Vulcano_Numero 59

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ENERGIE ALTERNATIVE & TESLA MOTORS, AUTOMOBILI PER CAMBIARE IL MONDO intervista esclusiva QUATTRO CHIACCHIERE E UNO ZOMBIE Vulcano intervista i Lava Lava Love

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Ecco l'ultimo numero di Vulcano!

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ENERGIE ALTERNATIVE &TESLA MOTORS,

AUTOMOBILI PER CAMBIARE IL MONDOintervista esclusiva

QUATTRO CHIACCHIERE E UNO ZOMBIEVulcano intervista i Lava Lava Love

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inchiesteQuarto Rinascimentoa cura di Gemma GhigliaRinnovare l’Energiala sfida delle rinnovabili — a cura di Filippo BernasconiL’alternativa elettricaMaria Mancuso Tesla Motors vuole cambiare il mondoMaria Mancuso intervista Roberto Toro di Tesla MotorscULtURALa Luna in terraGemma GhigliaO’ GongorsoDisavventure del diventare insegnanti — Filippo BernasconiSeconde generazioni Elena SangalliQuattro chiacchiere e uno zombieIntervista ai Lava Lava Love — Alessandro MassoneAd majorem gloriam spiritus umaniFrancesco FlorisRUBRicheDa riascoltare: Wish you were hereLudovica De GirolamoEDiTORiALE Francesco Floris

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in copertina:rielaborazione da Adrian s Jones

Sommario Vulcano numero 59, ottobre 2012il mensile della statale di Milano

RinAsciMentOQUARtORinAsciMentOQUARtORinAsciMentOQUARtO

Era uno di quei pomeriggi subitaneamente freddi di fine agosto di quest’anno. Faceva davvero freddo, preparavo il primo thè della stagione. Stavo aspettando che l’acqua bollisse guardando un video dal sito della NASA sul mio telefono.Abbiamo mandato un rover, attraverso lo Spazio, fin su un altro pianeta. L’abbiamo fatto atterrare controllandolo dalla Terra. Questo rover è completamente “telecomandato”, ha un piccolo laboratorio integrato, spara raggi laser, e trasmette foto e video ad alta definizione, attraverso lo Spazio, fino a dei computer sulla Terra, dove questo video viene editato e caricato su un server. Io ne stavo guardando uno da un altro piccolo computer, che pesa 137 grammi, ha uno schermo largo tre pollici e mezzo, e una batteria che dura tutto il giorno. Quando non lo uso lo tengo in tasca.Ho pensato alle condizioni della nostra etica e della nostra morale, ferma da sessant’anni. Per certi versi, piú rigida di allora. Al nostro accontentarci del governo di saggi che ci è piovuto sulle spalle. Ad alcuni politici affamati di potere e altri che ab-usano di etica e morale per creare spaccature e non averlo mai, il potere, perché anche quello fa paura. Per non parlare della guerra, del concetto di nazionalità, e delle religioni.La sensazione è che come società mondiale, come specie, sia tempo per noi di crescere, di superare l’adolescenza. Perché oggi di certo non siamo abbastanza maturi per affrontare le sfide dei prossimi cinquant’anni.

Alessandro Massone

Corsivo

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inchieste 3

Sommario Vulcano numero 59, ottobre 2012il mensile della statale di Milano

RinAsciMentOQUARtORinAsciMentOQUARtORinAsciMentOQUARtO a cura di

Gemma Ghiglia

Per molti giovani milanesi, Quarto Oggiaro è il luogo dove comprare pizzette e brioches alle 3 del mattino. Per moltissimi altri, resta per antonomasia il luogo dello spaccio, della mala e delle lame. In pratica, il set delle canzoni di Vacca.

Il passato di Quarto è innegabile, quanto il suo cambiamento.Paradossalmente, la sua fortuna deriva dalla sua storia: essendo stato per decenni uno dei quartieri milanesi più afflitti dai problemi tipici delle periferie, quali degrado urbano, traffico di stupefacenti e microcriminalità, nonchè una delle zone forti della grande criminalità organizzata (soprattutto della camorra e della ‘ndrangheta), è stato al centro dei primi progetti di riqualificazione urbana, che lo hanno portato ad essere oggi un quartiere completamente diverso dall’avamposto operaio dei primi anni ‘50.Il percorso da fare per “svecchiare” l’immagine di questo quartiere è sicuramente ancora molto lungo, senza contare che persistono problemi concreti, primo fra tutti l’inserimento delle nuove comunità di migranti e la corsa agli alloggi popolari, occupati abusivamente spesso e volentieri (un articolo del Corriere nel 2007 ne contava 700), i frequenti atti di vandalismo e il mai assente spaccio di droga; tuttavia, è giusto notare l’impegno, la volontà e la partecipazione di moltissimi giovani nel ricostruire, e nel diffondere, una nuova immagine per il quartiere. Nel mostrare il volto positivo di Quarto, quello delle 19 associazioni di Villa Aperta, capitanate dal veterano del volontariato Pino Lopez, che dice: “Bisogna ridare un’immagine al quartiere, combatterne la nomea. Per questo abbiamo creato anche un brand, I love Quarto: alcuni del quartiere non hanno ancora trovato la loro identità, si vergognano di dire che sono di Quarto e noi invece ci teniamo, lo dimostriamo nei fatti, e abbiamo già venduto più di duecento T-shirt!”. Sembra davvero che Quarto stia rinascendo, grazie all’impegno di tutti quelli che “I♥Quarto Oggiaro”.

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Intervista ad AaronDirettore del centro Baluardo

Cos’è Baluardo?Baluardo è una sintesi di tutto quello che dal nostro punto di vista era necessario per questo quartiere. Siamo uno spazio di aggregazione libera, con un target di riferimento prevalentemente giovanile, ma ci rivolgiamo comunque anche a minori ed anziani. In sostanza, ci rivolgiamo agli abitanti di Quarto Oggiaro che sentono o hanno sentito il peso di vivere in un quartiere come questo.Com’è nato?Da utenti dell’ex Centro Giovani di via Val Trompia, che è stato chiuso nel 2001, a causa di alcune politiche di riduzione sociale già partite con Albertini e proseguite con la prima giunta Moratti. Desideravamo un posto che colmasse il vuoto lasciato dal Centro Giovani: un centro giovanile, aperto di giorno con operatori sensibili a quello che era il territorio e il target di riferimento, ossia i ragazzi di periferia, molti dei quali erano tornati per strada e cominciavano ad avere brutte fequentazioni. Sentivamo che era importante partecipare al cambiamento del nostro quartiere. Per cui, all’inizio del 2003, abbiamo avuto occasione di partecipare a un bando del comune che dava in gestione questo spazio. E ora siamo attivi da sei anni, dal 2005, dopo due anni di assestamento e risrutturazine degli spazi.Quali finalità si propone?Si propone di dare maggiore consapevolezza ai cittadini di Quarto. Nasce per rappresentare qualcosa di resistente, significativo e alla portata di tutti; la realtà socio-ecomica del quartiere è quella che è, e quando non riusciamo a sostenere un’ iniziativa gratuita teniamo corsi a pagamento che risultino accessibili anche alle fasce di reddito più basse. Ci occupiamo di diversi campi della cultura: organizziamo mostre, sponsorizziamo gruppi artistici e musicali emergenti, stiamo per lanciare un corso di writing che terminerà con un murales in via Palizzi, dove finisce la discesa del ponte, e il murales dirà “Benvenuti a Quarto Oggiaro”. Vogliamo far sì che i ragazzi comprendano di poter essere i protagonisti della loro vita, promuovendo una crescita culturale e umana, spingendo questi ragazzi a evitare di essere convogliati nei canali della criminalità, dell’abbandono al degrado e dell’insoddisfazione verso la propria vita, con tutti gli atteggiamenti da bullo e pseudocriminale che ne derivano. Da chi viene gestito?All’apertura eravamo in tre ragazzi, tra i 17 e i 19 anni, tutti ex utenti del Centro Giovani. In questi sei anni all’incirca 30 persone si sono avvicendate nel consiglio direttivo, che è composto da dieci membri. La formula di gestione è quella di aderire con una tessera associativa annuale del costo di 7€. Attualmente contiamo 210 soci e riusciamo ad andare avanti soprattutto grazie al loro lavoro volontario. Qual è stata la reazione del quartiere?É stata senza dubbio positiva. Abbiamo avuto problemi più che altro all’inizio: durante il primo anno abbiamo subito furti e atti di vandalismo. Ora invece siamo considerati un punto di riferimento per più o meno qualsiasi cosa nel quartiere. Abbiamo una grande responsabilità, in qualche 4

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modo ci troviamo a fare da referenti verso la “società civile”: già dal punto di vista urbanistico, Quarto è un quartiere isolato, ti rende a parte, ti fa sentire a parte. E noi cerchiamo di colmare questa distanza.In che rapporti siete con la giunta comunale?La giunta di prima ascoltava poco e finanziava poco. Quella di adesso ascolta molto ma finanzia anche meno. Ha un po’ tradito le aspettative della campagna elettorale sulla rivalutazione delle periferie. È un problema: non ci sono soldi, e se ci sono, comunque per i prossimi due anni non saranno destinati a noi. Stiamo cercando di capire a quali bandi possiamo partecipare con una realtà come la nostra. Ci siamo trovati molto bene invece con il nuovo Consiglio di Zona (che ha patrocinato il corso di writing) forse anche perchè sono stati eletti ragazzi giovani, con voglia di fare.E con Quarto Posto?Quarto Posto sta facendo un buon lavoro, soprattutto su Piazzetta Capuana. Però hanno aperto da poco, devono ancora radicarsi nel quartiere: i ragazzi sentono che non sono di Quarto; noi il giovedì sera e a tutte le loro iniziative andiamo a fare massa critica, ma ci vuole un po’ perchè la gente possa fidarsi, fare di te e del tuo progetto un punto di riferimento.Cosa è stato fatto di cui siete particolarmente fieri e cosa si può ancora fare?Un’eccellenza è stata la scuola di italiano per stranieri, creata con l’intenzione di accogliere le comunità migranti “nuove” (nordafricane, esteuropee, cinesi), sostituitesi a quelle “vecchie”, quelle meridionali degli anni ‘50 e ‘60, cercando non soltanto la voglia di insegnare l’italiano ma creare tutta una serie di iniziative, quali gite, feste e proiezioni, per far capire un po’ la cultura italiana e milanese e, così facendo, accorciare le distanze che possono eserci inizalmente tra migranti e nativi. Alcuni studenti della scuola sono diventati soci e membri molto attivi di Baluardo, ad esempio Ali, ex studente, adesso è nel consiglio direttivo.A partire da settembre, invece, avvieremo una collaborazione con l’istituto di formazione professionale Greppi, che porterà avanti una scuola di musica e una polisportiva, sia per i ragazzi della scuola sia per gli utenti di Baluardo.

Quarto Posto è affiliato all’Arci. Com’è nata la collaborazione?Nasce un anno e mezzo fa, come collettivo indipendente di giovani tra i 25 e i 30 anni, che ha chiesto una collaborazione ad Arci Itaca per svolgere delle attività, ma nel tempo è andato strutturandosi e adesso si sta costituendo come un’ associazione a sè stante affiliata ad Arci.Come mai avete deciso di prendere questo spazio? Ve lo hanno assegnato o è stata una scelta vostra?È nato da un’esigenza nostra. Volevamo provare a fare eventi culturali anche di poratata abbastanza alta e proporli in un contesto più popolare. Avevamo già visto fiorire in città esperienze molto postive di cultura nata dal basso e ci sembrava una buona sfida proporre questo sistema in un quartiere diverso dai soliti, di cui tutti avevamo già esperienza, chi attraverso la politica, chi attraverso il volontariato, avevamo già sperimentato la realtà di Quarto Oggiaro.Di cosa vi occupate?Svariati tipi di iniziative. Abbiamo oganizzato serate di

Intervista ad AnnaQuarto Posto

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karaoke, tornei di calcio, radiospettacoli, presentazioni di libri di scrittori di Quarto, cabaret, grigliate, concerti, una sera siamo riusciti a offrire uno spettacolo lirico. Tutto nasce dalla partecipazione di persone che vengono qui per bere una birra e hanno un’idea su cosa si potrebbe fare. Per lo più le iniziative nascono dalle loro proposte, noi aiutiamo a metterle in pratica. Teniamo iniziative anche fuori da piazzetta Capuana, in altri circoli Arci e in altri spazi del quartiere; soprattutto quando facciamo iniziative in collaborazione con Baluardo, l’A.N.P.I. o a Villa Scheibler. Qual è stata la reazione del quartiere?La reazione è positva. Anche se è molto difficile raggiungere una fascia media. Si riesce a raggiungere chi vive in piazza e chi ha comunque una certa mentalità e frequenta già alcuni ambienti di associazionismo di quartiere, politico o di volontariato. Il punto è che Quarto non è più quella degli anni ‘60: esiste oggi anche una Quarto Oggiaro dell’impiegato d’ufficio che è molto più difficile raggiungere.

Per quanto rigurada, invece, l’episodio della bomba carta?

Come sempre quando un posto diventa attivo, attira attenzioni nel bene e nel male. Se nel 95% dei casi le ha attirate nel bene, è successo che una certa sottocultura che è presente qua, quella che non vede di buon occhio una piazza popolata, ha portato a questo atto vandalistico il giorno della Vigilia di Natale e due o tre persone sono rimaste ferite. Purtroppo il vandalismo è pratica comune, e in questo caso sicuramente ne eravamo noi l’oggetto, ma in altri casi non è sempre così evidente a chi è rivolto. C’è

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una cultura che porta all’omertà e questo appoggia, anche indirettamente, certi atti isolati da parte di chi non supporta le logiche di cittadinanza attiva, di lotta alla mafia ecc.Avete avuto appoggi da parte del Comune e del Consiglio di Zona?Molto dal Consiglio di Zona, che ci ha sempre sostenuti e appoggiati. Con il Comune stiamo aprendo ora un’interlocuzione a proposito dei numerosissimi spazi sfitti presenti nel quartiere. Gestirli a partire da politiche aggregativo-culturali come questa potrebbe essere davvero la base per la lotta alla sicurezza: vivere il quartiere, abitarlo, occupare positivamente gli spazi.Quali sono le iniziative di cui andate più fieri e quali sono state le sfide maggiori che avete dovuto affrontare?Ci sono iniziative ben riuscite dal punto di vista della partecipazione, che si riflettono positivamente sul quartiere e i suoi abitanti, soprattuto le feste di piazza. Altre iniziative, anche se magari meno partecipate,

hanno comunque la capacità di spezzare la logica

del reietto a tutti costi,come la lirica o la degustazione di vini.

Questo è un quartiere dove ci sono molte coseda valorizzare: una capacità relazionale altissima e un associazionismo fortissimo che collaborano e lavorano insieme.La sfida più grande è dare continuità a tutto questo. Una sera a settimana non è sufficiente, ma una volta visto che il modello funziona, bisogna impegnarsi a replicarlo.

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Ci stiamo avvicinando alla fi ne del mondo!” annunciano all’unisono ambientalisti e Maya. Ma dovendo scegliere per quale profezia preoccuparsi, non ce ne vogliano gli autori di Voyager, pare opportuno dare la precedenza ai timori ecologisti.

La rinuncia al nucleare infatti, pur mettendoci al riparo dal rischio di gravi incidenti, riacutizza i timori legati alle emissioni di Co2. Le energie rinnovabili, alternativa designata dei combustibili fossili, sono veramente in grado di soddisfare il nostro bisogno energetico? Vediamo le due tipologie di rinnovabile al momento più promettenti.L’energia rinnovabile al momento più sviluppata, escludendo l’idroelettrico, è senza dubbio l’eolico. Questo tipo di energia è pulito e relativamente poco costoso, ma presenta diverse problematiche: su tutte la superfi cie occupata e l’intermittenza nella produzione. Per produrre l’energia di una centrale nucleare, ad esempio, occorrerebbero circa 2500 pale, che occuperebbero una superfi cie pari a 1000 km2, più di cinque volte il comune di Milano1, e non dappertutto c’è abbastanza vento. L’eolico in Italia ha quindi ormai raggiunto il suo massimo sviluppo? No, alcune nuove tecnologie potrebbero risolvere quantomeno il problema della superfi cie occupata (per l’intermittenza per ora c’è poco da fare).Con l’eolico off -shore, ad esempio, la pala viene costruita in mare, risolvendo i problemi di spazio e sfruttando meglio il vento. Al momento però i costi sono circa del 30% più alti rispetto all’eolico on-shore e l’impatto ambientale viene spesso contestato.Aff ascinanti due altri progetti in fase di sperimentazione: l’eolico off -shore su piattaforme galleggianti2 e il Kite Wind generator3. Il primo sviluppa lo stesso concetto dell’eolico off -shore, installato in mare, ma senza bisogno di fi ssare la pala al fondale. Il generatore infatti viene posizionato su una struttura mobile galleggiante, riducendo potenzialmente i costi e l’impatto ambientale.Il Kite Wind, un progetto italiano, permette di catturare il vento ad alta quota, più intenso del vento a terra e soprattutto presente anche nelle zone poco ventose. Con questo progetto una sorta di aquilone viene fatto fl uttuare ad oltre mille metri d’altezza collegato a dei cavi, che muovendosi spinti dal vento azionano dei generatori a terra (analoghi alle turbine di un normale impianto eolico).

RinnOVARe L�eneRGiA:LA sFiDA DeLLe RinnOVABiLi“

nOte1 http://www.imille.org/2011/05/i-numeri-dellenergia-senza-propaganda/ Il riferimento considera pale da 2,3 MW, con pale più grandi la superficie potrebbe ridursi.2 http://www.a-realestate.it/news/estero/120105_eolico_test_nuovo_offshore_non_ancorato.html3 http://kitegen.com/?page_id=87 4 Per calcolare il costo delle varie fonti d’energia si inseriscono convenzionalmente gli interessi sul debito necessario per avviare la produzione. Se la cifra è imprescindibile per strutture che costano molto (nucleare, eolico, grandi impianti di solare), è a mio avviso fuorviante quando si parla di strutture destinate all’uso domestico, i cui costi ridotti non richiedono necessariamente un finanziamento bancario.8

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Il solare presenta dei vantaggi eccezionali, anche a confronto delle altre energie rinnovabili. La superfi cie occupata è pressoché irrisoria e anche il problema della natura intermittente dell’energia solare può essere risolto (si veda per entrambi gli aspetti l’articolo sul progetto Desertec). Inoltre il solare permetterebbe una democratizzazione dell’energia, in quanto il cittadino diventa il produttore dell’energia che consuma.Il vero limite del solare è al momento il costo, descritto secondo le convenienze come faraonico oppure molto competitivo.La valutazione dei costi del solare è problema oltremodo spinoso, che presenta un’infi nità di variabili. Il costo varia sensibilmente se si posiziona il pannello in Sicilia o in Norvegia, se si considerano i costi di fi nanziamento oppure no4 e a seconda della tecnologia a cui ci si riferisce.Si possono però porre alcuni paletti oggettivi: nel 2000 e poi nel 2004 la Germania ha varato una “legge sulle energie rinnovabili” che concede un contributo a chi produce energia da fonti alternative. Il contributo deve permettere al produttore di recuperare le spese ed avere un guadagno, e varia a seconda della fonte (per eolico e idroelettrico, molto più effi cienti, è nettamente più basso)

Livello dei sussidi in ct/kWh per pannello posizionato sul tetto di un edifi cio5

Come si vede chiaramente la riduzione del contributo necessario a rendere la tecnologia conveniente è stato costante, mediamente il 5% annuo, e ha avuto un’impennata verso il basso negli ultimi anni. Attualmente il contributo ammonta a 18 ct/kW, un kW in una bolletta in Italia costa mediamente 146 centesimi. Il costo di produzione del kW si attesta intorno ai 23 ct/kW7.Considerando che il costo al kW dei combustibili fossili non supera i 7 centesimi è indubbio che il solare ha un costo tale da non consentire ancora un impiego su larga scala. È altrettanto indubbio però che la rapida caduta dei prezzi permette di immaginare un impiego molto più ampio a breve tempo.

RinnOVARe L�eneRGiA:LA sFiDA DeLLe RinnOVABiLi

a cura di Filippo Bernasconi

Livello dei sussidi in ct/kWh per pannello posizionato sul tetto di un edificio

Fino a 30 kW 57.4 54.5 51.8 49.2 46.7 43.0

39.1 34.0 33.03 28.74 24.43 20.77 18.57

20042005

20062007

20082009

201007/2010

10/20102011

201207/2012

(-15%) 2013

(-24%)

5 Fonte: http://de.wikipedia.org/wiki/Erneuerbare-Energien-Gesetz#Photovoltaik. La tabella è presa dalla corrispondente pagina tedesca di wikipedia (esiste una traduzione in inglese priva però della tabella e di molti dettagli). Nella tabella originale si indicano i contributi per numerosi possibili impianti, in questa versione ho segnalato solo i costi per un piccolo impianto casalingo.6 http://www.qualetariffa.it/quanto-costa-un-kwh-con-enel-energia/ nell’articolo è presente anche un calcolo prudente dei futuri costi dell’energia solare.7 http://www.ilpost.it/filippozuliani/2011/05/20/quanto-costa-lenergia-davvero/ La cifra di 23 Cent. comprende i costi di finanziamento.

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DeseRtecSi sa che le soluzioni più semplici sono spesso le migliori, e il progetto Desertec non fa eccezione. L’idea di base è produrre energia solare dove c’è più sole, e trasportarla dove ce n’è di meno. Come? Costruendo giganteschi impianti fotovoltaici nel deserto del Sahara, dove in sei ore si irradia l’energia consumata nel mondo in un anno, e trasferendo l’energia prodotta in Europa.1Il progetto, nato nel 2003, da utopia futuristica sta diventando pian piano una possibilità concreta . Vediamo alcuni limiti realizzativi e quali risposte si sono trovate finora.

Spazio necessario: il fotovoltaico richiede pochissimo spazio. Si è calcolato che nel Nord Italia (non proprio baciato dal sole), un MW di potenza, che produce circa 1200 kWh annui, necessita di 7000 m2. Per soddisfare il fabbisogno italiano sarebbero quindi necessari circa 1800 Km2 di terreno, circa la metà della Val d’Aosta (il deserto del Sahara ha una superficie di 9.000.000 di Km2)2.

Picco dell’energia: l’energia solare non è più necessariamente intermittente. Il solare termodinamico non produce energia solamente durante il giorno, ma anche in assenza di sole; una serie di specchi, infatti, riflette la luce, creando il calore necessario per produrre vapore e azionare così turbine e generatori. Il calore in eccesso può essere poi accumulato in serbatoi contenenti particolari sali fusi e venir utilizzato di notte. Un importante risultato “collaterale”, specialmente in zone desertiche, sarebbe la produzione di acqua dolce.

Il problema del “picco”Il picco di energia corrisponde al momento di massimo consumo di energia. Le energie rinnovabili dipendono di norma da fattori climatici intermittenti ed esporrebbero quindi la rete a possibili black-out. Le tipologie di energia rinnovabile non intermittente al momento sono l’idroelettrico, il solare termodinamico e le biomasse.

Trasporto: l’energia attraverserebbe il Mediterraneo attraverso cavi sottomarini. Già adesso le attuali tecnologie consentono infatti il trasporto di energia su lunga distanza con una perdita del 3% ogni 1000 chilometri3.Allora cosa si aspetta? Innanzitutto l’area interessata è attraversata da un’instabilità politica di cui è impossibile oggi prevedere la fine. Secondariamente, l’annoso problema dei costi: il prezzo di produzione dell’energia solare, pur in caduta libera, è ancora tale da costringere gli stati a incentivi non sostenibili. Attualmente il costo dell’investimento raggiungerebbe i 400 miliardi di euro.

Filippo Bernasconi

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1 http://www.desertec.org/2 http://energiaemotori.wordpress.com/2011/05/10/i-numeri-dellenergia-senza-propaganda/http://forum.corriere.it/fotovoltaico-ed-eolico/04-05-2010/superficie-necessaria-per-il-fotovoltaico-1535465.htmlL’autore raddoppia la cifra considerando uno spazio vuoto tra i pannelli.3 http://energiaemotori.wordpress.com/2011/05/10/i-numeri-dellenergia-senza-propaganda10

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Oggi l’auto elettrica rappresenta un’aspirazione di molti ma un bene di pochi, visti i prezzi alti e i modelli esigui.Forse non molti sanno che fu una delle prime tipologie di automobile, inventata già nei primi dell’Ottocento

dall’imprenditore scozzese Robert Anderson.Presto, tuttavia, i limiti tecnologici – la poca autonomia della batteria, lo scarso e non ancora ottimizzato controllo della carica e della trazione – furono causa del decadimento dell’auto elettrica, che poteva raggiungere una velocità massima di 35 km/h appena. Fu così circoscritta all’uso in città, destinato per lo più alle donne, poco interessate alla velocità e al rombo del motore a combustione.Una delle numerose virtù di questo tipo di auto è, infatti e senza dubbio, la sua silenziosità e non ha rivali quando parliamo di eco sostenibilità: negli ultimi anni, viste le conseguenze del riscaldamento globale, si sta sempre più pensando di sostituire progressivamente le auto a benzina, che offrono un’efficienza energetica del 25-28 %, e a diesel (40%), contro il trionfale 90% di quelle elettriche. Se una tipica auto consuma circa 0,51 Kwh/km – 5 litri di benzina per 100 km – quella elettrica ne impiega invece dai 0,11 ai 0,23.Senza contare che non producono alcun gas di scarico, con enorme vantaggio per città e polmoni.Altro loro pregio è l’accelerazione bruciante: con la stessa potenza un’auto da corsa tradizionale arriva da 0 a 100 km/h in 4,2 secondi, mentre quella elettrica in soli 3,9.Vero ostacolo che ne limita le vendite, oltre al costo – in Italia si parla di appena 30-35 mila vetture vendute all’anno – è l’autonomia delle batterie e l’esiguo numero di stazioni nelle nostre città dove caricarle. Per quanto riguarda Milano, GuidaMi, il servizio car sharing della città, con un accordo tra ATM e A2A , ha installato 20 colonnine per ricaricare i nuovi modelli di auto elettriche entrati a far parte del servizio eco sostenibile.Il 7 giugno scorso dalla Camera è stato approvato un decreto legge bipartisan per realizzare un’infrastruttura nazionale di rifornimento: verranno stanziati 420 milioni di euro per incentivare la produzione e il commercio di auto elettriche e un bonus di 5000 euro per l’acquisto di un’auto elettrica, anche in leasing.In seguito a questo decreto legge, Deborah Bergamini (Pdl) e Ludovico Vico (Pd) hanno presentato in commissione un nuovo testo unificato che prevede anche una spesa di 70 milioni (dal 2013 al 2015 ) diretti a un Piano nazionale infrastrutturale per la ricarica dei veicoli elettrici ed un’altra spesa della stessa cifra da utilizzare come incentivi fiscali per l’acquisto. Tale somma è stata rastrellata dal Fondo del Ministero dell’Ambiente e nell’attesa dell’approvazione della commissione di Merito, della Camera e del Senato, si spera in un passo in avanti che possa incentivare anche la nostra economia.

Maria Catena Mancuso

L’alternativaelettrica

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tesLA MOtORs VUOLecAMBiARe iL MOnDOtesLA MOtORs VUOLecAMBiARe iL MOnDOMaria Mancuso intervista Roberto ToroCommunications Manager Tesla MotorsPuò spiegarci brevemente di cosa si occupa la vostra azienda?Tesla Motors è un’azienda californiana, nata nel 2003 a Palo Alto. Lo sviluppo del primo prodotto è iniziato nel 2005, la prima consegna è nel 2008 negli USA, nel 2009 in Europa. Fondamentalmente Tesla Motors sviluppa, produce e commercializza autoveicoli totalmente elettrici.Può descriverci i modelli Tesla?Ad oggi la nostra gamma di prodotti è composta dalla Tesla Roadster, una super sportiva totalmente elettrica che va da 0 a 100 in 3,7 secondi con 340 km di autonomia, ricaricabile attraverso qualsiasi presa di corrente. Garantisce più del doppio di autonomia di qualsiasi auto oggi in commercio ed ha un prezzo base che parte dai 100.000 euro. A partire dalla fine del 2012 sarà sul mercato la Tesla Model S: una berlina ad alta gamma, tutt’altro tipo di prodotto rispetto alla Tesla Roadster, con un’autonomia di quasi di 500km.Con quali materiali sono costruite le vostre auto?La Tesla Roadster è interamente in fibra di carbonio, mentre il telaio è in alluminio. Le batterie sono composte da celle di ioni di litio e da materiali riciclabili. Il model S è interamente in alluminio e le batterie sempre agli ioni di litio.Le auto Tesla non sono accessibili alla maggior parte della gente comune, crede che sarà possibile una loro maggiore democratizzazione?Il model S costerà molto meno della Roadster: l’obiettivo dichiarato dell’azienda è quello di avvicinarsi al mercato di massa, per noi la tecnologia dell’elettrico deve appartenere a tutti. Il nostro obiettivo è combattere l’inquinamento atmosferico abbandonando ogni tipo di alimentazione tradizionale.Quali sono gli incentivi oggi in Italia per un possibile acquirente Tesla?A partire dal 2013, in seguito al decreto “Sviluppo” del governo tecnico, è stato inserito un incentivo di 5000 euro per la mobilità elettrica.Quante auto vendete in Italia in un anno?È un dato che non posso comunicare… Di Roadster ce n’è circa una decina, ma l’Italia sarà un mercato cruciale per la Model S.L’Italia, a livello pratico, è pronta ad accogliere questo tipo di innovazione, come avviene negli Stati Uniti?Sicuramente l’Italia deve fare degli enormi passi in avanti per avvicinarsi ad una tecnologia che spesso e volentieri rimane ancora poco diffusa, sia per ragioni culturali, sia per le carenze di infrastrutture e incentivi.

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tesLA MOtORs VUOLecAMBiARe iL MOnDOtesLA MOtORs VUOLecAMBiARe iL MOnDO

Cosa bisogna ancora fare esattamente?Infrastrutture – quindi colonnine di ricarica – incentivi più alti e diffusione dell’auto. Noi siamo convinti che l’auto debba essere testata: Tesla organizza numerosissimi test drive per tutta Italia.Cosa distingue le auto Tesla dalle altre auto elettriche?Tesla è sicuramente capace di costruire auto di gran lunga superiori rispetto a quelle oggi in commercio, sia da un punto di vista di performance (basti pensare che la Roadster è una macchina sportiva a tutti gli effetti: va da 0 a 100 in 3,7 secondi, uno in meno di un Porsche Carrera), sia ovviamente dal punto di vista dell’autonomia: 340 km contro i 100 delle altre.Quali sono i vostri principali rivali sul mercato? Tesla non considera gli altri costruttori come diretti concorrenti. Ad oggi nessuno produce veicoli appartenenti allo stesso segmento di Tesla: una berlina di lusso e una supersportiva totalmente elettriche.Quanto è cresciuto il vostro mercato negli ultimi anni? Ha risentito della crisi?Sicuramente la crisi si è fatta sentire anche sui beni durevoli, però Tesla produce un prodotto d’alta gamma che le ha permesso di sopravvivere in un momento così difficile. Una dimostrazione sono le oltre 13.000 prenotazioni per il Model S. Sottolineo che si tratta di una macchina che nessuno ha mai provato o visto di persona – a parte nei saloni dell’auto.A quanto si aggira il costo annuale della manutenzione di un’auto Tesla? Quanto si può risparmiare rispetto a un’auto normale?Le auto Tesla non hanno bisogno di una manutenzione ordinaria; il veicolo elettrico si basa semplicemente su una batteria che alimenta un motore a magneti direttamente collegato ai pneumatici: non c’è nulla soggetto ad usura.Il cliente deve soltanto fare un check up elettronico completo una volta all’anno per il controllo della batteria, coperto prima da garanzia e poi con costi diversi a seconda del paese (comunque meno del tagliando). Infine con una ricarica completa della Tesla Roadster (5 euro di elettricità) si è in grado di guidare per 340 km; un’auto sportiva a benzina, con 5 euro, arriva a circa 40 km, nove volte di meno.Cosa significa per lei far parte di quest’azienda?Tesla non è solo un’azienda ma un grande progetto del quale sono molto orgoglioso. Prima lavoravo altrove: mi sono spostato in Tesla perché propone un cambiamento vero, non un semplice lavoro nel mondo dell’auto. Lavorare perché questo cambiamento avvenga è una sfida continua, che stravolge la filosofia che ha sempre contraddistinto questo settore e il suo modello di business spesso statico.

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Quando George Bernard Shaw disse: “Mi trovo in Paradiso o sulla Luna?” si trovava in Montenegro. Precisamente, in quello che oggi è il Parco Nazionale di Lovcèn, dove si innalza quella Crna Gora, quella montagna nera, che a questo Stato

ha dato il suo nome.

Se avete un debole per le montagne a strapiombo sul mare, i monasteri scavati nelle rocce, i canyon, la natura selvaggia e la grappa fatta in casa, probabilmente concorderete con il vecchio George: il Montenegro è un vero paradiso. E non occorre credere in qualche dio per poterlo visitare: basta un’auto! Anche in un periodo di crisi come questo è la scelta più conveniente: questo agosto la benzina si aggirava sull’ €1,3/4 al litro; d’altronde tutto il Paese, che adotta l’Euro pur non rientrando ancora nell’Unione Europea, ha dei prezzi molto vantaggiosi. Questo fatto può sembrare curioso, ma in realtà si spiega ricordando che il Montenegro, all’epoca della presidenza Milosevic, volle determinare la propria politica economica indipendentemente dalla Serbia e così adottò il marco tedesco (e conseguentemente l’Euro). Fatto che agevolò sicuramente l’economia montenegrina al momento dell’indipendenza dalla Serbia, conseguita il 3 giugno 2006.Il Montenegro per molti anni è stato una delle mete preferite per il turismo “interno” della zona balcanica: visitato soprattuto da serbi, albanesi, russi, croati, romeni e bulgari, ora si sta aprendo anche al lato occidentale dell’Europa. Sono sempre più numerosi, infatti, i turisti tedeschi, francesi e italiani che visitano le terre e soprattutto le coste montenegrine. In particolar modo lungo il versante adriatico, nella zona di Budva (famosa per la vita notturna) e Sveti Stefan (una peculiare penisola arroccata, adibita a resort di lusso), è possibile notare i segni della speculazione edilizia e leggerci un imminente boom turistico: non esagero affermando che entro un paio d’anni il Monenegro si trasformerà in una delle mete turistiche principali della zona

La Lunain terra

14 cULtURA

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ionico-adriatica.Questo incessante costruire sta impoverendo la bellezza della costa, ma allo stesso tempo preserva l’entroterra dal fare la stessa fine (almeno per ora). La bellezza del Montenegro, infatti, giace al suo interno. Nella la Baia di Kotor, una maestosa gola di fiume invasa dal mare e incastonata fra le montagne, dove si susseguono incantevoli cittadine, la più importante delle quali è, appunto, Kotor, l’antica Cattaro veneziana, costruita quasi interamente in roccia calcarea bianca e circondata dai 13.000 gradini che costituiscono i resti delle sue imponenti mura. La “piccola muraglia” è agibile in quasi tutto il suo percorso e, in approsimativamente 45 minuti (a seconda della vostra forma fisica), vi condurrà al forte, sulla sommità della collina: la vista della baia infuocata dal tramonto costerà un sospiro anche al più cinico dei visitatori.Temprati dal giro sulle mura, sarete in grado di affrontare l’impervia salita (all’incirca 1km) verso l’ortodosso Monastero di Ostrog, detto “Il miracolo di San Vasilije”, visto che nessuno sembra capacitarsi del fatto che sia sorto lì, letteralmente incastrato nella montagna, a strapiombo sul nulla. In realtà è stato costruito all’interno di due grandi grotte nel 1665 dal vescovo erzegovino Vasilije, il futuro santo, dopo l’invasione turca della zona di Trebinje. Nostante il paesaggio molto suggestivo che si ammira dalle balconate del monastero, il vero spettacolo è la vista del monastero stesso dal sentiero giù a valle: alto e bianchissimo, sembra effettivamente cresciuto nella roccia.Ormai rodati in fatto di salite e scalinate, non vi resta che l’ultima, imperdibile, tappa del Montenegro, il Parco Naturale del Durmitor: resort sciistico d’inverno, hot spot per chi pratica rafting in primavera e di una bellezza incomparabile per tutto l’anno, questo parco punteggiato da 18 laghi glaciali, il maggiore dei quali è il placido Lago Nero, è anche famoso per essere attraversato dalla Gola del Tara, che con i suoi 1300m di profondità è seconda solo al Grand Canyon.Solitamente visitare il Durmitor richiede tutta la giornata, e questo non è un male, così al ritorno potrete fermarvi in uno degli slarghi presenti lungo quelle tortuose stradine di montagna e guardare il cielo. Illuminato a giorno dalle stelle e percorso da una nitidissima Via Lattea. E se non la vedrete di fronte a voi, penserete davvero di trovarvi sulla Luna.

Gemma Ghiglia

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Amafinio, chi era costui?”, si saranno chiesti i numerosi candidati alla prima prova (un quiz) per l’ammissione al Tfa, Tirocinio Formativo Attivo, un corso di un anno propedeutico all’insegnamento che sostituisce la Ssis per la formazione

degli insegnanti. E non solo l’illustre Amafinio (un epicureo latino, per la cronaca) capeggiava tra le domande del test, ma anche Roberto Testagrossa (invece che Grossatesta) ed Ermarco di Mitilene, il cui contributo alla storia della filosofia è stato talmente determinante da non meritare nemmeno un rimando sull’Abbagnano, che di autori ne cita ben 1200. Non sorprende quindi che il risultato finale sia stato una vera mattanza: per la classe di filosofia, su 3000 candidati, hanno superato il test in 144. Numerosi atenei non hanno neanche un promosso (Milano è tra questi), mentre quasi la metà degli ammessi appartengono alle università di Roma 3, Palermo e Bari, evidentemente fucine di brillanti pensatori.Non sono ovviamente mancate le polemiche: sotto accusa le domande oscenamente nozionistiche (vedere per credere), le ambiguità e gli errori. Nessuno rimpiange assunzioni di massa e professori incompetenti, senz’altro è importante una seria selezione, che faccia sì che i pochi posti disponibili vadano a chi veramente se li merita. Ma siamo sicuri che non esistano altre procedure per valutare la preparazione dei candidati? I novelli Gerry Scotti che hanno preparato questi quizzoni, davvero pensano che per insegnare al liceo si debbano conoscere a memoria i nomi di oscuri scolastici e dimenticati epicurei latini? Un po’ come se per scrivere alla Gazzetta dello sport si dovesse conoscere a memoria la formazione del Castel di Sangro.La storia però non finisce qui: nella miglior tradizione della scuola italica, patria del sei politico, si è deciso di rispondere all’ingiustizia con una bella sanatoria. Tutte le domande giudicate non idonee, tantissime, sono state annullate, in questo modo il numero degli ammessi è lievitato, in alcuni casi decuplicando la cifra iniziale. Facile immaginare la rabbia di chi era stato ammesso già in prima battuta: alla doppia soddisfazione di aver superato un esame difficilissimo e di ritrovarsi con pochissima concorrenza, è subentrato lo sconforto per esser scavalcato in graduatoria da candidati che avevano fatto più errori, ma magari avevano più anni di servizio. Molti di loro, alla faccia del merito, rimarranno tagliati fuori in favore di qualche aspirante docente anzianotto e meno preparato. Insomma, difficile capire se questa sanatoria sia il male minore, o la classica pezza peggiore del buco.

Filippo Bernasconi

O’ Gongorso

Disavventure del diventare insegnanti

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Ironicamente il nostro Paese, che per oltre un secolo è stato terra di emigrazione, negli ultimi vent’anni ha dovuto affrontare un rapido cambiamento di ruoli. L’italia è ora chiamata a misurarsi con flussi migratori provenienti da varie parti del mondo e deve prendere atto della

presenza sulla scena pubblica delle nuove generazioni frutto dell’immigrazione. La presenza dei discendenti dei migranti nelle scuole è ormai diventata familiare e scontata.Questi ragazzi si trovano ad affrontare non soltanto i cambiamenti legati alla crescita, ma anche quelli riguardanti il loro inserimento in un’organizzazione sociale e in una tradizione culturale molto diverse da quelle d’origine dei genitori.Le loro scelte sono condizionate non solo dal background culturale della famiglia, ma anche dal contesto sociale in cui crescono.Alcuni di questi ragazzi per far fronte alle difficoltà di inserimento e aiutarsi a vicenda hanno fondato un’organizzazione via web la “G2”. Attraverso questa piattaforma (www.secondegenerazioni.it) parlano fra loro e con gli italiani, si scambiano opinioni ed esperienze.Dalla ricerca “Le seconde generazioni tra mondo della formazione e mondo del lavoro” (promossa da Rete G2 Seconde Generazioni in collaborazione con ASGI, Save The Children e con il contributo dell’ Unar) emerge che “l’alto numero di figli di immigrati iscritti agli istituti tecnici in parte è dovuto alla loro condizione di italiani con il permesso di soggiorno. Scelgono percorsi di formazione che accelerino la ricerca del lavoro al termine degli studi superiori, pur avendo ottenuto ottimi voti a parità di risultati con i ragazzi italiani.Molti scelgono di andare a lavorare il prima possibile per non pesare economicamente sulla famiglia”.Inoltre coloro che arrivano da adolescenti, pur avendo solitamente alle spalle famiglie che li motivano allo studio, inizialmente si trovano in difficoltà con la lingua e hanno problemi relazionali. Per questi motivi spesso vengono indirizzati dai professori, che in molti casi sottovalutano le loro capacità e ambizioni, a scuole professionali.Il sistema scolastico ha un ruolo fondamentale per i figli dei migranti perché deve fornire loro tutti gli strumenti necessari per affrontare le difficoltà che incontreranno per partecipare con successo alla vita della società. Invece, la scuola italiana rischia di riprodurre forme di mobilità discendente per i figli dei migranti, indirizzandoli verso percorsi professionali non troppo differenti rispetto a quelli dei loro genitori. È fondamentale, al contrario, che il sistema scolastico favorisca l’integrazione di questi nuovi italiani, mettendoli così in condizione di scegliere autonomamente il loro futuro e diventare così una risorsa per la società.

Seconde generazioniIl ruolo del sistema scolastico nell’educazione

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Hanno fatto clamore le proposte di classi per soli figli di stranieri o come le definisce la stampa “classi ghetto”.Un caso emblematico a Milano è quello della scuola elementare di via Paravia. Come è noto, il Ministero dell’Istruzione non ha autorizzato la formazione di una classe di prima elementare perché composta da soli bambini stranieri più due italiani e, quindi, contro la norma che prevede una percentuale del 30% massimo di presenza di alunni stranieri.È pur vero che la scuola di Paravia è un caso particolare, basti pensare che nel 2009 su 96 bambini iscritti solo tre erano italiani. D’altro canto, molti di questi bambini sono nati qui o arrivati da piccoli, quindi hanno una buona conoscenza dell’italiano.La percentuale fissata dal Ministero rischia di essere inadeguata non solo in questo caso, infatti la percentuale di alunni stranieri iscritti alle scuole elementari e medie è molto alta: quasi il 10% in tutta Italia, con picchi anche del 50% in alcune scuole del Nord Italia (dati Caritas).Il problema è complesso: non si dovrebbero fare classi di soli figli di migranti perché diventerebbero comunque “classi ghetto”. La diversità non risiede nella capacità di parlare italiano nè tanto meno nel colore della pelle, ma dipende soprattutto dalla cultura e delle tradizioni della famiglia di origine.Bisogna favorire l’integrazione soprattutto per quanto riguarda i più piccoli: se i bambini italiani entrano a contatto fin da piccoli con i figli dei migranti e crescono insieme a loro, da adulti li tratteranno da uguali e saranno più aperti e curiosi rispetto alle differenze culturali.D’altronde anche l’esempio dei Paesi di più antica immigrazione ci dimostra che le classi separate non sono un bene. Negli Stati Uniti furono create classi che separavano per due o tre anni gli scolari latinos dagli scolari di lingua inglese, inserendoli in un’ educazione bilingue. Questi alunni “latini” rimasero drammaticamente indietro rispetto ad altri figli di migranti di altre etnie che non erano stati separati.

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Non che l’educazione bilingue sia sbagliata, ma i bambini apprendono il linguaggio sia attraverso le interazioni informali sia attraverso l’istruzione formale ed è un errore negare ai figli degli immigrati l’opportunità di tali interazioni. Le lingue si imparano parlando, non solo studiando, e soprattutto interagendo con i propri coetanei madrelingua. L’interazione sociale tra italiani e migranti di seconda generazione è il modo migliore per garantire un buona integrazione tra gruppi etnici diversi, non solo per imparare bene l’italiano ma anche per conoscere, capire ed apprezzare culture diverse.I nati in Italia nel 2010 sono per più del 50% figli di migranti, questi bambini avranno una grande rilevanza sul piano sociale; la presenza della seconda generazione ormai è una realtà concreta ed è diventato fondamentale il tema dell’integrazione.Nell’attuale contesto italiano sono molti i figli di migranti cresciuti qui che già sono giovani adulti, e i dati relativi ai tassi di istruzione rivelano differenze minime tra italiani e stranieri: tra i primi 12,5% ha una laurea, tra i secondi il 10,2% (ISTAT 2010).Ci sono state molte iniziative a favore dell’integrazione dei figli dei migranti nella società. In particolare nel 2008 l’Università degli Studi di Milano (e qui emerge nuovamente l’importanza della scuola nel favorire l’integrazione) ha ospitato una mostra sulla diversità, promossa da Pubblicità Progresso. In una sezione della mostra dedicata al tema dei migranti sono stati presentati sette percorsi, sette vie di integrazione reciproca e di dialogo culturale. Questa mostra, concepita nel 2007 “anno europeo delle pari opportunità per tutti”, ha sottolineato il valore del dialogo che è fondamentale per un’effettiva relazione tra le varie culture, per una reciproca

comprensione e per la valorizzazione delle diversità.Presupposti per il dialogo sono

il riconoscimento dell’altro e l’ascolto reciproco, basi di partenza

per poter sperare di superare le incomprensioni e i conflitti.

Dobbiamo avere la consapevolezza del fatto che ormai viviamo

in una società multirazziale dove tutti sono responsabili

del destino comune.

Elena Sangalli

foto Marnie Joyce 19

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QUAttRO chiAcchieRe & UnO ZOMBieintervista ai Lava Lava Lovedi Alessandro Massone

I Lava Lava Love sono un giovane gruppo indie pop italiano. Scrivono musica intelligente e la suonano bene. Dopo un EP nato quasi per caso nell’estate 2011, hanno proseguito con l’LP A bunch of Love Songs …and Zombies, e sono stati scelti come New Generation Artist da MTV Italia, passando in heavy

rotation con il video di Your Lite sul canale Mtv Music del digitale terrestre. Sono Florencia Di Stefano, Vittorio Pozzato, Massimo Fiorio, Oliviero Farneti e Andrea Sbrogiò. Stanno per pubblicare il loro secondo disco.

Come va? Nati per caso, prima insieme per gioco e poi sempre piú seri, un EP e un LP alle spalle, un altro in arrivo, un cambio di batterista: come stanno i Lava Lava Love?I Lava Lava Love stanno molto bene. Abbiamo appena finito di mixare il nuovo disco presso il Green Fog Studio di Genova (dopo averlo registrato, come già il precedente, al Dirty Sound Studio di Angiari – VR) e a giorni faremo il mastering con Andrea Suriani all’Alpha Dept di Bologna. Il disco ci piace tantissimo, e quindi non vediamo l’ora di farlo sentire a chiunque.A bunch of Love Songs …and Zombies? Perché gli zombi? Chi sono gli zombi del titolo?Parlateci dei vostri zombi nel cassetto.In realtà “...and zombies” l’abbiamo aggiunto all’ultimo momento al titolo, in quanto tutti fan dei morti viventi. In seguito, per dare un tono di serietà alle interviste e al comunicato stampa, ci siamo inventati altri significati più profondi (che ora nemmeno ricordo più), ma credo di non sbagliare dicendo che, un po’ come la nascita della band, anche questo titolo è nato quasi per caso, per puro divertimento.Abbiamo avuto una conversazione a riguardo su Twitter secoli fa quando dovevate decidere il prezzo del download dell’LP. Mesi dopo, il disco ora è gratis con offerta libera verso l’Associazione Bambino Emopatico Oncologico di Verona. Come vi siete trovati su Bandcamp? Il pubblico paga, fa offerte, o scarica e se ne va?Ci siamo trovati molto bene sia nel periodo in cui il disco era a pagamento e metà dei proventi andavano in beneficenza, sia ora che tutto l’eventuale pagamento (l’ascoltatore può scegliere se scaricare gratis o fare un’offerta) finisce in beneficenza. Per noi è stato un veicolo perfetto per far girare la nostra musica con estrema facilità. Ovviamente, se parliamo di percentuali, direi che un buon 80% ora scarica senza versare nulla, ma quelli che pagano lo fanno spesso versando cifre molto consistenti, probabilmente legate anche alla bontà di questo loro gesto. Sono certo che, se avessimo messo da subito il disco

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QUAttRO chiAcchieRe & UnO ZOMBiein download ad offerta libera, avremmo incassato le stesse cifre che abbiamo incassato mettendolo a pagamento. Giustamente, ora che il disco è fuori da più di un anno, ci sta che la gente preferisca prenderlo gratuitamente. Sempre riguardo il futuro della musica: dove si va da qui? Tra l’esperimento su Kickstarter di Amanda Palmer e servizi come Spotify e Deezer, sembra che l’idea sia tirare cose contro il muro e vedere cosa resta attaccato. Di che morte si cerca di non morire?Non ci preoccupiamo più di tanto di quale morte non morire, pensiamo sempre e solo ai modi più particolari per far arrivare la nostra musica a più orecchie possibili. Sicuramente utilizzeremo un servizio simile a Kickstarter per finanziare uno o due progetti legati alla promozione del disco (disco che, ricordiamo, ci siamo totalmente autofinanziato). Non crediamo di far parte di una determinata industria, visto anche il rapporto molto particolare (di amicizia, prima di tutto) che ci lega alla nostra etichetta The Prisoner Records. Ci sentiamo di far parte di una band che, ogni tanto, si trova per le mani alcune canzonette e deve assolutamente farle sentire agli amici. Tutto il resto è contorno dal quale ci siamo tenuti molto lontani. Cosa potete dirci del vostro nuovo disco? Cosa dobbiamo aspettarci?Un disco più semplice e anche molto più complesso del precedente. Non saprei però spiegarti questo controsenso. Le canzoni sono molto brevi, con strutture da classica canzone pop, però nella loro brevità hanno tutto quel che serve. Sicuramente abbiamo lavorato di più sugli arrangiamenti, sui testi e sulle voci, visto che abbiamo fatto una preproduzione di qualche mese prima di entrare in studio (col disco precedente invece scrivevamo le varie parti di arrangiamento direttamente in studio), e credo che questo si sentirà maggiormente. Inoltre abbiamo cercato di variare maggiormente la tipologia delle canzoni: si passa da pezzi addirittura ballabili a canzoni con riff stoner passando per ballate acustiche che ricordano il ballo Incanto sotto il mare di Ritorno al futuro. C’è un po’ di tutto, ma sempre molto nel nostro stile.A me suonate molto beatlesiani, nel migliore dei modi. È un’ispirazione cosciente? Che gruppi ascoltano i Lava Lava Love?Un’ispirazione molto cosciente. Siamo tutti fan del quartetto di Liverpool e credo si noti tantissimo, soprattutto nella scrittura di Vittorio (principale autore della band). In questo disco però credo di poter citare anche Madonna, gli Smashing Pumpkins e i Cardigans come importanti influenze nella scrittura e soprattutto nell’arrangiamento dei pezzi. Consigliate ai nostri lettori un bel disco e un bel libro:Uno non riusciamo. Facciamo due, dai.Due dischi: Revolver dei Beatles e Tree Bursts In Snow degli Admiral Fallow. Due libri: L’imprevedibile viaggio di Harold Fry di Rachel Joyce e Sotto il culo della rana di Tibor Fischer

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Alla ricerca di una verginità perduta: così si potrebbe definire la fase storica che stanno attraversando gli editorialisti italiani da qualche mese a questa parte. Un bel siglone, pomposo almeno quanto la terminologia made in antica Roma

rispolverata per l’occasione dai tromboni della carta stampata.Dimentichiamoci dei Panebianco di turno, che non più di tre anni fa non esitavano ad apporre la propria firma su di un papello nel quale la profonda tesi sostenuta era: il grande merito di Berlusconi è l’aver riproposto sulla scena politica la questione della pressione fiscale; il grande demerito è non aver mai fatto nulla per risolvere il problema; l’inquietante quesito finale: verrà o non verrà ricordato come un liberale? Roba da far impazzire Hegel (ai posteri l’onere di una risposta).Dimentichiamoci anche degli intellettuali yuppie, tutti laureati alla London School of Economics, dilettatisi per anni ad infarcire i fondi della “Stampa” o del “Sole” con inglesismi maccheronici degni di Alberto Sordi, o con concetti perlomeno dubbi della filosofia politica quali “capitale umano” e “regime di mercato etico”.Oggi, nel pieno dramma della “post contemporaneità industriale”, pare che non nei licei, né nelle università, bensì sulle principali testate, siano tornate in voga le cosiddette lingue morte ed i grandi classici della letteratura – pure loro, in stato comatoso.Si osserva con un mix di stupore e disgusto alla facilità con la quale vengono servite insalate di “tertium datur”, inalati vapori alla “mutatis mutandis” e pippate strisce di “conditio sine qua non”, come se i sintagmi latini più inflazionati dai tempi di Ponzio Pilato, potessero in qualche modo redimere gli stessi che, fino all’altro ieri, impartivano, dall’alto dei loro megafoni, lezioni di marketing aziendale e nozioni di economia spiegata ai poveri.I giochi si fanno ulteriormente interessanti quando i Cicerone de noiartri, trasformati in prestigiatori, estraggono da cilindri impolverati quel che resta nella memoria di un Abbagnano letto male ai tempi del ginnasio: il Nietzsche più innocuo che si ricordi spara cannonate sulla crisi economica che ovviamente aveva previsto; Leviatani a non finire sguazzano fra onde d’inchiostro e omerici ciclopi; si sprecano un’infinità di passi evangelici, in una sorta di auto esorcismo collettivo. Per non parlare delle strizzatine d’occhio al pubblico quando ad essere citati sono i must delle campagne pubblicitarie “Baci Perugina”, gli evergreen dell’aforisma da rimorchio: i vari Shakespeare, la Arendt , Socrate, Wittengstein, Agostino, Ghandi e Frost.Non chiedete spiegazioni agli autori di questa bislacca accozzaglia; probabilmente vi risponderebbero in coro: “ad majorem gloriam spiritus umani”.

Francesco Floris

AD MAJOREM GLORIAM SPIRITUS

UMANI

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Due uomini in giacca e cravatta si stringono la mano, uno in fiamme. L’idea è la condizione dell’uomo moderno incapace di aprirsi all’altro per paura di rimanerne

scottato. Sullo sfondo, gli studi della Warner Bros: un non-luogo dove registi e sceneggiatori perdono la concezione della vita reale per riversarsi in una fittizia. È la copertina dell’album Wish you were here, tributo all’amico ed ex componente del gruppo Syd Barrett. In realtà non esiste una dedica, ma questo è un disco sull’ “assenza”, sulla condizione alienata dell’uomo nella società moderna, e per il gruppo tutto ciò significava Syd. Siamo nel 1974 e i Pink Floyd devono confrontarsi col successo epocale di The Dark Side of the Moon. Con la fama che grava su di loro, inizia un periodo di stallo creativo dopo il quale riescono infine a registrare Wish you were here, uscito nel ‘75. L’alienazione è tema centrale in tutta la discografia dei Pink Floyd; qui ne troviamo una lettura in chiave esistenziale: Syd Barrett, linfa creativa dei primi Pink Floyd, sempre in anticipo sui tempi, tanto da aver creato un solco incolmabile tra sé e il reale, cofondatore dei Pink Floyd, li abbandonò nel ‘68 in seguito ad un crollo psicologico i cui segni erano evidenti da tempo. Il suo abbandono è stato in realtà una scelta del gruppo, non più in grado di reggere la situazione. Finchè un giorno il resto della band fece cadere nel vuoto la domanda di uno di loro “Non dobbiamo passare a prendere Syd?”. Il doloroso distacco di Syd Barrett dai Pink Floyd ebbe inizio così. L’idea di partenza di Wish you were here non era l’assenza di Syd. Egli diventa emblema dell’estraniamento dell’uomo in un mondo dominato dagli interessi. Questo concetto viene sviluppato a partire dal brano Welcome to the machine. La canzone si apre con un rumore di porte, a simboleggiare l’avanzamento del progresso, e si chiude con un brusio di folla, in un luogo dove le persone si trovano insieme senza però riuscire a comunicare realmente. Viene descritto il passaggio dall’infanzia all’età adulta, segnata dal potere della Macchina, che poi rappresenta anche il il potere dei media e l’industria discografica, all’interno della quale l’artista viene immolato in nome del profitto dei manager. Il meccanismo della Macchina in azione lo si trova invece in Have a cigar, protagonista uno stereotipato boss discografico. Questo è il punto di collegamento con Syd: in Have a cigar leggiamo tutto il disprezzo dei Pink Floyd nei confronti dello show business, e in questo mondo dominato da una macchina trasportatrice, il mondo paranormale in cui l’amico si era “rifugiato” diventa quasi un simbolo di libertà, di purezza. L’uinco modo per uscirne è la follia, come ha fatto Syd. Il leit motiv di Shine on you crazy diamond, 9 parti che iniziano e concludono l’album, è un chiaro riferimento a Syd, considerato un “seer of vision” che ha colto troppo presto il significato dell’utopia, senza riuscire a sopportarla. “Fai presto a impazzire”, è Mason che parla, “quando ti ritrovi completamente isolato, quando non vedi più nessun filo conduttore tra te e il mondo che ti circonda”. Waters racconta di non sapere esattamente perchè avesse cominciato a scrivere su Syd il testo di questo brano, è una cosa che gli è venuta naturale data la malinconia della musica, di solito composta prima dei testi. Fa eccezione Wish you were here, le cui liriche furono scritte in precedenza. E spiccano per la loro capacità di toccarci: è una canzone d’amore, una delle poche sentimentali che il gruppo ha scritto. Ma è un amore in senso ampio, è una canzone che parla di amicizia. Waters invoca l’amico che si è perso nei meandri della follia, lì dove reale e surreale non hanno confini (“Do you think you can tell?”). È qui che risiede il cuore pulsante dell’album, nell’ultima strofa: alla fine i due restano insieme, “two lost souls swimming in a fish bowl”, sullo stesso suolo, con le stesse paure.

Ludovica de Girolamo

Da riascoltareWish you were here

RUBRicA 23

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EDITORIALELAMBRUSCO E POP CORN

Come in occasione di ogni disgrazia, evento catastrofico o punizione divina che sia, il mondo parallelo del radical-chicchismo milanese si mobilita in nome dei suoi alti ideali.Le immagini della devastazione provocata dal recente terremoto in Emilia hanno suscitato in ogni frequentatore di circolo ARCi che si rispetti un profondo malessere psicofisico, che in qualche modo andava sedato.Dopo ore di dibattiti, convegni, seminari, presentazioni di libri, buffet e dissertazioni, svoltesi ai tavoli di anonime osterie utopiste, la soluzione si è materializzata in sogno, sotto forma di lingue infuocate, ai prescelti: ordinare con fare roboante bottiglie del più becero Lambrusco che l’umanità ricordi, pagarlo una fraccata di soldi, sostenendo che tale nobile gesto aiuterà a ricostruire il tessuto produttivo della bassa Pianura Padana.insomma, chi sosteneva che la rivoluzione non è un pranzo di gala, forse, non aveva tutti i torti.

Francesco Floris

Vulcano, il mensile della Statalenumero 59, ottobre 2012Milano

Direttore: Gemma GhigliaVicedirettore: Alessandro MassoneCaporedattore: Filippo BernasconiDesign: Alessandro MassoneRedazione e collaboratori: Irene Nava, Francesco Floris, Elena Sangalli, Maria Catena Mancuso, Angelo Turco, Daniele Colombi, Elisa Costa, Paola Gioia Valisi, Ludovica de Girolamo, Lorenzo Porta, Andrea Fasani, Francesca Di Vaio, Davide Contu, Danilo Aprigliano, Giuditta Grechi e Laura Carli.

La redazione di Vulcano si riunisce ogni giovedì alle ore 12,30 nell’auletta A di via Festa del Perdono 3

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