Vuoi mettere? Cose che l'insegnamento in presenza non può fare

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Roberto Maragliano “Vuoi mettere?!” Cose che l’insegnamento in presenza non può fare “Vuoi mettere?!”. È quanto regolarmente mi sento obiettare dal collega universi- tario. C’è bisogno di specificare che, in quelle due paroline, si cela tutto un altro dis- corso, fortemente critico nei confronti della mediazione di cui mi servo? Sì, ce n’è bisogno. Grosso modo, quel che mi si scarica addosso è un: “Vuoi mettere, tu che ti occupi di tecnologia, anzi – ammettilo – tu che dalla tecnologia sei occupato, per non dire ingabbiato, vuoi mettere quanto è più efficace e umana l’esperienza diretta, quella sprovvista di mediazioni, dove ci si guarda negli occhi, si dialoga, ci si con- fronta? Quando mai diventerà possibile fare tutte queste cose in rete? E se mai ci si dovesse arrivare, si sarà sempre distanti: docente e allievo. Come negarlo, allora? Un rapporto non comunicativo, tutto affidato alla macchina, non sarà mai educazione. Vuoi mettere l’insegnamento in presenza con l’apprendimento di rete?”. Non è facile dargli risposta, o, meglio, non è facile farlo utilizzando paroline semplici ed efficaci, come le sue. Questo perché l’organizzazione entro cui il mio obiettore opera, le mansioni che svolge, le relazioni che intrattiene hanno un così forte radicamento nella cultura di cui si fa portatore (o meglio, nella cultura da cui egli è portato, che è la cultura – come si diceva in tempi sospetti – dell’apparato ideologico dominante) da permettergli di non cogliere la mediazione sottostante: quelli di cui dispone sono, per lui, dati immediati, dati di fatto e fatti allo stato na- turale, che gli mostrano, in tutta evidenza, che cosa sia insegnare e che cosa sia ap- prendere (e che, di conseguenza, gli mostrano anche che cosa l’uno e l’altro non siano). Il suo “vuoi mettere?!” equivale a un “non ha senso che io mi metta a fare il confronto”: questo non avrebbe senso perché tutto quel ch’egli pensa e dice, a proposito dell’insegnare e dell’apprendere, già di per sé qualifica un simile con- fronto come improponibile. E dunque il suo “vuoi mettere?!” è come un invito a me, perché la smetta. Ciò che lui non vede è che la tecnologia regge e media l’assetto del mondo in cui egli stesso vive: la tecnologia è la gabbia che dà senso a tutto ciò che fa, ivi comprese le opinioni di cui dispone e le obiezioni che mi rivolge. Anche lui è in- gabbiato, ma la differenza è che lui la sua gabbia non la vede (e vede benissimo la mia), mentre io vedo bene la sua e la mia. Fosse solo questo, avrei vita facile, ve- dendo io più di quello che lui vede e potendogli, dunque, mostrare quel che non vede. Il fatto che rende tutto più difficile è che lui non sente il bisogno di uscire dalla gabbia: è il suo mondo, non ne conosce altri.

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Testo pubblicato su Quaderno di Comunicazione, i cui numeri sono tutti disponibili in formato pdf sul sito della rivista: http://www.quadernodicomunicazione.com/pubblicazioni.htm

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Roberto Maragliano “Vuoi mettere?!” Cose che l’insegnamento in presenza non può fare

“Vuoi mettere?!”. È quanto regolarmente mi sento obiettare dal collega universi-tario. C’è bisogno di specificare che, in quelle due paroline, si cela tutto un altro dis-corso, fortemente critico nei confronti della mediazione di cui mi servo? Sì, ce n’èbisogno. Grosso modo, quel che mi si scarica addosso è un: “Vuoi mettere, tu che tioccupi di tecnologia, anzi – ammettilo – tu che dalla tecnologia sei occupato, pernon dire ingabbiato, vuoi mettere quanto è più efficace e umana l’esperienza diretta,quella sprovvista di mediazioni, dove ci si guarda negli occhi, si dialoga, ci si con-fronta? Quando mai diventerà possibile fare tutte queste cose in rete? E se mai ci sidovesse arrivare, si sarà sempre distanti: docente e allievo. Come negarlo, allora? Unrapporto non comunicativo, tutto affidato alla macchina, non sarà mai educazione.Vuoi mettere l’insegnamento in presenza con l’apprendimento di rete?”.

Non è facile dargli risposta, o, meglio, non è facile farlo utilizzando parolinesemplici ed efficaci, come le sue. Questo perché l’organizzazione entro cui il mioobiettore opera, le mansioni che svolge, le relazioni che intrattiene hanno un cosìforte radicamento nella cultura di cui si fa portatore (o meglio, nella cultura da cuiegli è portato, che è la cultura – come si diceva in tempi sospetti – dell’apparatoideologico dominante) da permettergli di non cogliere la mediazione sottostante:quelli di cui dispone sono, per lui, dati immediati, dati di fatto e fatti allo stato na-turale, che gli mostrano, in tutta evidenza, che cosa sia insegnare e che cosa sia ap-prendere (e che, di conseguenza, gli mostrano anche che cosa l’uno e l’altro nonsiano). Il suo “vuoi mettere?!” equivale a un “non ha senso che io mi metta a fareil confronto”: questo non avrebbe senso perché tutto quel ch’egli pensa e dice, aproposito dell’insegnare e dell’apprendere, già di per sé qualifica un simile con-fronto come improponibile. E dunque il suo “vuoi mettere?!” è come un invito ame, perché la smetta.

Ciò che lui non vede è che la tecnologia regge e media l’assetto del mondo incui egli stesso vive: la tecnologia è la gabbia che dà senso a tutto ciò che fa, ivicomprese le opinioni di cui dispone e le obiezioni che mi rivolge. Anche lui è in-gabbiato, ma la differenza è che lui la sua gabbia non la vede (e vede benissimo lamia), mentre io vedo bene la sua e la mia. Fosse solo questo, avrei vita facile, ve-dendo io più di quello che lui vede e potendogli, dunque, mostrare quel che nonvede. Il fatto che rende tutto più difficile è che lui non sente il bisogno di usciredalla gabbia: è il suo mondo, non ne conosce altri.

La sua gabbia, ovviamente, è quella del libro a stampa, grande e insostituibilestrumento di liberazione culturale, ma anche forma particolare del sapere e suaconfigurazione locale, sia in senso storico sia in senso materiale. Non c’è bisognodi essere sacerdoti della chiesa di Toronto per constatare che insegnamento acca-demico (per come lo conosciamo e lo pratichiamo tuttora) e stampa (per come laconosciamo e la pratichiamo tuttora) tendono perlopiù a coincidere, o meglio chequesta – la stampa – continua in buona parte a dare forma a quello – l’insegna-mento universitario –; o almeno, che questo avviene nell’assetto determinato dicultura entro cui ci troviamo. È, però, il caso di chiederci se possiamo permetterciil lusso di sentirci, come accademici, ancora dentro quella determinazione e den-tro quell’assetto: dunque, se il mondo, quello esterno al nostro, non pretende al-tro. Lui, l’obiettore, non vuole porsi questa domanda, né lo spazio che abita lospinge a farlo. Io, invece, nel sentirmi cittadino del mondo, prima che abitantedella cittadella accademica, non posso farne a meno. In questa differenza tra me elui, non ci vedo una questione di tecnologia – la scelta se adottare o meno un com-puter, al posto di un libro –; ci vedo, invece, una questione di mentalità. Espressain altri termini, la domanda è, dunque, la seguente: vogliamo ancora conservarcidentro una mentalità a-mediale (che non vede o non vuole vedere il medium, per-ché lo identifica con la cosa) o è, invece, il caso di aprirsi a una mentalità pluri-me-diale (in cui il confronto avviene tra e dentro gli apparati di mediazione/costruzio-ne/resa del sapere, assumendo il significato di un dibattito culturale a tutto cam-po, di vera e propria politica del sapere)?

Restando ancorati a un apparato gutenberghiano, ci si può permettere di nonavere un punto di vista sui media: si è mediati da un solo medium e quel che si ve-de/tocca/dice è inteso come realtà. Uscire da questa sorta di Matrix significa assu-mersi la responsabilità del punto di vista e della scelta. E allora, è meglio vedere lecose o sforzarsi di vedere anche “il come” vedere le cose? È certamente più como-da la prima soluzione. È decisamente più comodo dire “vuoi mettere?!”. Al tole-maico basta il dito, che mostra il sole che gira attorno alla terra, poi può stare zitto(anzi deve stare zitto); al copernicano occorre, invece, un discorso, non sempre in-tessuto di “evidenze”, in primo luogo per far sì che l’esistenza di un punto di vistasia dimostrata, oltre che mostrata, e poi per dare plausibilità e praticabilità a dellealternative.

Per rispondere al collega mi tocca, dunque, discorrere, se non altro puntando aconvincerlo dell’opportunità di sospendere il giudizio, almeno per un po’, rinun-ciando al suo comodissimo, matriciano pre-giudizio. Questo impegno frequente-mente mi stanca, e ancor più frequentemente stanca il mio interlocutore: di qui lasua vittoria per abbandono (unilaterale o reciproco) del campo. Le volte in cui ildiscorso procede, chiarisco in primo luogo la mia ottica. Ci provo anche qui, intermini tanto sintetici da rischiare la brutalità. Di questo mi scuso ma, del resto, ilconfronto sulle sorti dell’accademia nazionale, quando c’è, non si configura certocome il regno della correttezza e dell’eleganza.

Da parte di chi si occupa di didattica, la tecnologia può essere intesa come sup-porto o come ambiente. Va da sé che, se è supporto, la qualità e la forma del sape-re oggetto della didattica vengono definite in altro luogo, preesistendo all’atto del-la mediazione tecnologica; se invece è ambiente, in qualche modo l’oggetto di sa-pere interagisce con l’ambiente stesso. Il gutenberghiano, è scontato, fa della tec-

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del sapere la sua configurazione naturale. La didattica accademica del nostro tem-po è ancora, e profondamente, gutenberghiana.

Non finisce qui, però. Per chi si occupa di tecnologia, la didattica può essereuna componente implicita o una componente esplicita del suo agire: il docente gu-tenberghiano adotta un libro e lo lavora, oppure è egli stesso adottato da un libro(dalla “forma libro”).

Insomma, dentro la didattica tradizionale, il manuale – forma paradigmaticadel libro, in quanto risorsa per l’apprendere – può essere visto come strumentomateriale tramite il quale acquisire conoscenze (dunque, come supporto), oppurecome matrice dell’esperienza, che a questa dà forma (dunque, come ambiente).Inoltre, il fatto che nel manuale sia incorporata una didattica può essere valutatocon attenzione (dunque, come componente esplicita su cui e con cui riflettere, an-che in vista di una più consapevole rappresentazione del sapere oggetto di forma-zione), oppure può essere trascurato (in quanto componente implicita, elementocostitutivo naturale del suo essere libro per la didattica).

Secondo il mio punto di vista (diversamente dal mio interlocutore, io ho unpunto di vista), la tecnologia fornisce un ambiente alla didattica (le tecnologie for-niscono ambienti alla didattica) ed è con quell’ambiente (con quegli ambienti) chela didattica deve saper interagire. Se cambia l’ambiente, anche la didattica è solle-citata a mutare, ridefinendo e pattuendo la propria identità. Più sottilmente, secambia l’ambiente, la didattica è sollecitata a rendersi esplicita, presentandosi co-me “spazio di problematizzazione”. Di conseguenza, andrebbe dedicata un’atten-zione selettiva, e in buona parte nuova, al problema della didattica, soprattutto alproblema della qualità delle determinazioni che la didattica stessa riceve dalla tec-nologia (o, meglio, dalle tecnologie). Sono problemi, questi, che né il pedagogistané il mediologo accademico classico si sono mai posti.

C’è bisogno di ripeterlo? Sì, pure qui, dentro una rivista che si occupa di co-municazione. C’è bisogno di ripetere che parte delle idee che abbiamo e, so-prattutto, delle pratiche che adottiamo in ambito didattico – e non solo noi do-centi universitari dell’area umanistica – sono determinate dalle caratteristichecomunicative del libro a stampa. Il manuale dà forma all’esperienza dell’inse-gnare e dell’apprendere accademici. Di più, il manuale fa riferimento a, e altempo stesso legittima, una filosofia della riproduzione del sapere di tipo duale,dove tendenzialmente ci sono soggetti e oggetti preventivamente definiti, conruoli nettamente distinti, e dove le conoscenze sono viste e usate come oggettifisici, dotati di precisi confini e precise articolazioni interne: chi insegna inse-gna (e insegna quella cosa lì), chi apprende apprende (e apprende quella cosalì). Va da sé che buona parte del potere accademico coincida con il potere dellee sulle discipline, e che lo strumento della flagellazione (secondo l’etimologiadel termine “disciplina”) venga prontamente fatto valere nei confronti di ogniindebita invasione di campo. Ripartizioni e confini interni non sarebbero possi-bili né sarebbe possibile presidiarli se non s’intendesse il sapere nella forma“oggettuale” di un testo a stampa, e se non si portasse sospetto su ogni modali-tà di sapere che si presenti in forma “liquida” (come lo sono il parlare fluentedel dialogo, il parlare muto delle immagini, il parlare dinamico delleazioni/operazioni).

Questo assetto di cose può essere messo in crisi da internet, ammesso che inesso ci si sforzi di vedere una forma di sapere diversa da quella fornita dalla stam-pa (e questo pur essendo evidente che la tecnologia telematica è tanto duttile dapotersi adattare anche ai voleri di chi la fa funzionare come se fosse stampa: lastragrande maggioranza di esperienze di e-learning, almeno nel nostro paese, sononient’altro che questo: e-teaching camuffato, in cui la rete funziona da piccioneviaggiatore elettronico, per meglio disseminare saperi oggetto, ovvero capitoli dilibro con l’aggiunta di suoni e luci). Se è l’occasione per cogliere la forma che lanuova tecnologia dà all’esperienza, la crisi di cui ho detto può risultare salutare: inquanto momento di individuazione della specificità del problema “didattica”,questa può diventare una vera e propria “crisi di crescita”.

Se questa è una crisi di crescita, il primo a essere scardinato è il modello duale.Non a caso, nelle più avanzate esperienze di formazione di rete, soggetti e oggetti siconfigurano come entità mobili, così come insegnamento e apprendimento operanocome funzioni aperte. Con effetti ancora tutti da apprezzare: sulla riarticolazionecontinua dei saperi, sull’apertura verso criticità esercitate sul piano della connessio-ne orizzontale (tra i saperi) e su quello dell’analisi e della scomposizione verticale(dentro un sapere), sul rapporto fra operatività e concettualizzazione, sulle prospet-tive di una fattiva integrazione tra le modalità di una verifica puntuale delle presta-zioni individuali e quelle di una verifica complessiva delle prestazioni collettive.

Per anni, il campo dell’online education ha visto il monopolio dagli esperti disoftware, che hanno anche deciso i temi principali del confronto. Per anni ci si ètrovati a parlare di sistemi, piattaforme e standard. Secondo questo approccio, ilproblema della didattica era dato per risolto. Anzi, non era proprio consideratoun problema. La tecnologia provvedeva a tutto: a tutto, certamente, fuorché all’e-sigenza che si facesse fronte al pregiudizio anti-tecnologico, mai sopito dentro inostri ambienti accademici.

Ma col tempo – e soprattutto con quanto si è andato via via sviluppando den-tro gli spazi dell’apprendere informale e non formale nel mondo esterno al villag-gio universitario –, il problema di qualificare un approccio alla didattica ha acqui-stato visibilità. Allo stato attuale, didattica e tecnologia stanno timidamente ini-ziando a interagire alla pari, avendo imparato a sfuggire ai rischi di una reciprocacolonizzazione. Io penso che tutto questo non faccia che bene tanto alla tecnolo-gia, quanto alla didattica. Ma non ha senso nasconderci i problemi e sottovalutarele reazioni (spesso aggressive) da parte di coloro che ci vedono come “religiosi”,adepti della macchina, riservando a se stessi la qualifica di “laici”.

Questo, soprattutto, dovremmo laicamente impegnarci a far capire: che, nel-l’entrare in rapporto con quest’altra realtà – che è soprattutto la realtà della retecome spazio del sapere collaborativo, condiviso, perennemente ri-mediato –, la di-dattica e la tecnologia sono costrette a definirsi meglio, ciascuna per conto suo. Ilcompito immane che, alleandosi, dovrebbero mettersi nelle condizioni di affronta-re è quello di dare alla forma accademica della produzione/riproduzione di sapereun’identità (e una dignità!) coerente con le caratteristiche della cosiddetta societàdella conoscenza (che, andrebbe aggiunto, è anche, per la medesima ragione, so-cietà della descolarizzazione strisciante).

Il processo di cui sto parlando non è lineare e un suo esito positivo non è asso-lutamente garantito. A spingere in direzione contraria contribuiscono fattori vari:

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ne98 sul versante tecnologico, vi sono resistenze a considerare il contributo che la di-

dattica può offrire sul piano dell’innovazione e del chiarimento tecnico; sul ver-sante didattico, vi sono resistenze a considerare il contributo che la tecnologia puògarantire sul piano dell’innovazione e del chiarimento concettuale.

“Non c’è paragone! Come accostare la condizione umanamente ricca dell’inse-gnamento in presenza alla condizione del self service cognitivo di rete? Quandomai un computer, che non soffre e non gioisce, renderà il sentimento dell’insegna-re e dell’apprendere?”. Torna il refrain. Che riflette, a un tempo, le difficoltà diconsiderare la tecnologia come risorsa filosofica e la didattica come campo dentroil quale dar corpo a punti di vista confrontabili.

L’ho già detto. È difficile rispondere a queste obiezioni, far giustizia di quelleresistenze. Perché è difficile convincere chi non vede e non ascolta l’altro, e nem-meno vede e ascolta il mondo. Perché è difficile convincere chi non vuole essereconvinto. Ma una risposta va data, e deve esser capace di far saltare il pregiudizio,di far aprire gli occhi.

Le volte che provo a darla – o che mi si permette di farlo – formulo la rispostain questi termini: “È vero. Ci sono cose che la formazione online non riesce a fare.Sono d’accordo: vuoi mettere quanto è più forte l’impronta che ti lascia un’espe-rienza diretta? Ma cerchiamo di essere onesti: è così, con le esperienze dirette, cheorganizziamo e gestiamo la nostra attività didattica? Non mi risulta. Mi risulta che,nella maggioranza dei casi, i nostri allievi imparino dalla lettura dei libri, appren-dano, insomma, per esperienza indiretta, mediata. È dunque arrivato il momentodi abbandonare quell’abitudine? E ancora: la macchina è certamente senza senti-mento, ma sono forse ricche di sentimento le nostre aule universitarie e le paginedei nostri manuali? Inoltre – ed è questo il cuore della risposta – ci sono molte at-tività che è possibile fare in rete, ma che è impossibile realizzare in un rapporto fa-ce to face. Per esempio: l’interazione di tutti con tutti, la simulazione, la condivi-sione di un medesimo ambiente di lavoro. Non sono cose che è usuale incontraredentro l’insegnamento universitario corrente, sia per restrizioni materiali sia perrestrizioni concettuali (anche di tipo affettivo!)”. Aggiungo qui: queste tre attivitàsono tipiche di un apprendimento di rete tecnologicamente e didatticamente evo-luto, dove ad apprendere non è il singolo ma la comunità; dove non si trasmette alsingolo un pezzetto rigidamente delimitato di sapere, ma si mette il singolo nellacondizione di elaborare e condividere con altri una porzione aperta di conoscen-za; dove non si ascolta solo il docente e si parla solo se interrogati, ma tutti ascol-tano tutti e tutti parlano a tutti, senza distinzioni rigide di ruoli.

Nessuna di queste pratiche può essere proficuamente realizzata in presenza. Lìnon c’è spazio e tempo per lo scambio e l’interazione, perché il tempo e lo spaziodella didattica rispondono alle esigenze dell’erogare insegnamento e, raramente, sifanno carico delle esigenze poste dalla diversa maturazione degli apprendimentiindividuali. Generalmente, poi (e più in ambito umanistico, meno in ambito scien-tifico e tecnologico), il tempo dell’insegnamento si presenta come dissociato daltempo di apprendimento; questo vuol dire che, proprio quando l’allievo avrebbepiù bisogno del sostegno dell’insegnante (cioè nel corso della preparazione/lettu-ra, orientata alla verifica), questi non c’è, avendo perlopiù terminato il suo compi-to di “fare lezione”. Se già nella formazione accademica elitaria c’era poco spazioper l’interazione tra allievi e docenti e non ce n’era affatto (almeno che fosse rile-

vante sul piano istituzionale) tra allievi e allievi, nella formazione di massa non cen’è proprio, né di un tipo né dell’altro. La simulazione, poi, intesa come risorsafondamentale per la cognizione scientifica (dentro il circuito ipotesi/prova/revisio-ne), è una pratica estremamente complessa e costosa, che richiede spazi, attrezza-ture, e molto sostegno umano. In un contesto come è il nostro – della didattica inpresenza, dove si attribuisce l’etichetta di “laboratorio” ad attività che, con l’ope-ratività, hanno di solito ben poco a che fare –, è evidente che nemmeno si è dispo-sti ad accogliere l’idea che la simulazione agisca come strumento metodologico.Che dire, poi, della possibilità di condividere come studenti e, al limite, come stu-denti e docenti uno stesso ambiente di lavoro? Lì, oltre che concettuali, ci sonoanche impossibilità materiali decisamente insormontabili. Si può scrivere assiemesulla stessa pagina o, contemporaneamente, sulla stessa lavagna?

Dirà quel che vorrà, il mio obiettore. Ma queste tre attività – così “assurde” –in rete sono possibili. E sperimentarle fa cambiare pelle alla didattica.

Certo, non creda di trovarle sempre realizzate assieme, nelle attività correnti die-learning. Ma sappia che, laddove si riesca a concretizzarle, anche solo parzial-mente, salta subito agli occhi il cambiamento nel modo di vedere e praticare la di-dattica: visitare e abitare questo altro pianeta permette di capire meglio le caratte-ristiche del pianeta che, con poca consapevolezza, noi tutti abbiamo abitato finqui, ritenendolo l’unico possibile.

Una volta fatto rimbalzare addosso al mio collega il suo “Vuoi mettere?!”, ilpasso successivo e conclusivo del mio discorrere con lui (ammesso che ancora stialì) consiste nell’invitarlo a non considerare quest’altro pianeta come alternativo aquello che fin qui ha praticato, ma a cogliervi una risorsa preziosa e ineludibile, invista di un impegno di problematizzazione complessiva della didattica. Se riesco ainstillare in lui l’idea che non di una didattica virtuale abbiamo bisogno, ma di unlavoro di virtualizzazione della didattica, il più è fatto: possiamo continuare in rete,eventualmente anche senza computer, a discutere di questa “variazione grande”.

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