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Page 1: Alias supplemento del Manifesto 16/04/2011

ULTRAVISTA: BROADWAY: THE BOOK OF MORMON • WERNER SCHROETER • CHIPS&SALSA: IL JUKEBOX DIGITALE • ULTRASUONI: JAZZ , LE REGOLE PER IMPROVVISARE • TALPALIBRI: GALLANT • SUDAFRICASUDAFRICA • STRAND • BIERMANN • XII SECOLO • VIAGGIO IN INDIA • ANSALDO • MANGANELLI • GRASSO • GIACOPINI

SUPPLEMENTO SETTIMANALE DE «IL MANIFESTO»

SABATO 16 APRILE 2011ANNO 14 • N. 15

sporcoColonnello

CANTA IL RAPPER LIBICO IBN THABIT, E AGGIUNGE «DICONO CHE LA LIBIA NON È COME TUNISIA E EGITTO. È VERO. I MARTIRI SONO DI PIÙ. LA DISOCCUPAZIONE È PIÙ ALTA.

I POVERI SONO PIÙ POVERI». ESCONO DALLA CLANDESTINITÀ I MUSICISTI SOPRAVVISSUTI ALLA CACCIA ISLAMISTA

E I CINEASTI «SEDIZIOSI»: KHALED M, EL GENERAL, SHAM MC’S, RAMY ESSAM, OURRAD RABAH,

MASSIVE SCAR ERA, IBRAHIM EL BATOUT...

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di Guido Mariani

Chi è Ibn Thabit? Non ha un volto,non c’è nessuna fotografia che lo ritragga. IbnThabit ha un logo, un graffito dove si incrocianodue pistole mitragliatrici, ha un sito web (ibntha-bit.net), un account Twitter, un canale su YouTu-be e soprattutto ha una voce. Ibn Thabit è un rap-per libico che con le sue canzoni diffuse tramiteil web sta raccontando, quasi giorno per giorno,la guerra civile in Libia e sta incitando i giovaniad armarsi contro Muammar Gheddafi, quelloche lui chiama in un brano lo «sporco Colonnel-lo». Sono pochi i dati che concede alla sua biogra-fia.

«Attacca Gheddafi con la sua musica dal 2008- recita il suo profilo -. Non ha mai fatto parte dialcun gruppo politico. È solo un cittadino libicoche dà voce ai pensieri di tanti ragazzi. Deve ri-manere anonimo per proteggersi e proteggere lasua famiglia e non vuole diffondere nessuna in-formazione personale».

Nelle sue canzoni esprime la rabbia e il deside-rio di rivolta: «Giuro su Allah, che ha creato me evoi e te Muammar/La tua fine, lo giuro, è vici-na», canta nel brano El soaal (La domanda). Sha-bab Lybya (Gioventù Libia) è dedicata ai giovanilibici, la ricetta musicale è semplice, ma le parolesono di fuoco: «Dicono che la Libia non è comela Tunisia e l’Egitto/È vero. I martiri sono di piùdi quelli caduti in Tunisia e Egitto/La disoccupa-zione è più alta che in Tunisia e Egitto/ I poverisono di più che in Tunisia e Egitto (…) Questo èil nostro paese, questo è il nostro tempo/lasciateche guardino la nostra rabbia/Ho un messaggioper voi, questa è la possibilità che sognavamo/per vivere stando in piedi e non sulle nostre gi-nocchia». Le sommosse che stanno scuotendo ilmondo arabo hanno come riferimento un mon-do musicale ricchissimo e variegato che è lospecchio di una situazione complessa e non pri-

va di contraddizioni anche pericolose, ma cheesprime, meglio di tante analisi, quello che staaccadendo da un punto di vista genuino e nonimmediatamente omologabile. Ibn Thabit è unartista clandestino, cresciuto in una dittatura op-pressiva che sta affrontando una tragica e chissàquanto sanguinosa parabola finale. Una dellesue ultime canzoni, diffusa su internet, è LibyanWarrior Song, rap di incoraggiamento ai resisten-ti. Lì Thabit incita i giovani libici a combatterecontro il dittatore. «La scelta - ha scritto su unpost di Twitter - era tra Gheddafi che uccidevamilioni di libici o gli stranieri che colpivano lasua potenza di fuoco. Una scelta difficile? Se nonavete vissuto sotto il regime di Gheddafi, dovetestare zitti. Qualsiasi cosa è meglio di Gheddafi!».

Khaled M è un altro rapper libico. Vive a Chi-cago, ma suo padre Fathi il regime di Gheddafilo conosceva bene; era un oppositore del regimeed è stato incarcerato, torturato e condannato amorte prima di fuggire e rifugiarsi negli Stati Uni-ti. Ora Khaled M unisce il rap all’attivismo politi-co. Il suo sito internet Feb 17th (feb17.info) ricor-da il «giorno della collera» da cui è nata la rivoltacontro il Colonnello ed è diventato un’importan-te voce di propaganda per i giovani che voglionosapere quanto sta accadendo in Libia. «Pensoche l’hip-hop - ha detto - sia un mezzo per infor-mare la gente che normalmente non sarebbe alcorrente di quello che accade». È il motivo percui un altro libico americano, Abdulla Darrat,ha creato la compilation Khalas Mixtape vol. 1.Darrat guida un’organizzazione di esuli libicichiamata Khalas («Basta!», il sito web è enough-gaddafi.com) nata in occasione del discorso te-nuto da Gheddafi alle Nazioni Unite nel 2009. Al-l’esplodere delle manifestazioni in Nord Africa ein medio Oriente ha notato come un filo condut-tore delle proteste fosse proprio la musica rap ecome questo genere fosse la colonna sonora, maanche la cronistoria, di quello che stava accaden-do. La raccolta, che è possibile scaricare dal web,mostra come la tradizione poetica nordafricanasia confluita in una forma musicale espressivamoderna. Non a caso il disco si apre con un pro-tagonista assoluto della rivolta tunisina che hadato il benservito al presidente Ben Ali dopo ven-titré anni di governo. Si chiama Hamada BenAmor, il suo nome da rapper è El General ed ènato un anno dopo l’inizio del potere del presi-dentissimo e, anche anagraficamente, è l’emble-ma di una generazione che non ha mai potutoassistere a un’alternanza nel potere politico. È fi-nito nell’occhio del ciclone per due canzoni: Tou-nes Bladna («La Tunisia è il nostro paese con lapolitica o con il sangue/la Tunisia è il nostro pae-se e i suoi uomini non si arrendono mai/la Tuni-sia è il nostro paese, mano nella mano, tutta lagente/la Tunisia è il nostro paese, oggi non ab-biamo ancora trovato pace» ) e Rais Lebled («Si-gnor presidente viviamo come cani (…) il tuo po-polo sta morendo (…) c’è gente che mangia dal-la spazzatura/parlo senza paura anche se so cheandrò incontro a guai»). Quest’ultimo brano gli ècostato un arresto nei primi giorni dell’anno. Mala canzone è diventata immediatamente un in-

no dei giovani scesi nelle piazze e la prigionia del rapper è stata uno degliultimi atti del regime di Ben Ali che è finito il 14 gennaio quando il leaderha scelto la strada dell’esilio.

El General è stato additato dai media mondiali come il simbolo dei ragaz-zi occidentalizzati che nutrono le rivolte del mondo arabo. Non è esatta-mente così, in realtà nelle sue canzoni vive pure il lato oscuro di questesommosse: l’estremismo religioso. Nel brano Allah Akbar critica un mon-do in cui «gli ebrei regnano da est a ovest e gli arabi sono gli schiavi» e inalcuni passaggi rivivono gli slogan delle frange islamiche più oltranziste:«Sono pronto ad attraversare il confine e a sacrificare il mio sangue (…)/Og-gi dichiaro guerra contro chi rifiuta l’Islam e chi ci ha insultato e umiliato/La bandiera dell’Islam verrà sempre per prima». Il connubio tra Islam e rapnon deve sorprendere, anzi fa parte del dna della musica hip-hop. Negli an-ni ’80 i rapper Usa di quella che oggi è chiamata old-school erano vicini alla

religione musulmana, avevano come elementoidentitario l’orgoglio per le proprie origini e siispiravano al messaggio di Malcolm X, profetadell’Islam statunitense. Uno dei brani fondamen-tali nella storia del rap Bring the noise dei PublicEnemy esaltava la figura di Louis Farrakhan di-scusso leader del movimento Nation of Islam.

Tra i membri del gruppo c’era Professor Griffche fu allontanato dalla formazione dopo una se-rie di dichiarazioni estremiste e apertamente anti-semite. Molti altri rapper si sono avvicinati neltempo all’islamismo, tra i più noti Ice Cube, Q-tip,Nas, e Rza. È facile quindi capire perché l’hip-hop, forse meglio di altri generi, sia riuscito a farebreccia in giovani che contestano lo status-quo,ma non i fondamenti della loro cultura religiosa.

Uno dei pionieri del rap nordafricano si chia-ma Ourrad Rabah, algerino, è stato alla guidadella formazione Le Micro Brise Le Silence(Mbs) che ha iniziato la propria attività ad Algerinegli anni ’90 proprio nel cuore di una sanguino-sissima guerra civile in cui i musicisti erano tra ibersagli. Nel corso di un conflitto spietato traesercito e terroristi islamici, il genere musicale lo-cale di maggior popolarità, il raï, venne di fattomesso a tacere da una serie di omicidi eccellenti.Cantanti di rilevanza nazionale come Cheb Aziz,Cheb Hasni, Lila Amara, Lounes Matoub e ilproduttore Rachid furono tutti uccisi da fazioniestremiste lasciando agli artisti superstiti solo lascelta di emigrare in Francia, come fece l’espo-nente universalmente più famoso del genere,Cheb Khaled. Il rap divenne così uno dei pochilinguaggi rimasti ai giovani, per gli Mbs l’ispira-zione e il coraggio vennero dai versi di un’altravittima del terrorismo, lo scrittore Tahar Djaoutche poco prima di morire aveva scritto: «Il silen-zio è morte/e se parli muori/ma se stai zittomuori/così parla e muori».

Rabah conosce quindi bene il connubio trapolitica e musica tanto che nel 1999 improvvisòperfino una finta campagna presidenziale perlanciare il suo album Rabah Président.

«Il settantacinque per cento della popolazio-ne dell’Algeria - ha dichiarato in occasione degliavvenimenti di queste settimane - è compostoda giovani. Con così tanti ragazzi dovrebbe esse-re possibile costruire un paese meraviglioso. Manon sta accadendo. Al contrario. I giovani lavora-no tantissimo, ma lottano per sopravvivere. Cisono laureati che sopravvivono facendo i came-rieri. La differenza tra la nostra generazione dirapper e quella di oggi è che noi venivamo da fa-miglie benestanti, i rapper di oggi invece parla-no il linguaggio duro della strada, ma non eti-chetterei per questo le loro canzoni come mega-fono dell’integralismo e del terrorismo».

La paura dell’integralismo è forse una delle ra-gioni per cui il presidente egiziano Hosni Muba-rak ha potuto contare per tanti anni sull’appog-gio occidentale e consolidare un regime autocra-tico che si è concluso lo scorso 11 febbraio dopogiorni di dimostrazioni, rivolte e scontri. L’ani-ma della protesta egiziana è stata (e continua adessere) piazza Tahrir al Cairo. La giovane comu-nità artistica era in prima linea e ha pagato unprezzo molto alto. Il musicista Ahmed Basiony

Qui accanto i tre Arabian Knightz.Sopra, a sinistra, Ramy Essam mostrai segni della tortura. Sottoun’immagine da piazza Tahrir,la copertina di «Khalas Mixtapevol. 1», il logo di Ibn Thabite un dimostrante egiziano. A destraun sito anti Gheddafi e dall’altoin basso: un lenzuolo ricorda AhmedBasiony, Ourrad Rabah, Khaled M,El General e gli Sham Mc’s

AFRICA IN FIAMME

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«Il ManifestoDIRETTORE RESPONSABILENorma RangeriVICEDIRETTOREAngelo Mastrandrea

AliasA CURA DIRoberto Silvestri

Francesco Adinolfi(Ultrasuoni),Federico De Melis,Roberto Andreotti(Talpalibri)ConMassimo De Feo,Roberto Peciola,Silvana Silvestri

REDAZIONEvia A. Bargoni, 800153 - RomaInfo:ULTRAVISTAfax 0668719573ULTRASUONIfax 0668719573TALPA LIBRItel. 0668719549e [email protected]:http://www.ilmanifesto.it

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è stato ucciso in uno dei primi giorni delle prote-ste, Ziad Bakir artista figurativo che lavorava perla Cairo Opera House è scomparso improvvisa-mente dopo una dimostrazione e il suo cadavereè stato trovato con ferite d’arma da fuoco. Neiconcitati giorni della rabbia contro il regime lamusica ha tenuto compagnia, ha scaldato i cuo-ri, ha scandito slogan e ha dato sfogo a ideali easpirazioni. Un corrispondente della Bbc ha rac-contato come un anziano interprete di canzonidi protesta si sia esibito accanto a giovani rapperimprovvisando un duetto tra generazioni uniteda un’unica lotta. L’Egitto ha una scena musica-le molto composita. Se il genere più popolare èun pop innocuo chiamato al jeel imbevuto di so-norità folk arabe, al di sotto si muove una scenaalternativa che può contare su artisti d’avanguar-dia (uno di questi era proprio Ahmed Basiony),rapper, rock band, e persino una discreta frangiametal che è sopravvissuta nonostante una fatwadel mufti Nasr Farid Wassel e una severa censu-ra di regime motivata da accuse di satanismo.Questo sottobosco è emerso in occasione dellaprotesta di massa. Così una delle maggiori popstar locali Amr Diab, una sorta di Eros Ramazzot-ti egiziano, vista la sua vicinanza e amicizia conMubarak ha preferito trasferirsi, o meglio fuggi-re, in Inghilterra, mentre nella piazza e sul web sisono moltiplicati canti e inni di protesta. La can-zone Sout Al Horeya (Voce della libertà) di HanyAdel è diventata una delle instant-song più po-polari dedicate alla rivolta del Cairo. Ramy Es-sam, un giovane studente di ingegneria, ha scan-dito con la sua chitarra gli slogan contro Muba-rak, le sue esibizioni sono diventate subito un fe-nomeno su YouTube ed è stato definito il BobDylan della rivoluzione. Il rapper RamyDonjewan nel brano Zed-ul Hokumah ha usatotoni molto duri e messo in rima gli umori della

folla: «Sono contro il governo, contro l’ingiustizia/Abbasso la legge, abbasso i gover-nanti/Abbasso il traditore». Gli Arabian Knightz sono una delle formazione più mo-derne della scena rap maghrebina, usano spesso l’inglese nelle loro canzoni campio-nando voci femminili come farebbe Jay-Z; anche per loro le sommosse del Cairo so-no stata fonte di ispirazione con brani come Rebel, che utilizza un sample di LaurynHill, e Not Your Prisoner con la voce della cantante palestinese Shadia Mansour. Perquest’ultimo brano hanno collaborato a distanza con il dj e produttore arabo-ameri-

cano Fredwreck.Sui palchi improvvisati di piazza Tahrir si so-

no così alternati musicisti improvvisati, agitato-ri, capi religiosi, artisti di fama e si attendevaanche l’arrivo dalla Tunisia di El General, cheperò non è riuscito ad avere i permessi per usci-re dal suo paese. A poco più di un mese dalla fi-ne del regime, al Cairo si è svolto un festival me-tal chiamato Metal blast: revolution generationin cui giovani rock band hanno festeggiato ilcambiamento. «Cari egiziani - recitava l’invito al-l’evento - questo è il nostro tempo, è il momentoche i giovani si facciano avanti. L’abbiamo fattoattraverso proteste pacifiche, lo faremo ancora».Tra le band salite sul palco anche un gruppo me-tal femminile, le Massive Scar Era il cui atteggia-mento aggressivo sicuramente va anche al di làdelle aspirazioni di libertà di una parte del popo-lo di piazza Tahrir. La sfida per questi artisti ver-rà proprio ora, Mubarak sarà anche fuggito, male autorità religiose e militari ci sono ancora. Inche misura potranno influenzare il comporta-mento dei giovani è una delle incognite di un de-licato processo di transizione. Non è confortantein questo senso la notizia che lo scorso 15 mar-zo, a più di un mese dalle dimissioni del Presi-dente, Ramy Essam sia stato arrestato e picchia-to dalle forze di sicurezza. Allo stesso tempo col-piscono le recenti notizie degli scontri al Cairo(due vitime) tra manifestanti e esercito.

«Ho paura che rischiamo di perdere quelloche abbiamo guadagnato», ha dichiarato dopol’aggressione. Ma i giovani non si fermano e ani-mano le piazze anche del Medio Oriente. A Ma-nama in Bahrein lo scorso 16 marzo cinque ma-nifestanti sono rimasti uccisi e centinaia sonostati feriti nel corso di nuovi scontri. Nelle piaz-ze, in subbuglio da più di un mese, tra le invoca-zioni ad Allah e quelle contro il re, si è intonataanche la canzone Rais LeBled di El General. In Si-

ria il settanta per cento della popolazione ha me-no di trent’anni e si sente esclusa. La prima for-mazione rap del paese è un collettivo di artistichiamato Sham Mc’s che ha pubblicato nel set-tembre del 2009 l’album Crossroads. Uno degliesponenti del gruppo, Hosam Essa, «ha spiegatoalla tv araba al-Jazeera come sia stat«o difficilefar capire che il rap non è un genere musicale fi-lo-americano e far entrare nuove idee nella cultu-ra siriana. «Una canzone del nostro album - hadetto - si intitola Contro la corrente: andiamocontro l’idea di tutti quelli che odiano il rap per-ché è un modello culturale occidentale».

Gli spazi di libertà sono davvero pochi, lo sta-to siriano è da più di quattro decenni sotto leggemarziale, un famigerato decreto del 2001 è undraconiano cappio legato al collo di ogni organodi stampa e permette al governo di controllareogni notizia che viene diffusa. Di fronte alle con-tinue manifestazioni in diverse città, alcune an-che con morti e feriti, il governo si è dimesso e ilpresidente Bashar al-Assad ha annunciato unpacchetto di riforme, le proteste però non sem-brano attenuarsi e a Daara, 100 km a sud di Da-masco, la repressione è stata sanguinosa con de-cine di morti. La mappa delle manifestazioni si èestesa allo Yemen, all’Oman, alla Giordania, al Li-bano, tutti paesi in cui i ragazzi sono più di metàdella popolazione e questo può fare la differen-za. Come si avverte in quelle canzoni di speran-za, di rabbia e di preghiera con cui una nuova ge-nerazione ha cercato di rompere il silenzio.

L’hip hop è il genere musicale intorno a cui si stanno coagulando nel mondo

arabo rabbia, sogni e speranze di milioni di ragazzi. Alimentate da rapper

che con le loro canzoni rompono il silenzio e fanno tremare i regimi.

Scagliate contro Gheddafi o Mubarak. E intanto al Cairo rispunta il metal

In copertinai rapper egizianiArabian Knightz

■ REPORTAGE ■ THE MAGHREB & MASHREQ EXPERIENCE ■

Suonati dalla rivolta

ALIAS N. 15 - 16 APRILE 2011 (3

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■ INTERVISTE ■ IBRAHIM EL BATOUT E LA «NUOVA ONDA EGIZIANA» ■

Un cinema che suonauna musica differente

di Vincenzo MatteiIL CAIRO

Nel settembre 1985Ibrahim El Batout uscì dalla facoltàdi fisica dell'università americanadel Cairo. Sicuramente non si sareb-be aspettato di entrare a lavorarequasi immediatamente nel mondodella comunicazione, della tv e delcinema. È innegabile che dovevaavere una certa predisposizione nelDna per la cinematografia, più unasensibilità fuori dal comune per po-ter spiegare tutta la mole di lavoroche ha prodotto in seguito. Nella pri-ma parte della sua carriera è statocorrispondente in Bosnia, Kosovo,Etiopia, Guatemala e Iraq, girandodocumentari per emittenti tv euro-pee. Negli ultimi anni ha girato filma sfondo sociale che descrivono unEgitto dimenticato dalle banali rap-presentazioni ufficiali.

Ciò che contraddistingue i filmdi El Batout sono le inquadratureche ricordano il neorealismo italia-no, abbinato a un tocco noir che ri-corda un certo tipo di cinema fran-cese. L'accostamento al periodod'oro del cinema italiano non è for-zato, poiché l'uso della gente di stra-da gli permette di cogliere le sfuma-ture e la tipica mimica degli egizia-ni. Non è un cinema prefabbricatoquello di El Batout, o soggetto allapropaganda di regime, come certoneorealismo nasseriano panaraboanni ‘50 e ‘60. Sotterraneamente ilsuo è un cinema di denuncia, malin-conico e drammatico che ha la ca-pacità di smuovere alcune parti del-l'animo umano, a prescindere dal-l'estradizione sociale di ognuno.

Si scoprono tratti autobiograficidello stesso regista nel primo filmIthaki, caratterizzato da un raccon-to amaro, forse voglioso di ingloba-re troppi concetti e sfaccettaturedell'Egitto contemporaneo. Essen-do la prima opera è un difetto chegli si può concedere.

Si ritrova un Ibrahim El Batoutpiù maturo in Ein Shams (L'occhiodel sole), in cui unisce l'esperienzaacquisita durante gli anni di lavoronei documentari (nello specificoquelli in Iraq) e la profonda cono-scenza della realtà egiziana: le mani-polazioni elettorali e la corruzionedei candidati, l'inquinamento dellefalde acquifere metropolitane, l'usosconsiderato di antibiotici per l'alle-vamento industriale del pollame…la mancanza di regole in ogni aspet-to della vita di tutti i giorni. Tuttocondito con la storia struggente diShams, una bambina di 11 anni icui genitori scoprono essere malatadi leucemia. Shams ha un unico de-siderio: poter vedere il centro delCairo, ben rappresentato nei filmcommerciali della tv di cui la bambi-na è affascinata: palazzi che ostenta-no una ricchezza di facciata, gli stes-si costruiti dai colonialisti europeiall'inizio del secolo scorso su unpezzo di deserto che nei decenni èdivenuto il centro della città. Il filmscivola sul contrasto tra una perife-ria lontana e un centro storico a suavolta fatiscente (come Ibrahim conarguzia riesce a svelare), che solol'immaginario di una bambina puòfar tornare agli antichi splendori delsecolo passato, e sul coraggio rasse-gnato di un padre che carica la bam-bina sul suo taxi per il primo (e an-che l'ultimo) viaggio tra le stradesurrealisticamente deserte del cen-tro della capitale. Il film è una poe-

sia triste che catapulta nella realtà romantica espietata del Cairo.

In Hawi (2010), ambientato ad Alessandria, ElBatout sapientemente descrive attraverso la suapoesia filmica i traumi della società egiziana. L'ac-centuazione dei colori nel film fa sembrare le sce-ne come fossero delle mostre di arte contempora-nea, come sospese, in una fissità ricercata. L'in-treccio della trama è una denuncia palese dellacorruzione imperante nell'apparato di polizia egi-ziano e della sua spietatezza nell'eliminare figurescomode, un'anticipazione di quello che la rivolu-zione avrebbe scoperchiato e mostrato.

Ibrahim El Batout ha lavorato molti anni nelleemittenti televisive internazionali, iniziando co-me tecnico del suono, per divenire negli anni ca-meraman, editore e regista. Ha lavorato per l'in-glese Tv-am, per la tedesca Zdf, la giapponeseTsb e la francese Arte. I suoi documentari hannovinto diversi premi: l'Honorary Tsb (Giappone1991), l'Axel Spring Award (Germania 1994 e2000), l'Echo International Award (Eu 1996), RoryPeck (Inghilterra 2003), l'International Carthage(Tunisia 2008), il Golden Hawk (Rotterdam 2008)e il Golden Bull (Taormina 2008).

Alla domanda «Quali sono stati i film che piùhanno influenzato il tuo lavoro? E quali registi?»Ibrahim prende del tempo prima di rispondere,come se dovesse pesare bene le parole da usare:«Fare film è un'esperienza personale e in quantotale preferisco non essere influenzato, ma se vo-gliamo elencare gli autori che prediligo e che for-se hanno colpito maggiormente il mio immagina-rio filmico ce ne sono diversi: il polacco KrzysztofKieslowoski, il messicano Alejandro Inarritu, il te-desco Wim Werders, il bosniaco Emir Kusturica,gli egiziani Yussef Chahine, Shadi Abdel Salem ealtri ancora».

Nella presentazione clandestina di «EinShams» al Cairo, nel 2008, lo stesso annoche ha vinto il festival di Taormina, hai sot-tolineato che lavori senza sceneggiatura,come mai?

C'era un aspetto molto importante che ha segna-to questa scelta: la mancanza di soldi. Però esisteun'implicita verità: non mi piace fare un film pon-derando le scelte su un budget; l'importante èavere una telecamera, il personale, i luoghi giustie l'editing. In un certo senso, ciò non mi permet-te di avere controllo dei film nel senso classico.Nel cinema normale, bisogna con-trollare tutti i particolari: la minimabattuta, l'inquadratura, l'intensitàdella luce ... per me l'unico modoper fare film era, ed è, non averecontrollo, giocando con questa in-certezza.

Un'«incertezza ricercata»?Indubbiamente. Per me è fonda-mentale avere e ottenere che il filmabbia un emotianal flow, anche sequesto tipo di sentimento emozio-nale non è cinematograficamentecorretto; la correttezza non è lo sco-po che mi prefiggo di raggiungere.Non è importante che la recitazioneaderisca a un testo, ma che lo spetta-tore senta qualcosa nel momentoche assiste ad una scena, senza chedebba essere volutamente ricerca-ta. Molti esperti direbbero che neimiei film ci sono imperfezioni filmi-che, ma non è mia intenzione segui-re categoricamente le regole del ci-nema.

Quindi meno sceneggiatura epiù montaggio?

Certo, ha un ruolo assolutamentepredominante che, insieme all'edi-ting del suono, fa il resto del film.Scrivo per sommi capi la storia chela pellicola dovrà seguire, poi si fan-no riunioni con gli altri assistentiche mi aiutano durante le riprese,con gli attori e le comparse. Una vol-ta girato tutto il materiale di cui hobisogno, si va in studio e si lavora almontaggio.La scelta della musica (il lavoro del-la Massar Egbary Band nel caso

Hawi) è fondamentale, come lo èistruire al meglio i singoli attori suquel che voglio, ma questo accadesul set, dove gli attori scoprono la lo-ro parte di volta in volta. Questo midà la possibilità di essere più libero.

I tuoi film sono a forte impattosociale: l'alcolismo, il traumadel reduce di guerra, l'infibula-zione della donna, malattie dainquinamento, radiazioni post-belliche… questioni che moltagente vorrebbe volentieri na-scondere. Quali sono gli obiet-tivi che ti prefissi? Le esperien-ze nei documentari ti hanno in-fluenzato?

Certamente, ma tutti gli argomentianalizzati nei film sono sensazionimolto personali. Tutto quello cherappresento è qualcosa che sentoveramente e che ho conosciuto conmano, come il bombardamento del-l'Iraq nella prima guerra del golfocon missili all'uranio impoverito.

Ti potresti etichettare come unartista impegnato?

Non mi vedo come un artista, macome un individuo che è impressio-nato da quello che lo circonda e pos-siedo l'abilità di esprimerlo attraver-so i miei film, poiché lavoro comefilmmaker dall'età di 23 anni. Ilmondo intorno a noi non è giusto enon ha senso, come viviamo le no-stre vite, non ha senso. Queste sen-sazioni che avverto dall'esterno, sitramutano in migliaia di idee cheronzano per la mia testa: la loropressione è così forte che l'unicamaniera di farle uscire è attraverso ifilm, solo quando questi sono termi-nati mi sento pienamente libero e li-berato, solo a quel punto riesco a ri-trovare una certa armonia con mestesso.

«Ithaki», film d’esordio, è em-blematico del tuo stile: intrec-ci e unifichi storie che sembra-no senza senso o nesso. È la

tecnica del «non controllo»?In Ithaki sperimentavo, volevo di-mostrare che fosse possibile girareun film senza soldi. Si può. Può esse-re una nuova via che altri in Egittopossono seguire. È ingiusto che ci si-ano persone che mangiano dai sec-chioni dell'immondizia e nello stes-so tempo si spendono 5 milioni di li-re egiziane per fare un film; per que-sto è importante avere la possibilitàdi girare in un altro modo e non di-pendere esclusivamente dai soldi.

Hai vissuto dal '91 al '98 in Eu-ropa dove è più facile trovarefinanziamenti, perché sei tor-nato in Egitto? Che importan-za hanno il Cairo e Alessan-dria nei tuoi film?

Sono nato e cresciuto in Egitto, houn amore segreto per il mio paese.Amo ogni singola parte della vitaegiziana, è qualcosa che non si puòspiegare: quando sei innamorato losei e basta! L'Egitto è un paese così

ricco, ma niente ha un senso qua.Andando in giro al Cairo, si può no-tare come la gente sia affettuosa,cordiale, bella, entusiasta, forte … estupida perché è stata oppressa perlungo tempo e non si è mai ribellataper chiedere i propri diritti. Nonl'ho mai potuto capire. Perché si co-struiscono mega città-quartiere sul-le coste del Mediterraneo o del MarRosso, che costano miliardi di lireegiziane e vengono usate solo duemesi l'anno, quando abbiamo 3 mi-lioni di bambini senza casa nel re-sto del paese! Il contrasto è così di-sorientante.

Si chiama neocapitalismo ...Non so come sia chiama, non fa nes-suna differenza (ride con ilaritàIbrahim, per quanto ora conosca lagiusta parola per etichettare l'ingiu-stizia, alla fine per lui non cambia ilrisultato, come per milioni di perso-ne che vivono negli slum delle gran-di metropoli egiziane).

AFRICA IN FIAMME/2

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«Hawi» colpisce per l'intensitàdei colori - si ha l'impressionedi partecipare a una grandemostra di pittura post moder-na - hanno un significato parti-colare? E perché hai sceltoAlessandria come set? Esisteun filo conduttore che unisce ipaesi che si affacciano sul Me-diterraneo?

Con Hawi volevo creare un colorefotografico, un broken moment chesi contrapponeva ai personaggi, ilcontrasto dei colori era anche il con-trasto della realtà. Nel film sono i si-lenzi che parlano, che raccontanostorie e la verità di un Egitto che spe-riamo faccia parte del passato, an-che se ci vorranno anni prima chele cose cambino veramente. I silen-zi sono un dramma che raggiunge ilculmine quando l'anziano baffutodeve dire all'adolescente cieca chesuo padre è morto, saranno le lacri-me di lei a dire tutto, nell'impossibi-lità dell'uomo maturo incapace dicomunicare dall'alto della sua espe-rienza, come intrappolato nel suotempo. Il vuoto lasciato dalle parolesono una rottura completa contrap-posta ai colori che riempiono l'im-magine. Perché Alessandria? Per-ché simboleggiava l'aria cosmopoli-ta e intellettuale che si respirava inEgitto all'inizio del secolo scorso,prima che il regime politico-milita-re avesse inizio nel 1952. Allora erauna città internazionale, un puntod'incontro di artisti da tutte le partid'Europa e del Medio Oriente; oggi-giorno di quei tempi non è rimastonulla se non qualche foto sbiadita equalche palazzo in stile liberty.

Nei tuoi film la realtà pare immutabile, come il trascinarsi poetico dialcuni personaggi. Questo rappresenta una costante stilistica che inun certo modo rispecchia la realtà egiziana. Ma dopo la rivoluzione,come sarà il cinema di Ibrahim El Batout?

Sicuramente diverso, ma non così tanto. Lo vedremo nei prossimi film.

Come hai visto e vedi la rivoluzione? Te l'aspettavi o è stata una sor-presa?

Non mi aspettavo niente di tali di-mensioni. Il 25 gennaio ero a casa,pensavo che non poteva avere suc-cesso una dimostrazione organizza-ta su Facebook. Il 26 ho incomincia-to a dubitare del mio scetticismo;così sono andato a Tahrir, ma lapiazza era vuota. Sono tornato il 27,e lo era ancora. La sera c'era una di-mostrazione di fronte la sede delsindacato dei lavoratori, e lì, davan-ti alla porta d'entrata, c'erano perso-ne che inneggiavano slogan per le li-bertà democratiche e contro il regi-me. Mi sono unito a loro, e per laprima volta ho potuto alzare la miavoce, gridavo: «Dimettiti dimettitiMubarak!» e «I giovani vogliono ilcrollo del regime». Quando ho ini-ziato a cantare quegli slogan, hosentito che in me qualcosa stavacambiando: nei miei film dovevosempre usare metafore per aggirarela censura, altrimenti la polizia miavrebbe potuto sbattere in prigio-ne, invece in quel momento, per laprima volta potevo gridare aperta-

mente a gran voce tutto quello chevolevo… è stato un considerevolecambiamento per me. Il 28 sono an-dato con la mia Ramzi al ponte Qa-sr el Nil, ma era pieno di lacrimoge-ni e ci siamo diretti verso l'altroponte del 15 Maggio. Il giorno se-guente l'esercito era entrato in piaz-za; quella mattina dovevo andare inOlanda perché Hawi veniva presen-tato al festival di Rotterdam. Sullastrada per l'aeroporto passando peril centro ho visto i carri armati e hopensato che era finita, avremo avu-to un coprifuoco per un lungo peri-odo e la rivoluzione sarebbe morta.Sono partito con una certa preoccu-pazione. Arrivato nei Paesi Bassi hoscoperto che ancora una volta misbagliavo. Cercavo di reperire infor-mazioni di quello che stava succe-dendo in Egitto attraverso l'emitten-ti televisive; con la troupe volevamotornare, ma non sapevamo come,non c'erano aerei, la situazione nonera chiara e c'era molta incertezza.

Ho avuto lo stesso problema:sono tornato al Cairo quandotutti gli stranieri venivano rim-patriati. Avevo paura che miavrebbero rispedito a Roma...

Per noi la paura era il carcere! Alla finesiamo riusciti a tornare. Il 9 febbraiosono andato subito a Tahrir, e anche ilgiorno dopo. Ero emozionatissimo. Il10 ho deciso di girare un film sulla ri-voluzione. Ho pensato che moralmen-te non era giusto girare ancora nelmezzo della rivolta, ma mi sono dettodi infischiarmene del falso morali-smo. Così ho incominciato il 10 e l'11il film che sto attualmente girando.

Che ruolo gioca la religione nei tuoi film? Mi spiego eglio, in «EinShams» ti sei soffermato molto sui cristiani in Egitto, come mai?

A prescindere dalle mie credenze religiose, in Ein Shams non è la religioneche m'interessa, ma la figura della Vergine Maria, poiché rappresenta l'ico-nografia della madre che vede suo figlio morire davanti ai propri occhi...

Come nella guerra?

Esattamente, come accadeva e acca-de in ex-Jugoslavia, in Iraq, in Pale-stina … in Libia.

Come mai questo tema ricor-rente della guerra e delle in-giustizie?

Ci sono molte ragioni, due soprat-tutto. La mia precedente esperienzanel mondo dei documentari di guer-ra, mi ha fatto riflettere sulla brutali-tà e l'insensatezza di uccidere un'al-tra persona; quando si è spettatoridal vivo di questa realtà, è tuttaun'altra cosa, ti cambia dentro. Inol-tre nella guerra in Iraq del 1991, ri-masi scioccato nel vedere soldatiegiziani che catturavano quelli ira-cheni mentre molti di questi scap-pavano e si ritiravano impotenti sot-to le bombe dei caccia americani.(beve un sorso di tè come a scacciaredelle immagini ricorrenti che nessu-na tisana potrà cancellare).

E la seconda?La seconda è legata al '98. C'era unagrande rivolta nel quartiere dell'Ab-bassia del Cairo, andai per filmare.La polizia reagì brutalmente sparan-do sui manifestanti. Rimasi ferito albraccio e mi portarono immediata-mente all'ospedale. Mentre i medi-ci mi curavano alcuni ufficiali seque-strarono la pallottola estratta e la fe-cero sparire. Nessuna prova che po-tesse incriminarli, solo una cicatricesul braccio di un reporter che, da-vanti al tribunale, poteva esserselaprocurata in chissà quale modo.

Il 19 marzo si è tenuto il refe-rendum in Egitto per gli emen-damenti alla costituzione, eriper il sì alle modifiche?

Quel giorno è stato molto importan-te per gli egiziani, a prescindere dalmio voto. Per la prima volta da seco-li potevano esprimere la loro opinio-ne, la voce delle persone contava.C'è stata una grande partecipazio-ne, questo conta. Negli ultimi 60 an-ni la popolazione ha subito il lavag-gio del cervello: doveva solo seguiree assecondare i dettami del regime,accendere la tv e sentire che il pae-se prosperava, che tutto andava be-ne, mentre invece tutto andava a ro-toli. Il 19 marzo è stato solo l'inizio,ci vorranno mesi, anni, prima chegli egiziani si abituino alla realtà de-mocratica, ma l'importante è che fi-nalmente si sentono soggetti nellaloro terra.

Non sei un uomo politico, ma

SEGUE A PAGINA 12

Il regista Ibrahim el Batout in una serie di foto realizzate da Asmaa Youssef

«Nel film ’Hawi’, omaggio musicale alla forza della gioventù di

Alessandria, sono i silenzi che parlano, che raccontano storie

e la verità di un Egitto che speriamo faccia parte del passato,

anche se ci vorranno anni prima di un cambiamento vero»

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■ STORIE ■ LOUIS ARMSTRONG, CHARLIE PARKER, LEE KONITZ, JOHN COLTRANE ■

Le regole dell’improvvisazionedi Giampiero cane

Se nel mondo musicale, enon si capisce perché, c'è genteche si eccita subitaneamente allaparola improvvisazione, negli altricampi delle professioni artistichenon c'è un particolare entusiasmoper questo comportamento che èuno dei più comuni nella vita, quel-lo che evidenzia lo scarto tra un ro-bot e una persona, tra un essere ete-rodiretto e uno libero.

Ma non è che nel manifestarsidel sonoro l'improvvisazione siasempre riconoscibile; anzi è unapresenza vaga e sfuggente, non ne-gativa, ma subdola e spaccona, alsuo maglio un coup de théâtre. Ta-le quello di Louis Armstrong quan-do registrò coi suoi Savoy BallroomFive West End Blues, sul finire delgiugno del 1928.

L'11 del mese King Oliver avevaregistrato questo suo pezzo con unsettetto comprendente ClarenceWilliams. La buona esecuzione chesegue il testo scritto dal leader, anoi - che veniamo dal futuro - sem-bra monca. Questo perché per noiil pezzo è quello di Louis Arm-strong e del suo «secondo hot five».Satchmo la inizia con una limpidalinea ascendente e discendente, disola tromba, e ne conclude l'esecu-zione con un chorus che, partitocon le stesse note con cui inizia il te-ma, ma un'ottava sopra, si fermasulla terza di queste, un Sib che tie-ne per 3 battute e tre quarti, chiu-dendo infine con fuochi d’artificioe codina a svolazzo. L’incipit di que-sta versione e l'ultimo assolo sonoquel che là mancava, le novità arm-

stronghiane: quello è un enunciatoluminoso, questo una breve caden-za di qualità sublime che prendespunto dall’inizio della parte di-scendente dell’introduzione, di-mezzandone il valore delle note.

È il frutto di un’improvvisazione,un improvviso nato lì in sala di regi-strazione? Lo chiediamo retorica-mente perché ci è evidente chenon è così, fosse anche solo per ilmodo in cui la cadenza si ricollegaal fantastico incipit; allora è inveceun elaborato preparato a casa e por-tato a conoscenza di tutti in sala diregistrazione.

Ma il bello è che sei mesi dopo, il16 gennaio 1929, King Oliver tornain sala di registrazione per un'altraversione di West End Blues e inca-mera nella sua pagina le novità ar-mstronghiane. È un po’ in difficoltà

e meccanico, non limpido e fluidonell’incipit che riprende copiando-lo, ma, dopo che si sono succeduti ichorus solistici dei suoi orchestrali,nella cadenza finale risulta piùsciolto e, poco dopo la metà delchorus, 15 battute in tutto, più checopiare Armstrong ce ne dà unasua parafrasi. Ai fini dell’indaginein corso poco interessa la qualità,ma il fatto che l'autore incameri efaccia proprio di West End Bluesquel che ha suonato Armstrong.

Una volta eseguita (ma si puòeseguire un'improvvisazione?) essaperde quel carattere che sembraprodurre eccitazione febbrile neifan e quel che ci rimane è un ogget-to sonoro che solo se difettoso oscarmigliato si rivela frutto diun'improvvisazione (in questo ca-so da leggersi come «preparato alla

buona, frettolosamente»).Del resto, una musica non è una

musica, ma è una trinità: cioè essaè 1) tal quale appare nella progetta-zione e nelle intenzioni della men-te creativa che la fa esistere; 2) unoggetto sonoro che esiste per sé, dicui tutto magari potremmo sapere,ignorando solo chi l'abbia fatta eperché; 3) quel che la identifica equel che significa per chi l'ascolta.

La varietà delle significazioni èdiventata molto evidente col freejazz, fin per il senso da dare al no-me dell'indirizzo. Ormai lo sannotutti, ma il locale dove apparve lascritta «free jazz» diceva che ci sa-rebbe stata la sera musica jazz inun concerto gratuito (free appun-to). Non so più se suonasse Ornet-te Coleman o Cecil Taylor o chissàchi, ma «free» divenne allora il no-

me del movimento che, stando invece a quel che si poté poi leggere nellenote di copertina dei dischi Esp (Albert Ayler, Giuseppi Logan, Sun Ra,Pharoah Sanders, Rudd e Tchicai - ovvero il New York Art Quartet-, ByronAllen, Ornette Coleman, Paul Bley, Herry Grimes, Marion Brown, RanBlake) si sarebbe dovuto chiamare, se mai, «new thing».

I musicisti, privilegiavano una tematica artistica, il pubblico delle «esage-razioni» degli anni Sessanta amma-nettò invece quelle musiche al desi-derio o all'ideale, imponendogli ilsenso politico. Quest'investitura -non ingiustificata visti We Insist!Freedom Now, Attica Blues, Fire, laLiberation Orchestra e l'insiemedelle musiche di manifesta denun-cia politica - fece la fortuna e di-strusse il free jazz. In esso s'espan-deva la convinzione che l’improvvi-sazione fosse continua e contiguaalla libertà (non è stato detto, maera come un «liberiamo gli stru-mentisti dalle partiture»), ponendol'eguaglianza tra freedom e impro-visation. Un'altra idea d'improvvi-sazione, dopo che in origine, neljazz, era stata coinvolta con l'anal-fabetismo musicale, la pratica illet-terata degli strumenti, e dopo il fu-nambolismo be-bop. Ma da quel-l'abbraccio sortì il conflitto tra lamusica e l'organizzazione della suapresenza in pubblico. Dopo l'im-mediato sfruttamento, si andò ver-so l'emarginazione, riorganizzan-do le fila dietro Miles Davis e il jazzrock (Weather Report, Perigeo) e ri-conducendo l'improvvisare nelcampo della libertà controllata, va-riazione tematica e/o armonica, in-

È una pratica

musicale

di cui in ambito

jazz si discute

da sempre.

È il desiderio

di dar corpo

a un’immagine

intravista,

è il genio

del dilettante

a cui seguirà

il lavoro

del maestro

d’arte. Ma può

essere appresa?

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croci ritmici, timbri allucinati, maautoirregimentazione.

Intanto il free, diventando gene-re si spegneva da sé, nello stessomodo in cui si erano spenti il dixie-land, lo swing, il be-bop, il cool, ilwest coast, l'hard-bop e tutto quelche è diventato genere. In fondo,poi, tra l'uno e l'altro dei generinon c'è grande distanza: l'unicomutamento epocale nel mondodel jazz fu quello del be-bop, conl'ampliamento conseguente che glidiede il free.

Nella sua stagione conclusiva,morto Bird, l'innovazione fu coro-nata dalla tecnologia che prima por-tò sul giradischi gli ellepi e successi-vamente i cd nei lettori.

A iniziare dalla metà circa deglianni Cinquanta i musicisti ebberoa disposizione facciate fin di 30 mi-nuti, durata decuplicata rispetto ai78 giri. Di conseguenza ne nacqueun Artusi del jazz, che diceva comeconfezionare le portate e come met-terle in successione al fine di ottene-re, con gli opportuni equilibri traballate, moods, blues e up-time, unpiù vasto indice di ascolto. Così so-no allestiti i capolavori di Miles Da-vis della metà degli anni 50 (gli elle-pì Walking, Cooking e Blues and Bo-ogie), così quelli del Modern JazzQuartet (da Django a Fontessa).Sfuggivano a questa logica e ne rive-lavano l'inconsistenza gli ellepì conle musiche di Davis per l'Ascensoreper il patibolo di Louis Malle e quel-le del Mjq per Strategia di una rapi-na di Robert Wise; ma oramai era-vamo a un passo dall'uso di una fac-cia per un pezzo e, con Free Jazz diColeman (1960) di ambedue.

Del resto, nelle jam session i pro-blemi di menu non erano esistiti,né poi sono parsi molto interessan-

ti. Sono problemi di chi guarda me-no alla polpa che all'abito, dunquela differenza non è tanto tra Char-lie Parker e Lennie Tristano,quanto tra Miles Davis e Tristano.Tristano e Parker si stimavano enon di rado hanno suonato insie-me, finché Tristano ha frequentatola scena jazzistica. Di discograficonon c'è molto, ma c'è una delle piùbrutte performance in clima jam,quando vennero messi a confron-to con una pagina di trent'anni pri-ma in perfetto «stile casinaro», Ti-ger Rag della Original DixielandJazz Band, ed è un disastro registra-to che li coinvolse con Gillespie,Max Roach, Ray Brown e John La-Porta e Billiy Bauer.

Lee Konitz, allievo di Tristano, èsensibile alla mistificazione e si di-ce nemico dei musicisti che fannoscena: «Charlie Parker non muove-va un muscolo quando suonava:era come una statua (...); non c'era-no movimenti sprecati. È questo ilmodo di suonare che preferisco.Ma uno può ballare con la propriamusica se è bella: si può fare. Si ve-de Keith Jarrett che fa tutte quellecontorsioni ridicole, e qualche vol-ta suona anche bene(...). Io (conti-nua Konitz) non cerco di esprimeretristezza, o qualche idea pittorica, oqualche maniera per creare un ef-fetto emotivo (...); quando suonoun brano lento, e suono patetico otriste, sto solo cercando di suonareuna bella melodia senza forzature.Ma quando sento Davis che suonaquel tipo di cose, mi pare inveceche sia in cerca dell'effetto».

Che uno showman cerchi di ot-tenere un effetto non è una cosastrana né necessariamente riprove-vole, ma nella scuola di Tristanonon si voleva che l'arte si degradas-se allo show, dunque che la musi-ca si articolasse in funzione dell'ef-fetto; ma doveva farlo secondo lapropria necessità, secondo i pro-cessi del pensiero musicale dellostrumentista.

Nel jazz soltanto Sun Ra ha por-to almeno in parte l'orecchio aJohn Cage. In generale, il punto deijazzmen non è di liberare i suoni,ma di dirigerli, caratterizzarli, caval-carli, a volte abbandonarvisi e esse-re loro preda: mostrare al pubblicoun'emozione, sudare, e distrarlodalla musica.

«È impressionante - commentaHandy Hamilton - come la gente silasci sviare da quello che vede, dal-l'emozione del musicista». O, me-

glio, aggiungeremmo, dell'emozio-ne messa in scena. In appunti pub-blicati col titolo di Über den Dilet-tantismus (Sul dilettantismo, 1799),Goethe e Schiller ci fanno sapereche «il dilettante sta all'arte comecolui che fa un lavoro abboracciatosta al mestiere; che all'arte, ci si ad-destra secondo delle regole e che lasi esercita secondo la legge, anchese quelle non hanno un riconosci-mento assoluto, come avviene conquelle del mestiere, e le leggi dellecosì dette arti liberali sono solo spi-rituali, non civili». Per queste ragio-ni, per Goethe e Schiller, «dilettan-te si diventa, artista si nasce»; ne di-scende che «l'artista è una personaprivilegiata dalla natura ed è spintodalla necessità a esercitare qualco-sa, che non tutti possono fare».

Sono solo appunti, un po' dilet-tanteschi, ma in realtà non di que-sto si tratta, ma di un'improvvisa-zione a due voci, che non andrà ol-tre un primo tentativo e verrà lascia-ta cadere. Idee buttate lì, in attesadi de-finizione e ri-finitura. Perchéquesto è l'improvvisazione, che po-co s'adatta alla scrittura, ma è quasisempre nell'incipit di una musica,nell'abbozzo di una tela: è il deside-rio di dar corpo a un'immagine in-travista, è il genio del dilettante cuifarà seguito, se ce ne sarà bisogno,se il bisogno sarà avvertito, la ri-fini-tura artigiana, il lavoro del «mae-stro d'arte». Naturalmente non tut-to è così e, per esempio, GiorgioMorandi non improvvisa mai, co-me Parmiggiani o come Schoen-berg o Boulez: ai due pittori e aidue musicisti interessa l'ordina-mento della materia e rispettiva-mente la luce e il suono. Per tutti lo-ro l'espressione è secondaria.

Anche Armstrong improvvisaquando si prepara alla performan-ce. Una volta in scena non lo fa più,ma usa variazioni timbrico melodi-che per dare un'illusione di veritàai prodotti pop che maneggia. ConParker, il più delle volte il materialeè indifferente: serve all'incipit chepresto cede il passo al freneticomontaggio del suo vocabolario so-noro, che del materiale di riferimen-to nulla conserva. Nell'arte figurati-va, anni dopo, Mario Schifano saràun poco così.Ma si può insegnare/imparare a improvvisare?

Parker e in seguito John Coltra-ne l'hanno fatto lavorando sulla

propria tecnica e cercando una ri-sposta automatica, immediata, aldesiderio di suono sfociante dall'ap-pena-suonato. Lee Konitz ci diceche Tristano applicava nella suascuola un metodo di preparazioneall'improvvisazione. Cecil Taylornei suoi anni più tesi aveva bisognoche dopo ogni giornata di studio ilpianoforte fosse accordato. Si trattadi disciplinari che, si considerinopure anarchici nei confronti di quel-li accademici, pur sempre hannoquesta natura. Oggi, All'improvvi-so, di Walter Prati, vorrebbe inse-gnare gli strumenti dell'improvvisa-zione a qualsiasi strumentista (auna prima occhiata sembra più in-teressante per voce, fiati ed archiche non per tastiere). Così, lenta-mente, ma un sipario dietro l'altrosi viene smontando la sciocca fanta-sia che ha spinto verso il mito unapratica affatto comune.

Del resto, teoricamente si puòimprovvisare anche sul pentagram-ma, ma è certamente più azzardatoe funambolico improvvisare nellano writer's land anziché scrivendo.L'aspetto più buffo della relazionetra il pubblico e la musica sta nelfatto che gente che non ha mai pre-so in mano uno strumento musica-le si dichiari in grado di valutare lequalità tecniche di un professioni-sta, decreti il successo di un Allevi,la miglior qualità di Tizio nei con-fronti di Caio, addirittura essere onon essere musica l'oggetto sonoroche gli si presenta.

Che importanza ha che sia fruttoo no d'improvvisazione? Inanellan-do un po' di automatismi, se non cisi vergogna, non è difficile metterein scena un po' di magia sonorache accompagna gesti studiati chemimano un'intensa concentrazio-ne, accartocciandosi, distendendo-si, accompagnando col corpo il rit-mo della musica, mormorando conla voce quel che si fa con le mani.

Ci sono dei musicisti che invecedi annoiarsi o divertirsi suonandomusica altrui, si pensano capaci difarne di più autentica, cioè di origi-nale dotata del loro proprio mar-chio di fabbrica. Quelli che ci riesco-no sono, tutto sommato, pochi, mauna quantità proporzionata alla pic-

cola quantità di persone coinvoltacon questo genere di musica. Si sa,va da sé, che l'indice di gradimentoe quello d'ascolto non vanno maid'accordo, ma è da credere che conun Armstrong ambo gli indici sianostati in genere piuttosto alti. Quelloche è fortemente selezionato non èmai per la moltitudine.

Nel «vecchio» classico di McCar-thy, Cavalli selvaggi, sul finire conJohn Grady parla la zia di Alejan-dra: «Mio padre credeva fermamen-te che tutte le cose fossero collega-te tra loro (...). Secondo lui la re-sponsabilità per una decisioneumana non può essere lasciata nel-le mani di un'entità cieca, ma de-v'essere attribuita ad altre decisioniumane via via più lontane dalle lo-ro conseguenze dirette. L'esempioche faceva sempre era quello diuna moneta lanciata in aria che inorigine, nella zecca, non era che untondello di metallo grezzo e dell'ad-detto al conio che prese il tondelloda un vassoio e lo mise sotto la pres-sa in uno dei due modi possibili: daquel suo gesto deriva tutto il resto,cara y cruz, testa o croce. Non im-porta quali e quante giravolte la mo-neta faccia in aria».

Non mi risulta che John Cageabbia avuto occasione di conosce-re e commentare questa pagina eme ne dispiace. Così, mentre daun lato si può dire che «le giravol-te» siano poi quel che in certi casiinteressa, dall'altro ci si può infila-re nella differente strada della ziadi Alejandra. «L'esempio è sciocco- lei dice - ma quell'anonimo omet-to al suo banco di lavoro mi è rima-sto impresso».

Alle sue spalle lei vede però «unospettacolo di marionette». E quan-do uno guarda dietro il sipario e se-gue con lo sguardo i fili scopre chefiniscono nelle mani di altre mario-nette, anche loro manovratre da filiche vengono dall'alto e così via».Naturalmente l'improvvisatore vor-rebbe rompere sia con il caso checon una burocratica e insensata ete-rodirezione. Come definire la cosa?Prima di tutto tornando al «cos'è?»,poi con un «tuttavia» che eterna-mente corregge le conclusioni cuisi sta arrivando.

In basso, da sinistra: Lennie Tristano,Louis Armstrong, Cecil Taylor,Lee Konitz, Miles Davis, CharlieParker, John Coltrane, Sun Ra

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«That’s amore»,il mio astice è popdi Pi Erre

ROMAIl localinoVia Lazio 22 (tel. 393 2542970)Via Veneto un tempo era la DolceVita: ora è un turistificio ricco etriste, con qualche legame pericolo-so con la ‘ndrangheta. È una fortu-na, allora, che proprio di fronte aun night club spunti il Localino. Lanuova creazione di Claudio Dor-dei, che già conduce con manoferma l’ottima Gensola trasteveri-na, ha 110 coperti e pesce freschis-simo. Non è un caso, visto cheClaudio se ne occupa personal-mente, andando al mercato di Gui-donia. Lo stocco, invece, arriva dal-la Calabria. C’è anche un menufisso da 41 euro e ne vale la pena.Nella nuova creatura, Claudio haassoldato anche Vito, pianista dapiano bar come c’era una volta:nella terza saletta si canta al ritmodi Eduardo de Crescenzo («volapiù in alto che puoi, senza fermartimai»). Peccato, ma nessuno è per-fetto. Bonus: il pesce crudo. Malus: iprezzi alti. Voti: cucina: 8; ambien-te: 7; servizio 7.ROMAEnoteca CorsiVia del Gesù 88 (tel. 06 6790821).Mangiare a pranzo a Roma in cen-tro. Pessima idea. A meno che noncapitiate, per caso o perché guida-ti, in questa affollata enoteca roma-na: tovagliette di carta, vecchi arti-coli alle pareti, una sala grande esimpaticamente rumorosa. Un po-sto che più semplice non si può,con un servizio rapido come la lu-ce. Cucina familiare e onesta: treprimi e tre secondi, zuppe e pastae fagioli pronte all’istante. Ne esciveloce e leggero, con un conto cheva dai 10 ai 15 euro. Non è altacucina ma con questi prezzi è diffi-cile trovar di meglio. Aperto solo apranzo. Avvistati due turisti ameri-cani che, uscendo, canticchiavano:«that’s amore!». Come dice il mot-to stampato sui tovagliolini di car-ta: «Finché vieni da corsi non avrairimorsi». Bonus: i prezzi. Malus: l’af-follamento. Voti: cucina 6,5; am-biente 6,5; servizio 7,5.MILANOAmici del LibertyVia Savona 20 (tel 02 83 94 302).Quando il salone del Mobile impaz-za e Milano è un happening perma-nente, il ristorantino Amici del Li-berty, immobile nel tempo, è rifu-gio perfetto. Sembra di entrarenella sala da pranzo di una signoradei primi del Novecento. E inveceentri da Nicola, simpatico vesuvia-no, a Milano da 40 anni. E infattiecco le note malinconiche di Quan-no Chiove: «E luntano se ne va tut-t'a vita accussì e t'astipe pe nunmurì». Napoli si insinua qua e là,nei profumati fiori di zucca farcitidi ricotta di bufala e scamorza, neipaccheri con freschissimo asticeazzurro, nel rombo tostato al fornocon soffice di finocchi, arancia ementuccia. Arrivati al dessert, cipensa l’eccentrico e sorridente ca-meriere ad orientare l’ultima deci-sione verso il brivido caldo-freddo:un bicchierino con crema di ciocco-lato caldo e un bicchierino concrema di zabaione freddo. Vinobianco e meridionale: il siculo efruttato Feudo dei Fiori, Mandraros-sa. Conto sui 60 euro. Bonus: lucicalde, decibel contenuti. Malus: inomi dei piatti. Gli antipasti: «I pri-mi morsi per solleticare i sensi». Ipiatti di pesce: «I cibi che trasfor-mano un compagno noioso in uncompagno focoso». Voti: cucina 7;servizio 7; ambiente 7,5.www.puntarellarossa.it

ALIAS N. 15 - 16 APRILE 2011 (7

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ON THE ROADJohn GrantIl leader degli Czars in versionesolista. Arriva per la prima volta inItalia per presentare dal vivo il suodisco d'esordio, Queen of Den-mark, votato da molti critici comemiglior album del 2010.BOLOGNA MARTEDI' 19 APRILE (CHIESADI SANT'AMBROGIO)ROMA MERCOLEDI' 20 APRILE (CIRCOLODEGLI ARTISTI)

J MascisUn'icona della scena indie statuni-tense. Il leader dei Dinosaur Jr. intour per presentare il suo albumsolista Sveral Shades of Why.MEZZAGO (MB) DOMENICA 17 APRILE(BLOOM)ROMA LUNEDI' 18 APRILE (CIRCOLODEGLI ARTISTI)

BlackfieldIl progetto di Steven Wilson (Por-cupine Tree) con il cantante israe-liano Aviv Geffen.MILANO MARTEDI' 19 APRILE (MAGAZZINIGENERALI)ROMA MERCOLEDI' 20 APRILE (ALPHEUS)

RONCADE (TV) GIOVEDI' 21 APRILE (NEWAGE)

DarkstarArriva l'elettronica del trio inglese.MADONNA DELL'ALBERO (RA) SABATO16 APRILE (BRONSON)

SubsonicaNuovo album, Eden, che segna ilritorno della band torinese.BOLOGNA SABATO 16 APRILE(FUTURSHOW STATION)

Paolo BenvegnùIl cantautore toscano si confermatra i più ispirati della scena italicacon il nuovo lavoro Hermann.BRESCIA SABATO 16 APRILE (VINILE 45)

NAPOLI VENERDI' 22 APRILE (DUEL BEAT)

CASTILENTI (TE) SABATO 23 APRILE(PALAZZO DE STERLICH)

SchwefelgelbLa band tedesca ricalca le ormedella new wave anni Ottanta ingle-se e tedesca e del punk.ROMA SABATO 16 APRILE (TRAFFIC)

Dum Dum GirlsIn Italia il gruppo retro pop al fem-minile di Los Angeles che presental'esordio discografico I Will Be.MILANO MERCOLEDI' 20 APRILE(LA SALUMERIA DELLA MUSICA)ROMA GIOVEDI' 21 APRILE (LANIFICIO 159)

BOLOGNA VENERDI' 22 APRILE (COVO)

James BlakeIl pioniere del dubstep.MILANO GIOVEDI' 21 APRILE (LAMBRETTOART PROJECT)

The Original Wailers +Al AndersonIn Italia la mitica band che peranni ha accompagnato il re delreggae, Bob Marley.TORINO SABATO 16 APRILE (HIROSHIMAMON AMOUR)

Sacri CuoriIl post rock catartico del progettodi Antonio Gramentieri che hacoinvolto tra gli altri John Converti-no, Jacob Valenzuela e Nick Lucadei Calexico, Howe Gelb, AndersPedersen e Thøger Lund dei GiantSand, Bill Elm dei Friend of DeanMartinez, Marc Ribot, James Chan-ce e John Parish.FIRENZE SABATO 16 APRILE (RECORDSTORE DAY)GAMBETTOLA (FC) MARTEDI' 19 APRILE(SPAZIO TREESESSANTA)

Marlene KuntzIn tour la band piemontese perpresentare il nuovo disco, Ricoverivirtuali e sexy solitudini.FIRENZE SABATO 16 APRILE (FLOG)

Frankie& The HeartstringsUna promettente band inglese.BOLOGNA SABATO 16 APRILE (COVO)

Asian Dub FoundationTra gli esponenti principali del mo-vimento «new asian under-ground».MARGHERA (VE) SABATO 16 APRILE(CS RIVOLTA)

VerdenaRitorno con il botto per il trio rockdi Albino, provincia di Bergamo.Un doppio cd, intitolato Wow, chesi preannuncia come uno dei lavo-ri dell'anno.SESTRI LEVANTE (GE) VENERDI' 22 APRILE(MOJOTIC FESTIVAL)

Arrington De DyonisoIl leader degli Old Time Relijun investe solista.ROMA SABATO 16 APRILE (DAL VERME)

Rita Marcotulli/MarcCoplandUn omaggio alla pianista e compo-sitrice italiana quello che la vedenell’ampia sala Petrassi per la ras-segna Solo. Il più raccolto teatroStudio si apre per la medesimarassegna e il pianismo di MarcCopland.ROMA SABATO 16 E LUNEDI' 18 APRILE(AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA)

Marco CappelliGiunge alla conclusione il tour delchitarrista Marco Cappelli. Insiemea Ken Filiano (contrabbasso) eSatoshi Takeishi (batteria) suonaper la rassegna «Ostinati» in unaserata che prevede anche il solo

di Paolo Botti.PADOVA SABATO 16 APRILE (CINEMATEATRO TORRESINO)

Jeff BerlinIl bassista Jeff Berlin si esibiscealla testa del suo trio, con MikeClark alla batteria e Richard Drex-ler al piano. Berlin e Clark nel po-meriggio terranno un seminariosulla ritmica jazz, funk e fusion.GRUGLIASCO (TO) DOMENICA 17 APRILE(TEATRO LE SERRE)

Impaled NazareneCupe serate metal.RECANATI (MC) VENERDI' 22 APRILE(EXTRA)SCHIO (VI) SABATO 23 APRILE (MAC2)

Modena City RamblersDal folk irlandese alle sonorità lati-ne ai canti rivoluzionari.SENIGALLIA (AN) SABATO 16 APRILE(MAMAMIA)

David RhodesIn Italia con un suo progetto il chi-tarrista storico di Peter Gabriel.PARMA DOMENICA 17 APRILE (TEATROAL PARCO)

Tommy EmmanuelUno dei più grandi chitarristi acu-stici del panorama internazionale.LEGNANO (MI) MERCOLEDI' 20 APRILE(LAND OF LIVE)ROMA GIOVEDI' 21 APRILE (TEATROTENDASTRISCE)

Yo Yo MundiLa band presenta dal vivo il nuovoMunfrà. A Lecce con Radiodervish,Paola Turci e Simone Cristicchi.LECCE SABATO 16 APRILE (TEATROPOLITEAMA GRECO)FERRANDINA (MT) DOMENICA 17 APRILE(ARCI)

ROMA MERCOLEDI' 20 APRILE(AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA)

PONTREMOLI (MS) SABATO 23 APRILE(TEATRO DELLA ROSA)

Yacouba Djembelé& Djeli-KanTour europeo per il duo che presen-ta il nuovo album Sabary, ospitiAffou Keità & Mame-Miss.ROMA SABATO 16 APRILE (ANGELO MAI)

ArdecoreTorna dal vivo la band «romanesca»capitanata dal folksinger GiampaoloFelici.FIRENZE SABATO 16 APRILE (VIPER)

CittaslowStasera tocca al Francesco CafisoQuartet in abbinamento con la cuci-na di Sant'Angelo (Pe) e si chiude il16 con il Giovanni Guidi Quartet ela città di Abbiategrasso.BASCHI (TR) SABATO 9 E SABATO16 APRILE (LA PENISOLA)

Elita FestivalSi chiudono i cinque giorni dedicatiai suoni digitali ed elettronici. Nellasede principale, il Teatro Parenti,sono attesi tra gli altri Gold Panda,Dan Deacon, Discodeine (stasera) eWolf + Lamb vs Soul Clap pres. DjKicks (il 17). Tra gli altri appunta-menti citiamo Henrik Schwarz (oggial Tunnel), Paul Kalkbrenner, FaltyDl e Art Department (oggi al Live diTrezzo d'Adda) e La Riots, Allo e LaValigetta (stasera al Rocket). Pro-gramma su ww.elitamilano.org.MILANO SABATO 16 E DOMENICA17 APRILE (TEATRO PARENTI E ALTRE SEDI)

Palazzetto Bru ZaneLa stagione del Palazzetto Bru Zaneprende forma con l'ensemble LesLunaisiens in Lacrime di riso, lacri-me di sangue (il 19), il duo SarahNemtanu (violino) Anne-Lise Gastal-di (pianoforte) in Il violino romanti-co (il 20) e Su un'aria di danza conil Quatuor Habanera (il 23).VENEZIA MARTEDI' 19, MERCOLEDI' 10E SABATO 23 APRILE (PALAZZETTO BRU ZANE)

Music InnRiapre a Roma, dopo molti anni dichiusura e di oblio, una storica «ca-ve» fondata nel 1971 da Pepito Pi-gnatelli e portata avanti dalla mo-glie Pichi. Il club punta sul jazz italia-no e ospita il Claudio Filippini Trio(con Luca Bulgarelli e Lorenzo Tuc-ci), il quartetto di Giovanni Guidi(con Dan Kinzelman, Francesco Pon-ticelli e Armando Sciommeri) e iltrio composto da Antonio Iasevoli,Paolo Damiani e Fulvio Maras. Per il21 jam session a ingresso libero.ROMA SABATO 16 E DA GIOVEDI' 21A SABATO 23 APRILE (MUSIC INN)

CoseAll’insegna dell’incontro tra le arti iprossimi appuntamenti della rasse-gna autofinanziata. Si parte con Ladivina mimesis di Pier Paolo Pasoli-ni con l’attore Alessandro Preziosi eil percussionista Michele Rabbia e siprosegue con Improvvisazione pervoce, suoni & action painting; inquesta performance agiscono CinziaFiaschi, Alessandro Giachero e Dia-na Torti.ROMA LUNEDI' 18 E GIOVEDI' 21 APRILE(TEATRO IL VASCELLO; EX-MATTATOIO)

Peace, Love, Musicand TibetUn incontro tra mondi e culturalimusicali lontane quello che vedeimpegnati Yungchen Lhamo (voce edanza) e Davide Ferrari (voce, there-min e strumenti tradizionali) conPino Parello (basso).VARESE LUNEDI' 18 APRILE (CINEMA TEATRONUOVO)GENOVA GIOVEDI’ 21 APRILE (TEATROGUSTAVO MODENA)

AREZZO VENERDI’ 22 APRILE (TEATRO PIETRODELL’ARETINO)

a cura di Roberto Peciola con Luigi Onori (jazz)(segnalazioni: [email protected])

Eventuali variazioni di date e luoghi sonoindipendenti dalla nostra volontà.

8) ALIAS N. 15 - 16 APRILE 2011

Page 9: Alias supplemento del Manifesto 16/04/2011

EDDIE CONDONBIXIELAND (Original Long Albums/Egea)

7Con i propri All Stars, quasi la risposta biancaa quelli di Louis Armstrong, che tornavano aiprimi amori (anni Venti), il chitarrista chicago-

ano, all’epoca cinquantenne, rende omaggio al reperto-rio del mitico Bix Beiderbecke (1903-1931) di fatto ilprimo grande jazzman di pelle chiara. E «all whites» so-no pure i due gruppi (settetto e ottetto) che s’alternano,facendo leva sugli assolo dei «reduci» Bobby Hackett,Dick Cary, Will Bill Davinson, Edmund Hall in nove «clas-sici» dell’hot jazz (da Louisiana a Fidgety Feet) più unbrano da musical in tema (Ol’ Man River) in un piacevo-lissimo album di dixieland revival. (g.mic.)

THE DODOSNO COLOR (Wichita/Cooperative Music)

8Come rimanere insensibili al ritmo incalzante,al fingerpicking da capogiro e alla melodia diBlack Night, brano che apre il nuovo lavoro

dei Dodos? Semplice, non si può! E allora, che dire delritornello maledettamente catchy di Going Under? Sepoi Good non dovesse smuovere tutti i vostri muscolisiete in un brutto guaio! Ancora casse in quattro, percus-sioni tribali, arpeggi, botte elettriche, echi beatlesiani ebeachboysiani, violini «orientali», e molto altro lungotutto l’album che ha in Companions una vera gemma.Un susseguirsi di idee ispiratissime che ne fanno, a oggi,una delle cose migliori di questo 2011. (r.pe.)

BARBARA ERRICOENDRIGO IN JAZZ (Koinè/Dodicilune)

6Ultimo in ordine di tempo, fra i cantautori diprima generazione (Tenco, Lauzi, Bindi, DeAndré), a subire la metamorfosi afroamerica-

na da parti di giovani jazz singer, l’Endrigo della Erriconon sfugge ai cliché di operazioni analoghe a partire daldiscutibile modello Ghiglioni sings Tenco. Anche qui ilprogetto è in bilico fra fedeltà alla forma originale (so-prattutto nelle strutture armoniche) e compiacimentointerpretativo attraverso un vocalismo estetizzante chetrascura lo spleen primigenio del folksinger triestino. Aquel punto meglio stravolgere veramente oppure assimi-lare forme e contenuti in profondità, dopo anni e anni diascolti e passioni. (g.mic.)

DIZZY GILLESPIEGILLESPIANA (Poll Winners Records/Egea)

7Lalo Schifrin è il nome d’oro a firma di innu-merevoli composizioni per cinema e televisio-ne, secondo la vulgata corrente. Oppure lo

strepitoso arrangiatore di Sarah Vaughan e Stan Getz peril glorioso periodo dell’etichetta Verve. Qui, in questesession, è invece il ventottenne freschissimo pianistaargentino che si innamora della straordinaria musicalitàdei bopper, e prepara per Dizzy Gillespie una complessapartitura per big band in cinque movimenti pieni di colo-re e dinamismo. È il novembre del 1960. Una settimanadopo la medesima partitura è presentata dal vivo a Pari-gi da Dizzy alla Salle Pleyel in quintetto, Schifrin al piano-forte: e anche asciugata e contenuta, brilla di idee e so-stanza. Trovate il tutto raccolto in unico cd. (g.fe.)

THE JOY FORMIDABLETHE BIG ROAR (Canvasback/Atlantic)

7Potremmo anche sbagliarci ma di questaband a breve se ne parlerà assai. Anima ecorpo arrivano dal Galles dove sono cresciuti

i due leader Ritzy Bryan e Rhyddian Daffyd, coadiuvatidal batterista Matt Thomas. Lei, Ritzy, ha una voce checolpisce, una voce che definiremmo fiera, e perfetta peril sound aggressivo e melodico al tempo che caratterizzala formazione britannica. Quello che comunque colpiscemaggiormente di The Big Roar è proprio la qualità sono-ra, che dà l’idea di una produzione molto attenta e sen-za badare a spese. Tra pulsioni emocore di fine anniNovanta e accenni shoegaze il disco scorre piacevole el’adrenalina sale conseguentemente, ma è l’iniziale TheEverchanging Spectrum of a Lie - lunga quasi otto minu-ti - a guadagnarsi i galloni di miglior brano. (b.mo.)

PATRIZIA LAQUIDARA E HOTEL RIFIL CANTO DELL'ANGUANA (Slang)

7Il quarto disco di Patrizia Laquidara segna unatappa decisiva nella carriera dell'artista siculo-veneta. Interamente cantato in dialetto altovi-

centino, il disco ha come filo conduttore l'anguana, figurafantastica di un immaginario popolare che non appartienesoltanto al Veneto, ma a buona parte del nordest italiano. Itesti del poeta Enio Sartori si sposano felicemente con lemusiche, molte delle quali scritte da Patrizia e dal pianistajazz Alfonso Santimone, cofondatore dell'etichetta El GalloRojo. Nel brano iniziale, Ah jente de la me tera, le particantate si alternano ai ritmi gioiosi e trascinanti del gruppo.Certi brani sono delicati, ma mai leziosi (Dormi putìn, Lafumana), mentre Nota d'anguana si segnala per il ritornel-lo suadente. La cantante è affiancata da un valido gruppocon il quale aveva già collaborato, Hotel Rif, dove spiccanola fisarmonica di Mirco Maistro e i fiati di Paolo Bressan.Con questo lavoro maturo e riuscito Patrizia entra di dirittofra gli esponenti più interessanti della canzone italiana. E sidimostra valida anche come autrice delle musiche. (a.mic.)

YUCKYUCK (Fat Possum)

8Non stentiamo certo a credere che l'ascol-to dei Pavement, per la prima volta treanni fa, fu un'illuminazione per Daniel

Blumberg. La voce e chitarra del quintetto londine-se, ha poco più di vent'anni e non è (inaspettata-mente) cresciuto a pane e indie anni Ottanta eNovanta. Che sia merito del ritorno mondiale del-l’indie lo-fi di quei due decenni, o di una sterzatapersonale dopo l'esperienza brit pop con i CajunDance Party, non ci è dato saperlo. E forse, vista labuona riuscita dell’esordio autoprodotto degliYuck, anche la lista di nomi noti di cui è figlio (Dino-saur Jr., Yo la Tengo, Pavement, Teenage Fanclub)appare marginale. Testi d'amore e melodie efferve-scenti, luminose, distorte ed evocative di quei «te-en years» che non passano mai. Carta vetrata chesfrega con cristalli di zucchero ricordi di pomeriggiestivi, ma anche episodi acustici e liquidi e unachiusura dilatata (Rubber) che lascia spazio ad am-bizioni future. Un album eterogeneo, una caramel-la che non perde il sapore. E che masticheremotutto l’anno. (c.col.)

MONDONGOTRANSPARENT SKIN (Megaplomb)

7Molto spesso in Italia tocca alla piccole eti-chette sopperire alla mancanza di coraggio diquelle grandi, nel jazz. Soporiferi, innocui

modelli mainstream inculcati a forza di luoghi comunilasciano il posto a maestri scomodi, per un volta. Comenel caso dei Mondongo, formazione per tre quarti italia-na e per un quarto canadese, quello del leader e ottimobatterista André Michel Arraiz-Rivas. I maestri scomodi,qui, sembrano Threadgill e Steve Coleman: per il furorgeometrico delle soluzioni, per un inquieto «ricercare»che rende la musica sempre un passo oltre. Due saxspesso in controcanto (Francesco Bigoni e Piero BittoloTon), il basso mobilissimo di Giacomo Papetti. Tutti attivianche in contesti non canonicamente «jazz». (g.fe.)

MARCO PARENTELA RIPRODUZIONE DEI FIORI (Woland/Goodfellas)

7Cinque anni dopo Neve Ridens 2 si riaffacciail geniale cantautore fiorentino, che non smet-te di sorprendere. Ancora ballate rock giocate

su incastri di chitarre supportate da un drumming seccoe preciso, con un inizio folgorante tra brit rock e le alluci-nazioni stile Radiohead per atterrare poi su quiete - soloall'apparenza - ballate che si fondono alla perfezionecon i testi. Chi canta «nella moda del dolore il dolore èfuori moda» meritera solo per questo un plauso... (s.cr.)

QUAKERS AND MORMONSEVOLVOTRON (La Valigetta)

7Una dose di estetica anticon., un occhio aper-to sull'hip hop astratto anni Novanta e unaltro sul versante elettronico più gradito ai

cosiddetti indie-rocker, un cantato (in inglese) non pro-prio accomodante a livello metrico e scelte musicalisenza preclusioni, che spaziano in campi lontani da quel-li citati. Il duo bolognese opera in una terra di nessuno,a oggi, non battuta. Sullo sfondo si vengono a creareatmosfere spirituali puntualmente agitate o asseconda-te, a seconda dei brani, da ritmo e voce. D’altronde biso-gna reggere il gioco imposto da un nome quanto maigravoso. Quello che più conta però è che i Quakers andMormons sanno bene come costruire una canzone, aprescindere dai territori in cui si muovono. (l.gr.)

SON OF DAVESHAKE A BONE (Kartel Records/Audioglobe)

8Al secolo Benjamin Darvill. In passato chitarri-sta dei Crash Test Dummies e oggi al quintodisco come solista. Lui e la sua armonica.

Intrattenitore di qualità, valido musicista nonché scaltrofrequentatore di palchi. Dodici brani in cui queste dotiprendono corpo e spessore. Con infinito rispetto dellatradizione blues e cipiglio improvvisativo. Senza storcereil naso, ci si può campionare anche suonando blues. Lofanno in tanti, a pochi riesce bene. A lui, benissimo. Na-turale che il disco arrivi dalla tana di Steve Albini. E chein giro già si contano gli epigoni (B.B. Bailey). Manifestointenzionale: Ain’t Nothin’ but the Blues. Grande. (g.di.)

T-BONE WALKERYOU'RE MY BEST POKER HAND (Fantastic Voyage/Goodfellas)

6Fare il punto sul percorso di T-Bone Walker,in modo esauriente, si può. Questo il risultatodella compilazione che include, in perfetto

stile Fantastic Voyage, settantacinque brani in tre cd.Arco cronologico dal 1940 al ’57, il periodo più fertile eproduttivo per il nostro. Quello in cui label, studi di regi-strazione e miglia percorse hanno contribuito a creare ilpersonaggio T-Bone. Texas-style, ancora ad oggi riferi-mento ineccepibile del classic blues da manuale. (g.di.)

THE VEGETABLE ORCHESTRAONIONOISE (Transacoustic Research/Family Affair)

7L'ultima volta che era comparsa la parola «vege-tale» in ambito popular, è in una canzone obli-qua e impossibile come la mente del creatore,

Syd Barrett. Al «diamante folle» dei Pink Floyd sarebbe pia-ciuta l'austriaca Orchestra Vegetale, che da una dozzinad'anni batte teatri e altri luoghi pubblici: arrivano, fannoincetta di verdura fresca, trasformano il tutto in strumenti.Incredibile ma vero. Ogni suono che sentite, qui, è costruitocon verdura trasformata in strumento: dai bassi profondi aiflauti a qualcosa che assomiglia a una chitarra. Se pensateche sia una cialtronata siete fuori strada: questi suonanodavvero, e fanno pure ricerca. Con ironia: vedi alla voceKrautrock, titolo e testuale realtà dell'ultimo brano. (g.fe.)

ZULICOLPI (Trumen records/Self)

7Zuli è l’alias di Marco Zuliani, un giovane arti-sta di Venaria Reale, noto in ambito hip hopper alcune importanti collaborazioni. Colpi è

il suo terzo album solista, in bilico tra reggae e hip hop,con loop e rime in stile rap impastate con melodie legge-re e orecchiabili. È un disco diretto, che va al sodo, e lamorale è: affronta la realtà a muso duro. Zuli - crudo eironico - padroneggia bene la rima e veicola il bisogno dievasione dai cliché, nel videoclip Occhi thai. Bella laversione acustica de La scommessa, un brano che haconquistato l’orecchio di David Rodigan. (g.d.f.)

chiara collistefano crippagianluca diana

grazia rita di florioguido festinese

guido michelonealessandro michelucci

brian mordenroberto peciola

L E G E N D A

Ci sono etichette funk'n'soul/retro gro-ove - come la Record Kicks, la Freesty-le, la Acid Jazz, la Tru Thoughts, laWah Wah 45s ecc. - che negli annisono diventati laboratori in cui musici-sti/produttori/remixer hanno assem-blato i loro splendidi Frankenstein.Quando non sono state esse stesse aristampare direttamente, ci hannopensato gli artisti a scavare, a manda-re in circolo campioni/samples, scheg-ge di soul creando mostri di suoni,con un piede nel passato e uno nelfuturo. Smoove Presents: Mo' Record Ki-cks-Bsides, Rmxs & Exclusive Cuts (Re-cord Kicks RKX037; 2011) non fa ecce-zione. Con il patrocinio di Smoove,che scrive le note di presentazione,l'etichetta italiana mette in campo lesue produzioni con pezzi spesso inedi-ti in cd, mai usciti in compilation oesclusivi per le raccolte in questione.Dentro Floyd Lawson, Kokolo, TrioValore, Hannah Williams & The Taste-makers e in particolare Waitin' SoLong di Nick Pride & The Pimptones,tra le band inglesi che negli ultimi tem-pi sono state più capaci di crescere eaffinarsi. Il loro pezzo è remixato dallastesso Smoove (che ritocca anche iNew Mastersounds). Altri remixer coin-volti: Lack Of Afro, Ray Lugo e Valique(remixa Scaramunga di Ray Harris &The Fusion Experience). In tutto 18pezzi che fotografano i movimenti con-temporanei del new funk. Tra gli arti-sti coinvolti anche i vicentini Link Quar-tet che tornano con 4 (HammondbeatHBR 013/2011). Tra cover dei Beatlese una splendida versione in francesedi Just Dropped In (To See What Con-dition My Condition Was in), va in sce-na una parata di deep funk, sintetizza-

tori impazziti e omaggi al wah wah. Alcuore della formazione le imprescindi-bili tastiere di Paolo Apollo Negri.

OCCHIO ad alcuni gruppi indie rockcontemporanei che per un verso o perl'altro guardano a new funk e ethnogroove. Una specie di nuovo afro-popche recupera Fela Kuti/Talking Heads/Paul Simon ecc. attraverso, diciamo, iVampire Weekend. Così come molteband anni Ottanta e Novanta recupera-rono i Velvet Underground attraverso iSonic Youth.Tra i nomi da segnalare i Kabeedies diNorwich, con già alle spalle un albumuscito in Giappone, uno in Europa(Rumpus) e una teoria di singoli effer-vescenti. In particolare Come out ofthe Blue, un misto esotico di Cranber-ries e Talking Heads e il nuovissimo -molto latin - Santiago. Qui fioccano irimandi a L'Avana, Santiago, a Castro

e al quotidiano Granma. Simili ma piùtarati sui mondi dei VampireWeekend, i Givers della Louisiana. Laband Usa - quintetto con alla voceanche Tif Lamson, maestra di ukulele- ha pubblicato l'omonimo ep: TheGivers (Valcour Records VAL CD0010). Tra i brani Up up up, unascheggia afro pop che sollecita nervo-sissimi movimenti del corpo.Attenzione ai due volumi Solla Sollavoll. 1-2 (FKR 042LP e FKR043 LP)dedicati alla produzione di Ilaiyaraaja,storico compositore del cinema india-no Kollywood, seconda industria loca-le dopo Bollywood. All’interno anchele musiche di Solla Solla, il cui clipimpazza su YouTube. Tra beat sparato,soul gangherato (Disco Song è l’anti-Donna Summer), orchestrazioni folli,ecco la risposta al ben più noto e tito-lato Mohammed Rafi, il re del Bollywo-od sound.

ULTRASUONATI❙ ❙ M O N D O E X O T I C A ❙ ❙

Metti Frankensteinsul giradischi. Tra soule ribellioni afro-rock

NEONCRIMES OF PASSION REDUX (Spittle/Goodfellas)

7Alla (ri)scoperta della new wave italiana, diquella più «nascosta» ma che aveva un segui-to di appassionati di tutto rispetto. In questo

viaggio negli anni Ottanta italici ci viene in soccorso laSpittle Records che riedita (per la prima volta in cd) unaserie di album, tra cui questo Crimes of Passion, cantodel cigno dei fiorentini Neon, pubblicato allora in treparti tra ep e mini ellepì. Era, come scrive Federico Gu-glielmi nelle note che accompagnano il cd, un tentativodi coltivare la vocazione r’n’r senza rinnegare la dancealternativa con la quale avevano fino ad allora flirtato.Post punk, quindi, nel significato più puro del termine,con uno sguardo al sound dei Killing Joke, Siouxsie, Mo-dern English ecc. Post punk così come, con accenti diver-si, era ciò che suonavano le band che la Spittle ha ripor-tato alla luce dall’oblio in questa serie di riedizioni cheripropongono i trevigiani Wax Heroes con Dal principioalla fine (contenente il singolo Sher e i loro demo), LeMasque con Spunti per commedianti, ristampa del pri-mo 12” e di una cassetta (!), e infine l’elettronica degliAtrox con Falls of Time che mette insieme gli album TheNight’s Remains e Water Tales e l’omonimo 12”. (r.pe.)

WORLD’S END GIRLFRIENDSEVEN IDIOTS (Erased Tapes)

8Inserito il cd nell’apposito lettore il display segna 78.17, e la domandasorge spontanea: sarà il caso di ascoltarlo? Le note parlano di un discounico e originalissimo, di «pop irregolare», ma si sa, si tende sempre a

magnificare i propri prodotti. Quindi di nuovo il dilemma: che fare? La decisione èpresa: si ascolta! E si capisce immediatamente che stavolta forse c’è del vero inquel che scrivono quelli dell’etichetta, la londinese Erased Tapes, label nota perdare asilo ad artisti della scena neoclassica, come Nils Frahm o Ólafur Arnalds. E

cosa c’entri World’s End Girlfriend, progetto schizzatissimo di un altrettanto schizzato musicista e compositore giappo-nese che risponde al nome di Katsuhiko Maeda, con un’etichetta del genere non si capisce, ma, in fin dei conti, nean-che ci interessa se quello che abbiamo nelle orecchie ci piace. Eccome ci piace! Pop irregolare è un termine che calzaa pennello per questo disco in cui, in maniera del tutto (apparentemente) casuale, appaiono sonorità sghembe chevanno dai glitch elettronici al rock, dalla classica al folk balcanico, dal jazz d’avanguardia all’indie pop. Fantastiche, maproprio fantastiche, Ulysses Gazer e Bohemian Purgatory Part 2, splendida Unfinished Finale Shed. (r.pe.)

ALIAS N. 15 - 16 APRILE 2011 (9

Page 10: Alias supplemento del Manifesto 16/04/2011

IL COLORE DEL VENTODI BRUNO BIGONI. ITALIA 2010

0Il colore del vento racconta ilviaggio di una nave mercanti-le nel Mar Mediterraneo. Mari-

nai che vivono sull’acqua la maggior par-te della loro vita, che si perdono nel ma-re per scoprire donne, uomini e città, percogliere e raccontare le diverse realtà delMediterraneo. Ogni scalo è una città,ogni città una storia. Da Dubrovnik a Bari,da Istanbul a Lampedusa, il film di BrunoBigoni è un giornale di viaggio: a Barcello-na incontra l’ultima testimone della rivo-luzione anarchica del ‘36 e a Genovaascolta la storia di una nigeriana giuntain Italia lungo la rotta degli schiavi. TraHugo Pratt e Kapuscinski, accompagnatodai suoni e dalle parole di «Crêuza demä» di Fabrizio De Andrè, presentato alfestival di Roma.

FASTERDI GEORGE TILLMAN JR.; CON DWAYNE JOHNSON,

BILLY BOB THORNTON. USA 2010

0Un ex detenuto è deciso avendicare la morte del fratel-lo, avvenuta durante la rapina

che ha portato alla sua incarcerazione.Ma sulle sue tracce si sono già messi unirreprensibile agente di polizia e un giova-ne sicario e nel frattempo il mistero dellamorte del fratello si infittisce sempre dipiù.

LIMITLESSDI NEIL BURGER; BRADLEY COOPER, ROBERT DE

NIRO. USA 2011

0Eddie Morra, romanzierenewyorkese vuole scrivere ilsuo nuovo libro ed è in crisi

creativa. La fidanzata Lindy decide dilasciarlo proprio in questa circostanza.L’ex cognato di Eddie gli fa allora provareun farmaco sperimentale, una drogaleggera, l’Nzt e la sua vita ha una svoltaimprovvisa. Il farmaco è in grado di sbloc-care e amplificare le potenzialità dellamente e, Eddie riesce a scrivere il suolibro in soli quattro giorni ed in seguito siarricchisce iniziando a frequentare «WallStreet». Mentre si rende conto che l’Nztha pure degli inquietanti effetti collatera-li, Eddie entra in relazione con Carl VanLoon (De Niro), magnate della finanza,che cerca così di approfittare delle strabi-lianti attitudini dello scrittore. Dal registade l’Illusionista.

SEGUE A PAG 16

LETALE

INSOSTENIBILE

RIVOLTANTE

SOPORIFERO

CLASSICO

BELLO

COSI’ COSI’

CULT

MAGICO

■ TEATRO ■ «THE BOOK OF MORMON» ■

Musical blasfemoe antimperialistadi Giulia D’Agnolo Vallan

Lo spirito ferocementeindomito, innocente e balsfemodei bambini terribili di SouthPark, il fervore kitch e sorridentedel mormonismo, il disastro po-stcoloniale dell’Africa subsaha-riana e l’esuberanza all Ameri-can della miglior tradizione delmusical alla Rodgers and Ham-merstein: è The Book of Mor-mon, storia miracolo teatral/cul-turale del momento, atterrato il24 marzo scorso a riscattareBroadway dall’imbarazzo cata-

strofico di Spider Man e a offrire un involontario, ma azzecatissimo,appiglio alla politica estera di Obama, con tutta la creatività eversivadi cui Trey Parker e Matt Stone sono capaci.

Che il duo dietro alla serie cartoon più allegramente volgare, icno-clasta e senza paura della tv americana (giunta alle soglie della 15esi-ma stagione) firmi quello che le recensioni hanno già etichettato co-me un classico del musical nostrano non stupisce: i due amici e com-pagni di scuola alla University of Colorado, ex studenti di Stan Brakha-ge, hanno dimostrato fin «da piccoli» una passione per il genere. Il pri-mo film di Trey Parker (con Stone produttore) si intitola, dopo tuttoCannibal! The Musical (1993) e alterna festini cannibaleschi a grezziballetti su musiche semplici e sentimentali (firmate da Parker medesi-mo). Lo sfondo è la febbre dell’oro ai tempi della Frontiera america-na, i protagonisti un gruppo di cercatori che attraversano le RockyMountains con un’implausibile guida mormona. La love story è traun uomo e il suo cavallo. Uno dei film successivi di Parker e Stone, ildelirante, iperlibertario - tutto girato con bambole tipo Barbie e Ken -Team America: World Police (2004) conteneva un numero musicaleispirato a Rent, finemente intito-lato Everyone Has Aids.

Ma è con South Park: Bigger,Longer and Uncut, il magnificolungo, derivato nel 1998 dalla lo-ro serie televisiva, che i due han-no dimostrato la loro profondasapienza per la forma, adattandoal loro imaginario gli intramonta-bili incanti musicali e narratividel cartoon animato disneyano(con in più tocchi coreografici daBusby Berkeley, e motivi che ri-cordano Oklahoma e Les Misera-

bles). Tra i risultati del mix sonola mitica canzone Uncle Fucka(che uno continuava a cantareper giorni dopo avere visto ilfilm), una nomination agli Oscarper Blame Canada (durante la ce-rimonia degli Academy Awards,Robin Williams la cantò con unnastro adesivo nero sulla bocca,perché Stone e Parker si rifiutaro-no di tagliare le parole «indicibi-li» su un network tv), una storiadi sesso tra Satana e SaddamHussein e una citazione nelGuinness dei primati per il filmd’animazione più profano dellastoria.

L’American Film Institute haincluso South Park: Bigger, Lon-ger and Uncut tra i migliori musi-cal mai realizzati. John Landis eTerry Gillian (due raffinati aman-ti del genere) concordano.

Oltre al musical, anche la reli-gione non è terreno nuovo perParker e Stone. Il loro primo cor-to si intitolava Jesus Versus Frosty(Frosty è l’omino di neve) il se-condo Jesus Versus Santa (ovve-ro Babbo Natale) e, nei suoi quin-dici anni di messa in onda, Sou-th Park ha dedicato numerosiepisodi a decostruire (e a offen-dere) i credo di cristiani, musul-mani, mormoni, scientologi e, ingenerale, religiosi di ogni tipo.L’episodio Red Catholic Love (atema preti e pedofilia) scatentòle ire della Chiesa cattolica; undoppio episodio sulla rappresen-tazione di Maometto giovò lorola promessa di una fine simile aquella di Theo Van Gogh (il regi-sta olandese ucciso dagli estremi-sti islamici nel 2004); e il cult as-soluto con Tom Cruise scientolo-go e gay fu bandito dalle replichesu Comedy Channel e provocòle dimissioni di Isaac Hayes chenella serie dava la voce al popola-rissimo personaggio Chef.

L’anima blasfema di Parker eStone non si è certo ripulita per ilgrande debutto su Broadway, re-alizzato con la collaborazione diRobert Lopez (l’autore del pre-mio Tony 2004, Avenue Q) e quel-la del potente produttore hol-lywoodiano Scott Rudin (TrueGrit, Fantastic Mr. Fox, ma an-che i South Park).

Il musical inzia a Salt Lake Ci-ty dove smaglianti coppie di gio-vani missionari mormoni vengo-no spedite a convertire pecorellesmarrite in tutti gli angoli delmondo. Il primo della classe, El-der Price (Andrew Rannells), so-gna di essere mandato a predica-re a La Mecca dei parchi a tema:Orlando. Il goffo, fantasioso, El-der Cunningham (John Gad) so-gna e basta. I due estremi oppo-sti vengono appaiati, e inviati inUganda. Dove, nemmeno allametà del primo atto, dopo esserestati maltrattati in aereo e deru-bati, si trovano a ballare con l’al-legra ma sfigatissima popolazio-ne di un villaggio africano. «Hasadiga eebowai», cantano tutti incoro. È un po’ il loro «HakunaMatata», spiegano gli infedeli aimissionari. Un’invocazione chesi canta quando le cose vannomalissimo, e che fa più o menocosi «Dio vai a farti fottere - in cu-lo, in bocca».

No, come dice Elder Cunnin-gham perplesso, l’Africa di TheBook of Mormon non è quella diThe Lion King.

Sorprendentemente tradizio-nale, curato e rigoroso nell’im-pianto scenico e musicale, TheBook of Mormon, ha tutto il pub-blico (neworkese ma non solo,non molti i giovanissimi) dallasua entro circa quaranta minutidi spettacolo. L’intero secondotempo è una risata ininterrotta.Ha anche un inferno mormone

tra le cui fiamme si agitano con-tenti Hitler, Genghis Kahn, l’av-vocato di O.J. Simpson JohnnyCochran e due enormi tazze dicaffé Starbucks. Evoca Aids, muti-lazioni di genitali femminili, stu-pri di bambini e apparizioni diGesù, del profeta mormone Jose-ph Smith, del pastore mormoneBrigham Young, di Darth Vader,Bono e Frodo Baggins. La vocedi Dio – Hey guys! - è la stessa diCartman, il micidiale ciccione diSouth Park.

La satira sull’implausibilità,l’inadeguatezza e l’ipocrisia del-la religione che colonizza l’Africanera è anche satira dell’imperial-smo culturale a stelle e strisce.Una religione made in Usa (ilmormonismo), per una forma dispettacolo made in Usa (il musi-cal) per l’export più di successodella storia Usa (la pop cultura).Come il filo rosso che lega tutti imigliori episodi di South Park e ifilm di Parker e Stone, The Bookof Mormon è, allo stesso tempo,una critica e una celebrazionedell’American spirit, delle con-traddizioni, dell’esuberanza edei lati oscuri di quella singolari-tà americana che Obama invoca-va cercando, per esempio, di te-nere insieme logica e illogicità to-tale nel suo discorso sulla Libia.È una visione sia cinica che pie-na di speranza.

«Siamo affascinati dall’ideache la felicità e la fede possanoessere valori più alti della verità»,ha detto al Wall Street JournalMatt Stone, che si definisce «unateo pieno di dubbi». «In un cer-to senso, Guerre stellari è la no-stra religione. Spider Man è unareligione. Ci hanno influenzatipiù di Gesù, ma si tratta pur sem-pre di storie», gli ha fatto ecoTrey Parker.

In risposta all’uscita su Broad-way di The Book of Mormon, perora, il sito della Chiesa di GesùCristo dei Santi degli Ultimi Gior-ni ha postato solo una dichiara-zione piuttosto neutra: «questaproduzione teatrale tenta di di-vertire il pubblico per una seramentre le Sacre scritture dei Mor-moni cambiano per sempre la vi-ta di molte persone avvicinando-le a Cristo».

Non fanno male a non pren-dersela troppo. Dopo tutto TheBook Of Mormon funziona comeun’esperienza edificante.

10) ALIAS N. 15 - 16 APRILE 2011

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UN PRESIDENTE MORMONE?

I repubblicaniattratti da Romney

I QUARTIERI PER SOLIBIANCHI DI NEW YORKQuesto sì che è un vero smaccoper New York. Utilizzando i datidel censimento, il sito di Salon.com ha stilato la classifica delle10 aree metropolitane più segre-gate d'America, e la Grande Mela,tanto orgogliosa del suo meltingpot, si è scoperta in cima alla lista.Al secondo posto, giusto dopoMilwakee, patria da anni del ghet-to più isolato degli Stati Uniti. Per-ché qui i neri, anche se costitui-scono una piccola percentualedella città del Winsconsin, nonpossono uscire dalle mura delcentro. I bianchi, che se ne sonoandati a vivere nei sobborghi, sioppongono infatti ferocementepersino a una politica di trasportipubblici, per timore che gli afroa-mericani arrivino nei loro ricchiquartieri residenziali. Quelli perintendersi da cui sono arrivati avalanga i voti per eleggere gover-natore, il novembre scorso, il re-pubblicano Scott Walker, noto intutto il Paese per aver cancellatoil diritto alla contrattazione colletti-va delle Unions dello stato.Ma per l'appunto, subito dopo c'èNew York, la capitale dei neri findai tempi della grande migrazio-ne dal Sud, all'inizio del 1900.Certo, quando si parla di segrega-zione non bisogna pensare aManhattan o a Queens (il quartie-re dove si è trasferita una partedella middle class nera che halasciato Harlem), ma ai paesi alleporte della città, come Westche-ster, dove l'80% ha la pelle bian-ca, o Yonkers, dove negli anni '80il comune preferì rischiare la ban-carotta piuttosto che costruire ca-se popolari, e ai neri non rimaseche andare altrove.In realtà però, persino nel cuoredi New York la segregazione abita-tiva è ancora forte. Se sono lonta-ni i tempi in cui, erano gli anni'40, quando nei palazzoni del Pe-ter Cooper village, nel Lower eastside, era vietato affittare agli afroa-mericani, in questi anni tutti i ten-tativi di introdurre un po' di mel-ting pot ad Harlem sono sostan-zialmente falliti. Dopo la brevecosiddetta «Second Reanaissan-ce», quando una manciata dinewyorkesi bianchi si trasferì anord (alla ricerca di case ristruttu-rate ma comunque a poco prez-zo), è infatti arrivata la crisi. E chivive oggi a Harlem magari non hala pelle nera, come i latinos diHispanic Harlem o i dominicaniche vivono a Washington Heights,ma poco conta. Perché sempre disegregazione si parla, anche sequesta volta su base economica.Dalla classifica di Salon.com arrivadel resto un secondo smacco peri newyorkesi. Perché al 10˚ posto,in fondo alla lista, c'e' l'antica riva-le, Los Angeles. Dove la segrega-zione in realtà esiste ancora, vistoche come ad Harlem neri e lati-nos vivono fianco a fianco, mapur sempre lontani dalle comuni-tà dei bianchi dell'Orange countyo di Beverly Hills. Ma dove i pro-gressi sono costanti e visibili, e se,come dice Camille Charles, autri-ce di Race, class and residence inL.A, «Forse non arriveremo mai aun indice di segregazione zero,con tutti che cantano kumbaya esi sposano tra di loro», qualchesperanza di cambiamento c'è.

di G.D.V.NEW YORK

Potrebbe essere mormone il prossimo av-versario di Obama (Willard) Mitt Romney ha annun-ciato la formazione di un exploratory committee pervalutare le sue chance di ottenere la nomination. Inun panorama piuttosto sparuto (solo l’ex governato-re del Minnesota Tim Pawlenty ha fatto un annun-cio analogo), l’ex governatore del Massachusetts, exresponabile delle Olimpiadi invernali di Salt Lake Ci-ty 2002, e discendente da una famiglia mormona dasei generazioni è il front runner, almeno per ora. Pub-blicamente, Romney cerca di non di-scutere la sua religione e il suo rappor-to con la Chiesa dei Santi degli UltimiGiorni – i sondaggi in occasione delleprimarie del 2008 (in cui Romney fubattuto da John McCain) hanno infat-ti rilevato che il pregiudizio degli eletto-ri nei confronti di un possibile presi-dente mormone era maggiore (nell’or-dine) di quello di un afroamericano(Obama) e di una donna (Hillary).

La battaglia di Romney - già segna-ta dalla riforma sanitaria che varò inMassachusetts, simile a quella diObama detestatissima dalla destra -sarà quindi una battaglia complicatada quel fattore. Il missionariato diMitt Romney (che ha un accecantesorriso Pepsodent e nei dibattiti sfog-gia la solare, legnosa, inossidabilitàdi Elder Price) non è stato in Ugandabensì a Le Havre, Francia. Nelle inter-viste ricorda quel periodo «comel’unico nella mia vita in cui quasi tut-

to quello che facevo veniva rifiutato». Cresciuto nel piùaperto Michigan (il padre era stato governatore repub-blicano moderato), Romney sfuggì all’uniformità delloUtah. Ma, a leggere Wikipedia, pare che i francesi si sia-no dimostrati un osso durissimo da convertire, quasiquanto gli abitati dell’Uganda nel musical di Parker eStone. In particolare, sembra che il divieto mormone alfumo e all’alcol fosse praticamente insormontabile… Inrisposta al loro rifiuto dei valori religiosi, simbolizzatodal maggio ’68 e dall’opposizione alla guerra in Viet-nam, Romney sviluppò una forte antipatia, che più tar-di avrebbe influenzato le sue posizioni di politica estera(è in genere un falco) e sui dibattiti relativi a problemi so-ciali. Di ritorno in Usa, dopo esserestato capo sezione della missione diBordeaux, Romney (il cui arruola-mento in Vietnam venne rimandatoperché studiava, poi perché era mis-sionario, fino a non essere più fattibi-le) ha studiato alla Brigham YoungUniversity, in Utah dove e si e sposa-to (nel tempio di Salt Lake City) conla compagna di scuola Ann Davis.

Qui soprada sinistra gli arteficidi «The Bookof Mormon»:il regista e coreografoCasey Nicolaw,gli autori Trey Parkere Matt Stone,il compositore BobbyLopez.In alto il teatrodi Broadwayche ospita il musical

È il miracolo teatral-culturale del momento

il musical atterrato il 24 marzo a Broadway

e firmato da Trey Parker e Matt Stone,

gli autori di «South Park», da 15 anni la serie

cartoon più allegramente volgare, icnoclasta

e senza paura della tv statunitense

ALIAS N. 15 - 16 APRILE 2011 (11

Page 12: Alias supplemento del Manifesto 16/04/2011

di Elfi Reiter

«La passione ha in séuna grande forza comunicativa el’amore è uno stato isolato. Trovomolto deprimente venire a sapereche l’amore è una creazione-inven-zione interiore» aveva detto WernerSchroeter a Michel Foucault nel lon-tano dicembre 1981 comodamentesdraiato sulla moquette in casa delfilosofo francese a Parigi, il qualeera rimasto affascinato dal film Lamorte di Maria Malibran dello stes-so Schroeter (edito da poco in dvdda Edition Filmmuseum). I due nonsi conoscevano sino a quel primo in-contro, ma si erano dilungati in unaintensa conversazione sul concettodi amore e passione nei film del ci-neasta tedesco, scomparso l’annoscorso il 12 aprile a causa del cancroche gli aveva tolto ogni energia vita-le. Ma cos’è la passione? Prendiamoin prestito le parole di Foucault det-te in quella stessa occasione: «è qual-cosa che ti cade addosso, si impos-sessa di te tenendoti ben stretto,non ti concede tregua, ma non si sada dove provenga essendo uno sta-tus vivendi in perenne mobilità chenon ti porta a nessun punto fermo;vi sono momenti forti e momenti de-boli, altri in cui puoi andare anchein escandescenza, la passione è sem-pre in movimento procurandoticontinuamente istanti instabili cheper qualche ragione oscura si susse-guono l’un l’altro». Tutto il cinemadi Schroeter è frutto di questo con-flitto tra amore e passione, da lui vis-suto profondamente in funzione diun lavoro svolto unicamente peresprimersi perché per lui anarchica-mente parlando «lavorare è creare».I suoi film si nutrono di figure miti-che e mitologiche che pur invec-chiando non invecchiano. I suoi per-sonaggi sono simulacri da riempirsicon valori socio-politico-culturali -e soprattutto umani - universali,non lo interessavano i tratti psicolo-gici, anzi. Diceva Schroeter a Fou-cault, sempre quella stessa sera: «ilcinema non è composto d’altro chedi drammi psicologici e di film di ter-rore psicologico... io non ho pauradella morte, forse può essere arro-gante dirlo, ma è la verità. Guardarela morte in faccia è un sentimentoanarchico, pericoloso, che va controle regole sociali, ma la società ci gio-ca, con il terrore e la paura». La con-versazione tra il filosofo e il cineastala si può leggere per intera nel volu-me dedicato a quest’ultimo nel1982 dalla Cinémathèque Française(a cura di Gérard Courant), dove hotrovato anche la ristampa di un arti-colo di Colette Godard, critico teatra-le di Le Monde, in cui si parla di Sa-lomé, sublime messinscena con Ma-gdalena Montezuma nel ruolo delre della Giudea. L’attrice tedesca, ol-tre a essere stata compagna di lavo-ro era stata una specie di alter ego diSchroeter, messo a segno in moltiruoli (su tutti campeggia la mitica fi-gura di Magdalena in Willow Sprin-gs girato nel ’73 in una terra di nessu-no nelle vaste praterie degli Usa). Lamorte prematura di Montezuma(pure lei per un cancro nel 1984)aveva inciso molto sulle immaginidi Der Rosenkönig, film che riuniscevarie rappresentazioni di rara bellez-za del momento di morte nelle artivisive ad altre di estremo kitsch omanierate e di effetto. Non mancachiaramente l’allusione alla deca-denza a livello metaforico, né l’ac-compagnamento musicale con arie

da opere liriche in cui la forza deisentimenti distrugge tutto.

Tornando a Salomè, va detto cheesiste la versione filmata (per contodella Zdf) girata nel 1971 a Baalbekin Libano per ricreare nella finzionecinematografica la realtà scenica e ri-presentare anche al pubblico nellesale cinematografiche lo spazio tea-trale costruito in origine e che era ro-vesciato rispetto alla situazione clas-sica da anfiteatro: svolgendosi l’azio-ne per intera su una scalinata, è ilpubblico a ritrovarsi nell’arena. Citoquesto articolo per un altro motivo,però, che si rifà alla visione utopico-anarchica e tremendamente concre-ta di Schroeter sul mondo: nella ver-sione teatrale della pièce di OscarWilde (vista da Colette Godard aNancy nel 1973) c’era un gioco di lu-ci esilarante in cui dal fondo della sa-la una tonda luna rossa gettava unaluce fiammeggiante sulla scalinataavvolgendo la scena come un man-tello, mentre dal palco erano direttidue proiettori con luci blù verso lasala illuminando così il pubblico edecomponendo del tutto l’interospettro dei colori. «Immaginateviuna coppia ben vestita, entrambi se-duti nelle loro poltrone, nel momen-to in cui lui, a spettacolo iniziato, sigira verso di lei per sussurrarle unafrase mondana e all’improvviso cac-cia un urlo perché vede la sua com-pagna trasformata in un vampiroespressionista», aveva detto con ariadivertita alla giornalista francese il re-gista tedesco Werner Schroeter. Poisegue nel raccontare che lui, essen-do stato etichettato come regista un-derground in Germania, ebbe parec-chie difficoltà a lavorarci perché viregna da sempre un sistema teatralemolto ben organizzato e molto bensovvenzionato. La difficoltà perònon era lavorare in quei teatri, masubire l’accusa di essersi venduto. Elui si difese dichiarando di sentirsimeno fascista nel portare e esprime-re le sue idee dentro le istituzioni, ri-spetto al doversi nascondere in unasituazione marginale, dove sicura-mente avrebbe avuto la sua posizio-ne e la totale libertà creativa, manon quel peso: meglio accettarequalche piccolo compromesso e an-dare sul grande palcoscenico del-l’opinione pubblica! Benché qual-che concessione andava fatta, comead esempio – continua sempre a pre-cisare Schroeter la cui Salomè avevavoluto essere anche «la rappresenta-zione della famiglia da incubo bor-ghese» – «avrei voluto far recitare gliattori nudi con i corpi dipinti peresaltarne le ideologie decadenti» esoprattutto «avrei voluto riversaresulla scalinata duecento litri di san-gue fresco, rosso vivido, affinché Sa-lomè potesse rotolarvisi dentro, main un mondo in cui piace moltomangiare il sanguinaccio mentre i fe-riti muoiono sulle autostrade per-ché nessuno si ferma per aiutarli, ilsangue non può avere un valoreestetico, anzi, è vietato - tabù!».

«Il segreto dell’amore è maggioredi quello della morte» dice Salomè a Johannan morto sul piat-to d’argento, e il sangue, il colore rosso, sono elementi che tor-nano continuamente nel suo cinema. Così come sin dal primofilm Eika Katappa (1969) dalle immagini dissipate, il suo di-scorso visivo si costruisce soprattutto sulla base musicale, anziè la musica a incarnarsi negli esseri sulla scena, sullo schermoe poi nella sala, ossia negli spettatori. La musica, complice l’ar-te vocale di Maria Callas, la sua «genia», conduce all’estasi e ipersonaggi sono rivestiti con dialoghi e emozioni, mentre leazioni sono spesso ridotte a puri stati portatori di emozioni,dato che - come ho già detto - nel cinema di Schroeter non c’èpsicologismo alcuno. I suoi film spe-rimentali superano la dimensionedata spazio-temporale, con fre-quenti inserti di immagini di altriluoghi e/o situazioni per rompereogni linearità narrativa e visiva. Viregna l’imperfezione, certo, queicontrappunti inseriti puntualmen-te a livello iconico e metalinguisticoper suscitare corto-circuiti a livellodi senso e di visione. Un inno allasocietà della bellezza da scalpello,decadente e decaduta.

A un anno dalla morte, avvenuta il 12 aprile

2010, un ricordo del grande regista

tra i maggiori esponenti del nuovo cinema

tedesco, «esploso» nel 1963 grazie anche

a cineasti come Fassbinder, von Praunheim,

Peter Lilienthal, Agnès Varda e Jean Eustache

■ 1981, L’INCONTRO TRA IL REGISTA E MICHEL FOUCAULT ■

Con amoree passione

EL BATOUT DA PAGINA 5

pensi che sia la Turchia il mo-dello del nuovo Egitto?

Turchia, Indonesia, Argentina, Bra-sile … alla fine uscirà una ricetta tut-ta egiziana che si adatterà alla no-stra situazione. Lo si vede già nel di-battito dei Fratelli Musulmani.

Cosa sta succedendo?C’è grande discussione. Una matti-na si alza un mullah e dice che si an-drà verso una maggiore occidenta-lizzazione, che perderemo i nostrivalori e le nostre origini, che dobbia-mo solo pregare… il giorno dopo sene alza un altro che zittisce e discre-dita le parole del precedente. È si-gnificativo il dibattito che avvieneanche dentro il movimento dei Fra-telli Musulmani, dove i punti di vi-sta divergono. Stiamo vedendo unnuovo Egitto, tra mille difficoltà, mal'importante è cominciare!

Che cosa pensi dei tanti diviegiziani che si sono schieraticontro la protesta?

Pensare a loro è solo una perdita ditempo, avevano tutto da perderecon la fine del regime di Mubarak.Preferirei chiudere il discorso qua.

Cosa sta accadendo nel mon-do arabo e in Libia? E cosa pen-si dell'intervento occidentalecontro Gheddafi?

Non riesco a spiegarmi perché siasuccesso contemporaneamente inmolti paesi arabi. Ovviamente la Tu-nisia è stata la scintilla che ha resopossibile la rivoluzione in Egitto; sein 17 giorni siamo riusciti a far di-mettere Mubarak, lo stesso può suc-cedere in Yemen, Bahrein, Siria, Li-bia… è un contagio. Il motivo prin-cipale della rivolta? Semplicementequesti regime hanno governato conl'oppressione e la tirannia per de-cenni, e le popolazioni arabe sonostanche di questo sistema. Hannovisto in televisione che era possibilecambiare i regimi; la gente in stradanei diversi paesi canta gli stessi slo-gan che venivano cantati in Egitto ein Tunisia, lo ripeto, è un contagioperché ogni paese arabo è affettodallo stesso male. Le persone sonopronte a chiedere il cambiamento,e questo è positivo. Gheddafi? Stavabombardando e massacrando il pro-prio popolo, doveva essere fermato.Sono contrario come te alla guerra,però se non ci fosse stata la risolu-zione Onu e il successivo interventodel contingente internazionale, mol-to probabilmente Gheddafi avreb-be riconquistato tutta la Libia spar-gendo il sangue del suo popolo.

La vittoria di Gheddafi avreb-be fermato i moti rivoluziona-ri nel mondo arabo?

Probabilmente sì. Quell’eventualescenario e avrebbe dato adito ai pre-sidenti di Siria, Bahrein e Yemen diusare la forza per evitare la cadutadei regimi, seguendo il metodoGheddafi. Sarebbe augurabile chesi dimettessero davanti all'evidenzadella storia, ma hanno troppi inte-ressi personali da proteggere per ab-bandonare il potere, come è giusto.

Vorrei lasciare Ibrahim El Batoutcon le parole della canzone chechiude il suo Hawi: Sono diventatoun giocoliere/Sono assuefatto nel te-nere le mie lacrime quando il dolorecresce/Ho imparato a tirare fuori ilpezzo di pane dalle costole della po-vertà/Ho imparato bene a nasconde-re la mia lacrima dentro il mio cuo-re, non importa quale …/Ho accetta-to di dormire con la testa penzolantein giù come un pipistrello/Perché misono abituato a vedere i miei sogniche scivolano via/Ho mollato e ho la-sciato la polvere depositarsi sul mioviso intatta.

Un giovane WernerSchroeter nel 1973in Messico per girare«Der Schwarze Engel»;in piccolo una scenadel suo film del 1976«Goldfloken»e una immaginerecente del registain una fotodi Ruth Ehrmann

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■ VITA E FILM DEL CINEASTA TEDESCO ■

«Il cinema è da sempremusica per gli occhi»di E. R.

La sua elegante silhouet-te si riconosceva da lontano, altoe magro, vestito rigorosamente dinero, i capelli lunghi bianchi e losguardo intenso: Werner Schroe-ter stava già male quando fu ospi-te del convegno di tre giorni a luidedicato a Villa Vigoni sul lago diComo nel settembre 2009. Curatoda Gianni Rondolino e WolfgangStorch erano previsti diversi inter-venti teorico-critici e la proiezionedi alcuni film, noti e meno noti, co-me Salomè (di cui parlo qui accan-to), Die Generalprobe/La répéti-tion générale del 1980 e l’ultimoNuit de chien (premio della giuriaper l’opera omnia a Venezia2008). Tra le persone invitate c’eraAnne Even, una delle responsabilidi quello che fu il vero laboratoriodel nuovo cinema tedesco: Daskleine Fernsehspiel sul secondo ca-nale tedesco, Zdf. Tutto era inizia-to nel ’63, quando in tv si fecero so-lo adattamenti letterari per manodi registi polacchi anonimi. Do-v’era il nuovo? Al festival di Man-nheim, allora piattaforma di lan-cio per giovani registi non solo te-deschi. Fu così che il Fernsehspiel

lanciò la proposta di produrrefilm di giovani registi per poi man-darli in onda (e ai festival). Qual-che nome? Rainer Werner Fassbin-der, Rosa von Praunheim, Peter Li-lienthal, ma anche Agnès Varda,Jean Eustache, e Werner Schroe-ter. Furono loro a inventare i cosid-detti Kamerafilme essendo produ-zioni a basso costo, senza produt-tore, con solo il cineasta, sulla ba-se di una paginetta di trattamen-to, con il 50% della somma pagataal momento della firma del con-tratto. Schroeter nel 1970 ha realiz-zato Der Bomberpilot (recensioni«bomba» a fronte di una valangadi lettere di protesta dagli spettato-ri), seguito nel ’72 da Der Tod derMaria Malibran (critiche pessimema stavolta amato dal pubblico),e quindi Willow Springs, Goldfloc-ken/Les flocons d’or e Der schwar-ze Engel. La libertà creativa era to-tale, la produzione sulla fiducia:per Willow Springs si era partiticon un progetto su Marylin Mon-roe e il regista era tornato con tut-t’altro. A suo dire era andato alla ri-cerca di dio, di quell’angelo neroche poi sarebbe diventato l’interosoggetto di un altro film (Derschwarze Engel, nel 75). Fu sua ma-dre a suggerirgli quell’immaginesulla base di una foto in bianco enero di Bulle Ogier apparsa in Les

flocons d’or, discorso poetico sulmondo della droga in cui inqua-drature pittoriche frontali, senzaalcun rimando a un ipotetico fuo-ricampo, come se fossero statescolpite, sono assemblate comeversi di una poesia in totale attra-zione verso la morte. Willow Sprin-gs invece è una composizione visi-vo-sonora plurilivellare dai signifi-cati plurimi grazie al susseguirsi dibrani parlati, immagini e branimusicali a mo’ di refrain nelle arieliriche, assemblati ogni volta inmodo diverso affinché si produca-no richiami alle scene precedentinella memoria di chi guarda. Coninteressanti effetti stranianti, pe-rò, e al contempo un détourne-ment totale per una riformulazio-ne delle tre protagoniste assiemealle loro storie e ai loro miti. «Il ci-nema è da sempre musica per gliocchi» ci ha ricordato il cineastanel corso delle discussioni intenseanche a tavola, e lui la conoscevabene la storia del cinema astrattonato negli anni 20 a Berlino maper non smentirsi aggiunse subitoche «allo stesso tempo è un colla-ge sonoro, come nelle opere di Go-dard o di Amos Gitai, portandocon sé la trasfigurazione di sonori-tà visive e acustiche».

Nel commentare Malina (1990con Isabelle Huppert nel ruolo del-la scrittrice austriaca Ingeborg Ba-chmann) Schroeter precisava che«ogni opera d’arte ha la propria di-mensione reale in cui risiede lasua trasparenza». Il suo Malina sicompone di vari livelli: il ritrattodella Bachmann nel romanzo, lesue poesie, la sua condizione psi-

chica, gli elementi aggiunti da El-friede Jelinek, l’autrice del roman-zo, e la personale interpretazionedi Isabelle Huppert in un flussocontinuo tra sceneggiatura e im-provvisazione. La componentesurreale era il fuoco scatenatosi incasa che di fatto rappresentava ilsuo fuoco interiore (ma IngeborgBachmann era morta davvero perincendio nel suo letto), perchéspiegò il suo autore «filmare la let-teratura non è duplicare un testobalbettandolo visivamente, macompiere un atto violento nel tra-sformarlo in altro, in questo casousando le parole chiave ‘cuore apezzi’ e ‘epos dell’anima’». Lo stes-so concetto valeva nel creare Nuitde chien: qui si era partiti da unthriller con struttura base più for-te, ma lui aveva percepito dentro

di sé la storia e seguito le tracce la-sciate dalla lettura di Para esta no-che (scritto nel 1942 da Juan Car-los Onetti, scrittore uruguayanovissuto in Argentina fino al 1975,quando emigrò in Spagna per cau-se politiche) «come se fosse acca-duto tutto in una notte, qui». InMalina, invece, il fulcro era la not-te perenne, la disperazione totale,un cuore infranto.

Che cosa fa di un film un film?La fotografia. Parola di Schroeter:«Nel liberare l’immagine si fannoentrare le emozioni della vita -l’amore la morte l’ironia - e nell’in-treccio tra musica, testi e immagi-ni può nascere in apertura assolu-ta l’amore e la libertà». Il suo, pre-cisa infine, è un cinema realistanel senso di «essere verosimile».Poi entra nel dettaglio: «Nuit de

chien descrive la catastrofe conestrema bellezza, non vuole esse-re uno sguardo fascista ma salva-re la bellezza anche in momentiatroci. Così l’uso della musica èper sottolineare l’estremo negati-vo, per accompagnare il dolore diesseri umani torturati e feriti, e da-re conforto. La musica è un lin-guaggio senza parole e la musicapiù alta è il silenzio. È un film mol-to molto duro, ma vi risiede la spe-ranza per una nuova apertura,una soluzione positiva».

Non possono mancare due ri-ghe su quel capolavoro che è Laprova generale, nato come repor-tage dal festival di Nancy nel1980, avamposto di teatro speri-mentale e underground. PerSchroeter «una co-creazione trame e gli artisti incontrati in occa-sione degli spettacoli: Kazuo Oo-no, maestro di vita e artistico aven-do lui creato nella danza butohun prisma di espressione umanatra il Kabuki e il Teatro No; PinaBausch e il suo Tanztheater; igruppi di teatro politico brasilianie argentini». Le musiche nel filmal 70% sono sue, e il montaggiotra brani di spettacoli, interviste,impressioni della città e impres-sioni musicali fa scaturire un trion-fo della bellezza da cui il soggettoscompare. Perché il vero soggettoè la sua dimensione politica, la ri-flessione sulla Germania, all’epo-ca per lui una situazione molto de-primente, analizzandone la storia,il periodo del nazismo e il suo ri-flesso sull’oggi. O meglio, ieri.Una lucida fotografia dell’arte co-me funzione politica.

ALIAS N. 15 - 16 APRILE 2011 (13

Page 14: Alias supplemento del Manifesto 16/04/2011

MUSICA DA VEDERE

Il jukebox digitaleè free(mium)

■ MUSICA DA AVERE ■ DISCOTECA CLOUD COMPUTING ■

Note sospesetra le nuvole

di Raffaele Mastrolonardo

Il primo decennio del millen-nio, dal punto di vista dell'innova-zione della distribuzione musicale,è stato caratterizzato da iPod e iTu-nes, il dispositivo e il servizio che so-no riusciti a sfruttare commercial-mente la rivoluzione innescata da-gli mp3 e dai network p2p trasfor-mando le canzoni digitali in busi-ness. Il marchio sui prossimi 10 an-ni potrebbe invece stampigliarlol'azienda in grado di far fare alle no-te un salto sulle nuvole. Si chiamacosì, «cloud» nel gergo informatico,quel processo che sposta contenutie servizi dai Pc alla rete, ovvero aiserver di aziende specializzate inquesti servizi, e sembra interessaresempre più aspetti della nostra vitadigitale. È accaduto per le email, staper succedere con la musica dove èiniziata la gara tra i grandi della reteper imporsi come casseforti etereedel nostro patrimonio di note digita-li e come juke box personalizzati ca-pace di fare arrivare le melodie pre-ferite ovunque siamo (purché, ov-viamente, dotati di connessione In-ternet). In questa corsa al cielo Ama-zon, dai più conosciuta come gran-de libreria online, è scattata per pri-ma, bruciando ai blocchi di parten-za sia Google che Apple, entrambe– si dice – in procinto di lanciare of-ferte analoghe. Il colosso Usa ha an-nunciato che regalerà a tutti coloroche hanno un account del servizio 5gigabyte di spazio (buoni per conte-nere circa 1.250 canzoni), che posso-no quadruplicare acquistando un al-bum Mp3 attraverso il sistema divendita di musica digitale della stes-sa Amazon. Da questo deposito onli-ne l'utente, grazie a un'applicazio-ne, potrà ascoltare la sua musicaovunque si trovi attraverso un sem-plice browser per il Web o un telefo-nino dotato di sistema operativo An-droid. Inoltre, tutti i brani acquistatiattraverso Amazon finiranno nellacassaforte virtuale senza incideresullo spazio.

Messa così Cloud Player, questoil nome dell'iniziativa, sembra l'uo-vo di Colombo, ovvero l'evoluzionelineare del tragitto di progressiva se-parazione della musica (e di qualsia-si altro contenuto digitalizzato) dalsupporto fisico. L'approdo sulle nu-vole appare tanto intrinseco alla lo-gica delle cose che sembra stranoche solo Amazon, tra i grandi colos-si dotati di un'infrastruttura di ser-ver e data center in grado di garanti-re spazio e banda di trasmissione amilioni di persone, ci si sia buttatacon convinzione, e solo oggi.

Ma se gli avversari nicchiano e so-no disposti a concedere al rivale ilvantaggio della prima mossa una ra-gione c'è. Ed è che logica economi-

ca, abitudini degli utenti e dirittonon sempre vanno di pari passo.Non erano passate che poche oredall'annuncio di Cloud Player infat-ti che una portavoce di Sony Musicha fatto sapere che il nuovo serviziodella libreria online non è compre-so nelle licenze firmate con il colos-so giapponese. Insomma, secondoSony (e le altre major), un conto èvendere legalmente un brano, co-me fa Amazon, un altro consentireall'utente di depositarlo online eascoltarlo dove e quando vuole susupporti diversi. Per le etichette, in-fatti, a meno che non sia altrimentispecificato, vale il principio «un ac-quisto un download» e il prezzonon sempre consente la copia del fi-le e l'ascolto su più supporti. Pro-prio quello che, invece, Amazonpromette. Senza contare che in que-sto caso non c'è nemmeno bisognodi copiare il file: resta sempre lo stes-so ascoltato in momenti e luoghi di-

versi.Ce n'è abbastanza, come è chia-

ro, per mettere un'altra volta in crisii signori della musica. I dubbi dellemajor sono poi acuiti dal fatto cheAmazon, come detto, permette l'ar-chiviazione non solo delle canzonilegalmente acquistate sul suo servi-zio ma di tutto quanto l'utente hascaricato sui propri hard disk e dun-que, potenzialmente, provenienteanche da circuiti non autorizzati. Lasocietà di Jeff Bezos, si difende affer-mando che la sua è una normale of-ferta di storage online analoga aquella che già è proposta da centina-ia di aziende arricchita da un'appli-cazione che consente l'ascolto. Dalpunto di vista tecnologico non èuna novità (altri già fanno entram-be le cose), quello che cambia è ladimensione del soggetto che lo pro-pone. Il che per le etichette musica-li fa una certa differenza.

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di Matteo Pervinca

Doveva essere Apple eil suo negozio di musica iTunes. In-vece potrebbe essere Google e ilsuo YouTube a portare, una voltaper sempre, la musica nel millen-nio digitale. Almeno per come, daNapster in poi, gli utenti hannosempre desiderato questa rivolu-zione: un immenso jukebox di no-te a portata di click, con accessoistantaneo e senza alcuna limitazio-ne di copyright o lucchetti digitali.

Nell’attesa che anche in Italia ar-rivino servizi di successo come Spo-tify (una sorta di iTunes gratuitodove si trovano milioni di traccemusicali), i navigatori del Belpaesenon devono più dividersi tra l’eter-no dilemma: scarico quel disco suiservizi illegali di peer-to-peer (dan-neggiando, magari, i gruppi indi-pendenti) o la compro su iTunes(andando così ad ingrassare le cas-

Amazon rompe gli indugi

e offre agli utenti

la possibilità di archiviare

la propria musica online

e accedervi con qualunque

dispositivo.

Google e Apple sembrano

intenzionate

a copiare il modello

della nuvola.

Ma le major non sono

d'accordo

14) ALIAS N. 15 - 16 APRILE 2011

Page 15: Alias supplemento del Manifesto 16/04/2011

MUSICA DA ASCOLTARE

Alla ricercadella qualità acusticadi Gabriele De Palma

Gli ultimi due Lp dei Radiohead ri-marranno nella storia. Non tanto per la qualità ar-tistica ma per la distribuzione. Se In Raibows nel2007 aveva suscitato scalpore per l'idea di render-lo disponibile al download a offerta libera, nelsenso di offrire anche zero, The King of Limbs,pubblicato il mese scorso, costituisce una novitàper il fatto di essere disponibile al download inun formato digitale dalla qualità equivalente alCd, il Waveform Audio File Format o WAV. Lascelta della band di Oxford non ha avuto la stessarisonanza mediatica del download potenzialmen-te gratuito – che in effetti molti scelsero di non pa-gare – di 4 anni fa ma è altrettanto significativo co-me esperimento. È possibile scaricare l'album indue differenti formati, compresso e non, con per-dita di dati o meno, AAC o WAV. E per l'alta quali-tà si paga di più, 11 euro contro i 7 della versionecompressa con perdita di dati.

La querelle sui formati digitali a perdita dati(lossy) o meno (loseless), ripropone quella più da-tata e mai risolta tra analogico, il vinile, e digitale,il Cd. Tra le schiere dei lossy ci sono molti formatidiversi, i più celebri sono l'mp3, lo standard ela-borato dal Fraunhofer Institute e promosso da Le-onardo Chiariglione, e l'AAC, utilizzato da Appleper la compressione sulla piattaforma iTunes.Tra quelli che mantengono intatta la qualità delCd ci sono quelli che comprimono il file, come ilFlac (che arriva a dimezzare il peso), ma che poilo decomprimono recuperando tutti i bit origina-ri e quelli che invece lo mantengono inalterato,come il WAV, sviluppato da Microsoft e Ibm.

Il successo dei lossy è stato decretato da unpreciso periodo storico, quello delle connessionilente degli anni '90. Sia Mp3 che AAC infatti ridu-cono le dimensioni del file musicale di 10 volte,portando la definizione del suono da un bitratedi 14mila kilobit al secondo (Kbps) a 128Kbps.Ciò permise di trasferire i file in tempi ragionevo-li mantenendo una qualità dell'ascolto accettabi-le se fruito attraverso le casse del pc o in cuffia sulettore mp3 portatile. Ma provare a riprodurre suun impianto stereo un brano lossy è un'esperien-za ben poco soddisfacente. La perdita di nove de-cimi dei dati originari si sente, e anche le versionipiù ricche di lossy (a 256 o a 320Kbps) depaupera-no non poco la timbrica e la dinamica delle noteregistrate. E i nativi digitali (coloro che sono natidopo il 1990) si apprestano a divenire una genera-zione che ascolta una musica di qualità acusticainferiore rispetto alla generazione precedente. Fi-nora la difesa dei formati loseless era stata affida-ta ai cultori dei generi più sofisticati anche dalpunto di vista sonoro, la musica classica e il jazz.Deutsche Grammophone già da due anni mettea disposizione dei clienti online versioni Flac oWAV. Ma finora la musica pop si era limitata a mi-gliorie qualitative nell'ambito dei formati lossy,aumentando un po' il bit rate. I Radiohead con lasingolare tariffazione maggiorata per il downloadloseless sta testando, volontariamente o meno, ilpolso al mercato e finora i risultati sono abbastan-za sorprendenti. Secondo quanto rivelato da 7Di-gital, la società che cura la distribuzione online diThe King of Limbs, il 40% ha optato per il WAV, di-sposto a pagare il 55% in più rispetto all'AAC. Inrealtà non è del tutto chiaro cosa giustifichi la dif-ferenza di prezzo, visto che i costi per l'industrianon dovrebbero variare, e comunque non cosìtanto. Ben Drury, co-fondatore di 7Digital è con-vinto che i formati loseless non conquisteranno ilmercato, almeno nell'immediato, ma che soddi-sfino le esigenze di una nicchia significativa diascoltatori. Ci crede anche Universal, tra le majorla più sensibile al problema della qualità acusti-ca, che ha inaugurato un nuovo store online chepunta tutto sulla qualità. Si chiama GroovetownVinyl e mette a disposizione un archivio in rapidavia di espansione sia in formato Flac, sia in...vini-le d'alta qualità. I padelloni da 180 grammi amatidagli audiofili del secolo scorso.

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GOODBYE MALINCONIAItalia, 2011, 5’, musica: Caparezza, Tony Hadley,

regia: Riccardo Struchil, fonte: Mtv

1Come i cavoli a merenda èproprio il caso di dire. Ilrapper pugliese duetta insie-

me al front man degli Spandau Balletin un clip che inizia con le immaginistranianti di una città (Milano) da cuisembra se ne stiano andando via tut-ti. Il volto di Hadley che canta il re-frain si affaccia dalla skyline dei gratta-cieli e, poi, tra una citazione e l’altra(soprattutto di spot pubblicitari), ritro-viamo la strana coppia a bordo di uncamion in fuga da un’Italia dove «nep-pure il caffè sa di caffè ma sa di caffèdi Sindona». Enigmatico, fantascientifi-co (e forse profetico) il finale di Stru-chil, con i due viaggiatori abbagliatida una luce irreale alla Incontri ravvici-nati del terzo tipo. Il regista ancorauna volta è chiamato a tradurre inimmagini le canzoni di Caparezzacome era già avvenuto con Eroe eVieni a ballare in Puglia e lo fa con ilsolito (e azzeccato) tono surreale.Fotografia di Massimo Schiavon, mon-taggio di Luca Angeleri.

SOMETHING IN THEWATERNuova Zelanda, 2010, 3’, musica: Brooke Fraser,

regia: Joe Cefali e Campbell Hooper, fonte: Mtv

Music

6Curioso clip questo dellacantautrice originaria diWellington. La Fraser viene

filmata con una serie di carrellate inavanti o all’indietro, acconciata o vesti-ta in modi diversi ma sempre all’inter-no di un appartamento. A inframezza-re queste sequenze di playback con-corrono alcuni inserti in animazioneraffiguranti una bambina che cammi-na nei boschi o naviga per mare. Ladisomogeneità delle due situazioni ècompensata da un che di fiabescoche attraversa l’immaginario sonoro evisivo della musicista neozelandese. Ilsingolo è incluso nel suo terzo albumdal titolo Flags.

I CAN BE A FROGUsa, 2009, 2’20”, musica: The Flaming Lips,

regia: Wayne Coyne e George Salisbury, fonte:

Youtube.com

8In una radura c’è una ragaz-za in bikini che mima unaserie di animali («posso

essere una rana», recita il testo dellacanzone) divertendosi come una mat-ta. In sovrimpressione sul suo corpovediamo materializzarsi, in animazio-ne, le figure da lei evocate. Alla basedel clip della ormai quasi trentannaleband di rock psichedelico provenien-te da Oklahoma City c’è un semplicepiano sequenza, su cui però vengonosovrapposti degli schizzi (quasi degliscarabocchi infantili) a passo uno dicolore giallo, grazie ai quali la ragazzasi trasforma negli animali della giun-gla. A codirigere I can be a Frog –incluso nell’album Embryonic – è lostesso leader del gruppo insieme aldisegnatore George Salisbury.

DON’T LOSE MYNUMBERUk, 1985, 6’17”, musica: Phil Collins, regia: Jim

Yukich, fonte: Mtv Classic

7Al povero Collins tocca va-gliare tutte le idee che unaserie di registi gli propongo-

no per il video del suo brano: dal we-stern al musical, dal cappa e spadaall’animazione. E nessuno è davveroconvincente. Insomma Yukich, il regi-sta preferito dal musicista inglese,confeziona un metavideoclip perprendere in giro il music video mede-simo, con il suo campionario di stere-otipi e banalità. La musica è intervalla-ta da dialoghi tra il front man dei Ge-nesis e gli aspiranti videomaker e cisono delle gag anche piuttosto esila-ranti. Rispetto ad altri lavori della cop-pia Yukich-Collins questo Don’t LoserMy Number è indubbiamente riusci-to, se non altro per la varietà di stiliche mette in gioco.

se delle major del disco e della Me-la Morsicata che trattengono lagran parte dei proventi)?

Ormai quando si vuole ascoltareuna traccia - sia l’ultima hit pop-trash di Lady Gaga o la raffinataesecuzione jazz di una band scono-sciuta - basta digitare il titolo suYouTube e il gioco è fatto: si puòscegliere tra il videoclip ufficiale oquello in versione karaoke, tra latraccia originale o la cover di nic-chia; per gli ascoltatori più compul-sivi è anche possibile lanciare letante playlist personalizzate createdai fan o aggiungere un plugin cheripete all’infinito una canzone sen-za dover cliccare «play again».

Il portalone di video-sharing delcolosso di Mountain View è oggiquanto di più simile al jukebox ce-lestiale sognato agli albori della re-te. E questo grazie alla tenacia (dicerto non disinteressata) di Goo-gle, che ha resistito per anni al fuo-co aperto dalle major del disco acolpi di cause milionarie.

Negli ultimi anni YouTube sem-bra aver trovato finalmente la qua-dratura del cerchio, in grado di fa-re contenti sia gli utenti che l’indu-stria discografica. Quest’ultima èstata convinta a scendere a patti

con la grande G allettata da part-nership che le garantiscono pro-venti pubblicitari molto più alti ri-spetto a quelli dei semplici utenti.

YouTube ha poi messo a punto«Content ID», un sistema di identi-ficazione delle note musicali chepermette di retribuire in manierapiù semplice gli aventi diritto (mu-sicisti e major).

E così, ogni qual volta un norma-le utente mette una canzone diCharlie Brown nel filmato del pro-prio matrimonio, Google può rico-noscere automaticamente la trac-cia e chiedere all’utente se vuole ce-dere i proventi pubblicitari agliaventi diritto (piuttosto che obbli-garlo ad eliminare il video per infra-zione del copyright). Come dire,uno schema win-win che da unaparte non limita la libertà degliutenti e dall’altra fa contento chi vi-ve la musica come un business.

Insomma, il modello della musi-ca free per gli utenti e sostenutadalla pubblicità per i produttorisembra funzionare.

Come dimostra l’esperimentopromosso dalla stessa Google in In-dia, dove è stato lanciato il motoredi ricerca Music Lab (http://www.google.co.in/music/): basta digita-

re il nome di una band, un album,una traccia per aver accesso eascoltare la discografia completadi gran parte dei dischi in hindi(con le produzioni di Bollywood afarla da padrone).

In realtà Music Lab non rappre-senta niente di innovativo rispettoa Spotify, il servizio di ascolto illimi-tato di musica in streaming al mo-mento presente solo in Finlandia,Francia, Olanda, Norvegia, Spa-gna, Svezia e Gran Bretagna.

L’unica differenza è che la start-up svedese (che ancora non ha tro-vato modo di sbarcare in Italia) hascelto la formula freemium: ascol-to illimitato e gratuito per 20 ore almese (con inserzioni pubblicitarietra una traccia e l’altra), dopodichési inizia a pagare un abbonamentomensile (9.99 euro) che offre unaqualità migliore delle tracce e lapossibilità di poterle ascoltare (an-che in modalità offline) su qualsia-si dispositivo mobile.

Il modello Spotify permette, tral’altro, di retribuire meglio anchele etichette indipendenti e di pro-muovere così la musica di qualitàche fa sempre più fatica a sopravvi-vere nella giungla digitale.

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di Bruno Di Marino

ALIAS N. 15 - 16 APRILE 2011 (15

Page 16: Alias supplemento del Manifesto 16/04/2011

16) ALIAS N. 15 - 16 APRILE 2011

SEGUE DA PAG 10

RIO 3DDI CARLOS SALDANHA. ANIMAZIONE. USA 2011

0Il pappagallo Blu vive tran-quillamente nello zoo delMinnesota convinto di esse-

re l’ultimo esemplare di una rarissimaspecie di uccelli. Quando viene a sape-re che in America è stato avvistato unaltro uccello simile a lui fugge dallozoo con la speranza di incontralo. An-che perché si tratta di un esemplarefemmina, di nome Jewel.

SCREAM 4DI WES CRAVEN; CON NEVE CAMPBELL, DAN

FARWELL. USA 2011

0In questo quarto capitolodella serie Sidney è diventa-ta autrice di un manuale di

autodifesa e come ultima tappa deltour promozionale del libro torna pro-prio a Woodsboro. Lì riallaccia i contat-ti con lo sceriffo Dewey e sua moglieGale, e anche con la giovane cugina Jille la zia Kate. Ma, con il ritorno di Sid-ney a casa, tornano anche gli omicididi Ghostface.

SE SEI COSÌ TI DICO SÌDI EUGENIO CAPPUCCIO CON EMILIO SOLFRIZZI,

BELEN RODRIGUEZ. ITALIA 2011

0Piero Cicala è un cantanteche ha avuto successo conuna sola canzone, «Io, te e il

mare», negli anni Ottanta, dopo di cheil nulla e si è messo a fare il camerierenel locale della sua ex moglie in Pu-glia. Ma un giorno lo chiamano peruna trasmissione tv e deve faticosa-mente ritrovare la sua immagine diuna volta. A Roma incontra la famosis-sima Talita Cortès, che lo scambia perun cantante di successo e lo trascinanel suo mondo di gossip. Nel cast IaiaForte, Fabrizio Buompastore, Totò On-nis, Roberto De Francesco.

C’È CHI DICE NODI GIAMBATTISTA AVELLINO; CON LUCA

ARGENTERO, PAOLA CORTELLESI. ITALIA 2011

4Girato ben due anni fa, quin-di prima della rinascita dellanostra commedia era stato

messo in naftalina e il successo delfilm di Max Bruno Nessuno mi puògiudicare con Paola Cortellesi lo hafatto tirare fuori. Lì la soluzione eradiventare escort, qui si diventa «brigati-sti» e si passa all’azione contro baronie raccomandati. Siamo di fronte a unamateria troppo calda e vera per farscivolare tutto in commedia e Avellinonon è il Billy Wilder di L’appartamento.Notevoli alcuni attori di contorno: Edo-ardo Gabbriellini fa quasi un assoloche vale tutto il film come poliziottotoscano, Chiara Francini è la piùdivertente di tutti, Myriam Catania,infine, risolve in maniera abbastan-za originale un personaggio contor-to di raccomandata di sinistra, mail film non risolve mai il suo nodocentrale, farci ridere in un «paesedi merda» sui nostri veri problemie drammi di tutti i giorni. (m.gi.)

BORIS - IL FILMDI GIACOMO CIARRAPICO, LUCA VENDRUSCOLO,

MATTIA TORRE; CON FRANCESCO PANNOFINO.

ITALIA 2011

7La televisione è come lamafia. Non se ne esce cheda morti»,dice con realistica

rassegnazione uno dei personaggi. Èvero, purtroppo. E lo è anche per que-sta strampalata, divertente, allegraversione cinematografica di una delleserie televisive più innovative di Sky eFox, dove ritroviamo per intero lo stes-so cast di attori capitanato da France-sco Pannofino. Il limite quasi naturaledel film risiede proprio nel non potersistaccare troppo dalla sua matrice seria-le e televisiva e doverci fare entraretutto. Questo non toglie che arrivi co-me una fresca e notevole sorpresa inquesta stagione dove trionfa solo ilnuovo e il giovanile. E segni, inoltre, ilritorno del politicamente scorretto nel

nostro cinema. (m.gi.)

LA FINE È IL MIO INIZIODI JO BAIER, CON BRUNO GANZ, ELIO

GERMANO. GERMANIA 2011

7Tratto dalla biografia che loscrittore Tiziano Terzani hadettato negli ultimi mesi

della sua vita, isolato nella casa sugliAppennini al figlio Folco, a partire dalsuperamento della paura della morte.La sua vita è stata segnata profonda-mente dall’esperienza orientale, ma ilsuo carattere sanguigno spesso è incontrasto con l’assoluto abbandonodalle cose di questo mondo che pureprofessa. (s.c.)

FUGHE E APPRODIDI GIOVANNA TAVIANI; CON FRANCESCO

D'AMBRA. DOCUMENTARIO. ITALIA 2010

7Tutto diventa leggenda tra leEolie di Giovanna Tavianiche scopre tra un’isola e

l’altra l’incanto, i drammi, i misteri delpassato. Arrivata sull’isola a 4 anni perla prima volta, interprete poi di Kaosdel padre Vittorio e dello zio Paolo.Non ci sono solo gli spiriti che gli abi-tanti giurano di aver visto a Vulcano,ma le presenze ancora palpabili diRossellini, Magnani e Ingrid Bergman,di Antonioni, di Massimo Troisi allaspiaggia di Polara che il mare si è man-giato. Rivediamo gli esuli Rosselli, Lus-su e Nitti esiliati e poi fuggiti in Tunisia,l’arrivo di Edda Ciano nel ’45 e l’incon-tro con il suo "unico comunista". Rapititutti i giovani da Barbarossa, in fuga amigliaia gli emigranti da Strombolidopo l’eruzione del ’30, da Salina colpi-ta nel ’20 scomparsi i mercanti con icento velieri, volate via le streghe delvento di Lisca bianca. Voga tranquilloattraverso i secoli con la sua tartanadalla vela rossa Franco, il pescatore.Un film che è come la calma primadella tempesta, ora che il Mediterra-neo è nuovamente sconvolto. (s.c.)

JU TARRAMUTUDI PAOLO PISANELLI. DOCUMENTARIO. ITALIA

2010

7Esce il 6 aprile, anniversariodel terremoto dell’Aquila ilfilm di Paolo Pisanelli (Don

Vitaliano, Il sibilo lungo della taranta,Il teatro e il professore) direttore artisti-co del festival «Cinema del reale» gira-to in quindici mesi di riprese per rac-contare una città passata dalla rasse-gnazione alla rivolta, dalle «risate» de-gli imprenditori fino al popolo dellecarriole. Pisanelli mette in risalto ilsilenzio dell’elaborazione del luttomentre attorno il frastuono mediaticoimpazza, riprende tutto quello che nonc’è più: il paesaggio sparito, la storiacancellata. Finché gli aquilano hannodeciso di buttare giù gli sbarramenti eriappropriarsi della loro città. (s.c.)

NESSUNO MI PUÒGIUDICAREDI MASSIMILIANO BRUNO; CON PAOLA

CORTELLESI, RAOUL BOVA. ITALIA 2011

7Divertente opera prima del-lo sceneggiatore Massimilia-no Bruno, targata Lucisa-

no-01, che si presenta come una filia-zione delle commedie di Fausto Brizzi,qui soggettista e «produttore artistico»,ma più ricco di gag e battute, nuovotipo di commedia di ambientazionecoatta, con un mischione di personag-gi cinici stupidi amorali ma tenerelli,tutti interpretati da piccole e grandistar della tv «intelligente», senza maiperdere una leggerezza e piacevolezzadi storia. Un film abbastanza cinico erealistico sul crollo della piccola bor-

ghesia e sul suo facile cadere nellaprostituzione di ogni tipo. (m.gi.)

OFFSIDEDI JAFAR PANAHI; CON SIMA MOBARAK-SHAHI,

SHAYESTEH IRANI. IRAN 2006

7Panahi è divenuto uno deisimboli della repressionedel regime iraniano dopo le

lotte del movimento verde e dell’oppo-sizione con cui il regista si è schieratopubblicamente, agli arresti domiciliariin attesa dell’ultimo processo. Un grup-po di ragazze vogliono andare allostadio per le eliminatorie dei campio-nati del mondo. In Iran alle donne èproibito, troppo promiscuo e le ragaz-ze si travestono da ragazzi. Catturatedai soldati espongono le loro ragioni.Panahi non ci offre risposte, irriveren-te, tenero, ironico, teso nel ragiona-mento lucido della sua critica, fa salta-re ogni convenzione. (c.p.)

POETRYDI LEE CHANG-DONG, CON YOON HEE-JEONG,

AHN NAE-SANG. SUD COREA 2010

7L’attrice sudcoreana YoonHee-Jeong, superstar findall’esordio nel 1967 fino

agli anni 80, e simbolo dei megastudiHapdong, in «troika» con Moon Hee eNam Jeong-im, ha interpretato 330film, pur abbandonando spesso i setper dedicarsi anche alla sua vita priva-ta. È Mija, l’eccentrica nonna che siscopre poeta a 66 anni, nonostante unincalzante alzheimer, diretta da LeeChang-dong, ex ministro della cultura(2003-2004). (r.s.)

I PROSSIMI TRE GIORNIDI PAUL HAGGIS, CON RUSSELL CROWE, LIAM

NEESON. USA 2011

7Diventa nelle mani del cana-dese di Crash e Million dol-lar baby (lì sceneggiatore),

appena sbarazzatosi della pesanteteologia omofobica di Scientology, unomaggio situazionista al cinemaperfet-to e libertario di Don Siegel (CharlieVarrick) piuttosto che un thriller dagliincastri emotivi danzanti e hitchcockia-ni. Al contrario di Cane di paglia, dovel’uomo ordinario lottava per ribadire lacentralità della struttura patriarcale,qui i suoi alleati sono i fuorilegge e isuoi nemici i fuorilegge «moderati» eembedded (junky, avvocati, istituzio-ni). (r.s.)

SPACE DOGS IN 3DINNA EVLANNIKOVA E SVYATOSLAV USHAKOV,

ANIMAZIONE. RUSSIA 2010

6In orbita con Belka (Scoiat-tolo) e Strelka (Freccia)che il 19 luglio ’60 partiro-

no a bordo di una capsula spazialee rientrarono vive, simbolo dellacorsa celeste tra Usa e Urss, primofilm d'animazione in 3D realizzatoin Russia per il 50˚ anniversario delvolo. Belka e Strelka sono stateoscurate dalla tragedia di Laika.L'animazione è scolpita nei pixelcon l'accetta, al di sotto degli stan-dard dettati dalla Pixar/Disney (edeuropei). Da ricordare, invece, Sput-nik 5 di Susanna Nicchiarelli (abbi-nato a Cosmonauta), corto speri-mentale, un omaggio italiano aBelka e Strelka. (m.c.)

THE WARD – IL REPARTODI JOHN CARPENTER, CON AMBER HEARD,

LYNDSY FONSECA. USA 2010

7La «classicità» del film (delu-si gli ultras dell’horror) stasolo nella visione radicale

della New Hollywood, i fantarealisticideliri del regista, produttore, sceneggia-tore, compositore di Carthage, capodella rivolta degli «operai alieni», mar-ziani, zombie, vampiri e sempre a cac-cia del Signore del male, non richiedo-no il 3D. Tutto è filtrato dagli occhi diuna Barbie indocile, Kristin (Heard),braccata nel bosco, presa davanti auna casa in fiamme, inginocchiata difronte a un’altra se stessa. Carpentermantiene la furia verso le istituzionirepressive. (m.c.)

IL FESTIVAL

FUTURE FILM FESTIVALBOLOGNA 20 - 23 APRILE

Il viaggio alla scoperta del futuro del cine-ma, il Fff diretto da Giulietta Fara e OscarCosulich, si apre il 20 aprile con l'anteprimaitaliana di Cappuccetto Rosso Sangue, ilfilm dalla regista di Twilight Catherine Hard-wicke con Amanda Seyfried e Shiloh Fernan-dez. Il 21 aprile sarà ospite del festival LucBesson, per presentare il suo nuovo filmArthur 3 – La guerra dei due mondi. Eventispeciali: il making of di Rango, l’ultimo filmdella Industrial Light & Magic, mentre laregista Leslie Iwerks illustrerà il documenta-rio sull’Industrial Light & Magic di GeorgeLucas. Si celebrerà il centenario dalla nasci-ta del massmediologo Marshall McLuhan con McLuhan 100, e della tecnica di ani-mazione Flash. Lucio Dalla debutterà come doppiatore in Apa, l’artista Eleuro saràprotagonista di un live painting. Film in concorso, fuori concorso, e follie di mezza-notte come Karate Robo - Zaborgar del giapponese Noboru Iguchi, Helldriver diYoshihiro Nishimura e l’atteso supereroe di bologna Iros di Bob Ferrari. (s.c.)

RADIOTRE FESTIVALCERVIA, MAGAZZINO DEL SALE, TEATRO COMUNALE, FINO

AL 17 APRILE

Radio tre incontra i suoi ascoltatori sull’Adriati-co, a Cervia con le tramissioni in diretta. Oggi:Radio3 Mondo (ore 10), Annamaria Giordanoci porta ne cuore del mondo arabo con lascrittrice egiziana Randa Ghazi e Osama AlSaghir, collaboratore di Al Jazeera e direttoredi Afaq International. Alle 12, dal Teatro comu-nale i Concerti del mattino, alle 15 la «Barcac-cia» con la soprano Desirée Rancatore, il quar-tetto gli Ex al Magazzino del sale, quindi incon-tro con Dacia Maraini a «Farenheit», Teatri indiretta con la compagnia I Sacchi di Sabbia, ilCartellone di Radio3 Suite con Stefano Bollanied Enrico Rava. Domenica si apre con «Uomini e profeti», Gabriella Caramore incontraRoberta De Monticelli sull’etica pubblica. Alle ore 10.50 speciale «Hollywood Party» conElio Pandolfi e Steve Della Casa, una puntata dedicata a Marcello Mastroianni a quindi-ci anni dalla sua scomparsa. Alle 13 «Il dottor Djembé» con Stefano Bollani e DavidRiondino con uno degli fondatori degli Area, Patrizio Fariselli. (s.c.)

ALFREDO BINITRASMIGRAZIONIPERUGIA. ROCCA PAOLINA, SALA CERP, FINO AL 17

APRILE

Al Festival Internazionale del Giornalismodi Perugia dal 13 al 17 Aprile si può visitarel’eccezionale mostra del fotografo AlfredoBini «Trasmigrazioni», un viaggio di migliaiadi chilometri sulla pista transahariana perla Libia, percorso obbligato per chi tenta diarrivare in Europa fermandosi a Lampedu-sa. Dai primi mesi del 2009 circa 8000 mi-granti ogni mese hanno attraversato il de-serto del Tenere. Il reportage che abbiamopubblicato in parte anche su Alias, mostrachi si ferma nelle città per cercare di guada-gnare del denaro e raggiungere Dirkou, l’oasi da cui hanno luogo le partenze perla Libia, chi resta senza denaro ed è costretto a restarvi sotto padrone in attesa diproseguire il viaggio, gli oggetti abbandonati lungo il cammino. Alfredo Bini è appe-na tornato con un nuovo reportage dalla Libia, dove ha viaggiato con il nostro in-viato Stefano Liberti nelle zone di guerra. (s.c.)

filippo brunamontia. catacchio

mariuccia ciottasilvia collins

giulia d’a. vallanmarco giusti

cristina piccinoroberto silvestri

HABEMUS PAPAMDI E CON NANNI MORETTI; CON MICHEL PICCOLI,

FRANCO GRAZIOSI, JERZY STUHR, MARGHERITA BUY,

RENATO SCARPA, ROBERTO NOBILE. ITALIA 2011

Alla morte del Papa si riunisce il Conclaveper eleggere il nuovo pontefice. Il prescel-to, dopo alcune fumate nere, un cardinalefrancese di nome Melville (Piccoli), è inpreda a dubbi e fortissime ansie e per que-sto cade in depressione, per il timore dinon essere in grado di salire degnamenteal soglio pontificio. Il Vaticano chiama allo-ra uno psicanalista, il professor Brezzi (Mo-retti) perché lo assista. Sarà interessantevedere come e se Nanni Moretti inseriscal’elemento della grazia che, secondo lareligione cattolica illumina e sostiene il prescelto. Melville prende il nome di Cele-stino VI, una scelta non casuale, poiché il suo predecessore, Celestino V, un frateche viveva in una grotta, alla notizia rifiutò la carica, poi nel 1294 dopo soli quattromesi abdicò «motus ex legittimis causis, idest causa humilitatis» (anche se si so-spetta di una mossa del cardinale Caetani per essere eletto a sua volta) (s.c.)

SINTONIEIL FILM

LA RADIO

LA MOSTRA

Enter the void. Nausea da frammenta-zione provocata dalla immensa -ma poco liberatoria - disponibilitàcine-visiva offerta da YouTube? Nonun antidoto, piuttosto un'ipotesi piùselettiva e teoricamente consapevo-le di ciò che viene mostrato è forni-ta da IWDRM, ovvero «If we don't,remember me» (www.iwdrm.tum-blr.com), un sito che raccoglie fra-mes di titoli più o meno celebri,accompagnati da didascalie e so-prattutto trasformati in micro-clipsdall'animazione di immagini postein sequenza, un procedimento chespoglia il film in un unico dipinto dicelluloide, disposto sorprendente-mente a prender vita così comepoteva immaginarsi e concretizzarsinella imagerie letteraria fantasticadei secoli pre-cinematografici. L'indi-ce dei titoli tradisce una tacita maevidente scelta tematica: al di làdello statuto cristallizzato di culto ditasselli scontati però imprescindibili(voilà Kubrick: i ghigni di Shining eArancia meccanica), sono ad esem-pio gli occhi a catturare l'attenzione,per fissità intensa di sguardi (inmacchina) o semplice movimentodi palpebre (The Fearless VampireKillers, con Suspiria e Persona, legodardiane Anna Karina di Alphavil-le e Brigitte Bardot del Disprezzoamante del Cinemascope), o ancorpiù suggestivamente i capelli, mossipiù o meno in maniera impercettibi-le a dichiarare lo stato in luogoemotivo del soggetto rappresentato(Monica Vitti in L'eclisse, Peter O'To-ole in Lawrence d'Arabia, Jean Ma-rais in Orphée, ma anche il JamesTaylor dell'hellmaniano Two-LaneBlacktop). Se l'esegesi sul voyeuri-smo non può che avere in L'occhioche uccide di Michael Powell il suonodo teorico più inestricabile, conla pellicola che scorre riflessa sullafigura di Carl Boehm, sono forse trele postcards animate (ma non trop-po) che esaltano il postulato diIWDRM, e cioè i volatili che fuorie-scono dai cadaveri nella Montagnasacra, l'erotico incrocio di sguardisemovente e accarezzato nell'ineffa-bile Szamanka di Andrzej Zulawski(«Qualsiasi divinità è una divinità dimorte») e il definitivo monito dilibertà individuale e collettiva raffi-gurato da una serie di oggetti infalso movimento, un numero, unaferitoia e una luce rotante, immersiin un rosso saturo e resistente atutte le forme di censura del pensie-ro (Fahrenheit 451).Uccise la famiglia e andò al cinema. Unsicuro antidoto per rimediare allemiserie dell'horror contemporaneo,angustiato dal deserto dell'invenzio-ne (ir)risolto a colpi di reboot dallaHollywood embedded style è costi-tuito dal mega-ufo Dementia (1955),opera unica di tal John Parker, vitti-ma immediata della censura dopouna apparizione in un'unica salanewyorkese e recuperata successi-vamente dal mercante di exploita-tion Jack H. Harris in versione survol-tata e intitolata Daughter of horror. Inuna sordida stanza d'albergo unadonna entra ed esce da un incubomuto e in bianco e noir, dove am-mazza i genitori, si concede al vizio,finché un riccone ripugnante non lacarica in auto. Da cercare in cima almondo (ma Amazon dovrebbe ba-stare), quasi da contro-inaugurazio-ne retrospettiva (Joe Dante lo ado-ra) per i paludati festival condanna-ti dal protocollo all'eterno riproporsidell'identico.

SOSTIENE GAMERA di Carlo Avondola

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ALIAS N. 15 - 16 APRILE 2011 (17

di Cecilia Bello Minciacchi

Se la fedeltà si tempra e simisura col tempo, attendibilissi-mo è il banco di prova di MavisGallant, autrice canadese oggiquasi novantenne, narratrice au-stera, tenace ed elegante. La fedel-tà alla scrittura ha sempre avuto,in lei, un basilare legame con l’au-tonomia personale e con la predi-lezione quasi assoluta per la for-ma-racconto. Decisa a vivere solodella propria narrativa, Mavis Gal-lant lasciò il Canada per la Fran-cia nel 1950, prima di compieretrent’anni. Allora la mitica Parigidi Hemingway aveva palazzi «an-neriti da decenni e decenni di fu-liggine e sporcizia» che – ricorde-rà – avrebbero «incupito quei pri-mi inverni europei». In Canada la-sciava un impiego come cronistae un marito da cui aveva divorzia-to ma di cui continuò a tenere ilcognome (da signorina si chiama-va Young). Bilingue, ha vissuto evive in francese ma ha semprescritto in inglese, in quella che sen-tiva come «la lingua dell’immagi-nazione». Di area anglosassone,del Nord-America o del Canadaanglofono, sono stati i suoi primieditori o committenti, a partiredal «New Yorker» su cui sono ap-parsi in gran numero e con gransuccesso i racconti che le hannogarantito l’indipendenza. In Euro-pa ha avuto una fama per così di-re «di ritorno», spesso mutuatadall’Inghilterra; in Italia la sua no-torietà si è diffusa tardivamente,anzi, rimasto senza durevole ecoSospeso in un pallone, dodici sto-rie parigine tradotte da Ettore Ca-priolo per Bompiani nel 1989, Ma-vis Gallant è di fatto una riscoper-ta recente, dovuta alla Bur che nel2005 ha proposto la raccolta Al dilà del ponte nella collana ScrittoriContemporanei Original. Da allo-ra Bur ha pubblicato con costanza altre raccolte di racconti,una ogni due anni, fino ai recentissimi Piccoli naufragi, tra-dotti da Chiara Gabutti (postfazione di Michael Ondaatje,pp. 187, € 9,00). Indubbiamente Mavis Gallant ha scontato,da noi, gli umori e le declinazioni di potere del mercato, mail suo nome, ora, sta varcando il crinale della fruizione d’éli-te. Fruizione d’élite, geografica e insieme di genere, dellaquale aveva goduto grazie ad antologie che avevano merito-riamente tentato incursioni nuove: Rose del Canada. Rac-conti di scrittrici canadesi (a cura di Pier Paolo Zerilli, Edizio-ni e/o, 1994); Donne in viaggio: voci femminili del Canada,racconti di Mavis Gallant, Janice Kulyk Keefer, Jane Ur-quhart (a cura di Giovanna Mochi, Le Lettere, 2007). Ma sela sua formazione giovanile è legata alla terra d’origine, dasessant’anni Mavis Gallant vive in Europa: se può sembraredoveroso chiamare in causa alcune signore canadesi conforte inclinazione alla forma-racconto, come Alice Munro,autrice di congegni esatti e inesorabili, e Margaret Atwood,più orientata alla fantascienza, e a tematiche femministe oecologiste, certe ricercatezze della prosa di Mavis Gallant,certo modo di mettere a fuoco i dettagli e sbalzare i senti-menti, possono rimandare alla nitidezza della neozelande-se Katherine Mansfield e al suo finissimo modernismo.

Rispetto alle conterranee, Ma-vis Gallant sembra privilegiare, al-meno nei racconti tradotti in Ita-lia, scenari urbani parigini e più la-tamente europei, legati al presen-te e alla memoria rievocata nellasua potenzialità di totale coinvol-gimento intellettuale e sensoriale.Quando ambienta un raccontonella Parigi di quarant’anni pri-ma, Gallant lascia interferire, conle insondabili stratificazioni dellamemoria, «l’immaginazione e l’in-venzione», in modo che possanoaffiorare solo lacerti di ricordi inedifici primariamente letterari, edunque artificiali, senza vistose in-tromissioni autobiografiche. Nonestranea alla scelta di vivere lonta-na dalla patria è, però, l’attenzio-ne a forme diverse di esilio chel’ha resa «una perfetta esploratri-ce dello spaesamento», come hascritto Elisabetta Rasy nella prefa-zione che accompagna Un fioresconosciuto e altri racconti (Bur,

2009). Indaga spaesamenti di luo-go e di tempo, certo, ma semprecon carattere squisitamente esi-stenziale, spesso sommerso, capa-ce di affiorare in screziature mini-me dei rapporti interpersonali, insfumature impalpabili, nel nondetto più che nel detto. I «piccolinaufragi» che rubricano la raccol-ta recente, non derivano, come diconsueto, dal titolo di uno dei rac-conti, sono invece le linee del de-stino lette sulla mano di un pitto-re tenero e svagato che ha sbaglia-to tre matrimoni e invecchia, vul-nerabile, incapace di rancore e diautosufficienza.

Alla prosa limata e solida di Ma-vis Gallant appartiene una qualitàparticolare: sembra avere marca epasso classici, invece è sottilmen-te spiazzante. Si muove tra fluidi-tà vischiose e cristallizzazioni ta-

glienti. Virtuosa (virtuosistica) è lasua abilità di introdurre voci epunti di vista diversi, come se gio-casse il lettore prendendolo allespalle, facendolo ritrovare d’im-provviso nei pensieri di un perso-naggio nuovo. Ambigue possonorisultare le combinazioni dei tem-pi narrativi, perché i flash-back,più che giustapporsi al presentedella narrazione, scorrono, slitta-no, si insinuano infidi ma tangibi-li nei processi ragionativi dei suoipersonaggi. Straordinaria è la mi-stione dei tempi – dei sentimentie delle pure astuzie commerciali –nel racconto L’idea di Speck, ungallerista parigino che tenta «la

mostra giusta al momento giu-sto» andando a cercare la vedovadi un pittore degli anni trenta inodore di fascismo. Straordinaria èla perfezione della tessitura, filoper filo, in un ordito fittissimo, direaltà affettiva personale e realtàdella storia: l’insulto che il galleri-sta riceve dalla moglie che men-tre lo pianta gli grida immotivata-mente «fascista», la vetrina di un li-braio «punto d’osservazione abi-tuale della destra», la seduta inloggia di un gruppo di massoni, lagradualità con cui conquista la fi-ducia della vedova e la soluzione«volpina» di questa. Pungenti dotidi ironia dimostra quando descri-ve il cinismo di Speck che vuole«la piccola resistente rotella salda-mente incastrata nel meccani-smo sbatacchiante e turbinantedel commercio di opere d’arte, os-

sia l’artista stesso».È incisiva e amara quando os-

serva il ruolo subalterno delle don-ne nel dopoguerra, in Canada e inEuropa, quella soggezione che alnipote racconta Irina, nel raccon-to omonimo, vedova di uno scrit-tore svizzero «forte come Raspu-tin» e ingombrante da vivo e damorto: «Sai, a quei tempi le donnenon avevano risorse proprie. Era-no come pacchi avvolti nella cartamarrone e legati con la corda. Co-me pacchi, venivano passati dalpadre al marito. Per rendere il pac-co più attraente lo decoravanocon ricci e lezioni di piano, e anel-li e monete d’oro e banconote eazioni. Solo dopo aver valutato tut-te le decorazioni il nuovo proprie-tario scioglieva i nodi». I raccontidi Mavis Gallant sono pieni di figu-re femminili vissute in peculiari

zone d’ombra, capaci però di ri-vendicazioni e di riscatto a partiredall’osservazione critica e dalla ri-flessione personale sulle dinami-che sociali. Indimenticabile, nelracconto Il bambino dei Fenton,della raccolta Varietà di esilio(Bur, 2007), l’acuta e moralissimaNora, consapevole del divario traclassi sociali, orgogliosa dell’edu-cazione e della cultura ricevutedal padre e capace di una distan-za virginale ma non rigida dalla re-altà. Altrettanto indimenticabilela Florence di Agosto, il raccontoche chiude Piccoli naufragi, giova-ne moglie depressa ma non disar-ticolata, lucidamente sfuggente auna madre fallita e a un maritosempre applaudito come «una fo-ca da circo», l’unica che sa sentirel’urto del silenzio quando si infran-ge «come ondate».

Ray K. Metzker,«Pictus interruptus:

Philadelphia»,1977, da: «City Stills»,

Prestel 1999

Limata, solida, sottilmente spiazzante: dopo la (tardiva)

fruizione di genere, la novantenne scrittrice, che vive

in francese e scrive in inglese, arriva al grande pubblico

■ «PICCOLI NAUFRAGI», I RACCONTI BUR DELLA CANADESE ■

Mavis Gallantoltre l’élite

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di Viola Papetti

Novità assoluta, que-sta antologia di poesie che ci arrivacon l’immaginario vento del Suda-frica, Isole galleggianti Poesia fem-minile sudafricana 1948-2008, contesto a fronte, a cura di Paola Splen-dore e Jane Wilkinson, ottime le tra-duzioni di Splendore e ricca di in-formazioni l’introduzione diWilkinson (Le Lettere, pp. 242, €19,00). Il titolo è ancora un omag-gio alla poesia inglese, come a vol-te avviene nei testi post-coloniali,ma in questo caso l’ispiratrice è Do-rothy Wordsworth, la sorella infeli-ce del grande William, autrice deiDiari di Grasmere, che all’ ombradel fratello pubblicò alcune poesietra cui Floating Island, nel 1842.

La sua isola non scompare deltutto sotto il lago di Grasmere, maandrà a fecondare altre terre. Ri-prende la metafora Ruth Miller, na-ta nel 1919 e vissuta a Johanne-sburg insegnando inglese. La suaisola galleggiante scende per il vor-ticoso Zambesi verso le cascate Vit-toria, ma è una zattera di morte:«Porta sul dorso ondeggiante/ Unamandria di cervi arenati, vivi,/ Gliocchi colmi di angoscia, gli umidifianchi scuri/ Di sudore. Intornoborbotta l’acqua./ Il fango risuonadel risucchio degli zoccoli». Il nudofatto si tramuta in allegoria, allego-ria dell’enorme potere della naturaafricana che traligna anche dallepiante e dagli animali, che tradisceo accoglie il vivente, ultima madre,estrema garanzia identitaria del-l’afrikaner. Così nei giardini dellabiblioteca di Johannesburg, anchela bellezza dei fiori è torva. La don-na vecchia si confronta con la terri-bilità della mantide annunciatricedi morte, la calcificazione le ruba ilcorpo: «Ridotta come sono a/ unsasso, ora non posso più/ esserecorrosa – solo spaccata». (Sasso).La «bellezza empirica» del ragno –

che non è più il filosofo illuministadi Goldsmith, ma qui «vive per la-vorare e lavora per uccidere» – le in-segna la pura necessità della morte(Ragno).

Di vecchiaia e di morte parla an-che la più antica di loro, ElizabethEyberg, nata nel 1915, che pubbli-cò ben ventisette raccolte di poesiescritte in afrikaans o in inglese eafrikaans, quasi a garantirsi control’instabilità della parola che non èpiù quella di sua madre: «A chi nonmi ama le mie scuse presento:/ so-no cresciuta a suon di filastroc-che…» (Bilingue). Si avverte il reli-gioso respiro della Bibbia, il rasse-gnato pudore dello sguardo chenon oltrepassa la cortina di tenerisalici e delle inermi lavandaie in ri-va al ruscello nel momento in cuiprecipitano nella nera notte africa-na (Salici). In quell’immane spaziole donne non alzano la testa perscrutare l’orizzonte, ma si tengonoferme a quanto è più vicino: picco-li animali, piante familiari, il pro-prio corpo, quello di un bambino.Così Ingrid Jonker, suicida nel1965, in Donna incinta canta unatrenodia al suo neonato morto:«Fossa o fossa,/ sono qui che cantotremante,/ cosa altro se non tre-mante/ con il cucciolo sommersonell’acqua …» Poesie visionarie, incui le «mani scoiattolo» di lei e le«mani pulite calde colombe» di luicurano la distanza e la desolazionedella città, sulla quale infine si apre«il papavero arancione del cielo»(Città desolata). La sua poesia più

nota, Il bambino ucciso dai soldatia Nyanga del 1960, fu recitata inafrikaans da Mandela nel primo di-scorso tenuto al Parlamento dellanazione nel 1994: «Il bambino nonè morto/ né a Langa né a Nyanga/né a Orlando né a Sharpeville/ eneppure a Philippi, alla stazione dipolizia/ dove è steso con una pal-lottola in testa… Il bambino diven-tato uomo percorre tutta l’Africa/il bambino diventato gigante viag-gia in tutto il mondo». Più di 20 per-sone furono uccise a Langa, 69 aSharpeville durante le manifesta-zioni di protesta contro le leggi sullasciapassare che da secoli control-lavano il movimento dei neri su tut-to il territorio. Era il 21 marzo 1960quando gli abitanti di Langa si au-todenunciarono alla polizia di Phi-lippi perché sprovvisti di pass, equel giorno è oggi festa nazionale.Ma per Ingrid Jonker ora che la ca-sa comune è divisa, le parole mas-sacrate, il paese lacerato, può anco-ra la natura intatta donare confor-to, fede? La verde mantide del veld,l’azzurra margherita del Namaqua-land sanno ancora qualcosa? Il gio-vane ruscello «fremente di vita» hatroppi segreti, nel nero ruscello sirispecchia l’oscurità umana. InFluttuo nel vento l’osmosi con lanatura non tiene, non salva. «Chene sarà di me/ le pietre angolaridel mio cuore non producono nul-la/ il mio paesaggio è il mio, duro/feroce addolorato ma aperto…»

Investita dalla stessa tempestapolitica e umana, Ina Rousseau op-

pone una dura resistenza al fasci-no della natura, reale e sognata:l’Eden non esiste, l’uccello-testi-mone uscito dall’Arca annega inun mare spaventoso di sabbia, lafioritura della jacaranda diventa«un banale acquerello/ una crostaleziosa e nauseante/ un inferno vi-ola e lillà». Più sofisticata, JenniferDavids pretende rispetto per lasua poesia dalla madre che, piega-ta sulla tinozza, lancia appenaun’occhiata sul foglio. Ma ci offreun cielo hopkinsiano: «Le stelle sta-notte/ sono fuochi azzurri di corti-le/ che ingemmano la nera/loca-tion del cielo».

La più conosciuta è Antjie Krog,per le sue cronache radiofonichedella Truth and ReconciliationCommission (TRC), istituita daMandela e dal vescovo Desmondalla caduta dell’apartheid, raccoltein Country of M y Skull (1998, Ter-ra del mio sangue, 2006) da cui èstato tratto il fim, In My Country,diretto da John Boorman. Confes-sioni dei bianchi torturatori, per-doni quasi impossibili, giustifica-zioni politiche inaccettabili. Unadonna afrikaner dona a un giorna-lista afroamericano le poesie diLangston Hughes. Gli afroamerica-ni stanno agli Stati Uniti, come gliafrikaner al Nuovo Sudafrica, la lin-gua comune è un sintomo del loromalessere, e non garantisce l’ap-partenenza. L’afrikaans, «un dialet-to olandese», è anche la lingua ma-dre di molti sudafricani, «tra cui idiscendenti degli schiavi e dei de-

tenuti politici e leader religiosi ma-lesi portati al Capo già nel Seicen-to… e attraverso i secoli si conta-minò con le altre lingue parlatenella regione» (Wilkinson). Lucida-mente Krog vede il doppio di ognicosa: la salita del verso e il movi-mento del feto, il doloroso nododella colpa e del perdono, del-l’afrikaans come lingua del terroree delle sue poesie: «…se avessiuna lingua potrei scrivere per tefossi tu la mia terra… me non mihai mai voluta/ me non mi haimai sopportata/ molte volte mihai scrollato via/ mi hai schiaccia-to terra, lentamente ho perso il no-me sulle labbra …» (Terra).

La «carica di violenza, asprezza,rifiuto» emanata dall’Africa – comescrisse Manganelli dopo un viag-gio africano – immobilizza special-mente le donne che diventano cau-te, ripiegate su se stesse e sulle po-che orme che altre donne hanno la-sciato. Ingrid de Kok - l’unica giàtradotta in Italia da Paola Splendo-re (Mappe del corpo, 2008) – inRammendo e Karen Press in Lavo-ro di ago, scelgono «l’antica artedelle donne» che fa sperare nellaparola guaritrice del piede trancia-to, della mano monca, dell’orec-chio trafitto, dell’occhio liquefatto(Parti del corpo). Ma la speranzaregge solo nell’arco della poesia. InParla il trascrittore, de Kok affrontala realtà del silenzio della vittimache non può dire, né il trascrittoredescrivere, l’atrocità del delitto.

Voce nuovissima è quella diMakhosazana Xaba, classe 1957, at-tivista politica, autrice di poesieche auspicano la fine del luttopost-apartheid, e cantano di tenerigesti d’ amore. «Vieni, voglio seder-ti in grembo/ circondarti la vitacon le gambe./ In un cesto: pettini,perline, olio, conchiglie,/ per gioca-re con i tuoi capelli».

Nella stagione delle piogge acquae fango trascinano mine giù dalmonte che sovrasta Jalez, cittadinadella provincia afghana. A scuola,gli esercizi nell’ora di educazionefisica consistono nel pulire, smon-tare, rimontare e maneggiare ilkalashnikov. Almeno fino a quan-do gli assalti dei fondamentalisti siintensificano e diventa troppo peri-coloso anche solo andarci, a scuo-la. Con la guerra si chiude definiti-vamente un’epoca in cui Alempoteva affermare che «si stavaproprio bene nella mia casa aJalez, circondata da tanti tipi dialberi da frutto che ornavano ilgrande giardino in cui giocavotutti i giorni con gli amici». E co-mincia l’odissea di un 12ennealla ricerca di una vita plausibilelontano da lì. Pakistan, Iran, Tur-chia, Grecia e infine Italia. 8000chilometri percorsi con ogni mez-zo, ma sempre clandestinamente,conclusi semisoffocato dentro aun camion stracolmo di arance, ilcui iniziale profumo si trasformain tanfo nauseabondo strada fa-cendo. Lunghe arrampicate sumontagne per eludere posti diblocco e frontiere, traversate mari-ne su gommoni facili a derive,detenzioni in carceri duri e fughespericolate, sensi sempre all’ertaper sentire il «rumore dei nemi-ci», che alla partenza sono i vicinidi casa e on the road diventanopoliziotti e briganti, stranamenteaccomunati in un’attività diversa-mente ostile nei confronti di fug-giaschi d’ogni nazionalità e colo-re. Ogni tratta un prezzo, onoratocon la speranza di non venire in-gannati dagli ineffabili veicolatoridel traffico di esseri umani. E ireclutatori di mercenari per altreguerre simili a quelle da cui si stafuggendo sono in agguato.Alem in lingua farsi significa «per-sona istruita», quando non proprio«scienziato». E, per quanto nonavvezzo alle accademie e in pos-sesso di un linguaggio ridotto alminimo essenziale, è col tono di-staccato di un intellettuale che siguarda dal di fuori, prosciugato daogni compiacimento drammaticoed effetto sensazionalistico, cheAlem racconta la sua storia tribola-ta. Tonalità sulla quale si sintoniz-za Gianpaolo Gianni, che quel rac-conto ha registrato per trasmetter-lo in Fino alla vita (Mursia, pp. 179,€ 12,00). Ed è proprio nella suasemplicità espositiva, pura crona-ca a tratti disarmante e sempreindifferente alle suggestioni ro-manzesche, che la narrazione sicarica di tensione pagina dopopagina. Il «romanzesco», semmai,è nel finale tutto sommato lieto separagonato a quello di tante altrestorie come questa. Relativamenteparlando, dunque, per quanto pos-sa sembrare strano alla luce dellasua cronaca in prima persona,Alem può ben dire di essere stato«fortunato». Così come i numerosimediorientali o africani che storiedel genere hanno potuto racconta-re, fornendo tessere che vanno acomporre il grande puzzle di unrobusto filone dell’attuale «narrati-va di viaggio» riconducente a sce-nari ai quali i media globali a mala-pena alludono e che il becero mot-to «fuori dalle palle», rigorosamen-te scandito in dialetto lumbard,insulsamente rimuove.

VAGABONDINGL I B R I E V I A G G I

GIANNI: L’ODISSEAASCIUTTA DI ALEM,RAGAZZO AFGHANOdi Roberto Duiz

■ «ISOLE GALLEGGIANTI», POESIA FEMMINILE SUDAFRICANA ■

Vecchiaia, quale Eden?,afrikaans, voce nuovissima

Ina van Zyl,«Pearl Necklace», 2006

Un’antologia 1948-2008, da Elizabeth Eyberg (n. 1915) a Makhosazana Xaba (n. 1957), apre uno squarcio

di poesia dolente e politica, immersa in piante e animali, e ragionante, infine, oltre il lutto post-apartheid

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■ NEGLI OSCAR UN’ANTOLOGIA 1964-2006 DELL’AMERICANO MARK STRAND ■

Azzerarsi nel mondo

BERSAGLIG E R M A N I A

POLITICA E CANZONINELLE CONFERENZEDI WOLF BIERMANNdi Massimo Bacigalupo

di Caterina Ricciardi

In una delle ultime liriche diMark Strand il protagonista sedutosulla veranda di casa vede passareun uomo e un cammello che dipunto in bianco e in perfetto uniso-no iniziano a elevare un canto riccodi mistero. Scaturito da un’inspie-gabile armonia fra due esseri cosìdiversi, quell’esecuzione sublimesembra all’ascoltatore – da tempoin attesa di una forma di verità rive-lata – «l’immagine ideale di ognicoppia fuori del comune». Una de-duzione plausibile. Eppure, inter-rompendo il canto, l’uomo e il cam-mello tornano indietro dal desertoin cui si erano inoltrati, si fermanodavanti all’uomo della veranda e glidicono: «Hai rovinato tutto. L’hairovinato per sempre». Il breve aned-doto – definiamolo una parabola‘surrealista’ – di «Uomo e cammel-lo» (2006) nasconde forse il segretodell’arte quarantennale di MarkStrand, e al contempo sembra im-plicare un indiretto messaggio allettore (e al critico).

Dopo le anticipazioni sparsa-mente proposte nello scorso decen-nio da Donzelli (con la monografiasu Edward Hopper) e da minimumfax, L’Obliquo, Mondadori e Fan-dango, per mano del traduttore uffi-ciale Damiano Abeni, di quest’arteaustera e sfuggente, dalla chiarezzadiscorsiva ingannevole, il lettore ita-liano oggi può seguire il percorsoin L’uomo che cammina un passoavanti al buio Poesie 1964-2006(Mondadori «Oscar poesia», tradu-zione di Damiano Abeni, pp. 391, €15,00), un’ampia scelta da una doz-zina di volumi, introdotta da un sag-gio ‘eterodosso’ di Rosanna War-ren. Quest’ultima è una delle figureemergenti più qualificate della poe-sia femminile americana, appassio-nata classicista (con particolare in-teresse per Virgilio), amica (comeStrand) di Roma e della sua storia,

e – non di poco peso – figlia del poe-ta e romanziere Robert Penn War-ren. Rosanna è dunque una checon la letteratura e il «New Critici-sm» (l’analisi ravvicinata del testo),di cui R. P. Warren fu co-fondatorecon Allen Tate e John Crowe Ran-som, ha iniziato a respirare.

Poeta Laureato nel 1990 e Pre-mio Pulitzer nel 1999, il quasi ottan-tenne Mark Strand si distingue co-me il più originale continuatore nelnuovo secolo di quella selezionatacorrente di pensiero poetico astrat-to/metafisico americano rappre-sentata da Wallace Stevens e piùtardi, e in altro modo, da John Ash-bery. È il poeta lunare che, apparen-temente chiuso in una torre d’avo-rio, medita sulla realtà, elaborandoipotesi sull’universo esistenziale.Ma al di là di convergenze native edi contaminazioni straniere (peresempio il surrealismo latinoameri-cano), infiltratesi anche tramite lapratica della traduzione, sin dagliesordi Strand si confronta con unasua personale lettura del mondoche codifica in incantesimi onirici,vignette surreali e placidi (e tantopiù sconcertanti) incontri con il nul-la, l’assenza, la morte: «O mia com-pagna, mia stupenda morte, / mioparadiso nero, mia droga antiqua-ta, / mia musa simbolista, dammi iltuo seno / o la mano o la lingua chedorme tutto il giorno / dentro quel-la muraglia di gengive rossastre».Le sue avventure meditative si in-scenano solitamente su paesagggiinospitali, algidi specchi alla Magrit-te, iperrealistici e al contempo in-sondabili o profetici, o su spazi allu-cinati riportati da «mappe nere» incui niente «ti dirà / dove sei. / Ogniattimo è un posto /dove non sei sta-

to», e dove il «presente è sempre bu-io». Questi cronotopoi del nulla, inapparenza così poco americani, sucui si situa il soggetto intento a os-servare il proprio azzeramento nelmondo («Mi trasformo nella miamorte. / La mia vita è piccola / e sifa più piccola. Il mondo è verde. /Niente è tutto»), e a tessere di conti-nuo la «propria tenebra» finché«non sarà perfetta», costituisconoun universo verbale e esistenzialeche si pone come spazio simbolicoalternativo alla realtà. Strand, infat-ti, ha ammesso in un saggio («Poe-try in the World») che la sua poesianon intende creare un rapporto mi-metico con il mondo, o costruireun discorso che nasce dal e riportaal mondo come lo conosciamo,ma proporre la proiezione di unmondo alternativo, un surrogatospesso paradossale, attraverso ilquale leggere quello vero, e rag-giungere il luogo in cui abita il mi-stero che sarà da lasciare indistur-bato, non sondato, come quando,per esempio, si ascolta, senza pro-vare a indagarne il senso, il cantoarmonioso di «uomo e cammello».Una volta scalfito quel nocciolo vi-tale, la poesia e la nostra ragione diessere nel mondo cesseranno diesistere. Parallelamente, solo nellaconvivenza con la morte e il nullasi troverà la salvezza: «Sai che ades-so è diverso, che questa è occasio-ne di festa, / che arrendendoti alnulla / sarai risanato. Sai che c’ègioia nel sentire / i polmoni prepa-rarsi a un futuro di cenere».

Sembra di poter notare una con-solatoria accettazione sia dell’im-perscrutabilità del reale sia della vi-ta nutrita dal commercio con lamorte, esperienze accolte con iro-

nia, senza traumi apparenti e conun ricorrente gusto per il «black hu-mor» e l’assurdo. Così sembra gui-darci il testo, se solo nello spazio al-ternativo (e «artificiale») di Strandnon intervenisse il mito a scoprireun insospettato double-face nell’in-telaiatura, e a fornire gli strumentiper una altrimenti imprevedibilelettura «pastorale» di quello spazio,con al suo centro l’antico mito sa-crificale e vegetativo del genere ele-giaco. È ciò che propone convin-centemente Rosanna Warren nel-l’introduzione, rimandando all’anti-co topos della presenza del doloree della morte in Arcadia («Et in Ar-cadia ego»), come ripreso nelle eglo-ghe virgiliane. In effetti, a partire da-gli anni novanta, nei suoi pertur-banti paesaggi («idilli negativi», lichiama Warren), due archetipi dipoeti martirizzati sono più volteevocati da Strand quasi a manifesta-re in modo indiretto, o più chiara-mente quando egli ne indossa lamaschera, la sofferenza implicatain quel suo continuo poetico auto-denegarsi. Se Orfeo fallisce nel vol-gere lo sguardo profano al misteroe va incontro allo smembramentolasciando il «lutto» per la poesia

che aveva portato in dono al mon-do («Orfeo solo», 1990), Marsia, chesubisce la scarnificazione del corposenza aver «commesso alcun crimi-ne commisurato / alla sofferenzache gli viene inflitta», è una figurapiù terrena e problematica, non acaso poco frequentata nel tempoda poeti e letterati. Cosa significa ilsuo supplizio, si chiede Strand, senon la promessa che i brandelli diquella carne vengano (cristologica-mente) dati «in pasto agli astanti»anche secoli dopo come, per esem-pio, nel dipinto del tardo Tizianoche egli sta guardando?

Qui, nella sezione XXXIX di Por-to oscuro (1993) – il poemetto piùcompiuto di questa raccolta (in ter-zine stevensiane e dantesche) – at-traverso l’ekphrasis dello Scortica-mento di Marsia, Strand offre con-sapevolmente una controparte mi-tica – perpetuata a sua volta nell’ar-te pittorica, dove il rituale continuaa ripetersi e a rinnovarsi in presen-za – in tacito commento ai suoi me-taforici gesti autosacrificali (auto-omicidi, li definisce Warren): «uncorpo viene raschiato / via dall’os-so dell’esperienza, – scrive Stranddi Marsia – così che la mappa delsoffrire / venga letta in modi taliche la carne possa essere redenta, /almeno per un momento, il mo-mento in cui muta in canto». Ovve-ro, nel momento fuggevole, qui rei-terato proprio per afferrarlo, in cuisi genera il mistero della poesia, invirtù del quale la brutale esperien-za della vita si trasforma in arte, e lasofferenza redenta si sublima in unterritorio che trascende il contin-gente. «Può essere questo – si chie-de il poeta – il prezzo dell’accoglie-re in sé il dolore»?

Un universo verbale ed esistenziale che si pone come spazio simbolico alternativo

alla realtà: dove il quasi ottantenne Strand tesse «la propria tenebra», nutrendo

con «black Humor» e gusto dell’assurdo il suo continuo commercio con la morte

Wolf Biermann, nato ad Amburgonel 1936, emigrato per convinzio-ni politiche in Germania Est nel1953, cacciato da questa nel 1976per le sue canzoni scomode, rima-ne una delle figure più notevoli,intelligenti e umane della culturatedesca degli ultimi quarant’anni.E infatti, chansonnier popolaresferzante e commosso, ha ottenu-to i più importanti riconoscimentidel suo Paese, dal Premio Büch-ner al Bundesverdienstkreuz. In-somma, fra gli scrittori tedeschioggi attivi, Biermann è senz’altrodi quelli che ci dicono di più. E,come il suo amato Heine, ci pun-gono e fanno sorridere con umori-smo asciutto e spiazzante. Ne so-no esempio queste Otto lezioni perun’estetica della canzone e della poe-sia (a cura di Alberto Noceti, Il Can-neto editore, pp. 315, € 18,00),tenute all’Università di Düsseldorffra 1993 e 1995, lezioni vivacissi-me e stimolanti che affrontanotemi politici ed estetici (la naturadella poesia, la traduzione, il rap-porto parole-musica...) e racconta-no a sprazzi la Germania conosciu-ta da Biermann, specialmente lebassezze del clima culturale dellaRdt con i suoi delatori insospetta-bili. «Dopo il crollo della Ddr, Hei-ner Müller dichiarò in un’intervi-sta... che in tempi sporchi non èlecito avere le mani pulite. Era so-lo una delle sue innumerevoli pa-rafrasi del materiale lessicale delnostro comune grande MaestroBrecht, che nella Vita di Galileo fadire al suo antieroe: ‘Meglio le ma-ni macchiate che vuote...’... Tradot-ta in termini chiari, l’opinione diMüller significa forse: chi in unadittatura sanguinosa, in un regimesporco, rimane con le mani puliteè la vera canaglia? E se, quando latirannide è finalmente crollata, chiè stato vittima della delazione chia-ma pubblicamente delatore coluiche l’ha denunciato sarebbe eglistesso un delatore? Sento che ilproblema ci tocca da vicino, trop-po, tanto da confonderci. Forsecon un po’ di distacco riusciamo adistinguere meglio. François Vil-lon...». E Biermann evoca come faspesso il genio del farabutto Vil-lon. («E se per piccoli vantaggi per-sonali avesse consegnato al Princi-pe delle persone innocenti, chesarebbe allora?»). Il problema ritor-na assillante, e Biermann non fasconti. Il suo è un libro appassio-nante, una lucida carrellata fra glo-rie e infamie della Germania, an-che letterarie. Con ottima scelta ilcuratore ristampa in appendiceagli otto capitoli-lezioni tutti i testioriginali citati, di Biermann, Bre-cht, Verlaine, Heine, Aragon, Don-ne e degli scagnozzi del regime(«Stalin, Stalin, si chiama la felicitàdel mondo» recita un inno dell’al-lora ministro della cultura Ddr inmorte del «genocida Dzugasvili»).C’è anche un indice di personaggipiù e meno noti con i giudizi pun-genti che Biermann ne dà. («Hone-cker, Erich. Mentecatto onnipoten-te. È su chi rimane indietro che siavventano i cani»). Ma Biermann èsoprattutto un conferenziere stra-ordinario e imprevedibile, che nonricade mai nella routine, avendodelle cose da dire. Non so quanticorsi di lezioni sul rapporto arte-so-cietà nel nostro tempo si possanoleggere con altrettanto profitto.

Milton Avery, «Tramonto», 1952,New York, The Brooklyn Museum

ALIAS N. 15 - 16 APRILE 2011 (19

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■ «JEU D’ADAM», DRAMMA IN LINGUA VOLGARE ■

Il primo teatronel giardino dell’Eden

BERSAGLIL A T I N O M E D I E V A L E

Pietro Alfonsi, un casodi sintesi multiculturale

di Paolo Garbini

di Massimo Stella

La qualità della «Biblio-teca Medievale» Carocci, nellaquale si rendono disponibili or-mai da anni testi tardo-antichi emedievali (non solo cristiani) –che, per quanto costituiscano ap-porti rilevanti alla tradizione cul-turale europea, resterebbero al-trimenti irreperibili sul mercato–, si riconferma pienamente conquesto Adamo ed Eva Le Jeud’Adam: alle origini del teatro sa-cro (pp. 318, € 24,00), a cura diSonia Maura Barillari.

Si tratta di una drammaturgiadel dodicesimo secolo che mettein scena l’archetipico «romanzodi famiglia» cristiano: la cadutadei progenitori dal paradiso e lasventura dei loro figli Caino eAbele, vera e propria vicenda dimaledizione, chiusa, a mo’ diepilogo, da una sfilata di profeticui è affidato l’annuncio dell’av-vento di Cristo. Molti sono i me-riti di questa impresa editoriale: il testo, insé, è la prima opera per il teatro interamenteredatta in volgare (lingua d’oïl) da noi posse-duta; l’edizione in cui ce la offre Sonia Barilla-ri è la prima edizione critica italiana, condot-ta con impeccabile rigore filologico e correda-ta da un’ampia introduzione che, a tuttocampo, esplora i diversi piani problematiciin questione: dal rimodellamento dramma-turgico della lettera biblica che segnala scarti

abissali ed estremamente inte-ressanti tanto da porre fonda-mentali quesiti sullo statuto delteatro nel quadro epistemico delmondo medievale; al contestoantropologico del tempo perfor-mativo – la collocazione calenda-riale, le filigrane liturgiche e ri-tuali; all’interrelazione con i do-cumenti visivi – le lastre del Ge-nesi del Duomo di Modena rea-

lizzate da Wiligelmo, complessorompicapo già studiato da Chia-ra Frugoni, cui qui la curatrice of-fre una soluzione più che condi-visibile sul filo della diffusioneorale in terra padana della tradi-zione oitanica; alla semiosi sceni-ca e al suo lessico tecnico deposi-tato nelle didascalie latine a usodei clerici allestitori dello spetta-colo, fino ai complessi problemidi ordine paleografico, linguisti-co, morfologico, fonologico e ver-sificatorio, concernenti l’unicomanoscritto (conservato aTours) che ci veicola il testo.

Ma il merito più rilevante diquesto libro, almeno per il gran-de pubblico, è costituito dallascelta culturale che lo motiva: ri-mettere in questione, attraversoun’inquietante figura di Eva –una tra le più inquietanti delmondo medievale, bisogna rico-noscere – il rapporto tra culturacristiana e teatro, rapporto spino-so e difficile, che troppo spesso egeneralmente è stato neutralizza-to con il controveleno del fine di-

dattico e morale. Nella culturacristiana, si sa, il teatro è il giocodel diavolo, a partire da Tertullia-no (ma poi in generale nel pen-siero dei Padri della Chiesa): seSatana è il falsificatore (interpola-tor) della fondazione divina (divi-nae conditionis – così dice il teo-logo nel De spectaculis e nel Deidololatria), ebbene, il teatro,che sostituisce sistematicamen-te alla verità le ombre di un mi-raggio (che sia simulazione, dissi-mulazione, rappresentazione) èil luogo in cui si realizza più squi-sitamente e per eccellenza la mis-sione diabolica nel mondo. Il Jeud’Adam parrebbe dunque esse-re, in questo quadro, una miseen abîme dell’illusione teatralein quanto tale, proprio perchémette in scena la falsificazionedel giardino paradisiaco attraver-so la seduzione/inganno di Eva.E, si badi, non si tratta di una se-duzione carnale, bensì intellet-tuale, perché ad Eva viene offer-to il frutto della conoscenza. Esin qui nulla di così straniante.

Ma grande sorpresa è trovarcidi fronte ad una Eva perfetta-mente consapevole e autodeter-minata (che Sonia Barillari sarendere attraverso una traduzio-ne accattivante, pur nella sobriarigorosità), per non dire, senza al-cun timore di forzature, illumi-nata. Questa Eva, infatti, non ce-de semplicemente alla tentazio-ne: tutt’altro, la vuole provare(car nel crerai de nule rien tantque l’asai), perché lei per primaha saputo mettere alla prova Sa-tana (car l’asaiai) e ha dunqueben presente che è un traditore.Non stupisce che su questo pun-to del testo, come si evince dal-l’apparato critico, ci siano statidiversi interventi degli editoriper scippare ad Eva le battutecruciali: questa edizione gliele re-stituisce. Quando poi veniamoalla scena in cui entrambi man-giano il frutto della conoscenza(pome de tut saver), assistiamo aun altro colpo di teatro: non ap-pena ha gustato, Eva non solonon avverte il minimo senso delpeccato, ma si proclama felice-mente invasa dalla nuova sapien-za: «Dio, che sapore! […]Ora imiei occhi vedono con tantachiarezza, rassomiglio a Dio,l’onnipotente. Ogni cosa che èstata, ogni cosa che sarà, io la co-nosco alla perfezione, e la padro-neggio pienamente». È solo Ada-mo a percepire il sapore del ma-le e a cadere in ginocchio, vergo-gnoso e tremante, come quel ser-vo ignorante che Satana gli rim-proverava di essere.

Quale altra immagine di Eva il-luminata – ci si chiede – sta nellanostra memoria se non l’Evagnostica degli Ofiti (la setta delSerpente) e dell’Apocrifo di Gio-vanni, l’Eva inviata nel giardinodalle potenze superiori per libe-rare l’uomo-Adamo dall’ingan-no del Cattivo Demiurgo, il Diomalvagio di questo mondo? Mail sapore di quel frutto è anche ilgusto del teatro: l’Eva del Jeud’Adam sembra proprio saperlo,insieme, probabilmente, a queichierici mattacchioni che faceva-no i registi dello spettacolo; e laconoscenza, poi, che quel fruttodona è anche il gioco tutto spe-ciale del conoscere che il teatromette in movimento, non per lavia della verità, ma per la via del-la rappresentazione. Viene pro-prio da dire, parafrasando JohnFord, peccato che per i teologicattolici Eva sia solo una putta-na! Certamente l’autore del Jeud’Adam ci racconta una storia di-versa, nella consapevolezza chemettere in scena una tentazione,anzi, una trasgressione, così gno-seologicamente saporosa, signifi-ca diffondere scientemente ilcontagio diabolico.

Mosè Sefardi, un ebreo spagnoloculturalmente arabizzato, si con-verte al cristianesimo il 29 giu-gno 1106 e in onore del suo pa-drino, il re d’Aragona Alfonso I,prende il nome di Petrus Alfonsi(Pietro di Alfonso), si trasferiscein Aragona e poi in Francia e inInghilterra dove contribuisce acollegare la cultura letteraria, eti-ca e scientifica ebraica e arabacon il mondo cristiano-latino. Tol-te le date e i nomi, lo schema diquesta vicenda di fluidità parreb-be il plot di un romanzo che vo-lesse indicare un’uscita di sicurez-za ai calcificati rapporti tra le trereligioni semitiche cui dobbiamogran parte del disordine planeta-rio dei nostri tempi. È invece lascheda biografica di uno scrittoremedievale, Pietro Alfonsi, mortointorno al 1130, autore di varieopere latine tra le quali spiccaper originalità e successo la Disci-plina clericalis (L’educazione deichierici), qui raffinatamente pre-sentata e tradotta da EdoardoD’Angelo che, con mano lieveeppure informatissima, sa con-durre anche il lettore non specia-lizzato nel caleidoscopio di untesto senza pari (Pacini Editore,pp. VIII-151, € 15,00).Formalmente, nulla di nuovo: laDisciplina clericalis è un’opera ditipo sapienziale dedicata all’istru-zione dei chierici, nel senso me-dievale di «persone colte», ed èuna raccolta di aneddoti e prover-bi edificanti. Ma il colpo di teatrosta nei contenuti: Pietro importaper primo, all’interno dell’orizzon-te latino medievale, temi e storieprovenienti dalle culture del-l’Oriente, ebraica e araba soprat-tutto. Le sue fonti sono la stradae il libro, e cioè la tradizione ora-le e i capolavori narrativi, dal Kali-la e Dimna – versione araba delPanciatantra, raccolta di novelleindiane – all’ebraica Storia deisette sapienti, alle arabe Mille euna notte. I trentaquattro aneddo-ti che approdano alle pagine diPietro «hanno viaggiato molto,nel tempo e nello spazio». Im-pressionante è infatti la dinamicageografica di questi temi che simuovono dall’India e dalla Per-sia, poi si arabizzano o ebraizza-no in Medio Oriente e da quigiungono in Europa, specie inSpagna e in Sicilia, dove si conver-tono in latino. E impressionanteè anche la dinamica del dopo, lafortuna non solo medievale dellaDisciplina clericalis. Nel Medioe-vo è lettissima, come mostrano iben settantasei codici conservati;le traduzioni in diverse linguevolgari (in francese ben quattro,da cui derivano altre dialettali, epoi in italiano, in tedesco e perfi-no in islandese); le fittissime ri-prese da parte di scrittori succes-sivi, specialmente dei predicatoridomenicani e francescani, che lautilizzano come cava di materialinarrativi per costruire gli edificidei loro sermoni; gli affioramentinelle più rinomate raccolte di no-velle del basso Medioevo: il No-vellino, il Decameron di Boccac-cio, i Racconti di Canterbury diChaucer. E colpisce poi la moder-na messa a frutto di Cervantes edi Molière.Scritta mentre la Reconquista spa-gnola vede i suoi primi successi a

danno degli emirati arabi, la Disci-plina clericalis offre precetti disaggezza terrena, concreta, siapure con spunti spirituali ed eticima mai precisamente religiosi(l’unico eremita citato è Socrate).Questo strano testo è un esitotangibile dell’intenzione e dellanecessità, da parte dei sovranispagnoli cattolici, di operare nellezone riconquistate una integrazio-ne triangolata tra la popolazionee la classe dirigente preesistente,culturalmente islamica o ebraica,e i sopraggiunti cristiani. In quelmondo mediterraneo del secolododicesimo, multietnico e multi-culturale ma al contempo chiusoe intransigente, Pietro si poneinfatti come mediatore, di fattonon islamico e nemmeno cristia-no, malgrado la conversione, maquale rappresentante «di una cul-tura terza, quella giudaica»; e for-se proprio grazie a questo sguar-do straordinariamente strabico,nella Disciplina clericalis ogniopinione vale quanto il suo con-trario, le idee e il sapere si relati-vizzano così da «smascherare dog-mi e pregiudizi». Questa allora èla vera novità dell’opera e questoil compito dell’autentico filosofo:non solo procurare il piacere deltesto, ma anche fornire gli stru-menti intellettuali per il piacere –e il dovere – di criticare ogniauctoritas a favore dell’esperien-za e di saper valutare punti di vi-sta differenti, anche antitetici, con-tro ogni resistenza psicologica,sia pure inconsapevole, al nuovo.Il volume esce nella collana Scrit-tori latini dell’Europa medievalecurata da Francesco Stella perPacini editore: una novità assolu-ta nel panorama editoriale italia-no. È infatti la prima collana nonaccademica dedicata esclusiva-mente a opere del Medioevo lati-no, presentate per la prima voltain traduzione italiana con testo afronte e corredate da un’agileintroduzione e rapide note espli-cative. L’impresa è culturalmenteimpegnata e ha il merito di avvici-nare a un pubblico colto ma lar-go una letteratura che per varipregiudizi è oggi ignota o quantomeno ritenuta esotica. E invecenon esotica, ma familiare, e nonsolo in Italia ma in tutta Europa,dovrebbe essere la letteraturalatina del Medioevo, perché è illaboratorio millenario dove si sin-tetizzarono le culture classica,cristiana, germanica e celtica. In-trecciando gli elementi dell’Anti-co, della Sacra Scrittura e diun’oralità incessante, la letteratu-ra latina medievale racconta infat-ti la storia di quei giorni in cuic’eravamo tutti quelli che oggi cichiamiamo Europei. È il Medioe-vo latino, insomma, l’antefatto diquella identità culturale del Vec-chio Continente che oggi sembrasfuggire alla presa. Sono uscitifinora nove titoli, i quali, per viediverse e avvincenti, raccontanotutti l’originalità e l’autonomia diquesta letteratura rispetto a quel-la classica e i suoi fruttuosi scam-bi con quelle volgari: sono anco-ra solo nove titoli, ma bastevoli aincantare il lettore curioso di co-noscere una realtà letteraria di-menticata eppure ancora attiva,fosforescenza senza quiete diuna fantasia mai spenta.

XII SECOLO

La lettura di questo testo del dodicesimo secolo

in lingua d’oïl, qui benissimo editato e commentato,

ci sprofonda nella spinosa questione teatro/cultura

cristiana. E una Eva «illuminata» dalla conoscenza

apre le porte al gusto «diabolico» per le scene

Wiligelmo, «il Peccato», part.,Modena, Duomo

20) ALIAS N. 15 - 16 APRILE 2011

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■ UN DIARIO DI VIAGGIO, «RITROVATO», SUL FIUME NÀRMADA ■

Profumi e fiammelledi Alvar González-Palacios

D urante uno dei variviaggi che ho fatto in India mi è ca-pitato di trovare sul sedile del trenoin cui viaggiavo una signora ciar-liera e simpatica che non smise diparlare per un paio d’ore. E tantafu la foga con cui abbandonò loscompartimento che dimenticò unpiccolo taccuino di pelle che nonesitai ad aprire. Qui ne riproducoalcune pagine anche se so di fareuna cosa indiscreta. Mi dispiaceche tanta spontaneità resti inedita.Non so chi sia l’autrice. Non ci pre-sentammo. E mi sono guardato dalfare ricerche in merito. Le tre inizia-li goffrate sulla copertina del libret-to erano state cancellate, restava iltitolo sulla prima pagina: Da vialeParioli a Benares.

* * *Ci si alza al buio. Nebbia, molta

umidità; volo breve ma comun-que più di un’ora fino ad Indore.Poi tre ore di macchina fino allanostra destinazione, a poco più dicento chilometri, il Forte di Ahilya,guidati da un pazzo: la strada è l’in-ferno in terra, in un paesaggio sini-stro popolato di brutte costruzionie piante che sarebbero belle senon fossero coperte di polvere co-me in un vecchio deposito abban-donato. Verso il tocco si arriva alForte, a picco sul fiume Nàrmada.Non lo si può dire un albergo mapiuttosto un palazzo povero perospiti ricchi: haveli si chiamano inIndia ma non sono mai così gran-

diosi come questo. Ahilya era la se-de del piccolo stato prima che nel-l’Ottocento essa fosse trasferita adIndore. Oggi occorre molto impe-gno per mantenere un carattere at-traente a questo insieme di cortili,piccole fontane, verande, contraf-forti e giardini punteggiati di albe-ri secolari, di bambù, di rampican-ti tropicali ed europei. Corridoi,gallerie coperte o porticate, pavi-menti di pietra o di mattoni fra iquali a volte si intravede l’erba eaccanto a vasi in terracotta mac-chiati di muschio e vasi di ottonetirati a lucido, scalini a sinistra, sca-lini a destra, pochi, quattro, cin-que, qualche volta otto. In fondo,accanto ad una cappellina dedica-ta a Shiva, quindici, venti scaliniportano invece ad una terrazzapiù vasta dalla quale si domina ilfiume, qui tre volte più largo dellaSenna. In mezzo un isolotto conun piccolo tempio – dopo, ora c’ètroppo sole.

«I am your host». Un uomo alto,magro, porta con eleganza curta,un paio di panciotti, pantaloni

stretti e ciabatte di cuoio come inIndia sa fare solo un gran signore.Suo padre era quel Maharajah diIndore che fece costruire nel 1930un palazzo, Manik Bagh, nella suacapitale quando divenne sovranoa venticinque anni. Affidò il compi-to a un architetto tedesco EckartMuthesius col quale scelse oggettiallora fuori commercio e altri com-missionati a Marcel Breuer, a Ruhl-mann, a Le Corbusier, a Puiforcate a Eileen Gray. Il Maharajah morìgiovane, nel 1956, poco dopo l’in-dipendenza dell’India.

Poco prima del tramonto assi-sto al grande puja in onore di Shi-va, oggi, giorno sacro del fiumeNàrmada: quattro bramini e il no-stro ospite inginocchiati nella pun-ta più avanzata dei ghats, quasisull’acqua, salmodiano preghiere,offrono fiori, alimenti, bracciali sa-cri, miele, e accendono il fuoco.Da ieri sera il passaggio dei creden-ti non sembra avere fine. Ognunosi immerge nelle acque vergini (co-sì definiscono la sostanza gelatino-sa in quel punto) del fiume ma-

dre, in mezzo ad infiniti canti inun entusiasmo irrefrenabile. La ce-rimonia è commovente e rammen-ta le nozze annuali del doge di Ve-nezia col mare nel quale gettavaun anello d’oro invocando prote-zione e benevolenza. Finito il pujail bramino capo, scuro di pelle echiaro di occhi, benedice e offre atutti i dolciumi rituali fatti di zuc-chero, giallo d’uovo e latte. Salia-mo su delle barchette, che ricorda-no la forma dei cheese coasters in-glesi, per attraversare il Nàrmadafino all’isolotto che spartisce le ac-que fra le due rive dove molti can-tano ancora preghiere a Shiva epiovono benedizioni che portanoo dovrebbero portarci infinita pa-ce. Tre signore straniere sono quiospiti, le Tre Belle (ieri, forse oggi,non domani). La prima, bianca co-me la luna, indossa vestiti chesembrano di carta, bende di seta,gioielli accecanti, parrucche cheracchiudono il piccolo cranio e co-pricapo o copriparrucche, non sobene. La seconda, da troppo tem-po bella, un tremito di chiffon mul-

ticolori, inebriante di profumo,tacchi su cui resta impossibile con-durre la propria persona fra le pie-tre irregolari dei cortili, voce mela-ta, sorriso turgido, cappelli chesembrano panieri per frutta o ver-dura con veli, sostanze di ogni ge-nere. La terza dama tende anchealla profusione ma con misura,meno ornamenti, non vuole piace-re a tutti, meno ossessiva, vocerauca, sembra cauta. Leggono So-merset Maugham? Passano.

È il tramonto, o poco dopo, maresta un lucore nel cielo che via viasi diluisce, le stelle si vedono unadopo l’altra. Le voci si spengono ei passanti si fanno radi. Finisce frasalmi, profumi e fiammelle un’al-tra cerimonia nel tempio dedicataall’antenata dei Maharajah, unadonna santa che si dette nell’ulti-ma parte della vita a fare il benedei sudditi: Devi Ahilya BaiHolkar. Morì nel 1795 e il cenota-fio a lei dedicato con una statuache la raffigura è meta di culto gior-no dopo giorno. Il suo tempio faparte del Forte dove siamo ospita-ti, a picco sul Nàrmada che scorresereno all’ora del crepuscolo – so-lo qualche barchetta a motorepunteggia la pace e il silenzio colsuo tac tac. Le stelle si ripetono neilumini sulla facciata del tempio,sui muretti, sulle terrazze che guar-dano il fiume o i massi colossali

del Forte che domina ogni cosa.Proprio in una delle terrazze sono stati siste-

mati materassi e cuscini e sdraio. Vidya Rao,una cantante di musica tradizionale, accompa-gnata solo da due strumenti, ci intratterà. Èuna donna non più giovane ma estremamentegraziosa, pochi gesti con la mano sinistra, men-tre l’altra sfiora puntuale le corde di una sortadi chitarrone al quale si appoggia. Vidya è esilema la voce è profonda e sembra un lamento,un sorriso. Ammicca e respinge fra invito e di-niego; il volto delicato, ora malinconico ora al-legro, misura l’espressione con maestria sotto-lineando ogni parola. Lei stessa spiega in quelzigzagante inglese degli indiani quel che canta.La prima canzone, profonda di suono, non tri-ste ma non allegra, dovrebbe essere un inno aShiva: «tu sei nero come la notte, sei rosso co-me il sole morente, sei padre di ogni cosa e seimadre di tutto». Un’altra composizione rifletteemozioni contraddittorie: «oh Nàrmada, scorripiano che il mio amato possa attraversarti eraggiungermi sull’altra sponda dove l’attendoin ansia, cullaci più dolcemente nelle tue ac-que verso la fine, ma portaci senza troppo dolo-re, giorno dopo giorno». Fuori è già notte, unanotte buia senza luna.

Scendiamo verso il tempio dove inizia l’ulti-mo puja sul cenotafio della santa. Ecco come lorievoca Royna Grewal in un libroche ho letto in questi giorni Sacredvergin. Travels along the Nàrmada:«La cerimonia inizia subito. I cantidei fedeli crescono sempre di più.Le campane tintinnano, i cembalirisuonano e la grande campanadel tempio domina tutto incessan-temente in un fragore che cancellail pensiero e svuota la mente. C’èsolo il rito; accanto a me una vec-chia intona versi sensuali, lacrimedi devozione solcano le sue gote. Ilsuono cresce a dismisura e si inter-rompe di colpo».

Il mio padrone di casa, la cuiamata è in coma da diverso tempo,dopo un gravissimo incidente, an-dò a consultare un guru lamentan-dosi del suo destino: «Perché dove-va toccare a me un tale orrore?». «Eperché no?» rispose il saggio.

«La partita della Turchia è ovvia.Ha aperto una nuova frontieradiplomatica, e ha trasformato lapropria delusione per i continui eumilianti rifiuti ricevuti dall’Euro-pa in una sfida a proporsi invececome superpotenza d’area»: inquesta conclusione si riassume ilquadro allestito dal giornalistaMarco Ansaldo, da anni inviatospeciale di Repubblica e vaticani-sta, nel suo reportage Chi ha persola Turchia Viaggio al termine del-l’Europa fra nuovi Lupi grigi escrittori sotto scorta (Einaudi, pp.279, € 21,00). Il libro di Ansaldoè un riassunto aggiornato e gior-nalistico dei vari dossier apertirelativi alla geostoria turca chedovrebbe essere incluso tra leletture obbligate del diplomaticoitaliano, assieme al n. 4/2010della rivista «Limes», Il ritorno delsultano, in cui, tra gli altri è inclu-so un articolo dello stesso Ansal-do, Papa Ratzinger non dice no.In Chi ha perso la Turchia l’auto-re raccoglie e amalgama in unanarrazione complessiva articolisuoi e di altri colleghi italiani estranieri, aggiungendovi resocontidi incontri non utilizzati in prece-denti interviste e ampi riferimentibibliografici. L’effetto finale è quel-lo di un’enciclopedia compressa,dove, in meno di trecento pagine,vengono descritti i caratteri laicima nazionalistici delle gerarchiemilitari turche, le paradossali aper-ture all’Europa degli islamisti mo-derati del riformatore Erdogan,attuale primo ministro, i colpi distato dei primi, tesi a difendere lalaicità dello Stato (a eliminare icomunisti prima e gli islamistipoi), la presunta agenda segretadei secondi (il ritorno alla sha-ria?), i malumori di una societàcivile socialdemocratica ancorataal mito del fondatore del filoeuro-peo Atatürk, ma diffidente neiconfronti di un’Europa assai pocofiloturca, la strategia della tensio-ne del cosiddetto «Stato profon-do», ultranazionalistico e islamicoal tempo stesso, a cui potrebberoessere forse collegati gli assassiniidi Hrant Dink, don Andrea Santo-ro e mons. Padovese, le coraggio-se aperture culturali di scrittoricome il premio Nobel Orhan Pa-muk, Elif Safak e Perihan Ma-gden, il successo degli imprendi-tori dell’entroterra anatolico, tradi-zionalisti nelle questioni religiose,ma spregiudicati in campo econo-mico, la questione curda, gli arme-ni, il muro di Cipro che divide igreco-ciprioti (dentro la UE dalmaggio 2004) dai turco-ciprioti(ancora fuori). Se la congerie didati sembra affastellarsi senzarespiro, non è colpa dell’autore,ma di una situazione oggettiva-mente complessa. Dal quadro diAnsaldo emerge però con chiarez-za la vitalità della Turchia, un Pae-se strategico dell’Eurasia per sto-ria, risorse umane e materie pri-me che, probabilmente grazieanche al ministro degli esteri Ah-met Davutoglu, ha una sempremaggiore consapevolezza dellapropria importanza nella politicamondiale e a cui molti Paesi dalNordafrica all’Iran guardano co-me a un referente affidabile. Ildiplomatico italiano che legga illibro di Ansaldo immagino proviuna leggera fitta di invidia.

INDIABERSAGLI

T U R C H I A

DIPLOMATICIITALIANI, LEGGETEIL LIBRO DI ANSALDOdi Fabio De Propris

Impressioni (e commozioni) di una anonima turista romana, in visita al forte

di Ahilya, a picco sul fiume indiano: che poco prima del tramonto diventa la scena

di un grande «puja» in onore di Shiva, tra preghiere e bracciali sacri, fuoco e miele

«Asavari ragini», part. Bikaner,Mogol, o Deccan, 1740-1760 circa

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■ «TI UCCIDERÒ, MIA CAPITALE», RACCONTI DI QUARANT’ANNI ■

La felicità del cocomeronell’orrore del cosmo

di Graziella Pulce

Ècome guardare un al-bum di foto con gruppi scolastici. Ivisi tutti egualmente distanti e sor-ridenti restano muti fino alla richie-sta di individuare dov’è l’attore x ola cantante y. Allora il mistero si di-sfa e il dito baldanzoso punta sul vi-so che contiene tutte ma propriotutte le espressioni della futura,ma lì già presente, star. Così è conTi ucciderò, mia capitale (a curadi Salvatore Silvano Nigro, Adelphi«Biblioteca», pp. 372, € 25,00). Co-minci dall’indice e resti perplesso,aggredisci qualche pagina qua e làe non scatta alcuno Shock of Reco-gnition né di platonica né di wilso-niana memoria. Poi, quando ti seiquasi rassegnato alla resa, un movi-mento del periodare che da sempli-cemente ingarbugliato lascia intra-vedere il pelame di una costruzio-ne araldica, e un aggettivo che sul-le prime non appariva degno di at-tenzione si scopre impegnato inuna disputa perigliosa con un so-stantivo peregrino, e dal loro fittodialogare ecco scaturire un’imma-gine ardita, una metafora concetto-sa e scabra, scostante, irriverente,oscena e blasfema, e allora com-prendi che Manganelli ha presopossesso di quello scrittore implu-me e acerbo che compitava paginedestinate a restare prive di aria e lu-ce per sessant’anni e che Nigrocon pazienza ha ricostruito.

Percorrere questi testi significaaggirarsi in una galleria di ritrattimolti dei quali presentano un’evi-dente aria di famiglia, ma comenei ritratti degli antenati si colgonopiù pronunciati e netti caratteriche nei discendenti si illanguidisco-no o si fanno carsici. Certamentecondivisibile la tesi del curatoreche in questi testi giovanili e preco-ci stiano incistati temi e motivi delManganelli futuro, ma è indubita-bile che qui ci sia anche altro. Delprotagonista di vorticose disceseagli inferi (il fantasma di Hilarotra-goedia entra ed esce ripetutamen-te di scena), di proditori colloquicon le forze dell’inconscio, del ver-bobalista apprendiamo grazie adalcuni di questi scritti una più esat-ta topografia, ma soprattutto venia-mo a scoprire che cosa aveva mes-so in moto la macchina linguisticae verso (e contro) che cosa talemacchina fosse diretta. L’odio ha ilruolo di primadonna e in Un libroviene callidamente elogiato qualesentimento giusto, necessarioquanto l’amore. Esso garantiscepiena vitalità alla battaglia che ve-de contrapposti coloro che, ceden-do alla paura e alle insufflazionidei «preti», smettono le loro pennedi pellirosse e si arrendono all’usur-patore, e gli indomiti, i ribelli, i se-guaci di Satana, i demonofili.

I testi sono disposti secondo unordine cronologico (anche se benpochi sono datati), ricostruito sullabase di elementi indiziari di cui ilcuratore talvolta esplicita talaltranon esplicita i criteri. I limiti crono-

logici abbracciano un quaranten-nio, se il primo racconto, quellodella casa bianca, pubblicato sulgiornalino scolastico di un liceo dicui solo in quest’occasione appren-diamo il nome esatto, è del 1940 el’ultimo dell’82, per un totale diquaranta testi, di cui uno pubblica-to dall’autore e otto editi postumi.Ed è su alcuni degli inediti a tuttigli effetti che va posta attenzioneperché in quelli si manifestano im-magini verbali che si ripresentanovelate nelle pieghe di alcune operee che qui invece rivelano tutto il lo-ro potenziale. Dunque si presentauna processione di temi di già cri-stallizzata sembianza cosmogoni-ca e che si possono grosso modocosì riassumere: un orrore‘preistorico’ dovuto alla constata-zione del disordine irrimediabiledell’universo, in cui hanno preso il

potere forze che esercitano un go-verno tirannico, la loro inefficientegestione dell’universo, la sopravvi-venza di antichi culti inferi secon-do i quali l’unico senso dell’univer-so è la disaggregazione di ogni for-ma e di ogni materia, la presenzadi un soggetto che assume il ruolodi antagonista nei confronti dellepotenze supere, la sua irriducibilevolontà di combattere e insieme dicelebrare il disordine con una arti-colata sintassi, la celebrazione delsuicidio quale gesto di definitiva di-subbidienza a una volontà mali-gna: il suicida si scaglia contro la«menzogna delle stelle» e «smenti-sce l’armonia delle sfere» con unaforza che fa tremare il cosmo. Dun-que la letteratura quale sfida alla in-differenza e alla malignità degli dèiimpostori, un percorso che va daipresocratici a Camus, passando

magari per Lucrezio e Leopardi.Da questi scritti emergono dati

che consentono di tracciare una ni-tida cartografia dei topoi dell’auto-re. I riferimenti al fascismo, al nazi-smo e alla guerra sono espliciti e ri-petuti: il fascista è lo scherano, ilnazista, anzi quasi sempre «il tede-sco», è colui che ha paura dellamorte, crede nello spirito e nella re-ligione, e persegue i suoi tristiobiettivi con l’intento di‘migliorare’ l’universo. È ipotizzabi-le che le vicende della guerra e del-la Resistenza, alla quale peraltro l’autore preseparte attiva, abbiano catalizzato l’immaginariodi Manganelli e gli abbiano dato la prova incon-trovertibile che il male sia gloria e legge dell’uni-verso (come si legge nell’Archimandrita dei de-monofili al suo gregge). Ugualmente ossessivadeve essere restata la memoria traumatica delleatrocità commesse dai nazi-fascisti e di cui restatraccia nell’insistente presenza di torture e aber-razioni compiute sui corpi dei nemici indifesi,che nelle pagine del Manganelli successivo re-steranno quali tarsie di incongruo orrore. Deveessere strato lì, in quei tragici anni che Manga-nelli ha messo a punto il suo sistema, lì che havisto come la paura della morte porti gli indivi-dui a seguire un capo che promette un futuro divittoria. E deve essere stato in quel giro d’anniche il brillante studente di Scienze politiche(che si sarebbe laureato a pieni voti a guerra ap-pena conclusa) ha disegnato due scenari diversidi possibile reazione: uno di tipo linguistico-giu-ridico all’interno del quale chiamare in contrad-dittorio un potere che dopo la sconfitta militaredoveva essere sconfitto con le armi della retori-ca; un altro di puro e semplice odio e di volontàdi rispondere a omicidio con omicidio. Gli scrit-ti che contengono espliciti riferimenti alla vio-lenza fisica esercitata contro un essere ripugnan-te, macchiatosi dei crimini più infamanti (valgaper tutti Illustre carogna) non suonano né comeparadossi, né come mero esercizio retorico. Do-po Ti ucciderò, mia capitale, quando rileggiamo

il Manganelli successivo con espli-citi, talvolta umoristici, riferimentia omicidi e delitti vari, siamo co-stretti a scorgere le lontane rifrazio-ni di traumi e ossessioni che gli an-ni, le psicoterapie e l’esercizio del-la scrittura avevano forse reso piùmaneggevoli ma certamente noncancellato.

Colui che parla con accenti mil-toniani («non siamo stati vinti») èuno che non ha paura di morire,uno che tiene testa all’orrore del-l’universo e continua a combatterein nome della propria corruttibilitàe della propria mortalità. Costui sache l’universo è un infinito conteni-tore di suoni (Rumori o voci è giàtutto presente nell’Archimandri-ta). Quante sorprese in questi scrit-ti, quanti periodi faticosi e labirinti-ci! E quanti termini peregrini e pe-renti! Non solo ‘milione’, ma an-che ‘miglione’, non ‘lontane’, ma‘longinque’, non ‘sbriciolare’ ma‘spiccinare’, non ‘comandante’ ma‘antistes’. Questo eroe dalla sapidalingua impugna le parole più de-suete o più specialistiche come unbrando e si lancia nell’arengo per-ché sa che Dio è stato ucciso e tut-to è destinato a morire e pertantonon cerca felicità eterne ma gioieminuscole e carnali, come quella(in Un libro, “La rinunzia alla glo-ria”) che dà il sonetto o il cocome-ro, quel rubicondo sole pieno di se-mi di felicità.

Ripreso da un intervento su «Do-mus» del 1937 di Pietro Porcinai,paesaggista nostrano ma cosmo-polita di formazione, il richiamonel titolo del volume di Annama-ria Conforti Calcagni, Una grandecasa, cui sia di tetto il cielo (Il Saggia-tore, pp. 337, € 25,00), sintetica-mente significa come siano il rap-porto serrato con l’architettura e larelazione stretta tra interno e ester-no che, dopo l’interludio all’ingle-se del giardino paesaggistico, ca-ratterizzano la storia del giardinonell’Italia del Novecento. Di que-sta frastagliata vicenda l’autrice cirestituisce una riuscita sintesi inte-sa a disporre le emergenze e gliepisodi salienti in reciproche rela-zioni di senso. Sul piano storico eestetico-formale, con sullo sfondola consapevolezza del suo rilievoculturale e civile. E allora, col pro-cedere di industrializzazione e ad-densamento urbano, dapprima illinguaggio organicistico del Libertycon logge, bow-windows, terrazzi,fioriture verticali (la moda del glici-ne) dialoga con gli esterni mentregli spazi interni si raccordano allivello del giardino; altrove, in unterritorio sempre meno ordinatoall’agricoltura, si affacciano il «ver-de industriale» degli insediamentimanifatturieri e gli spazi combinatidelle città-giardino. Nella Romacapitale degli sventramenti postu-nitari e poi del giardino celebrati-vo delle rovine della romanità sisperimenta, con un «mezzo tantodiverso, riconoscibile, efficace‘reversibile’ come quello vegeta-le», un rapporto vegetazione-rovi-na teso alla ricostruzione filologi-ca; di pari passo con il risveglio diinteresse per il giardino formale«all’italiana» consacrato, seppurecon carattere di mero repertorio disoluzioni, nella rassegna del 1931a Palazzo Vecchio (50 sale, 4000oggetti). Ben diversamente interes-santi i risultati che si avranno inve-ce nelle «reintepretazioni» attualiz-zanti delle specificità del giardinoformale, oltreché nelle operazionidi ripristino dei giardini storici (taliche «pressoché tutti i giardini al-l’italiana oggi presenti nel nostropaese risalgono agli anni venti otrenta del novecento»). Mentrenell’addensarsi del vivere cittadinopostbellico le coperture di terrazzi-giardini si diffondono come scam-poli di paesaggio sospeso, fin nel-la declinazione minima del balco-ne, e allignano i villaggi turisticidella ripresa economica con speri-colate lottizzazioni ma anche conoperazioni di recupero ambienta-le. Insomma, suggerendo via via ilmutare di funzioni del giardino einterpretativamente ordinandonela varietà di esiti e soluzioni, non-ché presentandoci i protagonistiitaliani e stranieri di questa vicen-da (da Raffaele De Vico a Porcinaia Carlo Scarpa, da Cecil Pinsent aRussel Page), il volume percorrecon felici andirivieni la sua stradaper arrestarsi alle soglie degli anninovanta. Alla ripresa, oltre il «buconero» degli anni ottanta, quando,con le parole di Rosario Assunto:«I giardini… erano più o menoufficiosamente demonizzati comeun ingombrante residuo del passa-to. Status symbol delle classi domi-nanti. Spazio sottratto alle abitazio-ni del popolo. Lavoro sprecato emal pagato...» Si aspetta il seguito.

VÍRIDEC R I T I C A D E L G I A R D I N O

CONFORTI CALCAGNIDAL LIBERTYA UN BUCO NEROdi Andrea Di Salvo

Il primo pubblicato nel giornalino scolastico, l’ultimo nel 1982:

40 testi narrativi, quasi tutti inediti, per spiare tra culti inferi,

cosmogonie e tiranni nazi-fascisti l’ur-Giorgio Manganelli

Domenico Gnoli, «La toison», 1965

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■ «L’INCANTESIMO DELLA BUFFA», NUOVO ROMANZO DI SILVANA GRASSO ■

Anti-maniera siciliana

Pochi oggi ricordano B. Traven,ma tra gli anni quaranta e i ses-santa fu una misteriosa celebrità.Considerato all’epoca uno deimassimi narratori americani, isuoi libri furono tradotti un po’ovunque, uno di questi trasforma-to in successo cinematografico daJohn Houston. Praticamente nes-suno tuttavia, neanche il granderegista, ebbe modo di conoscerlo.La sua identità divenne oggetto diinfiniti gossip, inchieste sparseper il globo alla ricerca di una so-luzione che, fino a oggi, è rimastasconosciuta. Vittorio Giacopinis’immerge a sua volta nel miste-ro, e lo fa nell’unico modo possibi-le: confondendo immaginazionee realtà, congetture e fantasia,dati oggettivi e molto soggettiveossessioni. Ormai specialista nellarianimazione letteraria di esseri infuga, di vite dove «c’è un fondo disilenzio che non passa» (comequella del Ladro di suoni DeanBenedetti, o come il Bobby Fi-scher di Il re in fuga) Giacopini sisporge sull’esistenza fantasmaticadi B. Traven rispettando quel silen-zio che lo scrittore ha gelosamen-te protetto fino alla fine. «Per di-ventare nessuno, ci vuol metodo»,dice il narratore dell’Arte dell’ingan-no (Fandango, pp. 234, € 16,00) equello di B. Traven, tra tutti i meto-di per sparire, fu certamente il piùmeticoloso, il più complesso, ilpiù radicale: diventare Proteo,seguire mille percorsi, dissolversia furia di mutazioni imprevedibili.La lista dei nomi assunti da Tra-ven nel corso della sua vita leg-gendaria basterebbe a convincerechiunque della sua straordinarie-tà. O l’iperbolica proliferazione diipotesi basate sui pochi indizi dalui seminati in giro per il mondoprima di scomparire in Messico,dove scriverà la gran parte deisuoi libri (non si sa neppure se ininglese o in tedesco), nasconden-dosi dietro (probabilmente) l’iden-tità del proprio agente e tradutto-re. Che fosse Jack London redivi-vo, o Arthur Cravan, lo scrittoreamico di Breton, sono quasi certa-mente suggestive sciocchezze.Che fosse il figlio di una cantantefinlandese e del nipote dell’ulti-mo Kaiser di Prussia è un’ipotesipriva di riscontri ma non sprovvi-sta di una certa verosimiglianza.Quasi sicuramente, prima di di-ventare l’archetipo novecentescodello scrittore invisibile, Traven fuRet Marut, agitatore anarchico,pubblicista e politico durante labreve parentesi della RepubblicaBavarese dei Consigli (1919). Lastoria del Marut rivoluzionario fini-sce rapidamente (e tristemente),ma prima della Repubblica ci fu ilgiornalismo, il cabaret, la satira, etutto un sottobosco artistico-mili-tante che Giacopini ci restituiscecon vivacità e un tocco di nostalgi-ca ammirazione. B. Traven – rivo-luzionario, avventuriero, artista emolto altro – attraversò «emble-maticamente» il suo secolo: cercòdi fare la Storia e finì a raccontarestorie, in incognito. C’è dietro que-sto avvincente, appassionanteromanzo biografico l’intenzioneneanche troppo velata di offrirci,attraverso la ricostruzione di undestino mirabolante, una sorta diinterpretazione storica e metafisi-ca del nostro presente.

In questa storia di Seconda guerra ambientata a Roccazelle, nella Sicilia etnea,

la Grasso assume su di sé l’avvolgente maschilismo di Brancati «depistandolo»

attraverso l’eccesso di una lingua turgida e di una narrazione sontuosa e accecante

di Giulio Ferroni

Sontuosa, teatrale, ecces-siva, è sempre Silvana Grasso, chesi muove in un molto siciliano con-fondersi di luce e ombra, di solari-tà scatenata e di notturne ossessio-ni: in una continua sfida alla stes-sa «maniera» siciliana, assunta sudi sé, trascinata e stravolta, pro-prio perché declinata al femmini-le. Se quella siciliana ha costituitouna delle linee essenziali della mo-derna letteratura italiana, probabil-mente la più essenziale e la più in-tensamente rivelatrice delle con-traddizioni del moderno, essa èstata comunque una letteratura es-senzialmente maschile, ossessio-nata dal segreto della femminilità,dalla fascinazione e dalla distanzadella presenza femminile, dal se-greto irraggiungibile della femmi-nilità, tra malessere e desiderio, inun filo che variamente ricongiun-ge Verga, De Roberto, Pirandello,Brancati, ecc. Con Silvana Grassosi impone finalmente il punto di vi-sta femminile, assume potere nar-rativo ciò che in quella tradizioneletteraria è stato oggetto di sguar-do, di desiderio, di fascinosa e in-quietante alterità.

La scrittrice viene proprio daquella Sicilia sud-occidentale (ènata a Macchia di Giarre, sotto l’Et-na) dove Brancati ha coltivatol’inerte e avvolgente aggirarsi deimaschi intorno al richiamo delladonna, il tortuoso e ombroso par-lare degli «ingravidabalconi», nellabarocca implosione di una sensua-lità accartocciata su se stessa. Oraquell’infinito parlare della donnaviene depistato in un’esaltante edesaltata scrittura; trova diretta vo-ce quella vitalità segreta da tantiscrittori spiata con turbata inquie-tudine. E questa assunzione su disé non può essere che eccessiva:deve sprigionare colori accecanti,confrontandosi magari anche conuna sicilianità di maniera, attin-gendo a dati mitici e magici, gio-

cando con la favola e con la mistifi-cazione, mischiando materiali po-polari e materiali letterari, risalen-do indietro fino all’origine greca eproiettandosi verso la disgregazio-ne della vita contemporanea. Cor-poreità e cerebralità, passione emenzogna, dolcezza e tradimento,aggressività e fragilità: tutto si ad-densa entro il turgore di una lin-gua che combina la più elegante efluente sintassi, la misurata periziadi un periodare «classico» (espertadi greco e di latino, professoressadi liceo l’autrice), gli scatti espressi-vi di un dialetto che si raccoglie esi addensa in scelte lessicali che ac-quistano il rilievo di scaglie anti-che, di persistenze nel presente diuna classicità ancora incondita,primigenia, non impreziosita.

Ora Marsilio si appresta a ri-stampare tutti i testi, ormai intro-vabili, di Silvana Grasso: e insiemealla ristampa de L’albero di Giuda,apparso già da Einaudi nel 1997,pubblica il nuovo romanzo L’in-cantesimo della buffa (pp. 206, €18,00), in cui si muove una serie dipersonaggi nel sud della Sicilia, ne-gli anni della seconda guerra mon-diale. Ci troviamo a Roccazzelle,nome in cui si riconosce Gela, do-ve l’autrice vive (in effetti Roccaz-zelle non è che un quartiere di Ge-la): e nella parte finale assistiamoproprio alla battaglia di Gela, conlo sbarco degli angloamericani, 9 e10 luglio 1943. Siamo in un mon-do in disfacimento, in una Siciliache, tra la sorda acquiescenza diun popolo abituato a subire, è in

mano a piccoli, voraci e incapacigerarchi (al limite del grottesco lafigura del podestà Agnello). Qual-cosa che ricorda certi racconti diBrancati nell’inquieto fatalismo incui qui si attende la sconfitta mili-tare, l’arrivo degli alleati, la cadutadel fascismo, mentre c’è chi si pre-para ad adattarsi alla nuova situa-zione. Gli eventi che coinvolgonoquesta porzione di mondo sono se-guiti nel loro aspetto fantasmagori-co, nella loro azione deformantesul paesaggio, nei loro minacciosieffetti visivi e sonori (molto vivatra l’altro l’immagine dell’esplosio-ne di una nave americana colpitada bombardieri tedeschi). L’incon-tro della guerra con questi luoghisembra peraltro aprire uno squar-cio apocalittico, annuncia una di-struzione definitiva, con la spari-zione di quel mare che pure vi ètanto incombente (una premessadello scempio ambientale che Ge-la avrebbe subito nel dopoguer-ra?): «non ci sarebbe stato più ilmare a Roccazzelle, scomparso inuna notte senza lasciare traccia,scomparsa la spiaggia in un minac-cioso deserto di sabbia». Di gran-de effetto sono i vari squarci suglieventi collettivi, sulle lacerazionidei bombardamenti, sul vario e tre-mendo agitarsi della popolazioneabbandonata a se stessa (così nel-la scena del rifugio dai bombarda-menti in una galleria ferroviaria).

Ma questi eventi fanno soprat-tutto da sfondo alle mosse di per-sonaggi che vivono ai margini delmondo, immagini di una umanità

dispersa e segnata dal dolore. Le vi-cende e i diversi legami tra questipersonaggi vengono presentati co-me attraverso una serie di sceneche si succedono come lampi, chenon si svolgono in un flusso narra-tivo lineare, ma bloccano volta pervolta l’attenzione, sembrano co-me pretendere ogni volta la con-centrazione sul loro rilievo (brevilampi sono anche quelli dell’incan-tesimo che dà titolo al libro). For-midabile davvero è la scena inizia-le: il lettore crede inizialmente sitratti della vestizione di una sposa,Marianunzia, ma poi scopre esse-re la vestizione di una morta, chela madre ha voluto fosse fotografa-ta così, con l’abito sontuoso chenon aveva avuto e che era invecestato di una ricca vicina di casa, dacui ora è stato prestato, ma soloper la foto. Questa scena assume ilcarattere di una nascita nella mor-te: è un inizio «finale» in cui si di-spiega una familiarità tutta femmi-nile con la morte, tra antiche tradi-zioni e scarti paesani della vita mo-derna: vi campeggiano la figura diMarena, la madre della defunta, equella di Amatina, la ricca sposache presta il vestito e che ora è an-gustiata dall’ingrassamento dovu-to alla prima gravidanza in atto.Ma poi Amatina sparisce del tuttodal quadro e Marena la ritroviamosolo come assidua al cimitero incui sosta a lungo curando la tom-ba della figlia. E vengono in primopiano due guardiani del cimitero,Toni e soprattutto Agostino, trenta-cinquenne senza famiglia, angu-

stiato dal ricordo del suicidio di unbambino che era stato suo compa-gno di seminario; e poi il tredicen-ne orfano di Marianunzia, che sichiama Gesù e che scorazzandoper la costa aspra e rocciosa incon-tra Tea, una ragazzina bionda diorigine austriaca, figlia di un gerar-ca fascista che l’ha condotta là pertenerla lontana dalla guerra. Teanon vede: e la sua cecità sembracome un rovescio simbolico del-l’acceso paesaggio che Agostinocon l’amata bicicletta e Gesù con isuoi piedi nudi percorrono comecercandovi un senso dell’essere,un’affermazione di vita, in opposi-zione a quel mondo doloroso, lace-rato, fatiscente. Dalla distanza so-ciale che li separa Gesù e Tea in-trecciano una tenero e castissimoidillio, che, anche nel furore diquei mesi e di quei luoghi, sembraevocare l’impossibile felicità delvert paradis des amours enfanti-nes: Gesù fa conoscere a Tea i con-torni di tutta la realtà che ella nonvede, giunge fino a volerle descri-vere il Sole.

Una strana ansia d’assoluto se-gna questo evanescente amore:un’ansia data del resto dai lorostessi nomi (se lui è Gesù, Tea equi-vale a dea). Ma l’ansia d’assolutopercorre in fondo tutta la scritturadel romanzo, che proprio per que-sto aspira a uscire da un puro nar-rare, mira piuttosto a concentrarsisull’evidenza corporea, sul rilievodelle cose, affidandosi a una paro-la che sembra volersi bruciare nel-l’atto stesso in cui si proferisce.

Renato Guttuso, «Il merlo», 1947, Roma,Galleria Nazionale d’Arte Moderna

BERSAGLII N L I B R E R I A

GIACOPINI,PROLIFERAZIONEDI B. TRAVENdi Carlo Mazza Galanti

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