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DIPARTIMENTO DI STUDI LINGUISTICO-LETTERALI, STORICO-FILOSOFICI E GIURIDICI

Relazione per il Corso di Diritto Penale progreditonel Corso di Laurea in Giurisprudenza, LMG-01

A.A. 2017/201813 aprile 2018

LA TUTELA PENALE DELL’AUTODETERMINAZIONE TERAPEUTICA

A cura di:

Lucia PaveseNoemi Renzoni

Relatore:

Dott. Nicolò Amore

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INDICE

Capitolo I

IL PRINCIPIO DI AUTODETERMINAZIONE TERAPEUTICA

1. Fondamenti giuridici della libertà dell’individuo di sottoporsi a trattamenti

sanitari............................................................................................................................................3

2. La legittimazione dell’atto medico e il principio del consenso

informato........................................................................................................................................5

3. I requisiti del consenso informato alla luce della legge 22 dicembre 2017, n.

219..................................................................................................................................................8

Capitolo II

LA TUTELA PENALE DEL DIRITTO DI AUTODETERMINAZIONE DEL PAZIENTE

1. Il problema degli atti medici compiuti senza il consenso o contro il

dissenso........................................................................................................................................10

2. La configurabilità del delitto di violenza privata e di lesione personale nei casi di atti medici

arbitrari e coatti............................................................................................................................12

3. Conclusioni..................................................................................................................................18

Bibliografia e Giurisprudenza............................................................................................................21

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Capitolo I

IL PRINCIPIO DI AUTODETERMINAZIONE TERAPEUTICA

1. Fondamenti giuridici della libertà dell’individuo di sottoporsi a trattamenti sanitari

La Costituzione italiana sancisce il primato della persona e dei suoi diritti fondamentali rispetto allo

Stato1, e lo fa anche attraverso la previsione di numerosi diritti di libertà, quali ad esempio la libertà

di domicilio (art. 14), di corrispondenza e di comunicazione (art. 15), di circolazione e di soggiorno

(art. 16), di riunione (art. 17), di associazione (art. 18), di religione (art. 19), di opinione e di stampa

(art. 21), ma soprattutto la libertà morale della persona2, intesa quale «libertà di autoconvincimento

e di interna autodeterminazione avverso qualsiasi condizionamento che incida sul formarsi del

proprio volere e sull’elaborazione di scelte ad esso corrispondenti: è, insomma, “piena libertà di

volere”»3. Se non fosse garantita la libertà morale, il singolo non potrebbe esercitare in modo pieno

ed effettivo le altre forme di libertà e i suoi diritti inviolabili4.

In questo quadro, il diritto all’autodeterminazione in ambito terapeutico interviene a garantire al

soggetto la libertà di compiere scelte autonome anche con riguardo alla propria salute. In

particolare, questa posizione soggettiva è ricavabile dall’art. 32 Cost., che sancisce appunto il

“diritto alla salute” della persona.

1 Come ricorda il noto Ordine del giorno del 9 settembre del 1946, presentato dall’On. Giuseppe Dossetti per sintetizzare il dibattito appena svoltosi in seno all’Assemblea Costituente: «La sottocommissione, esaminate le possibili impostazioni sistematiche di una dichiarazione dei diritti dell’uomo; esclusa quella che si ispiri a una visione soltanto individualistica; esclusa quella che si ispiri ad una visione totalitaria, la quale faccia risalire allo Stato l’attribuzione dei diritti dei singoli e delle comunità fondamentali; ritiene che la sola impostazione veramente conforme alle esigenze storiche, il cui nuovo statuto dell’Italia democratica deve soddisfare, è quella che: a) riconosca la precedenza sostanziale della persona umana (intesa nella completezza dei suoi valori e dei suoi bisogni non solo materiali ma anche spirituali) rispetto allo Stato e la destinazione di questo a servizio di quella».2 Essa discende dal combinato disposto dell’art. 2, il quale riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, dell’art. 13, che qualifica la libertà personale come inviolabile, e degli art. 8 e 7, che sanciscono i principi di pluralismo e laicità dello Stato. In linea generale, pertanto, per la nostra Costituzione ciascun individuo ha diritto di compiere le proprie scelte esistenziali senza subire interferenze né da parte dei pubblici poteri, né da parte dei singoli cittadini. (cfr. A. CAVALIERE, Introduzione ad uno studio sul paternalismo penale, in Archivio Penale 2017 n. 3, p. 10).3 La definizione è proposta da G. VASSALLI, Il diritto alla libertà morale, in Studi giuridici in memoria di F. Vassalli, II, Torino, 1960. cit., p. 1659. Nella ricostruzione di Vassalli la libertà morale (spesso definita come “libertà psichica”) avrebbe natura “composita” e non si esaurirebbe nella sola libertà di volere (da intendersi come “possibilità di scelta tra i vari motivi che suggeriscono all’individuo una condotta”: ivi, 1660); con quest’ultima, infatti, concorrono la libertà di coscienza in senso proprio (considerata cioè “nel suo aspetto puramente interno, oltreché spoglia di quella esclusività di riferimento al campo religioso alla quale spesso la sua enunciazione si accompagna”: ivi, p. 1661); il diritto alla libertà di pensiero (“ben distinto dal diritto alla sua esterna manifestazione e cioè inteso come diritto ad orientarsi con ogni possibile autonomia nella ricerca del vero e a non essere costretto ad abbracciare una verità imposta”: ivi, p. 1664); e la libertà della vita affettiva.4 V. Corte Costituzionale, n. 467 del 1991, in www.giurcost.org: «[…] poiché la coscienza individuale ha rilievo costituzionale quale principio creativo che rende possibile la realtà delle libertà fondamentali dell'uomo e quale regno delle virtualità di espressione dei diritti inviolabili del singolo nella vita di relazione, essa gode di una protezione costituzionale commisurata alla necessità che quelle libertà e quei diritti non risultino irragionevolmente compressi nelle loro possibilità di manifestazione e di svolgimento a causa di preclusioni o di impedimenti ingiustificatamente posti alle potenzialità di determinazione della coscienza medesima».

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Nessuna disposizione costituzionale fornisce un’esplicita e precisa definizione riguardo a cosa si

debba intendere per “salute”; al fine di attribuirle un significato univoco, che ne possa circoscrivere

i confini e l’ambito applicativo, ci si basa quindi sulle acquisizioni della scienza medica, che la

definisce oggi quale «uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non la semplice

assenza dello stato di malattia o infermità»5.

La Costituzione qualifica espressamente la salute come “diritto fondamentale”, tuttavia, per l’art. 32

la salute è non soltanto una prerogativa individuale6, ma è anche un “interesse della collettività”7, in

funzione del quale sarebbe possibile pure «giustificare la compressione di quell’autodeterminazione

dell’uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale»8.

Entrando nel merito del diritto di autodeterminazione terapeutica, l’art. 32, al secondo comma,

afferma: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per

disposizione di legge; la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della

persona umana».

Da una lettura combinata del primo e secondo comma dell’art. 32, si evince in primo luogo, che

ciascuno è libero di scegliere se sottoporsi o meno a trattamenti sanitari, accreditando dunque pure

l’esistenza di un “diritto alla non salute”, ossia il diritto per il paziente di rifiutare espressamente le

cure mediche, anche quando tale rifiuto comporti il rischio di un danno permanente o ponga in

pericolo la vita stessa. Nel nostro ordinamento, infatti, ognuno può, attraverso una scelta libera,

ragionata e consapevole, decidere di non ricevere trattamenti medici, in ossequio alla percezione di

sé, delle proprie aspettative, del proprio stile di vita e dei convincimenti morali maturati.

Costituiscono un’eccezione i c.d. trattamenti sanitari obbligatori. Si tratta di presidi medico-

chirurgici imposti nei casi, tassativamente predeterminati dalla legge, in cui il permanere di una

determinata situazione patologica metta in pericolo la salute dei consociati, a condizione però che

siano utili anche al malato stesso: ciò è dovuto proprio al limite del “rispetto della persona umana”

richiamato dall’art. 32, secondo comma Cost., che impedisce allo Stato di sottoporre l’individuo,

strumentalizzandolo, a trattamenti utili soltanto alla collettività9. Il potere conferito dalla 5 OMS, Constitution of the world health organization, 1948, p. 1, in www.who.int. 6 Che implica e legittima, tra l’altro, la pretesa dell’individuo affinché lo Stato, e i terzi in generale, si astengano da comportamenti pregiudizievoli per la sua salute, v. R. BIN – G. PITRUZZELLA, Diritto Pubblico, ed. XV, Torino, 2017, p. 485. 7 La salute come interesse della collettività, trascende gli interessi del singolo individuo e rientra, invece, nei compiti dello Stato, anche in funzione di prevenzione e salvaguardia di epidemie, v. F. DEL GIUDICE, Diritto Costituzionale, Napoli, 2013.8 Corte Costituzionale, n. 307 del 1990, in www.giurcost.org.9 In caso contrario, infatti, si violerebbe la c.d. dignità umana del paziente: il fatto che l’art. 32 configuri la salute prima come diritto individuale e poi come interesse della collettività e la consideri come un diritto “primario e assoluto” (C. Cost., n. 356/1991), permette di ritenere che nel nostro ordinamento la persona viene in considerazione prima dell’interesse della comunità (v. A. A. NEGRONI, Trattamenti sanitari obbligatori e tutela della salute individuale e collettiva, in www.forumcostituzionale.it, 1 novembre 2017, p. 17), e che quindi un TSO si effettua anche a tutela del singolo individuo; la facoltà di autodeterminazione del soggetto interessato infatti non può soccombere esclusivamente a esigenze collettive, (v. A. A. NEGRONI, Trattamenti sanitari obbligatori e tutela della salute individuale e collettiva, in

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Costituzione al Legislatore, perciò, «sarà legittimamente utilizzato solo quando il trattamento

sanitario sia reso obbligatorio al fine di impedire che la salute del singolo possa arrecare danno alla

salute della collettività e, contemporaneamente, detto trattamento non danneggi, ma anzi sia utile

alla salute di chi vi è sottoposto»10.

Dunque, riassumendo quanto detto fino ad ora, dall’art. 32 Cost. si ricava l’esistenza di un “nucleo

irrinunciabile” del diritto alla salute, coincidente con l’ambito inviolabile della dignità umana, la

quale non può che avere come elemento qualificante l’autodeterminazione del singolo e non può

essere compressa dal Legislatore ordinario nell’esercizio della sua discrezionalità11.

Spostando l’analisi al di fuori dei confini nazionali, in un più ampio contesto normativo, il diritto

all’autodeterminazione terapeutica viene tutelato anche da alcuni Trattati Internazionali.

Un esempio è rappresentato dall’art. 8 CEDU, il quale sancisce il diritto al rispetto della vita

privata: la Corte di Strasburgo12 interpreta estensivamente questa norma, fino a ricomprendere il

diritto della persona di autodeterminarsi rispetto al trattamento sanitario. A ben vedere, infatti,

imporre ad un soggetto un dato trattamento, pur determinante, ad esempio, per la salvaguardia della

sua vita, rappresenterebbe comunque un’ingerenza nella vita privata del singolo, vulnerando perciò

il diritto tutelato da questo stesso articolo.

Anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea contempla una serie di diritti e libertà

irrinunciabili connessi al diritto alla salute e all’autodeterminazione terapeutica, quali l’inviolabilità

della dignità umana (art. 1), il diritto alla vita (art. 2), e il diritto all’integrità fisica e psichica (art.

3). Ad ogni modo, si può costatare come nella Carta di Nizza il diritto alla salute venga in

considerazione in primo luogo come diritto all’autodeterminazione terapeutica che si esercita

mediante il consenso (art. 3) e poi come diritto di usufruire di un elevato livello di prestazioni

sanitarie (art. 35).

2. La legittimazione dell’atto medico e il principio del consenso informato

Dalla libertà della persona di scegliere se sottoporsi o meno a un trattamento sanitario deriva che

per attuare una qualsiasi terapia, il medico deve necessariamente ottenere l’assenso del paziente,

perché se così non fosse si violerebbe il diritto di quest’ultimo all’autodeterminazione terapeutica,

www.forumcostituzionale.it, 1 novembre 2017, p. 17) perché ciò significherebbe annullare la sua personalità e la sua libertà personale.10 A. A. NEGRONI, Trattamenti sanitari obbligatori e tutela della salute individuale e collettiva, in www.forumcostituzionale.it, 1 novembre 2017, p. 7.11 V. Cassazione Penale, Sez. Un., n. 2437 del 21/01/2009, in www.sistema24pa.ilsole24ore.com, p. 9:«Il diritto ai trattamenti sanitari è dunque tutelato come diritto fondamentale nel suo nucleo irrinunciabile del diritto alla salute, protetta dalla costituzione come ambito inviolabile della dignità umana, il quale impone di impedire la costituzione di situazioni prive di tutela, che possono appunto pregiudicare l’attuazione di quel diritto».12 V. C. EDU, n. 2346 del 29/07/2002, Pretty c. Regno Unito, in www.dirittiuomo.it.

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costituzionalmente garantito. Dunque un atto medico risulta legittimo, innanzitutto, se l’individuo vi

dà il proprio assenso.

Tuttavia risulta controverso, da un punto di vista prettamente tecnico giuridico, in che modo

l’assenso legittimi l’attività medica; si può affermare che essa integri, effettivamente, una condotta

tipica ma scriminata dall’art. 50 c.p., stando al quale «non è punibile chi lede o pone in pericolo un

diritto, col consenso della persona che può validamente disporne». Si riscontra però la problematica

connessione dell’art. 50 c.p. con i limiti tracciati dall’art. 5 c.c., il quale ritiene solo parzialmente

disponibile il bene dell'integrità fisica, considerando infatti il consenso privo di efficacia qualora sia

volto ad autorizzare condotte che cagionino, tra l’altro, una diminuzione permanente dell'integrità

fisica. Ciò significa che, qualora un intervento medico-chirurgico provocasse la suddetta

diminuzione, ipotesi tra l’altro molto frequente nella prassi13, esso risulterebbe non scriminabile

dell’art. 50 c.p.14

Diversamente, l’attività medica potrebbe ritenersi giustificata dall’art. 51 c.p.: «l’esercizio di un

diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della

pubblica autorità, esclude la punibilità». In particolare, si tratterebbe dell’esercizio di una facoltà

legittima15, in quanto l’attività medica rappresenta una prestazione autorizzata dall’ordinamento per

la sua utilità sociale, come si desume dall’art. 32 Cost. e da tutta la legislazione che la riconosce,

disciplina, favorisce e finanzia16.

La giurisprudenza maggioritaria, tuttavia, sostiene che questa attività non sia giustificata, bensì

direttamente atipica, trovando fonte di legittimazione direttamente nelle norme costituzionali.

Precisamente, le Sezione Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza 21 gennaio 2009, n. 2437,

hanno affermato che l’attività sanitaria, pur se produttiva di un male transitorio, è strumentale al

complessivo benessere dell’assistito, ossia all’attuazione di un suo diritto fondamentale e

costituzionalmente tutelato (c.d. diritto alla salute, cfr. art. 32 Cost.). Essendo rivolta a «realizzare

in concreto il diritto fondamentale di ciascuno alla salute, e attuare - in tal modo - la prescrizione,

non meramente enunciativa, dettata dall’art. 2 della Carta», l’attività medico-chirurgica ha dunque

13 Si pensi ad esempio a un intervento di mastectomia, praticato in caso di tumori maligni al seno, che, comportando l’asportazione di una mammella, causa la perdita della funzionalità di questa ghiandola; oppure, a un intervento, effettuato su un paziente diabetico, mirato all’amputazione di un piede andato in necrosi, che comprometta quindi le sue capacità motorie.14 V. G. MONTANARI VERGALLO, Il rapporto medico-paziente, Consenso e informazione tra libertà e responsabilità, Giuffrè, Milano, 2008, p. 24.15 V. G. MARINUCCI - E. DOLCINI, Manuale di diritto penale. Parte Generale, V ed., Giuffrè, Milano, 2015, p. 265: «L’espressione “diritto” nell’art. 51 viene pacificamente intesa come comprensiva non solo dei diritti soggettivi in senso stretto, ma anche di qualunque facoltà legittima di agire riconosciuta dall’ordinamento».16 Cfr. F. MANTOVANI, Diritto Penale, parte generale,Padova, 201, p. 279 ss.

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«base di legittimazione (...) direttamente nelle norme costituzionali, che, appunto tratteggiano il

bene della salute come diritto fondamentale dell’individuo»17.

Ciò però, aggiungono le Sezioni Unite, «sempre che ne siano rispettati le regole e i presupposti».

Tra questi, un ruolo di primissimo piano è ricoperto dal c.d. «consenso informato»18. Con questa

espressione si richiama la manifestazione di volontà dell’assistito con cui egli autorizza atti o

interventi a tutela della propria salute, a seguito di un’adeguata informazione sullo specifico caso

clinico da parte del personale medico.

Il principio del consenso informato, essendo strettamente collegato al principio di

autodeterminazione terapeutica e trovando il suo fondamento negli art. 2, 13 e 32 della

Costituzione, «pone in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona:

quello all’autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il

diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla

natura e agli sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali

terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di

garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà

personale»19. Infatti, attraverso il consenso informato, il paziente assume un ruolo attivo nel

processo decisionale, divenendo titolare di un effettivo diritto di scegliere20. In particolare, grazie

alle informazioni fornite dal sanitario, egli può esprime delle preferenze riguardo al suo percorso

terapeutico, optando per la soluzione che ritiene migliore o in generale più conforme ai propri

bisogni, trattandosi di scelte sul proprio corpo. Ciò dà luogo a quella che è stata definita «alleanza

17 Cfr. Sez. Un., 21 gennaio 2009, n. 2437. Per un commento della sentenza v., tra gli altri, L. EUSEBI, Verso una recuperata determinatezza della responsabilità medica in ambito penale?, in Criminalia, 2009, p. 423 ss.; G. FIANDACA, Luci ed ombre nella pronuncia a sezioni unite sul trattamento medico-chirurgico arbitrario , in Foro it., 2009, p. 306 ss.18 Gli altri prerequisiti necessari affinché l’intervento medico possa essere considerato legittimo sono, anzitutto, che sia praticato da un professionista abilitato; inoltre, deve essere condotto nel rispetto delle leges artis mediche in relazione ad un’effettiva esigenza terapeutica (v., ex multis, T. PADOVANI, Manuale di diritto penale, Milano 2012, p. 155).19 Corte Costituzionale, n. 438, del 18/11/2008, in www.giurcost.org. 20 V. N. AMORE, Dissenso informato alle emotrasfusioni e trattamento sanitario coatto, in www.penalecontemporaneo.it, 31 luglio 2017, p. 170 ss.: «Per lungo tempo, infatti, il rapporto medico-paziente è stato improntato in chiave apertamente paternalistica: al malato era riconosciuta esclusivamente la facoltà di scegliere il clinico cui affidarsi, dopodiché era quest’ultimo, in quanto titolare esclusivo delle conoscenze tecnico-scientifiche, a definire in completa autonomia il percorso terapeutico da seguire, comprensivo dei relativi costi-benefici per l’infermo. Del rapporto di cura, perciò, il paziente era un mero oggetto, privo di autonomia decisionale e alla mercé delle determinazioni dello specialista. La Costituzione del ’48 prende ampie distanze da questo stato di fatto. A seguito dell’introduzione degli artt. 2, 13 e 32 Cost., infatti, il consenso si configura quale vero e proprio diritto della persona, sicché il paziente si configura a tutti gli effetti “soggetto” del rapporto di cura, e in quanto tale legittimato a confrontarsi con pari dignità sul trattamento ipotizzato dal terapeuta».

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terapeutica» tra medico e paziente21: le due parti si “alleano”, appunto, al fine di raggiungere un

obiettivo comune, ossia la tutela della salute del malato.

Questo principio è confermato anche a livello internazionale dalla Convenzione di Oviedo del

199722, sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina, il cui art. 5 prevede espressamente la necessità di

un consenso libero e informato della persona interessata ogniqualvolta si debba effettuare un

intervento nel campo della salute, specificando che tale consenso può essere ritirato in qualsiasi

momento.

Inoltre, nella Carta di Nizza, al già citato art. 3 viene ribadito che «nell’ambito della medicina e

della biologia devono essere in particolare rispettati: il consenso libero e informato della persona

interessata, secondo le modalità definite dalla legge […]».

Ne consegue che, ove manchi o sia viziato il consenso informato, il trattamento sanitario si pone in

contrasto con il diritto della persona di prescegliere se, come, dove e da chi farsi curare. Il consenso

informato è quindi quel presupposto che fonda la liceità del trattamento sanitario, e l’atto attraverso

cui si manifesta il principio di autodeterminazione terapeutica.

Nel nostro ordinamento, fino a poco tempo fa, non esisteva alcuna legge che disciplinasse il

consenso informato, pertanto l’individuazione dei suoi requisiti costitutivi era rimessa agli

interpreti. Si tratta di un’operazione piuttosto importante, perché in effetti è grazie a essi che si può

stabilire se il consenso sia stato validamente espresso e quindi quali manifestazioni di volontà siano

da considerare meritevoli di tutela, e quali siano invece da considerarsi non serie, superficiali o

comunque non attendibili.23 Questo vuoto legislativo, è stato infine colmato dal Legislatore con la

recente legge n. 219 del 2017.

3. I requisiti del consenso informato alla luce della legge 22 dicembre 2017, n. 219

Dal 31 gennaio 2018 sono entrate in vigore le “Norme in materia di consenso informato e di

disposizioni anticipate di trattamento” approvate con la legge n. 219 del 2017. Com’è stato

giustamente osservato, «si tratta di un provvedimento lungamente atteso, che unifica le molteplici

proposte d’intervento su consenso informato, alleanza terapeutica e disposizioni anticipate di

21 V. Cassazione Penale, Sez. Un., 21/01/2009, n. 2437, in www.sistema24pa.ilsole24ore.com, p. 12:«[…] si è tratto, quindi, il convincimento che fosse ormai superata la configurazione della attività del medico come promanante da soggetto detentore di una “potestà” di curare, dovendosi invece inquadrare il rapporto medico-paziente (al di fuori di qualsiasi visione paternalistica) nel contesto di quella che è stata definita come una sorta di “alleanza terapeutica”; in sintonia, d’altra parte con una più moderna concezione della salute, che trascende dalla sfera della mera dimensione fisica dell’individuo per ricomprendere anche la sua sfera psichica».22 Gli strumenti di ratifica della Convenzione non sono stati ancora depositati e i decreti attuativi previsti dalla legge n.145 del 2001fino ad ora non sono stati emanati.23 V. N. AMORE, Dissenso informato alle emotrasfusioni e trattamento sanitario coatto, in www.penalecontemporaneo.it, 31 luglio 2017, p. 173.

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trattamento presentate nel corso dell’attuale legislatura, segnando una tappa rilevante nel cammino

di valorizzazione della libertà di autodeterminazione nelle scelte terapeutiche»24.

La legge affronta, principalmente, la tematica alquanto complessa, delle disposizioni anticipate di

trattamento (DAT), con cui si esprime il proprio orientamento su pratiche sanitarie da ricevere o

respingere nell’ipotesi in cui ci si trovasse in uno stato di incapacità di intendere e di volere.

Nondimeno, ai fini della nostra analisi, la parte che interessa approfondire è quella relativa ai

requisiti del c.d. consenso informato, con particolare riguardo alle sue modalità di espressione e di

revoca, alla legittimazione ad esprimerlo, all’ambito e alle condizioni di validità dello stesso.

Il testo normativo si apre con la consacrazione del principio secondo cui «nessun trattamento

sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona

interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge» (art. 1, comma 1); dunque il

consenso deve essere innanzitutto personale, espresso cioè dal titolare del diritto alla salute, e

libero, ossia risultato di una scelta autonoma e immune da vizi della volontà.

Successivamente il comma 3 riconosce in modo inequivocabile il diritto soggettivo

all’informazione, aggiungendo che questa deve essere: completa, aggiornata, comprensibile, e

riguardare non solo la diagnosi, la prognosi, i benefici e i rischi degli accertamenti diagnostici e dei

trattamenti sanitari indicati, ma anche le possibili alternative e le conseguenze dell'eventuale rifiuto

del trattamento sanitario e dell'accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi; inoltre si

riconosce al paziente la possibilità sia di rifiutare, in tutto o in parte, le informazioni, sia di

incaricare un familiare o una persona di sua fiducia di riceverle e di esprimere il consenso al suo

posto.

Riguardo le modalità di acquisizione del consenso informato, la legge prevede che può essere

documentato in forma scritta o attraverso strumenti più consoni alle condizioni del paziente, come

ad esempio videoregistratori o altri dispositivi che permettano alla persona con disabilità di

comunicare (comma 4). Queste stesse forme sono prescritte anche per il rifiuto, in tutto o in parte,

degli accertamenti diagnostici o dei trattamenti sanitari proposti dal medico, e per la revoca del

consenso prestato, la quale può avvenire in qualsiasi momento, anche qualora implichi

l’interruzione del trattamento; tutto ciò purché la persona sia capace di agire (comma 5).

Proseguendo, il comma 6 dello stesso articolo esplicita il dovere del medico di rispettare la volontà

espressa dal paziente in caso di rifiuto o rinuncia al trattamento sanitario, e la conseguente

esenzione dalla responsabilità civile o penale.

Infine è opportuno soffermarsi sull’art. 3, il quale disciplina il rilascio del consenso di minori e

incapaci, sottolineando che anche questi ultimi hanno diritto alla valorizzazione delle proprie

24 C. CUPELLI, Libertà di autodeterminazione terapeutica e disposizioni anticipate di trattamento: risvolti penalistici, in www.penalecontemporaneo.it, 21 dicembre 2017, p. 123.

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capacità di comprensione e di decisione, e devono essere informati relativamente alle proprie

condizioni di salute in modo consono alle loro capacità, così da essere in grado di esprimere la

propria volontà (comma 1).

Per quanto concerne il minore, il consenso viene prestato o rifiutato dagli esercenti la responsabilità

genitoriale o dal tutore (comma 2); nel caso di persona interdetta, dal tutore (comma 3); mentre,

nell’ipotesi di persona inabilitata, da lei stessa ovvero dal suo amministratore di sostegno la cui

nomina preveda l’assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario (comma 4).

In ogni caso, i rispettivi rappresentanti legali devono agire sempre nell’intento di salvaguardare la

salute psicofisica e la vita del soggetto rappresentato, nel rispetto della sua dignità.

In conclusione, il merito di questa legge è sicuramente quello di aver confermato il valore del

consenso informato, che viene adesso esplicitamente ancorato ai principi enunciati agli articoli 2, 13

e 32 Cost. e agli articoli 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea,

cristallizzando gli orientamenti giurisprudenziali che si erano formati a riguardo25. Inoltre, si può

osservare che anche i requisiti, precedentemente elaborati dagli interpreti, siano rimasti

sostanzialmente invariati, seppur meglio approfonditi nei loro contenuti26. Infine, si riconosce senza

alcuna incertezza la libertà del paziente di rifiutare qualunque tipo di cura, comprese quelle vitali.

L’autodeterminazione terapeutica viene perciò riconosciuta nella sua massima ampiezza27.

Capitolo II

LA TUTELA PENALE DEL DIRITTO DI AUTODETERMINAZIONE DEL PAZIENTE

1. Il problema degli atti medici compiuti senza il consenso o contro il dissenso

Appurato che la liceità del trattamento sanitario è subordinata al “consenso informato”, perché

tramite esso si esprime la libertà di autodeterminazione del singolo in ambito sanitario, ci si deve

chiedere come questa libertà venga concretamente tutelata dall’ordinamento giuridico italiano.

25 V. Corte Costituzionale, n. 438, del 18/11/2008, in www.giurcost.org: «il consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell’art. 2 della Costituzione […] e negli artt. 13 e 32 della Costituzione […]. Numerose norme internazionali, del resto, prevedono la necessità del consenso informato del paziente nell’ambito dei trattamenti medici […]».26 V. Giudice tutelare del Tribunale di Cagliari, 21/06/2016, in www.biodiritto.org: «il consenso deve essere: personale (espresso cioè dal titolare del diritto alla salute o da colui che intende sottoporsi al trattamento sanitario, eccettuati i casi di incapacità previsti dal legislatore, ricorrendo i quali è possibile che il consenso venga prestato dal rappresentante legale); libero (risultato della libera autodeterminazione del paziente e immune da vizi rilevanti secondo la disciplina civilistica sulla volontà); attuale (deve essere concomitante al trattamento o ad esso preventivo); concreto (non deve essere meramente ipotetico ma deve essere espresso in relazione ad uno specifico trattamento); informato (per essere validamente espresso, il paziente deve ricevere un’informazione adeguata […]); revocabile»27 V. C. CUPELLI, Libertà di autodeterminazione terapeutica e disposizioni anticipate di trattamento: risvolti penalistici, in www.penalecontemporaneo.it, 21 dicembre 2017, p. 127

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Invero, nonostante il dovere del medico di acquisire il consenso informato del paziente sia sancito

da numerose disposizioni, non solo nazionali ma anche internazionali28, nessuna di queste prevede

una sanzione penale per l’inosservanza di tale obbligo.

Neanche il codice penale contempla fattispecie incriminatrici specificatamente rivolte a proteggere

il diritto di autodeterminazione terapeutica. Invero, al tempo della promulgazione del codice Rocco

del 1930 vigeva ancora un approccio «paternalistico»29 nei confronti del malato: il medico, in

ragione delle sue conoscenze tecnico-scientifiche, era ritenuto l’unico soggetto in grado di decidere

la cura adeguata, che il paziente aveva perciò il dovere di accettare; dunque, in questo contesto il

consenso non aveva alcuna rilevanza, e l’autodeterminazione terapeutica del paziente non era

riconosciuta. Non esistendo fattispecie ad hoc, l’individuazione delle eventuali conseguenze penali

derivanti dalla violazione di questo diritto ha dato luogo a pronunce discordanti nella prassi30.

Più nello specifico, nella pratica medico-chirurgica può accadere che un atto medico venga eseguito

in assenza del consenso, o addirittura contro il dissenso del paziente: nel primo caso si parla di

“trattamento sanitario arbitrario divergente”, e si ha quando si pone in essere (anche, o solamente)

un trattamento diverso da quello concordato con il paziente, non coperto quindi dal suo consenso

espresso; il secondo invece è chiamato “trattamento arbitrario coatto”, e si ha nel caso in cui un

trattamento sia praticato nonostante l’esplicito dissenso del paziente, quindi contro la sua volontà,

direttamente o indirettamente manifestata31.

Un esempio del primo tipo è rappresentato dalla situazione ove un soggetto presti il proprio

consenso per un esame diagnostico, quale ad esempio un’endoscopia, durante la quale il medico

noti la presenza di un polipo e proceda alla sua rimozione, senza aver preventivamente informato il

medesimo di questa eventualità e senza aver quindi ricevuto il suo consenso per questo ulteriore

trattamento. Un esempio del secondo tipo, invece, può aversi nel caso in cui un soggetto, a seguito

di un ricovero, in possesso della piena capacità di intendere e di volere, rifiuti per iscritto, sulla base

28 V. art. 1 della l. n. 219 del 2017, art. 35 del Codice di deontologia medica, art. 5 della Convenzione di Oviedo, art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, nonché artt. 2, 13, 32 Cost.29 V. N. AMORE, Dissenso informato alle emotrasfusioni e trattamento sanitario coatto, in www.penalecontemporaneo.it, 31 luglio 2017, p. 170.30 V. tra le altre, Cassazione Penale, Sez. un., 21/01/2009, n. 2437, in www.sistema24pa.ilsole24ore.com, p. 5: « La prima sentenza che si è soffermata ex professo sul tema del trattamento medico-chirurgico e del consenso informato del paziente, è stata la nota sentenza Massimo (Cass., Sez. V, 21 aprile 1992, n. 5639, Massimo) […] Tale sentenza ha in particolare affermato il principio per il quale il chirurgo che, in assenza di necessità ed urgenza terapeutiche, sottopone il paziente ad un intervento operatorio di più grave entità rispetto a quello meno cruento e comunque di più lieve entità del quale lo abbia informato preventivamente e che solo sia stato da quegli consentito, commette il reato di lesioni volontarie, irrilevante essendo sotto il profilo psichico la finalità pur sempre curativa della sua condotta; sicché egli risponde del reato di omicidio preterintenzionale se da quelle lesioni derivi la morte. […] A conclusioni diverse perviene la successiva sentenza Barese (Cass., Sez. IV, 9 marzo 2001, n. 28132), ove si è affermato che […] non è configurabile il reato di omicidio preterintenzionale, poiché, per integrare quest’ultimo, si richiede che l’agente realizzi consapevolmente ed intenzionalmente una condotta diretta a provocare una alterazione lesiva dell’integrità fisica della persona offesa».31 Cfr. L. CORNACCHIA, Trattamenti sanitari arbitrari divergenti, in Criminalia, 2009, p. 417.

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delle proprie convinzioni religiose, le trasfusioni di sangue, le quali però vengano ugualmente

effettuate dal personale medico.

In questi casi, perciò, ci si domanda in che modo il diritto penale possa intervenire a proteggere

l’autodeterminazione della persona offesa. Gli interpreti hanno elaborato delle soluzioni piuttosto

complesse, che ricollegano queste ipotesi al delitto di violenza privata (art. 610 c.p.) e al delitto di

lesione personale (art. 582 c.p.), le quali verranno esaminate nel prossimo paragrafo.

2. La configurabilità del delitto di violenza privata e di lesione personale nei casi di atti

medici arbitrari e coatti

Il delitto di violenza privata è uno dei “Delitti contro la libertà morale”, collocato all’interno della

Sezione III del Capo “Delitti contro la libertà individuale” del nostro c.p. Il precetto è descritto

dall’art. 610 c.p., comma 1, che recita: «Chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare,

tollerare od omettere qualche cosa è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a

quattro anni».

Ad un’attenta disamina, risalta immediatamente la forma vincolata della condotta, potendo

consistere esclusivamente o in una violenza o in una minaccia. L’evento si realizza quando la

condotta ha come effetto quello di costringere taluno a fare, tollerare od omettere una determinata

cosa.

Per quanto riguarda il concetto di minaccia, è ormai consolidato l’orientamento secondo cui

quest’ultima è illecita allorché si prospetti ad altri, attraverso qualsiasi comportamento o

atteggiamento, un male futuro e ingiusto, il cui verificarsi dipende dalla volontà dell’agente. Essa

deve essere idonea a incutere timore nel soggetto passivo, limitandone la libertà morale: non è

necessario che sia esplicita, potendo anche essere implicita o indiretta, purché idonea a produrre

l’effetto intimidatorio. Tale orientamento scaturisce dalla definizione contenuta nell’art. 612 c.p.32 e

dalle relative pronunce della giurisprudenza che si sono occupate di completarla e perfezionarla33.

32 V. art. 612 c.p. «Chiunque minaccia ad altri un ingiusto danno è punito, a querela della persona offesa, con la multa fino a euro 1.032».33 V., tra le altre, Cassazione Penale, sez. V, 23/04/86, n. 8275, in www.studiolegale.leggiditalia.it: «Ai fini della configurabilità del delitto di cui all'art. 612 c.p. minaccia è ogni mezzo valevole a limitare la libertà psichica di alcuno ed è costituita, quindi, da una manifestazione esterna che, a fine intimidatorio, rappresenta in qualsiasi forma al soggetto passivo il pericolo di un male ingiusto, cioè contra ius, che in un futuro più o meno prossimo possa essergli cagionato»; Cassazione Penale, sez. V, 18/12/2003, n. 4633, in www.studiolegale.leggiditalia.it: «Ai fini della configurabilità del reato di minaccia (art. 612 c.p.), si richiede la prospettazione di un male futuro ed ingiusto la cui verificazione dipende dalla volontà dell'agente […]; non è, peraltro, necessario che il bene tutelato dalla norma incriminatrice sia realmente leso, essendo sufficiente che il male prospettato possa incutere timore nel soggetto passivo, menomandone la sfera della libertà morale»; Cassazione Penale, sez. II, 18/01/2011, n. 3609, in www.studiolegale.leggiditalia.it: «Integra gli estremi del reato di violenza privata la minaccia, ancorché non esplicita, che si concreti in un qualsiasi comportamento o atteggiamento idoneo ad incutere timore ed a suscitare la preoccupazione di un danno ingiusto al fine di ottenere che, mediante la detta intimidazione, il soggetto passivo sia indotto a fare, tollerare o ad omettere qualcosa».

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Maggiori problemi interpretativi sono sorti sul concetto di violenza: una parte della dottrina e della

giurisprudenza hanno infatti dato rilievo alla “costrizione” del soggetto passivo, a prescindere dalla

forma con cui è cagionata, operando quindi una “spiritualizzazione” di questo concetto (ad esempio

integrerebbe una violenza spargere sostanze fumogene o spaventare una persona con spari in aria)34;

un’altra parte invece ritiene che la violenza consista solo in un'energia fisica, la quale può essere

esercitata sia sulle persone che sulle cose35.

A riguardo, entrambe le posizioni concordano sul fatto che l’art. 610, prescrivendo che la libertà

morale può essere lesa solamente attraverso due specifiche modalità (minaccia o violenza), non

contempla una qualsiasi costrizione comunque provocata, come avverrebbe in un reato a forma

libera.

È da considerare, però, che la violenza, in questa disposizione, caratterizza una condotta funzionale

alla realizzazione di un evento ulteriore e diverso, ossia quello di costringere il soggetto passivo a

fare, tollerare od omettere qualche cosa. La violenza, dunque, deve consistere in “qualcosa” di

differente rispetto all’evento costitutivo da essa provocato36. Invero, se si suppone che è commessa

con violenza ogni azione che costringe, il testo dell’articolo, nella parte in cui recita «chiunque, con

violenza, costringe», andrebbe riletto in questi termini: «chiunque costringe, costringe»; così

facendo, l’interprete svuoterebbe di qualunque significato precettivo la nota modale della violenza,

realizzando una interpretazione parzialmente abrogatrice della fattispecie.

La teoria della coazione non può essere accolta anche per ragioni di ordine sistematico.

Innanzitutto, l’art. 581 c.p., asserendo che commette il delitto di “percosse” chi attinge con vigore

(ossia, percuote) il corpo di una persona, purché da questa azione non derivino malattie, e

dichiarando che «tale disposizione non si applica quando la legge considera la violenza

come elemento costitutivo o come circostanza aggravante di un altro reato» (quindi art. 610 c.p.

compreso), ci fornisce una definizione indiretta di “violenza”: violenza come condotta vigorosa e

aggressiva. Inoltre, l’art. 392 c.p., punendo chiunque, al fine di esercitare un preteso diritto, si fa

arbitrariamente ragione da sé, mediante violenza sulle cose, ci suggerisce che la violenza può avere

ad oggetto anche cose inanimate, le quali non possono, evidentemente, subire coazioni.

Infine, se si condividesse la teoria della violenza come coazione, verrebbero tacciati come violenti

anche tutti quei comportamenti che sono considerati pacifici dall’opinione pubblica, come il caso di

34 Cfr. G. MARINUCCI - E. DOLCINI, Manuale di diritto penale. Parte Generale, V ed., Giuffrè, Milano, 2015, p. 85 ss.35 In senso conforme v., tra le altre, Cassazione Penale, sez. I, 19/01/1990, n. 6271; Cassazione Penale, sez. VI, 18/01/2010, n. 2013; Cassazione Penale, sez. V, 09/03/2010 n. 21559; tutte in www.studiolegale.leggiditalia.it; così anche F. VIGANÒ, La tutela penale della libertà individuale, I, L’offesa mediante violenza, Milano 2002, ove si prende posizione contro la c.d. teoria della coazione, antecedentemente prevalente tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, perché dotata di margini applicativi talmente lassi da porla persino in contrasto con il linguaggio comune, essendo suscettibile di ricomprendere nel concetto di violentia persino uno sciopero della fame (ossia la forma di lotta «non violenta» per eccellenza).36 Cfr. Cassazione Penale, Sez. Un., 21/01/2009, n. 2437, in www.sistema24pa.ilsole24ore.com, p. 13.

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un’azione di resistenza passiva: infatti se ci trovassimo di fronte a una strada il cui passaggio è

ostruito, ad esempio, da una manifestazione, e fossimo perciò costretti a cambiare percorso,

staremmo forse subendo una forma di costrizione, ma non certo una “violenza” in base al

significato che questo termine possiede nel linguaggio comune.

Stando a quanto detto, dunque, la violenza andrebbe intensa semplicemente come “aggressione

fisica”. Questa posizione è stata autorevolmente avallata anche dalle Sezione Unite, che l’hanno

definita come «lesione o immediata esposizione a pericolo dei beni più direttamente attinenti alla

dimensione fisica della persona, quali la vita, l'integrità fisica o la libertà di movimento del soggetto

passivo»37.

Così descritta la norma, procediamo adesso a verificarne l’ambito applicativo con riferimento ai

trattamenti medici arbitrari. Si pensi all’ipotesi in cui il medico minacci il paziente di sequestrare un

suo parente, se non si fa somministrare un determinato medicinale che egli non desiderava: qui oltre

a violare la sua autodeterminazione terapeutica, si commetterà anche il reato di violenza privata. Lo

stesso dicasi, ad esempio, di un infermiere che leghi un degente alla barella, e gli inietti un

medicinale da questi non voluto. In queste ipotesi violazione dell’autodeterminazione e violazione

della norma penale coincidono.

Non sono però certo questi i casi più ricorrenti nella prassi, e ahimè è proprio in quelli più ricorrenti

che la norma si dimostra inadeguata a proteggere lo specifico bene dell’autodeterminazione

terapeutica.

Iniziamo dal caso in cui l’evento costrittivo si realizzi con minaccia. Il medico che, ad esempio,

diagnostichi una malattia rara e particolarmente interessante ai fini delle sue ricerche e, di fronte al

rifiuto del paziente di operarsi, lo minacci di fare del male alla sua famiglia, commette il delitto di

violenza privata. l’individuo può trovare in questa fattispecie incriminatrice una tutela per la sua

autodeterminazione terapeutica, ma si tratta di casi estremamente eccezionali nella prassi.

Partiamo da un caso di trattamento sanitario arbitrario divergente, riprendendo in particolare

l’esempio del soggetto che presti il proprio consenso per un’endoscopia, facendosi volontariamente

anestetizzare, e a fine trattamento si ritrovi con un polipo rimosso. Sebbene il paziente non sia stato

informato circa questo ulteriore trattamento e quindi non sia stato messo nella condizione di

esprimere il proprio dissenso, tecnicamente non si può dire che l’intervento sia stato effettuato

contro la sua volontà, o in altre parole, che il medico abbia costretto il paziente a tollerarlo. Difatti,

possiamo constatare che il terapeuta, agendo mentre il paziente versava in stato di incapacità di

intendere e di volere, ha commesso un fatto di abuso o di approfittamento, ipotesi però che non è

37 Ibidem14

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disciplinata, affianco all’evento costrittivo, nella formula dell’art. 610 c.p., come avviene invece in

altre disposizioni, quali ad esempio il 609 bis c.p (violenza sessuale)38. Ciò significa che il

Legislatore ha volutamente lasciato una “zona grigia” in relazione a questa ipotesi di violenza

personale, e nella specie non si reputa dunque applicabile il delitto di violenza privata.

Riguardo al caso di trattamento sanitario arbitrario coatto, invece, riprendiamo l’esempio del

soggetto che abbia subito una trasfusione di sangue previamente dissentita; in questo caso alcuni

ritengono che la condotta violenta, consistente nella perforazione della cute e della vena con un

ago, sia un momento separato e accessorio rispetto all’evento costitutivo, rappresentato dal

passaggio di sangue dalla sacca al corpo del malato. Pertanto, la violenza operata dal medico

avrebbe l’effetto di costringere il paziente a tollerare il trattamento, e gli estremi della fattispecie di

cui all’art. 610 c.p. risulterebbero integrati39. Tuttavia, parte della dottrina sostiene che il

posizionamento di un accesso venoso periferico, essendo un passaggio necessario del trattamento di

reintegrazione della massa ematica, non può essere distinto dall’emotrasfusione, con la conseguenza

che condotta ed evento verrebbero a sovrapporsi40. Infatti, sia in caso di atto medico compiuto senza

il consenso che di atto medico compiuto contro il dissenso, se qualifichiamo il trattamento come

“violenza” operata dal medico, la condotta viene a coincidere con l’evento, poiché ciò che

costituisce violenza è anche ciò che si costretti a tollerare, e il delitto di violenza privata

tecnicamente non può essere configurato41.

Quindi, anche in questi casi, o l’art 610 c.p. non si applica, o comunque non si può dire con certezza

se si applicherà o meno.

Spostiamo ora l’attenzione sul delitto di lesione personale, collocato, all’interno del nostro codice

penale, nel Capo “Dei delitti contro la vita e l’incolumità individuale” e descritto dall’art. 582 c.p.,

il quale al comma 1 recita: «Chiunque cagiona ad alcuno una lesione personale, dalla quale deriva

una malattia nel corpo o nella mente, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni».

Possiamo notare che la condotta di questo reato è a forma libera, poiché può essere adoperato

qualsiasi mezzo per provocare l’evento malattia nel soggetto passivo.

38 Ivi, p. 14: «Va inoltre considerato che la non riconduciblità nel perimetro applicativo dell'articolo 610 c.p., della condotta del chirurgo che “approfitti” della condizione di anestetizzato del paziente per mutare il tipo di intervento chirurgico concordato, si desume, univocamente, anche dalle precise scelte legislative operate in riferimento alla fattispecie, strutturalmente “omologa”, dettata dall'articolo 609 bis c.p.. In essa, infatti, il legislatore ha ritenuto di introdurre una espressa equiparazione normativa tra l'ipotesi di costringimento, con violenza o minaccia, a subire atti sessuali, e l'ipotesi del compimento dell'atto sessuale “abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa”: eventualità, quest'ultima, che certamente si realizza anche nell'ipotesi in cui la vittima sia - come nel caso di paziente anestetizzato - in condizioni di totale incoscienza».39 V. N. AMORE, Dissenso informato alle emotrasfusioni e trattamento sanitario coatto, in www.penalecontemporaneo.it, 31 luglio 2017, p. 183.40 Ivi, p. 185 ss.41 V. Cassazione Penale, Sez. Un., 21/01/2009, n. 2437, in www.sistema24pa.ilsole24ore.com, p. 13.

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La fattispecie ruota attorno al concetto di malattia, sulla cui definizione la giurisprudenza ha assunto

nel tempo posizioni diverse. Tradizionalmente, infatti, con il termine malattia ci si riferiva a

«qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell’organismo ancorché localizzata, di lieve entità e

non influente sulle condizioni organiche generali»42; oggi, invece, la giurisprudenza la definisce in

termini medico-legali, come «processo patologico evolutivo necessariamente accompagnato da una

più o meno rilevante compromissione dell'assetto funzionale dell'organismo, ne deriva che le mere

alterazioni anatomiche che non interferiscano in alcun modo con il profilo funzionale della persona

non possono integrare la nozione di “malattia”, correttamente intesa»43. Per questa via, l’oggetto

giuridico del reato può essere ricostruito attorno alla protezione dell’interesse costituzionale alla

salute della persona (art. 32 Cost.), piuttosto che sulla conservazione della mera integrità psico-

fisica dell’individuo44.

Accogliendo tale impostazione “funzionalistica” di malattia la giurisprudenza è giunta alla

conclusione che una semplice alterazione anatomica (come, appunto, può essere la rimozione di un

polipo), pur integrando la nozione medica di “lesione”45, non può configurare l’art. 582 c.p., poiché

a essa non consegue un’alterazione funzionale dell’organismo46.

Anche questa ricostruzione, però, non riesce a risolvere tutti i problemi che si presentano nella

prassi: invero, la maggior parte degli interventi chirurgici, pur bloccando una malattia, causano

spesso lo sviluppo nell’organismo di un altro processo patologico, confluendo apparentemente

nell’ambito applicativo del delitto di lesione personale. Si pensi ad esempio a un intervento di

amputazione, effettuato su un paziente diabetico, che da un lato ha come scopo quello di fermare

l’avanzare della cancrena sviluppatasi nel piede per evitare che si estenda al resto del corpo, ma

dall’altro compromette in via definitiva le capacità motorie del paziente47.

42 Cfr. Cassazione Penale, sez. V, 2/02/1984, n. 5258; sez. V, 14/11/1979, n. 2650; sez. I, 30/11/1976, n. 7254; sez. I, 11/10/1976, n. 2904.43 Cassazione Penale, Sez. Un., 21/01/2009, n. 2437, in www.sistema24pa.ilsole24ore.com, p. 15; la Corte ci fa notare che per lungo tempo il concetto di malattia ha fortemente risentito di quanto era stato al riguardo precisato nellaRelazione ministeriale sul progetto del codice penale, giacché in essa si era puntualizzato che era stato fatto uso della "espressione, correttamente scientifica, di malattia, anziché quella di danno nel corpo o perturbazione della mente”, questa era l’idea del legislatore nel periodo fascista, ma come ci ricorda la Cassazione, con l’avvento dell’art. 32 Cost., l’oggetto giuridico dell’art. 582 c.p. non può più essere identificato nel bene dell’integrità dell’individuo in sé considerata, bensì nella salute del paziente. In tal senso v. anche Cassazione Penale, sez. IV, 19/03/2008, n. 17505; sez. IV, 14/11/1996, n. 10643.44 Concetto che mal si presta, peraltro, a essere impiegato in caso di malattie che abbiano a che fare con la psiche dell’offeso (v. Cassazione Penale, Sez. Un., 21/01/2009, n. 2437 cit.).45 Con il termine “lesione” in medicina si intende qualsiasi modificazione menomante a carico di un organo o di un tessuto, con alterazione della continuità, della forma, della struttura o della funzione.46 V. Cassazione Penale, Sez. Un., 21/01/2009, n. 2437, in www.sistema24pa.ilsole24ore.com, p. 16.47 V. D. GIULIANO, A. COLAO e G. RICCARDI, Endocrinologia, Malattie del metabolismo, ed. III, Idelson - Gnocchi, 2017, p. 400 ss.: «il c.d. piede diabetico viene definito come una condizione di infezione, ulcerazione o distruzione dei tessuti del piede che […] rappresenta la prima causa di amputazione non traumatica degli arti inferiori ed è frequente motivo di ricovero in ospedale per il paziente diabetico».

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Le Sezione Unite della Corte di Cassazione, con la già citata sentenza 21 gennaio 2009, n. 2437,

hanno dato una risposta anche a questa problematica: il chirurgo non potrà rispondere del delitto di

lesioni, per il solo fatto di essere “chirurgicamente” intervenuto sul corpo del paziente; anzi, proprio

perché la sua condotta è rivolta a fini terapeutici, è sugli esiti dell'obiettivo terapeutico che andrà

misurata la correttezza del suo agire, in rapporto, anche, alle regole d'arte mediche. È, quindi, in

questo contesto che andrà verificato l'esito, fausto o infausto, dell'intervento e quindi correlato ad

esso il concetto di “malattia”.

Occorre perciò guardare in termini obiettivi all’esito dell’intervento, ossia compiere una

complessiva ponderazione costi-benefici per il paziente, e ove essa risulti positiva, l'eventuale

mancato consenso del paziente al diverso tipo di intervento praticato dal chirurgo, rispetto a quello

originariamente assentito, non potrà evidentemente rilevare ai sensi dell’art. 582 c.p.

Intendere in questo modo il delitto di lesioni significa, però, astrarsi del tutto dalla percezione di sé

che ha il paziente e dalla sua identità. Poniamo il caso di una paziente affetta da tumore alla laringe,

che venga sottoposta con il suo consenso a un intervento di asportazione della massa tumorale; al

risveglio dall’anestesia la donna scopre che le sue capacità fonetiche sono state compromesse,

imprevisto di cui non era stata informata dall’équipe medica. Sebbene l’intervento, avendo rimosso

il tumore, può dirsi complessivamente riuscito e fosse fondamentale per bloccare l’espandersi della

patologia ad organi vitali, la paziente non si ritiene comunque soddisfatta perché ciò ha pregiudicato

le sue capacità espressive, che non avrebbe voluto mettere a rischio in nessun caso.

La soluzione posta dalla Corte, tuttavia, garantisce sicuramente dei vantaggi in termini di tassatività

della fattispecie. A ben vedere, infatti, sposando questa ricostruzione una condotta potrà dirsi

obiettivamente “lesiva” o “non lesiva” guardando all’esito dell’intervento, più che alla diversa

percezione di sé e della propria salute che ogni paziente può avere. Questo, intuitivamente, agevola

la posizione del medico, il quale nel momento in cui esegue l’operazione potrà rappresentarsi

orientativamente quali saranno le conseguenze delle sue azioni.

La conseguenza, però, è che in caso di intervento eseguito a regola d’arte e a esito fausto, il rispetto

dell’autodeterminazione del paziente diventa del tutto irrilevante ai fini del giudizio di tipicità del

delitto di lesioni. A questo si aggiunge peraltro la considerazione che tutti gli interventi che violano

l’autodeterminazione del paziente senza però provocare alcuna malattia non potranno essere puniti

ai sensi dell’art. 580 c.p. Si pensi alla trasfusione di sangue, oppure alla somministrazione coatta di

un medicinale privo di effetti collaterali.

Ancora una volta, dunque, le scelte del paziente vengono lasciate ai margini della tutela penale.

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3. Conclusioni

Conformemente a quanto esposto in questo capitolo, il codice penale sembra offrire, a nostro

avviso, una tutela tanto frammentaria quanto inefficace al diritto di autodeterminazione terapeutica.

Questa situazione dipende, indubbiamente, dall’assenza di norme incriminatrici ad hoc e dalla

difficoltà di far rientrare nell’ambito applicativo degli articoli 582 e 610 c.p., situazioni del tutto

diverse da quelle per cui sono stati originariamente pensati48.

Abbiamo visto come il delitto di violenza privata sia sostanzialmente inidoneo, proprio per la sua

struttura, a coprire gli atti medici compiuti senza il consenso, nonché quanto sia controversa la sua

configurabilità nei casi di atti medici compiuti contro il dissenso del paziente. Per quanto concerne

invece il delitto di lesione personale, esso assicura la tutela penale nei soli casi di esito infausto

dell’intervento praticato in assenza del consenso informato; nell’ipotesi inversa, invece, la persona e

la sua autodeterminazione in ambito sanitario, occupano uno spazio marginale, conferendo di fatto

maggior importanza ai dettami della scienza medica.

Escluse queste due fattispecie, de iure condito, non vi sono altre soluzioni indicate dalla

giurisprudenza a tutela di questo diritto. Una via percorribile potrebbe rivenirsi nel già citato art.

581 c.p.: «Chiunque percuote taluno, se dal fatto non deriva una malattia nel corpo o nella mente è

punito, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a sei mesi o con la multa fino a

trecentonove euro». Esso può essere applicato, innanzitutto, solamente quando il trattamento

sanitario risulti non coperto dal consenso informato, perché solo in tal caso può come detto

considerarsi illegittimamente praticato, e quindi tipico49. Dopodiché è necessario che vi sia una

condotta violenta da parte del medico, in quanto dalla lettera del comma 2 di questo articolo

ricaviamo che con il verbo “percuotere”, si intende porre in essere “un’azione violenta” sul corpo di

una persona50. In ambito sanitario, una condotta vigorosa sul corpo del paziente può consistere, ad

esempio, nella perforazione della cute con un ago. Tuttavia, anche questa soluzione presenta degli

inconvenienti, dovuti anzitutto al fatto che il bene giuridico protetto da questa norma è l’incolumità

individuale, e non l’autodeterminazione terapeutica, la quale perciò passa, ancora una volta, in

secondo piano, posto che senza il compimento di un atto violento questo articolo non può essere

chiamato in causa51.

48 I delitti di lesione personale e di violenza privata nascono per tutelare situazioni riferite alla vita quotidiana, alla vita di relazione, alla vita familiare, sicuramente non all’ambito medico-sanitario, dato che, come già accennato a pag. 10-11 di questa relazione, all’epoca della stesura del Codice Rocco, vigeva l’etica medica paternalistica, secondo cui il medico decideva la terapia più consona senza chiedere né il parere né il consenso del paziente.49 Come abbiamo visto a p. 6-7 di questa relazione, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 2437 del 2009, hanno stabilito che l’atto medico risulta legittimo nella misura in cui è eseguito con il consenso del paziente e in presenza degli altri presupposti di legittimità.50 Vedi supra, p. 13.51 V. N. AMORE, Dissenso informato alle emotrasfusioni e trattamento sanitario coatto, in www.penalecontemporaneo.it, 31 luglio 2017, p. 187.

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In una prospettiva de iure condendo, invece, si discute sulla possibile introduzione della fattispecie

di trattamento medico arbitrario. Parte della dottrina52 si è dichiarata contraria per le conseguenze

che verrebbero a crearsi nella prassi: questa infatti potrebbe indurre il medico ad astenersi

dall’intervenire, a pregiudizio delle condizioni di salute del paziente, in quelle situazioni in cui «non

abbia richiesto, magari per indominabilità della situazione, un consenso previo esplicito proprio a

quel tipo di intervento che in corso di operazione divenga opportuno». In altri termini per poter

eseguire quel determinato intervento senza incorrere in responsabilità penale, «non gli resterebbe

che sospendere l’anestesia, risvegliare il paziente e sollecitare uno specifico consenso informato»53.

Nonostante ciò riteniamo che l’introduzione di un simile illecito sia necessaria, perché la

repressione di condotte pregiudizievoli di un diritto fondamentale quale quello all’

autodeterminazione terapeutica non può continuare a dipendere da interpretazioni dottrinali o

giurisprudenziali fragili e discutibili, basate fattispecie pensate per intervenire in ben altri settori.

Un’iniziativa legislativa mirata a proteggere esplicitamente questo diritto in sede penale, perciò,

sarebbe del tutto opportuna, considerato che stiamo parlando di una prerogativa, che oltre a essere

tutelata direttamente dalla Costituzione, coinvolge aspetti particolarmente sensibili della vita di ogni

essere umano.

52 Ibidem; Si tratta, infatti, di un illecito che «in pochi auspicano e molti esplicitamente o implicitamente avversano – leggendovi un’eccessiva valorizzazione dell’autonomia del paziente in chiave “disfunzionalmente” punitiva per il medico».53 N. AMORE, Dissenso informato alle emotrasfusioni e trattamento sanitario coatto, in www.penalecontemporaneo.it, 31 luglio 2017, p. 193; v. anche L. CORNACCHIA, Trattamenti sanitari, in Criminalia 2009, p. 421

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