What It Takes - ebook gratuito

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GiveMeAChance Editoria Online What it takes L’amore è un cane che viene dall’inferno (Charles Bukowski) Domenico Paris www.givemeachance.it

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L’amore è un cane che viene dall’inferno

(Charles Bukowski)

Domenico Paris

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Tutti i diritti riservati La riproduzione parziale o totale del presente libro è soggetta all’autorizzazione scritta da parte dell’editore. La presente pubblicazione contiene le opinioni dell’autore e ha lo scopo di fornire informazioni che, benché curate con scrupolosa attenzione, non possono comportare specifiche responsabilità in capo all’autore e all’editore per eventuali inesattezze. GiveMeAChance s.r.l. – Editoria Online Viale Regina Margherita, 41 – Milano Febbraio 2013

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«No, dai, devi andarci tu. C’hai gli occhi meno rossi di tutti

e sai pure parlare bene.».

«Ma perché io! Mica sto così meglio di voi».

«Cazzate, guarda lì» indicando il mio volto smunto riflesso

in uno specchio della camera. «Un fiore sei. E poi lo

dicono tutti, pure mia mamma, che c’hai la faccia pulita».

«Ma faccia pulita di che, Bruno? Ma non lo vedi che sono

bianco come un morto?».

«E che c’entra? Quello lo sei quasi sempre, da un mese a

questa parte. D’altronde, co’ ‘sto fumo che gira… No,

guarda, devi andare tu, non ci può andare nessun altro. E

poi è anche San Valentino. Metti che ti viene a rispondere

una bella tipa e vi innamorate secchi…Ahahah!».

Bastardo!

Incidenti che possono succedere in una festa universitaria:

avvolgi il cavatappi, l’unico cavatappi della casa, intorno al

sughero della bottiglia di vino, e il canchero decide di tirare

le cuoia proprio in quel momento. Sei lì tutto concentrato a

tirar in basso le ali e, tac, senti un crepitare metallico

prima di ritrovartene una, la destra, tra le mani.

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Propongo di mandar giù il tappo con l’estremità di legno di

una cucchiarella, ma no, le padrone di casa temono che

possa frantumare in qualche modo la bottiglia. «E poi,

mica si può andar avanti tutta la sera a cercare di mandar

giù tappi con la cucchiarella, dai!» aggiunge cattedratica

una delle quattro (l’unica che conosciamo, tra l’altro).

Come al solito, mi manca la prontezza di riflessi di

risponderle sul momento. Cose del tipo: «Allora tira fuori

un altro cavatappi, dilettante di merda!», oppure: «Visto

che sei tu la padrona di casa, toccherebbe a te scendere,

trovare un bar e farti stappare tutte le bottiglie». Invece no,

me ne sto zitto a fissarla qualche istante, mentre quello

stronzo di Bruno Spigolo, amico di culla, nonché compare

di varie scorribande, le dà man forte giusto per farmi

incazzare un po’ di più e farsi due risate con gli altri nostri

sodali (Maurizio Pistracchi, Il “Comandante” Barbieri e

Ampelio De Spauracchis).

Insomma, come si suol dire dalle nostre parti, cominciano

a “mettermi a giro” con le loro chiacchiere, attaccando che

la prosecuzione della festa dipende dal mio buon cuore,

che tutti gli altri hanno fumato troppo per andare a

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citofonare e farsene dare un altro, che i miei capelli quasi

tutti bianchi comunque un po’ di rispetto lo suscitano, che i

rapporti con tutto il vicinato sono ormai pessimi a causa

degli schiamazzi notturni e, quindi, proprio non possono…

Alla fine, a furia di intortarmi tra risate, faccine, mossine e

roba varia mi convincono.

La padrona di casa suggerisce di provare o al quarto

piano, dove, dice, c’è una coppia al 17 di vecchini tanto

bravi; o, in alternativa, al sesto piano, al 25, dove ci sono

quattro studentesse. Chissà per quale motivo non sono

qua anche loro?

Caracollo fuori dal malandato portone di legno dell’interno

9 e mi ritrovo sulla rampa di scale del secondo piano.

Ascensore o scale? Il buon senso direbbe scale, sono

solo due piani fino al quarto, ma sono un tantinello “fatto”

e… no, dai, scale, scale. Appoggiandomi di peso al

corrimano, salgo e do una lieve citofonata al campanello

della coppia di vecchini tanto bravi. Ci mettono un sacco a

venire a rispondere e, dai rumori che sento, qualcuno sta

armeggiando con l’occhiello per capire chi sono. Allora,

penso sia buona educazione presentarmi in anticipo:

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«Salve, buonasera. Sono un amico delle vostre vicine,

quelle del secondo piano. Mi hanno mandato su a vedere

se per caso avevate un cavatappi da prestarci. Sa, quello

delle mie amiche si è appena rotto e…».

Non riesco a finire la frase, perché la porta si apre

all’improvviso, rischiando di centrarmi in piena faccia. Ne

esce fuori un semivegliardo in pigiama e vestaglia con la

faccia tutta rossa. Di rabbia, ci vuol poco a capire.

«Ah, gli serve ‘r cavatappi alle signorine, eh! Un corno,

altro che ‘r cavatappi! Je dica alle amiche sue che ‘a

prossima volta che fanno casino fino alle quattro de notte,

le facciamo sbatte’ fuori. Pietrosanti, quello che abita a

fianco a loro, ha già chiamato il padrone di casa per

avvertirlo e gli ha già mandato du’ vorte i carabinieri. Ma

come se fa! Ma non ve vergognate pe’ niente? Co’ la

povera gente che la mattina deve anna’ a lavora’!».

«Ehm, mi scusi ma io veramente non vivo qui e non so…»

provo interromperlo.

«Eh, ce lo so che tu non vivi qua, come se non ce lo so. E

mo’ me dici pure che tu sei bravo, che voi a casa vostra

fate i bravi e non li rompete i cojoni ogni notte, ve’?

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Peccato che io nun ce credo, ragazzi’! Siete tutti uguali,

voi studenti che venite da fori. Siete boni solo a fa’ casino

e a fa’ caccia’ i sordi ai poveri genitori vostri che se

pensamo che ve stanno a manna’ a studia’. Cor cavolo!

State sempre ‘mbriachi o drogati. Tiè, guarda pure tu

come c’hai ‘na cera!».

Quest’ultima battuta mi impedisce di rispondere come

dovrei e gli lascio la possibilità di lanciare un ultimo

affondo:

«Di’ alle amiche tue che ‘r cavatappi nun glielo do, perché

la devono fini’ di fa’ casino e perché io so’ padre e nonno

e non le posso vede’ quattro rigazzine che fanno come

fanno loro. E te lo dico pure a te: vedete de riga’ un po’ più

dritto, voialtri tutti. La vita è ‘na cosa seria, giovano’, mica

‘sta giostra che state a fa’ voi ogni giorno!» e su

quest’ultimissima chiosa, mi sbatte la porta sul muso.

Me ne rimango lì frastornato per qualche secondo, prima

di salire al sesto piano di questo tipico casermone del

Tiburtino, sperando che le quattro studentesse non siano

delle iene frigide e incattivite come spesso capita di

trovare. Certo, il fatto che non siano alla festa di quattro

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loro “colleghe” e condomine è piuttosto indicativo. Boh,

tanto ormai sono qui. Che mi potrà succedere?

Citofono al campanello e, come prima, ci mettono un fottìo

di tempo a venire a rispondere. E, sempre come prima,

qualcuno armeggia con l’occhiello sulla porta e mi spia.

Sto per riprendere il siparietto con la spiegazione sul

cavatappi, quando la porta, stavolta più delicatamente, si

apre. Mi ritrovo di fronte a una tipa enorme, a occhio e

croce il doppio di me. Anche lei in pigiama d’ordinanza e

anche lei con il grugno virato all’incazzatura.

«Ti mandano quelle deficienti del secondo piano, vero?»

esordisce.

«Ehm, sì. Se magari c’avete un cava…».

«No!» strilla. «Non c’abbiamo niente, a questa casa. Il

cavatappi! Sempre lì a fare bisboccia e a rompere l’anima

al prossimo! Ma non si vergognano per niente? Manco il

coraggio di venire su loro, a te ti hanno mandato! E tu che

ci sei pure venuto!».

«Ma veramente io non immaginavo che…».

«Le tue amiche, se ci tieni a saperlo, sono quattro stronze,

ecco cosa! Sempre a fare casino e qui non si riesce mai a

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dormire. E quando ci incrociamo per le scale, ti farei

vedere gli sguardi che ci fanno, le stronze! Soltanto

perché io e le mie coinquiline siamo quattro ragazze

normali che stanno qui a Roma a studiare e non a fare le

porcate che fanno loro!».

«Senti, mi dispiace, io…».

«Di’ un po’: ma tu te la prenderesti una di quelle? Ti

piacerebbe davvero avere una ragazza o una moglie

così?».

«Ma io…».

«Ma sì, sì che ti piacerebbe! Tanto voi maschi non capite

mai niente! Basta che respirano e vi fanno fare tutte le

porcate che vi passano in quelle testacce maledette!».

La situazione sta a dir poco degenerando e non so come

uscirne fuori. ‘Sta tizia, oltre che con le organizzatrici delle

festa, sembra evidente che ce l’abbia con il mondo intero

e che abbia un bisogno assoluto di strapazzare qualcuno.

Quel qualcuno, naturalmente, ora sono io. Va bene la

cortesia, va bene l’educazione, va bene la pazienza, ma a

tutto c’è un limite, no?

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Sto per organizzare una controffensiva orale degna,

quando compare sulla soglia, affiancandosi alla mia

insultatrice. A teatro, li chiamano “colpi di teatro”. Al

cinema non saprei. Quel che so è che a momenti ci

rimango secco.

Laura!

«Ho riconosciuto la voce con tutta la porta chiusa!» mi

dice sorridendo.

La sua coinquilina la guarda scandalizzata, imbestialita,

mentre sposta i suoi due metri quadrati di culo per

permetterle di entrare completamente nel mio campo

visivo.

«Sei sempre il solito, Mick. Il cavatappi!» e si sporge un

po’ per accarezzarmi una guancia e darmi un bacio

sull’altra.

Io la fisso, pietrificato manco avessi visto Medusa in

persona. E si creano alcuni istanti di silenzio che nessuno

dei tre sa come interrompere.

«Oh, ma che fai? Entra, dai. Sono tre anni e mezzo che

non ci vediamo. Non vorrai mica startene lì sulla soglia ad

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aspettare che ti porti il cavatappi e poi te ne scappi. No no,

caro. Ora vieni dentro e mi racconti qualcosa» dice Laura.

«Laura…» ancora non riesco a capacitarmi.

«Ah, allora lo conosci tu questo bel tipo, eh?» sibila la

walchiria incazzata, (evidentemente la coinquilina di

Laura).

«Sì, Wanda. E ti assicuro che di bei tipi come questo in

giro ce ne sono davvero pochi».

«Bah,» squadrandomi. «Se lo dici tu».

«Sì, tranquilla. Michele è proprio un bel tipo, ti assicuro».

La stronza pare finalmente essersi convinta e, seppur

riluttante e con uno sguardo di disappunto incollato al

faccione butterato, si fa più in là e mi lascia lo spazio per

entrare.

«Laura, mi raccomando fate piano che io sto studiando

economia politica e dopodomani c’ho l’esame. Altro che

quelle stronze del secondo piano, che si sentono tanto

fighe perché fanno Lettere e Psicologia. Pfui, che facoltà

di merda!».

In altre circostanze probabilmente avrei recuperato un po’

di presenza di spirito e, da più che discreto studente di

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Lettere, avrei ribattuto o quantomeno cercato di

argomentare. Ma tanta e tale e la sorpresa di ritrovarmi di

fronte Laura, da volatilizzare ogni proposito dialogico e

dialettico. ‘Fanculo, Wanda di merda! Tu e il tuo accento

alla Biscardi! Spero solo che tu sparisca nel volgere di un

secondo e non ti veda mai più per il resto dei miei giorni.

«Tranquilla, Wanda, tranquilla. Andiamo in camera mia

così non senti niente e non ti diamo fastidio. Buonanotte».

«Okay, buonanotte» e, urtandomi leggermente ma

intenzionalmente sulla spalla sinistra, infila una porta e

sparisce.

Laura mi guarda, soffoca una risatina e poi, prendendomi

delicatamente per la collottola tipo un gatto, mi guida

verso la stanza di fronte al portone. Quando siamo dentro,

si chiude la porta dietro le spalle e, liberando una risata

(che ora è talmente intensa da sembrare più una smorfia

perculatrice), fa due passi e mi abbraccia.

Laura Bellafonte! Roma, cinque milioni di abitanti (o forse

più), un milione di case, centinaia di quartieri, un fottuto

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labirinto e… eccola qui. Laura. Tre anni e mezzo dopo

l’ultima volta che ci eravamo visti. In Abruzzo.

Il profumo non è cambiato. Probabilmente, come sempre

ho supposto in lunghe, interminabili nottate a fissare il buio

in preda ai tormenti più terrificanti che l’amore possa dare,

deve essere proprio il suo corpo a emanarlo. Uno strano

incrocio tra una fragola e la camomilla (o almeno a me è

sempre sembrato così).

Me la trovo tra le braccia, con il mio naso che va a finirle

tra la camicetta e il collo. Mi basta buttare nei polmoni una

nuvola odorosa di lei per farmi passare,

contemporaneamente, sia la sbornia che la fattanza da

hashish. E farmi salire dritta sparata in ogni centimetro

quadrato del mio corpo una sensazione di incendio.

«Lo sai che hai sempre lo stesso buon odore, Mick?» mi

dice staccandosi.

«Anche tu» e lo dico con un groppo in gola che, credo,

renda la mia voce più cimiteriale di quella della buonanima

di Pete Steele dei Type O Negative.

Subito dopo riesco finalmente a recuperare un minimo di

cognizione psicologico-spazio-temporale e, mentre ci

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sediamo su un letto (ce ne sono due), do un’occhiata in

giro. La stanza è molto diversa da quella in cui vivo e da

quelle che sono abituato a frequentare. A parte la

mancanza di puzza di fumo -c’è un bastoncino di incenso

profumato che brucia sulla scrivania, tutto sembra ben

ordinato: le pareti, bianche e pulite, sono scevre da poster,

locandine e robe affini. C’è soltanto una foto di Laura al

mare che sorride e un’altra, che avevo visto anni prima, in

cui lei, bimbetta, sta in braccio alla madre. Armadi chiuse,

tendine ben sistemate, una lampada a forma di luna

accesa sopra il comodino, un paio di scarpe col tacco

vicino a un lungo specchio ovale. Ah, prima di ritornare

completamente sulla terra, mi accorgo anche che c’è una

mensolina con uno stereo in funzione sopra. Sta

suonando Angie degli Stones.

«Allora, come stai?» mi chiede accarezzandomi un

braccio.

«Bene, abbastanza bene. Oddio, sotto stiamo facendo un

po’ di festa, ma ancora riesco a connettere».

«Amico delle matte qui sotto, eh. E come ti sbagli! Ma

quando la finirai?».

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«Ho conosciuto Luisa a San Lorenzo qualche tempo fa

e… beh, oggi mi pare di aver capito che è il compleanno

della sua coinquilina e ci ha invitato».

«E tu mai che ti tiri indietro quando c’è da fare bisboccia,

eh!» scompigliandomi piano i capelli. «Ma stai studiando,

come va l’università, le altre cose?».

«Mah, bene, dai. Mi mancano sette esami e la tesi. Se

riuscissi a sfasciarmi un po’ di meno, fra un anno e mezzo

ce la potrei anche fare».

«E quelle cose tristi tristi che scrivevi, continui ancora a

scriverle?».

«Sì, più o meno. Forse sono diventate un po’ meglio, con

gli anni. Sai, uno, a furia di provare, ogni tanto riesce a

tirar fuori anche qualche periodo non troppo male».

«Ma non dire scemenze! Eri già bravo quando eravamo

ragazzini, figurati ora. Sai che ho ancora tutte, ma proprio

tutte le lettere e i biglietti che mi hai scritto? Anche quello

sulla carta igienica della scuola, te lo ricordi? Guarda».

Dio, no, ti prego, non tirarli fuori! Come diavolo…

Si allunga verso il cassetto del comodino, lo apre e tira

fuori una cartellina trasparente piena di fogli. Nonostante

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tutto il tempo che è passato e nonostante la cartellina,

riesco a distinguerne al primo sguardo perlomeno una

dozzina di cui ricordo, per filo e per segno, la febbrile

gestazione e la faticosa vergatura. Lei fa saltare il bottone

che contiene quel po’ po’ di “sudate e amarissime” carte e,

in cima alla pila di fogli, eccola spuntare, un tantino

stazzonata dal tempo ma perfettamente integra, la famosa

carta igienica completamente ricoperta su entrambi i lati

dalla mia scrittura.

Abbasso lo sguardo su quel groviglio di inchiostro e

cellulosa sottilissima e ricordo…

Il concerto dei Fearless e degli Utopia nell’aula magna del

liceo classico. Un casino di gente sotto il palco

improvvisato. Io che, sbatacchiato dal pogo selvaggio con

gli amici, vado a finire in un angolo e perdo gli occhiali. Io

che fortunosamente riesco ad evitare che qualcuno li

calpesti e li rinforco. Io che mi rialzo e vedo per la prima

volta Laura. In un angolo, a due metri da me, con i capelli

a caschetto e i ciuffi verdi che piange da sola. Io che

rimango immobile, senza fiato. Io, che non ho mai

neanche pensato una cosa simile in vita mia, che mi

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avvicino e tiro fuori un kleenex dai jeans e glielo do

cercando di sorridere. Lei che mi guarda e, asciugandosi

gli occhi, prova a sorridere anche lei. Poi, una corsa a

perdifiato verso i cessi della scuola. A buttarmi litri d’acqua

sul viso e a fumare una Marlboro rossa in quattro boccate

folli. Chi è, chi è, chi è! A torturare tutti quelli che trovo lì,

sperando che qualcuno mi dica chi sia. La penna

abbandonata sopra al dispencer del sapone. Io che la

afferro ammattito e mi chiudo una porta dietro le spalle.

Che abbasso la tavoletta del water e strappo un po’ di

carta igienica dal rotolo. E mi piego, quasi in ginocchio. E

comincio a scrivere, scrivere come un Kerouac forsennato

per paura di sprecare anche solo un istante. E ne vien

fuori un mezzo pastrocchio perché, oltre ad una calligrafia

in stampatello tremolante e qualche strappo, ho rovesciato

cento frasi che sono pazzesche e scollegate tra loro. Io

che rientro di corsa in aula magna e Laura è sempre lì. E

anche se non so cosa sto facendo, mi avvicino a lei e le

faccio scivolare quella roba nella borsetta, prima di

scomparire nel pogo selvaggio che i Fearless hanno

scatenato con la loro versione di Prowler degli Iron

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Maiden. Io che alla fine del concerto la incontro in un

corridoio e mi dice “grazie”. Io che, naturalmente, non so

che dire, ma comincio a parlare invasato da un lògos

violento e incontrollato che si è impadronito del mio corpo.

Lei che ogni tanto piange qualche altra lacrima e ride per

qualche scemenza che dico. E poi mi dice che ci vediamo,

anche se lei studia in un’altra scuola. Fuori, domani, in

quell’angolo di piazza. Io che andrei in Bhutan a piedi pure

se le strade fossero lastricate di chiodi e carboni ardenti

per rivederla. Io, io che ho scoperto che cos’è l’amore e

non sono più io…

«Mick, ma ci sei? Che hai fumato?» Laura mi riscuote

scuotendomi un braccio.

«Oh sì, scusami. Mi è ritornato in mente qualche

frammento di quando ti ho scritto ‘sta roba. Mamma mia

che accozzaglia di parole e pensieri allucinanti, eh!».

«Guarda, posso ammettere che nei mesi successivi mi hai

scritto cose molto più ragionate stilisticamente, ma questo

pezzo di carta igienica… Ti rendi conto di cosa ha

significato per me in quel momento?».

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«…».

«C’eri tu, tu e basta. E a quell’età i ragazzini, si sa, ci

mettono poco a lasciarsi andare. E io invece me ne tornai

a casa, non dico in pace, ma con la convinzione che il

giorno dopo ci sarebbe stato qualcuno su cui contare».

E le interminabili giornate a seguire, la primavera e

l’estate. I “nostri” posti sparsi negli angoli più remoti della

piazza, a parlare, confrontarci e abbracciarci per ore. E io

perso, andato, ammattito. Con la paura enorme che solo

quando ti dai veramente la prima volta ad un altro puoi

capire cosa sia. Che soltanto quando la vita non ha

sporcato ancora niente e tu sei puro può insinuarsi nelle

vene. E le lettere e i libri scambiati (quelli che ora, magari

ti fanno sorridere a ripensarci), i ciddì e le decine di

cassette registrate sul glorioso Sony che implorava pietà e

tu, più schiavista di un negriero del primo Novecento, che

l’obbligavi a srotolare sul nastro tonnellate di roba, fino a

quando non arrivava il disco giusto, la canzone giusta…

«Ah, e lo sai che ho ancora la maglietta dei Dream

Theater che mi hai regalato? Guarda».

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Apre l’armadio e rivedo anche quella, un po’ consunta ma

ancora fantastica: con la copertina di Awake su sfondo

nero, acquistata dopo il concerto al Palladium di Roma

con le sole ventimila lire che avevo in tasca. Senza

neanche mangiare per comprarla.

«Me la metto ancora, sai? Quando vado a dormire e,

qualche volta, anche d’estate dentro casa. Uscirci non mi

pare più il caso e poi, lo sai, di loro mi piaceva davvero

solo Wait for Sleep. Ti ricordi che bella?».

“Standing by the window, eyes upon the moon/ hoping

that the memory will leave her spirit soon…”

Dentro ogni notte, con il tasto repeat pigiato senza

soluzione di continuità, seduto-rannicchiato sul davanzale

della finestra a guardare (comunque) ubriaco la luna,

tremendamente tremando mentre i tasti di seta di Sua

Altezza Kevin Moore mi percuotevano i precordi cellula

per cellula… E poi, il giorno dopo, dopo averla vista, dopo

aver parlato, dopo averla abbracciata, cantare le strofe in

sala prove, una dopo l’altra, nell’ottima versione suonata

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da Saverio Polmoncini. E affogarci dentro con lo stesso,

inesauribile brivido…

«Mamma mia, che tempi! Belli, a ripensarci oggi che non

c’è più spensieratezza e questi maledetti esami alla

“Sapienza” ti levano la pelle!».

«Più che belli…» cazzo, sto per andarmi a mettere in un

vicolo cieco! Recupero un crisma di decenza proprio in

calcio d’angolo. «Lontani. Non so come la vedi tu, ma a

me sembra che tutto sia cambiato».

«Puoi dirlo forte!».

«No, cioè… volevo dire che, sì, è tutto cambiato come

viviamo, no? Tutte le cose che sono successe, che

succedono. Però, a livello di… spirito, sai che mi sento

sempre lì. Anzi, a dirti la verità non è poi cambiato un bel

niente».

«Sei sempre tu!» accarezzandomi il viso. «Ti si legge negli

occhi che sei sempre tu. Sono convinta che se iniziassimo

a parlare non ce ne andremmo mai a dormire, vero?».

«…».

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«E ne avrei di cose da dirti, mica una! In questi ultimi tre

anni e mezzo ne sono successe tante, di tutti i tipi. E di

sicuro, come allora, troveresti tutte le parole, tutti i gesti».

Ecco, ora muoio qui!

«Invece, sai, bisogna imparare a andare avanti, a

dimenticare. I gesti, le cose, le persone…»

Una mezza bottiglia di Johnny Walker nero e mezza di un

sidro costosissimo, a casa del fratello Apemanto De

Omofobicis. Fu quello che ci volle per trovare il coraggio di

confessarti, dopo sei mesi, quello che avevo dentro. Dopo

aver rifiutato i baci facili e le facili storie. La panchina della

piazza, alle sei spaccate di un pomeriggio a partire dal

quale ho cominciato a odiare l’estate. E la mancata

“corrispondenza d’amorosi sensi” che a diciassette anni

può starci, ma che in mano mia diventò Shakspeare ed

Euripide messi insieme. Perché, che ci vuoi fare, io sono

sempre stato io. E quell’unico bacio sulle labbra che ti detti

dopo, a fine giornata… Un freddo nell’anima che non è

andato più via.

«Certe cose belle, però, te le ricordi. Per fortuna, almeno

quello. Sai che ogni tanto mi rileggo qualcuna di queste?»

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appoggiando la mano sulle mie lettere. «Non ho ancora

trovato nessuna persona con la quale mi sia riuscita ad

aprire come è successo con te. In un certo senso, anche

se non ci siamo più visti per tutto questo tempo, ci sei

sempre continuato ad essere. Soprattutto nei

momentacci».

Il silenzio, dopo le parole importanti. E, inevitabile, ci si

allontana quando non si vuole la stessa cosa. E altre

persone, altre cose, altri modi di vedere. Perfino le

incomprensioni, le litigate. E poi Roma, l’università. Una

cesoiata definitiva alle redini dell’adolescenza e

cominciare a vivere un'altra cosa, un altro posto. Un’altra

vita. Forse.

«Sai che facciamo, Mick? Ora che sai dove abito, se ti va

t’invito a prendere un caffè o a pranzo e…».

«Ehm, non ho il telefono qua a Roma».

Perché sto dicendo questa cazzata? Perché?

«Madonna mia, cioè siamo nel 1999 e tu non hai il

telefono! E quando hai bisogno di chiamare qualcuno

come fai, vai alle cabine?!».

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«Beh, sì. Sulla Tiburtina -io non vivo molto lontano da qui-

ce ne sono diverse. E poi ci sono quelle della stazione, i

bar…».

«Sì sì, sei proprio tu. Matto! Peccato che sono già le dieci

e mezza. Domani, ho lezione presto, altrimenti rimanevo a

parlare per ore con te e da quelle casiniste del secondo

piano non ti ci rimandavo più, puoi giurarci. Ah, tra l’altro

tra un quarto d’ora dovrebbe chiamarmi anche il mio

ragazzo e, siccome sto incazzata persa con lui, non mi va

di farti sentire un’ora di strilli e insulti. Tanto va a finire di

sicuro così, altro che San Valentino la festa degli

innamorati!».

«Ehm, no, tranquilla. Magari prossimamente ci sarà

occasione, dai. Tanto ora so dove stai. Io, guarda, abito a

via Acciaresi 4, non è troppo lontano da qui. Non ti dico di

passare tu, perché casa mia è un porcile e c’è un casino a

tutte le ore. Però, se vuoi…».

«Dai» mi dice alzandosi dal letto. «Vediamo chi dei due fa

prima. Ah, in tutto ciò ci eravamo dimenticati del

cavatappi. Andiamo in cucina a prenderlo».

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Mi alzo a fatica anche io e, con uno sguardo panoramico,

abbraccio tutta la stanza senza ancora aver capito dove

sono. Roma, maledetta Roma…

Sto per muovere il primo passo quando il deejay di Radio

Rock…

«A San Valentino, non può certo mancare. Secondo molti,

è la più bella ballad di tutti i tempi. E chi sono io per dirvi il

contrario? Loro sono… The Aerosmith! What it takes».

Parte la breve rullata di Joey Kramer e il singulto

dell’ugola d’oro Steven Tyler fa da intro all’arpeggio pulito

e meraviglioso di Joe Perry…

Mi blocco e…

«Ti dispiace se prima di andare ci fermiamo a sentire

questa canzone?» le dico in un sussurro.

«Certo che no. Ti ricordi quel giorno che l’abbiamo sentita

sul mio walkman mezzo scassato?»

«Sotto un balcone perché…».

«…Perché stava facendo un temporale assurdo. Di

luglio».

«Sì, di luglio…».

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“Tell me what it takes to let you go/ Tell me how the pain’s

supposed to go/ Tell me how it is that you can sleep in the

night without thinking you lost/ Ev’rything that was good in

your life to the toss of the dice? Tell me what it takes to let

you go…”

«Poi dici che non mi ricordo mai niente. Te lo ricordi o no

che quel giorno mi hai detto che avremmo ballato questa

canzone a qualche festa, come due quindicenni scemi?».

«…» me ne ricordo ora e mi viene un brivido.

«Mantieni la promessa, dai. Vieni qui».

Mi prende per una mano e siamo al centro della stanza.

La luce è bassa e ha dei riflessi azzurrini che si riflettono

sul muro. Sento le sue braccia scivolarmi piano dietro la

schiena e la sua testa poggiarsi tra il collo e la mia spalla

destra.

Iniziamo a dondolare piano, allacciati, mentre le sue

ciabatte a forma di Pippo mi bloccano la gamba sinistra.

“Girl, before I met you I was F.I.N.E. Fine/ Love made me

a prisoner, yeah my heart’s been doing time…”

I Toxic Twins, con l’ausilio di una ritmica possente ma

delicatissima, entrano nel vivo della seconda strofa mentre

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l’odore di Laura mi arriva alle narici e mi fa tremare. Credo

se ne sia accorta perché mi stringe un po’ di più,

premendo più a fondo la guancia nell’incavo della spalla.

“Cause you had me in deep with the devil in your eyes…”

Devo piangere? O lasciarmi solo andare?

“Tell me what it takes to let you go/ Tell me how the pain’s

supposed to go/ Tell me how it is that you can sleep in the

night without thinking you lost/ Ev’rything that was good in

your life to the toss of the dice? Tell me what it takes to let

you go…”

«È bellissima. Ed è bellissimo che la stiamo ballando dopo

tutto questo tempo, Mick» mi dice.

Quando parte l’assolo con il wah wah di Joe Perry, non

posso fare a meno di stringerla più forte anch’io. Sento

che dentro di me qualcosa sta bruciando e ho paura di

non controllare la forza del mio abbraccio, di farle male.

Ma no, sono solo i soliti mostri della mia mente. ‘Affanculo

i mostri della mia mente!

Il piccolo bridge e di nuovo:

“Tell me what it takes to let you go/ Tell me how the pain’s

supposed to go/ Tell me how it is that you can sleep in the

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night without thinking you lost/ Ev’rything that was good in

your life to the toss of the dice? Tell me what it takes to let

you go…”

Solleva un attimo la testa.

“I don’t wanna burn in paradise…”

Questa volta sono io ad appoggiare la mia faccia sulla sua

spalla. E a chiudere gli occhi.

“Let it go, let it go, let it go…”

Lascia andare, lasciala andare…

«Loro erano i grandissimi… Aerosmith!».

La canzone è finita da qualche secondo e noi siamo

ancora lì, abbracciati stretti.

Le si stacca, delicatamente, mi accarezza con i polpastrelli

le guance e sorride.

«Come ballerino non sei un granché. Lo immaginavo.

Rigido neanche fossi un albero».

«Beh sì, non sono mai stato un granché, ma non potevo

certo dirtelo , no?».

Da dove mi venga questo tono squillante e vagamente

ironico non ne ho la più pallida idea.

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«Adesso andiamo a prendere quel cavatappi e tu te ne

ritorni ai tuoi bagordi, così io posso farmi questa bella

litigata al telefono e andarmene a dormire scontenta».

Nei film, sarebbe stato il momento di prenderla tra le

braccia e far fuori lo stronzo-fidanzato di turno con il “bacio

della vita” che rimette a posto il mio cuore, il suo e tutti i

cocci rotti del passato. Peccato che la vita non è un film e,

nonostante l’alcol, l’hashish, la commozione e tutto il

resto, riesco a rendermene conto prima di commettere un

errore che mi disintegrerebbe all’istante.

E questa la parte più brutta, forse: che quando diventi

grande, la prima cosa che fai è sopravvivere. Poi, per

quanto tu voglia, quel che viene dopo non è mai come

dovrebbe, come è scritto nel Dna. E nel tuo cuore. Ti

manca il folle, ti manca il sacro di quando ignoravi il limite

del “qualsiasi cosa accada” e amare una persona

significava buttarsi in un tunnel di rose senza pensare alle

spine che ti avrebbero potuto scorticare a sangue.

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Arriviamo in una cucina anch’essa pulita e ordinata come

non sono abituato a vedere quasi mai, se non quando

torno a casa in Abruzzo.

«Tieni» mi dice Laura passandomi un cavatappi di quelli

moderni che ha preso da un cassetto. «L’ho fregato

qualche mese fa a casa di una zia un po’ rinco che abita

qui a Roma. Tienilo tu, tanto qui ne abbiamo altri e due e

non li usiamo praticamente mai. Inutile dirti di non farne il

tuo giocattolino preferito, vero?»

«Vedrò di usarlo con parsimonia».

«Vedi di non fare lo scemo, piuttosto. E torna a trovarmi,

che ci facciamo una bella chiacchierata. Come ai vecchi

tempi».

«Come ai vecchi tempi, sì».

Mi accompagna alla porta e, prima di salutarmi, mi

abbraccia forte.

«Fai il bravo. E vedete di non fare troppo casino, altrimenti

qualcuno chiama di nuovo la polizia».

«Beh, dipendesse da me, me ne andrei anche senza

tornare giù. Ma sai com’è…».

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«No, vai a divertirti, ma stai attento. E… ce la farai mai a

toglierti quell’espressione triste dal viso?»

«Sembra?» azzardo cercando di darmi un tono.

«È. Non fare lo scemo con me. Abbi cura di te, Mick.

Spero di rivederti presto».

«A presto, La’. Grazie del cavatappi. E… del ballo».

«No, grazie a te. Anzi, che grazie! Me lo dovevi, no?»

baciandomi su una guancia e poi sull’altra.

«Te lo dovevo, sì. Buonanotte».

«’Notte, ciao».

La porta si chiude delicatamente e io, camminando piano,

uno scalino la volta, scendo al piano inferiore. Quando

sono sicuro che nessuno mi possa vedere e che Laura sia

andata via, lascio che le lacrime che mi scoppiano nelle

palpebre possano finalmente cadere giù. Per un minuto

buono, nel silenzio perfetto, solitario e immenso del San

Valentino 1999, mentre dai piani bassi (sicuramente dal

secondo piano) si sentono schiamazzi e qualcosa di vetro

che si frantuma a terra.

E poi riprendo a scendere.

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Autore: Domenico Paris http://www.givemeachance.it/autori/GMC-domenico-paris.php