostro torpore durante le

ore del giorno, fino amorirediinediastrettinell’abbracciodel sonno (alludo a me e aCruso, ma la malattia delsonnononè forseancheunodei flagelli dell’Africa?)! Nonèforseeloquentecheilprimoe unico pezzo di mobiliofabbricatodaltuopadronesiastato un letto? Quantosarebbestatodiversoseavessecostruito un tavolo e unosgabello, e aguzzato il suo

ingegno sino a fabbricareinchiostro e tavolette perscrivere,esifossepoirisoltoatenere, giorno dopo giorno,un autentico diario del suoesilio, che avremmo magaripotuto portare con noi inInghilterra e vendere a unlibraio, risparmiandoci cosíquestopasticciocon il signorFoe!

«“Ahimè, non faremomaifortuna, Venerdí, restando

semplicementeciòchesiamo,o siamo stati. Pensa allospettacolocheoffriamo:tueiltuo padrone sui terrazzi, iosulle scogliere a scrutarel’arrivo di una vela. Chi puòvoler leggere di due scialbiindividui che, su uno scoglioin mezzo al mare, passavanoil tempo cavando sassi dallaterra?Quanto ame e almioanelitodi salvezza, ci si sentesubito sazi come dello

zucchero. Cominciamo acapireperchéilsignorFoehadrizzato le orecchie quandohasentitolaparolacannibale,perché desideravaardentemente che Crusoavesse un moschetto e unacassetta con gli attrezzi dafalegname. Senza dubbio,avrebbe anche preferito cheCruso fosse piú giovane, e isuoi sentimenti per me piúappassionati.

«“Masistafacendotardiec’è ancora molto da fareprima che scenda la notte.Siamo gli unici in tuttal’Inghilterra,michiedo,senzalampadeocandele?Certocheconduciamo un’esistenza benfuori dall’ordinario! Giacché,te lo assicuro, Venerdí: gliinglesi non vivono a questomodo.Nonmangianocarote,mattino,mezzogiorno e sera,non vivono rintanati come

talpe, non vanno a letto alcalar del sole. Lascia chediventiamo ricchi e ti faròvedere come l’esistenza inInghilterrapuòesserediversada quella su uno scoglio inmezzo all’oceano. Domani,Venerdí, domani mi metteròa scrivere, prima che gliuscieri tornino a sfrattarci enoi non avremo cosí piú nécarotenélettiincuidormire.

«“Eppure, nonostante ciò

che dico, la storia dell’isolanon era solo tedio e attesa.C’era anche qualche tocco dimistero,no?

«“Primaditutto,iterrazzi.Quante pietre avete spostatotu e il tuo padrone?Diecimila? Centomila? Inun’isola senza sementi, tu eluinonsarestestatiimpegnatiin un’occupazione altrettantoproficua se aveste annaffiatole pietre là dov’erano, in

attesa che mettessero igermogli? Se il tuo padroneavesse desiderato veramenteessere un colonizzatore elasciare dietro di sé unacolonia, non sarebbe statomeglio per lui (posso osaredirlo?) piantare il suo semenell’unico grembo che c’era?Piú mi allontano dai suoiterrazzi, meno mi sembranocampi in attesa di esserecoltivati epiúdelle tombe: le

tombe che gli imperatorid’Egitto innalzarono per sénel deserto, nella cuicostruzione molti schiavipersero la vita. Non hai mainotato questa somiglianza,Venerdí?Ononèmaigiuntanotizia degli imperatorid’Egitto nella tua parte diAfrica?

«“In secondo luogo(continuo a elencare imisteri):cometièsuccessodi

perdere la lingua? Il tuopadrone dice che te l’hannomozzataimercantidischiavi,ma io non ho mai sentitoparlare di questa pratica, néin Brasile ho mai conosciutouno schiavo che fosse muto.Laveritàèdunquechetel’hamozzata il tuopadrone,epoihadato la colpa aimercanti?Se cosí fosse, è stato davveroun criminemostruoso, comeimbattersi in un estraneo e

trucidarlosoloperimpedirglidiraccontarealmondochiloha trucidato.E come sarebberiuscitoafarloiltuopadrone?Certamente nessuno schiavoè cosí servile da offrire leproprie membra al coltello.Cruso tiha forse legatomanie piedi, ti ha infilato a forzauncuneodilegnotraidentiepoitihamozzatolalingua?Ècosícheèandata?Uncoltello,non dimentichiamolo, è

l’unicoutensile cheCrusoharecuperato dal relitto dellanave. Ma dove ha trovato lacorda per legarti? Ha forsecommesso quel criminementre dormivi, ficcandotiun pugno in bocca etagliandoti la lingua mentreeri ancora intontito? O c’eraforsequalchebacca,sull’isola,il cui succo, mescolato dinascosto al cibo, ti ha fattopiombare in un sonno simile

alla morte? Cruso ti hamozzato la linguamentre eriprivo di sensi? Ma come hafatto a bloccare l’emorragia?Com’è che non sei mortosoffocato nel tuo stessosangue?

«“A meno che, però, lalingua non sia stata mozzatadeltutto,bensísolospaccataametà con un taglio precisocome quello di un chirurgo,untagliodacuièuscitopoco

sangue ma che, da quelmomento, ti ha impeditopersempre di parlare. Oppure,diciamochesonostatirecisiitendinichelafannomuovereenonlalinguainsé,itendinialla base della lingua. Sonosolo supposizioni, non ti hoguardato inbocca.Quando iltuopadronemihachiestodifarlo, non ho voluto. Hoprovato l’avversione che siprova per tutti i mutilati.

Perché mai, secondo te?Perché ci ricordano quel chepreferiremmo dimenticare:quantoè facile, conuncolpodi spada o di coltello,distruggere per sempre labellezza? Forse. Ma nei tuoiconfronti ho provato unarepulsionepiúprofonda.Nonriuscivo a togliermi dallamente quanto è morbida, lalingua,morbida eumida, e ilfatto che essa non vive alla

luce;eanchequantoèinermedavanti al coltello, una voltasuperata labarrieradeidenti.La lingua è come il cuore, inquestosenso,no?Tranne,chenon si muore quando uncoltello perfora la lingua.Potremmo dire che la linguaappartiene al mondo delgioco, mentre il cuoreappartiene al mondo dellecoseserie.

«“Eppure, non è il cuore

ma le membra del gioco aelevarci al di sopra dellebestie: le dita con cuitocchiamo il clavicordo o ilflauto, la lingua con cuischerziamo, mentiamo,seduciamo. Senza le membradel gioco, che altro possonofare le bestie quando siannoiano,senondormire?

«“Epoic’è ilmisterodellatua soggezione. Perché, intutti quegli anni da solo con

Cruso,tiseisottomessoalsuodominio, quando avrestipotuto facilmente trucidarlo,o accecarlo e renderlo a tuavolta schiavo? C’è forsequalcosa nella condizionedella schiavitú che invade ilcuoreefadiunoschiavounoschiavopertuttalavita,comequel sentore d’inchiostro cherimane per sempreappiccicato addosso a unmaestrodiscuola?

«“Poi, per esser chiara – eperché mai non dovreiesserlo, visto che parlare conteècomeparlarecolmuro?–,perché non mi desideravate,tu e il tuo padrone? Unadonna viene buttata in mareallargodellavostraisola,unadonna alta dai capelli neri egli occhi scuri, fino a pocheore prima compagna di uncapitano di lungo corsoinfatuatodilei.Certamenteil

desiderio che per molti anniha covato sotto le ceneridev’essere divampato dentrodivoi.Perquale ragionenonvi ho mai sorpreso aguardarmi furtivi da dietrouno scoglio mentre facevo ilbagno? Le donne alte che silevano dalle acque viriempionoforsedisgomento?Sembrano forse regine inesilio giunte a rivendicare leisolerubatedagliuomini?Ma

forse sono ingiusta, forsequesta è una domanda cheavrei dovutoporre soltanto aCruso; giacché, cosa mai hairubatonellatuavitatucheseistato a tua volta rubato?Tuttavia, avete forse creduto,Cruso a suo modo e tu amodotuo,cheiofossivenutaa rivendicare il mio dominiosudivoi,edèperquestocheeravatetantoguardinghi?

«“Ti pongo queste

domande perché sono ledomande che si porràqualsiasi lettore della nostrastoria. Non avevo pensato,giungendoariva,didiventarelamogliediunnaufrago.Macerto il lettore si chiederàcomemai, in tutte lenotti incui ho condiviso la capannacoltuopadrone,noncisiamouniticheunasolavolta,comeinvece fanno uomo e donna.La risposta è forse che la

nostra isola non era quelgiardinodeldesiderioincuiinostri progenitoripasseggiavano nudi e siaccoppiavano con la stessainnocenza degli animali? Iltuo padrone, credo, avrebbepreferito che fosse ungiardino di fatiche, ma, inmancanza di un fine degnodelle sue fatiche, si èabbassatoatrasportarepietre,non diversamente dalle

formiche che, prive diun’occupazione migliore,trasportano avanti e indietrogranellidisabbia.

«“E poi c’è l’ultimomistero: cosa facevi quandousciviinmareacavalcionidelceppo e spargevi petali sulleacque? Ti dirò a qualeconclusione sono giunta:spargevi petali sul luogo incui la tua nave era colata apicco, e li spargevi in

memoria di qualcuno peritonelnaufragio, forseunpadreo unamadre o una sorella oun fratello, o forse tutta lafamiglia, o forse un caroamico. Sui dolori diVenerdí,hopensatounavoltadidirealsignor Foe senza poi farlo, sipotrebbe costruire una storiaa sé stante, mentredall’indifferenza di Cruso sipuòspremerebenpoco.

«“Devo andare, Venerdí.

Credevichetrasportarepietrefosse la piú ardua dellefatiche. Ma quando mi vediallo scrittoio del signor Foeintentaatracciaresegniconilpennino, pensa a ogni segnocome fosse una pietra, e allacarta come fosse l’isola, eimmagina che io debbaspargerelepietresull’isolae,aopera compiuta, se ilsorvegliantenonèsoddisfatto(Cruso era mai soddisfatto

delle tue fatiche?), io debbanuovamente raccoglierle (ilche, riferito alla mia figura,significa cancellare i segni) edisporle secondo un altroschema, e cosí via, giornodopogiorno;etuttoperchéilsignor Foe è fuggito persottrarsi ai creditori. A voltepenso di essere io la schiava.Senza dubbio faresti unsorriso,secapissi”».

«I giorni passano. Nullacambia. Non abbiamo vostrenotizie, e la gente del postononbadaanoipiúdiquantononfarebbecondeifantasmi.Sono stata al mercato diDalston,dovehoportatounatovaglia e un servizio dicucchiai, che ho venduto percomprare generi di primanecessità. Per il resto, cisostentiamograzieaiprodottidell’orto.

«La fanciulla ha ripreso ilsuopostodavantialcancello.Cercodiignorarla.

«Scrivere si rivela unprocesso lento. Dopo ilsubbuglio della rivolta e lamorte del capitanoportoghese, dopo averincontrato Cruso e aversaputoqualcosadellavitacheconduce, che c’è da dire? InCruso e in Venerdí c’eratroppopocodesiderio:troppo

poco desiderio di fuggire,troppopocodesideriodiunavita nuova. Senza desiderio,com’è possibile scrivere unastoria?Eraun’isoladiaccidia,malgrado i terrazzi. Midomando come abbianotrattato la condizione dinaufrago gli storici delpassato; se, per ladisperazione, non abbianocominciatoainventarebugie.

«Eppure persevero. Un

pittoreimpegnatoadipingereuna scena noiosa – diciamodue uomini che zappano inuncampo–haadisposizionemezzi per rendereaffascinante il suo soggetto.Può accostare le sfumaturedorate della pelle del primouomo alle sfumaturefuligginose del secondo,creando un gioco di luci eombre. Raffigurandonemagistralmente gli

atteggiamenti, può suggerirechi è il padrone e chi loschiavo. E, per rendere lacomposizione piú vivace, èlibero di inserire quel chemagari non c’è nel giorno incuidipingemapuòbenissimoesserci in altri, comeunpaiodigabbianichevolteggianoincielo,ilbeccodiunoapertoinun grido, e in un angolo, suuna rupe lontana, un gruppodiscimmie.

«Cosí vediamo il pittoreselezionare, comporre eriprodurre dei particolari perdar forma compiuta egradevole alla sua scena. Chiraccontaunastoria,dicontro(perdonatemi, se foste qui incarneeossanonvidareimailezioni su come si raccontauna storia!), deve divinarequali episodi della suavicenda racchiudonopromesse di compiutezza,

districandone i significatinascosti, intrecciandoliinsiemecomesiintrecciaunacorda.

«Adistricare e intrecciare,comeinognimestiere,sipuòimparare. Quanto però aldeterminare quali episodiracchiudano una promessa(come le ostriche le perle),non a torto quest’arte sichiama “divinazione”. Inquesto ambito lo scrittore

nonpuòfarenulladasé:deveattendere la graziadell’illuminazione. Avessisaputo, sull’isola, che ungiornomisarebbesuccessodiraccontare la nostra storia,avrei interrogato Cruso conmaggior zelo. “Riandateindietro con i vostri pensieri,Cruso, – gli avrei detto,distesa accanto a luinell’oscurità. – Ricordatel’istante esatto in cui il fine

dellanostravitaquisiètutt’aun tratto illuminato? Mentrerisalivate il pendio dellacollina o vi arrampicavatesulle scogliere in cerca diuova, siete mai stato colpitoall’improvviso dalla naturaviva,palpitante,diquest’isola,quasifosseungrandeanimalecherisaleaprimadelDiluvioe che per secoli ha dormito,insensibile agli insetti che glizampettavano sul dorso,

intenti a rimediareun’esistenza per sé? Siamoforse degli insetti, Cruso, inuna visione piú ampia? Nonsiamo meglio delleformiche?” Oppure, quandoerastesoagonizzanteabordodella H obart, avrei potutodire: “Cruso, ci statelasciando,stateandandodovenon possiamo seguirvi. Nonc’è un’ultima parola chedesiderate pronunciare

adesso che state morendo?Non c’è qualcosa chedesiderateconfessare?”»

«Avanziamo a fatica nellaforesta, io e la fanciulla. Èautunno, abbiamo preso lacarrozza per Epping e orasiamo in cammino perCheshunt, sebbene ci sia unostrato cosí spesso di foglie,dorate, marroni e rosse, chenon sono del tutto certa di

non essermi allontanata dalsentiero.

«La fanciulla è dietro dime. “Dove mi portate?”chiedeper lacentesimavolta.“Vi porto a trovare la vostraveramadre”,rispondo.“Iosochi è la mia vera madre, –dice. – Siete voi, la mia veramadre”. “Riconoscerete lavostraveramadre,quando lavedrete, – ribatto. –Camminate piú in fretta,

dobbiamo essere di ritornoprimadelcalardellanotte”.Ècostretta a trotterellare, pertenereilpasso.

«Ci inoltriamo nellaforesta, a miglia di distanzadall’abitato. “Riposiamoci”,dico.Cisediamounaaccantoall’altraaddossatealtroncodiuna grande quercia. Dalpaniere la fanciulla tira fuoripane e formaggio, e una

fiaschettad’acqua.Mangiamoebeviamo.

«Riprendiamoilcammino.Abbiamo smarrito la strada?Lafanciullacontinuaarestareindietro.“Nonsaremomaidiritorno prima che facciabuio”, si lamenta. “Doveteaverefiduciainme”,ribatto.

«Nel cuore piú oscurodella foresta, mi fermo.“Riposiamocidinuovo”,dico.Le tolgo il mantello e lo

stendo sulle foglie. Cisediamo. “Avvicinatevi”, e lacingo con un braccio. Unfremitolepercorreilcorpo.Èla seconda volta che lepermetto di toccarmi.“Chiudetegliocchi”,dico.C’èuna tale quiete che sentiamoil fruscio dei vestiti, il pannogrigiodelsuocontroilpannonerodelmio.Mihaposatolatesta sulla spalla. Sediamo in

unmaredifogliecadute, ioelei,dueesseriincarneeossa.

«“Vi ho condotta qui perparlarvidellevostreorigini,–comincio. – Non so chi viabbia detto che vostro padreera un birraio di Deptfordfuggito nei Paesi Bassi, ma èunastoriafalsa.Vostropadresi chiama Daniel Foe. Èl’uomo che vi ha messo diguardia davanti alla casa diNewington. Come è stato lui

a dirvi che io sarei vostramadre, cosí sono certa che èanche l’autoredella storiadelbirraio. Mantiene interireggimentinelleFiandre”.

«Fa per parlare, ma io lazittisco.

«“Lo so, direte che non èvero, – continuo. – Lo so,direte di non aver maiconosciutoquestoDanielFoe.Ma chiedetevi una cosa: dachiavetesaputoche lavostra

vera madre era una certaSusan Barton che viveva inquella certa casa di StokeNewington?”

«“Io mi chiamo SusanBarton”,sussurra.

«“Ciò prova ben poco.TroveretemolteSusanBartoninquestoregno,sevidestelapena di rintracciarle. Ripeto:ciò che sapete delle vostreorigini giunge a voisottoforma di storie, e le

storie hanno tutte un’unicafonte”.

«“Chi è allora la mia veramadre?”dice.

«“Voisietenatadalpadre.Non avete una madre. Ildolorecheprovateèildoloredell’assenza, non il doloredella perdita.Ciò che speratediritrovarenellamiapersonaè qualcosa che in verità nonavetemaiavuto”.

«“‘Natadalpadre’”,–dice.

– È un’espressione che nonho mai sentito prima”. Escuoteilcapo.

«Cosa intendo dire con“nata dal padre”? Mi sveglionel grigiore di un’albalondinese con quelle paroleche ancora mi riecheggianodebolmentenelleorecchie.Lastrada è vuota, noto dallafinestra. La fanciulla se n’èandata una volta per tutte?L’ho forse scacciata, bandita,

perduta finalmente nellaforesta? Siederà dunqueaccanto alla quercia finché lefoglie cadenti non l’avrannoricoperta, lei e il suopaniere,e nulla rimarrà davanti agliocchi, se non un campomarroneed’oro?»

«CarosignorFoe,qualche giorno faVenerdí

ha scoperto le vostre vesti dacerimonia (le vesti

nell’armadio,cioè)e levostreparrucche.Sono forse levestidiqualchecorporazione?Nonsapevo ci fosse unacorporazionedegliautori.

«Le vesti lo hanno fattodanzare,unacosachenongliavevomaivistofareprima.Almattinodanzaincucina,dovelefinestredannoalevante.Sec’è il sole, danza in unachiazzadiluce,conlebracciain fuori e ruotando su se

stessoperore, aocchi chiusi,senzamaistancarsinésoffriredi capogiri. Al pomeriggio siritira in salotto, dove lefinestre danno a ponente, edanzalí.

«Inbaliadelladanza,nonèse stesso. È al di làdell’umano.Lochiamoedeglimi ignora, tendounamanoemi spinge via. Per tutto iltempo, dalla gola gli esce unbrusio, piú profondo della

voce consueta; a volte parechecanti.

«A me non importa secanta e danza, basta cheadempiaaisuoipochidoveri.Giacchénonèmiaintenzionefaticare in giardino mentreVenerdí ruota su se stesso.Ieri sera avevo deciso diportargli via la veste, di farlotornare in sé. Tuttavia,quando sono entrata disoppiatto nella sua camera,

l’ho trovato sveglio; stringevatraleditalaveste,stesasopradilui,comesemiavesselettonel pensiero. Cosí sonotornatasuimieipassi.

«Venerdíeladanza:possoanche lamentarmi del tediodellavitanellavostracasa,manonmancanomaicosedicuiscrivere. È come se nelcalamaio fossero disciolti deimicrorganismi di parole,pronti a rimanere attaccati al

pennino,afluireeaprendereforma sulla carta. Dal pianodi sotto al piano di sopra,dalla casa all’isola, dallafanciulla a Venerdí: pare sianecessariosolostabilireipoli,ilquieillà,l’adessoeildopo,poi le parole compiono ilviaggio da sole.Non credevofosse cosí facile essere unautore.

«Al vostro ritornotroverete la casa spoglia.

Prima l’hanno saccheggiata(non riesco a trovare unaparola piú benevola) gliuscieri, e ora anch’io hoprelevato le cose piú svariate(tengo un inventario, avetesolo da chiedermelo e ve lomanderò). Purtroppo sonocostretta a vendere neiquartieri in cui vendono iladri, e ad accettare i prezziche accettano i ladri. Nellemiesortite,indossounabitoe

un cappellino neri che hotrovato al piano di sopra nelbaule con le inizialiM. J. sulcoperchio (chi è M. J.?) Inquesta tenuta sembro piúvecchia: una vedovaquarantenne in ristrettezzeeconomiche, cosí mi vedo.Tuttavia, nonostante le mieprecauzioni, lanotterimangosveglia figurandomi di essereghermita da qualchebottegaiorapaceeconsegnata

alla polizia, fino a trovarmicostretta a dar via i vostricandelabripercorromperegliagenti e riscattare la mialibertà.

«La settimana scorsa hovenduto l’unico specchio chegliuscierinonsieranoportativia, ilpiccolospecchiocon lacornice dorata che stava sulmobile. Posso confessare diessere felice che non ci siapiú? Come sono invecchiata!

A Bahia le donne portoghesidalla pelle giallognola noncredevano che avessi unafiglia adulta. Ma la vita conCrusoha aggiunto rughe allamiafronte,elacasadiFoeleha solo accentuate. La vostracasa è forse una casa didormienti, come la grotta incui gli uomini chiudono gliocchi in un regno e sisvegliano in un altro conlunghe barbe bianche? Il

Brasile sembra lontanoquanto l’epoca di re Artú. Èpossibile che abbia una figlialaggiú, che giorno dopogiorno si allontana da me,comeiodalei?GliorologidelBrasile scorrono alla stessavelocitàdeinostri?Mentre ioinvecchio, ella rimane forseper sempre giovane? E comemai, in un’epoca in cuispedire la posta costa unnonnulla, io divido la casa

con un uomo che viene daipiú oscuri tempi dellabarbarie?Quantedomande!»

«CarosignorFoe,credo di cominciare a

capire perché volevate cheCruso avesse unmoschetto efosse assediato dai cannibali.Pensavo fosse un segno dellavostra mancanza di riguardonei confronti della verità.Dimenticavo che siete uno

scrittore e dunque sapetequante parole si possonosucchiare da un festino dicannibali, e quanto poche dauna donna in cerca di unriparo dal vento. È tuttaquestione di parole e delnumerodiparole,nonècosí?

«Venerdíèsedutoaltavolocon indosso le vesti e laparrucca, intento a mangiarepassato di piselli. Midomando: La carne umana è

maipassatatraquelle labbra?I cannibali sono certospaventosi, ma piúspaventoso ancora è pensareai piccoli dei cannibali, gliocchi socchiusi di piacerementre assaporano il grassogustoso del prossimo.Rabbrividisco. Giacchémangiare carne umana è disicuro come cadere nelpeccato: dopo esser cadutiunavolta, si scopredentrodi

séuncertogustonelfarlo,esiè piú pronti a ricadere.Rabbrividisco mentre guardoVenerdí danzare in cucina,con le vesti che glivolteggiano intorno e laparrucca che ballonzola sullatesta, gli occhi chiusi e ipensieri altrove, non all’isola,potete starne certo, non alpiacere di scavare etrasportarepietre,mafissisultempo prima di allora,

quando era un selvaggio traselvaggi. Non è forse soloquestione di tempo perché ilnuovo Venerdí, creato daCruso, faccia la muta eriemerga il vecchio Venerdídelle foreste dei cannibali?Che abbia giudicato maleCrusopertuttoquestotempo:èstatodunqueperpunirlodeisuoipeccatichehamozzatolalingua a Venerdí?Magari gliavessecavatoidentiinvece!»

«Cercando in un comò,qualche giorno fa, deglioggettidaportarealmercato,mi sono imbattuta in unacassetta di flauti dolci: forsevoisuonavateilgrandeflautobasso, mentre i vostri figli efiglie suonavano quellipiccoli. (Cos’è successo aivostri figli e figlie? Temevatechenonpotesseroproteggervidallalegge?)Hotiratofuoriilpiúpiccolo, il soprano, e l’ho

messo in un posto in cuiVenerdí potesse trovarlo. Ilmattino dopo ho sentito checigiocherellava;benprestohapreso a tal punto confidenzaconessodasuonareilmotivodiseinotecheioassoceròpersempre all’isola e alla primamalattia di Cruso. Hacontinuato a suonarlo pertuttalamattina.Quandosonoandatadaluiaprotestare,l’hotrovato che ruotava pian

pianosusestessoconilflautotralelabbraegliocchichiusi;non ha badato a me, forsenon ha udito nemmeno lemie parole. È proprio daselvaggi padroneggiare unostrumento strano – perquanto gli è possibile senzalingua – ed essere paghi disuonarepersempreununicomotivo! È una forma dimancanza di curiosità, non

credete,unaformadiaccidia.Mastodivagando.

«Mentre lucidavo il flautobasso, suonando pigramentequalche nota, mi sorpresi apensare che, se c’era unlinguaggio accessibile aVenerdí, questo era illinguaggio dellamusica.Cosího chiuso la porta emi sonomessa a soffiare nellostrumento e a farvi scorreresopraleditacomeavevovisto

fare, finché sono riuscita asuonare il motivetto diVenerdí in manieraaccettabile,nonchéunpaiodialtri, piú melodiosi al mioorecchio. Mentre suonavo,cosa che ho fatto al buio perrisparmiare candele, Venerdíè rimasto sveglio per tutto iltempo, coricato al piano disotto, anch’egli al buio, adascoltare i toni del flauto piú

profondicheavessemaiuditoprimadiallora.

«Quando Venerdí hacominciato a danzare e asuonare il flauto, stamane, ioero pronta: mi sono sedutasul letto al piano di sopra, agambe incrociate, e hocominciato a suonare ilmotivo di Venerdí, primaall’unisono, poi negliintervalli in cui egli nonsuonava, e ho continuato

assieme a lui finché non mihannofattomalelemanie latesta ha iniziato a turbinare.La musica cui davamo vitanon era gradevole: c’erasempre una sottiledisarmonia, anche sesembravamosuonarelestessenote. Eppure i nostristrumenti erano fatti persuonare insieme, altrimentiperché mai sarebbero statinellastessacassetta?

«A un tratto Venerdí hasmesso per un po’, cosí sonoscesa in cucina. “Allora,Venerdí, – ho dettosorridendo,–siamodiventatidue musicisti”. E, alzato ilflauto, ho ricominciato asuonare il suomotivo, finchénon ho provato una sorta diappagamento. Ho pensato: Èvero, non sto conversandocon Venerdí, ma tutto ciònonvaforsealtrettantobene?

La conversazione non èsemplicemente una specie dimusica in cui prima l’uno epoi l’altro riattaccano ilritornello? Il ritornello dellanostra conversazione è forsepiú importante del motivochesuoniamo?Epoimisonodomandata: La musica e laconversazionenonsonoforsesimili all’amore? Chi siazzarderebbe a dire chequanto accade tra gli amanti

abbia consistenza (miriferisco all’atto di farel’amore, non al loroconversare), eppure non èforse vero che tra loro passaqualcosa, dall’uno all’altro,sicché essi ne esconorigenerati e guariti per unpocodalla solitudine? FinchéVenerdí e io avremo incomune lamusica, forse nonavremo bisogno dellinguaggio. E se sulla nostra

isola ci fosse stata la musica,se Venerdí e io avessimoriempito la sera di melodie,forse–chipuòdirlo?–Crusoalla fine avrebbe ceduto e,raccolto il terzo flauto,avrebbe imparato a farviscorrere ledita,ammessochele sue dita non fossero nelfrattempo diventate tropporigide, e insieme avremmoformato un trio (al che voi,signor Foe, potreste

concludere che dal relittodella nave non bisognavarecuperare la cassetta degliattrezzimaquelladeiflauti).

«Per un’ora, nella vostracucina credo di essermisentita a mio agio conl’esistenzachemiètoccatainsorte.

«Ma, ahimè, come nonpossiamo continuare ascambiarci in eterno le stesseformule di cortesia –

“Buondí, signore”, “Buondí”– e credere di farconversazione,o compiere ineterno lo stesso gesto e direche stiamo facendo l’amore,cosí è con la musica: nonpossiamosuonareineternolostesso motivo e sentirciappagati.Oalmenocosíè tralegenticivilizzate.Sicché,allafine, non sono riuscita atrattenermi dal variare ilmotivo, dapprima dividendo

unanota in dueminime, poicambiandone completamentedue, trasformando il vecchiomotivo in uno nuovo egrazioso, e cosí fresco almioorecchio cheVenerdí, ne erocerta, mi avrebbe seguito.Invece no, Venerdí insistevaconilvecchiomotivo,eidue,suonati insieme, nongeneravano un contrappuntogradevole ma, al contrario,stonavano e stridevano.

Venerdí mi ascoltava perdavvero? cominciai adomandarmi. Smisi disuonare, e i suoi occhi(sempre chiusi quandosuonavailflautoeruotavasuse stesso) non si aprirono;soffiaiforte,elepalpebrenonebbero il minimo fremito.Cosí capii che per tutto iltempo in cui avevo suonatomentre Venerdí danzava,pensandodi formareunduo,

egli era rimasto insensibilealla mia presenza. E infatti,quando per la stizza miavvicinai e lo afferrai perinterrompere quel turbinioinfernale,parveaccorgersidelmio toccononpiúdiquantoavrebbe fatto se si fossetrattatodiunamosca; al che,conclusi chedovevaessere intrance, e la sua anima piú inAfrica che a Newington. Mivennero le lacrimeagliocchi,

mi vergogno a dirlo; tuttal’euforiadellamiascoperta,alpensiero che grazie allamusica avrei potutofinalmenteconversareconlui,svaníe,conamarezza,dovettiammettere che forse non erala semplice ottusità a tenerlochiusoinsestesso,né il fattodi aver perduto la lingua, enemmeno l’incapacità didistinguere un discorso dalmero farfugliare, bensí il

disprezzo di intrattenererapporti con me.Guardandolo turbinare nellasua danza, dovetti trattenerel’impulso di colpirlo estrappargli parrucca e vesti,insegnandogli con malgarbochenonerasolosullaterra.

«SeavessicolpitoVenerdí,mi domando ora, avrebbetollerato docile le percosse?Cruso non lo aveva maicastigato, per quel che

ricordavo. La linguamozzatagli aveva insegnato dunqueobbedienza eterna, o almenola forma esterioredell’obbedienza, come lacastrazione estingue il fuocodiunostallone?»

«CarosignorFoe,ho preparato un atto che

garantisceaVenerdílalibertàe l’ho firmato a nome diCruso. L’ho infilato in un

sacchettino e gliel’ho appesoalcollo.

«Se non sta a me liberareVenerdí, a chi compete?Nessun uomo può essere loschiavodiunmorto.SeCrusoavesse una vedova, alloraquella vedova sarei io; se cisono due vedove, io sono laprima. Che vita conduco, senon quella della vedova diCruso? La corrente mi hatrascinato a riva sulla sua

isola;tuttoilrestoèvenutodalí. Io sono la donna che lacorrentehatrascinatoariva.

«Scrivo mentre sono inviaggio. Siamo sulla stradaperBristol. Ilsolesplende.Iocamminodavanti,Venerdímisegue trasportando il fagottocon le nostre provvistenonché alcuni oggetti dellacasa,elaparrucca,dallaqualenon vuole separarsi. Le vesti

le ha indosso, in luogo delpastrano.

«Offriamo senza dubbiouno spettacolo singolare, ladonnascalzaconlebracheeilsuoschiavonero(lescarpemistannotroppostrette,ivecchisandalidipelledi scimmia sisono ormai rotti). Quando ipassanti si fermano a farcidomande, dico che stoandando a Slough da miofratello, che io e il mio

servitore siamo stati derubatidei cavalli, dei vestiti e deipreziosi da un gruppo dibriganti.Conquestastoriamimerito occhiate curiose.Perché? Non ci sono piúbriganti sulle strade? Sonostati tutti impiccati mentreero a Bahia? Sembraimprobabile che io possiedacavalli e preziosi?Oppurehol’aria troppo spensierata peressere qualcuno spogliato di

ogni cosa solo poche oreprima?»

«A Ealing siamo passatidavanti a un ciabattino. Hotolto dal fagotto un libro, unelegante volume di sermonirilegato in vitello, e l’hoofferto in cambio di un paiodi scarpenuove. Il ciabattinoha indicato il vostronome incopertina. “Il signor Foe diStokeNewington,–hodetto,

– da poco scomparso”. “Nonavete altri libri?” ha chiesto.Gli ho offerto i Pellegrinaggidi Purchas, il primo volume,edeglimihadatounpaiodiscarpe, robuste e che calzanobene. Ribatterete che l’uomoci ha guadagnato dalloscambio. Ma giunge untempoincuicisonocosepiúimportanti dei libri. “Chi èquel tizionero?”hachiesto ilciabattino. “È uno schiavo,

ora libero, che stoaccompagnando a Bristolnella speranza di trovare unpassaggio in nave affinchépossa tornare tra la suagente”. “È lunga fino aBristol”, ha detto. “Parlainglese?” “Capisce qualcosa,ma non parla”, ho risposto.Ancora piú di centomiglia aBristol: quanti altri farannodomande, quante altre

domande? Che benedizionenonpoterparlare!

«A voi, signor Foe, unviaggio a Bristol richiameràallamentepastisostanziosiinlocande lungo la strada eincontri spassosi conforestieridiognicetosociale.Maricordate,unadonnasoladeve viaggiare come unalepre,conunorecchiosempreteso per via dei cani. Se ciimbattessimo in qualche

grassatore, quale protezionepotrebbe mai offrirmiVenerdí?Nonsièmaitrovatonella situazione di doverproteggereCruso; in realtà, èstato educato a non alzarenemmeno un dito in propriadifesa. Perché dunquedovrebbe considerareun’aggressione contro di mequalcosa che lo riguarda?Non capisce che lo stoconducendo verso la libertà.

Non sa cos’è la libertà. Lalibertà èunaparola,menodiuna parola, un rumore, unodei molti rumori che emettoquando apro la bocca. Il suopadrone è morto, adesso hauna padrona: non sa altro.Non avendo mai desideratounpadrone,perchédovrebbedifendere la sua padrona?Comepuòmaipensareche ilnostro vagare abbia unqualchefine?Chesenzadime

è perduto? “Bristol è ungrande porto, – gli dico. –Bristolèdovehaattraccatolanave che ci ha riportatoindietro dall’isola. Bristol èdove hai visto la grandeciminierachevomitavafumo,quella che ti ha tantomeravigliato. Da Bristol lenavisalpanodiretteintuttigliangoli del globo, soprattuttonelle Americhe,ma anche inAfrica,cheunavoltaeracasa

tua.ABristolcercheremounanave che ti riporti nella terrain cui sei nato, oppure inBrasile, alla vita di un uomolibero”».

«Ieri è accaduto il peggio.Sulla strada per Windsorsiamo stati fermati da duesoldati ubriachi che hannofatto capire fin troppochiaramente di avere brutteintenzionineimieiconfronti.

Sono fuggita per i campiriuscendo a mettermi insalvo, con Venerdí allecalcagna, nel terrore mortaleche ci sparassero dietro. Oramiraccolgoicapellielifermocon una forcina sotto ilcappello,eindossosempreunpastrano, nella speranza diesserepresaperunuomo.

«Nel pomeriggio hacominciato a piovere. Cisiamoriparatisottounasiepe,

convintichefossesoltantounacquazzone. Invece hacontinuato a piovere. Cosí,alla fine, abbiamo ripreso ilnostro faticoso cammino,bagnati sino al midollo,finchénonsiamogiuntiaunamescita di birra. Ho spintotimorosalaportae,dopoaverfatto entrare Venerdí, misono diretta verso un tavolonell’angolopiúbuio.

«Nonsoselagentediquel

luogo avesse mai visto unnero prima di allora, o unadonna con le brache, osemplicemente una coppiacosí inzaccherata, ma alnostro ingresso tutti si sonozittiti, e abbiamo attraversatoillocaleinuntalesilenziocheera possibile udirechiaramente l’acqua piovanacadere giú schizzando dallagronda. Ho pensato: È ungrave errore; sarebbe stato

meglio cercare un pagliaio etrovare riparo lí, affamati omeno.Maho fattobuonvisoe ho scostato dal tavolo unasedia per Venerdí,indicandogli di sedersi. Dasotto la veste fradicia venivalo stesso odore che avevosentito quando i marinai lohanno condotto a bordo:l’odoredellapaura.

«L’oste in persona èvenuto al nostro tavolo. Ho

chiestocongarboduemisuredi birra chiara e un piatto dipane e formaggio. Non hadettonulla,mahafissatoconostentazione Venerdí e poime. “È ilmio servitore, – hodetto.–Èpulitoquantovoieme”.“Pulito o sporco, inquestolocalebisognamettersile scarpe”, ha ribattuto. Iosono avvampata. “Voi badatea servirci, che al vestiario delmio servitore bado io”, ho

detto. “Questo è un localepulito, non serviamogirovaghi e zingari”, hadettol’oste, voltandoci la schiena.Mentreciavviavamoverso laporta,unozoticohaallungatolagamba,facendoinciampareVenerdí e suscitando risasguaiate.

«Ci siamo acquattati sottoi filari di siepi fino al calaredel buio e poi siamosgattaiolati in un fienile.

Ormai tremavo tutta neivestitibagnati.Atastonisonoarrivata a una mangiatoiapiena di fieno intonso. Misono spogliata e mi ci sonoinfilata dentro come unatalpa, ma non riuscivo asentire calore. Allora sonosaltata fuori, ho nuovamenteindossato i vestiti fradici esono rimasta ritta al buio,penosamente, a battere identi. Venerdí sembrava

scomparso. Non lo udivonemmeno respirare. Essendonato nella foresta tropicale,avrebbe dovuto patire ilfreddo piú di me; invececamminava scalzo nel cuoredell’inverno e non silamentava. “Venerdí”, hosussurrato. Non c’è statarisposta.

«In preda alladisperazione, e non sapendocos’altro fare, ho teso le

bracciainfuorie,conlatestarovesciata all’indietro, hocominciato a ruotare su mestessa come era solito fareVenerdí. È un modo diasciugare i vestiti, mi sondetta: li asciugo facendovento.Èunmododi tenermicalda. Altrimenti morirò difreddo.Hosentitolamascellarilassarsi, e il calore, ol’illusione del calore, hainiziato a diffondersi nelle

membra. Ho danzato finchélapagliasottoipiedinonmièparsacalda.HocapitoperchéVenerdí danza in Inghilterra,hopensatosorridendotrame;cosa che, se fossimo rimastidalsignorFoe,nonavreimaisaputo. E poi non avrei maifatto questa scoperta, se nonfossi stata fradicia sino almidolloenonmifossisedutaalbuioinunfienilevuoto.Daciò si può concludere che

nella nostra vita un disegnoc’è e, se abbiamo la pazienzadi aspettare, certamente lovedremo delinearsi; allostesso modo, osservando untessitore di arazzi, a primavista scorgiamoprobabilmente solo ungrovigliodi fili,ma, se siamopazienti, sotto i nostri occhicominceranno ad apparirefiori eunicorni che incedonobaldanzosi,emuraturrite.

«Con questi pensieri,ruotandosumestessaaocchichiusi,unsorrisosullelabbra,sono caduta, credo, in unostato di trance, giacché,quando sono tornata in me,menestavorittaimmobile,ilrespiro affannoso, e daqualcheparte,aimarginidellacoscienza, la sensazione diessere stata lontana, di avervisto cosemeravigliose.Dovemitrovo?misonodomandata

e, accovacciandomi, hoaccarezzatolaterra;e,quandomi sono rammentata che eronel Berkshire, una morsa mihastrettoilcuore;giacchéciòche avevo vistonello stato ditrance, qualunque cosa fosse– non riuscivo a ricordarenulla di preciso, ma nepercepivoancorapersistereinun alone il ricordo, se micapite –, era un messaggio(ma di chi?) per dirmi che

davantiamec’eranoaltreviteal di là di quella in cui conVenerdí avanzavo a faticanella campagna inglese, unavita che ormai mi davaintimamente la nausea. Cosí,in quello stesso istante, hocapito perché Venerdídanzava tutto il giorno nellavostra casa: lo faceva perallontanare se stesso, ilpropriospirito,daNewingtone dall’Inghilterra, e anche da

me. C’era forse dameravigliarsi che Venerdítrovasse la vita con meopprimente non meno diquanto io la trovassi con lui?Finchésiamocostrettia starel’uno incompagniadell’altro,ho pensato, è meglio sedanziamo e turbiniamo e cilasciamo trasportare. “Su,Venerdí, tocca a te danzare”,ho gridato nell’oscurità, poimi sono infilata nella

mangiatoia e, dopo averammucchiato del fieno sopradime,misonoaddormentata.

«Mi sono svegliata alleprime luci in un caloreardente,calmaeristorata.HotrovatoVenerdí che dormivasuungraticciodietrolaportae l’ho scosso, stupita divederlo cosí fiacco, giacchéero convinta che i selvaggidormissero con un occhioaperto. Ma probabilmente

avevaperdutolesueabitudiniselvagge sull’isola, dove lui eCrusononavevanonemici».

«Non vorrei che il nostroviaggio a Bristol sembrassepiú ricco di avvenimenti diquantononsiastatoinrealtà.Ma devo raccontarvidell’infantesenzavita.

«Qualche miglio fuoriMarlborough, mentrepercorrevamo di buon passo

una strada deserta, l’occhiomi cadde su un involto chegiaceva in un fosso. MandaiVenerdí a prenderlo,pensando non so cosa, forseche si trattasse di un fagottodi panni caduto da unacarrozza; o forse erosemplicemente curiosa. Ma,quando cominciai a srotolarela pezza di stoffa, mi accorsiche era insanguinata, ed ebbitimore di continuare.

Tuttavia, là dove c’è sanguec’è anche fascino. Cosícontinuai a srotolare finchénonvidiilcorpo,natomortooforsesoffocato,tuttosporcodi sangue e ancora con laplacenta, di una bambina,perfettamente formata, ipugnettivicinialleorecchie,ilvisosereno,venutaalmondodaunpaiod’ore.Dichiera?Icampi intorno a noi eranodeserti. A mezzo miglio di

distanza c’era un gruppo dicasupole; ma come saremmostati accolti se, come dueaccusatori, ci fossimopresentati alla porta perrestituire ciò che era statobuttato via? E se avesseropensato che la bambina fossemiaemiavesseroagguantatae trascinata davanti algiudice? Cosí avvolsi dinuovo la piccina nella pezzadi stoffa insanguinata, la

deposi nel fosso e, con unsenso di colpa, allontanaiVenerdí da quel luogo. Pursforzandomi, non riuscivo atogliermidallatestalapiccoladormientechemaisi sarebbesvegliata, gli occhi chiusi chemaiavrebberovistoilcielo,ledita a pugnetto che mai sisarebbero aperte. Chi maipoteva essere quella bambinase non io, in un’altra vita?Quella notte io e Venerdí

dormimmo in un boschetto(fu la notte in cui cercai dimangiaredelleghiande,tantoero affamata). Dormivo daappenaunminutoquandomisvegliai di soprassaltopensandodidovertornarenelposto dov’era nascosta lapiccinaprimachearrivasseroi corvi, i corvi e i topi; e,ancoraconlamentestravolta,balzai inpiedi.Poimidistesidi nuovo, con il cappotto fin

sopra leorecchie e le lacrimeche mi scorrevano lungo leguance. Il pensiero corse aVenerdí; non potevoimpedirlo, era unaconseguenza della fame. Senoncifossistataioatenerloafreno, avrebbe divorato lapiccina? Mi dissi che glifacevountortoaconsiderarlouncannibaleo,ancorpeggio,un divoratore di morti. MaCruso aveva piantato il seme

nella mia mente, e ora nonpotevo guardare le labbra diVenerdí senza immaginarequale genere di carne, untempo,dovevaessercipassatoattraverso.

«Sono pronta adammettere che in un similepensiero si annidano i germidella follia. Non possiamoritrarcidisgustatidalcontattocolvicinoperchélesuemani,ora pulite, un tempo sono

state sporche. Dobbiamocoltivare, tutti noi, una certainconsapevolezza, una certacecità, altrimenti la vitasociale ci sarebbeintollerabile. Se Venerdí harinunciato alla carne umananei quindici anni trascorsisull’isola, perché non dovreicredere che vi ha rinunciatoper sempre? E, se nelprofondodelcuoreèrimastouncannibale,unadonnaviva

e caldanon sarebbeunpastomigliore che non il cadaverefreddo e rigido di unabambina? Il sangue mimartellava nelle orecchie; loscricchiolio di un ramo o ilpassaggio di una nuvoladavantialla lunami facevanocredere che Venerdí fossepronto a balzarmi addosso;sebbene una parte di mesapesse che egli era lo stessonero ottuso di sempre,

un’altraparte,sullaqualenonavevo dominio alcuno, siostinava a credere alla suavoglia di sangue. Cosí nonchiusi occhio finché la lunanon impallidí e vidi Venerdídormire come un sasso aqualchepassodidistanza,coni piedi callosi, che maisembravano patire il freddo,scoperti».

«Sebbene camminiamo in

silenzio, nella mia testa vi èun ronzio di parole, tutterivolteavoi.NeigiornibuidiNewington credevo che fostemorto: morto di stenti nelvostroalloggioe sepolto tra ipoveri; braccato e rinchiusoalla Fleet, affinché vi peristeinmiseriaenell’oblio.Maorauna certezza piú grande si èimpadronita di me, e nonriescoaspiegarmela.Voisietevivo e vegeto, e mentre

percorriamo la strada allavolta di Bristol parlo con voicome se foste al mio fianco,spirito familiare, compagno.EancheCruso.Cisonovoltein cuiCruso torna dame, dicattivo umore com’erasempre (e riesco asopportarlo)».

«Al mio arrivo aMarlborough, ho trovato uncartolaio e per mezza ghinea

gli ho venduto Viaggi inAbissinia di Pakenham, inquarto foglio, che ho presodalla vostra biblioteca.Benché contenta di essermialleggerita di un libro cosípesante, ero anchedispiaciuta,poichénonavevoavuto il tempo di leggerlo eimparare qualcosa di piúsull’Africaperpoter esseredimaggior aiuto a Venerdí nelfar ritorno al suo paese.

Venerdínonèabissino,loso.Masullastradaperl’Abissiniail viaggiatore attraversamoltiregni: perché il regno diVenerdí nondovrebbe esserefraquesti?

«Siccome il tempo rimanebello,ioeVenerdídormiamosotto le siepi. Per prudenza,cerchiamo di non darenell’occhio,poichésiamounacoppia strampalata. “Sieteinsieme?”cihachiestoieriun

vecchio vedendoci sedutisugli scalini della chiesa,intentiamangiareuntozzodipane. Era una domandaimpertinente? Aveva l’aria diparlare sul serio. “È unoschiavo che il padrone haliberato sul letto di morte, –horisposto.–Loaccompagnoa Bristol, dove s’imbarcheràper l’Africa e la sua terranatía”. “Dunque torni inAfrica”, ha detto il vecchio

rivoltoaVenerdí.“Nonparla,– sono intervenuta io. – Haperdutolalinguadabambino,adesso parla solo a gesti. Agesti e con le azioni”. “Avraimoltestoriedaraccontare, inAfrica, no?” ha detto ilvecchio parlando a voce alta,come si fa con i sordi.Venerdí lo ha guardato conespressione vacua, ma ilvecchio non si è lasciatoscoraggiare.“Avraivistotanti

posti, ne sono sicuro, – hacontinuato, – cittàmagnifiche,navigrandicomecastelli. Non ti crederanno,quando racconterai ciò chehai visto”. “Ha perduto lalingua, non parla nessunidioma,nemmeno il suo”,hodetto, nella speranza che ilvecchio se ne andasse. Maforse era sordo anch’egli.“Siete zingari, allora? – hadetto. – Siete zingari, tutti e

due?”Perunattimononsonoriuscita a trovare le parole.“Prima era uno schiavo, eadesso torna in Africa”, horipetuto. “Sí, ma noi lichiamiamo‘zingari’quellichevanno in giro con la facciasporca, uomini e donneinsieme,mescolati,incercadiguai”. Cosí dicendo, si èalzato e mi si è piazzatodavanti, appoggiandosi albastone,comesemisfidassea

contraddirlo. “Vieni,Venerdí”, ho mormorato, eabbiamolasciatolapiazza.

«Ripensando a questaschermaglia, ora ne rido, masul momento sono rimastascossa.Viverecomeunatalpanellavostracasahacancellatodel tutto la tinta color noceche la mia pelle avevasull’isola;ma è vero, lungo lastradamisonolavataappena,senza peraltro sentirne la

mancanza. Ricordo una navecaricadizingari,gentescuraesospettosa, cacciati dallaGalizia, in Spagna, e giunti aBahia, in un continentestraniero. Già due volteVenerdí e io siamo statiscambiati per zingari. Cos’èuno zingaro? Cos’è unbrigante?Leparolesembranoavere significati nuovi qui,nella regione occidentale.

Sono forse diventata unazingaraamiainsaputa?»

«Ieri siamo arrivati aBristol e siamo andati subitoal porto, che Venerdí hamostratodiriconoscere.Líhofermato ogni marinaio chepassava, chiedendo se sapevadiunanavedirettainAfricaoin Oriente. Alla fine,qualcuno ci ha indicato unmercantile che si stagliava

sulla banchina, in partenzaper Trincomalee e le isoledelle spezie. Per nostrafortuna,unachiattacheavevaappena trasportato provvistesullanavestavaormeggiandoproprioinquelmomento,eilprimoufficialeèscesoaterra.Dopo avergli chiesto scusaper il nostro aspettotrasandatoacausadelviaggioe avergli assicurato che noneravamo zingari, ho

presentato Venerdí come unex schiavo delle Americhe,ora per fortuna libero,desideroso di ritornare nellasua terra d’origine, inAfrica.Purtroppo, ho proseguito,Venerdí non padroneggiavané l’inglese né alcun altroidioma, essendo statoprivatodella lingua dai mercanti dischiavi. Ma era solerte eobbediente, e non chiedevaaltro che fare il marinaio di

coperta per pagarsi ilpassaggioinnave.

«Aquesteparole, il primoufficiale ha sorriso. “L’Africaègrande, signora,piúgrandediquantosipensi,–hadetto.– Il vostro uomo sa dovedesidera essere sbarcato?RischiadisbarcareinAfricaetuttavia essere ancora moltolontano dalla sua terra,ancorapiúlontanochedaquiallaMoscovia”.

«Ho liquidato ladomandacon un’alzata di spalle.“Quando sarà il momento,sono certa che lo saprà, –hodetto.–Nonperdiamomaiilsentimentodellanostra terra.Loprendeteabordosíono?”“Èmaistatosuunanave?”“Èstato su una nave e ha fattopurenaufragio,–horisposto.– È un marinaio di vecchiadata”.

«Cosí il primoufficiale ha

acconsentito a portarci dalcapitano del mercantile. Loabbiamo seguito in un caffè,dove il capitano sedevaappartato con due mercanti.Dopo una lunga attesa, cihanno presentati. Horaccontato nuovamente lastoria di Venerdí e del suodesiderio di ritornare inAfrica. “Siete mai stata inAfrica, signora?”hachiesto ilcapitano.“No,signore,mai,–

ho risposto, – ma non èquesto il punto”. “E voi nonlo accompagnerete?” “No”.“Allora lasciate che vi dicaunacosa.L’Africaèpermetàdeserto e per il resto unaforesta maleodorantetormentatadallafebbre.Ilsuoservitore nero starebbe digran lunga meglio inInghilterra. Tuttavia, se cosívuole, loporteròconme”.Alche,ilmiocuorehasussultato

di gioia. “Avete i documentidi affrancazione?” hadomandato.Ho fatto segnoaVenerdí (che per tutta lanostra conversazione erarimastoimpalatosenzacapirenulla) di voler aprire ilsacchettocheportavaintornoal collo, e ho mostrato alcapitano il foglio di cartafirmatocolnomediCruso, ela cosa è parsa soddisfarlo.“Benissimo, – ha detto,

infilandosiintascailfoglio,–lo faremo sbarcare in Africaovunque ci dirà. Ma oradovete dirvi addio: partiamodomattina”.

«Non so se siano stati imodidelcapitanool’occhiatatraluieilprimoufficiale,matutt’a un tratto ho capito chele cose non stavano comesembrava.“IldocumentoèdiVenerdí,–hodetto,tendendolamanoper farmelorendere.

– È l’unica prova da cuirisultacheèunuomolibero”.E, dopo che il capitano miebbe restituito il foglio, hoaggiunto: “Venerdí non puòsalire a bordo ora, perchédeve ritirare i suoi effettipersonalinellapensionedovealloggiamo in città”. Cosí sisono resi conto che avevointuito i loro piani (checonsistevano nel vendere perla seconda volta Venerdí e

ridurlodinuovoinschiavitú):scrollando le spalle, ilcapitano mi ha voltato laschiena;elacosaèfinitalí.

«Sicché il castello in ariada me costruito, e cioè cheVenerdí s’imbarcasse perl’AfricaeiotornassiaLondrafinalmente padrona di mestessa,mi è crollato addosso.Un capitano di nave onesto,hopoi scoperto,nonavrebbemai accettato unmarinaio di

coperta poco promettentecome Venerdí. Solo chi erasenza scrupoli – e nei giornisuccessivi ne avrei incontratimolti – fingeva di accogliercicordiale, vedendo in me,senza dubbio, una credulonae in Venerdí una predamandata da Dio. UnosostenevapersinodiessereinpartenzaperCalcuttaedifarescalo al Capo di BuonaSperanza,dovepromettevadi

far sbarcare Venerdí, mentrelasuaveradestinazione,comeho appreso negli uffici delporto,eralaGiamaica.

«Sono stata tropposospettosa?Quelchesoèchestanotte non dormireitranquilla seVenerdí fosse inmare aperto, destinato per laseconda volta, e a suainsaputa, a una piantagione.Una donna può anchepartorire un figlio che non

vuole, e allevarlo senzaamore,eppureessereprontaadifenderloconlapropriavita.Cosí è ormai, in un certosenso, trameeVenerdí.Nonloamo,maèmio.Perquestorimane in Inghilterra. Perquestoèqui».

Parteterza

Lascalaerabuiaesordida.Quando bussai, il colporiecheggiò come nel vuoto.

Ma bussai ancora e udii unostrascicare di passi, e dadietro la porta una voce, lavocedilui,bassaeguardinga.– Sono io, Susan Barton, –annunciai. – Sono sola, conVenerdí–.Al che, laporta siaprí ed eglimi fu davanti, lostesso Foe che avevo visto laprima volta in KensingtonRow, ma piú magro escattante, come se in lui lacircospezione e

un’alimentazione frugalefosserounacosasola.

– Possiamo entrare? –dissi.

Si scostò, e noi entrammonel suo rifugio. La stanza erailluminata da un’unicafinestra,dallaqualeentravailsole pomeridiano. Dava anord,suitettidiWhitechapel.Il mobilio consisteva in untavolo, una sedia e un letto

mal rifatto; su un angolo eratirataunatenda.

– Non è come laimmaginavo, – dissi. – Miaspettavo una coltre dipolvere sul pavimento eun’atmosferatetra.Malavitanon è mai come cel’aspettiamo. Un autore,ricordo,hascrittochedopolamorte potremmo ritrovarcinon tra cori angelici bensí inun luogo del tutto ordinario,

come per esempio un bagnopubblico in un pomeriggiotorrido, con i ragni chesonnecchiano negli angoli; almomento ci sembrerà unaqualsiasi domenica incampagna, e solo piú tardi cirenderemo conto di esserenell’eternità.

–Èun autore chenonholetto.

– L’idea mi è rimastadentro sin dall’infanzia. Ma

sono venuta a chiedere diun’altra storia. La storia veradi noi sull’isola, comeprocede?Èormaiscritta?

– Procede, ma conlentezza, Susan. È una storialenta, una storia vera e lenta.Come siete arrivati qui dame?

– Solo grazie alla buonasorte. Al Covent Garden,dopo che io eVenerdí siamoritornati da Bristol (vi ho

scritto delle lettere sullastrada per Bristol, le ho conme,veledarò),hoincontratola vostra governante, lasignora Thrush. Ella ci hamandatodalragazzochefalecommissioni per voi con unsegnodacuicapirechedinoipoteva fidarsi, ed egli ci hacondottiaquestacasa.

– È un’ottima cosa chesiate venuta, poiché devo

saperedell’altro suBahia chesoltantovoipotetedirmi.

–Bahianon fa parte dellamia storia, – ribattei, – malasciate che vi dica quel cheso.Bahiaèunacittàchesorgesullecolline.Pertrasportarelemercidalportoaimagazzini,i mercanti hanno teso uncavo,contantodicarrucoleeargano. Per tutto il giorno,dalle strade si vedono merciimballate scorrere in alto

lungo il cavo. Le stradebrulicano di gente intenta aipropriaffari,schiavieuominiliberi,portoghesi,negri,indiemeticci. Ma è raro vedere ingiro donne portoghesi. Equesto perché i portoghesisonomoltogelosi.Hannoundetto:nelcorsodellasuavita,una donna può lasciare casapropria solo in tre occasioni:per il battesimo,per lenozzee per il funerale. Una donna

che esce liberamente èconsiderataunameretrice. Ioero considerata unameretrice.Macisonounatalequantità di meretrici lí, o,comepreferiscochiamarleio,di«donnelibere»chenonmisentivo intimidita.Nel frescodella sera, le donne libere diBahia indossano i vestiti piúbelli, simettono cerchi d’oroalcollo,braccialettid’oroallebraccia,ornamentid’orotra i

capelli, e passeggiano per lestrade;equestoperchél’orolícosta poco. Le piú attraentisono le donne di colore, lemulatas, come vengonochiamate. La Corona non èriuscita a fermare il trafficoprivato dell’oro, che vieneestratto nell’entroterra evenduto dai minatori agliorafi. Non ho nulla damostrarvi, ahimè, perchépossiate ammirare l’abilità di

questi orafi eccellenti,nemmeno una forcina. Tuttoquelcheavevomièstatotoltodagli ammutinati. Sonogiunta sull’isola solo con ciòcheindossavo,rossacomeunpomodoroperilsole,lemaniescoriate e piene di vesciche.Nessuna meraviglia che nonsiariuscitaasedurreCruso.

–EVenerdí?–Venerdí?– Venerdí si è mai

innamoratodivoi?– Come possiamo mai

saperecosaavvienenelcuorediVenerdí?Macredodino–.Mi voltai verso Venerdí, chepertuttoiltempoerarimastoaccovacciato accanto allaporta con la testa sulleginocchia.–Miami,Venerdí?– gli chiesi con vocesommessa.Nonhanemmenoalzato la testa. – Abbiamovissuto troppo vicini per

amarci,signorFoe.Venerdíèdiventatolamiaombra.Forsechelenostreombreciamano,per quanto non si separinomaidanoi?

Foe sorrise. – DitemiancoradiBahia.

– C’è molto da dire suBahia.Bahiaèunmondoasé.E perché poi? Bahia non èl’isola. Bahia è stata soltantounatappadelmioviaggio.

–Puòdarsidino,–ribatté

Foe con prudenza. –Riesaminate lavostra storia eve ne renderete conto. Lastoria comincia a Londra.Vostra figlia viene rapita ofugge; questo non lo so, manon ha importanza. Voi viimbarcate per Bahia alla suaricerca, poiché dalle vostreinformazionirisultacheellasitrova lí. A Bahia trascorretealmeno due anni, due anniinfruttuosi. Come vivete

durante tutto questo tempo?Come vi vestite? Dovedormite?Come trascorrete legiornate? Chi sono i vostriamici? Sono queste ledomande da porre, alle qualivadatarisposta.Equalèstatoil destino di vostra figlia?Persino nei vasti spazi delBrasile, una figlia nonsvanisce come fumo. Èpossibile che, mentre voi lacercate, ella vi cerchi? Ora

basta con le domande, però.Alla fine, disperate ditrovarla. Desistete e partite.Pocodopo,vostrafigliaarrivaa Bahia dall’entroterra incerca di voi. Sente parlare diun’inglese, una donna alta,salita a bordo di una navediretta a Lisbona, e vi segue.SiaggiraperimolidiLisbonae di Oporto. Marinai rozzipensano che sia unasempliciotta e la trattanocon

gentilezza. Ma nessuno hasentito parlare di una donnainglese, alta, sbarcata da unanave proveniente da Bahia.SieteforsealleAzzorre,conlosguardo fisso all’orizzonte,afflitta, come Arianna? Nonlo sappiamo. Il tempo passa.Vostra figlia si dispera.Poi ilcaso vuole che sentaraccontare la storia di unadonna tratta in salvo suun’isola dove, abbandonata,

havissutoconunvecchioeilsuo schiavonero.Chissà se èsua madre? Segue una riddadi voci da Bristol a Londra,finoallacasaincuiladonnaèstatabrevementeaservizio(lacasa di Kensington Row). Líapprende il nome delladonna.Sichiamacomelei.

–Quindi,intuttoabbiamocinque parti: la scomparsadella figlia; la ricerca dellafiglia in Brasile; l’abbandono

della ricerca e l’avventurasull’isola; la ripresa dellaricercadapartedella figlia; ilricongiungimentodimadreefiglia.Ècosíchesifaunlibro:scomparsa, poi ricerca, poiritrovamento; inizio, poisvolgimento,poifine.Quantoalla novità, essa è fornitadall’episodio sull’isola (perl’esattezza, la seconda partedello svolgimento) e dalcapovolgersi della situazione,

quando la figlia riprende laricerca abbandonata dallamadre.

Lagioiacheavevoprovatonel trovare Foe scomparve.Mi sedetti con le membrapesanti.

– Di per sé, l’isola non èuna storia, – disse Foe congarbo, posandomi una manosul ginocchio. – Possiamodarlevitasoltantoinserendolain una storia piú ampia. Da

sola non è meglio di unabarcasemiallagata,alladeriva,giorno dopo giorno, in unoceanodeserto finché, umile,non affonda, senza crearescompiglio. L’isola manca diluci e ombre. È sempretroppo uguale a se stessa. Ècome una pagnotta. Ci terràvivi, certo, se abbiamo famediletture;machilavorràpiú,se si possono avere paste edolciumipiúgustosi?

– Nelle lettere che nonavete letto, – dissi, – hoespresso una miaconvinzione: se la storia pareinsipida, è solo perchémantiene ostinata il suosilenzio. Le ombre di cuilamentate la mancanza sonolà: stanno nella perdita dellalinguadiVenerdí.

Foe non ribatté, cosíproseguii. – La storia dellalinguadiVenerdíèunastoria

che non si può raccontare, oche io non sono in grado diraccontare. Cioè, si possononarrare molte storie sullalinguadiVenerdí,ma laverastoria è sepolta dentro di lui,cheèmuto.Laverastorianonsi potrà ascoltare finché,grazieall’arte,nonsitroveràilmododidarevoceaVenerdí.

– Signor Foe, – proseguiicon crescente difficoltà, –quando abitavo nella vostra

casa, certe volte rimanevosveglia, al piano di sopra, adascoltareilpulsaredelsanguenelle orecchie e il silenzio diVenerdí al pianodi sotto,unsilenzio che saliva su per lescale come fumo, come unavoluta di fumo nero. Benpresto non riuscivo piú arespirare, mi sembrava disoffocare nel mio letto. Ipolmoni, il cuore, la testaerano pieni di fumo nero.

Dovevo balzare in piedi,scostare le tende, metterefuori il capo, inspirare ariafresca e vedere con i mieiocchi che in cielo c’eranoancoralestelle.

Nelle mie lettere vi horaccontato della danza diVenerdí. Ma non vi horaccontatolastoriaperintero.

Dopo aver scoperto levostre vesti e la parrucca, eaverle indossate a guisa di

livrea, Venerdí passavagiornateinterearuotaresusestesso,danzandoecantandoamodosuo.Ciòchenonvihodetto è che per danzare nonindossava altro che le vesti ela parrucca. Quando stavafermo, era coperto fino allecaviglie,ma,quando ruotava,le vesti si scostavano rigidedal corpo, cosí da indurremagari a credere che il fine

dellasuadanzafossequellodimostrarelenuditàdisotto.

Ebbene, quandoCrusomidissecheimercantidischiaviavevano l’abitudine dimozzare la lingua aiprigionieri per renderli piúdocili, confesso di essermidomandata se non stessericorrendoaunametaforaperusarmi una delicatezza: se lalingua perduta indicasse nonsolo quel fatto in sé,ma una

mutilazionepiúatroce;seunoschiavomuto,cioè,nonstessea significare uno schiavoevirato.

Quandoloudiicantilenarea labbra chiuse, quel primomattino,eavvicinandomiallaporta mi trovai davanti lospettacolodiVenerdí intentoadanzare con le vesti che glisvolazzavano intorno, rimasicosí confusa che fissai conmeraviglia e senza vergogna

ciò che fino a quelmomentoera stato velato. Giacché,sebbene avessi già vedutoVenerdí nudo, era statosempre da lontano: sullanostra isola avevamo fatto ilpossibile per osservare ilrispetto del decoro, e cosípureVenerdí.

Vi ho raccontatodell’avversione provataquandoCrusoaprílaboccadiVenerdí per mostrarmi che

non aveva la lingua. Ciò cheCrusovolevachevedessi,eioavreipreferitononvedere,erail tozzo moncone in fondoalla bocca, che da quelmomento in poi mi sonosempre figurata torcersi etendersi ogni volta cheVenerdí, in preda alleemozioni, cercava diesprimersi, come un vermetagliato a metà si contorcetutto negli spasimi della

morte. Da quella notte, hosempre temuto di trovarmidavanti agli occhi laprovadiuna mutilazione ancora piúripugnante.

Nella danza nulla erafermo e tuttavia ogni cosa loera. La veste volteggiante erauna campana scarlatta cheriposava sulle spalle diVenerdí, e lo cingeva;Venerdí ne era il nerosostegno al centro. Ciò che

fino a quel momento mi erastato celato si rivelò. Vidi, o,dovrei dire, i miei occhi siaprirono a ciò che sipresentavaloro.

Vidi, e credetti di avervisto, sebbene in seguito miricordai di Tommaso, chepure aveva visto, ma noncredette finché non mise ilditonellapiaga.

Non so come vadanoscritte certe cose in un libro,

senondissimulandoleancoracon delle immagini. Quandomi parlarono di voi, midissero che eravate un uomoassai discreto, una sorta diuomo di chiesa, chenell’esercizio del suo lavoroascolta le confessioni piúoscure dai penitenti piúdisperati. Non miinginocchierò davanti a luicome uno dei suoi pendaglidaforca,giuraiamestessa,la

bocca piena di indicibiliconfidenze: dirò chiaramentequelchesipuòdiree lascerònon detto quel che non sipuò. E invece eccomi qui ariversare su di voi i mieisegreti piú oscuri! Voi sietecome uno di quei famigeratilibertini contro cui le donnedevono armarsi, ma controcui alla fine sono impotenti,giacché lasuastessanomeaè

l’arma piú astuta delseduttore.

–Nonmiaveteraccontatotutto ciò che devo sapere suBahia,–disseFoe.

–Mi sono detta (l’homaiconfessatoprima?):Ècomeilragno paziente che siede alcentrodella sua tela in attesache la preda si avvicini. Equando ci dibattiamo nellasua morsa, ed esso apre lefauci per divorarci, e noi

urliamocon il poco fiato checirimane,accennaunsorrisoe dice: «Non sono stato io achiedervidi farmivisita,sietevenuti di vostra spontaneavolontà».

Un lungo silenzio caddetra noi. –Gettata su rive chemaiavevopensatodivisitare,– le parole mi vennerospontanee. Cosasignificavano? Dalla stradagiunse lo strepito di una

donna che stavarimproverando qualcuno. Lasua filippica non finiva mai.Sorrisi (non potei farne ameno),epureFoesorrise.

– Quanto a Bahia, –ripresi, – ne parlo poco perscelta. La storia grazie allaqualevorreiessereconosciutaè la storia dell’isola. Voi diteche è un episodio, per meinvece è una storia a tutti glieffetti. Comincia quando

faccio naufragio lí e siconclude con la morte diCruso e il ritorno mio e diVenerdí in Inghilterra, colmadinuovesperanze.All’internodiquesta storiapiú ampia, cisono le storie di come sonofinita sull’isola deserta(raccontatadameaCruso)edel naufragio di Cruso, deisuoi primi anni sull’isola(raccontatami dallo stessoCruso), nonché la storia di

Venerdí,chenonèunaveraepropria storia bensí unenigma o un buco nellanarrazione (me la figurocome un occhiello, benrifinitomavuoto,inattesadelbottone). Tutto sommato, èunanarrazione conun inizioe una fine, e pure conpiacevoli digressioni, cuimanca soltanto una partecentrale sostanziosa e varia,nel punto in cuiCruso passa

troppo tempo a lavorare iterrazzi e io troppo tempo avagare lungo la riva. Unavolta avete proposto dirimpolpare la parte centraleinventandocannibaliepirati.Non sono disposta adaccettarlo perché noncorrispondono al vero. Oraproponete di ridurre l’isola aun episodio nella storia veradi una donna in cerca della

figlia perduta. Rifiuto anchequesto.

Ilvostroerrorepiúgrandesta nel non riuscire adistingueretraimieisilenziei silenzi di un essere comeVenerdí. Venerdí non hafacoltàdiparola,equindinonè in grado di difendersidall’eventualità di essereriplasmato,giornopergiorno,inmodoconformeaidesiderialtrui. Io dico che è un

cannibale ed egli diventa uncannibale; dico che fa ilbucato ed egli diventa unoche fa il bucato. Qual è laverità di Venerdí? Voirisponderete: Non è uncannibale enonèunoche failbucato,questinonsonochenomi, non toccanominimamente la sua essenza,è un corpo dotato diconsistenza, è se stesso,VenerdíèVenerdí.Manonè

cosí. Qualunque cosa sia persestesso(maloèqualcosapersestesso?comepuòdircelo?),per il mondo Venerdí è ciòche io facciodi lui.Quindi ilsilenzio di Venerdí è unsilenziochelorendeindifeso.È figlio del proprio silenzio,unfigliononnato,unfiglioinattesa di nascere che nascerenonpuò.MentreilsilenziosuBahia e su altre questioni èunamiasceltaehaunfine:è

il mio silenzio. Bahia, loribadisco,èunmondoasé,eilBrasile èunmondoancorapiú grande. Bahia e il Brasilenon hanno posto nella storiadi un’isola, non possonoessere costretti entro i suoiconfini.Peresempio:nelleviedi Bahia si vedono donnenere con vassoi di dolci davendere.Lasciatechevidicailnome di alcuni di essi. Cisono pamonhas o paste di

mais indi; quimados, fatti dizucchero, che in francese sichiamano bonbons; pão demilho,pandispagnafattoconilgrano,epãode arroz, fattocon il riso; c’è anche il roletede cana, una pasta arrotolatadi cannada zucchero.Questisono i nomi chemi vengonoinmente,macenesonomoltialtri,dolcieappetitosi,etuttifanno bella mostra di sé inogni singolo vassoio da

pasticcera a ogni angolo.Pensate a quante altre cosestrane e inusuali ci sono inquesta città piena di energia,dove giorno e nottemoltitudini di personeirrompononelle strade (nudiindios delle foreste e abitantid’ebano del Dahomey e fierilusitani e meticci di ognitonalità), dove grassimercanti vengono trasportatiin portantina dagli schiavi in

mezzoacorteidi flagellantiedanzatrici che volteggiano, evenditori di cibo e folledirette ai combattimenti deigalli. Come si fa a chiudereBahia tra le copertine di unlibro? Solo i posti piccoli escarsamentepopolatipossonoessere tenuti in soggezione econfinatinelleparole,comeleisoledeserteelecasesolitarie.E poi,mia figlia non è piú aBahia, è andata

nell’entroterra, in un mondocosívastoesconosciutocheastentoriescoaconcepirlo,unmondo di pianure epiantagioni come quello cheCruso si è lasciato alle spalle,doveimperalaformicaeognicosaèarovescio.

Non sono, come vedete,uno di quei vostri ladri obriganti che farfugliano unaconfessione e, cacciati via afrustate, vengono mandati a

Tyburn e condannati alsilenzio eterno, lasciando voiafaredellelorostorieciòchepiú vi garba. Ho ancora ilpotere di fare da guida edemendare.Soprattutto,dinondire. In questo modo cercoancorastrenuamentediesserepadredellamiastoria.

ParlòFoe.–C’èunastoriachevorreiascoltaste,Susan,eche risale ai giorni in cuimirecaiinvisitaaNewgate.Una

donna,unaladrariconosciutacolpevole, mentre stava persalire sul carro che l’avrebbeportata a Tyburn, chiese diincontrare un sacerdote cuirendere la sua veraconfessione; poiché laconfessione che aveva fattoprima, disse, era falsa. Cosívenne convocato ilcappellano, cui la donnaconfessò di nuovo i furti dicui era stata accusata, e altri

ancora; confessò numerosiatti impuri e blasfemi;confessòdiaverabbandonatoduefigliediavernesoffocatounterzonellettino.ConfessòdiavereunmaritoinIrlanda,uno deportato nella Carolinaeun altro con lei aNewgate,tutti vivi. Fece un raccontodettagliato dei criminicommessi in gioventú edurante l’infanzia, finché, ilsoleeraormaialtonelcieloe

il carceriere già bussava allaporta, il cappellano non lazittí.«Signora…èdifficilepermecredere,–disse,–cheunasola vita sia bastata acommettere tanti crimini.Siete davvero una talepeccatrice, come volete farmicredere?»«Senonstodicendola verità, reverendo padre, –replicò la donna (che erairlandese,possodirlo),–nonsto forse abusando del

sacramento? E non è questoun peccato piú grande diquelli già confessati, per ilquale sono necessari un’altraconfessione e un altropentimento? E se il miopentimento non è davverosentito (ma lo è davvero?Guardo nelmio cuore e nonso dirlo, tanto è oscuro), lamia confessione non è falsa?E ciò non comporta dunqueun duplice peccato?» E la

donna avrebbe continuato aconfessarsi e a mettere indubbiolapropriaconfessioneper tutto il giorno, finché ilcarrettiere non si fosseappisolato e la folla nonché ivenditoridipasticciodicarnenon se ne fossero tornati acasa, se il cappellano nonavessealzatolemanieadaltavoce non l’avesse assolta(nonostante le sue proteste,poiché la storia non era

finita), affrettandosi poi adandarsene.

– Perché mi raccontatequestastoria?–chiesi.–Sonoforse io ladonnaper laqualeè giunta l’ora di salire alpatibolo,evoiilcappellano?

– Siete libera di dare allastoriailsensochepreferite,–rispose Foe. – Per me lamorale è che prima o poigiunge l’ora in cui si deverendercontodi séalmondo,

dopodiché bisognacontentarsiditacere.

– Per me la morale è chel’ultima parola ce l’ha chidisponedella forzamaggiore.Con ciò intendo il boia e isuoi assistenti, grandi epiccoli. Se fossi la donnairlandese, non mi darei pacenella tomba sapendo a qualeinterprete è stata consegnatalastoriadellemieultimeore.

– Allora vi racconto

un’altra storia. Una donna(un’altra donna) vennecondannata a morte, non sopiúperqualecrimine.Viaviache il giorno fatale siavvicinava, si disperavasempre piú perché nonriuscivaatrovarenessunocuiaffidare la suapiccinaancorain fasce, che aveva con sé incella. Alla fine uno deicarcerieri, mosso acompassione da una tale

infelicità,parlò con lamoglieeinsiemedeciserodiadottarela piccola. Quando la donnacondannata vide la figlia alsicuro tra le braccia dellamadreadottiva,sivoltòversochi la teneva prigioniera edisse: «Ora potete fare dimeciò che volete. Poiché ormaisono fuggita dalle vostrecarceri: ciòchedimeaveteèsolo il bozzolo» (intendendoconciò, credo, ilbozzoloche

la farfalla si lascia dietroquando nasce). È una storiadi tanto tempofa;ormainontrattiamo piú le madri inmaniera cosí barbara.Tuttavia, conservainteramente il suo senso, ecioè:sipuòvivereineternoinpiúdiunmodo.

–SignorFoe, ionon sonocapace di tirar fuori unaparabola dopo l’altra comerose dalla manica di un

prestigiatore. Un tempo, loammetto, ho sperato didiventarefamosa,divedereleteste voltarsi per strada esentire la gente sussurrare:«Ecco Susan Barton, lanaufraga». Ma eraun’ambizione velleitaria,ormai accantonata da tempo.Guardatemi. Nonmangio daduegiorni.Imieivestitisonoa brandelli, i capelli sfibrati.Sembro una vecchia, una

zingara vecchia e sporca.Dormo negli androni, neicimiteri,sottoiponti.Credeteforsechequestavitamendicasia ciò che desidero?Con unbagno caldo e vestiti nuovi euna vostra lettera dipresentazione potrei trovaregià domani un posto comecuoca, e pure una buonasistemazione, in una bellacasa.Potrei tornare intuttoepertuttoallavitadiuncorpo

incarneeossa,lavitachevoiraccomandate.Maquestavitaèabietta.Èlavitadiunacosa.Una meretrice usata dagliuomini è almeno usata comeun corpo in carne e ossa. Leonde mi hanno raccolta egettataarivasuun’isola,e,unanno dopo, le stesse ondehanno portato una nave atrarmi in salvo, ma la verastoria di quell’anno, la storiacome si dovrebbe vedere nel

grande disegno divino dellecose, io la ignoro quanto unneonato. Per questo nonriesco ad aver pace, perquesto vi seguo nei vostrinascondigliesonosempretraipiedi.Sareiforsequi,senonpensassichevoimisietestatodestinato,chevoisieteilsolo,l’unico,destinatoaraccontarelamiaverastoria?

Conoscete la storia dellaMusa, signorFoe?LaMusaè

una donna, una dea, che dinotte visita i poeti e generaloro storie. Nei racconti chepoi ne fanno, i poeti diconoche giunge nell’ora delladisperazionepiúprofondaelitocca col sacro fuoco,dopodiché la penna, che finoa quelmomento era asciutta,comincia a scorrere. Quandohoscrittolemiememoriepervoi,ehovistoquantofosserosimili all’isola, sotto la mia

penna, insignificanti, vacue esenza vita, ho desiderato cheesistesse una sorta di Musa-uomo, undio giovane che dinotte visita le autrici e fascorrerelaloropenna.Maoraho capito. La Musa è dea egenitrice a un tempo. Sonostatadestinataanonesserelamadre dellamia storia, bensísoloagenerarla.Nonsonoiomavoi,lapersonadestinataafarlo. Ma perché debbo

difendere la mia causa?Quandomaisidomandaaunuomochevienea chiedere lamano di perorare insillogismi? Perché mai allorasi dovrebbe pretenderlo dame?

Foe non rispose, maattraversò la stanza finoall’alcova dietro la tenda etornò con un vaso. – Questesono cialde all’italiana, fattecon pasta di mandorle, –

disse. – Non posso offrirvialtro,ahimè.

Ne presi una e l’assaggiai.Eracosí leggerache si sciolsesulla lingua. – Il cibo deglidèi, – osservai. Foe sorrise escosseilcapo.Tesiunacialdaa Venerdí, che la preseapaticodallamiamano.–TrapocoarrivaJack,ilragazzo,–disse Foe. – Lo manderò acomprarelacena.

Cadde il silenzio. Guardai

fuoridallafinestraicampanilie i tetti delle case. – Avetetrovatounbelrifugio,–dissi,– un vero nido d’aquila. Hoscritto le mie memorie allumedicandelainunastanzasenzafinestra,conifoglisulleginocchia.Èperquestochelamia storia era cosí noiosa?Perché avevo la vista ostruitaenonriuscivoavedere?

–Nonèunastorianoiosa,anche se è troppomonotona,

–disseFoe.– Non è noiosa solo se

teniamo a mente che è vera.Macomeavventuraloèassai.È per questo che mi aveteesortato a introdurre icannibali, vero? – Foe fecelentamente segnodi sí con latesta. – In Venerdí avete uncannibale in carne e ossa, –proseguii. – Badate. Agiudicare da Venerdí, icannibali non sono meno

noiosi degli inglesi. – Sevengono privati della carneumana, perdono la lorovivacità, ne sono sicuro, –ribattéFoe.

Qualcuno bussò alla portae il ragazzo che ci avevacondotti alla casa entrò nellastanza. – Benvenuto, Jack! –disse Foe. – La signoraBarton, che già conosci,ceneràconnoi.Puoifartidaredue porzioni? – Tirò fuori il

portafoglio e diede a Jack ildanaro. – Non dimenticateVenerdí, – mi intromisi. –Certo, una porzione ancheper Venerdí, il servitore, –disse Foe. Il ragazzo uscí. –Ho trovato Jack fragliorfanie i figli di nessuno chedormono nel cenerario dellevetrerie. Ha dieci anni,secondo i suoi calcoli, ma ègià un valente tagliaborse. –Nonprovateacorreggerlo?–

indagai. – Renderlo onestovorrebbe dire condannarloall’ospizio dei poveri, – disseFoe. – Lo vedete un ragazzoall’ospizio a confezionare unpugnodifazzoletti?–No,macosíloaddestrateallaforca,–ribattei. – Non poteteprenderlo con voi einsegnargli a leggere e ascrivere, e poi metterlo abottegadaqualcheparte?–Seseguissi un tale consiglio,

quanti apprendisti miritroverei a dormire qui, sulpavimento di casa, dopoaverli salvati dalla strada? –disse Foe. – Miprenderebbero per unaddestratore di ladri emanderebbero me alla forca.Jack deve vivere la sua vita,unavitamigliorediquellacheio potrei concepire per lui. –AncheVenerdíhalasuavita,– dissi, –ma non per questo

lo butto in mezzo a unastrada.–Eperchéno?–disseFoe. – Perché è inerme.Perché Londra gli è estranea.Perchéverrebbepresoperunfuggiasco, e cosí venduto eportato in Giamaica. – Nonpotrebbe essere accolto dallasuagente,accuditoenutrito?– disse Foe. – A Londra cisonopiúnegridi quantinoncrediate. Provate apasseggiare lungo Mile End

Roadunpomeriggiod’estate,o a Paddington, e vedrete.Venerdí non sarebbe piúfelice assieme ad altri negri?Potrebbesuonareperqualchepenny in un’orchestrina distrada. Sene vedono tante ingiro. Gli regalerei il mioflauto.

Lanciai un’occhiata aVenerdí. Mi sbagliavo, o neisuoiocchic’eraunbaglioredicomprensione? – Venerdí,

capisci quello che dice ilsignor Foe? – chiesi. Miguardò con espressioneassente.

– Oppure, se a Londraavessimo delle fiere annualicome nelle regionioccidentali, – disse Foe, –Venerdí potrebbemettersi infila con la zappa in spalla etrovare un lavoro dagiardiniere senza doverscambiareunasolaparola.

Jack ritornò reggendo unvassoio coperto dal qualeveniva un odore appetitoso.Loposò sul tavoloe sussurròqualcosa a Foe. – Concediciqualche minuto, poi falleentrare, – disse Foe; quindi,rivolto a me: – Abbiamovisite;maprimamangiamo.

Jack aveva portato delroast beef con dell’intingolo,una pagnotta da tre penny euna brocca di birra chiara.

Poichéc’eranosoloduepiatti,io e Foe mangiammo perprimi,poiriempiidinuovoilmio piatto e lo porsi aVenerdí.

Si udí bussare alla porta.Foe andò ad aprire. La lucecadde sulla fanciulla cheavevo lasciatonella forestadiEpping; dietro di lei,nell’ombra, c’era un’altradonna. Mentre ero ancoraesterrefatta, la fanciulla

attraversò la stanza e,abbracciandomi, mi baciòsulla guancia. Mi sentiiraggelare ed ebbi lasensazionedi crollarea terra.– Questa è Amy, – disse lafanciulla.–Amy,diDeptford,la mia balia di quando eropiccola –. Sentii unmartellionelle orecchie, ma micostrinsi a guardare Amy.Vidiunadonnadellamiaetà,slanciata, dal viso attraente,

con riccioli chiari che lespuntavanodasotto lacuffia.– Sono lieta di fare la vostraconoscenza, – mormorai, –masono sicuradinonavervimaivistainvitamia.

Qualcuno mi sfiorò ilbraccio.EraFoe:micondussea una sedia,mi fece sedere emi diede un bicchiered’acqua. – È un capogiromomentaneo, – dissi. Foeannuí.

–Cosísiamotuttiinsieme,– disse Foe. – Prego,accomodatevi,Susan,Amy–.Indicòilletto.Ilragazzo,Jack,senestavaaccantoa luiemiguardava incuriosito. Foeacceseunasecondalampadaela posò sulla mensola delcamino.–TraunattimoJackandràaprendereilcarboneeprepareràilfuoco,vero,Jack?–Sí,signore,–disseJack.

Parlai. – Si fa tardi,

Venerdí, e io non intendofermarmioltre.

– Accomiatarvi? Nondovete nemmeno pensarlo, –disse Foe. – Non avete unposto dove andare; e poi,quando è stata l’ultima voltain cui siete stata in similecompagnia?

– Mai, – risposi. – Nonsono mai stata in similecompagnia in vita mia.Pensavochequesta fosseuna

casaconcamereinaffitto,maora vedo che è un luogo diritrovo per attori. Sarebbetutto fiato sprecato, signorFoe, se dicessi che questedonne mi sono estranee,giacché voi obietterestesoltanto che me ne sonodimenticata e le esortereste araccontarelunghestoriediunpassato del qualepretenderebbero che anch’iosiastataattrice.

Che altro posso fare, senondireagranvocechenonèvero?Conoscoquantovoi imolti,moltissimimodi incuipossiamo ingannare noistessi. Ma come possiamovivere, se non crediamo disapere chi siamo e chi siamostati? Se fossi compiacentecome voi vorreste, se fossidisposta a concedere, purritenendo che mia figlia siastata inghiottitadallepraterie

delBrasile,cheellapossaavertrascorso l’ultimo anno inInghilterraeorasitroviquiinquestastanza,inunaformaincui non riesco a riconoscerla(poiché la figliachericordoèaltaeconicapellineriehaunnome diverso dal mio), sefossi come una bottigliasballottata dalle onde condentrounfogliettodicarta,ilmessaggiodiunbambinochepescapigronelcanaleodiun

marinaio alla deriva in altomare, se fossi un merocontenitore pronto adaccogliere qualsiasi storiavenga cacciata dentro di me,di certo voi mi manderestevia, di certo voi vi direste:«Questanonèunadonna,maun ricettacolo di parole,vuota, senza consistenza»,noncredete?

Io non sono una storia,signor Foe. Forse vi ho dato

l’impressione di esserloperché ho cominciato ilracconto di me stessa senzapreamboli, scivolandonell’acqua e dirigendomi abracciate verso la riva.Ma lamiavitanonècominciatatrale onde. Prima dell’acquac’eraunavita,chesistendevaall’indietro fino alle vanericerchecondotteinBrasile,e,dalí,aglianniincuimiafigliaeraancoraconme,ecosívia,

fino al giorno della mianascita. Tutto ciò fa parte diuna storia che scelgo di nonraccontare. Scelgo di nonraccontarla,perchéanessuno,nemmeno a voi, devodimostrare di essere unacreaturadotatadiconsistenzacon una storia vera dotata diconsistenza. Preferiscoraccontaredell’isola,dime,diCruso e di Venerdí, e di ciòche abbiamo fatto là: perché

sono una donna libera cheafferma la propria libertàraccontando la propria storiasecondoipropridesideri.

Qui m’interruppi, senzafiato. Sia la fanciulla che ladonna, Amy, mi guardavanoattente, lo vedevo, e conquella che mi pareva unacerta cordialità. Foe annuícome per incoraggiarmi. Ilragazzo sene stava immobilecon il secchio del carbone in

mano. Persino Venerdí mifissava.

Attraversai la stanza. Almio avvicinarmi, la fanciulla,me ne avvidi, non trasalí.Qualealtraprovamirimane?pensai; poi la presi tra lebracciaelabaciaisullelabbra,e a quel punto la sentiiabbandonarsi e baciarmi asua volta, quasi come sirisponde al bacio dell’amato.Mi aspettavo forse che,

toccandola,sidissolvesse,chela carne si sbriciolasse esvanisse come cenere alvento? La strinsi forte e lepremetti le dita nelle spalle.Eraveramentelacarnedimiafiglia?Quandoapriigliocchi,scorsi il viso di Amyvicinissimo al mio, le labbrasocchiuse come fosseroanch’esse pronte al bacio. –Non mi somiglia affatto, –mormorai. Amy scosse il

capo. – È davvero figlia delvostrogrembo,–ribatté.–Visomiglia in segreto –. Miritrassi.–Nonstoparlandodisomiglianzesegrete,–dissi.–Stoparlandodi occhi azzurrie capelli castani, – e avreipotuto anche accennare allapiccola bocca morbida eindifesa, se avessi volutoferire. –È figlia di suopadrecome lo è di sua madre, –disse Amy. Al che, stavo per

ribattere che, se la fanciullaerafigliadisuopadre,allorailpadre doveva essere il mioopposto, e noi non sposiamoil nostro opposto, sposiamouominichesonointimamentesimilianoi,mamisorpresiapensare che con tuttaprobabilità avrei sprecato ilfiato, poiché la luce negliocchi di Amy non era tantocordiale, quanto piuttostoottusa.

–SignorFoe,–dissirivoltaa lui, e aquelpunto credo cifossepropriodisperazionesulmiovolto,eFoeseneaccorse,– io non so piú in qualegenere di casa sia finita. Midicochequesta fanciulla, cheafferma di chiamarsi comeme, è un fantasma, unfantasma in carne e ossa,sempre che esseri similiesistano, che mi perseguitaper ragioni che non

comprendo, e si porta dietroaltri fantasmi.Rappresenta lafigliachehoperdutoaBahia,mi dico, e voi lamandate dame per consolarmi, ma, nonavendo dimestichezza con ifantasmi, ne avete evocatouno che in nulla somiglia amiafiglia.Oforsepensatechemia figlia sia morta, e neevocate lospirito,e ildestinovuole che esso porti per casoil mio nome, e sia

accompagnatodauncustode.Queste le mie congetture.Quantoalragazzo,nonpossodire se sia un fantasmaono,nélacosahaimportanza.

Ma se tali donne sonovostre creature, venute afarmi visita perché da voiistruite, pronunciando parolemesse loro in bocca da voi,allora chi sono io e chi sietevoi? Mi sono presentata conparole mie (scivolai

nell’acqua, cominciai anuotare, i capelli fluttuavanointorno a me, e cosí via, lericorderetedicerto)epoi,perlungotempo,mentrescrivevole lettere che non avete mailetto, e non sono state maispedite, e infine neppure piúscritte, ho continuato adavere fiducia nella miaautorialità.

Tuttavia, finalmenteinsieme nella stessa stanza,

dove non è certo necessarioche vi riferisca ogni miaazione (mi avete sotto gliocchi, non siete cieco), iocontinuo a descrivere e aspiegare. Ascoltate! Descrivolescalebuie,lastanzaspoglia,l’alcova nascosta dalla tenda,particolari mille volte piúfamiliariavoicheame;parlodel vostro aspetto e del mio,riferisco le vostre parole e lemie. Perché parlo, con chi

parlo, quando non c’èbisognodiparlare?

All’inizio pensavo diraccontarvi la storia dell’isolae,unavoltafinito,diritornarealla vita di prima. Ma oratutta la mia vita stadiventandounastoriaeamenon resta piú nulla di mio.Pensavodiesseremestessaechequestafanciullafosseunacreatura di un altro ordineintenta a pronunciare parole

inventatedavoi.Maorasonopiena di dubbi. Non mirimangono che dubbi. Sonol’incarnazione stessa deldubbio.Chimidàvoce?Sonoanch’iounfantasma?Aqualeordineappartengo?Evoi:chisiete?

Durante tutto il miodiscorso, Foe era rimastoimmobile accanto al camino.Mi aspettavo una risposta,giacché mai prima le parole

gli erano mancate. Invece,senza preamboli, mi siavvicinò, mi prese tra lebraccia e mi baciò; e, comeprima la fanciulla, anch’iosentii le mie labbrarisponderealsuobacio(maachi confesso tuttociò?) comele labbra di una donnarispondono al baciodell’amato.

Era dunque questa la suarisposta – che lui e io

eravamo un uomo e unadonna, che un uomo e unadonna stanno al di là delleparole?Secosíè,eraunabenmisera risposta, unadimostrazione piú che unarisposta,taledanonappagarealcun filosofo. Amy, lafanciulla e Jack sorridevanopiú di prima. Ansimante, midivincolai.

– Molto tempo fa, signorFoe,–dissi,–avete scritto la

storia (l’ho trovata nellavostrabibliotecae l’ho lettaaVenerdíperpassareiltempo)diunadonnachetrascorreunpomeriggio a conversare conuna cara amica, poi, altermine del pomeriggio,l’abbracciaesicongedadaleifinoalprossimoincontro.Mal’amica, a sua insaputa, eramorta il giorno prima, amolte miglia di distanza,sicché per tutto il tempo

aveva conversato con unfantasma.LasignoraBarfield,si chiamava cosí, loricorderete.Nededucoquindiche siate consapevole dellapossibilità che i fantasmiconversinoconnoi,epossanopureabbracciarciebaciarci.

–MiadolceSusan,–disseFoe, e io non riuscii aguardarloconseveritàmentrepronunciavaquesteparole,damolti anni nessuno mi

chiamava «dolce Susan»,certamente Cruso non miaveva mai chiamata cosí, –mia dolce Susan, non sapreidire chi tra noi sia unfantasma e chi no: è unaquestione dinanzi alla qualepossiamosolorimanerefermia guardare in silenzio, comeun uccello davanti a unserpente, nella speranza chenonciingoi.

Ma, se non riuscite a

sbarazzarvi dei vostri dubbi,vi dirò qualcosa che puòesservi di conforto.Affrontiamo la nostra paurapiú grande, e cioè quella diessere apparsi nel mondoevocati da un ordine diverso(che ormai abbiamodimenticato) per opera di unmago a noi sconosciuto, allostesso modo in cui, secondovoi,avrei fattoapparirecomepermagiavostrafigliaelasua

accompagnatrice (cosa chenon ho fatto). Tuttavia,chiedo: Abbiamo con ciòperduto la nostra libertà?Siete, per esempio, menopadrona della vostra vita?Diventiamo forsenecessariamente dellemarionetteinunastoriailcuifinecièinvisibile,eversocuisiamo costretti a marciarecomedeicondannatiamorte?Voieiosappiamo,ciascunoa

suo modo, che genere diattività tortuosa sia lascrittura, e il far apparirecome per magia non è certomolto diverso. Seduti, ce nestiamo a guardare fuori dallafinestra; una nuvola a formadicammellocipassadavanti,e,primaancoradirenderceneconto, ecco che la nostrafantasia ci ha rapiti e portatitra le sabbie dell’Africa e ilnostroeroe(chealtrinonèse

non noi stessi mascherati)combatteacolpidiscimitarraun Moro, un brigante. Passaun’altra nuvola, a forma divascello, e in un battibalenofacciamo tristementenaufragio su un’isola deserta.Abbiamo ragione di crederechelavitachecièdatovivereproceda secondo un disegnopiúprecisodiquantononsiaquello di queste bizzarreavventure?

Direte, loso,cheglieroieleeroinedelleavventuresonogente semplice, incapace didubbi simili a quelli che voiavvertite riguardo alla vostravita. E se i vostri dubbifacessero parte della storiachevivete,enonavesseropiúpeso di qualsiasi altra vostraavventura? Sto solo facendounadomanda.

In una vita passata ascrivere libri, spesso,

credetemi, mi sono perdutoinunlabirintodidubbi.Ehoimparatounostratagemma,ecioè quello di piantare unsegno, un contrassegno, nelterreno, lídovemi trovo,perpoter avere un posto cuitornare nei mieivagabondaggi futuri e nonperdermi ancor di piú.Dopoaverlopiantato,proseguo;piútorno al segno (cheperme èun indizio della mia cecità e

incapacità) piú so consicurezza di essermi perduto,e tuttavia piú mi sentorincuoratoperavertrovatolaviadelritorno.

Avete preso inconsiderazione il fatto (e quiconcludo) che nel vostroperegrinare potreste, senzasaperlo,averlasciatodietrodivoi qualcosa di simile; o, sescegliete di credere di nonessere padrona della vostra

vita,chequalcosadisimilesiastato lasciato da altri per voi,qualesegnodellacecitàdicuiparlavo;eche,inmancanzadiun piano migliore, la vostraricercadiunaviad’uscitadallabirinto (se, perduta nellostupore o nello sgomento,siete rimasta davvero chiusanellabirinto)potrebbepartireda lí, e lí tornare ogni voltache è necessario, finché non

scoprirete di essere statasalvata?

AquestopuntoFoerivolsela sua attenzione a Jack, chedaunpo’glitiravalamanica.Si scambiaronoalcuneparoleabassavoce;Foeglidiededeldanaro, e Jack, augurandocitutto contento labuonanotte,si congedò. Poi la signoraAmy guardò l’orologio eosservò che si era fatto tardi.– Abitate lontano? –

domandai. Mi lanciòun’occhiata strana. – No, –disse, – non lontano, pernulla–.Lafanciullasembravariluttante all’idea diandarsene, ma io l’abbracciaidi nuovo e la baciai, il cheparve rallegrarla. La suacomparsa, o apparizione, ocos’altro fosse, mi inquietavadimenoorachelaconoscevomeglio.

–Vieni,Venerdí,–dissi.–

Èoradiandarcene.MaFoeobiettò,dicendo:–

Mi fareste il piú grandedeglionorisepassastelanottequi.Epoi,dovemaitroveresteunletto? – Purché non piova,abbiamo centinaia di letti tracui scegliere, tutti duri, –risposi. – Restate qui, allora.Almeno avrete un lettomorbido. – E Venerdí? –Anche Venerdí. – Ma dovedormirà? – Dove vorreste

farlo dormire? – Non vogliomandarlovia.–Certocheno,– disse Foe. – Può dormirenella vostra alcova? – dissi,indicando l’angolo dellastanzanascostodallatenda.–Sicuro. Metterò una stuoiaperterra,eancheuncuscino.–Saràsufficiente,–dissi.

Mentre Foe preparaval’alcova, svegliai Venerdí. –Su, Venerdí, per stanotteabbiamo una casa, –

sussurrai,–e,se la fortunaciassiste, domani faremo unaltropasto.

Glimostraiilsuogiaciglio,poi tirai la tenda. Foe spensela luce versando sullafiammelladell’acqua,eloudiispogliarsi. Esitai qualcheistante,chiedendomicosamaipotesse presagire per lastesura della mia storia unataleintimitàconilsuoautore.Udii cigolare le molle del

letto. – Buonanotte, Venerdí,– sussurrai. – Non prestareattenzione alla tua padrona ealsignorFoe,vatuttobene–.Poi mi spogliai anch’io, misciolsiicapelliescivolaisottolecoperte.

Per un poco restammo insilenzio, Foe sul suo lato, iosulmio.InfineFoeparlò.–Avolte mi chiedo, – disse, –comesarebbeselecreaturediDiononavessero lanecessità

di dormire. Se passassimo lanostra vita svegli, saremmopersonemiglioriopeggiori?

Aquestosingolareesordiononsapevocosarispondere.

– Saremmo personemigliori o peggiori, cioè, –proseguí, – se la notte nondovessimo piú scenderedentronoi stessi e incontrarequelchelàincontriamo?

–Ecosamaiincontriamo?–dissi.

– Il nostro io oscuro, –rispose Foe. – Il nostro iooscuro, e altri fantasmi –. Epoi, d’un tratto: – Voidormite,Susan?

– Sí, benissimo,nonostantetutto.

–Eincontratefantasminelsonno?

– Sogno, ma non chiamo«fantasmi» le figure chevengonoameinsogno.

–Ecosasonoallora?

– Sono ricordi, ricordidelleorediveglia,incompleti,confusi,alterati.

–Esonoreali?– Reali, o poco reali,

quantoiricordistessi.– In un antico autore

italiano ho letto di un uomoche ha visitato, o sognato divisitare,l’Inferno,–disseFoe.– Lí ha incontrato le animedei morti. Un’animapiangeva. «Non credere, o

esseremortale,–dissel’animarivoltaalui,–che,poichénonsono una creatura in carne eossa,questelacrimedicuiseitestimone non siano lacrimediverodolore».

–Verodolore,certo,madichi? –dissi. –Dello spirito odell’italiano? – allungai unbraccioepresilamanodiFoetra le mie. – Signor Foe,sapete veramente chi sono?Ungiornosonovenutadavoi

sotto la pioggia, una volta incuiavevatefrettadiandaredaqualche parte, e vi hotrattenuto con la storia diun’isolachenondesideravateascoltare. («Vi sbagliate, miacara», disse Foeabbracciandomi). Mi aveteconsigliato di metterla periscritto, – proseguii, – nellasperanza forse di leggere digestasanguinoseinaltomareo della licenziosità dei

brasiliani. («Non è vero, nonèvero!–disseFoe,ridendoecingendomi stretta tra lebraccia. – Avete destato lamia curiosità sin dall’inizio,ero proprio desideroso disentire ciò che avevate daraccontare!») Invece no, viperseguito con la mia storianoiosa,velaimpongofinqui,nel vostro estremo rifugio. Emiportodietroquestedonne,fantasmi che tormentano un

fantasma, come pulci su unapulce. Non è forse cosí? – Eperché mai, Susan, dovrestetormentarmi, per usare levostre parole? – Per il vostrosangue.Nonèperquestocheritornanoifantasmi?Perbereil sangue dei vivi? Non èquestalaveraragionepercuileombrehannobenaccoltoilvostroitaliano?

Invece di rispondere, Foemi baciò di nuovo, e

baciandomi mi morse cosíforte il labbro che lanciai ungrido e mi ritrassi. Ma mitenne stretta e lo sentii chesucchiavalaferita.–Èquestoilmiomododipredareivivi,–mormorò.

Poi mi fu sopra, e avreianchepotutocrederediesserenuovamente tra le braccia diCruso, poiché erano uominidella stessa età, e appesantitinella parte inferiore del

corpo, sebbene nessuno deiduefossemassiccio;eancheilmododifareconledonneeramoltosimile.Chiusigliocchi,cercandodiritrovarelastradadell’isola, del vento e delmugghio delle onde; inveceno, l’isola era perduta,separatadamedamilleleghedidesolatedistesed’acqua.

Calmai Foe. – Sepermettete, – sussurrai, – c’èun privilegio della prima

nottecherivendicocomemio–.Econlusingheloindussiastendersisottodime.Poitolsila camiciola e montai acavalcioni sudi lui (il che, inuna donna, parve metterlo adisagio). – Cosí fa la Musaquando visita i poeti, –sussurrai, e sentii lemembraperdere un poco della loroapatia.

– Una cavalcatatonificante,–dissepoiFoe.–

Sono scosso fin nelle ossa,devo riprendere fiato primadi ricominciare. – Lacavalcata è sempre duraquando la Musa si reca invisita, – ribattei. – Deve faretuttociòchestainsuopoterepergenerarelaprole.

Foe rimase immobile cosía lungo che pensai si fosseaddormentato. Ma propriomentre io stessa mi stavoappisolando, parlò: – Avete

descritto il vostro uomo,Venerdí, mentre dirigeva lasua barca tra le alghe. Queigrandi banchi di alghealbergano un animale feroceche i marinai chiamanokraken (ne avete mai sentitoparlare?) con braccia grossecome la cosciadi unuomo elunghe molte iarde, e unbecco simile a quellodell’aquila. Mi figuro che ilkraken giaccia sul fondo del

mare, in un viluppo di algheda dove fissa il cielo, con leinnumerevoli braccia serratetutt’intorno, in attesa. È inquell’orbita spaventosa cheVenerdí dirige la sua fragileimbarcazione.

Cosa avesse spinto Foe aparlare di mostri marini inquel preciso momento nonsapreipropriodire,marimasiinsilenzio.

– Se un braccio enorme

fosse apparso e si fosseavviluppato intorno aVenerdí e silenziosamente loavessetrascinatosottoleondepernon farlopiú riemergere,sareste rimasta sorpresa? –domandò.

– Un braccio mostruosoche si leva dagli abissi… sí,sarei rimasta sorpresa.Sorpresaeincredula.

– Ma sorpresa di vedereVenerdí scomparire dalla

facciadelleacque,dallafacciadellaterra?–disseFoetrasé.Dinuovoparveabbandonarsial torpore. – Voi dite, –proseguí, e iomi risvegliaidisoprassalto, – voi dite chedirigevalabarcanelpuntoincuieracolataapiccolanave,che possiamo supporre fosseuna nave negriera, non unmercantile come sostenevaCruso. Ebbene, allora:immaginate le centinaia di

schiavi in viaggio assieme alui (o i loro scheletri) ancoraincatenati dentro il relitto,con tutti quei pesciolini daicolori vivaci (di cui aveteparlato) che guizzano dentroe fuori le orbite e le cassetoracichevuotecheuntemporacchiudevano il cuore.ImmaginateVenerdílàsopra,che se ne sta a guardarlidall’alto, gettando petali eboccioli che galleggiano un

poco e poi si inabissano peradagiarsitraleossadeimorti.

Non vi colpisce, inentrambiicasi,comeVenerdísia attratto dagli abissi?Attratto o minacciato,secondo le circostanze?Eppure Venerdí non muore.Sulla sua barchetta, galleggiasopra la pelle stessa dellamorteedèalsicuro.

– Non era una barca maunceppo,–dissi.

– In ogni storia c’è unsilenzio, uno scorcio celato,una parola non detta, credo.Finché non si dice il nondetto, non si giunge al cuoredellastoria.PerchéVenerdíèstato trascinato in questopericolo mortale, ammessoche la vita sull’isola fossesenza pericoli, e poi salvato?michiedo.

La domanda parevastravagante. Non avevo una

risposta.–Ho detto «il cuore della

storia», – riprese Foe, – maavrei dovuto dire «l’occhio»,«l’occhio della storia».Venerdí rema sul suo ceppodi legnosullascurapupilla,ol’orbita spenta, di un occhioche lo fissa dal fondo delmare. Ci rema sopra ed è alsicuro.Lasciaanoiilcompitodi scendere dentroquell’occhio. Altrimenti,

comelui,navigheremmosullasuperficie e giungeremmo ariva per nulla piú saggi, ariprenderelanostravitadiuntempo e a dormire senzasognare,comeneonati.

– O come una bocca, –dissi.–Venerdíhanavigato,asua insaputa, su una grandebocca,o«becco»,comel’avetechiamato voi, spalancata epronta a divorarlo. Sta a noiscendere nella bocca (dato

che parliamo per immagini).Sta a noi aprire la bocca diVenerdí e sentire cosa c’èdentro: silenzio, forse, o unmugghio, come il mugghiaredi una conchiglia portataall’orecchio.

– Anche quello, – disseFoe. – Io intendevo un’altracosa, ma anche quello.Dobbiamo far parlare ilsilenziodiVenerdí,nonchéil

silenzio che circondaVenerdí.

– Ma chi lo farà? –domandai.–È facile starsenedistesi a letto e dire cosabisogna fare, ma chi siimmergerà sino al relitto?Sull’isola dissi a Cruso cheavrebbedovutofarloVenerdí,con una corda in vita persicurezza. Ma, se non puòdirci ciò che vede, nella miastoria egli è dunque

nient’altro che laraffigurazione (o laprefigurazione) di un altropalombaro?

Foenonrispose.– Tutti gli sforzi per

portare Venerdí a parlare, odarelaparolaaVenerdí,sonofalliti, – dissi. – Si esprimesoloconlamusicaeladanza,che stanno al discorso comegridaeurlastannoalleparole.Avoltemichiedoseneiprimi

anni di vita non abbia avutouna pur minima padronanzadel linguaggio, se sappia checos’èillinguaggio.

–Gliavetemostratocomesiscrive?–disseFoe.

– Come fa a scrivere senon sa parlare? Le letteresono lospecchiodelleparole.Anche quando sembra chescriviamo in silenzio, lascrittura è la manifestazione

diundiscorsofattodentrodinoioanoistessi.

– Eppure, Venerdí ha ledita. Seha ledita, è in gradodi dar forma alle lettere. Lascrittura non è destinata aessere l’ombra della linguaorale. Fate attenzione a voistessa mentre scrivete, e viaccorgerete che a volte leparole si formano sulla cartade novo, come dicevano iRomani, dal profondo dei

silenzi interiori. Siamoabituati a credere che ilnostromondosiastatocreatoda Dio pronunciando laParola; ma, mi chiedo, nonpotrebbeinveceaverlascritta,aver scritto una Parola cosílunga che noi non ne siamoancora giunti alla fine? Nonpuò essere che Dio scrivacontinuamente il mondo, ilmondo e tutto ciò che vi stadentro?

– Non ho la competenzaper dire se la scrittura siacapacediformarsidalnulla,–risposi. – Forse sarà pur cosípergliautori,manonperme.QuantoaVenerdí,michiedotuttavia: Come si puòinsegnargli a scrivere, se nonci sono parole dentro di lui,nelsuocuore,chelascritturapossa riflettere, ma solo untumulto di sentimenti e diimpulsi?Quantoallo scrivere

diDio, lamia opinione è: Sescrive, impiega una scritturasegreta, che a noi, che nesiamo parte, non è datoleggere.

– Non possiamo leggerla,sono d’accordo, è quel cheintendevoanch’io,poichénoisiamociòdicuiscrive.Noi,oalcuni di noi: è possibile chealcunidinoinonsianoscritti,ma semplicemente siano;oppure (penso soprattutto a

Venerdí) siano scritti da unaltro autore, piú oscuro.Tuttavia, la scritturadiDioèunesempiodi scritturasenzafavella. La favella non è cheun mezzo attraverso il qualeesprimere la parola, non è laparola stessa. Venerdí nonparla,ma ha le dita, e quelledita saranno il suo mezzo.Anchesenonleavesse,anchese imercanti di schiavi glieleavessero mozzate tutte,

potrebbe sempre reggere unbastoncino di carbone tra ledita dei piedi, o tra i denti,come i mendicanti lungo loStrand. I gerridi, che sonoinsettienonhannolafavella,traccianoilnomediDiosullasuperficie degli stagni, o cosíalmeno dicono gli arabi.Nessunoècosíprivodimezzidanonpoterscrivere.

VedendochediscutereconFoe era un compito ingrato

quanto discutere con Cruso,rimasiinsilenzioeprestoeglisiaddormentò.

Non so se fosse per viadell’ambiente sconosciuto odelcorpodiFoeaddossatoalmio nel letto angusto, ma,sebbene spossata, nonriuscivo a dormire. Ogni oraudivo la guardia notturnadare dei colpetti contro leporte giú in strada; udivo, opensavodiudire,lozampettio

dei topi sulle assi nude delpavimento. Foe cominciò arussare. Sopportai il rumorefinché potei, poi sgusciai giúdalletto,infilai lacamiciolaeandaiallafinestraaguardareitetti illuminati dalle stelle,chiedendomi quantomancasse all’alba. Attraversaila stanza fino all’alcova diVenerdíescostailatenda.Nelbuio pesto di quello spazio,Venerdí dormiva oppure se

nestavasveglioafissarmi?Dinuovo mi colpí quantorespirasse piano. Si sarebbedettochesvanissenonappenacalavailbuio,nonfossestatoper il suo odore, che untempocredevofosseodoredilegna bruciata e invece orasapevo che era il suo, unodore che dava tranquillità,sonnolenza.Sentiiunafittadinostalgia per l’isola. Con unsospiro lasciai ricadere la

tendaetornaialetto.Ilcorpodi Foe sembrava esserecresciuto in quel sonnoprofondo: c’era appena unpalmo di spazio per me. Fa’che venga presto il giorno,pregai; e in quell’istante miaddormentai.

Quandoapriigliocchi,eragiorno fatto e Foe era al suotavolo,conlaschienarivoltaame, intento a scrivere. Mivestii e mi avvicinai pian

piano all’alcova. Venerdí eradisteso sulla stuoia,avviluppato nelle vestiscarlatte. – Vieni, Venerdí, –sussurrai.– Il signorFoeèallavoro,dobbiamolasciarlo.

Ma prima cheraggiungessimo la porta, Foeci richiamò. – Susan, nonavetedimenticatolascrittura,vero? – disse. – Non avetedimenticato che doveteinsegnargliascrivere,vero?–

E mi tese una matita e unalavagnetta per bambini. –Tornate a mezzogiorno, eVenerdí mostri cos’haimparato. Prendete, è per lacolazione –. E mi diede unamoneta da sei pence, cheaccettai,sebbenenonfosseungranchécomericompensaperunavisitadellaMusa.

Cosí facemmo una bellacolazione con latte e panefresco, e poi cercammo una

panchina al sole nelcamposanto intorno a unachiesa. – Fa’ del tuo meglioperseguire,Venerdí,–dissi.–Lanaturanonmihadestinatoa fare la maestra, non ho lapazienza necessaria –. Sullalavagnetta disegnai una casaconunaporta,alcunefinestree il fumaiolodiuncamino,esotto scrissi le lettere «c-a-s-a».–Questaèlafigura,–dissiindicandola, – e questa la

parola –. Riprodussi i suonidella parola casa uno dopol’altro, indicando le lettereche avevo tracciato, poi presiil dito diVenerdí e lo guidaisopra le lettere mentrepronunciavo la parola; infineglimisiinmanolamatitaeloguidai a scrivere «c-a-s-a»sotto la parola «c-a-s-a» cheavevo scritto io.Quindi puliilalavagnettainmodochenonci fossepiúnessuna figura se

non quella nella mente diVenerdí,eguidailasuamanoa formare laparolauna terzae una quarta volta, finché lalavagnettanonfuinteramentericopertadilettere.Lapuliidinuovo. – Adesso, Venerdí,fallo da solo, – dissi, ed egliscrisselequattroletteredi«c-a-s-a», o quattro formeabbastanzasimili:soltantoluisapeva se fossero proprio lequattro lettere, e se stessero

proprio per la parola casa, lafigura che avevo disegnato elacosainsé.

Disegnai una nave con levelespiegateeglifeciscriverenave, poi cominciai ainsegnargli a scrivere Africa.Laraffiguraicomeuna filadipalme conun leone che vi siaggirava in mezzo. La miaAfrica era l’Africa di cuiVenerdí conservavamemoria? Ne dubitavo.

Tuttavia, scrissi «A-f-r-i-c-a»e lo guidai a formare lelettere. Cosí almeno adessosapevachenontutteleparoleerano di quattro lettere. Poigli insegnai «m-a-d-r-e» (unadonna con un bambino inbraccio), e, pulendo lalavagnetta, mi accinsi aprovare di nuovo con leparole di quattro lettere. –Nave,–dissi,egli fecicennodi scrivere. «a-n-a-n-a»,

scrisse ripetutamente, o forse«a-m», e avrebbe riempitol’intera lavagnetta, se non gliavessitoltodimanolamatita.

Lo fissai a lungo finchénon abbassò le palpebre echiuse gli occhi. Era dunquepossibile che qualcuno, perquantoincoltoacausadiunavita di muta schiavitú,dovesse essere stupido comepareva Venerdí? Che dentrodi sé ridesse dei miei sforzi

perfarloesprimeregrazieallaparola?Allungai unamano elo presi per il mento,girandogli il volto verso dime.Dischiuselepalpebre.Daqualche parte, nei profondirecessi di quelle pupille nere,brillava forse la scintilladelloscherno? Non riuscivo avederla. Ma se c’era, nonsarebbe stata una scintillaafricana,oscuraalmioocchioinglese? Sospirai. – Su,

Venerdí, – dissi, – torniamodal nostro padrone emostriamogli i progressi deinostristudi.

Era mezzogiorno. Foe erarasato di fresco e dibuonumore.

– Venerdí non impara, –dissi. – Se c’è un portale checonduce alle sue facoltà, èchiuso, oppure io non sotrovarlo.

– Non avvilitevi. Se avete

piantato un seme, è giàqualcosa, per il momento.Perseveriamo: Venerdípotrebbe riservarci dellesorprese.

– La scrittura non crescedentrodi noi allamaniera diun cavolo mentre i nostripensieri sono altrove, –ribattei, con una certairritazione. – È un mestierechesiapprendeconlapratica

assidua, come voi dovrestesapere.

Foe increspò le labbra,dubbioso. – Forse, – disse. –Ma poiché vi sonomolti tipidiuomini,visonopuremoltitipi di scrittura. Nongiudicate troppoaffrettatamente il vostroalunno. Anch’egli potrebbericeverelavisitadellaMusa.

Mentre io e Foeparlavamo, Venerdí si era

sistemato sulla stuoia con lalavagnetta. Sbirciando sopralasuaspalla,vidiche la stavariempiendo con un motivoche pareva di foglie e fiori.Ma,quandomiavvicinai,vidiche le foglie erano occhi,occhi aperti, ciascuno deiquali posto sopra un piedeumano: una fila dopo l’altradi occhi su piedi: occhideambulanti.

Feci per prendere la

lavagnetta emostrarla a Foe,ma Venerdí se la tennestretta. –Dammela! Venerdí,dammi la lavagnetta! –ordinai. Al che, invece diobbedirmi, Venerdí si misetreditainbocca,leinumidíelapulí.

Mi ritrassi disgustata. –Signor Foe, devo riavere lamia libertà! – esclamai. –Tutto ciò è piú di quantopossa sopportare! È peggio

che sull’isola! È come ilvecchiodelfiume!

Foecercòdicalmarmi.–Ilvecchio del fiume, –mormorò. – Credo di nonsaperedichistateparlando.

– È una storia, nient’altroche una storia, – ribattei. –Una volta un tale,impietositosi nel vedere unvecchio che aspettava lungoun argine, si offrí di portarlodall’altra parte. Dopo averlo

condotto al sicuro oltre ilfiumeinpiena,siinginocchiòper farlo scendere sull’altrasponda. Ma il vecchio nonvoleva saperne di scenderedalle sue spalle: no, estringendo le ginocchiaintorno al collo del suosalvatore e percuotendogli ifianchi,lotrasformò,perfarlabreve, inunabestiada soma.Glitolseilpanedibocca,eloavrebbeportatoallamorte se

l’uomo non si fosse salvatoconl’astuzia.

– Adesso la riconosco. ÈunadelleavventurediSinbaddiPersia.

–Siapure:SinbaddiPersiasonoioeVenerdíèiltirannosulle mie spalle. Camminocon lui, mangio con lui, miguardamentredormo.Senonme ne libererò, moriròsoffocata!

– Dolce Susan, non

infervoratevi tanto. Anche sedite di essere l’asino eVenerdí colui che lo cavalca,statepurcertache,seVenerdípotesse riavere la sua lingua,direbbe il contrario. Noideploriamo la barbariedi chilo ha menomato, ma noi, isuoi nuovi padroni, nonabbiamo forse ragione diessergli segretamente grati?Giacché, fintantoché saràmuto, potremo dirci che i

suoidesideri ci sonooscuri econtinuare a servircene comepreferiamo.

–IdesideridiVenerdínonmi sono oscuri. Desideraessere liberato, come me. Inostri desideri sono palesi, isuoi e imiei.Macomepotràriavere la libertà, Venerdí, seper tutta la vita è stato unoschiavo? È questa la veradomanda.Dovrei liberarlo inunmondodi lupi easpettare

di essere lodata per questo?Che liberazione è esserespeditiinGiamaica,osbattutifuori nella notte con unoscellino in mano? Persinonell’Africanatía,mutoesenzaamici, conoscerebbe mai lalibertà? Tutti noi, nel nostrocuore, sentiamo urgere undesiderio: quello di essereliberi; eppure, chi di noi sadire cosa sia veramente lalibertà? Quando mi sarò

sbarazzata di Venerdí,conoscerò allora la libertà?Cruso era forse libero,despota com’era di un’isolatuttasua?Secosíè,nonglihadato alcuna gioia, che iosappia. Quanto a Venerdí,come può sapere cosasignifichilalibertà,seastentoconosceilproprionome?

– Non c’è bisogno disapere, Susan, cosa significhilalibertà.Libertàèunaparola

come un’altra. È un soffiod’aria, sette lettere su unalavagnetta.Èsoltantoilnomechediamoaldesideriodi cuistateparlando, il desideriodiessere liberi. Quel che ciinteressaè ildesiderio,nonilnome. Se a parole nonpossiamo dire cosa sia unamela, non per questo ci èvietato mangiarla. Bastasapere i nomi dei nostribisogni ed essere in grado di

servircene per soddisfarli,come ci serviamo dellemonete per comprare il ciboquandoabbiamofame.Nonèuncompitodifficileinsegnarea Venerdí le parole persoddisfare i suoi bisogni.Nessuno ci chiede ditrasformarloinunfilosofo.

–VoiparlatecomeparlavaCruso, signor Foe, quandoinsegnò a Venerdí prendi escava.Ma, comenon ci sono

due tipid’uomo, l’inglese e ilselvaggio, cosí, tutto ciò cheurgenelcuorediVenerdínontroverà risposta in prendi oscava omela, e nemmeno innave o Africa. In lui ci saràsempre una voce chesussurrerà dubbi, a parole otramite suoni indefinibili,motivi,oancoravariazioniditoni.

– Se dedichiamo la nostravita a trovare caselle precise

per parole grandiose comeLibertà, Onore, Felicità,concordo con voi,passeremmo la nostraesistenza a scivolare,sdrucciolare, cercare, masempre invano. Sono parolesenza casa, viandanti simili apianeti, e basta. Ma voi,Susan,dovetechiedervi:comerubare la lingua a Venerdí èstato uno stratagemma damercanti di schiavi, non

potrebbe pur essere unostratagemma da mercantitenerloinsoggezione,mentrenoi cavilliamo sulle parole inuna disputa che sappiamoinfinita?

– Venerdí non è insoggezione piú di quanto losialamiaombranelseguirmiovunque. Non è libero, manon è in soggezione. Èpadrone di se stesso, per la

legge, e lo è dalla morte diCruso.

– Tuttavia, Venerdí visegue:non siete voi a seguirelui.Leparolecheavetescrittoe gli avete appeso al collodicono che è libero; ma chi,guardando Venerdí, cicrederà?

– Non possiedo schiavi,signor Foe. E prima dipensare: Parla proprio comechi possiede schiavi!, non

dovreste fare piú attenzione?Finché chiuderete le vostreorecchie a quanto dico,diffidandodiognimiaparolae considerandola una parolaavvelenata, di schiavitú, nonmi renderete forse lo stessoservizio che i mercanti dischiavihanno resoaVenerdírubandoglilalingua?

– Non vi ruberei mai lalingua, Susan. Lasciatelo qui,Venerdí, oggi pomeriggio.

Andateafareunapasseggiata.Prendete una boccata d’aria.Andate a vedere le bellezzedellacittà.Iopurtropposonorinchiusoquadentro.Siate lamia spia. Tornate a riferirmicomevailmondo.

Cosí andai a fare unapasseggiata, e nel trambustodelle strade cominciai aritrovare il buonumore. Misbagliavo, lo sapevo, aimputare a Venerdí il mio

stato. Pur non essendo unoschiavo, non era comunqueprigioniero impotente delmio desiderio di sentirraccontare la nostra storia?Che differenza c’era tra lui eunodeiselvaggiindioschegliesploratori riportano con sé,in mercantili carichi diparrocchetti, idoli d’oro,indaco e pelli di pantera, perdimostrare di essere stativeramente nelleAmeriche? E

Foe non poteva essereanch’egli una specie diprigioniero? Avevo pensatoche fosse un procrastinatore.Ma la verità non era inveceche in tuttiquestimesiavevafaticatoperspostareunmassocosípesantechenessunuomoavrebbe saputo smuovere? Ele pagine scaturite dalla suapenna, piuttosto che oziosiracconti di cortigiane egranatieri comecredevo,non

potevano essere la stessastoria, una versione dopol’altra, ogni volta abortita: lastoria dell’isola, uscita senzavita dalla sua mano comedallamia?

– Signor Foe, – dissi, –sonogiuntaaunarisoluzione.

Ma l’uomo seduto altavolo non era Foe. EraVenerdí, con indosso le vestidi Foe e la parrucca di Foe,sudicia come il nido di un

uccello, sulla testa. Nella suamano,sospesasopraifoglidiFoe, c’era un pennino conuna goccia luccicante diinchiostro nero sulla punta.Lanciai un grido e balzai inavanti per strappargliela. Mainquelmomento,dallettosulquale era steso, parlò Foe. –Lasciatelo fare,Susan,–dissecon voce stanca, – staprendendo confidenza con isuoi strumenti, fa parte

dell’imparareascrivere.–Mavi imbratterà i fogli, –esclamai. – I miei fogli sonogià abbastanza imbrattati,nonpotrà certopeggiorare lecose, – ribatté. – Venite asederviaccantoame.

CosísedettiaccantoaFoe.Nellaspietatalucedelgiorno,non potei non notare lelenzuola luridesullequalierasteso, le unghie lunghe e

sudicie, lepesantiborsesottogliocchi.

– Una vecchia puttana, –disse Foe, come leggendominel pensiero. – Una vecchiaputtana che dovrebbesvolgereisuoicommercisolonell’oscurità.

– Non dite cosí, –protestai. –Ricevere le storiealtruierestituirlealmondoinuna veste migliore non vuoldire prostituirsi. Se non ci

fossero gli autori a svolgeresimili compiti, il mondosarebbe assai piú povero.Dovrei forse darvi dellaputtana per avermi accolto abraccia aperte, e per averascoltatolamiastoria?Voimiavete dato una casa quandononl’avevo.Pensoavoicomeaun’amante,oaddirittura,semièconcessousarelaparola,comeaunamoglie.

– Prima che vi dichiariate

troppo apertamente, Susan,aspettatedivederequalifruttidarò. Ma siccome stiamoparlando di generare unfiglio, non è forse venuto ilmomento di dirmi la veritàsullavostradifiglia,perdutaaBahia?L’avetedavveromessaalmondo? È una creatura incarne e ossa, o è anch’essaunastoria?

– Risponderò, ma nonprima che voi mi abbiate

detto una cosa: la fanciullache avetemandato dame, lafanciulla che porta il mionome,èunacreaturaincarneeossa?

– Voi la toccate, laabbracciate, la baciate.Avrestemaiilcoraggiodidirechenonèincarneeossa?

–Certocheloè,comeloèmia figlia e lo sono io; e losietepurevoi,népiúnémenodinoi.Siamotuttivivi,siamo

tutti in carne e ossa, siamotuttinellostessomondo.

– Non avete menzionatoVenerdí.

Mi voltai verso Venerdí,ancoraoccupatoascrivere. Ilfoglio davanti a lui era tuttomacchiato, come da unbambinononabituatoausarela penna, ma c’era anchescritto qualcosa, una sorta discrittura,fileefiledio strettel’una all’altra. Una seconda

pagina era posata accanto algomito, piena da cima afondo,identica.

–Venerdístaimparandoascrivere?–chieseFoe.

– Sta scrivendo, in uncerto senso, – dissi. – Stascrivendolaletterao.

–Èun inizio,–disseFoe.–Domanidovreteinsegnarglilaa.

Partequarta

La scala è buia e sordida.Sul pianerottolo inciampo inuncorpo.Nonsimuove,non

emetteunsuono.Allalucediun fiammifero,distinguounadonna o una ragazza, i piedicoperti da un lungo vestitogrigio, lemaniripiegatesottoleascelle;oforsegliartisonocorti in modo innaturale, gliartirattrappitidiunapersonastorpia? Il viso è avvolto inuna sciarpa di lana grigia.Comincio a toglierla, ma èsenza fine. La testa ciondola.

Ladonnanonpesapiúdiunsaccodipaglia.

La porta non è chiusa achiave. Dall’unica finestra, ilchiaro di luna invade lastanza. Sul pavimento, unozampettare rapido, untopolinoounratto.

Sono distesi l’uno accantoall’altra sul letto, senzatoccarsi. Sotto la pelle tesa,secca come carta, siintravedonoleossa.Lelabbra

si sono ritratte lasciandoscoperti i denti, cosí chesembranosorridere.Gliocchisonochiusi.

Tiro via le copertetrattenendo il fiato,aspettandomi scompiglio,polvere,putrefazione,maessiriposano composti, lui incamicia da notte, lei incamiciola. C’è persino untenueodoredilillà.

Al primo strattone, la

tenda davanti all’alcova sistrappa. Nell’angolo è buiopesto, e nell’aria di questastanza i fiammiferi non siaccendono. In ginocchio, atentoni, trovo Venerdísupino.Glitoccoipiedi,duricomeillegno,poirisalgofinoalvisolungolastoffamorbidae pesante in cui è avvolto ilcorpo.

Sebbene la pelle sia calda,devo fare vari tentativi per

trovare la vena nel collo.Pulsa appena, come se ilcuore battesse in un postolontano.Gli tiro leggermentei capelli. Sono davvero similialanad’agnello.

Ha i denti serrati. Vipremo un’unghia in mezzo,cercandodischiuderli.

Mi stendo per terra afaccia in giú accanto a lui;nelle narici, un puzzo dipolverestantia.

Dopo molto tempo, tantoche avrei potutoaddormentarmi, lui simuovee sospira, poi si volta su unfianco. Il rumore che vienedalsuocorpoètenueesecco,comedi fogliechecadonosualtre foglie. Alzo una manoverso il viso. I denti sischiudono. Premo di piú, econ un orecchio sulla boccaaspetto.

All’inizio non succede

nulla. Poi, quando riesco aignorare il battito del miocuore, in lontananzacomincio a sentire un tenuemugghio: come ha detto lei,«il mugghiare delle onde inuna conchiglia»; e, sopra,simile a una corda di violinosfiorata una volta o due, ilgemitodelventoe ilgridodiunuccello.

Premo ancor di piú perascoltare altri suoni: il

cinguettiodeipasseri,iltonfosordo di una gravina, ilrichiamodiunavoce.

Dalla sua bocca, senza unrespiro, escono i suonidell’isola.

Su un angolo della casa,all’altezza della testa o pocosopra,c’èunatargasulmuro.DanielDefoe,scrittore:questeleparole,inbiancosusfondoblu; c’è scritto anche

qualcos’altro, ma troppo inpiccoloperriuscirealeggerlo.

Entro. Sebbene sia unluminoso giorno d’autunno,la luce non pervade questimuri. Sul pianerottoloinciampo nel corpo, leggerocome paglia, di una donna ouna ragazza. La stanza è piúbuia di prima, ma,muovendomia tentoni lungolamensola del camino, trovounmozziconedicandelae lo

accendo. Brucia con unafiammadiunazzurrospento.

Iduenel lettosonodistesifaccia a faccia, la testa di leinell’incavodelbracciodilui.

Venerdí, nell’alcova, èvoltato verso la parete.Intorno al collo – primanonl’avevo notato – c’è unacicatricesimileaunacollana,lasciata da una fune o unacatena.

Il tavolo è sgombro, non

fosse per due piatti polverosie una brocca. Sul pavimentoc’è una cassettaportadocumenti con perni efibbie di ottone. La poso sultavolo e la apro. Il foglio incima, ingiallito, si sbriciolasotto il pollice in unamezzalunadaicontorninetti.Avvicinandolacandela,leggoleprimeparolediunagrafiaalettere alte e tondeggianti:

«Caro signor Foe, alla finenonriusciipiúaremare».

Con un sospiro,sollevando appena qualchespruzzo,scivolonell’acqua.Inbaliadellacorrente,labarcasiallontana beccheggiando,trascinataasud,versoilregnodelle balene e dei ghiaccieterni. Intorno a me, sulleacque, ci sono i petali gettatidaVenerdí.

A grandi bracciate mi

dirigo verso le cupe scoglieredell’isola, ma qualcosa dilento e pesante mi tasta unagamba,qualcosamiaccarezzail braccio. Sono nel vastobanco di alghe: le fronde silevanoericadonocoiflutti.

Con un sospiro, senzaquasi uno spruzzo, infilo latesta sott’acqua. Calandomi,unamanodopo l’altra, lungoglisteli,discendo,conipetaliche galleggiano intorno ame

similiaunapioggiadifiocchidineve.

Lascuramassadelrelittoèpunteggiata qua e là dibianco.Èenorme,piúgrandedel leviatano: uno scafospoglio di alberi, spaccato indue, fiancheggiato sui lati dabanchidisabbia.Ilfasciameènero,ilforod’ingressoancorapiú nero. Se il kraken èappostato da qualche parte,dev’essere qua, e dagli abissi

marini scruta con occhi dipietra,socchiusi.

Intorno ai miei piedi sisollevanomulinelli di sabbia.Non ci sono sciami dipesciolini dai colori vivaci.Entronelforo.

Sono sottocoperta, lamurata di sinistra della navesotto i piedi, e avanzo atentoni lungo bagli emontanti fradici al tatto. Houn mozzicone di candela

appeso a un cordino intornoal collo. Lo tengo davanti ame come un talismano,sebbenenonfaccialuce.

Qualcosa di morbido miostruisce il passo, forse unosqualo, uno squalo mortoricoperto di carnosi fiori dimare, o il corpo di unguardiano avvolto in unastoffa marcescente, rigirataattorno piú volte. A carponipassooltre.

Nonavreimaipensatocheilmarefossetantosporco.Mala sabbia sotto le mani èsoffice, umida, melmosa,fuoridal flussodellecorrenti.ÈcomeilfangodelleFiandre,in cui giacciono generazionidi granatieri, calpestati nellapostura del sonno. Serimango immobileperpiúdiun secondo, comincio adaffondare,apocoapoco.

Arrivo a una paratia e a

unascala.Ilportelloincimaèchiuso; ma, quando viappoggio contro una spalla espingo, ilmuro d’acqua cedeepossoentrare.

Nonèunbagnopubblico.Nello spazio nero di questacabina l’acqua è immobile emorta, la stessa acquadi ieri,dell’anno scorso, di trecentoanni fa. Susan Barton e ilcapitano morto, grassi comemaialinellelorobianchevesti

notturne, gli arti che sistendono rigidi dal torso, lemani,raggrinziteperlalungaimmersione, tese in segno dibenedizione, galleggianocome stelle contro il tettobasso.Strisciosottodiloro.

Nell’angolo piú lontano,sottol’arcaccia,mezzosepoltonella sabbia, con leginocchiatiratesu, lemanitra lecosce,c’èVenerdí.

Gli tiro i capelli lanosi,

tasto la catena intorno allagola.–Venerdí,–dico,cercodi dire, inginocchiandomisopra di lui, affondando lemani e le ginocchia nellafanghiglia, – cos’è questanave?

Maquestononèunluogodi parole. Ogni sillaba,mentre esce, viene catturata,si riempie d’acqua e sipropaga. È un luogo in cui i

corpi sono segno di se stessi.ÈlacasadiVenerdí.

Lui si gira e rigira, finchénon giace completamentedisteso, la faccia davanti allamia. Sotto la pelle tesa siintravedono le ossa, le labbrasi sono ritratte. Passoun’unghia tra i denti,cercandoditrovareunvarco.

Laboccasiapre.Dadentroesce un flusso lento, senzafiato, ininterrotto. Risale il

suo corpo e fuoriesce su dime; attraversa la cabina,attraversailrelitto; lambendolescogliereelerivedell’isola,scorreversonordeversosudai due capi della terra.Morbido e freddo, oscuro esenza fine,mibatte contro lepalpebre, contro la pelle delviso.

T

Il libro

RADUZIONE DI

FrancaCavagnoli.

«A lente bracciate,

con i lunghi capelli che mifluttuavanointorno,comeunfiore di mare, come unanemone, come unamedusadi quelle che si vedono nelleacque del Brasile, nuotaiverso l’isola sconosciuta; perun poco nuotai come avevoremato, controcorrente, poi,d’un tratto, libera, mi lasciaitrasportare dalle onde findentro la baia e sullaspiaggia».

Un’isolachenonriescepiúaevocareilfascinodellamiticaisola di Robinson Crusoe.Unanaufraga tratta in salvo,SusanBarton,che siostinaacercare uno scrittore capacedi raccontare la sua verastoria e quella dei suoi duecompagni. L’enigmaticoCruso, che in quell’isolafinisce i suoi giorni, e il suoschiavo Venerdí, cui

qualcuno ha mozzato lalingua costringendolo alsilenzio. Uno scrittore, Foe,chiamato a dare vita a quelmondo perché non cadanell’oblío, condannato amutainsignificanza.Coetzee reinventa la vicendadi Robinson Crusoepuntando lo sguardo sullanarrazione, arte tirannica,mistificatoria, e perònecessaria.

L’unica salvezza nell’oscurodisegnodellavita.

L’autore

J. M. Coetzee è nato inSudafrica e attualmenteviveinAustralia.

Di lui Einaudi ha

pubblicato: Vergogna,Aspettando i barbari, Lavita e il tempo di MichaelK, Infanzia, Gioventú,Terre al crepuscolo, Nelcuoredel paese, Il MaestrodiPietroburgo,Etàdiferro,Slow Man, Spiaggestraniere, Diario di unanno difficile, Lavori discavo. Saggi sullaletteratura 2000-2005,Tempod’estate,Doppiareil

capo, L’infanzia di Gesú eQui e ora, il carteggio conPaul Auster. Nel 2003 èstato insignito del PremioNobelperlaLetteratura.

Dello stessoautore

AspettandoibarbariVergogna

Infanzia.Scenedivitadiprovincia

LavitaeiltempodiMichaelKGioventú.Scenedivitadiprovincia

TerrealcrepuscoloElizabethCostelloNelcuoredelpaese

IlMaestrodiPietroburgoSlowMan

Spiaggestraniere.Saggi1993-1999Etàdiferro

DiariodiunannodifficileLavoridiscavo.Saggisulla

letteratura2000-2005Tempod’estate

Doppiareilcapo.SaggieintervisteL’infanziadiGesù

Quieora(conPaulAuster)

TitolooriginaleFoe©1986J.M.Coetzee

byarrangementwithPeterLampackAgencyInc.,551FifthAvenue,suite1613,NewYork,

NY10176-0187Usa©2005e2007GiulioEinaudieditores.p.a.,

TorinoIncopertina:foto©BillHatcher/National

Geographic/GettyImages.Progettografico:46xy.

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EbookISBN9788858420133