WOM - ANNO I - NUMERO 7

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Psichiatri prescrivono droghe Interviene l’Autority: “Stop allo Show” 12 DICEMBRE 2010 APERIODICO PAZZO INTERNATO NEL 2010 ANNO I NUMERO 7 WWW.DOGONREVIEW.ORG O W W

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WOM - ANNO I - NUMERO 7 Aperiodico pazzo internato nel 2010

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Psichiatri prescrivono droghe

Interviene l’Autority: “Stop allo Show”

12 DICEMBRE 2010

APERIODICO PAZZO INTERNATO NEL 2010

ANNO I NUMERO 7WWW.DOGONREVIEW.ORG

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L E T T E R A V ( s e c o n d a p a r t e ) - F E U I L L E T O N - T R U C D E S D I N G U E S

Mi è già capitato di mordere il prepuzio di qualcuno che tentava di prendersi troppe libertà nei miei confronti e non pensava che al suo di godere e per nulla anche al mio, credo che se non ha visto la morte in persona, almeno in figura credo se la sia trovata di fronte. Ma ci son quelle volte in cui tra l’assalitore e te che devi giostrare la sua furia si combina una concomitanza di amorosi sensi, e in quelle rare occasioni è possibile elevarsi fin dove il de-siderio al colmo della sua espressione, ha sollevato tutto l’essere verso una soglia in cui non sono io a godere e non è il mio part-ner a godere, ma entrambi, conchiusi in una amplesso sincrono, diamo vita ad un istante di bellezza pura. La carne e l’anima si sono così compenetrate l’una nell’altra, che il derma imperlato di sudore, somiglia ad un mosaico nel quale appare, rifatta in ogni singola goccia, la dimensione sovraumana del Cielo e della Terra

confusi in una zona mediana, che è la soglia della sospensione. Arrivati a quel culmine, e io e il mio partner, emettendo un grido di goduria che straripa direttamente dal fondo del pneuma, ci ri-troviamo di colpo catapultati nei nostri corpi, come fuoriuscendo da una bolla di pienezza, e a quel punto sentiamo rifluire attra-verso i nostri sospiri la fatica e la magnificenza di questi nostri corpi, nei quali è sigillato il segreto intimo del cosmo intero. Io, poi non mi perdo d’animo, e ancora allettante e umida, infliggo al mio partner una definitiva fellatio, che lo mette fuor di sé à jamais.Ma parlandoti di queste cose, che solo a te posso raccontare con tanto candore e senza il bisogno di dover arrossire e vergognarsi del proprio piacere, non ti ho detto nulla di come è andata a finire con Joseph. Ma te ne parlerò un’altra volta, ora non ho proprio voglia di ripensare a quelle sue considerazioni sull’umanità. Sto

La maladie es t un état . / La santé n’en es t qu ’un autre, / p lus moc he. / Je veux dire plus lâc he et p lus mesquin . / Pas de malade qui n’a i t grandi . / Pas de bien por tant qu i n’a i t un jour t rah i , pour n’avoir pas vou lu être malade, / comme te l médecins que j ’a i subis . /// J ’a i été malade toute ma v ie et je ne demande qu’à cont inuer. Car les états de ppr ivat ion de la v ie m’ont tou jours rense igné beaucoup mieux sur la pléthore de ma puissance que les crédences pet i tes-bourgeoi-ses de: / LA BONNE SANTE’ SUFFIT. /// Car mon être es t beau mais affreux. E t i l n’es t beau que parce qu’ i l es t affreux. / Affreux, affre, cos t r u i t d ’affreux. / Guér i r une maladie es t un cr ime. / C’es t écraser la tête d’un môme beaucoup moins c h ic he que la v ie. / Le la id con-sonne. Le beau pourr i t . /// Mais, malade , on n’es t pas dopé d ’opium, de cocaïne ou de morphine. / E t i l faut aimer l ’affre/ des f ièvres, / la jaun i s se et sa perf id ie / beaucoup plus que toute euphor ie. ///

Alors la f ièvre, / la f ièvre c haude de ma tête, / - car je su i s en état de f ièvre c haude depuis c inquante ans que je su i s en v ie, - / me donnera / mon opium, / - cet être, - / ce lu i , / tête c haude que je serai , / opium de la tête aux pieds. / Car, / la cocaïne es t un os, / l ’héro ïne, un sur-homme en os, / ca i t ra la sara / ca fena / ca i t ra la sara / cafa / et l ’opium es t cet te cave, / cet te rac lure / de sperme en cave, / cet te excrémat ion d’un v ieux môme, / cet te dés in tegrat ion d’un v ieux t rou , / cet te excrémat ion d’un môme, / pet i t môme d’anus enfou i , / dont le nom es t : / merde, / p ip i , / con-sc ience des maladies. // Et , opium de père en f i , // f i donc qu i va de père en f i l s , - / i l faut qu ’ i l t ’en rev ienne la poudre, / quand tu auras b ien souffer t sans l i t . /// C’es t a ins i que je cons idère / que c ’es t à moi , / sempi ternel malade, / à guér i r tous les médecins, / - nés médecins par insuff i sance de maladie, - / et non à des médecins ignorants de mes états affreux de malade, /à m’ imposer leur insu l inothérapie, /santé / d’un monde / d’avac h i s .

EDITORIALEQ U E S T I O N E D I I G I E N E

Vi è un essere puro e igienico. Sano. Saldo sui suoi prin-cipi. Un essere che non soffre, poiché non è in vita. Esso si limita a essere. Cosi ne è di dio per il ben pensante.

Ma avere una vita da supportare è un altro paio di maniche. Dio non può essere pazzo, altrimenti il mondo sarebbe sotto sopra, si rassicura il ben pensante, che del pensiero non ne ha sfiorato che la scorza. Si rassicura nella sua idea di igiene, come il paranoico che in ogni cosa vede la possibilità d’un attacco epidemico e sputa su di esso sperando di esorcizzarne il male. E se ogni cosa fosse avvelenata? si questiona nell’intimo crasso il ben pensante. Così passa alla derattizzazione. La peste ha molti volti. L’unico fondamento della sua faccia è che sia l’azione di una forza purulenta e incontrollabile, una forza tale da pren-dere il sopravvento su qualsiasi volontà propria. Tutto ciò che trascina è l’incontrollato. Di quella forza ne siam preda, e nes-sun controllo vi è su di essa. La follia rientra tra le altre forme di pestilenza che quando invade la mente, è capace di assumerne il controllo a discapito di tutto ciò che un “io”, una ragione, pos-sano es-cogitare. Ma cosa vi sarà mai di malato nella follia? è forse la possibilità che la mente si tragga fuor di ragione e faccia di essa un portantino più che il conducente? Sarà che il matto mette in scena la simptopatologia e i gesti di chi è in grado di dimostrare che la mente è prima e assoluta nel suo rapporto col mondo? Che il mondo in sé pulito, lindo, statale, igienico come lo si presenta sulle affiches informative di quotidiani e bon par-leur, non esiste affatto? L’uomo ha bisogno di vivere nell’Uto-pia, anche il ben pensante coltiva la sua: tutto il suo confort non esiste che in quanto anelito a quel luogo igienico chiamato Utopia. L’uomo non sa vivere fuori dall’insensato sogno di igie-ne. Egli si è convinto d’essere un vivente in progressione. Non bestia tra le altre e vivente tra i viventi, ma si crede una sorta di miracolato dotato di quella millenaria superstizione che si chiama pensiero. L’uomo riflette. Si guarda, si osserva e trova sulla sua stessa anima dei punti neri da schiacciare come fosse-ro zecche sanguisughe. L’uomo crede di potersi curare. Ma cos’è che spaventa tanto l’uomo nella malattia. Due cose principal-mente: da un lato l’avvicinarsi catastrofico dell’idea della morte, che sembra farsi talmente prossima, da camminar nel corpo. La seconda è la sofferenza. Lo stato sano, igienico, saldo, borghese ecc non domanda sofferenza, neppure gioia. Lo stato igienico è qualcosa che ha a che fare con la piattezza dell’incosciente, una sorta di rinunciante senza però alcun barlume di scienza del sé. La sofferenza insegna l’uomo a guarire. Se l’uomo non conosce malattia, come potrà egli conoscere salute. Se l’uomo non è mai stato schiavo come farà a sapersi libero. Folle è l’idea igieni-ca che imperversa, a quanto raccontano gli storici, da qualche tempo, più o meno da verso metà rinascimento, nella civiltà cosiddetta occidentale. Là si catturano e imprigionano, messi al bando, in disparte, in luoghi chiusi al pubblico, asili e ghetti con macchinari per testare reazioni chimiche sul cervello. Non si sa mai che dai loro test vengano fuori psicofarmaci da spacciare anche tra i cosiddetti sani, che son sani solo perché si lasciano impallinare dalle posologie e prescrizioni igieniche. Un tempo e in altri luoghi il matto del villaggio non era solamente colui che veniva deriso e incarcerato. Egli veniva certo preso e allon-tanato, ma allo stesso tempo venerato. I suoi deliri avevano il

dono della profezia, le sue parole sconnesse non testimoniava-no d’una mancanza d’aplomb, ma erano il frutto d’una capacità di preveggenza, che derivava dal semplice fatto che egli par-lando sconnesso (...in poesia) soffia parole assai vaghe per non riferirsi a nulla di preciso, ma tanto precise da colpire sempre su un bersaglio qualunque. Dopodiché s’è smesso di pensare che la mente fosse un semplice lancio di monetine, e l’uomo ha creduto poter cominciare a funzionare come una macchina ben oliata e condotta dalla propria razionalità elevata a totem. Finché dio esiste, finché a dio è assegnata esistenza, bontà, cer-vello, cuore, esisterà la follia, perché la sua idea igienica d’un esser puro e senza ombra, non vuole che coprire le imperfezioni della sua stessa opera, e l’uomo s’è preso l’onere di correggere quest’errore di dio che si suole chiamare mondo. La follia non sembra naturale. Bisogna che la si estirpi dal mondo. Sarebbe bella una razza d’ariani geneticamente inattaccabili da ogni malattia. Sconfiggere la morte per eternizzarsi nel vuoto, ecco il gran sogno che vacilla e abita gli incubi del ben pensante. L’uomo è spaventato. Quando chiude il matto in un manicomio non lo fa di buon cuore, ma girando il naso di traverso, come fa colui che si appresta a schiacciare una blatta. Egli chiude il paz-zo perché non sa che farsene. Non ha domande da porgli e an-cor meno vuole provare a sentire quelle frasi sconnesse. Tutto diventa confuso di fronte ad un pazzo. Nulla sembra poggiare su qualche assisa, ma restare sospeso in un’altalena oscillante radicata nella mandorla della mente. Il ben pensante scopre di fronte al pazzo che la sua mente non è che un fantasma. Ma il ben pensante non ama i fantasmi, egli è nato per non vedere che ciò che esiste, come potrebbe lui credere di vedere fanta-smi. E per questo motivo, come chi si toglie un ricordo fune-sto, allontana da sé il pazzo, confinandolo in aree riservate alle procedure di assoggettamento e proscrizione medicali. Cavia della ragione, il pazzo intanto vive soggiornando in casermoni in cui vengono spacciate droghe per abortire le loro menti da pazzo. Un tempo l’elettroshock sortiva i suoi effetti. Ogni volta che un pazzo si risvegliava aveva l’impressione che gli avesse-ro strappato un’anima, ossia un corpo. Ora la buona ragione fa i suoi progressi. Esistono sostanze che agiscono direttamente con i neurotrasmettitori, e anziché andare a scaricare dei watt direttamente sul cranio del paziente - che del resto costa troppo in bollette all’amministrazione - si passa all’ingerimento o inie-zione di reagenti chimici capaci di ottundere la mente fino allo stato di catalessi, dal quale colui che si risveglia si sente come se gli avessero strappato un’anima, ossia un corpo. Immaginate la situazione del pazzo. Nella sua mente tutto si svolge nella ma-niera più chiara e palese, per lui niente di folle in ciò che dice e pensa, tutto è in ordine nella sua mente. Ma quelle sue parole, per un motivo o per un altro - sarà il tono, il volume, gli accenti - spaventano le orecchie degli ascoltatori. Questi, avendo visto il demonio in persona, si premurano col sortilegio, e comin-ciano a gridare sulla faccia del pazzo che tutto ciò che dice non ha senso, è follia, è solo vaneggio ecc . Il pazzo diviene allora una specie di Giobbe; com’egli si sente puro e sano, ma dal momento che gli altri lo indicano come peccatore, egli ricade nel caso paranoico dell’internato psichico, ossia del carcerato per crimine verso la salute pubblica.

AL D I Là D I CARTESIO E FOUCAULTI L C O G I T O C O m E A b I T O S I S C E N A

La follia sembra non aver parola. Qualunque lettera ver-gata che si pretende portatrice di un discorso, è di col-po l’assestamento al mutismo di ogni follia. Non si dà

discorso folle. Il folle per sua natura è colui che non è capace di spiegarsi. Le sue grida e i suoi gesti incomprensibili (che vengono poi logicizzati dalla medicina al rango di segni pa-tologici) non hanno spazio tra gli scaffali del buon senso. Ma si fraintende spesso sul ruolo della follia. Folle non è solo co-lui che si lascia catturare dalle grinfie igieniche del servizio sanitario nazionale. Vi è un’altra maniera d’esser folli, sgatta-iolando surrettiziamente da psicofarmaci e elettroshock. Vi è la doppia finzione nella mente del folle. Quando il folle perde la logica e quindi la possibilità al discorso, egli può ri-trovare una via d’uscita, mantenendo tutti i privilegi e il pre-stigio della follia, senza però lasciarsi prendere al lazzo. Ci sono di quei pazzi nei manicomi che si credono dei novelli Napoleone e dietro le loro celle di isolamento rimeditano va-ghe nostalgie da una Sant’Elena fortificata nella loro mente. Il problema d’una tale follia è il fatto che si dimentica che la storia è storia appunto, racconto e che Napoleone non è che uno dei personaggi di cui un folle si può vestire. L’errore di chi finge d’essere Napoleone è il fatto di arrestare la sua follia, di voler diventare normale, identificandosi. Già, perché tutto il pregio della follia deriva dal fatto di potersi disidentificare (si passi con clemenza su un tale neologismo). Non somi-gliare a nessuno, soprattutto a se stesso. Il folle può essere tutto, ma per essere tutto deve aver abdicato a se stesso. Una sorta di teologia alla Meister Eckhart, elimina l’IO per far spazio a DIO. Il folle se è riuscito con un tour de force, che dal baratro dell’irragionevole l’ha portato alla béance d’una sovraragione umanoide (il divino ne è la soglia), a liberarsi dalle paranoie e a farla infine finita col proprio io circuito e castigatore, si accorge che lui non manca certo di ragione, ma s’avvede che di ragioni ve ne sono quante se ne vogliono avere. Egli può imparare a indossare le più diverse ragioni, tenendo persino fede al principio di non contraddizione, grazie alle circonvoluzioni che le sue catene di ragioni, in-scenate in un cabaret mentale che mescola il gioco d’azzardo alla meditazione avvisata di un’allucinato, gli permettono d’allestire. Un medico provetto obietterà che a questo punto non si può più parlare di follia, che un folle che riesce a fin-gere è guarito e potrebbe persino avere una proficua carriera come attore. Ma solo perché il medico provetto crede che la finta operata dal folle che doppia la sua follia, sia deliberata e dovuta a una attenta disamina e ponderata riflessione. Il folle pensa come un tappo di bottiglia galleggia su un corso d’acqua. Nulla è deliberato, sono le correnti a dargli la spinta. Nella sua testa, ma questo raramente lo dice a voce alta o di fronte a sconosciuti, quelle correnti che lo muovono hanno un suono, delle voci, bianche, femminili, che come dei sibili biforcuti dietro i lobi delle orecchie lo guidano tra nugoli di solletichii. La possessione non può essere controllata, ma è possibile apprendere a non esorcizzarla, ma farne una guida sapiente che indichi tra rapti e volteggi le infinite ragioni di cui ad ogni istante il folle può riempirsi la testa, tanto da potersi fingere ben più ragionevole di qualsivoglia Cogito.

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L E T T E R A V ( s e c o n d a p a r t e ) - F E U I L L E T O N - T R U C D E S D I N G U E S

confusi in una zona mediana, che è la soglia della sospensione. Arrivati a quel culmine, e io e il mio partner, emettendo un grido di goduria che straripa direttamente dal fondo del pneuma, ci ri-troviamo di colpo catapultati nei nostri corpi, come fuoriuscendo da una bolla di pienezza, e a quel punto sentiamo rifluire attra-verso i nostri sospiri la fatica e la magnificenza di questi nostri corpi, nei quali è sigillato il segreto intimo del cosmo intero. Io, poi non mi perdo d’animo, e ancora allettante e umida, infliggo al mio partner una definitiva fellatio, che lo mette fuor di sé à jamais.Ma parlandoti di queste cose, che solo a te posso raccontare con tanto candore e senza il bisogno di dover arrossire e vergognarsi del proprio piacere, non ti ho detto nulla di come è andata a finire con Joseph. Ma te ne parlerò un’altra volta, ora non ho proprio voglia di ripensare a quelle sue considerazioni sull’umanità. Sto

sorseggiando una tisana che la mia piccola cuginetta Panacea ha raccolto oggi in giardino. è proprio una graziosissima bambina, ha negli occhi quella sorta di ottusa cecità e vigore che distingue il tempo della sua età. Corre e non smette di correre da tutte le parti, e chiedere cos’è questo e cos’è quello, e perché si e perché no, trepidante quando si prepara una passeggiata fuori città. E te la procurerò questa tisana, chiederò a Chaniwa, di metterne a seccare delle bustine, e te le manderò per espresso. Il suo ef-fetto è veramente benefico. Ti rilassa completamente la tensione intrascapolare, poi ti distende tutti i muscoli trapezoidali dietro la nuca, e ti sommerge la sensazione d’una sonnolenza, che però è attiva, che non dorme, ma sogna ad occhi aperti. Solo che non è come in sogno, non c’è l’incoscienza del dormiente. Ma una coscienza risvegliata che contempla assorta il divenire degli acci-

denti, delle immagini che ti pensano. Ma basta, mi sembra d’an-noiarti con questi dettagli. Avrei voluto anche parlarti di René, alla fine Simone ha avuto modo di presentarci, ma sarà per una prossima volta. Ora devo proprio lasciarti, sono quasi le cinque e io alle sette devo essere puntuale al corso di Mibu-kyogen. Spero di poterti scrivere già stanotte. Tanto sarà un’altra delle mie notti di veglia. A presto mia cara, e ricordati di ringraziare Cassandra da parte mia, per quelle parole che ha aggiunto in calce alla let-tera che ho ricevuto stamattina. Io non avrò modo di reincon-trarla prima che lei riparta, quindi ringraziala sinceramente da parte mia e falle avere il cartoncino che allego a questa lettera. Niente da nasconderti, certamente, dentro il cartoncino ho scritto un souvenir, o come dire, una poesia, di cui lei è stata mia musa, perché m’ha permesso di ricordarmi di quelle serate stupen-

de che abbiamo passato come in esilio, con lei che più bella tra tutte le figlie del Duca de Priamo, mi sobillava - il lobo del mio orecchio tre le sue due labbra strette - delle seducenti profezie. Ma so che moriresti comunque dalla voglia di leggere questo mio cartoncino, e che ti arrischieresti fino a staccarne il sigillo in cera-lacca, così, nella stessa lettera ti faccio avere un po’ della mia lacca rosa all’aroma di Papa Meilland, e la copia d’un mio vecchio sigillo cilindrico. Quindi dopo aver sbirciato il cartoncino, assicurati di sigillarlo come si deve. Ora devo proprio andare, vedo Claire e Solange che mi fanno dei gesti prepotenti e mi ricordano che il tempo passa, ed io devo proprio andare. Un bacione a te e al rosa.

La maladie es t un état . / La santé n’en es t qu ’un autre, / p lus moc he. / Je veux dire plus lâc he et p lus mesquin . / Pas de malade qui n’a i t grandi . / Pas de bien por tant qu i n’a i t un jour t rah i , pour n’avoir pas vou lu être malade, / comme te l médecins que j ’a i subis . /// J ’a i été malade toute ma v ie et je ne demande qu’à cont inuer. Car les états de ppr ivat ion de la v ie m’ont tou jours rense igné beaucoup mieux sur la pléthore de ma puissance que les crédences pet i tes-bourgeoi-ses de: / LA BONNE SANTE’ SUFFIT. /// Car mon être es t beau mais affreux. E t i l n’es t beau que parce qu’ i l es t affreux. / Affreux, affre, cos t r u i t d ’affreux. / Guér i r une maladie es t un cr ime. / C’es t écraser la tête d’un môme beaucoup moins c h ic he que la v ie. / Le la id con-sonne. Le beau pourr i t . /// Mais, malade , on n’es t pas dopé d ’opium, de cocaïne ou de morphine. / E t i l faut aimer l ’affre/ des f ièvres, / la jaun i s se et sa perf id ie / beaucoup plus que toute euphor ie. ///

Alors la f ièvre, / la f ièvre c haude de ma tête, / - car je su i s en état de f ièvre c haude depuis c inquante ans que je su i s en v ie, - / me donnera / mon opium, / - cet être, - / ce lu i , / tête c haude que je serai , / opium de la tête aux pieds. / Car, / la cocaïne es t un os, / l ’héro ïne, un sur-homme en os, / ca i t ra la sara / ca fena / ca i t ra la sara / cafa / et l ’opium es t cet te cave, / cet te rac lure / de sperme en cave, / cet te excrémat ion d’un v ieux môme, / cet te dés in tegrat ion d’un v ieux t rou , / cet te excrémat ion d’un môme, / pet i t môme d’anus enfou i , / dont le nom es t : / merde, / p ip i , / con-sc ience des maladies. // Et , opium de père en f i , // f i donc qu i va de père en f i l s , - / i l faut qu ’ i l t ’en rev ienne la poudre, / quand tu auras b ien souffer t sans l i t . /// C’es t a ins i que je cons idère / que c ’es t à moi , / sempi ternel malade, / à guér i r tous les médecins, / - nés médecins par insuff i sance de maladie, - / et non à des médecins ignorants de mes états affreux de malade, /à m’ imposer leur insu l inothérapie, /santé / d’un monde / d’avac h i s .

CASTIGOL A p E N A è L ’ I S C R I z I O N E D E L L A L E G G E

In alcune case penali si trova l’umiliazione del piegarsi in avan-ti per ricevere le vergate di punizione. Così come può essere richiesto di mettersi in posizioni umilianti, possono venire

imposte reazioni verbali altrettanto umilianti. Ne è un esempio il tipo di deferenza e di rispetto che si esige nelle istituzioni totali; gli internati sono spesso obbligati a definire il tipo di rapporto sociale che li lega allo staff con espressioni di deferenza, come quella del rivolgersi loro chiamandoli «signore». Altro esempio è il dover implorare, importunare o domandare umilmente per poter ot-tenere piccole cose, come accendere una sigaretta, un bicchiere d’acqua o il permesso di usare il telefono. In corrispondenza alle umiliazioni verbali o alle imposizioni di atteggiamenti particolari fatte all’internato, vi sono anche umiliazioni prodotte dal modo in cui gli altri lo trattano. Gli esempi classici sono espressioni verbali o gesti di dispregio: lo staff o i compagni chiamano l’internato con nomi osceni, lo maledicono, mettono a fuoco i suoi lati negati-vi, lo prendono in giro, parlano di lui o di qualche amico come se non fosse presente alla conversazione. Qualunque sia la forma o l’origine di questi diversi tipi di umiliazione, l’individuo deve sempre impegnarsi in attività le cui implicazioni simboliche sono incompatibili con il concetto che egli ha di se stesso. Un esem-pio più frequente di questo tipo di mort i f icazione, lo si vede quan-do viene imposto all’individuo un ciclo di vita gior-naliera che egli considera estra-neo - ciò per poter fargli assumere un ruolo in cui non abbia ad identifi-carsi. Nelle prigioni, l’impossibilità di aver rapporti eterosessua-li può indurre la paura di perdere la propria mascolinità. Nelle istituzioni militari il lavoro apertamente senza senso che i soldati sono costretti a fare con enormi fatiche, può far sentire che il loro tempo e i loro sforzi sono del tutto privi di valore. Nelle istituzioni religiose vi sono regole particolari tendenti a garantire che tutti gli internati assolvano, a turno le mansioni più servili del loro ruolo di servi. Un caso limite è l’abitudine - tipica dei campi di con-centramento - di richiedere ai prigionieri stessi di occuparsi delle frustate da dare agli altri prigionieri. Esiste inoltre un’altra forma di mortificazione nelle istituzioni totali: una sorta di «esposizione contaminante» che incomincia al momento dell’ammissione. Nel mondo esterno l’individuo può contare su oggetti che gli danno un sentimento di sé - il suo corpo, le sue azioni immediate, i suoi pensieri, ciò che possiede - il tutto libero da contatti con elementi estranei e contaminanti. Ma nelle istituzioni totali questi territori appartenenti al “sé” sono violati, la frontiera che l’individuo edifi-ca fra ciò che è e ciò che lo circonda è invasa e la incorporazione del “sé” profanata.Per prima la violazione della difesa del proprio mondo privato. Al

momento dell’ammissione sono raccolti e trascritti in un dossier accessibile allo staff, i riferimenti alla condizione sociale dell’in-ternato, al suo comportamento passato e in particolare i fatti più screditanti. Successivamente, nella misura in cui la esplicita finali-tà dell’istituzione consiste nell’alterare le tendenze alla propria determinazione personale dell’inter-nato, vi possono essere confessioni di gruppo o individuali - di carattere psichiatrico, politico, mi-litare o religioso a seconda della natura dell’istitu-zione. In queste occasioni l’internato è costretto ad esporre fatti e sentimenti relativi al sé ad un pub-blico che gli è estraneo. Gli esempi più clamorosi di queste costrizioni ad «esporsi» vengono forniti dai campi di confessione comunisti e dalle riunioni con denunce di colpa nelle istituzioni religiose cat-toliche. Le dinamiche di questi processi sono state esplicitamente considerate da coloro che lavorano nella cosiddetta «socioterapia d’ambiente». Un pubblico in un certo senso estraneo, non soltan-to viene a conoscenza di fatti che abitualmente si tende a nascondere, ma si trova nella possibilità di

percepirli direttamente. I detenuti e i malati men-tali non possono impedire che i loro visitatori li colgano in circostanze umilianti. Un altro esempio è la targhetta per l’identificazione del luogo di pro-venienza, applicata sulle spalle dei prigionieri nei campi di concentramento. Durante le visite medi-che e di controllo l’internato è spesso obbligato a denudarsi, talvolta di fronte a persone di entrambi i sessi; un’umiliazione simile viene imposta quan-do si è costretti a dormire in dormitori collettivi o a servirsi di gabinetti senza porte. Forse un caso limite può essere quello del malato mentale auto-distruttivo che viene completamente denudato, in vista di ciò che è ritenuto il suo «bene», e rinchiuso in una cella con la luce costantemente accesa, dove chiunque passi nel reparto può spiarlo attraverso la grata. Natu-ralmente l’internato non è mai, in genere, completamente solo; è sempre a portata d’occhio o di orecchio di qualcuno, anche se si tratta soltanto di un altro ricoverato. Le celle in uso nelle carceri, con sbarre al posto del muro, sono un perfetto esempio di questo

genere di esposizione. Forse il tipo più ovvio di questo esporsi contaminante è di natura fisica - la contaminazione e la violazio-ne del proprio corpo o di qualcosa di strettamente identificabile con il sé. A volte ciò implica una rottura degli ordinamenti che

servono abitualmente a distanziare la fonte della propria conta-minazione, così come il dover vuotare i propri bisogni o dover subordinare la propria evacuazione ad un orario stabilito, come per esempio nelle carceri politiche cinesi.

A L L E G R I , L A C E R A T O R I ! E C C O U N A N U O V A T U T A C O m p L E T A m E N T E A U T O m A T I C A !

V E S T I T O T U T T O I N T E R O , D I S E G N A T O E D E S p E R I m E N T A T O D A I S T I T U z I O N I p E R p A z I E N T I ER I T A R D A T I m E N T A L I . I m p E D I S C E L ’ I m p U L S O A S p O G L I A R S I , R E S I S T E A L L E L A C E R A z I O N I .

S I I N F I L A D A L L A T E S T A . N O N O C C O R R E R E G G I S E N O O A L T R O S O T T O I N D U m E N T O .A U T O m A T I C I A L L ’ I N C R O C I A T U R A p E R A N D A R E A L G A b I N E T T O . p I A C E V O L I m O D E L L I I N D U E

C O L O R I , C O N S C O L L O R O T O N D O , A V O Q U A D R A T O . N O N S I S T I R A ”

Page 4: WOM - ANNO I - NUMERO 7

COLLABORAZIONISTI: Antonin Artaud, Les malades et les médecins. Erwing Goffman, Asylums. Marpa, La vie de Marpa. Daniel Paul Schreber, Memorie di un malato di nervi.

UNA mENTE WINNEbAGOV E N T O , b U F A L I , p R O F E z I E

La mente è un campo di bat-taglia, diceva un vecchio capo Winnebago, vi soffiano i venti. E’ come una prateria battuta dai venti, sopra scorrazzano man-drie di bufali. Nel loro gergo non esiste una prateria senza vento e bufali. Senza il vento e i bufali la prateria è solo un luogo metafisi-co, ma non esiste. Per gli indiani Winnebago la mente allo stesso modo non esiste come stato cri-stallino. Sempre nella mente vi è un vento che spira e dei bufali che quieti o alla carica, scorraz-zano e brucano. Il vecchio sem-brava insistente al microfono dell’antropologo in visita, non v’era una mente placida e lucida.

Il delirio del voler capire tutto e carpire dio in una formula, era solo una vanagloriosa illusione dei bianchi. La mente non po-teva carpire che ciò che riceve-va dai venti. E i venti non erano solo quelli stagionali, ma erano pure delle voci che filtravano nella mente, le voci dei morti, le voci di coloro che c’hanno parla-to, delle voci mute che tornano a parlare e infinite altre forme che con una geometria para-cubista ante litteram et tempo, erano scolpite sul palo conficcato al centro del villaggio, che serviva da palo sacrificale e per i riti del fuoco. Tutti mangiavano al pran-zo comune. Dal sovrano al paz-zo, tutti avevano il proprio pasto. Il pazzo veniva spesso utilizzato, quando non aveva doti profeti-

che, per spaventare le mandrie, con le sue grida metterle in fuga, spingendole verso le trappole preparate dagli altri. In ogni vi-ver superiormente, l’uomo si è fatto tutt’uno agli altri esseri che lo sostengono e che egli ammaz-za e rispetta per il sostentamento recatogli, e trova per ogni suo si-mile il luogo a lui naturale. Non v’erano delle capanne adibite a manicomi, i pazzi ad esempio, quelli furiosi, quando ve n’erano, venivano considerati un segno funesto, e venivano sacrificati sull’altare in una cerimonia spe-ciale che prevedeva l’antropofa-gia come conclusione eucaristi-ca. Quando gli indiani espellono,

sanno di espellere qualcosa di diverso. Solo il diverso è espul-so, l’identico è identico appunto perché a sé prossimo, mentre di-verso è l’allontanato, l’altro. Dio è diverso, egli non fa parte di nessuna identità. Così gli indiani quando espellono qualcuno dal-la comunità, sanno ed eviden-ziano col rito che l’espulsione è l’espulsione di Dio. Quando poi invece il pazzo presenta delle doti canore o versificatorie o affabulatorie, o qualunque altra tecnica e arte sappia egli inven-tarsi, anziché usarlo per spaven-tar bufali, si riconoscono in lui le doti del creatore, e lo si ascolta a sera attorno al fuoco, mentre egli lancia segni tra le fiamme e racconta agli uomini le storie scabrose degli dei e degli spiriti.

I N m E m O R I A mQuaderni d’internamento

Stralci da un’anima suicidata(Freud) - “Il rispetto per il morto, rispetto di cui questi non ha nessun bisogno, ci sembra

come superiore alla verità e a molti di noi come superiore anche alla considerazione

che noi dobbiamo ai viventi”

In principio c’erano gli occhi, di quelli da pazzo, sgranati e fissi al cielo. Guar-dando il suo cielo, non quello di fronte

agli occhi, ma quello che sta dietro - all’”in-terno”, un interno che comprende tutto, pure l’esterno.Occhi di pazzo, o occhi di santo mistico, o occhi intellettuali in piena attività. Non, non un intellettuale, un cardiaco, un cardia-co che ascolta il suo cuore. L’intelletto dov’è? Cos’è? il cuore, si sa dove sta, si sa cos’è. Non ti è mai successo di sentirlo palpitare nel pollice o nelle cosce? E’ ovunque. Non ti è mai successo di sentirlo battere la chamade senza poterlo calmare? E’ là, ovunque e ci fa spasimare, ci sfiata, ci fa amare, ci violenta, ci fa vivere. Ma l’intelletto cos’è? Connais pas!

In principio c’erano degli occhi da cardiaco che si rivoltano verso l’interno-tutto-cuore e che ascoltano. Gli occhi ascoltano. Questo fila, questo defila, qua di ingarbuglia, là si sbroglia, ride, piange, cerca, si perde, si ri-trova, si smarrisce. Ma come sono arrivata qua? Allora, riavvolgiamo e riascoltiamo i passaggi. Ah, è logico. è normale, non sono pazza. Occhi da cardiaco, semplicemente. Occhi da cardiaco che ascoltano, che riav-volgono, che riascoltano. “Vou n’êtes pas malade, vous êtes seulement trés sensible.” Ecco la diagnosi. E per i medicinali? Cal-manti mattino, meriggio e sera, concentrato di spinaci una volta la settimana e benda-tura delle due anni dal primo mattino, so-prattutto ben spesse le bende, e per finire una spalmata di cuoio, rosso di preferenza. Voilà. Pronto, parato per la difesa e l’attacco delle sensazioni? Non merci. La mia terapia sarà a base d’ascolto, riavvolgere e riascol-tare. Cuore, perché la sola cosa che tu sai fare, è battere, allora batti. Approfittiamone perché un giorno tu dovrai fermarti e i miei occhi non avranno più nulla d’ascoltare. Adesso t’ascoltano. Allora, esprimiti!

Occhi che guardano. Troppi occhi che guar-dano. E soprattutto una vittima che si sente guardata, lavorata, squartata dagli occhi... fino a perderne i suoi propri d’occhi. Non più vedere d’altro che la paura e lasciarsi an-dare à la merci dei propri aggressori, i soli che vi accostano e contro i quali il grido del rivoltato non poté più fuoriuscire, la bocca

non schematizza più che un triste sorriso di compiacenza paurosa, una smorfia malde-stra che dovrebbe addolcire l’avversario... ma parla! parla dunque! Solo le parole pos-sono ridarti fiducia e scacciarli, o almeno domarli, perché queste belve feroci così sel-vagge possono essere domate, possono pure diventare delle bestie da circo per offrirti uno spettacolo dei più grotteschi. Giocaci, povero cadavere scheletrico, e tu ritroverai il tuo colore vivo, i tuoi occhi e il tuo buon sorriso. Giocaci, parlaci, esprimi ciò che ti rode il fegato. Non trattenerlo per te, non espellerlo con una impulsività incredibile ma posa le parole, le une presso alle altre, seguendo il tuo soffio che si farà sempre più leggero, più calmo, come una canzone le cui parole scorrono le une le altre per il loro ritmo e melodia. Un armonia cantante, una armonia parlando a quei demoni.

(Laclos) - “Je t’assure que le monde n’est pas aussi amusant que nous l’imaginons”

Il silenzio del mistico è dovuto al suo parla-re ad un pubblico infinito, dio, che tutto gli suggerisce. Dio è il suggeritore del mistico e suo spettatore.

Le nostre parole ci vengono sussurrate alla bocca.

Vuoto egocentrico, m’apro come un varco e risucchio le cose che m’attraversano. Non resta campo per la possessione, tutto è uno svanire nel momento del stringere la mano, svanisce nella presa la mano. Il corpo non mi possiede: mi stacco la mano con un mor-so nell’istante dell’immediato, è una spinta al successivo. Respiro l’asma del respirare successivo. Mi circola il sangue in aritmia, il pulsare, anche, è quello successivo. Sono posto al centro come un vuoto mancante che risucchia tutto il vorticare che forma sé stesso. Dio in assorbimento costante della propria produzione. E l’immobile si fa velo-cità, movimento, scatto, affanno. Dio è l’af-fanno di se stesso. E’ un dio faccia a faccia. L’ovvio del cerchio. E’ un infinitesimale ano che evacua il sé stesso che riceve dal dio al-tro che egli è. Evacua ingoia evacua.

L’odore del macello e della carne.

Vivo per pura vanità.

Credo in una sola istituzione: il mattatoio. Devoto dell’inconsistenza. Ogni pensiero parola non è che citazione.

Nessuna medicina è buona perché i nostri sintomi cambiano come noi stessi ad ogni istante. Il solo rimedio possibile, è d’ascol-tarsi ad ogni istante. Essere se stessi al pro-prio ascolto e scegliere in ragione di ciò quello di cui abbiamo bisogno, tale potreb-be essere - se ve ne fosse una - la soluzione.

“Tous les démons de notre vie sont peut-être des prncesses qui attendent de nous voir beaux et courageux toutes les choses terrifiantes ne sont peut-être que des cho-ses sans secours qui attendent que nous les secourions”

Ho paura di non avere più il controllo di ciò che faccio? E’ per questo che rifiuto le punture e i medicinali? E’ il modo in cui mi vengono somministrati che non mi garba. Se io chiedo “che cos’è?”, la risposta è “Zitta e bevi”.

Io odio questa medicina che non prende alcuna cura dei suoi malati.

Una notte, eccomi prigioniera, polsi e cavi-glie legati... per, sempre e ancora, farmi que-sta puntura. Al mio risveglio, una vecchia paziente mi dice: “Tu mi hai rubato il letto”.

Non posso continuare a vivere in questa at-mosfera da malati. Anche le belle giornate qui, il sole che ritorna, l’aria, tutto ciò non mi da più il gusto di niente. Tutti gli uomi-ni sono disgustati di tutto, non hanno più nessuna volizione, non più nessun gusto in ciò che fanno, non fanno delle cose che per abitudine. Non scoprono più nulla. Anch’io che scrivo non scopro nulla. Non faccio che scrivere ciò che ho solamente pensato ad un certo momento. E se l’ho scritto è perché qui, nessuno capisce, allora lo scrivo per dirlo almeno a me stessa.

Adesso solamente, ho bisogno, ho voglia di parlare. Dopo la crisi, dopo i pianti. Come la vita nasce dalle acque, le mie parole na-scono dalle mie lacrime. Ogni goccia è un dolore immenso ma corrisponde a una pa-rola che sarà pronunciata più tardi, quando il fiume sarà a secco, e non resterà che una trincea arida e piena di dolore passato e pieno di parole da uscire, da scoppiare per evacuare fin in fondo il dolore, i pianti non son stati che un passaggio, una transizione colante, sgocciolante tra gli occhi che hanno VISTO e la bocca che parlerà.

IN pILLOLEL ’ A N N U N C I A z I O N E

: segreto del corpo : della parola : del cuore degli dei

il soffio interiore è il cavallo dei bodhisattvas

frustato dalla compassione si aizza e devia il vecchio yakdal sentiero della follia

mEmORIALEDALLA CUCINA

DEL DIAVOLO

“- Bene, è quindi chiaro che Diosi preoccupa solo di ciò che è suo,si occupa solo di sé, pensa solo asé e vede solo sé; guai a tutto ciò

che a lui non è gradito! La sua causaè una - causa puramente egoistica.”

Max Stirner

Per concludere, ancora alcune osservazioni sull’egoismo di Dio. Per me è assolutamente fuori dubbio che Dio sia dominato dall’e-goismo in riferimento ai rapporti sussisten-ti con me. Ciò potrebbe sembrare adatto a confondere i sentimenti religiosi, in quanto in base a ciò Dio medesimo non sarebbe l’essere ideale dell’amore e della moralità as-soluta, quale la maggior parte delle religioni sono solite rappresentare. Ciononostante, se si considerano le cose dal punto di vista giu-sto, Dio non perde nulla della grandezza e della sublimità in lui insita e perciò devono essere riconosciute per fede anche dagli uo-mini. L’egoismo, in particolare nella forma dell’istinto di conservazione, che in certi casi costringe a sacrificare altri esseri alla propria esistenza, è una qualità necessaria di tutti gli esseri animati; non se ne può fare a meno, se gli individui in questione non vogliono pe-rire, e quindi in sé e per sé non appare come qualcosa di abietto. Dio è un essere vivente,

e perciò dovrebbe parimenti farsi guidare da spinte egoistiche, nel caso vi fossero altri es-

seri viventi che potessero creargli pericoli di qualsiasi genere o nuocere i altro modo ai suoi interessi. Se non si poteva parlare di egoismo di Dio, ciò si fondava soltanto sul fatto che, dati i rapporti corrispondenti all’Ordine del Mondo, non potevano esistere esseri del genere accanto a Dio e in realtà non sono esistiti, finché questi rapporti sono sussistiti con assoluta purezza. Ma nei miei riguardi le cose si sono messe ec-cezionalmente in modo diverso; dopo che Dio, tollerando le anime esaminate, cosa che proba-bilmente si collega a processi che hanno avuto come caratteristica l’assassinio dell’anima, si è incatenato a un singolo uomo, dal quale egli deve lasciarsi attrarre, ma solo controvoglia, ecco che sono dati anche i presupposti perché si sviluppi un modo di agire egoistico. Questo modo di agire egoistico è stato esercitato nei miei riguardi per anni interi con crudeltà e brutalità estreme, come soltanto può avvenire tra un animale feroce e la sua preda. Tuttavia non fu raggiunto un successo durevole, pro-prio perché Dio in tal modo si era messo in contraddizione con l’Ordine del Mondo, cioè con l’essere suo proprio e le sue stesse forze. Sicché questa situazione contraria alla regola, come io credo di poter supporre con sicurez-za, sarà liquidata completamente, al più tardi, con la mia scomparsa. Per il momento trovo immensa consolazione ed esaltazione nel pen-siero che l’antagonismo ostile, in cui Dio si è posto nei miei confronti, perde continuamen-te di intensità e la lotta condotta contro di me

assume forme sempre più concilianti, e forse finirà per trovare sbocco in una solidarietà perfetta. Questa è, come già si è detto prima, la conseguenza naturale del continuo e costante accrescimento della voluttà dell’anima nel mio corpo. Essa attenua la resistenza all’attrazio-ne; nel mio corpo, a brevi intervalli, si trova appunto ciò che, a causa dell’attrazione, si è dovuto cedere: la beatitudine ovvero la voluttà dell’anima, in altre parole un benessere totale dei nervi condannati a esservi assorbiti. In tal modo la periodicità del riavvicinamento viene in qualche modo abbreviata e così, a quanto mi sembra, Dio deve riconoscere a intervalli sempre più brevi che non è possibile “lasciar-mi perdere”, “distruggere il mio intelletto”, e che dunque ormai si tratta di rendersi la vita più piacevole possibile da ambedue le parti nel quadro della necessità ormai sorte a causa dell’attrazione. Quanto a me, anche quando, per le ragioni addotte sopra, ogni tanto sono stato costretto a recitare ad alta voce la parte dello schernitore di Dio, non ho mai nutrito sentimenti ostili a Dio; sarebbe una mostruosi-tà se un uomo, che ha conosciuto Dio, volesse dire qualcosa del genere. Perciò l’intero svol-gersi degli eventi appare, in base a quanto si è detto, come un grandioso trionfo dell’Ordi-ne del Mondo, a cui credo di aver contribuito per la parte modesta che mi compete. A nulla quanto all’Ordine del Mondo si può applica-re la bella frase che tutti gli interessi legittimi sono fra loro in armonia.