Wom - ANNO i - NUMERO 3

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WWW.DOGONREVIEW.ORG APERIODICO COOL IN TREND DAL 2010 UNA MODA DA FINE DEL MONDO LA TRIBÚ DEI RAGAZZI CON LA GONNA 24 OTTOBRE 2010 ANNO I NUMERO 3 WWW.DOGONREVIEW.ORG O W W

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Wom - Aperiodico cool in trend dal 2010 ANNO I - Numero 3 Una moda da fine del mondo la tribù dei ragazzi con la gonna

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APERIODICO COOL IN TREND DAL 2010

UNA MODA DA FINE DEL MONDOLA TRIBÚ DEI RAGAZZI CON LA GONNA

24 OTTOBRE 2010 ANNO I NUMERO 3WWW.DOGONREVIEW.ORG

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L E T T E R A I I I - F E U I L L E T O N - P O L I T I C A T R A S C E N D E N T A L E

BERLUSCONI : “MAI MINACCIATO ELEz IONICON CRIS I FACILE UN gOvERNO TECNICO”

SARAh, TROvATO IL CADAvERE IN UNA BUCALO z IO CONFESSA: “L ’hO UCCISA”

“TOUR E IFFEL E ALExANDERPL ATzTRA gL I OBIET T Iv I D I AL QAEDA”

I L P A P A : “ S C A N D A L O P E D O F I L I A M I N A C R E D I B I L I T à D E L L A C h I E S A ” L E F O T O S h O C k

ED ITORIALEI L S I L E N z I O , L A P A R O L A E L ’ A z I O N E

Si può tacere o rompere il proprio silen-zio, ecco tutto: come tante cose che la coscienza morale può produrre non

vi è là, nessuna contraddizione. Perchè il si-lenzio non significava il rispetto per un atto davanti al quale la parola, per quanto essa ne sia una, non è mai in debito. Non era che il timore di non riuscire a far sentire il proprio disgusto per l’altra parola, quella che accom-pagna l’azione, che ne è la causa e la conse-guenza, per l’immenso immondezzaio di frasi che è il nostro mondo, il timore di non essere capace o d’avere il diritto di farlo. Il silenzio tuttavia era tanto rumoroso che era quasi già parola. Ed ecco che tutti gli ostacoli svanirono, perchè gli ostacoli stessi sentiro-no che la parola era la più forte. Ciò avvenne macchinalmente, senza una precisa rifles-sione, senza un piano prestabilito. Perchè ci sono degli istanti in cui la macchina stessa fa prova di rispetto, e dove solitamente non si sentono che dei supplizi, uno spazio im-provviso fa spazio alle idee. Da troppo tempo avevo anch’io la mia idea in proposito; poi, passando un mese estivo intero in un pae-saggio intatto, ho sofferto profondamente del baccano tutt’attorno. Fu così che dopo quin-dici mesi dove solo si fecero sentire i terrifi-canti araldi della vittoria - del precettore della storia mondiale fino agli inevitabili appelli di soccorso abbaiati nelle edizioni speciali - divenne necessario dopo tutto questo tem-po si faccia sentire, a proprio turno, l’araldo annunciatore del più grande fallimento della civiltà che la storia della terra conobbe, non foss’altro che per provare che il linguaggio non era ancora morto soffocato. Ero coscien-te del fatto che colui che, davanti certe cose, non rischia la propria testa, non ha una testa

da rischiare. Ma a cosa sarebbe servito scam-biare la propria testa contro la gloria d’averne posseduta una? Se, in più della propria testa, gli venisse confiscata la parola di cui avrebbe dovuto curarsi! Quando questa meccanica della quale si preoccupa poco, di rimando gli imponesse il silenzio! Vuole mostrargli che nella sua testa vi è qualcosa di più d’un pal-lido euro; che la sua resistenza è tutt’un’altra cosa, che essa rifiuta di concordare con un mondo che ha tutta l’aria di asilo nido dove i fucili partono da soli con i progetti di un Dio che fa crescere l’erba e lo spirito, e che rinnega un’umanità che si calpesta l’un l’altro. Certo, sarebbe meglio rischiare la propria te-sta altrimenti, che come spettatore silenzioso

di tali cose, che la posterità sospetterà d’aver mancato d’aver una testa e di non esser stata che uno scrittore mediocre dell’anno 2010. Ma il sacrificio senza parola, in questa epoca così grande, ha ancora meno valore e effetto che le parole; non è neppure così esemplare come l’omicidio, che tutto ciò di cui ciascuno ha oggi il potere, il diritto e il dovere di fare - è per questo che la parola ha ritrovato da se stessa la propria libertà. Anch’essa ne ebbe il diritto dal momento che fu il suo dovere; e mi sento abbastanza venale per convenire che questo Stato, riconoscendo un’eccezione in uno stato d’eccezione, ha dimostrato che sopravvive in lui - come in ogni Stato dalle tendenze assolutiste - un resto di sentimento per le macerie della propria cultura. Che gli rimanga ancora una lacrima dovuta al do-

loroso presentimento che una volta portato a termine questo sogno, ci risveglieremo su un campo di battaglia ancora più sanguina-rio, immensa discarica per le iene del nostro tempo, deserto senza fine dove si leverà il potere nuovo rinchiuso per secoli nel ghetto degli inferi; spargerà la sua putrescenza sulla terra, s’impadronirà dell’aria e soffierà puzza fino ai cieli. E i conservatori di professione o di nascita, la nobiltà, la chiesa, o anche i sol-dati potranno bene perdere coraggio davanti questo nemico impietoso e resignarsi - pre-tendendo che la necessità è legge - di allearsi con lui. Potranno bene, giorno dopo giorno, commettere i loro errori come mossi da ciò che gli commanda misteriosamente un’im-

potenza generalizzata - verrà il giorno in cui si accorgeranno ciò che vale la parola che, se non sarà in grado di rendergli il coraggio, gli farà onta e gli inspirerà questo sentimento che cozza così bene ad un momento cruciale: il pentimento. Pietà dunque! Che il Signore li illumini dal loro sonno! E che essi accettino, spaventati dall’incubo d’un’avvenire già con-dannato, in un istante d’istintivo ritorno su se stessi, in un momento in cui le loro coscienze politiche si slabbrano, o il drindrin della glo-ria si tace, in cui il suono dei cannoni come il tuono delle campane si tace, che vogliano accettare di affidarmi una sola volta, per pro-curazione, le redini del potere esecutivo che un apprendista stregone bacato ha tenuto per troppo tempo al loro posto, e mi faccio for-te, da vecchio divoratore di mostri inumani

qual’io sono, di cancellare dalla superficie del globo la più grande contraddizione visi-bile quest’oggi, e che oppone il meccanismo sanguinario degli atti e il meccanismo abile delle anime. E, al fine che questo grande av-venimento non passi completamente inos-servato, che rappresenti più che il semplice inizio d’una sera del mondo proiettata prima delle immagini di guerra. Cosiché lo spaven-to reale sia più concreto che quello evocato nell’edizioni speciali e che il bombardamento di Bagdad sia più che il grido rauco lanciato da un bambino tranciato, ‘si che sia ridotta in polvere la chimera secondo la quale i fornit-tori sarebbero i veri combattenti, ‘si che l’o-micidio sia di nuovo una ragione sufficiente e che il sangue sia più spesso dell’inchistro di stampa - mi assumerò uno di questi giorni, il commando che trasferisce il fronte nelle re-trovie. E i focolari in cui si prepara la peste per il mondo, le capanne avvelenate dall’odio degli uomini, il covo dei briganti in cui si smercia sangue e che si suole designare col detestabile termine straniero di “redazioni”, ricevano ogni giorno due buoni tappeti di bombe! E con l’appoggio dei cosacchi mer-cenari che, per raggiungere il colmo della crudeltà, dovrebbero astenersi dal profanare qualsiasi cosa, all’angolo d’una via chic in qualsiasi luogo della città dove i profitattori della guerra sacrificano al benessere dei loro corpi, io metterò fine a questa profusione di carni e grasso! E per non essere accusato d’obbedire a qualche movente egoista, mi ri-fiutero di mangiarne! Ma per puro amore del genere umano e per che siano infine espiti i centinaia di massacri quotidiani che non fanno piacere, in verità, a Dio, sono pronto a versare un’obolo rispetto al quale una bat-teria di assassini sembrerebbero un giochet-to per infanti, e di mettere me stesso mano all’opera perchè la mia parola sia seguita da un atto. Così che non si possa più insinuare che sono uno spirito negativo. E in modo che il sangue scorra soprattuto laddove, in que-sto modo in procinto di crepare gentilmen-te di fame, si sia vissuto tanto grassamente!

Joseph mi ha scritto di nuovo. Dopo quelle notti di follia che pas-sammo a San Pietroburgo, non smette di chiedere di me e mi pedina ovunque vada. Non che sia una persona spiacevole, tu lo sai bene, anche con te credo che abbia fatto quei giochini deo-po-litici sotto le coperte. Poi ancora mi devi raccontare come andò, del resto. Solo che quando sto con lui, sai com’è, il mondo diviene qualcosa di fosco. Non che non sia vero, ma il caro Joseph non vuole seguire i miei consigli, quando gli dico che la catastrofe va risolta con la cosmesi. Dove lui vede l’umano, la depravazione, io gli suggerisco, glielo spiffero all’orecchio, di vedervi l’opera d’una divinità che se ne sbatte del bene e del male, del vero e del falso - e che senza catastrofi non ci sarebbe la vita, che è una catastrofe che non è mai cominciata e non finirà mai. Ma non so, lui ci sente dall’orecchio, ma quando scrive è come se dovesse sputare delle fiamme. La zia Adele dice che è nato con le « entrailles de feu », così lo chiamavano da bambino in famiglia, perché soffriva spesso di dissenteria che andava a sperequare sulla folla dall’al-to d’una torretta che s’era costruito alla bisogna, ridendo tra gli spasimi. E questo è vero, e questo è tutto il suo fascino. Perché

quel calore lo porta ad avere non solo una rabbia politica che è prossima a quella d’un dinamitardo, qualcuno pronto a piazzare una bomba al cuore dell’universo per generare una palingenesi danzante da a a omega, accompagnato da uno sguardo lucido e acuto. Porta sempre quel suo sguardo arcigno, hai presente quan-do seduto in mezzo ad un salotto se ne sta muto e lo sguardo sembra sempre che stia fissando ben al di sopra della conversa-zione, quello sguardo chirurgico, ecco con quello riesce a darmi delle scene meravigliose. Guarda cosa mi ha scritto in una delle ultime lettere che mi ha inviato. Ti risparmio i suoi piagnistei su quanto gli manco, su come non può vivere senza di me e la mia libertà divina e altre filastrocche da malato d’amore, ma ti voglio far leggere un passaggio in cui si lascia andare ad uno scoramen-to da flâneur. È ancora da SanPietroburgo che mi scrive, e mi rac-conta come si sta muovendo sulle acque della Nieva... e guarda che movimenti riesce a dare al porto:

“ I M A N F A N g W A R D I E P R E S S E , U N D D A N N

E R S C h I E N W E L T ”

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L E T T E R A I I I - F E U I L L E T O N - P O L I T I C A T R A S C E N D E N T A L E

“TOUR E IFFEL E ALExANDERPL ATzTRA gL I OBIET T Iv I D I AL QAEDA”

AhMADINEjAD: “ 1 1 SET TEMBRE , SOLO UN PRETESTOgLI USA hANNO TRASCINATO IL MONDO NEL FANgO”FANgO TOSSICO , S I CERCANO ALTRE v IT T IMEDISASTRO ECOLOgICO SENzA PRECEDENTI

quel calore lo porta ad avere non solo una rabbia politica che è prossima a quella d’un dinamitardo, qualcuno pronto a piazzare una bomba al cuore dell’universo per generare una palingenesi danzante da a a omega, accompagnato da uno sguardo lucido e acuto. Porta sempre quel suo sguardo arcigno, hai presente quan-do seduto in mezzo ad un salotto se ne sta muto e lo sguardo sembra sempre che stia fissando ben al di sopra della conversa-zione, quello sguardo chirurgico, ecco con quello riesce a darmi delle scene meravigliose. Guarda cosa mi ha scritto in una delle ultime lettere che mi ha inviato. Ti risparmio i suoi piagnistei su quanto gli manco, su come non può vivere senza di me e la mia libertà divina e altre filastrocche da malato d’amore, ma ti voglio far leggere un passaggio in cui si lascia andare ad uno scoramen-to da flâneur. È ancora da SanPietroburgo che mi scrive, e mi rac-conta come si sta muovendo sulle acque della Nieva... e guarda che movimenti riesce a dare al porto:

« Mille scialuppe s’incrociano e solcano l’acqua in tutti i sensi: si scorgono in lontananza i vascelli stranieri che piegano le vele e gettano l’ancora. Portano al polo frutti di zone bollenti e tutti i prodotti dell’universo. Gli uccelli brillanti d’America vogano sul-la Nieva con dei boschetti d’arance; ritrovano arrivando le noci di cocco, l’ananas, il limone, e tutti i frutti della loro terra natale. Subito la Russia opulenta s’impossessa delle ricchezze che le si presentano, e getta l’oro, senza contare, all’avido mercante.Di tanto in tanto incontriamo delle eleganti scialuppe, da cui sono stati ritirati i remi, che si lasciano andare dolcemente alla placida corrente delle acque. I rematori intonano un’aria nazio-nale, mentre i loro superiori gioiscono in silenzio della bellezza dello spettacolo e della calma notte. »

È un vero poeta, non trovi. Ma quando io glielo dico, devi vedere come si irrita. Prende la parola poesia come sinonimo di perver-sione o degenerazione. Lui dice di aver a che fare con la lotta per la verità, il poeta per lui è un mistificatore e che bisogna bandirlo dalla città di dio. Io allora gli dò del platonico, gli rinfaccio il libro decimo de La Repubblica, e a quel punto lui s’infuria per davvero, mi piazza un rapido schiaffo col dorso della mano, e mi prende sul divanetto in posizione taurina. Si le serate con lui sono certo meno noiose che quelle che mi hai raccontato d’aver passato tu con il caporale Engels. Ma a proposito di sesso, cosa hai sentito in proposito d’una certa Rosa Luxembourg? Qui non si fa che par-lare di lei, tutte quante, sotto la doccia non smettono di insinuare che sia una grande lesbicona che fa certe cose che rivoluzionano di sana pianta e manu militari, dildi d’acciaio, in gomma e d’ogni sorta forma e tipo. Sembra si rifaccia in questo a una lunga tradi-zione. Lei sostiene che per fare la rivoluzione bisogna rimettere al loro posto cose antiche, molto antiche, cose talmente antiche che in un certo qual modo sono al di là del tempo. Lei ama citare una frase, che sembra si sia tatuata sotto il senso sinistro:

« Con i tuoi splendidi gioielli d’oro e d’argento, facesti immagi-ni umane e te ne servisti per peccare  » che ha tratto dal libro di Ezechiele. Spero uno di questi giorni, di poter verificare se il tatuaggio è nella versione della Septuaginta o della Vulgata. Qua-lora avessi delle novità a riguardo, non temere, saresti la prima ad esserne informata! A presto mia cara e credi fermamente nelle mie più sincere af-fermazioni.

DIARIO D I gUERRADAL NOSTRO INvIATO , SPERANzA SENzAMANI :

S B A R C O A B A g D A D

Da Bagdad Tensioni altissime! e ci trovia-mo appena alle porte della sua periferia Al passaggio delle camionette blindate,

sponsorizzate dalle armate statunitensi, che ispezionano quartieri e dintorni, occhi diffi-denti osservano l’arrivo di contingenti armati e telecamere. Ne hanno visti parecchi in questi ultimi anni, sbarcati in massa assieme alle bombe, a ri-prendere l’esplosione di questo e quel palaz-zo, e di quel bambino salvato dalla croce ros-sa e ospitalizzato nel campo americano che è valso almeno due punti percentuali nei cuori degli elettori.«  Thinking are felling... On vote comme on soutien un’équipe de foot  » dissero a fuoco incrociato il sottotenente Marshall Plane e il luogotenente Pierre de Surcrôit « de l’armé national française, à votre service mademoiselle, c’est un plai-sir de vous servir... », che mi stanno accanto nella stiva dell’Alenia C-27J Spartan, messo a disposizione dalle forze armate italiane, presenti sul suolo iracheno sopratutto per far numero sui tavolini tripodi diplo-matici e per cucinare qualcosa alle truppe Nato che non sopportano la sbobba delle mense dalla Us Force Army.. All’atterraggio veniamo scortati da una pattuglia di cinque uomini in tuta mimetica e col giubetto anti-proiettile, di cui anche noi siamo stati dotati. Passiamo un primo cheek-point che vista i documenti, squadra la testata e indica una zona da raggiungere ai soldati di scorta.La camionetta messacci a disposi-zione, con lo stemma dei caschi blu dell’Onu appiccicato sopra, fila ora dritta, parcheggia davanti ad una porta scorrevole in vetri - ve-niamo invitati a scendere - e la camionetta riparte con una sgommata sovreccitata. « Sa! i soldati in guerra sono sotto pressione, è nor-male che poi si lascino un po’ andare, sono giovani, ventenni, vede, vivevano in un pae-sino - magari dell’Illinois - uno di quei pa-esini in cui non c’è praticamente nulla da fare se non passare il tempo con gli amici al bar e andare a zonzo a rimorchiare pischelline. E poi di colpo, patatran, ecco che ti ritrovi cata-

pultato in mezzo a fucili, pistole, kalasnhikov, e uccidi gente... e poi è normale che la testa non giri poi tanto come si deve... ad un cer-to punto, credo, si svalvola...  » «  Si capisco, un trauma post parto, o post mortem... » « ... sei lì, nell’Illinois, no, c’è il football, ci sono i pop-corn, c’è il budino di domenica e il tac-chino ai santi giorni, c’è la tua ragazza qual-che isolato più in là, tu sei in camera tua che ti fai le pippe, e la mamma che è arrivata una lettera gialla dal ministero della difesa ameri-cano... aprendola scopri che sei convocato a tal data a tal ora in tale caserma - e c’è persino il biglietto aereo dentro - perché sei stato ar-ruolato dall’esercito americano per partire in missione a Bagdad... ecco il trauma.... è una specie di allucinazione che t’assale alla vista

della lettera, dove scopri che di colpo la mor-te ti si fa vicina come un soffio, come un’occa-sione fortuita e prossima, e non invece quella possibilità che non pensavi potesse mai esse-re.... vede signorina, io ho cominciato così, in Cambogia, e non ne sono uscito tanto liscio... da quando partì in guerra non riesco più a smettere di tremare, guardi la mia pupilla si-nistra... vede? » « Ma veramente, io, no, non vedo niente » « e neanch’io ci vedo più niente, una mina ha fatto saltare il mio di bulbo otti-co, questo è un trapianto! » Ridendo, aprì una stanza, salutò un ufficiale che mormorò un ‘a

riposo’ in tono biacco e bavoso, e sparì, chiu-dendosi la porta alle spalle. L’interrogatorio coll’ufficiale durò una buona mezz’oretta: dei ‘si’ e dei ‘no’ da sbarrare con una ‘x’ ad un questionario idiota che conteneva domande del tipo: « credete nella democrazia? » « Il ter-rorismo è una malattia? » « Credete in dio?: e se si’: fate una croce su: Cristo, Allah, Niente, Torah, o altro. »Rendemmo i test all’ufficiale, che, senza spiccicare mezza parola da quando eravamo in quella stanza, ci accompagnò nella hall dell’albergo nel quale eravamo accampati. Qui ci distribuirono le chiavi e ci prelevaro-no dei campioni di sangue per questioni di sicurezza, ci venne spiegato, e ci venne fatto firmare un certificato d’assenso..

L’atrio dell’albergo ricordava un holet a cin-que stelle al centro di Manhattan, con la sola differenza che qui non si vedevano circolare che soldati in divisa e giornalisti con pettori-ne e documenti sempre in vista, e, ogni tanto, qualche ministro che rilascia dichiarazioni, sottolinea l’orgoglio della patria e sostiene il coraggio dei nostri giovani, che son sempre pronti a venir decorati eroi una volta mas-sacrati. Gli applausi ad ogni visita non man-cano, anzi, per propiziarli, il ministro di car-riera, si fa accompagnare sempre da un ricco buffet speciale e uno spettacolo per i soldati,

in cui si invitano a ballare e cantare, per la pace, divi del cinema e della musica. Spesso il ministro se ne va molto soddisfato e con la disinvoltura di chi può dichiarare ai mi-crofoni: « che lui ha fatto il suo meglio per la pace, ma che finché il terrorismo continuerà ad opporsi all’espansione del modello di ci-viltà dominante, questi sarà costretto, per il bene della libertà, della pace e del benessere sulla terra, di far la guerra a queste canaglie! » Ma questi eventi sono saltuari. Per il resto del tempo, i giornalisti sono confinati tra le cinta difensive che difendono questa zona di Bagdad, e ogni tanto, a giorni alterni, una camionetta dell’esercito americano ci aspetta fuori dal cancello per una visita guidata sui luoghi del disastro. Ci fanno fotografare le

vecchie fondamenta del palazzo in cui si nascondeva quella canaglia di statista di Saddam, e ci portano sul luogo della sua cattura, dove possia-mo ancora notare i resti dell’ultimo bivacco del dittatore, un urinatoio e alcune vesti lacere, prima che ve-nisse sottoposto a dei controlli di routine igienica, per non rischiare di diffondere l’epidemia terrorista islamica nel mondo: potemmo vi-sionare il filmato della visita medica una volta ritornati all’hotel.Il vaccino più efficace e equo che il potere democratico ha approntato è il pendaglio al collo per il dittatore e una pioggia di bombe per i sudditi. L’igiene occidentale consisterà forse nella distruzione e annientamento d’ogni forma di vivente? Cosicché, tutto, equiparato a nulla, diventerà finalmente merce e non più solo fe-

ticcio? Il problema del capitalismo è forse un problema di verità e di manque? O saranno questioni energetiche e geopolitiche a muo-vere l’apparato intero? Ho provato a porre queste domande a un maresciallo della fan-teria ma m’ha risposto con un seccato «  no comment, non ho studiato, non sono pronto per oggi... possiamo fare domani? »Da Bagdad per ora è tutto, anche perchè il coprifuoco è suonato ora e bisogna spegnere le luci.

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MAL A TEMPORA CURRUNTD E L Q U O T I D I A N O

« FOLLETTO -- Oh sei tu qua, figliuolo di Sa-bazio? Dove si va?

GNOMO -- Mio padre m’ha spedito a racca-pezzare che diamine si vadano macchinando questi furfanti degli uomini; perché ne sta con gran sospetto, a causa che da un pezzo in qua non ci danno briga, e in tutto il suo regno non se ne vede uno. Dubita che non gli apparec-chino qualche gran cosa contro, se però non fosse tornato in uso il vendere e comperare a pecore, non a oro e argento; o se i popoli civili non si contentassero di polizzine per moneta, come hanno fatto più volte, o di paternostri di vetro, come fanno i barbari; o se pure non fos-sero state ravvalorate le leggi di Licurgo, che gli pare il meno credibile.

FOLLETTO -- Voi gli aspettate invan: son tut-ti morti, diceva la chiusa di una tragedia dove morivano tutti i personaggi.

GNOMO -- Che vuoi tu inferire?

FOLLETTO -- Voglio inferire che gli uomini sono tutti morti, e la razza è perduta.

GNOMO -- Oh cotesto è caso da gazzette. Ma pure fin qui non s’è veduto che ne ragionino.FOLLETTO -- Sciocco, non pensi che, morti gli uomini, non si stampano più gazzette?

GNOMO -- Tu dici il vero. Or come faremo a sapere le nuove del mondo?

FOLLETTO -- Che nuove? che il sole si è levato o coricato, che fa caldo o freddo, che qua o là è piovuto o nevicato o ha tirato vento? Perché, mancati gli uomini, la fortuna si ha cavato via la benda, e messosi gli occhiali e appiccato la ruota a un arpione, se ne sta colle braccia in croce a sedere, guardando le cose del mondo senza più mettervi le mani; non si trova più regni né imperi che vadano gonfiando e scop-piando come le bolle, perché sono tutti sfu-mati; non si fanno guerre, e tutti gli anni si assomigliano l’uno all’altro come uovo a uovo.

GNOMO -- Né anche si potrà sapere a quanti siamo del mese, perché non si stamperanno più lunari.

FOLLETTO -- Non sarà gran male, che la luna per questo non fallirà la strada.

GNOMO -- E i giorni della settimana non avranno più nome.

FOLLETTO -- Che, hai paura che se tu non li chiami per nome, che non vengano? o forse ti pensi, poiché sono passati, di farli tornare in-dietro se tu li chiami?

GNOMO -- E non si potrà tenere il conto degli anni.

FOLLETTO -- Così ci spacceremo per giovani anche dopo il tempo; e non misurando l’età passata, ce ne daremo meno affanno, e quando saremo vecchissimi non istaremo aspettando la morte di giorno in giorno.

GNOMO -- Ma come sono andati a mancare quei monelli?

FOLLETTO -- Parte guerreggiando tra loro, parte navigando, parte mangiandosi l’un l’al-tro, parte ammazzandosi non pochi di pro-pria mano, parte infracidando nell’ozio, parte stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovi-gliando, e disordinando in mille cose; in fine studiando tutte le vie di far contro la propria natura e di capitar male.

GNOMO -- A ogni modo, io non mi so dare ad intendere che tutta una specie di animali si possa perdere di pianta, come tu dici.

FOLLETTO -- Tu che sei maestro in geologia, dovresti sapere che il caso non è nuovo, e che varie qualità di bestie si trovarono anticamen-te che oggi non si trovano, salvo pochi ossami impietriti. E certo che quelle povere creature non adoperarono niuno di tanti artifizi che, come io ti diceva, hanno usato gli uomini per andare in perdizione.

GNOMO -- Sia come tu dici. Ben avrei caro che uno o due di quella ciurmaglia risusci-tassero, e sapere quello che penserebbero ve-dendo che le altre cose, benché sia dileguato il genere umano, ancora durano e procedono come prima, dove essi credevano che tutto il mondo fosse fatto e mantenuto per loro soli.

FOLLETTO -- E non volevano intendere che egli è fatto e mantenuto per li folletti.

GNOMO -- Tu folleggi veramente, se parli sul sodo.

FOLLETTO -- Perché? io parlo bene sul sodo.

GNOMO -- Eh, buffoncello, va via. Chi non sa che il mondo e fatto per gli gnomi?

FOLLETTO -- Per gli gnomi, che stanno sem-pre sotterra? Oh questa e la più bella che si possa udire. Che fanno agli gnomi il sole, la luna, l’aria, il mare, le campagne?

GNOMO -- Che fanno ai folletti le cave d’oro e d’argento, e tutto il corpo della terra fuor che la prima pelle?

FOLLETTO -- Ben bene, o che facciano o che non facciano, lasciamo stare questa contesa, che io tengo per fermo che anche le lucertole e i moscherini si credano che tutto il mondo sia fatto a posta per uso della loro specie. E però ciascuno si rimanga col suo parere, che niu-no glielo caverebbe di capo: e per parte mia ti dico solamente questo, che se non fossi nato folletto, io mi dispererei.

GNOMO -- Lo stesso accadrebbe a me se non fossi nato gnomo. Ora io saprei volentieri quel che direbbero gli uomini della loro presunzio-ne, per la quale, tra l’altre cose che facevano a questo e a quello, s’inabissavano le mille brac-cia sotterra e ci rapivano per forza la roba no-stra, dicendo che ella si apparteneva al genere umano, e che la natura gliel’aveva nascosta e sepolta laggiù per modo di burla, volendo provare se la troverebbero e la potrebbero ca-var fuori.

FOLLETTO -- Che maraviglia? quando non solamente si persuadevano che le cose del mondo non avessero altro uffizio che di stare al servigio loro, ma facevano conto che tutte insieme, allato al genere umano, fossero una bagattella. E però le loro proprie vicende le chiamavano rivoluzioni del mondo, e le storie delle loro genti, storie del mondo: benché si potevano numerare, anche dentro ai termini della terra, forse tante altre specie, non dico di creature, ma solamente di animali, quanti capi d’uomini vivi: i quali animali, che erano fatti espressamente per coloro uso, non si ac-corgevano però mai che il mondo si rivoltasse.

GNOMO -- Anche le zanzare e le pulci erano fatte per benefizio degli uomini?

FOLLETTO -- Sì erano; cioè per esercitarli nella pazienza, come essi dicevano.

GNOMO -- In verità che mancava loro occa-sione di esercitar la pazienza, se non erano le pulci.

FOLLETTO -- Ma i porci, secondo Crisippo, erano pezzi di carne apparecchiati dalla natu-

ra a posta per le cucine e le dispense degli uo-mini, e, acciocché non imputridissero, conditi colle anime in vece di sale.

GNOMO -- Io credo in contrario che se Cri-sippo avesse avuto nel cervello un poco di sale in vece dell’anima, non avrebbe immaginato uno sproposito simile.

FOLLETTO -- E anche quest’altra è piacevole; che infinite specie di animali non sono state mai viste né conosciute dagli uomini loro pa-droni; o perché elle vivono in luoghi dove co-loro non misero mai piede, o per essere tanto minute che essi in qualsivoglia modo non le arrivavano a scoprire. E di moltissime altre specie non se ne accorsero prima degli ultimi tempi. Il simile si può dire circa al genere delle piante, e a mille altri. Parimente di tratto in tratto, per via de’ loro cannocchiali, si avve-devano di qualche stella o pianeta, che insino allora, per migliaia e migliaia d’anni, non ave-vano mai saputo che fosse al mondo; e subito lo scrivevano tra le loro masserizie: perché s’immaginavano che le stelle e i pianeti fos-sero, come dire, moccoli da lanterna piantati lassù nell’alto a uso di far lume alle signorie loro, che la notte avevano gran faccende.

GNOMO -- Sicché in tempo di state, quando vedevano cadere di quelle fiammoline che cer-te notti vengono giù per l’aria, avranno detto che qualche spirito andava smoccolando le stelle per servizio degli uomini.

FOLLETTO -- Ma ora che ei sono tutti spariti, la terra non sente che le manchi nulla, e i fiumi non sono stanchi di correre, e il mare, ancor-ché non abbia più da servire alla navigazione e al traffico, non si vede che si rasciughi.

GNOMO -- E le stelle e i pianeti non mancano di nascere e di tramontare, e non hanno preso le gramaglie.

FOLLETTO -- E il sole non s’ha intonacato il viso di ruggine; come fece, secondo Virgilio, per la morte di Cesare: della quale io credo ch’ei si pigliasse tanto affanno quanto ne pigliò la statua di Pompeo. »

COLLABORAZIONI: Karl Kraus, Die Fackel, Anno XIX, n° 3, 1915, Giacolo Leopardi, Le Operette Morali - Dialogo dello gnomo e del folleltto

Continuano incalzanti le questioni a chiedersi a proposito del modo in cui una dittatura si installi al potere e quivi imperversi col beneplacito popolare. Che siano ferventi adula-tori del dittatore, o degli scettici op-positori, tutti questi signori si recla-mano all’idea di libertà democratica, che non assomiglia a quelle invece in atto o preconizzata dai filosofi.Montesquieu s’era immaginato una repubblica retta in maniera perfetta da una sorta di divina provvidenza, che faceva coesistere il piano legislati-vo a quello esecutivo e a quello giudi-ziario, trinità d’ogni diritto e costitu-zione repubblicana, facendoli tendere unitariamente verso il dio della mo-derna società - che forse è moderna proprio in questa sua ‘nuova’ idolatria – il Bene Comune. Ma Montesquieu, come ogni scialbo utopista s’era di-menticato di contemplare nel suo pro-getto l’uomo e la su capacità di poter realizzare tale Atlantide rediviva. Tut-ti sembrano credere che una forma di

governo capace di espellere il male e la violenza, sarebbe possibile se si mi-rasse sempre verso il sacrosanto Bene Commune. Il fatto è che in un ras-sembramento di forze, una massa, la moltitudine per quanto convogliante e possente, non riesce affettivamente a cancellare le varie individualità, allora sarà che la massa sembra muoversi, vista dall’esterno, con un movimento unitario e denso, mentre se si zooma all’interno si vedranno i singoli indi-vidui dibattersi come in una cacciara, una qualunque giornata di mercato.La questione politica non è una que-stione che sia lecito posarsi. Come dirsi appartenente ad un idea, quando un’idea non dura che il lasso di tem-po giusto per dimenticarla e trovarne un’altra. Come potersi lasciar guidare e rappresentare da delle vaghe paro-le e sloogan. Gli sloogans erano un tempo, nell’antica scozia, le anime dei soldati caduti in guerra che ritorna-vano tra i vivi, e queste erano le au-rore boreali. Negli slogan odierni al

contrario, non sono i morti che ritor-nano a manifestar la lor presenza e a ricordarci dell’esser vivi, ma le morti vi sono mascherate dagli slogan. Lo slogan è un pannello pubblicitario col quale una società si nasconde a se stessa per riflettersi capovolta, na-scondendo le sue manfrine. Gridano meno immigrati sul territorio, e poi son loro che emigrano con carri ar-mati soldati truppe corazzate, uomini da macello che macellino altri uomi-ni. Gridano alla crisi, sparano allarmi eppure fanno sempre quelli che hanno tutto sotto controllo. Loro allarmano e loro calmano. La carota e il bastone. A veder come vanno le cose c’è da stupirsi di quanto lontana sia da una lucida realtà il loro sogno e le loro credenze politico sociali. Credono di cambiare il mondo, quando essi nel mondo vi sono come un criceto sta nella sua ruota, ma non sospetta che si tratti d’una ruota, e prende il suo circolo vizioso come l’unico mon-do effettivamente esistente. Viene

da chiedersi se in un elettore vi sia effettivamente qualcosa che si possa ribattezzare coscienza. Quella barba natalizia di Marx penso’ che per inne-scare la rivoluzione e dare vita ad una palingenesi comunista su terra, con la precisa integrazione tra l’uomo e la macchina, cosi’ da render libero [sic!] il lavoro, ci sarebbe, a monte, voluto che il proletario - quell’alienato cha-pliniano – prendesse coscienza. Co-scienza di che? Della sua propria con-dizione. Quel caro e vecchio Marx! l’uomo passa la vita a cercar di capire cos’è chi è, come puo’ aver coscienza, al massimo per una rivoluzione vera e propria sono più propizi i coglioni girati della marmaglia, ma si ha paura che anche cosi’ andrebbe a finire tutto in Bakunin e la sua rivoluzione pre-ventiva. Ossia il capitalismo odierno. Ingaggiarsi in una rivoluzione equi-vale a sradicarsi dal proprio territorio e volerlo modificare. Le rivoluzioni cominciarono in grecia, da allora non si è smesso di rivedere e rimet-

tere mano al territorio. In principio fu Pericle e la Repubblica di Platone, ad esse seguirono il jus romanum, sul quale si poggeranno tutti i governi a seguire. Abbandonare un nous è tro-varsi di colpo anche fuori della physis. Quello del rivoluzionario e del parti-giano sembra più essere un lavoro per mistici e fachiri che per studenti con una molotov tra i denti su una vetri-na del MacForPresident. Ma forse il mondo non sta neppure andando alla sua rovina. Gli uomini si danno tan-ta importanza ma non si accorgono che le loro imprese e le loro atomiche pure non sono che un misero granello di energia in un paesaggio cosmico che si estende per almeno quattordi-ci miliardi di anni luce. Bisogna che ancora una volta tornino i folletti e gli gnomi leopardiani a ridere alla superficie? Non è bastata o è passata del tutto inosservata attraverso i seco-li la storia del folletto e dello gnomo:

Che l’umanità si faccia pure saltare in aria e inquini la terra con le sue radiazioni da psicopatici. Ma a chi sarebbe mai venuto in testa, se non ad un ominide, un baccato di mente, di utilizzare la polvere da sparo come oggetto d’arma da fuoco e non invece per il vero motivo

per cui quella miscela piritica venna inventata: inventare i fuochi d’artificio.C’è qualcosa di comico nel fatto che le bombe nascano dalla stessa idea che era servita a un buon studioso di minerali nell’antica Cina per

dar vita ad una festa di luci e pirotecnica, e che ora invece.