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www.confronti.info FRATTURE NELL’ESISTENZA 1'000'000 > 1'000? Quanto possiamo crescere? E siamo sicuri che crescere sia sempre e comunque un bene per noi e per tutti? I bilanci di un ventennio Se si prendono i «cavalli di battaglia leghisti» e si confrontano con i risultati ottenuti davvero, il consuntivo è ben magro Mensile progressista della Svizzera italiana 10 aprile 2013 - numero 50

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www.confronti.info

FRATTURE

NELL’ESISTENZA

1'000'000 > 1'000?

Quanto possiamocrescere? E siamo sicuriche crescere sia sempree comunque un beneper noi e per tutti?

I bilanci di un ventennio

Se si prendono i «cavallidi battaglia leghisti» e siconfrontano con i risultatiottenuti davvero,il consuntivo è ben magro

M e n s i l e p r o g r e s s i s t a d e l l a S v i z z e r a i t a l i a n a 10 aprile 2013 - numero 50

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Atomi e bit

Inutile nasconderselo: la carta èmoribonda. È solo questione ditempo prima che defunga. Natu-ralmente non morirà mai deltutto: avrà sempre un pubblico dinicchia. Così come c’è ancora unpubblico di nicchia per i libriscritti a mano e gli LP in vinile.Ma la grande distribuzione del-l’informazione si emanciperàsempre di più dalla carta fino aspostarsi totalmente nel digitale,ormai fruibile in mobilità grazieai tablet e agli smartphone. Per-ciò anche noi cominciamo a pre-pararci.Diciamo che fra 30 anni le rivistecartacee saranno scomparse.Come dici? «30 anni sono troppopochi. Fra 30 anni leggeremo an-cora sulla carta». Sicuro? Os-serva l’immagine. A sinistra c’èil telefono di Gordon Gekko, ilpersonaggio di «Wall Street». Ilsuo telefono portatile era il con-fine estremo della tecnologia diconsumo, a disposizione solo deiricchi straricchi.Lo vedevamoal cinema esbavavamo ep e n s a v amoquanto ci sa-rebbe piaciutopoter telefo-nare in ognimomento e da qualsiasi luogo.Anche se quel telefono eragrosso e pesante come un mat-tone. A destra c’è uno smar-tphone di ultima generazione,alla portata delle finanze dichiunque, leggero e sottile, con ilquale si può telefonare ma anchefare videoconferenze, scriverearticoli, leggere libri e riviste,

ascoltare musica, vedere film. Inmezzo ci sono 26 anni. Ecco,adesso prova a dire di nuovo(convinto, eh!) che «fra 30 annileggeremo ancora sulla carta».Insomma bisogna prepararsi,

nell’ipotesi (e nellasperanza) che fra30 anni «Con-fronti» sia ancoraqui. Sicché daoggi mettiamo adisposizione dichi ci legge unaversione com-

pleta in formato PDF. All’uscitadi un nuovo numero, ogni abbo-nato riceverà un email con unlink dal quale, inserendo la pro-pria password (modificabile apiacimento nella gestione delproprio account), potrà scaricarela versione digitale della rivista.Fra l’altro con qualche giorno dianticipo rispetto alla distribu-zione di quella cartacea.

I vecchi abbonati, che già rice-vono «Confronti» su carta, tro-vano compresa nell’abbona-mento anche la versione in PDF.Di molti abbiamo l’email e diconseguenza per loro abbiamogià attivato l’abbonamento digi-tale. Tutti gli altri possono sem-plicemente richiedere l’esten-sione gratuita dell’abbonamentoscrivendo all’indirizzo di postaelettronica [email protected]. Infine, per chi vuoleemanciparsi dalla carta fin daora, esiste anche la possibilità disottoscrivere un abbonamentosolo digitale, pagando con cartadi credito o PayPal nell’appositapagina predisposta sul sito di«Confronti» (http://www.con-fronti.info): il costo è di soli 40franchi all’anno. Perché (altrovantaggio!) i bit costano menodegli atomi.

Marco Cagnotti

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di Marco Cagnotti

Hanno collaborato a questo numero

Manuele Bertoli, Werner Carobbio, Riccardo Corio, Edmondo Danti, Vittorio Ghinelli, Caterina Ghirlanda, Marlis Gianferrari, Teo Lorini, Corrado Mordasini, Enrico Morresi, Roberto Rippa, Cristina Valsecchi, Libano Zanolari

Sommario

SPAZI PER IL

Questo biglietto (con le parole sot-tolineate come nell’originale) è ar-rivato in redazione dopo lapubblicazione dell’editoriale dal ti-tolo «Zero Comuni bastano». La di-sapprovazione è legittima. Cosìcome è lecito l’uso del turpiloquio,ci mancherebbe. Accade talvoltache qualche lettore irritato esprima(anche energicamente) il propriodissenso. E va benissimo. Non pernulla «Confronti» porta questonome: è uno spazio di dialogo fra lemolteplici anime progressiste dellaSinistra. E nel dialogo il dissenso cista tutto. Anzi, proprio dalla diver-genza di opinioni nasce la conver-genza verso una verità comune,peraltro sempre rivedibile (siamo onon siamo figli dell’Illuminismo?).Quello che invece non va bene perniente è il rifiuto di metterci la fac-cia in pubblico.Fin da quando ho assunto la dire-zione di «Confronti» ho preso moltosul serio la vocazione della rivista aessere uno spazio di dibattito. Pub-blicando articoli strani, discutibili,controversi, critici verso i valoriprogressisti (diamine, ho pubblicatoperfino una critica al suffragio uni-versale!) ho voluto sollecitare nonsolo le reazioni dei lettori, ma so-prattutto le loro pubbliche prese diposizione, proprio per arricchire ilconfronto. Per esempio, alcuni li-beri pensatori non approvano lapresenza della rubrica dedicata allareligione: qualcuno l’ha definita «legeremiadi di Morresi». Questo nonmodifica di un epsilon la mia sceltadi ospitare quella rubrica. E, se cisono contestazioni alle idee es-

Crediti: copertina, A. Klementiev; 4, G.Crawford; 5, D. Shironosov; 6, P. Pustina;7, Locospotter; 8, S. Nikolaeva; 9, G.Crawford; 10, A. De Raadt; 11, C. Yeulet;12-13, S. Kaulitzki; 16, C. Mordasini; 18,J. Reyes ; 19, Gina Sanders - Fotolia.com;22, Casa Rosada

presse da Morresi, basta mettere lemani sulla tastiera e scrivere un ar-ticolo di risposta. Lo pubblicheròsenza indugio.Tuttavia ben poche contestazioniespresse in privato si concretizzanopoi in articoli, purtroppo. Di frontea ogni critica, pacata o aggressiva,civile o volgare, io replico semprenello stesso modo: «Grazie perl’opinione. Per cortesia, adessoscrivi un articolo per “Confronti” espiega agli altri lettori perché di-sapprovi quanto abbiamo pubbli-cato». Ahimè, quasi sempre invano:«Non è il caso», «Non ho tempo»,«Non penso che interessi a qual-cuno». Nel caso citato in apertura,la giustificazione è stata ancora piùbizzarra: «È però evidente chel’editoriale del direttore ha un pesoche non può essere uguagliato dauna qualunque “lettera dei lettori”.Il confronto non sarebbe quindi suun piede di parità. Rinuncio perciòalla possibilità offertami». Beh, sequesto fosse vero, nessun editorialepotrebbe mai essere criticato.Questa piccola vicenda sarebbe ri-masta nel backstage della reda-zione e non sarebbe giunta all’at-tenzione dei lettori se non fosse em-blematica. E, soprattutto, se di re-cente non avessi sentito ancora eancora e ancora una critica: «NelPartito Socialista mancano gli spaziper il dibattito». Ora, il PS avrà tantidifetti, ma ‘sta cosa davvero non lasi può più sentire. Ma stiamo scher-zando?Esiste la possibilità di convocare uncomitato cantonale straordinario.Esiste la possibilità di essere ascol-tati dalla direzione del Partito. Esi-ste un social network creatoapposta per favorire il dibattito.Esiste questa rivista che ha il con-fronto nel proprio patrimonio gene-tico: in quasi due anni di direzionenon ho mai rifiutato o censurato unsolo articolo che mi è stato sottopo-sto, quale che fosse la sua tesi. E mivenite a dire che «mancano glispazi per il dibattito»?

DIBATTITO1.2.13

Giornale respinto per l’oscenoarticolo a pag. 3.Per un errore ho già pagato l’ab-bonamento per il 2014.I soldi teneteveli, ma tenetevianche le stronzate come quellescritte dal Vs. redattore.Con la stima che vi meritate,

(Lettera firmata)

2 Atomi e bit3 Spazi per il dibattito4 Fratture nell’esistenza7 Dalla guerra civile spagnola fino a oggi8 Continua scoperta9 Asilo: tradizione millenaria10 Ri-Partire11 Disoccupazione: un problema antico12 Lo scenario peggiore14 1'000'000>1'000?15 Siamo tutti pronipoti di qualcuno16 I bilanci di un ventennio17 Cani da guardia o da riporto?18 Un soffitto da infrangere19 Un solo passo ma insufficiente20 5 videocamere rotte21 Cuochi e crisi22 Francesco, Benedetto e i media23 Il prezzo dei sogni

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NELL’ESISTENZAFRATTURE

COV: L’incontro vero è coinciso conl’avvio della mia attività qui, nel lu-glio 2010, prima come condirettrice,poi come direttrice. Conclusa la miaformazione accademica, ho lavoratomolti anni in ambito storico, se-guendo la destinazione naturaledettata dai miei studi. È statoquando ho sentito per diverse ra-gioni l’esigenza di un cambiamentoche mi si è presentata l’opportunitàdi lavorare per SOS Ticino: una re-altà della quale all’epoca non cono-scevo molto e nella quale sonoentrata con impegno e qualche fa-tica. È stata un’avventura che ho af-frontato e affronto con entusiasmo ela voglia di scoprire ambiti impor-tanti e avvincenti della nostra so-cietà. Ne sono ripagata: decisa-

Anzitutto una domanda personale:come è avvenuto il vostro incontrocon SOS Ticino?

PKB: Ho cominciato a lavorare perSoccorso Operaio da giovanissima.Mi sono sentita accolta come in unafamiglia, ed è stato importante – vi-vendo io stessa la condizione di im-migrata – poter aiutare persone chesperimentavano l’arrivo in un Paese

nuovo e per loro completamenteignoto. Al momento di assumere lafunzione di presidente è stato bellopensare che – dopo essere cresciuta,come persona e come professionista– fosse giunto il momento di ritor-nare al punto di partenza, diversa earricchita, per restituire a SOS Ti-cino un po’ di quello che avevo rice-vuto.

Una mano tesa verso chiunque sia confrontato con una condizione di fragilità, figlia diuna frattura nella propria storia personale: è questa, in estrema sintesi, la missione diSOS Ticino, organizzazione non profit che nel 2014 celebrerà 30 anni di attività sul ter-ritorio cantonale. Una realtà complessa e ricca di sfaccettature – basti pensare che oggiconta un centinaio di collaboratori fra personale fisso, mediatori interculturali e altre fi-gure con incarichi speciali – che merita un approfondimento per il ruolo fondamentaleche svolge nella nostra società. Ne parliamo con la presidente Pelin Kandemir Bordoli(PKB) e la direttrice Chiara Orelli Vassere (COV).

di Edmondo Danti

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mente, SOS Ticino lavora su un ter-reno tutt’altro che sterile.

Quale posto ha Soccorso Operaionel Ticino di oggi?

COV: Per riassumere in una formulasintetica la nostra missione, potreidire che ci occupiamo di personeche vivono una frattura nel conti-nuum della loro esistenza, e che noici poniamo al fianco di chi ha subitoquesta frattura, cerchiamo di aiu-tarlo a ricostruire un percorso esi-stenziale che abbia un senso, ariattivare un movimento. I temi por-tanti della nostra attività sono il la-voro e l’integrazione: due ambitisensibili nei quali offriamo stru-menti di sostegno a persone – mi-granti, disoccupati – confrontate conuna momentanea, ma spesso pro-

lungata, condizione di fragilità. Adifferenza di quanto avviene nelleconsorelle SOS del resto della Sviz-zera, la nostra realtà ticinese vedeun impegno quantitativamente piùsignificativo nel settore della migra-zione. Noi ci occupiamo in partico-lare delle persone che variamentesono legate alla politica d’asilo delnostro Paese: richiedenti in proce-dura, rifugiati riconosciuti, ammessiprovvisori, persone a statuto preca-rio. Una realtà multiforme e com-plessa, molto lontana da quellostereotipo ormai cristallizzato evo-cato dal termine «asilante», sperso-nalizzante e negatore dell’identitàdel singolo come tutti i determinativiassoluti. Per rispondere ai bisogni diqueste persone, abbiamo sviluppatoun’offerta di servizi ampia e diver-sificata. Ad esempio l’assistenza

giuridica per i richiedenti o una con-sulenza socio-sanitaria per le per-sone particolarmente vulnerabili. IlSOS si è configurato negli anni,anche nel suo altro ambito di atti-vità, cioè la disoccupazione, comeuna sorta di piccolo centro di com-petenza, con una buona penetra-zione territoriale e una presenza diprossimità grazie a servizi collocatilà dove esiste il bisogno.

Dal vostro osservatorio, sicura-mente privilegiato, quale prospet-tiva avete maturato sul mon-do-nella-crisi che costituisce oggiil nostro ambiente di vita?

COV: Se penso ai migranti, è evi-dente che si tratta di persone che sitrovavano già in partenza in condi-zioni di fragilità e debolezza e checertamente conoscevano già, e inversione macroscopica, i disastricausati dagli squilibri economicimondiali. La crisi che trovano anchequi non favorisce certo il loro inse-rimento nel nostro contesto, e veri-fichiamo quotidianamente le loronotevoli difficoltà nell’integrarsinella realtà economica locale, neiconfronti della quale hanno peraltroscarsi strumenti di contatto.

E sul fronte della disoccupazione?

COV: Noi lavoriamo da anni con unbacino di utenti che non subiscegrandi variazioni numeriche, quindinon sperimentiamo direttamenteimportanti mutamenti quantitativi.Registriamo invece, con crescentepreoccupazione, un ampliamentodirei qualitativo dei nostri utenti:sempre più fasce di popolazionevengono improvvisamente espulsedal tessuto lavorativo e sociale, ed èsempre più difficile rientrare nelgioco del mercato, anche per i piùgiovani. Il disagio si allarga, in-somma, ed è una realtà che nontrova risposte adeguate. Sul pianopolitico non sembra ci siano ade-guate consapevolezza e volontà di

CHI ÈPelin Kandemir Bordoli è nata nel 1976 ad Ankara, in Turchia,ed è arrivata in Svizzera all’età di 11 anni.È operatrice sociale e lavora per l’associa-zione Radix Svizzera Italiana, che si occupadi prevenzione delle dipendenze e promo-zione della salute. Dal 2007 è deputata inGran Consiglio e dal 2011 è capogruppodella deputazione socialista.

CHI ÈChiara Orelli Vassere è nata nel 1965 e ha studiato storia del cri-stianesimo a Roma, dove si è laureata. Permolti anni è stata responsabile dell’edi-zione italiana del Dizionario storico dellaSvizzera. È direttrice di SOS Ticino qualeresponsabile del suo settore migrazione.Per 12 anni è stata deputata in Gran Con-siglio. È stata presidente della commis-sione cantonale per la formazioneprofessionale.

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agire, malgrado si sia di fronte al-l’evidenza di un Ticino ormai sal-damente a due velocità. La forbicenei rapporti fra classi sociali – cosìcome fra le diverse regioni, tra l’al-tro – è sempre più divaricata, e nonvedo grandi idee per porre rimedioa questa pericolosa tendenza.

Oltre a questo squilibrio econo-mico, ci sono altre tendenze chevi preoccupano?

COV:Mi sembra che il Ticino abbiaimboccato la strada di un autarchi-smo culturalmente mediocre, chesi traduce in un impoverimento ge-nerale. Siamo chiusi verso gli in-terlocutori che stanno a sud, inItalia, ma ignoriamo anche quasitutto di quanto accade nel restodella Svizzera. Si tratta di un isola-zionismo che produce risultati ne-fasti a livello politico, oltre checulturale, alimentando l’illusioneche potremo tenere il mondo e ciòche vi accade chiusi fuori dai con-fini di casa nostra. Le opinioni do-

minanti sul tema dell’asilo, delresto, sono da questo punto di vistaeloquenti: il rimpallo fra i vari Co-muni riguardo alla possibile colloca-zione dei centri di accoglienza, chenessuno vuole, è un perfetto esem-pio della mentalità per cui l’unicacosa che conta è che quanto nonpiace stia lontano da me, «non nelmio giardino». Anche da noi sono vi-sibili le tracce di una guerra socialeal ribasso, nella quale chi condividel’esperienza di fragilizzazione non èpronto ad avvicinarsi al suo pros-simo.

Dal punto di vista politico, qualisono le sfide che vi sono più care?

PKB: Siamo particolarmente attentie preoccupati per la marea mon-tante di proposte che puntano asmantellare lo Stato sociale e – incerti ambiti, come la politica d’asilo– perfino lo Stato di diritto: a livellonazionale, ma anche nel Cantone, sifa strada un pensiero che va in di-rezione opposta al nostro spirito, ov-

vero la necessità di garantire soste-gno e strumenti adeguati a tutte lepersone che vivono in situazioni difragilità, affinché possano recupe-rare la loro autonomia. L’ultima re-visione della Legge sull’assicura-zione disoccupazione, per esempio,restringe ulteriormente le presta-zioni offerte a chi è senza lavoro.Non è facile capire se si tratti disemplice disattenzione o di un pianodeliberato, ma è innegabile la vo-lontà di ridimensionare l’impegnoverso chi è in difficoltà. Anche perquanto riguarda i migranti, è sem-pre più diffusa la convinzione – deltutto illusoria – che un numero mag-giore di paletti possa fermare i flussiche raggiungono il nostro Paese. Inun simile contesto, è chiaro che lanostra è una battaglia difensiva edè difficile presentare idee nuove. Ilbuono, tuttavia, è che non mancanoi partner pronti al dialogo e che lasolidarietà – come è naturale fra es-seri umani – alla fine tende pursempre a prevalere, non appena lepersone scoprono di avere di frontealtre persone e non solamente deiproblemi.

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Proiettandovi avanti nel tempo di20 anni, come immaginate il Ticinoe il vostro lavoro?

COV: La marginalizzazione già oggicolpisce un numero sempre cre-scente di persone, che non necessa-riamente appartengono allecategorie classiche, cioè il richie-dente l’asilo, il disoccupato, il tossi-codipendente, è molto più pervasivache nel passato. SOS Ticino dovràadattare le sue risposte anche aqueste nuove realtà, mantenendosempre ferme la propria ragiond’essere e la volontà che nessuno sialasciato indietro. Penso pure che cisia spazio, per noi e per altri inter-locutori, per iniziative nuove che at-tualizzino e rilancino l’esperienza,in altri ambiti molto positiva, delleimprese sociali: credo sia oggi piùche mai importante dare vita a unarealtà produttiva che si sottragga airitmi e alle regole del modello eco-nomico dominante, per offrireun’alternativa a chi ne ha bisogno.

Un’ultima domanda, ancora perso-nale: c’è un momento o un ricordoparticolare, nella vostra espe-rienza con SOS Ticino, che voletecondividere?

PKB: Forse non un momento in par-ticolare, ma la sensazione che vivoa ogni incontro con un vecchioutente: è sempre emozionante rico-noscere l’affetto che le persone con-servano per gli operatori di SOSTicino, spesso le prime persone in-contrate dopo il passaggio della

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frontiera svizzera, all’ingresso diquello che è un mondo sconosciuto.Senza riferimenti, con storie dolo-rose alle spalle e confrontati con uncontesto ostile, questi individui so-migliano a dei «meteoriti umani»,proiettati verso di noi nella loroestrema fragilità. Incontrarli è comeaffrontare una brusca immersionedi realtà che, se da un lato ci vededel tutto disarmati, dall’altro aiutaa riscoprire l’empatia che troppospesso soffochiamo nella vita quoti-diana.

COV: Dal confronto personale conalcuni dei casi che ci occupano, hoavuto più di un’occasione per riflet-tere su quanta casualità – e ingiusti-zia – ci sia nelle vicende umane.Potrei citare molte storie, ne evocouna. Di recente ho incontrato in unalbergo, dove alloggia da mesi con ilpadre, una ragazza eritrea di 13anni. Grazie alla scuola italiana fre-quentata in patria, parlava perfetta-mente la nostra lingua, e mi hacolpito per quanto fosse sveglia, in-telligente e desiderosa di vivere conpienezza i suoi anni, di scoperta e dimaturazione. Eppure proprio questisuoi anni si stanno consumando inun tempo sospeso, bloccato, fatto dinulla, o tutt’al più di attesa e di ti-more, e le sue potenzialità corronoil rischio di spegnersi, di finire spre-cate. È da questo genere di incontriche traggo il senso del lavoro di SOSTicino: se riusciremo almeno inparte a correggere ingiustizie delgenere, se riusciremo a salvare perquesta ragazza almeno un poco di

speranza, di prospettiva di futuro,allora avremo fatto una buonacosa. Come diceva don Milani, ma-gari non salveremo il mondo, maforse riusciremo almeno a salvarel’anima, a noi e alla nostra comu-nità.

Dalla guerra civile spagnola fino a oggiLa storia del Soccorso operaio nel nostro Paese co-mincia a più di 1’000 chilometri a occidente dei no-stri confini, nel 1936. Fu infatti lo scoppio dellaguerra civile spagnola aspingere le donne socia-liste svizzere a creareuna nuova organizza-zione umanitaria, che sioccupasse di portareconforto e sostegno allevittime del conflitto. Neisuoi primi anni di vital’organizzazione fu poiconfrontata con l’emer-genza bellica provocatadal secondo conflittomondiale, fornendoaiuto alle famiglie ope-raie bisognose e ai pro-fughi. Una tradizioneche proseguì poi anchenei decenni successivi,

ad esempio di fronte alle crisi in Ungheria (1956) eCecoslovacchia (1968).Negli ultimi 30 anni, gli assi principali dell’attività

sono quindi diventatil’assistenza ai disoccu-pati e ai richiedentil’asilo. La rete del Soc-corso Operaio Svizzerocomprende oggi dieciassociazioni regionaliindipendenti, con un to-tale di 550 collabora-tori impiegati in 13Cantoni e 29 città ditutte e quattro le re-gioni linguistiche delPaese. Ogni anno un to-tale di oltre 8’000 per-sone è coinvolto nellecirca 130 offerte, pro-getti e programmidell’organizzazione.

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CONTINUA

di Riccardo Corio

SCOPERTA

L’ufficio della città sul Ceresio – unodei quattro attivi sul territorio can-tonale – è il punto di riferimento sulterritorio per le persone in possessodi permessi di soggiorno delle cate-

«È un microcosmo estremamente vario, conpersone differenti per provenienza, cultura,percorso personale, tanto che non è facileproporre ragionamenti e ricette generali»: èun’esperienza di continua scoperta, mossaanche da una spiccata curiosità, quella cheracconta Valeria Canova, uno dei tre opera-tori sociali che gestiscono il Servizio richie-denti l’asilo di SOS Ticino a Lugano,frequentato lo scorso anno da quasi 500utenti.

gorie N e F. «Gli incontri con ogniutente si svolgono di norma a ca-denza settimanale», ci spiega la no-stra interlocutrice: oltre allospillatico per le spese personali, i ri-chiedenti alloggiati in pensioni o al-berghi ricevono consulenza per lenecessità sanitarie, informazioni diprima accoglienza sul contesto lo-cale e aiuto per il disbrigo di que-stioni amministrative. Un altrogenere di sostegno è poi offerto allepersone che, dopo un periodo dipermanenza transitoria nel Centrodi accoglienza della Croce Rossa aParadiso, possono trasferirsi in unappartamento. «In questo caso ci

occupiamo della ricerca di un allog-gio e di tutte le questioni pratiche le-gate al trasloco, così come dell’in-termediazione con servizi e istitu-zioni», precisa Valeria Canova, «finoal coinvolgimento degli utenti neiprogrammi occupazionali organiz-zati da numerosi Comuni e all’inse-rimento dei bambini nelle scuole delsettore obbligatorio».Proprio alle famiglie con figli sonolegati i ricordi più intensi dei primi18 mesi vissuti «al fronte» dalla no-stra interlocutrice: «Mantenere uncerto distacco emotivo è facilequando di fronte c’è un uomo gio-vane e sano, che possiede gli stru-

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Asilo: tradizione millenariaAnche se il tema sembra indissolubilmente associatoalle dinamiche dell’epoca globalizzata, la politica diasilo in Svizzera ha alle spalle una storia quasi mil-lenaria. Il significato del termine, per cominciare, èlegato alla consuetudine di offrire riparo in un luogopreciso – l’asilo, appunto – a persone perseguitate,con l’obiettivo di sottrarle a faide o vendette. Pertutto il Medioevo, a essere interessati da questa pro-cedura di protezione potevano essere luoghi sacri,come chiese e conventi, ma anche locande, municipio perfino la piazza del mercato.Nei secoli successivi alla Riforma protestante, moltiCantoni accolsero rifugiati per fede in fuga da Staticonfinanti: nel solo 1685 – in seguito alla revocadell’editto di Nantes e alla decisione della Dieta fede-rale di non rimpatriare verso la Francia i rifugiati re-ligiosi – gli storici stimano che fra 60 e 100 milapersone furono accolte in Svizzera, riuscendo così asfuggire alle persecuzioni. Nel XIX secolo, poi, il no-stro Paese si guadagnò una solida reputazione qualeterra di asilo, accogliendo profughi politici, in fugadai movimenti di Restaurazione, e numerosi intellet-tuali che arricchirono la vita politica e culturale dellaConfederazione. L’attitudine di apertura del Paese siprotrasse almeno fino alla Prima guerra mondiale,con alcuni casi storici di accoglienza, come quelli cheriguardano i rivoluzionari russi Lenin e Trotsky.A partire dal 1925, dopo 110 anni di competenzacantonale, la politica di asilo fu di nuovo affidata allaConfederazione. Il periodo fra le due guerre vide af-fermarsi crescenti timori verso l’«inforestierimento»della Svizzera, con un parallelo irrigidimento dellapolitica di accoglienza. Una tendenza culminata neirespingimenti e nelle espulsioni alla frontiera che intempo di guerra, tra il 1940 e il 1945, portò alla nonaccoglienza di almeno 24 mila persone, spesso in pe-ricolo di morte.

Già prima della fine delle ostilità sul continente, tut-tavia, giunse una nuova apertura verso i rifugiati,anche in seguito ai grandi esodi dai Paesi confinanti.Inoltre nel 1955 la Svizzera rinunciò al principio, invigore da secoli, di concedere l’asilo solo in formaprovvisoria. Gli anni del Dopoguerra furono così se-gnati da azioni mirate in risposta a crisi politiche ebelliche, con una media di circa 1’000 persone l’annoche, negli Anni Sessanta e Settanta, ottennero asiloindividuale nel Paese. A livello politico, il tema ot-tenne il suo inquadramento nel 1979, con una nuovalegge che sostituì le precedenti normative rudimen-tali.Venendo infine all’attualità, alla fine del 2011 il nu-mero totale di persone interessate da una proceduradi asilo ammontava a 40’677 in tutto il Paese. Nellostesso anno le nuove domande depositate si sono at-testate a quota 22’551, delle quali circa un quinto èstato accolto. Per quanto riguarda il nostro Cantone,il Servizio richiedenti l’asilo di SOS Ticino ha seguitoun totale di 1’863 utenti, 733 dei quali collocati in al-berghi. Il Servizio rifugiati è stato invece sollecitatoda 266 persone.A livello pratico, dal 2007 il Cantone ha regolato leproprie prestazioni assistenziali verso i richie- dentil’asilo attraverso un Regolamento. A partire dal 1.gennaio del 2012, la somma versata per il sostenta-mento – oltre all’alloggio – è stabilita in 500 franchimensili per persone singole e 750 per coppie: importiche corrispondono alla metà circa di quanto erogatoalle persone svizzere e straniere che sottostanno allaLegge sull’assistenza sociale. Le persone alloggiatein albergo, infine, hanno diritto a uno spillatico gior-naliero pari a 3 franchi.

menti per reagire alla difficile situa-zione nella quale si trova. I nucleifamiliari, invece, sono spesso porta-tori di un’ulteriore fragilità». Uncaso emblematico riguarda propriouna famiglia di origine curda, allaquale nelle scorse settimane è statanotificata la decisione negativa delleautorità federali e che quindi dovràlasciare il nostro Paese. «Dopo averseguito l’inserimento dei tre figlinelle classi scolastiche di un piccoloComune e aver assistito anche allanascita di una bambina, la notiziadell’espulsione ci ha molto colpiti, eha generato un’inattesa dimostra-zione di solidarietà», ricorda ValeriaCanova. «Infatti il paese si è mobili-tato per i nuovi arrivati, cercando indiversi modi di offrire sostegno con-creto e di ritardare la loro partenza,almeno fino alla fine dell’anno sco-lastico. Mi sembra una dimostra-zione del fatto che, aprendosiall’incontro, è possibile superare iluoghi comuni e vincere la pauradella diversità».

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formatori per adulti oppure personeche portano in dote studi di altro ge-nere, ad esempio in psicologia o nelcampo dell’insegnamento per bam-bini». Una volta accertate la dispo-nibilità e l’idoneità dei candidati, laloro entrata in servizio è rapidis-sima: «Li coinvolgiamo subito in unadelle nostre riunioni settimanali dipianificazione, per introdurli alclima di lavoro, e successivamentevengono formati all’utilizzo dellaTool-Box, la “cassetta degli attrezziinformatici” elaborata durante unprogramma occupazionale nellafase embrionale del progetto, cherappresenta lo strumento di baseper orientare gli utenti». Il numeromassimo di consulenti attivi contem-poraneamente sul territorio am-monta a otto. In totale, nei quasi dueanni trascorsi dal lancio di Ri-Par-tire, se ne è già avvicendata una cin-quantina.

Per quanto riguarda invece l’altrolato dello sportello, quello occupatodagli utenti, troviamo in particolarei disoccupati di lunga durata a finediritto, chi è ancora in attesa delleindennità, così come altre persone indifficoltà a orientarsi nella rete deiservizi sociali. Pur nella diversitàdelle storie individuali, una caratte-ristica che spesso li accomuna è il di-sorientamento. «Essere confrontaticon un periodo di disoccupazione ocon una condizione di precarietà la-vorativa genera una serie di bisognisociali che vanno al di là della ri-cerca di un nuovo impiego», osservaElena Mora. «Il nostro compito con-siste quindi anzitutto nel capirequali siano le esigenze dell’interlo-cutore, indirizzandolo poi verso iservizi di supporto che le istituzionimettono a disposizione». Anche se ilprogetto Ri-Partire non è un’agenzia

La co-responsabile Elena Mora –l’operatrice sociale che, insieme allacollega Eleonora Gambardella, neassicura il funzionamento – ci ha il-lustrato i principi alla base dell’ini-ziativa, che si propone di fornire aidisoccupati una consulenza a tuttocampo. Gli sforzi si concentrano sulsostegno alle persone nelle varie fasidella loro ricerca di un nuovo im-piego, ma anche, più in generale,nella risposta alle richieste concretedi chi è confrontato con un momentodi disagio.Un primo aspetto riguarda la sele-zione dei potenziali consulenti, la cuicollaborazione con il progetto Ri-Partire avviene nell’ambito di unprogramma occupazionale della du-rata massima di quattro mesi. «Iloro profili appartengono all’areadella formazione in ambito sociale»,ci spiega la nostra interlocutrice.«Sono sovente operatori sociali e

Persone senza lavoro, opportunamenteistruite, che aiutano altre persone senza la-voro e chiunque abbia difficoltà a orientarsinella rete di servizi e aiuti offerti dal ter-ritorio: è questo il principio, elementareeppure molto originale, che anima il pro-getto Ri-Partire, avviato nella primaveradel 2011 da SOS Ticino e oggi presente,con cinque sportelli, su tutto il territoriocantonale.

PARTIRERI-di Riccardo Corio

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di collocamento, l’orientamento puòpoi comporsi anche di altre presta-zioni che esulano dagli aspetti pura-mente sociali, come l’aiuto nellastesura di curriculum vitae e di let-tere di motivazione o i consigli invista di colloqui o candidature.Il risultato finale, conclude la co-re-sponsabile, è che talvolta il rapportoprofessionale fra consulente eutente, basandosi sulla fiducia reci-proca, può evolvere in una relazionedi particolare vicinanza: «Mi viene inmente il caso di una signora che,dopo essersi rivolta qualche mese faal nostro sportello, trovandovi quasiun’ancora di salvezza in un periodomolto difficile, ancora oggi ci tieneaggiornati sui suoi progressi, perchénel progetto Ri-Partire ha trovatopersone pronte ad ascoltarla e soste-nerla».

Disoccupazione: un problema anticoSebbene non sia sbagliato considerarla un’inven-zione della modernità, la realtà della disoccupa-zione non era sconosciuta alle società prein-dustriali, nelle quali le persone senza un lavoro simescolavano alla moltitudine dei poveri. Tuttavia èsolo dal XIX secolo, con l’estensione del lavoro sa-lariato e la massiccia urbanizzazione, che in Occi-dente il fenomeno ha assunto la fisionomia cheancora oggi conosciamo. Tra i fattori decisivi perquesta emersione, le crescenti difficoltà nel fare ri-corso alla solidarietà familiare e la forte crescitadel movimento operaio, che denunciò i lati oscuridel nuovo sistema produttivo. Fu così che, a partiredall’ultimo ventennio del secolo, il termine «disoc-cupazione» fece il suo debutto e prese posto stabil-mente nel dibattito politico, anche in Svizzera.Una prima misura per porre rimedio al problemavenne adottata già attorno al 1890, con la creazionedegli Uffici pubblici di collocamento, precursoridegli Uffici del lavoro. Nello stesso periodo in variecittà presero forma iniziative per la creazione dicasse pubbliche, dopo che nel 1884 la federazionedei tipografi aveva dato vita alla prima assicura-zione disoccupazione a livello nazionale. Alla vigiliadella Prima guerra mondiale, poco più di 50 milacittadini erano iscritti alle varie casse dei sindacatiliberi, delle associazioni professionali e pubbliche:una cifra che salì rapidamente fino a toccare, nel1936, la quota di 552 mila assicurati, pari al 28%della popolazione attiva. Il boom del Dopoguerra,con i numerosi anni di piena occupazione, sembròrelegare il tema della disoccupazione ai margini deldibattito politico, tanto che nel 1974 il numero diassicurati era precipitato ad appena 545 mila per-sone, cioè il 18% dei lavoratori. Proprio in queglianni, tuttavia, la crisi petrolifera mutò radical-mente i termini della questione, spingendo la popo-lazione ad accettare in votazione popolare ilprincipio di un’assicurazione obbligatoria contro ladisoccupazione per tutti i lavoratori dipendenti.

Per quanto riguarda i periodi storici più difficili perl’economia svizzera del secolo scorso, va anzituttosegnalata una crisi ormai dimenticata che, nel feb-braio del 1922, colpì l’industria di esportazionespingendo il numero di senza lavoro a quasi 100mila unità (5,3%). Il fenomeno globale della Grandedepressione – che toccò la Confederazione solo apartire dal 1930, in una forma comunque blandarispetto al resto del mondo occidentale – si pro-trasse poi fino all’inizio della Seconda guerra mon-diale, con il picco di 124 mila disoccupati (6,4%)raggiunto nell’anno 1936. Una situazione parados-sale si produsse invece fra il 1973 e il 1976, quandocirca l’11% del totale dei posti di lavoro andò perso:una crisi tra le peggiori della Svizzera moderna,che tuttavia si accoppiò a un basso tasso di disoc-cupazione, poiché a patire furono soprattutto i la-voratori stranieri, costretti a rientrare nei Paesid’origine. In anni più recenti, infine, bisogna ricor-dare come dal 1992 le statistiche sulla disoccupa-zione abbiano raggiunto la magnitudine del periododella Grande depressione: nel gennaio del 1997sono state superate le 200 mila persone iscritte,stabilendo un mese dopo il picco assoluto con 206mila unità (5,7%).Sempre a proposito del presente, non va infine di-menticato il fenomeno della sotto-occupazione en-demica, che impedisce di conseguire un redditosufficiente e genera la classe dei cosiddetti workingpoor. A essere particolarmente colpite dal feno-meno – che in Ticino riguarda circa il 10% della po-polazione, un dato vicino alla media nazionale – èla fascia demografica compresa fra 30 e 49 anni,con un’incidenza marcata (oltre il 20% del totale)fra le famiglie monoparentali e quelle con prole nu-merosa. Le persone sole e le coppie senza figli, percontro, sono toccate dal problema in maniera mar-ginale (3,4%).

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PEGGIORELO SCENARIO

Perché il Meccanismo Europeo diStabilità, il cosiddetto fondo salva-Stati, potrebbe ritorcersi control’Unione Europea?

Il MES è uno strumento ideato pertranquillizzare i mercati finanziari.È un capitale di enormi dimensioni,la cui copertura è garantita dagliStati membri dell’Unione, da cui at-tingere il denaro necessario per sal-vare uno Stato a rischio di default.Non è fatto per essere utilizzato. Lasua sola esistenza dovrebbe bastareperché gli investitori privati accor-dino fiducia agli Stati in difficoltà. Segli investitori sono convinti della vo-lontà dell’Unione di sostenere questiPaesi, i tassi di interesse sui loro ti-toli di Stato si mantengono bassi e ildebito da pagare è più contenuto. Setutto funziona come dovrebbe, nonc’è alcun bisogno di usare il MES.

E se invece si rendesse necessariousare il denaro del fondo salva-Stati per salvare l’economia di unPaese importante dell’Unione?

In questo caso si attiverebbe unareazione a catena distruttiva, unaspirale discendente, perché i Paesiche finanziano il fondo, costretti auna spesa enorme, non avrebberopiù le risorse economiche per pa-gare il proprio debito, cadendo vit-time degli speculatori. Uno dopol’altro, a partire dai più deboli, falli-rebbero a propria volta. Se sarà ne-cessario salvare la Spagna con soldiitaliani, fallirà anche l’Italia, chedovrà essere salvata con soldi fran-cesi. Quindi fallirà la Francia, chedovrà essere salvata con soldi tede-schi. Oggi la Germania ha un’econo-mia solida e non corre alcun

pericolo di default, ma, se si atti-vasse una reazione a catena di que-sta portata, alla fine anche laGermania cadrebbe. E c’è di peggio.

Come potrebbe andare peggio dicosì?

Gli Stati non potrebbero più aiutarele banche, che non avrebbero il de-naro da prestare alle aziende. Leaziende fallirebbero, licenziando inmassa. La disoccupazione di massacrea tensioni sociali e le tensioni so-ciali potrebbero favorire l’ascesa dicorrenti politiche estremiste e popu-liste, minando l’esistenza stessa del-l’Unione Europea e la pacificaconvivenza nel continente.

Una prospettiva terrificante.

Io non dico che le mie previsioni siavvereranno certamente. Anzi,spero proprio che non succeda,com’è ovvio. Dico però che esistequesta possibilità e che bisogna te-nerne conto per adottare le oppor-tune precauzioni.

Che cosa ne sarebbe della Sviz-zera?

Per il momento la Svizzera è al ri-paro dalla tempesta. È un’oasi distabilità in mezzo alla crisi. Rispar-miatori spaventati da tutta l’Europahanno portato i loro soldi qui. Ciò hagiovato all’economia elvetica, ma haspinto in alto il franco al cambio conl’euro. Un franco troppo forte pena-lizzerebbe le esportazioni verso iPaesi dell’Unione Europea e il turi-smo, così la Banca Nazionale Sviz-zera ha messo in atto una condottamolto avveduta: ha acquistato euro

Il fondo salva-Stati, creato dall’Unione Europea per aiutare gli Stati membri in difficoltàed evocato per il salvataggio di Cipro, potrebbe ritorcersi contro i suoi artefici e trascinarlinel baratro del fallimento uno dopo l’altro, fino alla Germania: questa è solo la premessadel catastrofico scenario delineato da Volker Grossmann, economista dell’Università diFriburgo che apprezza la linea d’azione della BNS per difendere il franco. Ma avverte: allalunga anche la Svizzera cadrebbe. Quella di Grossman è la più pessimista tra le voci chehanno preso parte al dibattito organizzato a Rimini nel corso della 42esima edizionedelle Giornate internazionali di studio del Centro Pio Manzù, durante le quali anche noiabbiamo chiacchierato con lui.

di Cristina Valsecchi

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e stampato valuta fresca. In questomodo è riuscita a tenere il francoforzatamente basso, bloccato allasoglia di 1,20 franchi per 1 euro.Nulla impedisce alla BNS di andareavanti in questo modo fino a quandola crisi dell’eurozona non sarà supe-rata. Se però lo scenario peggioredovesse realizzarsi, anche la Sviz-zera prima o poi cadrebbe.

Perché?

Perché la Svizzera non è isolata dalmondo. Interagisce con gli Statidell’Unione Europea. Esporta prin-cipalmente verso l’Italia, la Franciae la Germania. Se questi tre Paesidovessero andare falliti, le nostreesportazioni inevitabilmente ne ri-sentirebbero. Lo stesso accadrebbe,per esempio, alla Cina. Oggi l’econo-mia cinese è in crescita, ma già lacrisi in Europa e negli Stati Uniti hainfluito negativamente sulle espor-tazioni cinesi e ne ha rallentato lacrescita. Se la situazione si aggra-vasse, perfino l’economia cinese po-trebbe andare in recessione. NessunPaese è indipendente dalla sortedegli altri.

Che cosa andrebbe fatto per scon-giurare il rischio che lo scenariopeggiore si avveri?

Anzitutto gli Stati non dovrebbero fi-nanziare le banche per salvarle dalfallimento. Non è giusto che il salva-taggio di banche private, che si sonocomportate in modo poco avveduto,ricada sulle spalle dei contribuenti.Quest’approccio mina la fiducia delpubblico nei confronti del settorebancario e incentiva gli investitori aessere poco prudenti, sapendo che,se le cose andranno male, qualcunoli salverà. Piuttosto, le banche do-

vrebbero mettere in vendita nuoveazioni e utilizzare il denaro degliazionisti per pagare i propri debiti.Gli Stati potrebbero contribuire ac-quistando le nuove azioni, ma incambio di una partecipazione alprofitto dell’operazione. In secondoluogo, gli Stati membri dell’Unionedovrebbero adottare politiche fi-nanziarie e bancarie comuni, stu-diare soluzioni di lungo periodotese a rendere i mercati finanziaripiù stabili e governabili, esercitaregrande vigilanza. Purtroppo, però,le solu zioni a lungo termine nonpiacciono ai politici, che miranopiuttosto a dare l’illusione di averrisolto un problema in breve tempoper guadagnare il consenso deglielettori. Non c’è un modo rapidoper risolvere questa crisi. Occor-rono riforme strutturali in grado didare fiducia agli investitori.

Che cosa ha insegnato la crisi aglieconomisti?

Ha sorpreso molti, che non sel’aspettavano, e ha stimolato unagrande attività di ricerca sui mo-delli matematici che meglio rap-presentano il comportamento deimercati finanziari. L’importanzadelle banche era stata sottovalu-tata. Ora sappiamo che vanno con-trollate meglio, per evitare ilripetersi di situazioni simili.

CHI ÈDocente di macroeconomia e politiche internazionali per la crescitaall’Università di Friburgo, Volker Grossmann si occupa di politichedi crescita e creazione del capitale umano. Nel 2008, agli esordidella crisi, è stato tra i firmatari dell’appello «Open Letter to EuropeanLeaders on Europe’s Banking Crisis: a Call to Action», che sollecitavale autorità europee ad adottare subito misure adeguate per fron-teggiare il problema. Nel luglio del 2012 hasottoscritto, insieme ad altri 171 docenti dieconomia dell’area germanofona, una let-tera aperta ai concittadini d’Europa per de-nunciare il meccanismo di stabilità cheprevede il salvataggio delle banche in dif-ficoltà con i soldi dei contribuenti.

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Sono arrivati a 64, Walter: 64 tipi diversi didentifricio. […] Due anni fa, ne sono si-curo, non erano più di 40. […] I medici di-cono che devo calmarmi, non pensarci,riposare. Ma mentre mi riposo, l’industriadei dentifrici moltiplica i suoi sforzi. Non cela faccio più, Walter: vienimi a prendere,portami via. […] Gli psicofarmaci mi fannodormire, ma dicono che difficilmente gua-rirò.

(Incipit di «Walter», da «Il nuovo che avanza»,

di Michele Serra, Feltrinelli, 1997)

1’000’000>1’000?Ricordi, riflessioni, sogni e premonizionia proposito di energia, sviluppo, crescita,tecnologia di un vecchio ruminante con lapassione per la montagna e per la musica.

Luglio 1987, rifugio Gonella, 3’071m.s.m. – V.G. e suo cugino aspettanola giornata propizia per tentare la sa-lita al Monte Bianco. Il rifugio è semi-deserto (la «via francese», più spiccia,è dai più preferita). I giorni passanotra una partita a scopa, una chiac-chierata e un’occhiata al Dôme duGoûter, dove gli effimeri sbuffi candidicontro il blu scuro del cielo segnalanotroppo vento in quota. Ozio. Attesa. Fi-nalmente una sera il rifugista senten-zia: «Domani è Ok». Alle 2 di notte idue partono, risalendo il ghiacciaiodel Dôme. Il cielo è nerissimo e tra-puntato di stelle. Nella solitudine dellanotte, solo lo scricchiolio cadenzatodei ramponi che mordono la neve

ghiacciata. Poi, a poco a poco, grazieall’aurora «dalle rosee dita», dal-l’oscurità dell’orizzonte emergono pic-chi e creste remote. Alle 9, sullacalotta nevosa della cima, a 4’810m.s.m., i due si fermano per unospuntino, un’occhiata a 360 gradi allospettacoloso panorama, qualche foto,vigorose pacche sulle spalle e strettedi mano con alcuni sconosciuti in unababele di lingue. A 26 anni di di-stanza, il ricordo di quella notte e, piùancora, di quei giorni di attesa in rifu-gio, colmi di «vuoto quantistico», èuno dei più nitidi e intensi nel cuore enella testa di V.G.

di Vittorio Ghinelli

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Siamo tutti pronipoti di qualcuno

«Quanto meglio si stava ai tempidei nonni… anzi dei bisnonni…quando la vita era più semplice,e più diretto era il rapporto conla natura!»: la lamentazione per«il bel tempo andato» si inseriscenell’ampia pubblicistica del tipo«Signora mia, non ci sono più lemezze stagioni». Un genere chegode di grande fortuna e che,tutto sommato, appartiene allaancor più vasta polemica sullasuperiorità degli Antichi o deiModerni. E di solito chi propendeper gli Antichi sviluppa anche untimore per i Posteri. Ché, se i Mo-derni son cattivi, i Posteri sa-ranno senza dubbio peggiori.Davvero?In difesa dei Moderni potrei ri-spolverare il formidabile argo-mento della tecnologia comestrumento di emancipazionedalla fatica, dalla malattia, daldolore. Il bisnonno non potevagodere del potere degli antibio-tici e dei vaccini, né dei macchi-nari da lavoro efficienti e sicuri,né degli strumenti di trasporto edi comunicazione evoluti. Se su-perava i 5 anni di età (e avevasolo il 50% di probabilità di ca-varsela), lo attendeva quasi cer-tamente una vita di scarsacultura, grande fatica, poca va-rietà, quasi inesistente libertà diespressione. Non solo non posse-deva un telefono cellulare, manemmeno aveva la carta igienica(e si immagini come dev’esserescomoda la vita senza que-st’umile prodotto della tecnologiadi massa del XX secolo). Ecco,potrei metterla così, ma non vo-glio.Voglio invece prendere V.G. nelrifugio con suo cugino nel 1987e, invece di confrontarlo con ilpronipote del 2087, rinfrescarglila memoria sul bisnonno del1887. Il quale pure frequentavale vallate alpine. Ma senza un co-modo zaino. Senza scarponi tec-nici. Senza una calda giacca avento imbottita. Senza occhialida sole polarizzati per proteg-gersi dal riflesso sulla neve.Senza macchina fotografica concui immortalare i ricordi. Senzamusica, né di Bach né di Guccini,che lo aspettava a casa. Né al bi-snonno importava di arrivare incima al Bianco per godere delpanorama. Macché: doveva ac-compagnare le bestie transu-manti fino al pascolo, invece. Al

massimo canticchiando in solitu-dine, per i fatti suoi. E non dor-miva in un caldo rifugio, servitoda un custode. In capanni di for-tuna per un’intera stagione, in-vece. Sicché il bisnonno del 1887guarderebbe il discendente V.G.del 1987, con tutta la sua tecno-logia del XX secolo, con lo stessoscandalizzato stupore con cuiV.G. immagina il pronipote del2087, con tutta la sua tecnologiadel XXI secolo. E possiamo sup-porre che quest’ultimo sarà al-trettanto scandalizzato dallavuota superficialità del pro-pro-nipote del 2187. Che, con la suatecnologia del XXII secolo, sulBianco ci arriverà col teletra-sporto, senza nemmeno goderedell’intenso, profondo rapportocon l’aria di montagna che soloun razzo-zaino può regalare. Sepoi ci spingiamo ancora più in-dietro nel passato, ci accorgiamoche il bis-bis-bisnonno del 1887a.C., che pure viveva in mezzoalle Alpi, doveva essere un simil-Oetzi che viveva di caccia epesca. Per il quale anche l’uomodel 1887 d.C., con la sua agricol-tura e la sua pastorizia, sarebbestato un alieno da fantascienza.E dunque? Dunque il problemanon sta nella tecnologia, bensìnel rapporto che noi (il bis-bis-bi-snonno, il bisnonno, V.G., il pro-nipote e il pro-pronipote) abbia-mo con il pianeta e con noi stessi.Viviamo in un equilibrio sosteni-bile dal sistema? Le nostre esi-stenze sono culturalmente edemotivamente ricche, piene,sane, evolute, rispettose? Se larisposta è affermativa… allorachissenefrega se sul Bianco arri-viamo con gli scarponi, il razzo-zaino o il teletrasporto.

Marco Cagnotti

Luglio 2087, Courmayeur – Un pro-nipote di V.G. è in vacanza con ungruppo di amici. Dopo una scorpac-ciata di fonduta, i ragazzi decidono diconcedersi un caffè al bar-ristorantepressurizzato in cima al MonteBianco, dove – pare – c’è ancora qual-che chiazza di neve. Indossati i giac-coni di piumino e accesi i razzo-zaini,l’allegra brigata decolla e sorvola leabetaie della val Veny, le pietraie doveun tempo scendeva maestoso il ghiac-ciaio del Miage e i ruderi del rifugioGonella (immortalato nelle vecchiefoto del bisnonno). In una decina diminuti i baldi giovani arrivano a desti-nazione. Poi, sorseggiata una tazzinadi caffè bollente, data l’occhiata d’ob-bligo al panorama e tirata qualchepalla di neve, reinforcano i razzo-zainie scendono a valle per la program-mata partitella a tennis.

Ore 7 di una mattina qualsiasi, oggi,Milano – Consumata la colazione, V.G.si concede la consueta mezz’ora dimusica. La scelta cade sulla «Toccatae fuga in sol minore “La Grande”» diBach: 12 minuti abbondanti di ruti-lante cascata sonora che in decine dianni ha già ascoltato decine di volte.Così spesso capita che un certo pas-saggio gli faccia pregustare il succes-sivo o che gli riesca di coglierne unoin precedenza sfuggito: una goduriasenza fine. Ieri mattina era stato l’en-nesimo riascolto della voce struggentedi Rosa Balistreri con il suo «O cunta-dinu sutta lu zappuni» a fargli quasivenire i lucciconi agli occhi. O quellodi «Primavera di Praga» o de «Le cin-que anatre» di Guccini… Un amico gliha detto: «Ma lo sai che da Internetpuoi scaricare un sacco di musica?».V.G. ha obiettato: «Per farne che? Mici vorrebbero secoli per assimilarla eper riceverne le emozioni che mi re-gala quella che già ho».

Da ultimo, una (forse superflua) rifles-sione conclusiva. Più che di optare perquesto o per quel tipo di energia, quisi tratta di ragionare sul tipo di società(o, meglio, di civiltà) umana auspica-bile nel prossimo futuro. Qualità ver-sus quantità, tanto dei prodotti quantodelle esperienze di vita: si tratta –forse mission impossible – di convin-cere l’Homo sapiens sapiens del XXIsecolo (e noi in primis) che la prima èpiù fertile di felicità della seconda. Ri-scoprendo la sobrietà non come ri-nuncia, ma come valore aggiunto.

P.S.: Comunque sarebbe opportunoche i fautori della quantità, che con leloro gozzoviglie stanno allegramentesperperando le limitate risorse delpianeta, ai propri discendenti lascias-sero scritto un amorevole consiglio:«Ragazzi, noi ce la siamo spassata;voi, conviene che vi diate una cal-mata».

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Più di una volta gli ho contestato lasua spregiudicatezza, soprattuttonel cavalcare temi a cui non cre-deva minimamente solo per «incas-sarne» i dividendi politici. Per faresolo un esempio, ricordo una sera aTeleTicino quando, fuori onda, de-finì «una stronzata» l’imminentevotazione sulla proibizione dei mi-nareti, sulla quale lui e «il Mattino»poi camparono per mesi. Più di unavolta ci siamo confrontati sui toniintimidatori de «il Mattino», deltutto inaccettabili da qualsiasipunto di vista. Spregiudicatezza edeccesso ne facevano un grande co-municatore, ma poi scarseggia-vano obiettivi e contenuti politicirealistici che gli avrebbero per-messo di incidere decisamentedi più di quel che è poi statonella politica ticinese. Qui sta,a mio avviso, il punto deboledel suo operato.Se si prendono i cosiddetti «ca-valli di battaglia» leghisti, fruttodella sua visione politica e accura-tamente sbandierati su «il Mattino»per oltre due decenni come «vo-lontà della gente», e si confrontanocon i risultati ottenuti davvero, ilconsuntivo è ben magro. La cassamalati cantonale, costosissima enon risolutiva, promossa anche conun’iniziativa popolare, è stata di-chiarata inattuabile da Parlamentoe tribunali. La «tredicesima AVS»,

I BILANCI DI UN

di Manuele Bertoli

non tali, anche nei Dipartimenti di-retti da Leghisti, e uno è stato anchecorrettamente promosso al Territo-rio. I tagli per 150 milioni nellespese pubbliche – anche qui c’era dimezzo un’iniziativa popolare – sonostati ritirati alla chetichella per evi-tare una batosta popolare. A livellonazionale, le battaglie contro l’en-

trata della Svizzeranell’ONU e contro

gli accordi bi-

Ho conosciuto Giuliano Bignasca soprat-tutto nei sette anni in cui ho ricoperto lacarica di presidente del PS, perché lo in-contravo spesso in occasione dei dibattititelevisivi e non. Persona eccessiva, intel-ligente, ironica, spregiudicata e a suomodo simpatica, gli piaceva essere alcentro dell’attenzione e dare a intenderea tutti che da lui si dovesse passare af-finché qualcosa si muovesse. Amava ilpotere, più per gioco che per un suo usodiretto, tanto che spesso la conquista diposizioni politiche importanti risultavaessere per lui il punto finale, non quelloiniziale utile a modificare sensibilmentele cose.

proposta a due riprese con delle ini-ziative popolari mal congegnate, èsempre stata respinta dal popolo.L’innovazione nella gestione dei ri-fiuti promossa con il famoso im-pianto Thermoselect si è risolta inun flop stratosferico, dal quale soloun esperto navigatore della politicacome Marco Borradori ha saputosalvarsi. Il sostegno alle scuole pri-vate è stato sonoramente respintodai cittadini. La campagna controi radar fissi è stata una bufalarisoltasi in nulla. I vitu-perati funzionari diri-genti più volte additatiindebitamente come«fuchi» sono an-cora al loroposto poiché

VENTENNIO

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Cani da guardia o da riporto?

«Un’inchiesta giornalistica è la paziente fa-tica di portare alla luce i fatti, di mostrarlinella loro forza incoercibile e nella loro du-rezza. Il buon giornalismo sa che i fatti nonsono mai al sicuro nelle mani del potere e sene fa custode nell’interesse dell’opinionepubblica».

(Giuseppe D’Avanzo)

«Buono, generoso, passionale». Che altro? «Amantedel Ticino». E poi? «Vicino alla gente». Altro ancora?«Visionario, geniale, innovatore». Manca solo «Santosubito!» e poi c’è tutto. In compenso latita tutta l’al-tra faccia della medaglia: le condanne, la boria, ilrazzismo, la violenza verbale, il disprezzo per la le-galità e perfino per le più elementari regole del vi-vere civile.Onestamente, davvero: non se ne può più. Già unasettimana dopo la dipartita di Giuliano Bignasca erasterminato l’elenco dei suoi estimatori che si produ-cevano in lodi sperticate e acritiche, semmai stem-perate qua e là da qualche precisazionecerchiobottista («Però talvolta era un po’ sopra lerighe...», «Qualche volta esagerava...», «Aveva uncaratterino...»). Ora, se tutto questo può anche essercomprensibile in via Monte Boglia (ché, se lì nonl’avessero amato, non l’avrebbero seguito), scon-certa invece quando l’ammirazione post mortem ar-riva, senza alcun distacco né ritegno, da chidell’informazione fa il proprio mestiere.In quei giorni ne abbiamo viste e sentite di ogni ge-nere. Il delirio dell’urlo d’amore nel blog di Liberatv.E perfino il «Caro Nano, guardaci da lassù!» al ter-mine della cronaca televisiva del funerale su Teleti-cino. Sicché la domanda sorge spontanea: ma questisono giornalisti? Perché, sia chiaro, le emozionihanno dignità e meritano di essere manifestate, cimancherebbe. Ma c’è modo e modo. C’è contesto e

contesto. C’è sede e sede, che diamine. E’ una que-stione di professionalità.Quest’esplosione di amore postumo svela due fatti.Anzitutto la rete vasta e ramificata di embedded diGiuliano Bignasca, pronti a diventare cassa di riso-nanza delle sue tesi e dei suoi sproloqui. Anche con-tro la ricerca della verità. Perfino contro la sempliceoggettività dell’informazione. E poi la verosimi-glianza del sospetto che dietro le sigle, le iniziali, glipseudonimi de «il Mattino» e del «10 Minuti» si na-scondessero firme prestigiose di altre testate, prontea sfogare il proprio livore devastando le vite altrui.Un segreto che il Nano s’è portato nella tomba(anche se qualche nome l’ha pur fatto, in camera ca-ritatis).Sia chiaro: ciascuno farà i conti con la propria co-scienza. Fatti suoi da risolversi nel suo foro interiore.Ma nel mondo qui fuori rimane la que-stione dell’autorevolezza e della credi-bilità del giornalismo inTicino. Che ormai sem-bra avviato sulla chinainarrestabile verso il ser-vilismo giornalistico tipicodell’Italia berlusconiana. Eche, per usare una battuta diMarco Travaglio, s’è trasfor-mato, da cane da guardia delpotere, in cane da compagniao, peggio ancora, da riporto.Prossima fermata: la Coreadel Nord.

Marco Cagnotti

laterali con l’Unione Europea sonostate perse: la Svizzera è nell’ONUe i bilaterali sono in vigore. E leproposte a difesa del segreto ban-cario sono fallite già a livello di rac-colta delle firme. Prima di morireha addirittura combattuto l’inizia-tiva Minder contro le retribuzionifolli dei manager, che per finire èstata plebiscitata dal popolo.Sul fronte dei successi politici, aparte la sua collaborazione allacreazione dell’Università, se ne pos-sono menzionare due, ambedueconnotati da una visione di Destra.Il primo è stato parziale, sul temadegli sgravi fiscali, poiché, a frontedi alcuni rovesci popolari (l’ultimoil mese scorso), va detto che nel2000 Bignasca uscì vincitore dalleurne con due proposte parallele cheebbero come risultato robusti alleg-gerimenti tributari per i ceti ab-

bienti. Il secondo, netto, si è risoltocon un indurimento significativodella politica contro gli stranieri e imigranti, uno spostamento versoposizioni xenofobe dell’elettorato dicui la Lega può certamente rivendi-care la paternità, unitamente al-l’UDC blocheriana.Su alcuni punti di politica socialepiù di una volta mi è capitato di tro-vare con Bignasca delle conver-genze interessanti, perché a suomodo aveva un’attenzione per chifa fatica. Ma i suoi successi con-creti, al di là della propaganda,sono stati sostanzialmente di altranatura.Accanto al bilancio del Bignasca po-litico, piuttosto minimale, vi è poiquello del Bignasca comunicatore,in termini di valori veicolati e dicontributo all’immagine del nostroCantone, che a mio parere è larga-

mente negativo. La denigrazionepersonale, i toni arroganti e intimi-datori, anche se conditi di una certaironia, comunque sempre funzio-nali alla propaganda, sono divenutimoneta corrente e hanno acquisito,inspiegabilmente, quasi uno statutodi normalità. Le sue provocazionisono divenute ingombranti per lacollettività ticinese e fonte di imba-razzo per le sue istituzioni.Ai defunti si deve rispetto, anche aquelli che non hanno avuto il ri-spetto tra le loro virtù migliori. Ra-gione per la quale ho ritenutodoveroso partecipare al suo fune-rale. Il rispetto lo si deve peròanche ai vivi e alla verità, bella obrutta che sia, che solo la Storia de-finirà compiutamente e che sola èin grado di restituirci una letturasenza pregiudizi di questa vicendaumana.

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INFRANGEREUN SOFFITTO DA

di Caterina Ghirlanda

di Facebook, uscito in ita-liano lo scorso 12 marzo, ilcui titolo è un grido di battaglia:«Lean in» («Facciamoci avanti: ledonne, il lavoro e la voglia di riu-scire»). La tesi di Sandberg – unacon la formazione giusta, uncurriculum da urlo e nessunavergogna a dichiararsi femministae ammettere di uscire dall’ufficioalle 17 e 30 per stare con i suoi duefigli di 5 e 7 anni – è semplice eseducente: le donne non devonotemere di chiedere una promo-zione o un aumento di stipendio,devono accettare nuove respon-sabilità, non devono rinunciare inpartenza a ruoli di comando e de-vono imparare a negoziare meglio lapropria posizione professionale…oltre a sposare l’uomo giusto, che lesostiene nella carriera e si fa caricodi metà del lavoro di cura e dome-stico. Troppo semplice?È quello che ha pensato la sua con-terranea Anne-Marie Slaughter,un’altra superwoman che l’estatescorsa ha scritto un articolo sulla ri-vista «The Atlantic» per spiegareperché avesse lasciato dopo due anniil suo prestigioso incarico a Washin-gton come Director of Policy Planningdel Dipartimento di Stato per tornarea insegnare all’Università di Prince-ton e così poter stare più vicina ai duefigli adolescenti, cosa impossibile conun lavoro che iniziava alle 4 e 30 dellunedì mattina e finiva il venerdì seratardi. L’articolo, intitolato «Whywomen still can’t have it all» («Per-ché le donne non possono ancoraavere tutto»), ha scatenato un putife-rio tra le femministe d’Oltreoceano,portando alla luce un’altra frontiera:quella che separa le donne senza figlida quelle con i figli. Ma questa èun’altra (spinosa) rete di separa-zione. Slaughter, che non sposa la ri-cetta di Sandberg, ha replicato che

nel suo «ruolo-guida» non vuolementire alle giovani, facendo lorocredere che sia tutto possibile: farcarriera, fare figli, gestire una fami-glia e, ça va sans dire, mantenersi informa e affascinanti… mentre lastrada per la conciliazione è irta e co-stellata di ostacoli. È lo scontro trasognante idealismo e sano realismo.Intanto però il soffitto non viene in-franto e la frontiera miete le sue vit-time, discriminando le donne econdannandole a essere come gli uo-mini se vogliono far carriera. Ma dadove si parte per sfondare una similefrontiera? La chiave è una revisionedei tempi, delle modalità e dell’orga-nizzazione del lavoro. Ne guadagne-rebbero tutti. Anche gli uomini.

Le frontiere da temere sono quellesubdole, quelle che si dipanano confili invisibili, quelle che si percepi-scono ma a cui è difficile dare unnome. Una di queste «frontiere fan-tasma» un nome però ce l’ha, e que-sto la dice lunga. Si chiama soffitto divetro, traduzione dell’inglese «glassceiling». È la barriera trasparente,che sembra non esserci ma invecec’è, che non permette alle donne diaccedere alle stanze dei bottoni e disedere nei consessi dove sono presele decisioni che contano. Anche inSvizzera.Puntuale come ogni anno, l’Ufficio fe-derale di statistica ha sfoderato i nu-meri su donne e lavoro in occasionedella festa dell’8 marzo. Dal 1999 lapercentuale di donne tra i 25 e i 64anni con una formazione universita-ria è più che raddoppiata (dal 9 al21,7% nel 2011), mentre fra le donneattive professionalmente nel 2011,pari al 76,7%, solo un terzo ha unafunzione dirigenziale… e questo datoè rimasto invariato dal 1996! Duedati che stridono: il soffitto sembrapiù di cemento armato che di cri-stallo. È vero: c’è l’effetto del tempoparziale, in prevalenza ancora fem-minile, che si sta trasformando in unboomerang perché sarebbe uno deimotivi (abbastanza vero per i tempiparziali bassi, discutibile per quellidal 70% in su) che affossano le car-riere delle donne.Il soffitto di cristallo è una frontieraabbastanza diffusa ovunque, e ognivolta che la si osserva si pensa allequote rosa. Ma forse le quote da solenon bastano. Occorre un cambia-mento nella cultura del lavoro e nellagestione delle risorse umane. Si devefare tabula rasa di pregiudizi di ge-nere e percezioni fuorvianti.Negli Stati Uniti il dibattito si è riac-ceso con la pubblicazione del libro diSheryl Sandberg, 42enne numero 2

Le frontiere sono antipatiche, ma lo sono ancora di più quando ci sono ma non si ve-dono, quando producono effetti che non sono direttamente riconducibili alla causa,quando si «sentono» ma si fatica a riconoscerle. Una di queste è però convenzionalmenteidentificata: è il soffitto di cristallo, che impedisce alle donne di arrivare al vertice. Diaziende, dipartimenti, consigli di amministrazioni, enti pubblici e privati, università…

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Il voto a favore dell’iniziativa Minderha creato le basi legali per misurecontro le scandalose pratiche deibonus milionari, dei paracadute do-rati e delle retribuzioni milionaried’entrata. È però soprattutto un se-gnale di una situazione di insoffe-renza e di disagio che investe larghistrati della popolazione. Cioè di chi èconfrontato con l’insicurezza del pro-prio posto di lavoro e con la stagna-zione o peggio ancora con la dimi-nuzione salariale: persone e famiglieche vivono sulla propria pelle la dif-ferenza crescente fra redditi alti eredditi medi e bassi. In quest’ottica, ibonus milionari dei vari Vasella nonsono altro che la punta dell’iceberg dipreoccupazioni più profonde di unPaese in cui pochi continuano a di-ventare sempre più ricchi mentre lamaggioranza vive nell’incertezza peril rischio di disoccupazione, per l’in-sicurezza del futuro della previdenzavecchiaia e professionale, per i ritmidi lavoro sempre più stressanti acausa di una concorrenza accre-sciuta. Quindi non è stato solo un votodi protesta e di indignazione, maanche la richiesta di un dibattito sullaripartizione della ricchezza: un datodi fatto particolarmente importanteper le salariate e i salariati che dallasola approvazione dell’iniziativa Min-der, per quanto significativa, non pos-sono dire di trarre particolaribenefici. Anzi.Ecco perché sono particolar-mente importanti i passiche seguiranno ilvoto del 3 marzoscorso: perverificare seil sentimentoprofondo espressoa favore dell’iniziativatroverà uno sbocco sualtre questioni che vanno ben

INSUFFICIENTEUN SOLO PASSO MA

di Werner Carobbio

oltre il freno ai salari abusivi deigrandi manager e il rafforzamentodelle possibilità di controllo degliazionisti sull’agire dei Consigli di am-ministrazione e delle direzioni dellegrandi aziende multinazionali.Per cominciare, il primo banco diprova sarà dato dalle norme di appli-cazione dell’iniziativa costituzionale.I tentativi di annacquare la sua por-tata non mancheranno da parte diquelle forze che in Parlamento e nelPaese l’hanno combattuta. Dunque èurgente che il Consiglio federale, chene ha la competenza, promulghi larelativa ordinanza molto prima deltermine di un anno, cioè prima del 3marzo 2014, in attesa che il Parla-mento adotti le necessarie modifichelegislative.Ma altri temi più importanti riguar-dano appunto la questione della ri-partizione della ricchezza in questoPaese e possono e devono costituireun’efficace risposta alle preoccupa-zioni della maggioranza della popo-lazione, salariate e salariati in testa,in fatto di retribuzioni, di sicurezzadel proprio reddito, di disuguaglianzadei redditi.Intanto c’è la proposta dell’iniziativadei Giovani socialisti che vuole limi-tare a 12 volte lo scarto fra salaribassi e salari elevati. Appunto l’ini-ziativa «1:12» discussa durante lasessione primaverile delle Camere e,come facilmente prevedibile, re-spinta dalle forze borghesi diCentrodestra nonostante ilmassiccio voto sull’iniziativaMinder.

Il risultato plebiscitario ottenuto dall’ini-ziativa Minder contro i salari abusivi deigrandi manager delle società quotate inBorsa va salutato con soddisfazione. Maè solo un passo lungo un cammino piùlungo.

Poi c’è la proposta di un’altra inizia-tiva popolare promossa dall’UnioneSindacale Svizzera e appoggiata daiSocialisti per l’introduzione di un sa-lario minimo legale di 4’000 franchial mese: una richiesta più che giusti-ficata, quando si pensa che in Sviz-zera circa 430 mila salariati a tempopieno guadagnano meno di quellacifra. Per non parlare dell’iniziativache vuole sottoporre a imposizione lesuccessioni di più di 2 milioni. Ac-canto c’è poi il problema della revi-sione del Codice delle obbligazioniper imporre come utile (mentre oggiè considerato un costo aziendale) lerimunerazioni superiori al milione.Come si vede, è molta la carne alfuoco per correggere la situazione didisparità fra i redditi e di ripartizioneingiusta della ricchezza prodotta datutti, dipendenti compresi. In questocontesto, l’approvazione dell’inizia-tiva Minder non può che essere con-siderata un primo modesto passo. Inogni caso per i Socialisti e per la Sini-stra.

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5 VIDEOCAMEREROTTE

di Roberto Rippa

Emad Burnat è un contadino. Haquattro figli, ognuno dei quali nato inun momento significativo nelle vi-cende del conflitto israelo-palesti-nese. L’idea di filmare nasce dal suodesiderio di testimoniare nascita ecrescita dell’ultimogenito Gebreel. �Ma l’intenzione non può prescinderedal luogo: Emad abita a Bil’in, un vil-laggio palestinese in Cisgiordania incui si vive di agricoltura e della rac-colta di olive. Un villaggio che vede il60% delle sue terre, preziose per la sopravvivenza dellasua comunità, confiscate dall’esercito israeliano, chenulla lascia di intentato per scacciare i suoi abitanti. Cosìla nascita e la crescita di Gebreel si incrociano forzata-mente con la vita nel villaggio e l’occhio di Emad si spo-sta dalle attività di resistenza alla vita quotidiana intempo di guerra.La resistenza non violenta da parte degli abitanti del vil-laggio si svolge all’inizio quotidianamente per poi diven-tare settimanale, per permettere alla genteun’opposizione creativa e sempre pacifica. �Violento èinvece l’esercito, che non esita a sparare lacrimogeni adaltezza d’uomo (e di bambino) in un crescendo di ten-sione che vedrà anche alcuni morti tra gli abitanti delvillaggio. �Bil’in è uno dei tanti territori invasi dall’eser-cito israeliano, uno tra i molti villaggi di cui si sa infinepoco, assurto a simbolo proprio per la sua resistenza pa-cifica. Ed Emad, costantemente in prima linea, testimo-nia tutto.In una comunità in cui il concetto di famiglia è estesoall’intera comunità, le scene di lotta non escludono nes-suno. �Quando, alla fine del 2004, viene dato l’avvio alla

costruzione del famigerato muro cheisolerà le terre ormai depauperate,la resistenza si farà forzatamente piùstrenua, grazie anche alla presenzapur passeggera di attivisti di Israelee di ogni parte del mondo. �Emad di-venta sempre più un tutt’uno con lasua videocamera, da essa si senteprotetto, ha l’impressione che dietroil suo obiettivo nulla possa accader-gli. Le videocamere usate sarannocinque, tutte di seconda mano, tutte

prima o poi rotte. �La sesta camera testimonierà l’ago-gnata distruzione del muro. Emad verrà colpito da unagranata ma la videocamera non si romperà, simbolodella forza dell’immagine in tempo di guerra.Il film nasce grazie all’incontro avvenuto nel 2005 traEmad e Guy Davidi, attivista israeliano all’opera per In-dymedia. Davidi si ferma nel villaggio per tre mesi,quando Emad ha ormai filmato molto e pubblicato partedelle sue testimonianze su YouTube. Il film prende peròforma anni dopo, quando Davidi convince Emad a lavo-rarci partendo proprio dal punto di vista personale. Unpersonale che è costantemente, forzatamente e radical-mente politico (nel senso ampio e reale del termine). �Ela sua forza risiede proprio nel personalizzare in modopotente e sempre appassionante un episodio infinitodella nostra Storia spesso e volentieri ignorato o mani-polato dai media, quando non fatto oggetto di prese diposizione più consone a un derby calcistico. �Il film diEmad Burnat e Guy Davidi, se potesse godere di un’am-pia distribuzione, avrebbe il sicuro potere di aprire gliocchi anche ai più irriducibili del facile slogan.

Tra i titoli di consolidata notorietà com-merciale candidati ai premi Oscar 2013,ce n’era uno poco noto alle nostre latitu-dini ma che speriamo possa presto otte-nere maggiore visibilità. Era candidatonella sezione documentari, ma definire «5Broken Cameras» come un documentariovero e proprio sarebbe fuorviante. Perchéha molto più l’aspetto e il contenuto diun diario.

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Un segno dei tempi, stavolta davvero:la crisi impone un taglio netto, sem-pre più drammatico, ai consumi, mail cibo resta. D’altronde si deve con-tinuare a mangiare. Così questi pro-grammi assumono un peso specificoper gli inserzionisti pubblicitari, chetrovano il giusto spazio per i loro pro-dotti, forse i più presenti oggi sulmercato della pubblicità.Eppure, fra tanti programmi simili apovere fiere di paese, uno spicca persuccesso ed efficacia: Masterchef.Nato nel 1990 sulla BBC e poi rinno-vato nel 2005, il format è oggi pre-sente nei canali di quasi 40 Paesi: dalBangladesh alla Cina, dall’India alVietnam, è difficile oggi trovare unanazione in cui non sia trasmesso, oalmeno visto, nella sua versione ori-ginale o in una delle sue derivazioni(da quella con protagonisti i bambinia quella dedicata alle star).Ovunque venga trasmesso, Master-chef è identico in ogni suo elementoe si segnala per l’estrema accura-tezza della confezione. Sfida tra cuo-chi dilettanti che aspirano adiventare chef professionisti sottol’occhio molto severo di tre cuochi difama, il programma è perfetto neisuoi meccanismi. Dopo un’attenta se-lezione in ogni Paese in cui vada inonda, a gareggiare sono 14 personeche formano un gruppo eterogeneoper provenienze, età e attitudini. Al-meno uno a settimana lascerà il pro-gramma. Più «talent show» che«reality», Masterchef mescola il per-sonale (i commenti dei concorrenti,l’esplicitazione delle loro rivalità, conuna competitività che trova il suoapice nell’edizione statunitense), ilprofessionale (con un’accurata ri-presa dei piatti preparati per le

CRISICUOCHI E

di Roberto Rippa

prove) e una sapienza tecnica note-vole (la regia impeccabile, il montag-gio che non permette a un solominuto di noia di entrare nel pro-gramma). Un’ora di programma, dueprove, tre chef senza peli sulla linguache sanno come mantenere la su-spense. Un successo globale comenon se ne vedevano dai tempi delprimo Grande Fratello ma che, alcontrario di questo, sembra riusciread appassionare anche dopo anni.L’edizione italiana, in onda su Sky equindi, in chiaro, su Cielo, è alla suaseconda stagione (le selezioni per la

Impossibile di questi tempi non avvertire un sentore di soffritto ogni qualvolta si ac-cende la televisione. Infatti il mezzo è sempre più ricco di programmi dedicati allacucina. Programmi che presentano ricette o mostrano cuochi in azione: dalla cucinasemi-dilettantistica di Benedetta Parodi su La7 (con ascolti da Consorzio Nettuno)fino ai cuochi di Antonella Clerici su RaiUno, ogni rete ha il suo programma dedicatoalla cucina. E spesso nemmeno uno solo. Un’arma di distrazione di massa, si dicevatempo fa, in un’Italia allora dominata dal successo «politico» di Berlusconi. Ma iltempo è passato e il fenomeno si è ingigantito, con i palinsesti che sembrano ormaioscurati dai vapori dei fornelli. Però, nel vapore, un programma emerge.

terza sono in corso). I giudici, ognunoben caratterizzato, sono Bruno Bar-bieri, Joe Bastianich (l’unico a esserepresente sia nell’edizione statuni-tense sia in quella italiana, dove si di-mostra leggermente più umano) eCarlo Cracco, e non risparmiano colpidi teatro nel giudizio dei piatti pre-sentati, tra smorfie di disgusto, com-menti salaci e cibo sputato nella

spazzatura quando la qualità si fa al-larmante. Un meccanismo di giocoche suscita il «commissario tecnico»che si nasconde in tutti noi, tanto datrasformarci improvvisamente incuochi provetti in grado di giudicarei complicati piatti dei partecipanti.Guardatelo: la confezione accuratache condensa in una sola ora (inter-ruzioni pubblicitarie incluse) unapuntata lo rende una visione grade-vole che sovrasta tutti i programmi dicucina in onda in questo momento.

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Al Papa emerito vorrei chiederecome mai non solo l’interpretazionedel Concilio da parte dei media (am-messo che ce ne sia stata una) èosteggiata dalle gerarchie vaticane,ma anche la ricerca storica più ac-curata. Per esempio la monumen-tale «Storia del Concilio Vaticano II»in cinque volumi edita dall’Istitutodelle Scienze Religiose di Bologna.Ricordiamo tutti l’offesa fatta a Giu-seppe Alberigo, l’autore di quel la-voro, con il mancato invito alConvegno sul Concilio svoltosi in Va-ticano e durato una settimana nelfebbraio del 2000. La verità è chenei Sacri Palazzi, come a tutti i po-teri, piace la storia fatta in casa:non addetti ai lavori astenersi.Che poi i media ne facciano ormaidi più e di peggio, in fatto di reli-gione, sono pronto ad ammetterloserenamente. I giorni del Conclavee dell’elezione di Papa Francescosono stati uno show di bufale e diapprossimazioni. Giornalisti tutto-fare, di solito mandati a coprire l’ul-timo fatto di sangue o l’ultimo (veroo presunto) misfatto della politica,si sono improvvisati «vaticanisti»,hanno dato la parola a cani e porci,inventato interviste…Che di Papa Bergoglio si sia parlatotutto sommato bene fa piacere ecredo corrisponda a un sentimento

FRANCESCO,BENEDETTO E I MEDIA

di Enrico Morresi

Il papa (allora quasi emerito) BenedettoXVI ci fa troppo onore quando dice che«c’era il Concilio dei Padri – il vero Concilio– ma c’era anche il Concilio dei media. Eraquasi un Concilio a sé, e il mondo ha per-cepito il Concilio tramite questi, tramite imedia». Questa diversa comprensione dellecose, prosegue il Papa, «ha creato tante ca-lamità, tanti problemi, realmente tante mi-serie: seminari chiusi, conventi chiusi,liturgia banalizzata… il vero Concilio haavuto difficoltà a concretizzarsi, a realiz-zarsi; il Concilio virtuale era più forte delConcilio reale». La citazione è tratta dal di-scorso a braccio di Joseph Ratzinger ai par-roci romani pubblicato dal «Giornale delPopolo» il 16 febbraio.

diffuso. Ma le vicende della Chiesaesigono una prospettiva più lungaper essere giudicate, e una volta an-cora va suggerito al pubblico di nonchiedere troppo ai quotidiani e aitelegiornali (per non dire ai blog oa Twitter). Anche del comporta-mento di Jorge Mario Bergoglioall’epoca della dittatura militare inArgentina bisognerà fare un bilan-cio meno limitato a qualche cita-zione di uno o due libri. Niente vanascosto al lavoro serio di ricerca edi approfondimento. Se persino aproposito di Pio XII e dei suoiscambi all’interno delle Mura leo-niane all’epoca della deportazione

degli ebrei di Roma si attendonochiarimenti, dopo la fine dell’em-bargo, quanto ci manca ancora diquello che servirebbe per valutarela figura e l’opera di Papa Giovanni,di Papa Paolo, di Papa Albino, diPapa Karol, di Papa Joseph! L’im-portante è che alla pazienza di chiattende giudizi informati e ponde-rati non siano opposte ragioni di op-portunità che poi obbligano adichiarazioni di pentimento.

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Tutto si compra e tutto si vende,anche l’anima, come ci dice Goethea proposito di certi patti con il Mali-gno. Basta stabilire il prezzo. Ma isogni? Paradosso dei paradossi, isogni hanno un valore tale da nonavere prezzo: sono carissimi. Sipensi a quanto costa un bigliettoper un Mondiale di calcio o un’Olim-piade, oppure ai 12 milioni di eurol’anno che i presidenti spendono peri vari Ibra, Messi, Ronaldo, «Mou»eccetera. Qualcuno trova immoraleil loro stipendio? Qualche rossocro-ciato vuol ridurre i 50 milioni annuiguadagnati dal Roger nazionale?Magari a 12 volte il guadagno dellabambinaia che cure le gemelline?Si dirà che l’esempio non calza per-ché si tratta di un privato. Giusto. Epoi i campioni dello sport non sonostipendiati ma ministri di una reli-gione, anzi dei dell’Olimpo. Con lorole nostre relazioni sono particolari.Ci devono far sentire come loro: di-vinità, onnipotenti angeli stermina-tori delle schiere nemiche, bizzosied egocentrici, sempre pronti a im-mischiarsi negli affari altrui, deicolleghi in alto ma anche degliumani in basso, specie quando sitratta di donne.Vasella e soci non hanno colto isegni dei tempi. Lo sport mettevaloro su un piatto d’argento la testadel nemico e loro, novelle Salomè,manco dovevano sporcarsi le mani.Ma non l’hanno fatto. Da quei mar-pioni che sono, abituati a schiac-ciare il nemico come una mosca, aucciderlo con il pungiglione diun’offerta ostile, ci si poteva aspet-tare almeno un timido accenno, unparagone fra loro, offerti al pub-blico ludibrio, e le osannate stardello sport, magari statunitensi, cheviaggiano sugli 80-100 milionil’anno.

DEI SOGNIIL PREZZO

di Libano Zanolari

In altri tempi, in Unione Sovietical’ingegnere guadagnava meno delminatore, mentre il grande cam-pione, oltretutto strumento di con-fronto e lotta politica con il nemico,aveva sì qualche privilegio, ma gua-dagnava meno di un nostro calcia-tore di Serie B. Ohibò, gatta ci cova!Quasi non osiamo l’accostamento.Vuoi dire che il popolo rossocrociatosi è messo su una china pericolosa?Vuoi dire che avevano ragione,tempo fa, i patrioti del «Giornale delPopolo» e del «Corriere del Ticino»,fieri avversari dell’AVS, giudicatacome apripista all’avvento delloStato dei Soviet?Eppure qualcosa di vero c’è. Vieneintaccato un dogma dell’ultimo ca-pitalismo, quello che ha messo KOtutti: se io fisso un premio del 10%sui profitti dell’azienda arrivati a unmiliardo, guadagno, al di là dellostipendio, 100 milioncini in più. Maquanto sono bravo! È il sistema deiprocuratori calcistici: a ogni trasfe-rimento, il 10% di commissione. Ca-pito perché Ibra e soci sentono nelloro intimo l’irrefrenabile voglia dinuove esperienze tecniche, sociali,culturali?Rieccoci. Ma già ci fischiano le orec-chie: «Giù le mani dallo sport!».Niente paura, in tutti i sensi. I Socia-listi, quando dicono «No» a certeiniziative comunali o nazionali,come le Olimpiadi invernali, fanno«maquillage»: state tranquilli, capi-talisti di tutto il mondo. Però qual-cosa toccherà mollare. Date fiduciaai rossocrociati: i capitalisti sannoche non possono tirare troppo lacorda, i Socialisti pure. Federer, poi,può dormire sonni d’oro: gli Svizzerisono convinti che anche grazie a luiil «made in Switzerland» nel 2012ha fatto segnare 20 miliardi di at-tivo sulla bilancia delle importazionie delle esportazioni. Soprattuttograzie all’onestà professionale dellavoratore svizzero, non all’ingordi-gia dei suoi capi, finalmente bac-chettati sulle dita.

Limitando gli introiti dei suoi signorottifeudali, il popolo svizzero si è conquistatola stima dei sudditi in tutto il mondo: tro-verà molti seguaci, a patto di non toccare iVasella dello sport. Perché i campioni, isogni, non hanno prezzo…

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