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DIPARTIMENTO DI STUDI LINGUISTICO-LETTERALI,STORICO-FILOSOFICI E GIURIDICI
Relazione per il Corso di Laurea magistrale in
“ Giurisprudenza ”
LA RESPONSABILITÀ DELL' ENTE DA AUTORICICLAGGIO
Cattedra
Diritto penale progredito
STUDENTI Elisa Alessandrini e Vincenzo Mariotti
RELATORI Prof. Carlo Sotis e Dott.ssa Martina Galli
Viterbo, 27 aprile 2018
INDICE SOMMARIO
1. Premesse introduttive 2
1.1. La ratio legis della responsabilità amministrativa da reato degli enti 2
2. La responsabilità dell’ente nel d.lgs. 231/2001 4
2.1. I criteri di imputazione della responsabilità dell’ente 7
a) Interesse o vantaggio 7
b) La colpa d’organizzazione 10
3. Il sistema 231 come sistema “chiuso”: la legalità “rafforzata” 11
3.1. L’apertura del catalogo 231 12
4. L’art. 25-octies del d.lgs. 231/2001. In particolare: la responsabilità dell’ente da
autoriciclaggio 13
4.1. Responsabilità dell’ente da autoriciclaggio o autoriciclaggio dell’ente? 17
5. Il catalogo dei reati presupposto dell’autoriciclaggio 20
5.1. Il “catalogo nel catalogo” : violazione dei principi di legalità e tassatività 20
5.2. Un confronto con la responsabilità dell’ente per delitti associativi 21
6. Considerazioni conclusive 25
Bibliografia 27
Giurisprudenza 28
1
1. Premesse introduttive
Societas delinquere non potest: la persona fisica e non anche la persona giuridica, può commettere
reati.
È questa la concezione che la dottrina penalistica dell’Europa continentale ha sostenuto essere la più
ovvia ed immutabile fino al XXI° secolo. La persona giuridica, sostiene Jakobs1, è incapace di
colpevolezza per non essere soggetto cosciente e comunicativamente competente: non è dunque
capace di rappresentare se stessa né di commettere reati, se non attraverso l’attività mediata delle
persone fisiche che operano al suo interno.
Numerose sono state le resistenze della dottrina italiana rispetto all’introduzione di un meccanismo
di responsabilità degli enti. Il principale ostacolo richiamato era l’art. 27 Cost., che sancisce il
principio in base al quale, la responsabilità penale è personale2. Per supportare l’impossibilità di
introdurre una forma di responsabilità dell’ente, tale principio è stato invocato in entrambe le sue
accezioni e cioè sia come divieto di responsabilità per fatto altrui, sia come responsabilità personale
colpevole. Infatti, secondo tale impostazione, l’ente sarebbe stato sanzionato per un fatto commesso
da altri, in particolare dalla persona fisica autrice materiale del reato. Inoltre, si è sostenuto che, di
fatto una sanzione irrogata all’ente sarebbe stata scontata da soggetti innocenti quali gli azionisti, i
soci, gli associati dell’ente3. Un altro elemento intorno al quale ruotavano le resistenze da parte
della dottrina all’introduzione della responsabilità degli enti era la pena; si affermava, infatti, che
solo la persona fisica sarebbe in grado di percepirne il contenuto afflittivo.
1.1. La ratio legis della responsabilità amministrativa da reato degli enti
Queste perplessità sono state infine superate. Se infatti la persona giuridica è costruita
dall’ordinamento come soggetto capace di agire, di esercitare diritti, di assumere obblighi, di
svolgere attività da cui trarre profitto (ovviamente per il tramite di persone fisiche che agiscono per
suo conto), dunque di vedersi attribuito un agire lecito, allora è difficile negare che all’ente possa
essere ascritto anche un agire illecito, purché realizzato nella sfera di attività dell’ente stesso4.
1Vd. tra gli altri G. DE SIMONE, La colpevolezza dei soggetti metaindividuali: una questione tuttora aperta, Giuffrè, Milano, 2017, 708 ss., il quale a sua volta rinvia a G. JAKOBS, strafbarkeitjuristischerpersonen, in C. PRITTWITZ, M. BAURMANN, K. GÜNTHER, L. KUHLEN, R. MERKEL, C. NESTLER, L. SCHULZ (Hrsg.), festschriftfür Klaus Lüderssen, Baden Baden, Nomos, 2002, 570 ss.2 Ivi, 710.3 D. PULITANÒ, Responsabilità amministrativa per i reati delle persone giuridiche , in Enc. Dir., Ag., Vol. VI, Milano, 2002, 953 ss.4 Ibidem.
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Conformemente a questa logica il panorama normativo europeo è mutato sensibilmente. Oggi, la
maggior parte dei Paesi riconoscono la responsabilità penale dell’ente accanto a quella (eventuale)
delle persone fisiche che agiscono per esso. L’introduzione di una responsabilità propria delle
persone giuridiche, tendenzialmente autonoma nei criteri fondanti5, e solo eventualmente
cumulabile con quella delle persone fisiche, è stata motivata da preoccupazioni politico-criminali, e
in particolar modo dalla necessità di fronteggiare la criminalità delle imprese con strumenti ritenuti
più appropriati. Le diverse forme di attività imprenditoriali, qualora condotte secondo modalità
illecite o piegate a finalità criminali (non è raro ad esempio che un’impresa sia infiltrata dalla
criminalità organizzata), generano infatti patologie importanti, mettendo in serio pericolo beni
individuali, collettivi, istituzionali, spesso con vittimizzazione di massa6. Tuttavia, la responsabilità
delle persone fisiche non sembrava completamente idonea a contrastarle.
Le ragioni che inducono ad imputare direttamente anche alla persona giuridica le conseguenze
sanzionatorie per il fatto di reato commesso da soggetti intranei riguardano, da un alto, la struttura
peculiare dell’ente e dall’altro lato, la genesi e le dinamiche proprie della criminalità d’impresa.
Sono due i profili da mettere in evidenza. Il primo coincide con la natura plurisoggettiva e
policentrica della criminalità d’impresa. La commissione di un reato, nel contesto d’impresa, è
spesso il risultato di processi decisionali complessi, difficilmente propri ed esclusivi di un singolo
soggetto o di un ristretto nucleo di soggetti non inseriti precedentemente in una struttura
organizzata7. Risulta dunque difficile individuare i responsabili dei reati. Il secondo profilo
riguarda, come anticipato, la genesi dei reati d’impresa. La criminalità economica è una devianza
che potremmo definire “culturale”, cioè una forma di illegalismo propria dell’ente più che dei
singoli8: non solo e non tanto con riferimento all’interesse (certamente corporativo e non
individuale), quanto con riferimento alla struttura stessa del soggetto deviante. In altri termini, la
criminalità economica è una forma di illegalismo che trova nell’impresa, quale soggetto stabilmente
organizzato per il raggiungimento di certi fini, la propria origine e ragion d’essere, oltre che un
ambiente ideale di proliferazione. Il crimine economico, non potendosi risolvere in una devianza
5Vi è da specificare che non tutti Paesi europei adottano una responsabilità propria dell’ente. Ne, dà prova la Francia, dove la responsabilità delle imprese è derivata da quella delle persone fisiche. Manca infatti un criterio di stampo soggettivo di ascrizione della responsabilità dell’ente. C. E. PALIERO, La società punita: del come, del perché, e del per cosa, cit., in Riv. it. Dir. e. proc. pen., fasc.4, 2008, 1516 ss.6 G. MARINUCCI, E. DOLCINI, Manuale di Diritto Penale, Giuffrè, Milano, 2012, 697.7 Si può dunque distinguere tra plurisoggettività criminologica interna caratterizzata dal fatto che la decisione non è mai ascrivibile ad un singolo e una plurisoggettività criminologica esterna caratterizzata dal fatto che la criminalità economica sempre più spesso è frutto di un illegalismo non limitato ad una sola società bensì proprio di un gruppo di società. Il tema della “delinquenza di gruppo” e della responsabilità all’interno e del gruppo è uno dei problemi cruciali della responsabilità degli enti, perché mette in crisi qualsiasi modello di responsabilità diretta della persona giuridica che sia stato introdotto nei diversi ordinamenti. Il tema non può essere però qui approfondita. Si rinvia a tal proposito a C. E. PALIERO, La società punita: del come, del perché, e del per cosa, cit., 1516 ss. 8 Ibidem.
3
individuale, si identifica in un’azione organizzata che male attua (in caso di carenze organizzative)
o deliberatamente rifiuta il messaggio della legalità.
Appare peraltro opportuno sottolineare, perché in connessione con il tema affrontato in questo
lavoro, che i reati possono essere commessi all’interno dell’impresa come al di fuori di essa.
In entrambi i casi, le strutture dell’impresa potranno essere utilizzate per riciclare il denaro
derivante dalla commissione dei reati. Con riferimento alla prima ipotesi, si può invece considerare
il caso di un’impresa che al suo interno produce flussi di denaro sporco, poi gestito e ripulito
all’interno dell’impresa stessa (si può pensare ad operazioni di ripulitura di riserve occulte e alla
successiva circolazione del fondo presso varie società oppure ad operazioni di trasferimento diretto
di utilità illecite della società a favore di terzi). Per quanto riguarda la seconda ipotesi, si può
pensare al caso in cui l’impresa sia lo strumento per pulire i proventi illeciti derivanti
dall’attuazione del programma criminoso di un’associazione criminale.
2. La responsabilità dell’ente nel d.lgs. 231/2001
Prendendo atto di queste dinamiche, anche lo scenario legislativo italiano è stato radicalmente
innovato. La responsabilità amministrativa da reato delle persone giuridiche è stata introdotta con il
d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, attuativo della legge-delega 29 settembre 2000, n. 300 la quale
ratificava e dava esecuzione ad una serie di convenzioni europee9. Ecco dunque che le persone
giuridiche sono divenute coprotagoniste della vicenda punitiva e destinatari di risposte
sanzionatorie a contenuto afflittivo (sanzioni amministrative come la sanzione pecuniaria, sanzioni
interdittive, confisca e pubblicazione della sentenza di condanna) in funzione preventiva degli
interessi meritevoli di tutela previsti dall’ordinamento10. La responsabilità dell’ente, benché sia
definita dalla legge come amministrativa, è da molta dottrina riconosciuta come sostanzialmente
penale e ricondotta dalla giurisprudenza ad una sorta di tertium genus11. 9 La rubrica integrale della legge 29 settembre 2000, n. 300 è “Ratifica ed esecuzione dei seguenti Atti internazionali elaborati in base all’articolo K. 3 del Trattato sull’Unione europea: Convenzione sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee, fatta a Bruxelles il 26 luglio 1995, del suo primo Protocollo fatto a Dublino il 27 settembre 1996, del Protocollo concernente l’interpretazione in via pregiudiziale, da parte della Corte di Giustizia delle Comunità europee, di detta Convenzione, con annessa dichiarazione, fatto a Bruxelles il 29 novembre 1996, nonché della Convenzione relativa alla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità europee o degli Stati membri dell’Unione europea, fatta a Bruxelles il 26 maggio 1997 e della Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali, con annesso, fatta a Parigi il 17 dicembre 1997. Delega al Governo per la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e degli enti privi di personalità giuridica”. 10 Lo scopo delle sanzioni amministrative è quello di colpire direttamente o indirettamente il profitto dell’ente, disincentivando la commissione di reati nell’interesse o a vantaggio dell’ente, e di incidere sulla struttura e sull’organizzazione dell’impresa in modo da favorire attività risarcitorie e riparatorie. D. LA MARCHESINA, Il sistema sanzionatorio ex. d.lgs. 231/2001, in www.diritto.it., 2013.11 G. DE SIMONE, La responsabilità da reato degli enti: natura giuridica e criteri (oggettivi) d’imputazione in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 2012, 8 e ss., identifica un tertium genus di responsabilità da reato ascrivibile agli
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La disciplina dettata dal d.lgs. 231/2001 individua gli enti ai quali può essere attribuita la
responsabilità da reato: gli enti dotati di personalità giuridica, le società e le associazioni anche privi
di personalità giuridica (art. 1, co. 2). Sono invece esclusi lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli
altri enti pubblici non economici, nonché gli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale
(art. 1, co. 3)12.
Occorre premettere che il meccanismo dettato dal d.lgs. n. 231/2001, non prevede un vero e proprio
illecito dell’ente, in quanto la responsabilità della persona giuridica rimane ancorata al reato-
presupposto commesso dalla persona fisica che opera al suo interno. E infatti, come sostiene Tullio
Padovani13, la lettura degli artt. 2, 3, 5 e 21 del d. lgs. 231/2001 ci suggerisce che il fenomeno
ascrittivo di una responsabilità all’ente ruota semplicemente intorno all’imputazione di un reato
(anche) ad un soggetto diverso da quello che lo ha commesso. Non appare ravvisabile, né sotto il
enti che, nel tentativo di contemperare le ragioni dell’efficacia preventiva con quelle ancor più ineludibili della massima garanzia, coniuga i tratti essenziali del sistema penale e di quello amministrativo. Ci troveremo dunque al cospetto di un sistema “geneticamente modificato con sembianze ibride”, composto da elementi eterogenei e collocato a metà strada tra il diritto penale ed il sanzionatorio amministrativo. Un genere che sia ancorato a presupposti penalistici e governato dalle garanzie forti del diritto penale, ma che rispetto ad esso presenta disuguaglianze derivanti dalla diversità dei destinatari. Al contrario, nello scritto Il nome dei principi e il principio dei nomi: la responsabilità “amministrativa” delle persone giuridiche in La responsabilità degli enti: un nuovo modello di giustizia “punitiva”, Giappichelli, Torino, 2004, 13, T.PADOVANI a cura di G. DE FRANCESCO sostiene che le sanzioni stabilite dall’art. 9 e ss. del d.lgs. 231/2001 appartengano al genere delle sanzioni punitive, il quale è rappresentato in tutte le branche dell’ordinamento. Alla pena “criminale”, figura paradigmatica di sanzione punitiva, si affiancano le sanzioni punitive in ambito amministrativo e, sia pure con presenza sporadica, quelle del diritto privato. Il criterio distintivo tra le varie sanzioni si prospetta solo quando la sanzione punitiva si riferisce, direttamente o indirettamente, alla libertà personale del soggetto, perché in tal caso la natura del bene colpito postula necessariamente l’attivazione di tutte le garanzie, sostanziali e processuali, previste a tutela della libertà personale; garanzie che sono per l’appunto tipiche del e coessenziali al diritto penale. In conclusione, dunque, si può verificare che le sanzioni poste a carico della persona giuridica, pur se qualificate “amministrative”, finiscono col trarre la propria natura penale dal nesso con un fatto di reato e dalla conseguente applicazione mediante lo strumento del processo penale. È bene sottolineare a riguardo l’importanza della pronuncia della Corte di Cassazione sul caso Thyssen (Cass., pen., Sez. Un., 18 settembre 2014, n. 38343, in www.diritto24.ilsole24ore.com , 2014), ha affrontato anche alcune interessanti questioni riguardanti la disciplina della responsabilità degli enti. Il problema della natura della responsabilità dell’ente è stato trattato dalla Corte in relazione ad alcune questioni di costituzionalità rispetto al principio di personalità della responsabilità penale. É chiaro, infatti, che se si muove dalla tesi della natura sostanzialmente penale di tale responsabilità, si pongono seri dubbi di compatibilità con la norma dell’art. 27, comma primo, della Costituzione secondo cui la responsabilità penale è personale. La “personalità” di cui si tratta viene intesa solitamente in una duplice accezione: come divieto di responsabilità per un fatto altrui e come divieto di responsabilità per un fatto commesso senza colpevolezza, cioè senza che la condotta sia supportata da un coefficiente psicologico nella forma quantomeno della colpa.La costituzionalità della responsabilità dell’ente veniva messa in dubbio in ragione del fatto che nel sistema 231 l’ente stesso viene punito da un lato per una condotta tenuta da un proprio esponente (il che potrebbe contrastare con il principio del divieto della responsabilità per fatto “altrui”), dall’altro nonostante l'evidente impossibilità di ravvisare in un soggetto diverso da una persona fisica quel coefficiente psicologico, dolo o colpa che sia, tipico delle azioni dell’uomo (ciò che contrasterebbe con il principio del divieto di responsabilità per condotte non supportate da “colpevolezza”). La Corte, pur accogliendo la tesi del tertium genus, ha tuttavia dovuto riconoscere che si tratta di una forma di responsabilità molto simile a quella penale.Di qui la necessità di esaminare se tale forma di responsabilità si ponga o meno in contrasto con il principio costituzionale della “personalità”; esame in esito al quale la Corte ha tuttavia ritenuto di respingere le questioni di legittimità costituzionale.12 La Corte di Cassazione ha dapprima escluso l’applicabilità del d.lgs. 231/2001 alle imprese individuali (Cass. Sez. VI, 22 aprile 2004, n. 18941, P.R. Roma, in Cass. Pen., 2004, 4047 ss.), per poi mutare orientamento in un secondo momento (Cass. Sez. III, 20 aprile 2011, n. 15657, Impresa individuale S.M.R., in www.penalecontemporaneo.it , 2011).13 Cfr. T. PADOVANI, Il nome dei principi e il principio dei nomi, cit.,14 ss.
5
profilo naturalistico e criminologico, né sotto quello normativo, una diversa ed autonoma condotta
del soggetto collettivo che consenta di individuare un fatto illecito diverso dal fatto di reato. Non si
può allora che concludere per la presenza di un medesimo fatto del quale rispondono sia la persona
fisica che quella giuridica, in base a criteri ascrittivi distinti. L’illecito dunque è e resta uno solo:
quello penale, commesso dalle persone fisiche ma del quale risponderà un soggetto diverso da
quello che lo ha commesso14.
Tuttavia, nonostante l’ancoramento della responsabilità dell’ente al reato della persona fisica, la
responsabilità dell’ente rimane autonoma. L’autonomia si desume dalla previsione dell’art. 815 del
d.lgs. 231/2001, la quale contempla la responsabilità dell’ente anche quando l’autore del reato-
presupposto non è stato identificato o laddove il medesimo non sia imputabile; la responsabilità
della societas permane altresì in tutti i casi di estinzione del reato diversi dalla amnistia. Il cumulo
delle due responsabilità è allora solo eventuale16. La ragione più importante di tale autonomia
risiede, come già ricordato, nella complessità dei processi gestionali che, coinvolgendo una pluralità
di persone, impediscono di identificare il singolo autore o gli autori del c.d. fatto di connessione.
La normativa individua due categorie distinte di soggetti che, mediante la commissione di uno dei
reati contenuti nella parte speciale del decreto17 possono compromettere la legalità dell’impresa di
cui fanno parte : i soggetti in posizione apicale, ovvero le persone che svolgono funzione di
rappresentanza (rappresentante legale) o di direzione (direttore generale) o di amministrazione
dell’ente (amministratore unico o delegato) ed i sottoposti, cioè le persone assoggettate alla
direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti apicali. Come vedremo, i criteri d’imputazione del
fatto all’ente cambiano a seconda della categoria di soggetti che commettono reato.
14 Lo stesso Padovani, nello scritto citato (Il nome dei principi e il principio dei nomi, cit.,14 ss.), ammette tuttavia che dalla lettura dall’art. 1 del d. lgs. 231/2001 sembrerebbe potersi desumere l’esistenza di un illecito amministrativo a carico dell’ente e che tale illecito dipenda da reato. In base alla formula normativa dell’art. 1, che si ripete nell’art. 9 co. 1 e nell’art. 34 del d.lgs., potremmo essere indotti a ritenere che l’illecito amministrativo, pur dipendendo dalla realizzazione di un reato (quale condizione di punibilità), sia cosa diversa da esso e si caratterizzi per una sua specifica autonomia, possedendo l’elemento centrale sul quale poggia la realizzazione di un illecito, ovvero la condotta tenuta in violazione di un divieto o di un comando posto dalla legge. E infatti G. DE SIMONE, in La responsabilità da reato degli enti: natura giuridica e criteri (oggettivi) d’imputazione, cit., 15, parla di un illecito a struttura complessa di cui il reato della persona fisica rappresenta solo uno degli elementi essenziali. C. E. PALIERO, La società punita: del come, del perché, e del per cosa, cit., 1516 ss., invece, sostiene che la “teoria amministrativistica” posta alla base della responsabilità da reato dell’ente debba essere considerata sull’ipotesi della pluralità di illeciti. L’autore si rifiuta di concepire, per dignità intellettuale, l’ipotesi di un sistema che per lo stesso unico illecito preveda il variegato cambio di natura giuridica della responsabilità ratione personae.15 L’articolo elenca le ipotesi in cui si configura un’autonoma responsabilità dell’ente: «quando l’autore del reato non è stato identificato» (art. 8 lett. a, pt. I); quando l’autore del reato «non è imputabile» (art. 8 lett. a, pt. II); quando «il reato si estingue per una causa diversa dall’amnistia» (art. 8 lett. b).16 Dalla pronuncia della Cass. Pen., Sez. V, 9 maggio 2013, n. 20060 in www.neldiritto.it, 2013. si desume che all’assoluzione della persona fisica imputata del reato-presupposto, per una causa diversa dalla rilevata insussistenza di quest’ultimo, non consegue automaticamente l’esclusione della responsabilità dell’ente poiché tale responsabilità deve essere affermata anche nel caso in cui l’autore del reato non sia stato identificato. 17 L’insieme dei reati (cosiddetti “reati-presupposto”) la cui commissione determina la responsabilità amministrativa degli enti sono indicati nel capo I sezione III, artt. 24-26 del d.lgs. 231/2001.
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2.1. I criteri d’imputazione della responsabilità dell’ente
(a): Interesse o vantaggio
Il primo criterio d’attribuzione, di stampo oggettivo, è che il reato sia stato commesso
«nell’interesse o a vantaggio» dell’ente (art. 5 co. 1). La formula interesse o vantaggio ha posto dei
rilevanti problemi sui quali è opportuno far chiarezza. In particolare, dalla lettera della legge non è
chiaro se si tratti di due concetti (e criteri) diversi oppure di un unico criterio d’imputazione.
A tal proposito la Corte di Cassazione, con una pronuncia del 200518, seguendo peraltro le
indicazioni della Relazione governativa al decreto legislativo19, ha ritenuto che i due criteri
andrebbero tenuti concettualmente distinti. Mentre l’interesse esprimerebbe la direzione finalistica
del reato e sarebbe apprezzabile ex ante, cioè al momento della commissione del fatto, e secondo un
metro di giudizio soggettivo (in relazione all’elemento psicologico della persona fisica che
commette il reato), il vantaggio evocherebbe un mero dato di natura oggettiva (beneficio diretto o
indiretto più o meno immediato a favore dell’ente) e richiederebbe, al contrario, una verifica ex
post, sulla base dunque degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell’illecito.
Tuttavia, la dottrina maggioritaria20 tende ad interpretare la locuzione normativa come una sorta di
endiadi, espressiva di un significato unitario.
Quello dell’interesse diventerebbe così l’unico criterio rilevante21, mentre il vantaggio costituirebbe
una variabile casuale, che potrà anche realizzarsi concretamente, senza che, per ciò solo, debba
ipotizzarsi una responsabilità da reato delle societas22. Quanto detto si desume dall’interpretazione
dell’art. 5 co.2, d.lgs. 231/2001. Questa disposizione prevede infatti che quando i soggetti agiscono
«nell’interesse esclusivo proprio o di terzi» il fatto commesso, pur se a vantaggio dell’ente, non può
ritenersi come fatto suo proprio; trattandosi di un vantaggio “fortuito”, esso non potrebbe essere
attribuito alla volontà dell’ente23. La responsabilità dell’ente, come si evince dalla suddetta
18Cass. pen., sez. II, 20 dicembre 2005, n. 3615, Jolly Mediterraneo s.r.l., 75 in www.dirittopenalecontemporaneo.it.19 Relazione al d. lgs. 8 giugno 231/2001, n. 231, 8 reperibile in w ww.aodv231.it .20 Così D. PULITANÒ, La responsabilità, cit., 425. “Nel senso che si tratta di un criterio di ascrizione essenzialmente unitario A. MANNA, La c.d. responsabilità amministrativa delle persone giuridiche: un primo sguardo d’insieme, in Riv. trim. dir. pen. econ, fasc. 3, 2002, 512.”21 Ai fini della verifica circa la sussistenza del requisito dell’interesse, potrebbero tornare utili, come criteri di valutazione, sia l’idoneità che la non equivocità, già previste quali requisiti oggettivi della fattispecie tentata (art. 56 c.p.). Entrambe però potranno valutarsi sempre e soltanto in reazione ad un certo risultato (il vantaggio conseguito), ovvero all’intenzione di conseguire un tale risultato. G. DE SIMONE, La responsabilità da reato degli enti: natura giuridica e criteri (oggettivi) d’imputazione, cit., 37. 22 Opinione, questa, largamente condivisa in dottrina. Ivi., 34 ss.23 Cass. pen, sez. IV, 23 giugno 2006, n. 32627, La Fiorita s.c.a.r.l., in www.studiolegale231.it, 89.
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pronuncia, è esclusa proprio perché viene meno la rimproverabilità al soggetto collettivo, dal
momento che si considera venuto meno lo schema di immedesimazione organica24.
Diversa è la situazione in cui il fatto viene commesso nel prevalente (e quindi non esclusivo)
interesse proprio delle persone fisiche o di terzi. L’interesse dell’ente potrà anche essere parziale o
residuale, senza che ciò porti ad escludere totalmente una sua responsabilità. Di questa situazione ne
dà conferma l’art. 12 co. 1, lett. a), d.lgs.231: la sanzione pecuniaria è ridotta della metà se l’autore
del reato ha commesso il fatto nel prevalente interesse proprio o di terzi e l’ente non ne ha ricavato
vantaggio o ne ha ricavato un vantaggio minimo.
(b) La colpa d’organizzazione
Il primo criterio d’attribuzione all’ente della responsabilità per i reati commessi è di stampo
soggettivo. Si tratta della colpa d’organizzazione25: cioè la mancata adozione o l’inefficace
attuazione di un modello d’organizzazione e di gestione idoneo a prevenire reati della specie di
quello verificatosi ovvero il mancato affidamento del compito di vigilare sul funzionamento e
sull’osservanza dei modelli ad un organismo autonomo dell’ente26. In particolare, l’ente andrà
esente da responsabilità penale qualora sia dimostrato che la commissione del reato non è dipesa da
un difetto o dall’assenza di un sistema di prevenzione dei reati.
Il concetto di colpevolezza normativa sembrerebbe consentire di superare l’ostacolo all’ingresso di
forme di responsabilità penale dell’ente posto dall'art. 27, comma 1, Cost., che sancisce il principio
di responsabilità penale personale27.
Questo meccanismo imputativo non è unitario, ma, come si deduce dalla lettura delle disposizioni
dettate dagli artt. 6 e 7 d. lgs. n. 231/2001, diversamente articolato sulla base delle categorie
soggettive di appartenenza delle persone fisiche autrici del reato-presupposto. Infatti, se il reato è 24 Relazione al d. lgs. 8 giugno 231/2001, n. 231, cit., 7. 25Il modello di responsabilità messo a punto nel d.lgs. 231 è, in parte, un modello d’importazione. La sua “radice culturale” è rappresentata da quella colpevolezza di organizzazione (Organisationsverschulden) elaborata da K. Tiedmann intorno alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso. Questa costruzione teorica merita una precisazione: la colpevolezza (organizzativa) non può ridursi ad un mero principio di responsabilità, ma occorre che sia concretamente accertata di volta in volta. Tesi avallata da G. DE SIMONE, La responsabilità da reato degli enti: natura giuridica e criteri (oggettivi) d’imputazione, cit., 2.26 Il modello di organizzazione e gestione di cui parla il d.lgs. n. 231/2001, consiste in un insieme di vari elementi che compongono un vero e proprio sistema di gestione preventiva di rischi-reato. Tra questi, disposizioni organizzative, procedure, modulistica, codici comportamentali, software, commissioni Il risk assessment o analisi del rischio è una metodologia volta alla determinazione del rischio associato a determinati pericoli o sorgenti di rischio. Il risk management o processo di gestione del rischio è l’insieme di attività, metodologie e risorse coordinate per guidare e tenere sotto controllo un’organizzazione con riferimento ai rischi. Non esiste un modello generico che vada bene per ogni tipo di azienda ma, ogni modello organizzativo, viene stilato in base alle caratteristiche proprie di ogni azienda, in base alle attività che svolge, ai processi produttivi e agli interlocutori con cui interagisce. Cfr. P. ALDROVANDI, I "modelli di organizzazione e di gestione" nel D. lgs. 8 giugno 2001, n. 231: aspetti problematici dell'"ingerenza penalistica" nel "governo" delle società, in Riv. dir. pen. econ., fasc. 3, 2007, 445.27 Relazione al d. lgs. 8 giugno 231/2001, n. 231, cit., 8.
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commesso da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione
dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale, nonché da
persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso, il comma 1 dell’art. 6
subordina l’effetto esonerativo della responsabilità ad una serie di condizioni cumulative, la cui
presenza è ritenuta una prova della corretta organizzazione aziendale (in funzione preventiva degli
illeciti penali) e giustifica, sul piano normativo, la dissociazione della responsabilità collettiva
dell’ente da quella individuale del soggetto apicale. L’ente in particolare non risponde se prova che:
l’organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli
di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi28; il
compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli di curare il loro aggiornamento è
stato affidato ad un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo29 , le
persone fisiche hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente30 i modelli di organizzazione e
di gestione; non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte da persone sottoposte alla
direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti apicali (art. 6 co. 1).
Se invece il reato è commesso dai sottoposti, l’ente è responsabile se la commissione del reato è
stata resa possibile dall'inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza (art. 7 co. 1).
28 L’adozione del modello non pare inquadrabile nella categoria dell’obbligo ma più precisamente in quella dell’onere, al quale la società è chiamata ad adempiere al fine di evitare l’attribuzione della responsabilità per la commissione del reato. Il modello organizzativo, deve costituire un serio ostacolo frapposto alla concreta attuazione del progetto criminoso dei soggetti apicali, i quali conseguentemente devono essere costretti ad aggirare i controlli che presidiano il rispetto delle regole preventive di cui l’ente si è dotato. Così si esprime M. SCOLETTA, La responsabilità da reato delle società: principi generali e criteri imputativi del d.lgs. n. 231/2001, in AA.VV., Diritto penale delle società, a cura di G. CANZIO-L.D., CERQUA-L., LUPÀRIA., Milano, 2014, t. I, 911.29 Si tratta di un organismo dell’ente, che tuttavia, dovendo necessariamente essere caratterizzato da autonomia e indipendenza, è normalmente costituito da soggetti in prevalenza “esterni” (non dipendenti dell’ente), in quanto teoricamente meno esposti al rischio di conflitto di interessi (sovrapposizioni tra controllato e controllori) e di condizionamenti gerarchici. Ivi, 913.30 All’interno della locuzione “elusione fraudolenta”, il termine che ha presentato minori difficoltà è sicuramente il primo. Per comprenderne il significato occorre fare un passo indietro. L’art. 6 prevede, come è noto, l’adozione e l’attuazione di un modello preventivo alla commissione del reato-presupposto. Stando all’etimologia del termine “elusione”, si potrebbe giungere all’affrettata ed erronea conclusione che il modello adottato non sarebbe mai idoneo a prevenire la realizzazione dell’illecito, confermando, ingiustamente, sempre la colpevolezza dell’ente. In realtà, può dirsi pacifico che il requisito dell’idoneità, vada accertato secondo il criterio della c.d. prognosi postuma, ossia ponendosi mentalmente in un momento antecedente rispetto alla commissione dell’illecito e, verificando quindi se la commissione dell’illecito non derivi dall’inefficienza del modello ma dalla volontà stessa dell’agente. Detto in altri termini, se l’agente ha dovuto eludere (fraudolentemente) il modello adottato dall’ente per prevenire il tipo di reato commesso, allora significa che tale modello può essere giudicato idoneo. Per ciò che concerne l’aggettivo “fraudolenta” l’interpretazione che ha riscosso maggior successo è quella che, partendo dal tenore letterale della norma, le attribuisce una connotazione oggettiva (che guarda cioè al valore oggettivo della condotta dell’autore del reato e non alla sua intenzione).Si arriva a sostenere dunque che la condotta dell’agente, elusiva del modello adottato dall’ente, debba essere connotata da comportamenti del tutto eccezionali, caratterizzati da particolare abilità e consistenti in una condotta ingannevole, falsificatrice e subdola. Stando ad un diverso e minoritario orientamento, all’aggettivo fraudolenta dovrebbe essere invece assegnata una valenza esclusivamente soggettiva in quanto l’elemento tipizzante della fraudolenza andrebbe riferito non alle modalità della condotta, bensì al solo elemento psicologico. Così si esprime A.F. TRIPODI, L’elusione fraudolenta nl sistema della responsabilità degli enti, Padova, 2013, 5 ss.
9
Si manifesta così la dicotomia criminologica tra illeciti dell’ente espressivi della politica d’impresa,
in cui le attività criminose, attribuibili ai soggetti apicali, corrispondono normalmente a decisioni di
vertice ed illeciti che, essendo commessi da subordinati, costituiscono il risultato della carenza di
controlli da parte degli apici o in generale della disorganizzazione aziendale. Nel primo caso
(commissione del reato da parte dei soggetti apicali), ritenendo che il reato sia la diretta espressione
di una politica aziendale, il legislatore pone una sorta di presunzione di colpevolezza a carico
dell'ente, essendo gli apicali soggetti che esprimono la volontà dell’ente stesso31.
Una volta provata la sussistenza delle circostanze enunciate nell’art. 6, si potrebbe ravvisare la
rottura di quel nesso d’immedesimazione organica che tende ad identificare la responsabilità
dell’ente con quella dei suoi organi32, così da escludere l’esistenza di un fatto proprio dell’ente e nel
contempo la sua stessa colpevolezza.
Una colpa d’organizzazione sembrerebbe, invece più nitida nell’ipotesi di responsabilità per il fatto
dei sottoposti risultante dall’art. 7, statisticamente più rara e comunque suscettibile di determinare
un giudizio di minore riprovazione nei confronti del soggetto collettivo. L’art. 7, infatti, al comma 1
connette la responsabilità dell’ente alla inosservanza degli obblighi di direzione e vigilanza che
abbiano reso possibile la realizzazione dell’illecito penale (da parte del sottoposto): è importante
evidenziare che, in questo caso, la colpa che integra l’elemento di connessione tra reato ed ente non
passa attraverso una corrispondente condotta tipica (colposa) di una persona fisica/controllore, ma è
incardinato su una generale e strutturale colpa di organizzazione nella prevenzione e protezione
dell’azienda dallo specifico rischio di reato. Si tratta di una forma di colpevolezza per così dire
“impersonale” propria della societas in quanto non legata all’elemento soggettivo dell’autore di un
reato ma direttamente riferita all’organizzazione collettiva33. Vi è allora chi sostiene che l’art. 7
formi una specie di “agevolazione colposa” dove l’ente contribuisce o non impedisce alla
31 Notevoli sono le conseguenze sul terreno probatorio. Qualora il reato sia posto in essere da soggetti in posizione apicale, l’onere di provare l’assenza di una colpa d’organizzazione grava sull’ente, secondo una vera e propria probatio diabolica, evidenziata dalla dottrina ma negata dalla giurisprudenza. Cfr. ad. es. Cass. pen., Sez. VI, 18 febbraio 2010, n. 27735, Scarafia in www.aodv231.it, 2015. dove si sostiene che, benché sia onere dell’ente provare le condizioni liberatorie dell’art. 6, non si determinerebbe alcuna inversione dell’onere della prova poiché continuerebbe a gravare comunque sull’accusa l’onere di dimostrare la commissione del reato e la carente regolamentazione adottata dall’ente; di conseguenza non si realizzerebbe alcuna violazione del principio di uguaglianza e del diritto di difesa (artt. 3 e 24 Cost.). La questione tuttavia va stemperata in quanto nel gioco processuale delle parti, sarà l’ente stesso a preoccuparsi di portare all’attenzione del giudice, la documentazione relativa ai modelli organizzativi adottati. Spetterà poi al giudice verificare l’efficienza e l’idoneità di tali modelli. Nessuna inversione dell’onere della prova opera, invece, nel caso in cui il reato sia realizzato dai soggetti sottoposti all’altrui direzione o vigilanza. Ricadrà, infatti, sull’accusa l’onere di dimostrare il difetto d’organizzazione dell’ente.32 È proprio sulla figura dei soggetti apicali che si costruisce la teoria dell’immedesimazione organica, secondo cui l’ente agisce necessariamente per mezzo dei suoi organi. Essa permette di imputare direttamente non solo gli effetti giuridici dell’atto posto in essere dagli apicali, ma anche il compimento dello stesso alla persona giuridica e non alle persone fisiche che materialmente lo hanno realizzato. Cosi in nota G. AJELLO, La persona giuridica in www.dequo.it, 2016.33 M. SCOLETTA, La responsabilità da reato delle società, cit., 922.
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realizzazione del rischio tipico, rappresentato dal reato presupposto34. Dalla composizione dell’art. 7
emerge chiaramente come l’adozione del modello organizzativo costituisca la peculiare modalità
individuata dal d.lgs. n. 231/2001 per fare fronte al generale dovere di direzione e vigilanza, che
grava sull’ente, sull’attività dei sottoposti. L’inefficacia del modello determina pertanto la
sussistenza della colpa di organizzazione, che (“rende possibile”) la realizzazione del reato-
presupposto.
3. Il sistema 231 come sistema “chiuso”: la legalità “rafforzata”
La punibilità degli enti, nel sistema disegnato dal d.lgs. n. 231/2001, non è indifferenziatamente
connessa alla realizzazione di qualsiasi illecito penale, ma è circoscritta ai c.d. reati-presupposto,
cioè a quel numerus clausus di ipotesi criminose che la legge specificamente ascrive, appunto, alla
loro responsabilità. L’art. 2 d.lgs. n. 231/2001 sancisce, infatti, che anche la responsabilità delle
persone giuridiche è retta dal principio di legalità, che copre tanto i fatti (già costituenti reato) per i
quali l’ente può essere chiamato a rispondere, quanto le relative sanzioni. La formulazione
legislativa del principio riprende sostanzialmente quella del nullum crimen sine poena consacrato
dall’art. 25, comma 1, Cost. e di tale disposizione riproduce implicitamente (ed estende agli enti)
tutti i fondamentali contenuti garantistici, abbracciando quindi le tradizionali articolazioni della
legalità penale: la riserva di legge, l’irretroattività sfavorevole, la precisione, la determinatezza e la
tassatività della legge35. Del resto, il d.lgs. 231/2001 non avrebbe potuto prescindere dal principio di
frammentarietà36, a sua volta connesso a quello di sussidiarietà, tipico di qualsiasi sistema punitivo.
Rispetto alla dimensione tradizionalmente riconosciuta, la frammentarietà del sistema è frutto di
una selezione che può dirsi di secondo grado: il legislatore, a partire da fattispecie di reato
individuate per le persone fisiche, sceglie le sole modalità di aggressione a determinati beni
giuridici meritevoli di essere perseguite anche all’interno della dimensione collettiva37.
Gli illeciti penali degli enti si caratterizzano pertanto per essere “doppiamente tipici”: in primo
luogo, in quanto previsti dalla legge come reati delle persone fisiche e, in secondo luogo, in quanto
34 Ivi, 923.35 M. SCOLETTA, La responsabilità da reato delle società, cit., 884 ss.36 Principio secondo il quale l’applicazione del diritto penale avviene in modo puntiforme, a seguito di una scelta del legislatore che decide quali fatti specifici debbano essere classificati come reati e quindi puniti, lasciando alcune aree dell'agire umano scoperte dal suo intervento.37 M.GALLI, Dentro il castello dei destini incrociati: la responsabilità dell’ente da autoriciclaggio, in Riv. dir. pen. econ. fasc. 1-2, 2016., 111.
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specificamente ascritti ex lege al catalogo dei reati-presupposto delle persone giuridiche38. Si
potrebbe dire che il principio di legalità, nel sistema 231 “vale due volte”.
3.1. L’apertura del catalogo 231
Agli artt. 24 e 25 sono tassativamente enumerati i reati di cui sono chiamati a rispondere gli enti. Il
catalogo dei reati-presupposto ha conosciuto un progressivo arricchimento, che rende attualmente
piuttosto ampio ed eterogeneo l’ambito oggettivo di applicazione del d.lgs. n. 231/2001.
Il testo originario conteneva pochi delitti dolosi attinenti ai rapporti con la Pubblica
Amministrazione, quali malversazione in danno dello Stato, truffa e frode informatica in danno
dello Stato o di un ente pubblico, concussione e corruzione ed indebita percezione di erogazioni
pubbliche. Successivamente, per lo più sotto la spinta di convenzioni internazionali volte a
contrastare i fenomeni di criminalità organizzata, il legislatore italiano ha di anno in anno
notevolmente ampliato l’elenco dei reati ascrivibili agli enti39, fino ad includervi alcuni reati che
fanno prospettare il passaggio da un sistema chiuso di responsabilità ad uno generale. Si pensi alla
previsione dell’art 24-ter che estende la responsabilità degli enti ai delitti associativi. L’ente rischia
così di essere sanzionato per la commissione di qualsiasi illecito delittuoso qualora perpetrato in
forma associativa. Qualsiasi reato scopo, anche se “fuori catalogo”, infatti, sembrerebbe poter
essere attratto mediatamente nella sfera punitiva del d. lgs 231/2001, attraverso la contestazione alla
persona giuridica del reato-mezzo (il delitto associativo). In modo similare, l’art 25-octies, nel
sancire la responsabilità da autoriciclaggio, sembra esporre l’ente al rimprovero per la commissione
dei delitti presupposto cui tale fattispecie è ancorata, indipendentemente dal fatto che essi siano, a
loro volta reato presupposto ai sensi del catalogo 23140. Su questo problema torneremo a breve.
4. L’art. 25-octies del d.lgs. 231/2001. In particolare: la responsabilità dell’ente da
autoriciclaggio
38 M. SCOLETTA, La responsabilità da reato delle società, cit., 885.39 Delitti informatici e trattamento illecito di dati, delitti di criminalità organizzata, reati di falsità in monete, in carte di pubblico credito, in valori di bollo e in strumenti e segni di riconoscimento, delitti contro l’industria e il commercio, reati societari, delitti aventi finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico previsti dal codice penale e dalle leggi speciali e delitti posti in essere in violazione di quanto previsto dall’articolo 2 della Convenzione internazionale per la repressione del finanziamento del terrorismo fatta a New York il 9.12.1999, delitti contro la vita e l’incolumità individuale con riferimento al reato di pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili (art.583-bis c.p.), delitti contro la personalità individuale, abusi di mercato, reati di omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime, ricettazione, riciclaggio e impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita, nonché autoriciclaggio, reati transnazionali, delitti in materia di violazione del diritto d’autore, induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria, reati ambientali, impiego di cittadini di paesi terzi il cui soggiorno è irregolare, razzismo e xenofobia, responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato.40 M. GALLI, Dentro il castello dei destini incrociati: la responsabilità dell’ente da autoriciclaggio, cit., 113.
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Con il decreto 231 del 21 novembre 200741, la cui finalità consiste nella protezione del sistema
finanziario dal suo utilizzo a fini di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo, il legislatore ha
comportato un riordino della complessa disciplina della normativa antiriciclaggio presente nel
nostro ordinamento giuridico, tra l’altro estendendo la responsabilità degli enti ai reati di
ricettazione (art. 648 c.p.), riciclaggio (art. 648 bis c.p.) ed impiego di denaro, beni o utilità di
provenienza illecita (art. 648-ter.). Successivamente, l’art. 3, co. 5, della l. 186/2014 ha introdotto il
reato di autoriciclaggio contemporaneamente nel codice penale (art. 648-ter.1 c.p.) e nel catalogo
dei reati contenuto nel d.lgs. 231/2001 all’art. 25-octies, oggi rubricato «Ricettazione, riciclaggio ed
impiego di denaro, beni od utilità di provenienza illecita, nonché autoriciclaggio», in coda alle
fattispecie introdotte dalla precedente riforma, dilatando ulteriormente la responsabilità
amministrativa da reato degli enti. Cercheremo di analizzare di seguito come l’introduzione di
questo reato all’interno del catalogo 231 metta profondamente in crisi il sistema pensato dal
legislatore del 2001. Per il momento sembra utile comprendere in cosa consiste questa nuova
fattispecie.
L’introduzione del nuovo delitto di autoriciclaggio (art. 648-ter.1) è stata necessaria per superare il
c.d. privilegio di autoriciclaggio. Infatti, il delitto di riciclaggio, così come formulato dall’art. 648
bis c.p., punisce chi ricicla denaro, beni o altre utilità provenienti da un delitto non colposo
commesso da un altro soggetto, escludendo tuttavia per mezzo di una clausola di riserva («fuori dai
casi di concorso nel reato») la punibilità dell’autore del reato-fonte del provento illecito, o di chi
comunque abbia con questi concorso. Un’identica clausola di riserva si trova in apertura della
fattispecie di reimpiego. Una parte della dottrina42 riteneva che punire a titolo di riciclaggio e di
reimpiego l’autore del reato presupposto comportasse una violazione del principio del ne bis in
idem sostanziale. Dovendosi considerare la condotta di pulitura e di reimpiego nel provento un post
factum non punibile, il reo avrebbe subito una doppia punizione per un medesimo fatto.
La ratio del privilegio dell’autoriciclaggio si fonda infatti sulla cosiddetta consunzione (criterio di
assorbimento): per chi ha partecipato alla realizzazione del fatto antecedente, il riutilizzo dei
proventi illecitamente conseguiti rappresenta la naturale continuazione della condotta criminosa non
idonea ad assumere un diverso e autonomo rilievo penale43. Così facendo, la fattispecie criminosa
più grave (il riciclaggio) rimaneva assorbita in quella (spesso) meno grave (reato-base).
41 Attuazione alla direttiva 2005/60/CE del Parlamento e del Consiglio concernente la prevenzione dell’utilizzo del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo (c.d. III direttiva antiriciclaggio), e alla direttiva 2006/70/CE della Commissione che ne reca misure di esecuzione.42 Cosi F. SCAPELLATO, Il fenomeno del riciclaggio e la normativa di contrasto, Giappichelli, Torino, 2013, 64.43 S. CLINCA, L’incriminazione dell’autoriciclaggio tra tutela dell’ordine economico e garanzie fondamentali, in www.lalegislazionepenale.eu , 2015, 8 .
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Quest’ultima era considerata idonea ad esaurire l’intero disvalore del fatto posto in essere ed a
contenere il bene-interesse tutelato. Tale principio, tuttavia, non trova un pacifico riconoscimento
nel nostro ordinamento: esso infatti non è espressamente previsto all’interno di una specifica
disposizione, né costituzionale, né legislativa. Inoltre, la clausola di riserva aveva senso (per
l’esigenza di evitare duplicazioni di responsabilità per l’autore del reato-presupposto e dunque di
rispettare il principio di ne bis in idem sostanziale e di proporzionalità) finché la fattispecie di
riciclaggio rimaneva stretta in un rapporto di accessorietà rispetto al reato-fonte. Nella versione
originaria del 1978, il reato di riciclaggio era infatti circoscritto a comportamenti di natura
patrimoniale volti all’assicurazione del profitto proveniente da un ristrettissimo elenco di
fattispecie: rapina aggravata, estorsione aggravata e sequestro di persona a scopo di estorsione. Con
la rottura di questo originario rapporto di accessorietà44 – ossia con la ridefinizione delle condotte
nel senso di una valorizzazione del momento dell’occultamento e con l’ampliamento dei reati
presupposto, fino a ricomprendere l’intero ambito dei delitti non colposi – la clausola di riserva
iniziò ad apparire come un ingiustificato privilegio.
Il privilegio dell’impunità della condotta di riciclaggio comportava così che l’autore del reato-base
potesse riciclare senza rischi aggiunti, eliminando potenzialmente l’effetto deterrente che la
punizione del riciclaggio svolge anche rispetto alla commissione del reato base. Si pensi inoltre al
notevole danno che poteva derivare agli imprenditori regolari, i quali si trovavano a competere ad
armi impari rispetto agli operatori economici criminali. Questi ultimi, a differenza degli altri,
potevano infatti non necessitare di alcun ausilio finanziario da parte di banche o istituti di credito,
(auto)finanziandosi appunto mediante le attività criminali. In sintesi, la pericolosità intrinseca delle
risorse finanziarie illegalmente accumulate non poteva più essere sottovalutata, sia per le
conseguenze in ambito investigativo-giudiziario sia per quelle riguardanti il settore
imprenditoriale45.
Il reato di autoriciclaggio supera questo ostacolo, prevedendo che l’autore delle condotte di
lavaggio coincida con l’autore del reato-presupposto.
44 Il delitto di riciclaggio è stato introdotto nel nostro ordinamento dall'art. 3, del d.l. 21 marzo 1978, n. 59 è stato poi sostituito, prima dall'art. 23, della l. 19 marzo 1990 n. 55 e successivamente dall'art. 4, della l. 09 agosto 1993, n. 328. In www.brocardi.it.45 P. POLICELLI, Analisi del nuovo reato di autoriciclaggio: disciplina, dubbi e profili economici, in www.salvisjuribus.it, 2017.
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Guardando alla struttura dell’art. 648-ter.1 c.p.46, pur ovviamente differendo per tipologia di autore,
la norma ripropone, sebbene con significative variazioni, un connubio tra gli artt. 648-bis e 648-ter
c.p. prevedendo la condotta tipica del reato di riciclaggio («sostituire o trasferire denaro, beni o altre
utilità provenienti da delitto non colposo o compiere altre operazioni in modo da ostacolare
l’identificazione della provenienza delittuosa») e allo stesso tempo, richiedendo, come nel
reimpiego, che essa si realizzi in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative47. È
evidente quindi come il testo definitivamente approvato in materia di autoriciclaggio recuperi alcuni
elementi delle fattispecie di vecchia generazione. Tuttavia, rispetto alle fattispecie di vecchia
generazione, si tratta di una condotta differente da quella prevista nella fattispecie tradizionale del
riciclaggio, dove non si richiede il successivo investimento dei proventi in attività economiche,
come anche da quella di reimpiego, poiché anche ad essa va riferita l’idoneità a ostacolare
concretamente l’identificazione della provenienza delittuosa, nota modale mancante, invece, nella
norma che sanziona il reimpiego. La determinazione delle condotte punibili viene, in questo modo,
circoscritta a quei comportamenti che, pur non potendo essere qualificati come artifizi o raggiri,
esprimano un contenuto decettivo, rendendo obiettivamente difficoltosa l’identificazione della
provenienza delittuosa del bene. Ne consegue che, affinché la condotta possa essere sussunta nella
fattispecie di autoriciclaggio, lo svolgimento di un’azione (sostituzione, impego o trasferimento)
deve essere concretamente idonea a ostacolare o ad impedire l’identificazione della provenienza
delittuosa dei beni, denaro o altre utilità, derivanti dalla commissione del delitto presupposto. È
possibile notare che la nota modale per cui le condotte devono «ostacolare concretamente
l’identificazione dell’origine illecita del provento», unita alla reimmissione dei beni o del denaro
46 L’ articolo in questione prevede che: «Si applica la pena della reclusione da due a otto anni e della multa da euro 5.000 a euro 25.000 a chiunque, avendo commesso o concorso a commettere un delitto non colposo, impiega, sostituisce, trasferisce, in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dalla commissione di tale delitto, in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa. Si applica la pena della reclusione da uno a quattro anni e della multa da euro 2.500 a euro 12.500 se il denaro, i beni o le altre utilità provengono dalla commissione di un delitto non colposo punito con la reclusione inferiore nel massimo a cinque anni. Si applicano comunque le pene previste dal primo comma se il denaro, i beni o le altre utilità provengono da un delitto commesso con le condizioni o le finalità di cui all’articolo 7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, e successive modificazioni. Fuori dei casi di cui ai commi precedenti, non sono punibili le condotte per cui il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale. La pena è aumentata quando i fatti sono commessi nell’esercizio di un’attività bancaria o finanziaria o di altra attività professionale. La pena è diminuita fino alla metà per chi si sia efficacemente adoperato per evitare che le condotte siano portate a conseguenze ulteriori o per assicurare le prove del reato e l’individuazione dei beni, del denaro e delle altre utilità provenienti dal delitto. Si applica l’ultimo comma dell’articolo 648».47 Secondo l’indicazione fornita dal codice civile all’ art. 2082 del c.c., è da ritenersi economica soltanto quell’attività finalizzata alla produzione di beni ovvero alla fornitura di servizi: emerge in tal senso una coincidenza con l’attività “imprenditoriale”. Si considera poi come “finanziaria” ogni attività rientrante nell’ambito nella gestione del risparmio e nell’individuazione degli strumenti per la realizzazione dello scopo. Invece per attività speculative s’intendono le attività di un certo individuo (operatore finanziario) che entrando sul mercato effettua un qualche tipo di investimento e presume degli sviluppi ad alto rischio il cui esito, positivo o negativo, dipenderà dal verificarsi o meno di eventi su cui egli ha formulato le sue aspettative iniziali. S. SEMINARA, Spunti interpretativi sul delitto di autoriciclaggio (commento alla normativa), in Dir. Pen. e proc., 2016, 12, 1631, 5.
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sporco nel mercato legale, allontana la fattispecie dell’autoriciclaggio dalla componente
“patrimonialista”48, per collocarla definitivamente negli ambiti dei reati contro l’amministrazione
della giustizia e contro l’ordine economico (nelle sue articolazioni della tutela del libero mercato e
della concorrenza49).
Il reato di autoriciclaggio è dunque un reato plurioffensivo, posto a tutela di beni eterogenei.
È tuttavia indubbio che, introducendo il reato di autoriciclaggio, il legislatore abbia in particolar
modo mirato ad impedire l’inquinamento del mercato, tutelando il principio di libera concorrenza,
ma, soprattutto, cercando di evitare che la concorrenza risulti turbata, a causa dell’ingente liquidità
prodotta dalla criminalità economica50 . Oggi peraltro sembra non avere più senso parlare di
violazione del principio di ne bis in idem sostanziale, perché il fatto tipico è dotato di un nuovo e
autonomo disvalore che giustifica l’incriminazione delle condotte, ormai non più mero post factum
non punibile.
Il comma 4 dell’art. 648-ter.1 c.p. prevede tuttavia che «fuori dei casi di cui ai commi precedenti,
non sono punibili le condotte per cui il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinate alla mera
utilizzazione51 o al godimento personale52». Pur rimanendo i concetti di “mero godimento” e
“utilizzazione personale” piuttosto vaghi, è ovvio che il legislatore abbia inteso escludere con
questa formula la punibilità di comportamenti inoffensivi (appunto, il fatto di utilizzare o godere di
un bene) sul piano dell’alterazione del gioco della concorrenza.
4.1. Responsabilità dell’ente da autoriciclaggio o autoriciclaggio dell’ente?
Come anticipato, il soggetto attivo del nuovo reato di autoriciclaggio è, colui che ha commesso, o
concorso a commettere, un delitto non colposo. Si tratta quindi di un reato proprio53.
48 La componente patrimonialistica però non scompare del tutto, poiché le condotte dell’autoriciclaggio impediscono l’ottenimento di adeguato ristoro in sede giudiziaria della persona offesa. Si tenga conto che la dottrina sostiene che il delitto de quo finisce per valorizzare la componente patrimonialistica prevedendo una pena più bassa per l’autoriciclatore rispetto al riciclatore. Afferma pertanto il legame che persiste tra condotta a monte e condotta di pulitura a valle dovuto dall’assenza di un affrancamento dell’autoriciclaggio dal delitto presupposto. Sul punto cfr. N. AMORE, il punto e l’accapo sull’autoriciclaggio dei proventi delle consorterie criminali di stampo mafioso dopo le Ss. Uu., n. 25191 del 2014, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 8.49 Bene giuridico quest’ultimo, che già costituiva il fulcro della fattispecie di reimpiego, posto che il reinvestimento finale dei proventi delittuosi è carico di pericolo concreto per la collettività dei risparmiatori onesti. A. GULLO, Autoriciclaggio, in www.dirittopenalecontemporaneo.it , 2015, 3 ss.50 Si esprimono in questo senso E. MEZZETTI, D. PIVA, Punire l’autoriciclaggio, come, quando e perché, Torino 2016, Introduzione, 17 ss.51 Se Tizio che si impadronisce di una consistente somma di denaro con modalità penalmente rilevanti, (ad es. furto o appropriazione indebita) per poi utilizzare il profitto di tali reati al fine di avviare un’attività commerciale (o altro) verrà punito per autoriciclaggio; se invece li destina al consumo personale, tipo acquisto di autovetture, beni di lusso o addirittura droga per uso personale, sarà esente da pena.52 Un possibile esempio di non punibilità per “godimento personale” è il caso di Tizio che, dopo aver rubato una automobile, sostituisce la targa e il numero di telaio e poi la utilizza per le sue esigenze quotidiane.
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Ebbene, il privilegio di autoriciclaggio, un tempo vigente per le persone fisiche, non ha tuttavia mai
davvero operato nei confronti dell’ente.
Quando il reato è consumato nel contesto societario, il cardine strutturale del delitto di riciclaggio,
rappresentato dall’alterità dei soggetti responsabili del reato presupposto e quelli responsabili dei
successivi trasferimenti, sostituzioni e impieghi, tende ad essere individuato più facilmente. Ciò in
parte è dovuto alla dissociazione funzionale dei ruoli nella realizzazione del reato, da cui deriva la
possibilità di tracciare una linea netta di confine tra condotta di riciclaggio e concorso nel reato-
presupposto54. Infatti, ad emergere non era qui tanto il rischio che la condotta di riciclaggio
rimanesse assorbita nel reato presupposto, bensì la possibilità che la dissociazione interna, a livello
organicistico, delle diverse funzioni aziendali si riflettesse sulla valutazione delle condotte tenute
dai soggetti intranei alla società. In altre parole, la separazione funzionale, formalizzata a livello di
organigramma aziendale, tra i ruoli dei diversi soggetti responsabili dell’operazione di riciclaggio
avrebbe potuto spezzare la catena concorsuale, cosicché, nel caso in cui un primo soggetto avesse
commesso un reato nell’ambito della propria funzione ed un secondo, estraneo alla realizzazione del
reato, avesse sfruttato consapevolmente, conoscendone la genesi delittuosa, il flusso illecito, l’ente
avrebbe potuto rispondere per due reati distinti, commessi da due soggetti diversi ma comunque
intranei: il reato presupposto – sempre che fosse inserito nel catalogo di parte speciale – e il
riciclaggio55. Si può dire allora che, esclusa la punibilità del post factum per la persona fisica, si
delineava uno scenario in cui l’ente rispondeva per (una sorta) di autoriciclaggio, essendo la stessa
struttura aziendale responsabile sia della produzione del profitto illecito, sia del suo successivo
riciclaggio o reimpiego. Il che, rappresentava una situazione perfettamente coerente con il
fondamento della responsabilità ex d.lgs. 231/2001. Qualora infatti le condotte (a monte e a valle)
fossero state realizzate da soggetti intranei con incarichi diversi e nell’ambito di diverse attività,
l’ente avrebbe sicuramente risposto per due distinti difetti organizzativi56.
Il privilegio di autoriciclaggio nei confronti dell’ente era poi reso inoperante dal principio
dell’autonomia della responsabilità dell’ente sancito dall’art. 8 d.lgs. 231/2001, in base al quale
l’ente risponde anche quando l’autore del reato non è stato identificato. Cosicché, una volta
accertatala commissione del reato-presupposto e del riciclaggio (o del reimpiego), l’ente avrebbe
risposto per entrambi i reati, risultando peraltro indifferente che tra le persone fisiche responsabili,
all’interno di esso, vi fosse un rapporto di terzietà o di identità soggettiva.
53 Nella la maggior parte dei casi chiunque può commettere un reato: si parla in questo caso di reato comune; vi sono però reati che possono essere commessi soltanto da chi possegga determinate qualità o si trovi in determinate relazioni con altre persone: si parla in questo caso di reato proprio. G. MARINUCCI, E. DOLCINI, Manuale di Diritto Penale, cit., 201.54 M.GALLI, Dentro il castello dei destini incrociati: la responsabilità dell’ente da autoriciclaggio, cit., 105.55 Ibidem.56 Ivi, 106.
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Questa situazione, in cui l’ente risponde penalmente per il reato a valle e per quello a monte (anche
in caso di identità soggettiva tra l’autore del reato a monte e a valle) è stata poi formalizzata con
l’estensione dell’art. 25-octies al nuovo art. 648-ter.1 c.p. Rimane dunque, immutata nel tempo
l’assenza del beneficio di autoriciclaggio per le societas.
È tuttavia necessario tenere distinte le due sfere, l’una individuale e l’altra collettiva. Se l’art 648-
ter 1 c.p. introduce il reato di autoriciclaggio per le persone fisiche, l’art 25-octies estende la
responsabilità dell’ente al reato di autoriciclaggio ma non prevede un vero e proprio autoriciclaggio
dell’ente. L’idea di un autoriciclaggio proprio dell’ente, dove l’identità soggettiva di entrambe le
condotte delittuose (a monte e a valle), sarebbe riferita all’ente e non alle persone fisiche, rischia di
essere fuorviante.
Prima dell’introduzione del delitto di autoriciclaggio, l’ente rispondeva di riciclaggio quando,
individuate le persone fisiche responsabili, non vi fosse identità soggettiva tra il responsabile del
delitto a monte e il responsabile della condotta riciclatoria, vista la clausola di non punibilità per le
persone fisiche prevista dall’art. 648-bis c.p. (o quando, ex art. 8 d.lgs. 231/2001, non fossero
individuate le persone fisiche responsabili, così da rendere inoperante il privilegio di
autoriciclaggio). Dopo l’introduzione del delitto di autoriciclaggio nel catalogo di parte speciale del
decreto invece, l’ente risponde di autoriciclaggio se vi è identità soggettiva tra i responsabili del
reato presupposto e i responsabili della condotta riciclatoria e di riciclaggio se non vi è identità o se
l’identità non può essere stabilita (art. 8 d.lgs. 231/2001). Infatti, una volta accertata la connessione
con l’ente in termini di interesse e vantaggio di entrambi gli illeciti, l’identità della persona fisica è
coessenziale all’ incriminazione per autoriciclaggio dell’ente57.
Il delitto di autoriciclaggio sembra allora mettere in crisi l’affermata autonomia della normativa 231
individuando una responsabilità che continua a vivere in un rapporto di derivazione rispetto a quella
dei soggetti che operano al suo interno; infatti, per rispondere di autoriciclaggio, è necessario che la
persona fisica sia sempre individuata al fine di affermare il rapporto di identità soggettiva tra autore
del reato-fonte e autoriciclaggio. Allo stesso tempo, tuttavia, dimostra che si tratta di una
responsabilità comunque propria dell’ente. Questo è reso palese dalle cornici edittali. Per la persona
fisica, infatti, cambia notevolmente rispondere di riciclaggio o di autoriciclaggio, poiché lo schema
sanzionatorio si diversifica58. Eppure, da una prima analisi, il danno prodotto dall'autoriciclaggio
sembrerebbe uguale a quello provocato dalla condotta del terzo in virtù del riciclaggio. In breve:
l'incriminazione dell'autoriciclaggio richiede l'accertamento dell’idoneità della condotta a offendere
57 Ivi, 109.58 L’art. 648-bis co. 1 c.p. prevede la pena della reclusione da quattro a dodici anni e della multa da 1032 euro a 15493 euro. Mentre l’art. 648-ter. 1 co. 2 c.p. prevede la pena della reclusione da uno a quattro anni e della multa da euro 2.500 a euro 12.500.
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interessi diversi da quelli dei reati presupposto e a tutti gli effetti uguali a quelli lesi da condotte
riciclatorie di terzi estranei; verificata tale ipotesi, ne segue che il trattamento sanzionatorio
dell'autoriciclaggio dovrebbe essere uguale a quello del riciclaggio59. Nella previsione di pene
diverse e più miti rispetto a quelle comminate dall'art. 648-bis c.p. si coglie allora una aporia della
nuova fattispecie. Da un esame dei lavori delle Commissioni parlamentari, il più favorevole
trattamento sanzionatorio parrebbe legato alla convinzione che il reo debba scontare anche la pena
per il reato presupposto60. La sensazione è, quindi, che la minor pena rappresenti piuttosto il
compromesso per non aver completato il cammino di emancipazione dell'autoriciclaggio dal reato
presupposto; per non averlo, cioè, affrancato del tutto dai fatti pregressi.
Per converso, per le persone giuridiche, non si prospetta nessun cambiamento rispetto al passato,
tant’è vero che come si evince dagli artt. 9 e 25-octies co.1 e 2 d.lgs. 231/2001, le cornici edittali
per i reati di riciclaggio e autoriciclaggio sono uguali61. Ciò sembra dimostrare: a) il fatto che l’idea
del post factum non punibile non ha influenzato la responsabilità dell’ente da autoriciclaggio. Le
ragioni poste alla base di tale scelta legislativa possono essere molte. Ad esempio: trattandosi di un
ente, e non di una persona fisica, il legislatore si preoccupa di meno ed il livello delle garanzie
tipiche si abbassa; altresì la portata di un’operazione di autoriciclaggio messa in atto dall’ente è tale
per cui risulta più evidente il danno all’ordine economico e alla concorrenza, mentre risulta
affievolito il legame con la componente patrimonialistica; b) il fatto che la colpa d’organizzazione
di cui risponde l’ente sostanzialmente è la stessa per entrambi i reati. In effetti, sembra difficile
individuare una sostanziale differenza nello sforzo che l’ente deve mettere in atto per prevenire la
commissione di un reato di autoriciclaggio, rispetto ad un reato di riciclaggio e reimpiego. I modelli
organizzativi che deve adottare l’ente dovranno infatti comunque puntare a garantire la tracciabilità
dei flussi finanziari e la trasparente e corretta rappresentazione contabile delle operazioni che li
presuppongono o li generano. Sulla tracciabilità nessun particolare problema, in quanto è un
requisito richiesto genericamente, già nell’articolo 6, comma 2° lett. a. d.lgs.231/2001.
59 Ragionando in astratto, il principio di proporzione ci suggerisce che il trattamento sanzionatorio dovrebbe essere anche più grave, considerato che non c’è solo l’ostacolo all’individuazione del paper trail, e dunque l’offesa all’amministrazione della giustizia, ma anche l’offesa al bene del mercato.60 In questi termini l'intervento del Sen. D’Ascola, relatore in Commissione Giustizia del disegno di legge poi approvato: «Sarebbe infatti irragionevole se si mutuasse la medesima pena edittale prevista per il reato di riciclaggio ex articolo 648-bis comma 1 del codice penale (da 4 a 12 anni), in quanto ciò significherebbe non tener conto del carico sanzionatorio che viene a gravare sull'autoriciclatore già per la commissione del delitto presupposto». Cfr. A.M. DELL’OSSO, Il reato di autoriciclaggio: la politica criminale cede il passo a esigenze mediatiche e investigative the new crime of self-laundering: criminal political requirements overshadowed by media and investigative needs in Riv. it. dir., proc. Pen., fasc.2, 2015, 802.61 L’art. 25 octies d.lgs. 231/2001 prevede che in relazione ai reati di cui agli articoli 648, 648-bis, 648-ter e 648-ter.1 del codice penale, si applica all'ente la sanzione pecuniaria da 200 a 800 quote. Nel caso in cui il denaro, i beni o le altre utilità provengono da delitto per il quale è stabilita la pena della reclusione superiore nel massimo a cinque anni si applica la sanzione pecuniaria da 400 a 1000 quote.
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Relativamente alla trasparente e corretta rappresentazione contabile, sono necessarie apposite
misure che, se correttamente attuate, rappresentano un importante baluardo contro la commissione
di fatti di riciclaggio62.
5. Il catalogo dei reati presupposto dell’autoriciclaggio
5.1. Il “catalogo nel catalogo”: violazione dei principi di legalità e tassatività
Il catalogo di parte speciale del decreto 231, contiene, come anticipato in precedenza, una serie di
reati-presupposto, la cui commissione determina la responsabilità amministrativa degli enti. Con
riguardo alla responsabilità dell’ente da autoriciclaggio, le maggiori perplessità ruotano intorno
all’assenza di uno specifico “catalogo nel catalogo” che individui i reati fonte, su cui possa
innestarsi il delitto di autoriciclaggio e, dunque, la responsabilità dell’ente da autoriciclaggio.
Tale scelta del legislatore scardina uno dei principi fondamentali che governano la responsabilità da
reato dell’ente, quale quello di legalità sancito all’art. 2 del d.lgs. 231/2001. In questo senso il
principio di legalità è completato da quello di frammentarietà, in base al quale, la responsabilità
dell’ente è circoscritta ai soli reati indicati nel catalogo di parte speciale.
L’art. 648-ter. 1 c.p., è infatti capace di collegarsi a qualsiasi delitto non colposo, provocando
l’illimitata espansione dei reati-presupposto, originariamente previsti in numero chiuso. Il rischio è
di arrivare ad una situazione nella quale la facile connessione tra l’autoriciclaggio e qualsiasi delitto
non colposo potrebbe fondare una responsabilità dell’ente per reati che, non previsti nella parte
speciale del decreto, non potrebbero, in virtù della legalità dinanzi specificata, fondare alcuna
responsabilità63.
È doveroso spiegare il perché queste problematiche non siano in passato emerse con riguardo ai
delitti di riciclaggio, reimpiego e ricettazione (pur estendendosi quest’ultima fattispecie a beni
provenienti da qualsiasi delitto). La spiegazione risiede nel fatto che il problema della legalità
rispetto al reato fonte poteva essere facilmente evitato presupponendo, come la dottrina ha fatto in
passato64, che la persona fisica responsabile del delitto presupposto non colposo dovesse essere
estranea a qualsiasi rapporto qualificato con l’ente. Tuttavia, se è vero quello che abbiamo detto nei
paragrafi che procedono, il problema si poneva già da allora.
62 Sul punto cfr. V. SILVETTI, L’autoriciclaggio e i suoi effetti 231 in www.diritto.it, 2017.63 M. GALLI, Dentro il castello dei destini incrociati: la responsabilità dell’ente da autoriciclaggio, cit., 112.64 Cfr. N. FASANO e G. CONFENTE, Guida alla voluntary disclosure, Santarcangelo di Romagna, 2015, 144.
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Nondimeno, si potrebbe obiettare che il principio di legalità, appaia comunque rispettato. Una volta
che il legislatore abbia stabilito la rimproverabilità penale dell’autoriciclaggio, potremmo ritenere
indifferente, il fatto che i reati-fonte dell’autoriciclaggio siano o meno inseriti nel catalogo di parte
speciale, purché siano almeno connessi nell’interesse o vantaggio dell’ente.
Se si tiene conto però delle ragioni sostanziali del principio di legalità posto alla base del modello
231, che impongono alle persone giuridiche l’adozione di cautele organizzative volte a scongiurare
la commissione di reati, tale impostazione non appare condivisibile.
Infatti, le garanzie dell’art. 2 del d.lgs. 231, certamente poste a tutela dell’ente, ben si sposano con
le ragioni funzionali che hanno spinto il legislatore a definire un perimetro di responsabilità rispetto
all’indeterminatezza della punibilità degli enti65.
Un sistema aperto, dove l’ente è tenuto ad adottare modelli organizzativi volti a prevenire la
commissione di un qualsiasi delitto (o comunque in un numero non determinato), sembra essere
destinato ad una minore efficacia, essendo impensabile la realizzazione di un siffatto sistema di
salvaguardia66.
5.2 Un confronto con la responsabilità dell’ente per delitti associativi
Ciò detto, rimane il dubbio se l’ente possa o meno rispondere di autoriciclaggio a prescindere dal
fatto che il reato-fonte – il quale sarà certamente un delitto non colposo produttivo di beni, denaro o
altre utilità – appartenga o meno al c.d. “catalogo 231”. Possiamo pensare ai reati tributari che - a
prescindere dalle caratteristiche strutturali degli stessi e dai problemi specifici che essi sollevano
65 M. GALLI, Dentro il castello dei destini incrociati: la responsabilità dell’ente da autoriciclaggio, cit., 114.66 Ibidem.
21
rispetto alla configurabilità di un autoriciclaggio dei reati tributari67 - al momento68 non sono inclusi
nella parte speciale del catalogo 231.
Ad esempio, è possibile far rispondere l’ente di autoriciclaggio derivante da una frode fiscale?
La dottrina69 s’interroga rispetto all’ipotesi di un autoriciclaggio dell’ente da reati extracatalogo
prefigurando le diverse ed altrettanto importanti ripercussioni giuridiche. In una prima prospettiva si
potrebbe sostenere che l’ente risponda di autoriciclaggio qualunque sia stato il reato-fonte
commesso dalla persona fisica e a prescindere dal suo collegamento in termini oggettivi all’ente: in
tal caso l’ente è punibile alla sola condizione che vi sia l’identità fisica dell’autore di entrambe le
condotte illecite. Questa prospettiva rischia tuttavia di rendere difficoltosa la capacità di prevenire la
consumazione del reato di autoriciclaggio. In un’ottica più circoscritta, si potrebbe avanzare 67 Infatti, i reati tributari, poiché, nella maggior parte dei casi producono un risparmio d’imposta piuttosto che un nuovo guadagno, difficilmente potrebbero diventare oggetto materiale dell’autoriciclaggio ed essere sottoposto ad attività d’impiego, sostituzione e trasferimento. Cfr. in tema G. GAMBONI, Autoriciclaggio e reati fiscali: un rapporto tutt’altro che semplice, in www.dirittoegiustizia.it.A parere di chi scrive, si deve tener conto, inoltre, della peculiarità dei reati tributari, in particolar modo dei delitti dalla struttura a consumazione posticipata, tipica dei delitti in materia di dichiarazione. Sappiamo infatti che i reati in questione sono di tipo istantaneo e coincidono con la presentazione della dichiarazione annuale dei redditi oppure con lo spirare del termine di tolleranza di 90 giorni successivi alla scadenza di presentazione. È di tutta evidenza, quindi, che i suddetti reati verranno ad esistere solo nel momento indicato e quindi nell’anno successivo al conseguimento del profitto illecito. Circostanza che non pare certo priva di importanza tenuto conto che se le condotte ex art 648- ter. 1 c.p. avvengono in un periodo antecedente alla presentazione della dichiarazione dei redditi, difficilmente si potrà configurare un’ipotesi di autoriciclaggio dal momento che in quella fase il delitto presupposto non sarebbe venuto a compimento. Cfr. M. GALLI, Dentro il castello dei destini incrociati: la responsabilità dell’ente da autoriciclaggio, cit., 128 ss.68 Con la proposta di legge del deputato Donatella Ferranti, n. 2400, presentata il 21 maggio 2014 così rubricata «Introduzione dell'articolo 25-terdecies del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, concernente le sanzioni applicabili alle persone giuridiche per i reati tributari», si delinea l’idea di estendere la responsabilità delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, di seguito «enti», ai reati tributari, colmando così una lacuna ingiustificabile non soltanto sul piano politico-criminale (si evidenzia, tra l'altro, che i reati tributari si atteggiano spesso come strumentali alla consumazione del reato di corruzione: si pensi al reato di false fatturazioni, funzionale alla creazione di provvista extracontabile destinata ad integrare una «tangente»), ma anche su quello sistematico. Sotto quest’ultimo profilo si rammenta infatti che proprio di recente le sezioni unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 10561 del 2014 (Gubert) sono state chiamate a pronunciarsi sulla possibilità di aggredire direttamente i beni di una persona giuridica per violazioni tributarie commesse dal legale rappresentante della stessa. Come rilevato dalla Sezione rimettente, due sono stati gli indirizzi sino ad ora seguiti dalla giurisprudenza. Secondo un primo orientamento, nel caso di violazioni tributarie commesse dal legale rappresentante nell'interesse della società, il sequestro preventivo e la successiva confisca per equivalente possono avere ad oggetto i beni della persona giuridica. In questo senso si osserva che, sebbene la responsabilità per il reato tributario sia riferibile alla sola persona fisica (stante la mancata previsione, nel d.lgs. n. 231 del 2001, di una specifica ipotesi di responsabilità dell'ente per i reati tributari), le conseguenze patrimoniali ricadono sulla società a favore della quale il legale rappresentante ha agito. Nel caso in cui il reato sia stato commesso dall'amministratore della società e il profitto sia rimasto nelle casse Secondo un altro e contrastante indirizzo giurisprudenziale, invece, non sarebbe ammissibile il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente dei beni appartenenti alla persona giuridica, quando si procede per violazioni finanziarie commesse dal legale rappresentante della società, salvo nel caso in cui la struttura societaria costituisca un apparato fittizio utilizzato dal reo all'esclusivo scopo di farvi confluire i profitti illeciti derivanti dai reati tributari. A favore di questa seconda soluzione depone il dato normativo: gli illeciti penali tributari non figurano, come noto, nel novero dei reati presupposto che danno luogo alla responsabilità dell'ente e, dunque, non potrebbe trovare applicazione la speciale confisca di valore stabilita dall'art. 19 del d.lgs. n. 231 del 2001. Con la sentenza qui pubblicata, le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno sostanzialmente seguito il secondo orientamento sopra richiamato. Ne deriva che l'ampliamento del catalogo dei reati-presupposto della responsabilità dell'ente agli illeciti penali tributari appare ormai improcrastinabile.69 C. PIERGALLINI, Autoriciclaggio, concorso di persone e responsabilità dell'ente: un groviglio di problematica ricomposizione, Bologna, 2016, 751.
22
l’ipotesi che, ferma l’identità dell’autore, l’ente risponda solo quando il reato-fonte è stato
commesso nel suo interesse o a suo vantaggio, risultando così collegato all’attività dell’ente seppur
non figuri tra i reati-presupposto del catalogo (si pensi ai reati tributari già citati).
Un’ultima impostazione ancor più restrittiva è quella che vede l’ente rispondere di autoriciclaggio
solo se il reato-fonte figuri nel catalogo di parte speciale e sia stato commesso nel suo interesse o a
suo vantaggio.
Provando ad approfondire questo interrogativo, appare opportuno instaurare un confronto con la
sentenza della Cassazione n. 3635 del 201370 in tema di responsabilità dell’ente per delitti
associativi. Si tratta della prima pronuncia ad aver affrontato la questione su un recupero di
fattispecie estranee al catalogo per il tramite di fattispecie “aperte71”. In questo caso la Corte aveva
affermato che la rilevanza di fattispecie di reato estranee al catalogo – in quel caso si trattava di
disastro innominato, rimozione o omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro,
avvelenamento di acque o di sostanze alimentari – non può essere indirettamente recuperata nella
diversa prospettiva di una loro imputazione quali delitti-scopo del reato associativo, perché in
questo modo la norma di cui all’art. 416 c.p. (norma questa sì ricompresa nell’elenco dei reati che
possono generare la responsabilità dell'ente), «si trasformerebbe, in violazione del principio di
tassatività del sistema sanzionatorio contemplato dal d. Lgs. n. 231/2001, in una disposizione
“aperta”, dal contenuto elastico, potenzialmente idoneo a ricomprendere nel novero dei reati
presupposto qualsiasi fattispecie di reato con il pericolo di un'ingiustificata dilatazione dell'area di
potenziale responsabilità dell’ente collettivo72».
La pronuncia sembrerebbe dunque chiarissima nell’escludere che fattispecie estranee al numerus
clausus del d.lgs. 231/2001 possano venire in rilievo ai fini della responsabilità da reato dell’ente
per il tramite di reati che invece ad esso appartengono. Tuttavia, poiché l’argomentazione si
concentra su considerazioni non pienamente compatibili con il delitto di autoriciclaggio, la
possibilità di una sua automatica estensione alla materia di nostro interesse non può darsi per
scontata.
70 Cass., pen., sez. VI, sentenza 20 dicembre 2013 – 24 gennaio 2014, n. 3635 pubblicata in Riv. econ. e dir., Feb. 1, 2014 n. 010.71 Cass. pen., Sez. VI, 20 dicembre 2013, n. 3635, in Riv. it. dir. proc. pen., 2014, 988 ss. e in www.dirittopenalecontemporaneo.it con nota di T. TRINCHERA, Caso ILVA: la Cassazione esclude la confisca per equivalente del profitto dei reati ambientali (2014). In tale occasione, la Suprema Corte era stata chiamata a pronunciarsi sul provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, disposto ai sensi degli artt. 19 e 53 del d.lgs. 231/ 2001, nell’ambito del procedimento penale avviato nei confronti di diversi soggetti, coinvolti a vario titolo nell’amministrazione e gestione dello stabilimento ILVA di Taranto, ai quali si contestavano i reati di associazione per delinquere (art. 416 c.p.), disastro innominato (art. 434 c.p.), rimozione o omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro (art. 437 c.p.), avvelenamento di acque o di sostanze alimentari (art. 439 c.p.), nonché reati contro la pubblica amministrazione e la fede pubblica, reati in materia di tutela dell’ambiente, di igiene e sicurezza sul lavoro.72 T.TRINCHERA, Caso ILVA, cit., 3.
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È opportuno chiarire che la Corte di Cassazione, nella pronuncia appena indicata, era chiamata a
pronunciarsi, in fase cautelare, sull’applicazione di un sequestro preventivo finalizzato alla confisca
per equivalente. Il ragionamento della Corte è perciò tutto incentrato sulla corretta individuazione
della nozione di profitto ai fini della confisca ex art. 19 d.lgs. 231/2001; misura, questa, che nel
sistema 231 appare pienamente valorizzata nelle sue componenti di strumento punitivo tipico della
criminalità organizzata e d’impresa. Tale ragionamento valorizza il rapporto di «derivazione causale
diretta ed immediata» tra il profitto e la condotta dell’agente73. Il problema dell’estensione del
ragionamento della Corte, elaborato sul delitto associativo al delitto di autoriciclaggio risiede nel
fatto che il delitto associativo di cui all’art. 416 c.p. non sembra di per sé idoneo a produrre alcun
profitto. Quest’ultimo piuttosto matura una volta che siano stati posti in essere i reati alla cui
realizzazione la costituzione dell’associazione è diretta; con la conseguenza che, qualora questi
ultimi non siano qualificati come reati-presupposto della responsabilità dell’ente, la confisca ai
sensi dell’art. 19 d.lgs. 231/2001 sarebbe disposta in relazione ad illeciti extra-catalogo.
Correttamente in questo caso la Corte di Cassazione rilevava una violazione del principio di legalità
delle sanzioni, il quale postula che l’oggetto (il profitto) della misura sanzionatoria della confisca
sia direttamente riferibile al reato espressamente previsto dalla legge come presupposto della
responsabilità dell’ente e, di conseguenza, che il profitto del provvedimento di confisca coincida
con il profitto del reato in ragione del quale la confisca è applicata. Ebbene, a differenza di quanto
accade per il delitto di associazione per delinquere ex art. 416 c.p., il delitto di autoriciclaggio
appare di per sé produttivo di un profitto; anzi, il ricavo di un lucro, è il fisiologico esito della
condotta di autoriciclaggio. All’ente sanzionato per un delitto di autoriciclaggio dovrebbe essere
applicata la confisca del profitto dipendente dalla commissione di questo reato e non dei delitti non
colposi cui ad oggi le condotte di autoriciclaggio sono legate. Insomma, la pronuncia in materia di
reati associativi non appare automaticamente estendibile al reato di autoriciclaggio. Inoltre, si deve
tenere conto del fatto che il reato extra catalogo sarebbe in un caso (reato associativo) un reato-
scopo e nell’altro (autoriciclaggio) un reato-fonte. La prevenzione dell’autoriciclaggio appare
inscindibilmente legata dalla prevenzione, a monte, dei reati da cui deriva la ricchezza illecita. A tal
fine, l’ente dovrà infatti tracciare i rischi reato (risk assessment) e predisporre le misure preventive
(risk management) per tutte le attività da cui derivi un qualsiasi profitto illecito idoneo ad essere
(auto)riciclato. Sembra allora difficile escludere, almeno a priori, la possibilità di contestare all’ente
il reato di autoriciclaggio qualora il delitto produttivo di attività illecite non appartenga al catalogo
73 La sentenza in esame viene dunque ad arricchire il già consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui il profitto del reato presuppone l’accertamento della sua diretta derivazione causale della condotta dell’agente. Cfr. M. GALLI, Dentro il castello dei destini incrociati: la responsabilità dell’ente da autoriciclaggio, cit., 118.
24
di parte speciale del decreto 23174 , fermo restando il suo collegamento in termini di interesse o
vantaggio rispetto all’ente.
6. Considerazioni conclusive
Tirando le fila del nostro discorso, il legislatore del 2001 aveva previsto una responsabilità propria
e autonoma dell’ente (art. 8 d.lgs. 231/20019), derivante da una sua colpa d’organizzazione. Infatti,
oltre alla presenza di una componente oggettiva (l’interesse e/o il vantaggio), la responsabilità
dell’ente scaturisce dalla mancata adozione e/o attuazione di un valido modello di organizzazione e
gestione volto a evitare la perpetrazione del reato posto in essere dalla persona fisica a
favore dell’ente (artt. 6 e 7 d.lgs. 231/2001). Questo modello d’imputazione si salda al principio di
legalità “rafforzata” previsto all’art. 2, per cui l’ente è chiamato a prevenire un insieme di reati
tassativamente indicati nella parte speciale della normativa (c.d. “catalogo 231”).
Il reato di autoriciclaggio, introdotto nel catalogo all’art. 25-octies, dalla l. del 15 dicembre 2014 n.
186, sembra mettere in crisi l’impianto del d.lgs. 231/2001.
Anzitutto, per quanto riguarda il criterio di autonomia. Abbiamo visto che l’art. 25-octies estende la
responsabilità all’ente al reato di autoriciclaggio, ma non prevede un vero e proprio autoriciclaggio
delle societas, in quanto l’identità soggettiva degli autori delle condotte (reato-fonte e
autoriciclaggio) va ricercata nelle persone fisiche che operano internamente all’ente. Ecco perché
abbiamo parlato di una responsabilità propria della persona giuridica, ma che vive in un rapporto di
derivazione con i soggetti che agiscono per essa. Infatti, una volta accertata la connessione con
l’ente in termini di interesse e vantaggio di entrambi gli illeciti, l’identificazione della persona fisica
è coessenziale all’incriminazione per autoriciclaggio dell’ente.
Abbiamo poi visto che l’assenza di uno specifico “catalogo nel catalogo” che individui i reati-fonte
per cui si possa realizzare il delitto di autoriciclaggio, comporta seri problemi, scardinando uno dei
principi fondamentali posti alla base del sistema 231, quale quello di legalità sostanziale. Per questa
via, si arriva infatti ad estendere, pur indirettamente, la responsabilità dell’ente a qualsiasi delitto
non colposo, a prescindere dal fatto che sia o meno inserito nel catalogo 231.
Il recupero di una responsabilità dell’ente da reati extracatalogo per mezzo di fattispecie che
possiamo definire “elastiche” rischia di generare una metamorfosi del tradizionale modello
imputativo del sistema 231, spostando il sistema verso forme di responsabilità oggettiva, dove il
tasso di “colpevolezza” dell’ente (ossia la sua responsabilità rispetto alla verificazione del fatto di
reato) si abbassa. L’ente si troverà infatti a dover tracciare i rischi reato (risk assessment) ed a
74 Ivi, 121.25
predisporre le misure preventive (risk management) per tutte le attività da cui derivi un qualsiasi
profitto illecito idoneo ad essere (auto)riciclato, cioè, in sostanza, riutilizzato nell’ambito
dell’attività d’impresa. Nel momento in cui l’ente è chiamato a prevenire ogni tipo di attività da cui
possa derivare un profitto illecito, a causa della illimitata estensione del catalogo 231, crescerà la
difficoltà di confezionare e attuare efficacemente un modello in grado di superare il giudizio di
idoneità del giudice.
Ciò sembra incentivare uno spostamento da un sistema preventivo ante delictum, ad uno riparatorio
(inclusivo di misure risarcitorie, ripristinatorie e di adeguamento preventivo) post delictum,
banalmente volto all’ottenimento di una riduzione sanzionatoria ad esso applicata (artt. 12 e 17
d.lgs. 231/200175). L’apertura del catalogo, ed il fatto che l’ente sia chiamato a prevenire ogni forma
di attività illecita produttiva di profitto, rende difficile il superamento di un giudizio di idoneità da
parte del giudice. È chiaro allora che lo sforzo ante delictum, e dunque l’investimento in costi sulla
prevenzione, tenderà a diminuire in favore di soluzioni post delictum.
75 Gli artt. 12 e 17 d.lgs. 231/2001 prevedono rispettivamente che: «1. La sanzione pecuniaria è ridotta della metà e non può comunque essere superiore a euro 103.291 se: a) l’autore del reato ha commesso il fatto nel prevalente interesse proprio o di terzi e l’ente non ne ha ricavato vantaggio o ne ha ricavato un vantaggio minimo; b) il danno patrimoniale cagionato è di particolare tenuità; 2. La sanzione è ridotta da un terzo alla metà se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado: a) l’ente ha risarcito integralmente il danno e ha eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato ovvero si è comunque efficacemente adoperato in tal senso; b) è stato adottato e reso operativo un modello organizzativo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi. 3. Nel caso in cui concorrono entrambe le condizioni previste dalle lettere del precedente comma, la sanzione è ridotta dalla metà ai due terzi. 4. In ogni caso, la sanzione pecuniaria non può essere inferiore a euro 10.329 (lire venti milioni)» e che «1. Ferma l’applicazione delle sanzioni pecuniarie, le sanzioni interdittive non si applicano quando, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, concorrono le seguenti condizioni: a) l’ente ha risarcito integralmente il danno e ha eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato ovvero si è comunque efficacemente adoperato in tal senso; b) l’ente ha eliminato le carenze organizzative che hanno determinato il reato mediante l'adozione e l'attuazione di modelli organizzativi idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi; c) l’ente ha messo a disposizione il profitto conseguito ai fini della confisca».
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