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DIPARTIMENTO DI STUDI LINGUISTICO-LETTERALI, STORICO-FILOSOFICI E GIURIDICI

Relazione per il Corso di Diritto Penale progreditonel Corso di Laurea in Giurisprudenza, LMG-01

A.A. 2018/201929 Marzo 2019

IL NUOVO ARTICOLO 323-ter c.p.:

RISCHI E OPPORTUNITÀ DELLA POLITICA

PREMIALE NEL CONTRASTO ALLA

CORRUZIONE.

Alessia Bastianelli e Giorgia Venturini

Relatore: Dott. Nicolò Amore

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INDICE:

1. Il diritto premiale……………………………………………..……………………………..3

1.1 Il diritto premiale come simmetria del diritto penale…………….……………………..……4

1.2 La causa di non punibilità come principale istituto del diritto premiale penale………….......5

2. La genesi dell’art. 323-ter c.p.: l’iter verso la “spazzacorrotti”…………………..……...7

2.l. Dal fenomeno Tangentopoli alla Legge “spazzacorrotti”…..……………………..…………7

2.2 Il nuovo art. 323-ter c.p.: requisiti e scopi della causa di non punibilità………………...….10

3. Pro e contro della causa di non punibilità: rottura dell’omertà o garanzia di impunità?

3.1 Termini di decadenza e opportunità di ricerca probatoria del primo comma dell’art. 323-ter

c.p. …..…………………………………………………………………...……………….…12

3.2 La possibile strumentalizzazione del terzo comma dell’art 323-ter c.p………….....………12

3.3 Il possibile utilizzo come arma di ricatto nel rapporto tra corrotto e corruttore o rottura della

solidarietà del pactum sceleris…………………………………...……………………….....13

3.4 Il rapporto con i principi di garanzia del diritto penale…………………………….........….14

4. Conclusioni: una scelta imprecisa ma consapevole………..………………...………......15

BIBLIOGRAFIA………………………….………………………………...………………....

…..17

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Premesse introduttive

Il dibattito relativo al tema dell’anticorruzione è una questione quanto mai attuale per il nostro

ordinamento. A partire dal 2012, infatti, si sono avvicendati numerosi interventi sul tema, che hanno

a dir poco rivoluzionato lo strumentario a disposizione per il contrasto di questa grave forma di

malaffare. Con la recente L. n. 3 del 2019, in particolare, il legislatore ha ulteriormente potenziato

l’armamentario penale per la repressione della criminalità politico-amministrativa, introducendo tra

l’altro anche una nuova causa di esclusione della punibilità: l’art. 323-ter c.p.

In queste pagine ci si soffermerà proprio su questo istituto, che rappresenta uno degli ultimi e forse

più importanti capitoli dell’utilizzo della tecnica premiale nel contrasto ai fenomeni criminali. In

particolare, si valuteranno le opportunità e i rischi derivanti dall’implementazione della nuova causa

di non punibilità, verificandone l’efficacia anche da un punto di vista politico-criminale.

1. Il diritto premiale.

L’espressione “diritto premiale” nasce dal tentativo di parte della dottrina di ricondurre a unità

l’insieme delle norme giuridiche tese, in buona sostanza, a incentivare il consociato verso il

compimento di determinati atti valutati positivamente dall’ordinamento. Così inteso, il diritto

premiale può assumere anche il ruolo di strumento di controllo sociale1, in particolar modo quando

si pone quale stimolo per indurre i destinatari di una norma all’osservanza di questa. In tal senso,

l’implementazione delle c.d. “misure premiali” permette di passare da un sistema di controllo

passivo, che ha come obiettivo quello di sfavorire le azioni nocive, a uno di tipo attivo, che tende

invece a favorire le azioni vantaggiose2.

L’utilizzo della premialità, dunque, allontana l’immagine tradizionale del diritto come ordinamento

protettivo-repressivo poiché lo Stato attraverso di esso si fa promotore di comportamenti

socialmente utili3.

Il diritto premiale si esprime principalmente attraverso due strumenti: la facilitazione, che procede

o accompagna il comportamento che si intende incoraggiare, semplificandone il conseguimento e la

ricompensa, che viene dopo, a rimunerare il compimento del comportamento che si vuole

incentivare o, più nello specifico nell’ambito del diritto penale, al fine di eliminare o attenuare le

conseguenze alla violazione di una norma incriminatrice.

1 N. BOBBIO, Introduzione breve al diritto premiale, in Studi di diritto premiale, II edizione, pag. 16.2 N. BOBBIO, Sulla funzione promozionale del diritto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1969. 3 Si capisce pertanto come il diritto premiale abbia acquistato rilievo nel passaggio dallo Stato liberale al Welfare State, in cui l’ordinamento assume una funzione non soltanto protettiva, ma anche promozionale verso gli interessi meritevoli di tutela.

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1.1. Il diritto premiale come simmetria del diritto penale.

Alcuni filosofi del diritto4 dell’Ottocento, hanno avvertito la presenza di una simmetria tra diritto

premiale e diritto penale, sostenendo che questa fosse già presente nell’antica Roma.

La corrispondenza tra diritto penale e diritto premiale emerge anzitutto nelle funzioni. Le funzioni

sono speculari perché entrambi si propongono di intervenire sul comportamento dei consociati.

Sempre di simmetria potremmo parlare, seppur antagonistica e contrapposta, per quanto riguarda i

mezzi utilizzati: il diritto penale si esaurisce nella repressione e nella prevenzione, mentre il diritto

premiale si serve della logica dell’incentivazione.

Ѐ fondamentale per il diritto premiale, avendo tra le sue funzioni quella di approntare tecniche di

controllo sociale5, allo stesso modo del diritto penale seppur con mezzi diversi, domandarsi se

anche l’intervento premiale possa essere inteso quale “sanzione giuridica” e conseguentemente se

possa essere impiegato come strumento per prevenire la violazione dei precetti. Al modo, dunque,

delle sanzioni negative del diritto penale classico.

Come noto, la sanzione giuridica è il provvedimento applicato nei confronti di colui che non

osserva la norma giuridica. Due sono le teorie che si sono tradizionalmente prospettate per spiegare

l’essenza della sanzione giuridica. La prima6 enfatizza il profilo della istituzionalizzazione,

richiedendo quindi che il sistema giuridico disciplini sia la norma da osservare sia la risposta alla

violazione di questa, in modo tale da garantire la certezza del diritto; la seconda teoria 7 invece

quello della coazione, identificandola in sostanza come particolare modo di esercizio della forza

fisica.

Norberto Bobbio8, invece, ritiene che la ratio essendi della sanzione sia data dal momento della

reazione alla violazione di norme giuridiche, reazione garantita solo in ultima istanza dall’uso della

forza. Gli interventi di tipo promozionale, perciò, potrebbero essere a tutti gli effetti sanzioni

giuridiche, al modo dunque di quelli deterrenti. Infatti «mentre il castigo retribuisce con un dolore

un piacere (il piacere del delitto), il premio retribuisce con un piacere un dolore (lo sforzo per il

servizio reso)»9.

1.2 La causa di non punibilità come principale istituto del diritto premiale penale.4 R. VON JHERING, Lo scopo del diritto, trad. it. (a cura di Losano), Torino, 1972, cap.VII, pag. 139-140.5 N. BOBBIO, Sulla funzione promozionale del diritto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1969, pag. 1314.6 H. KANTOROWICZ, La definizione del diritto, Giappichelli, Torino, 1962, pag. 124 sgg.7 Cfr. teoria generale del diritto d’orientamento positivistico da Jhering a Kelsen.8 N. BOBBIO, Dalla struttura alla funzione, Nuovi studi di teoria del diritto, pag. 26.9 N. BOBBIO, Dalla struttura alla funzione, Nuovi studi di teoria del diritto, pag. 22.

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La conferma della plausibilità teorica e della concreta utilità pratica dell’utilizzo degli strumenti

premiali nel contrasto ai c.d. comportamenti illeciti ci viene confermata proprio dal diritto penale.

Anche in questo settore infatti, accanto alle tradizionali (e preponderanti) misure di carattere

repressivo-negativo, si incontrano anche non pochi istituti che riflettono la logica premiale. Ne è un

esempio l’art. 56 co 4 c.p., il quale disciplina il recesso attivo dal delitto tentato. In questo caso,

infatti, il legislatore prevede una riduzione della pena nel caso in cui il reo, dopo aver posto in

essere atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, impedisca volontariamente

il verificarsi dell’evento dannoso o pericoloso che la sola minaccia della sanzione negativa10 non era

stata sufficiente a scoraggiare.

Ma ne costituiscono un esempio ancor più significativo le c.d. cause sopravvenute di non punibilità,

ove il mantenimento della condotta incentivata successivamente alla violazione di un precetto,

permette addirittura di non essere sottoposti alla pena per questa prevista. Andando più nello

specifico, esse rientrano tra le c.d. cause di non punibilità, definibili come l’insieme delle

condizioni, ulteriori ed esterne, rispetto al fatto antigiuridico e colpevole, che permettono per

l’appunto di escluderne la punibilità. Sono, insomma, situazioni che si collocano all’esterno della

struttura del reato, che non incidono sull’esistenza dello stesso, limitandosi a inibire la sola

applicazione della pena per ragioni di opportunità11.

Esse si distinguono in: cause personali di esclusione della punibilità, che possono essere sia

concomitanti sia sopravvenute; cause oggettive di esclusione della punibilità; cause di estinzione del

reato12.

Tra queste quattro ipotesi di cause di non punibilità, le cause sopravvenute di esclusione della

punibilità consistono in «una serie di disposizioni che premiano con l’impunità chi, avendo

commesso un fatto antigiuridico e colpevole, realizzi successivamente una condotta tale o da

impedire che la situazione di pericolo già creata si traduca nella lesione del bene giuridico o da

reintegrare ex post il bene offeso»13.

La ratio di queste fattispecie, dunque, è proprio quella di ricompensare, attraverso l’esenzione della

punizione, la singola persona che si è attivata per scongiurare le conseguenze pregiudizievoli

derivanti dal fatto illecito che ha realizzato. In ciò si coglie chiaramente la funzione premiale di

questi istituti, che favoriscono la realizzazione della c.d. condotta conforme attraverso la previsione

di un premio derivante dalla sua positiva attuazione.

10 La pena per l’appunto, e nello specifico quella prevista per il delitto tentato (art. 56 c.p.).11 G. MARINUCCI E. DOLCINI, Manuale di diritto penale, Parte Generale, quinta edizione, pag. 403. 12 G. MARINUCCI E. DOLCINI, Manuale di diritto penale, Parte Generale, quinta edizione, pag. 406.13 G. MARINUCCI E. DOLCINI, Manuale di diritto penale, Parte Generale, quinta edizione, pag. 407.

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Sin dall’origine il Codice Rocco del 1930 conteneva una serie di cause speciali sopravvenute di non

punibilità (per es. la desistenza volontaria nel delitto tentato disciplinato dall’art. 56, comma 3 c.p. o

la costituzione in carcere dell’evaso regolato all’art. 385 c.p.). Tullio Padovani14, nel confrontare le

cause di non punibilità del Codice Rocco con le nuove ipotesi di ravvedimento attivo introdotte

negli anni Ottanta con l’avvento della lotta al terrorismo, riscontra quattro caratteristiche strutturali

comuni in quelle più risalenti. Il primo requisito, sul piano formale, qualifica il ravvedimento come

condotta diametralmente opposta a quella posta in essere dal reo, in modo tale da salvaguardare,

seppur tardivamente, l’interesse protetto. In secondo luogo, sul piano sostanziale, si richiede al reo

una condotta volta all’eliminazione del danno o alla reintegrazione dell’offesa. La terza

caratteristica richiede che, per ottenere il beneficio della causa di non punibilità, la reintegrazione

sia effettivamente raggiunta e non si risolva in un mero tentativo. Il quarto requisito ha infine natura

personale: è necessaria la volontarietà del ravvedimento. Il reo deve volontariamente porre in essere

la condotta positiva richiesta all’interno della causa di non punibilità.

Con le nuove cause di non punibilità degli “anni di piombo” si aggiunge una ulteriore caratteristica

a quelle precedenti individuate da Tullio Padovani, che fa leva sull’elemento soggettivo. Al reo

viene richiesto una sorta di “pentimento civile”, una vera e propria «scelta di campo»15 (per es. al

terrorista si richiede non solo di non perseverare nella condotta criminosa, ma di rinunciare ad

essere tale).

Se nel Codice Rocco gli strumenti premiali avevano carattere eccezionale, a partire dagli anni

Ottanta questi hanno sviluppato una maggior forza espansiva. Si è passati quindi da un uso

eccezionale e sporadico degli istituti premiali, ad «una situazione di eccezionalità permanente»16

che ha condotto il legislatore, in alcuni ambiti, a far più affidamento sulle misure promozionali che

su quelle repressive.

Una simile tendenza può essere colta anche nelle politiche di contrasto alla corruzione.

2. La genesi dell’art 323-ter c.p.: l’iter verso la “spazzacorrotti”.

14 T. PADOVANI, La soave inquisizione, Osservazioni e rilievi a proposito delle nuove ipotesi di “ravvedimento”, in Riv. It. di dir. e proc. pen. Fasc. 2, Aprile-Giugno 1981, pag. 532 sgg.15 D. PULITANO’, Le misure del Governo come ordine pubblico, in Dem. dir., 1980, pag. 26.16 T. PADOVANI, La soave inquisizione, Osservazioni e rilievi a proposito delle nuove ipotesi di “ravvedimento”, in Riv. It. di dir. e proc. pen. Fasc. 2, Aprile-Giugno 1981, pag.544.

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L’art. 323-ter c.p. introduce una causa personale sopravvenuta di non punibilità, frutto di un

dibattito avviatosi sin dagli anni Novanta e culminato in numerosi progetti di legge che non vennero

approvati. Nonostante questo, gli interventi, seppur non avallati, sono stati rilevanti per arrivare alla

formulazione della nuova causa di non punibilità in ambito corruttivo, e meritano pertanto di essere

ripercorsi.

2.1. Dal fenomeno Tangentopoli alla Legge “spazzacorrotti”.

Il fenomeno Tangentopoli fu la «metafora di un sistema largamente praticato di pratiche illegali

orientate al profitto»17 che ha fatto emergere la corruzione insita nella pubblica amministrazione

negli anni Novanta. Le indagini iniziate dal pool di Milano, infatti, portarono alla scoperta di

rapporti occulti consolidati e stabili tra i vari attori dello scambio illecito, che si sviluppavano

rispettando regole predeterminate e propalate attraverso la mediazione di più soggetti. Questo

«insieme d’interazioni, per la loro ramificazione e serialità, diede vita a una vera e propria “polis”

parallela rispetto a quella disciplinata dalle norme dell’ordinamento giuridico, unita dal minimo

comun denominatore della tangente (“Tangentopoli”). Un conglomerato sommerso, in cui le

mazzette non erano più funzionali alla compravendita di specifici atti del munus publicum, quanto

ad assicurare l’ingresso nel network illecito da parte di chi le pagava, e l’affiliazione clientelare di

chi le riceveva»18.

Sulla scia dell’operazione “mani pulite”, il gruppo di magistrati della Procura di Milano, coadiuvati

da professori di diritto e procedura penale, elaborò un ambizioso progetto chiamato “Proposte in

materia di prevenzione della corruzione e dell’illecito finanziamento dei partiti”19. S’intendeva

sottoporre al legislatore un insieme di misure a carattere penale per combattere il fenomeno

corruttivo, prevedendo tra le altre cose, anche l’introduzione di una causa speciale di non punibilità.

Come osservato dai sostenitori della proposta, attraverso questo strumento premiale si supponeva di

poter raggiungere un risultato fondamentale per il contrasto alla criminalità politico-amministrativa,

ossia quello di spezzare il pactum sceleris tra corrotto e corruttore, non raggiungibile attraverso gli

ordinari potenziamenti delle negative. La logica, infatti, era di indurre il pacisciente a rompere il

sodalizio, assicurandogli un c.d. “ponte dorato” qualora lo faccia «entro un certo termine, tenga

determinati comportamenti riparatori e di collaborazione processuale»20. Nello specifico, il pool di

Milano prevedeva, all’art. 10 del detto Progetto, l’introduzione di una causa di non punibilità per la 17 Cfr D. PULITANO’, La Giustizia penale alla prova del fuoco, in Riv. it. dir, e proc., fasc.1, 1997, pag.3.18 Cfr. N. AMORE, L’operazione Mani Pulite e le sue ripercussioni sulla lotta alla corruzione sistemica, 2018.19 Vd Proposte in materia di prevenzione della corruzione e dell’illecito finanziamento di partiti, in Riv. ital. dir. proc. penale, 3/1994.20 D. PULITANO’, La Giustizia penale alla prova del fuoco, in Riv. it. dir, e proc., fasc.1, 1997, pag.10.

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corruzione, la quale richiedeva per la sua applicabilità diverse condizioni. Innanzitutto il reo doveva

denunciare spontaneamente il fatto commesso prima che la notizia di reato fosse stata iscritta a suo

carico nel registro generale e comunque entro tre mesi dalla commissione del fatto. In secondo

luogo, si richiedeva che entro lo stesso termine il responsabile fornisse all’autorità giudiziaria una

somma pari a quanto ricevuto o versato, ovvero indicasse l’effettivo beneficiario, qualora la somma

fosse stata versata a favore di altri.

Su tale proposta furono manifestate molte riserve in relazione alla scarsa plausibilità di una

denuncia spontanea antecedente alla scoperta del reato e al rischio di offrire al corrotto o al

corruttore una temibile arma di pressione nei confronti del correo21. La prima di queste critiche fa

riferimento al fatto che veniva richiesto al reo di autodenunciarsi prima che la notizia di reato fosse

stata iscritta nel registro dei reati. Eventualità che difficilmente si sarebbe verificata dato che ciò

avrebbe richiesto un pentimento del reo, indipendentemente dalla conoscenza dello svolgimento di

un’indagine a suo carico. La seconda critica all’introduzione dell’art. 10 del Progetto insiste sul

rapporto tra corrotto e corruttore. Questa mostra infatti come la previsione di una causa di non

punibilità in ambito penale potrebbe finire paradossalmente per rafforzare ulteriormente il pactum

sceleris che si prefissava invece di rompere. Se ad esempio un imprenditore privato corrompe un

pubblico ufficiale per ottenere un appalto, saranno entrambi disposti a maggiori concessioni

temendo l’uno la denuncia dell’altro: il privato sarà disposto a pagare tangenti più alte e il pubblico

ufficiale a porre in essere ulteriori atti a favore del correo nell’esercizio della sua funzione pubblica,

in modo tale da rafforzare il pactum sceleris.

Anche a causa delle critiche ricevute e del mancato sostegno unanime degli addetti ai lavori, queste

proposte per contrastare la corruzione non avranno seguito, e per circa venti anni non se ne

svilupperanno neppure delle altre.

È solo con la L. n. 190/2012, la c.d. Legge Severino, che si è riportato in auge il tema

dell’anticorruzione, cercando in particolare di sviluppare una strategia di tipo preventivo. Essa

infatti ha dettato specifiche misure volte a potenziare la trasparenza amministrativa (compresa

l’attività relativa agli appalti), l’imparzialità dei pubblici impiegati (ha disposto ad es. l’obbligo di

rotazione dei dirigenti preposti a quegli uffici in cui sussisteva maggior rischio di corruzione) e ha

inoltre istituito un’autorità, l’Autorità Nazionale Anti-corruzione (di seguito ANAC), alla quale ha

affidato il compito di adottare piani triennali incentrati proprio sulla predisposizione di misure

organizzative in grado di prevenire il mercimonio delle pubbliche funzioni (c.d. piani

21 V. MONGILLO, Le riforme in materia di contrasto alla corruzione introdotte dalla Legge n. 69 del 2015, in Diritto Penale Contemporaneo, pag.11.

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Anticorruzione). Tra le misure volte alla prevenzione del fenomeno corruttivo, tuttavia, la Legge

Severino ha tralasciato qualsiasi incentivo normativo volto alla rottura del patto omertoso tra

corrotto e corruttore. «Non fu semplice miopia»22, ma un vero e proprio scetticismo nei confronti

della causa di non punibilità come mezzo di prevenzione reale alla corruzione, sulla scia delle

perplessità emerse dal dibattito degli anni Novanta.

Successivamente il legislatore con la L. n. 69/2015, contenente “Disposizioni in materia di delitti

contro la pubblica amministrazione, di associazioni di tipo mafioso e di falso in bilancio”, è tornato

nuovamente a rafforzare il sistema repressivo del fenomeno corruttivo. A causa del riproporsi delle

stesse critiche manifestatesi nei confronti della Proposta di Cernobbio e a causa di pareri contrari

alle strategie premiali provenienti dall’ambito internazionale23, il legislatore nel 2015 ha ritenuto più

ragionevole introdurre una mera circostanza attenuante, piuttosto che una causa di non punibilità.

Tale circostanza attenuante è stata inserita al secondo comma dell’art. 323-bis c.p. e prevede la

riduzione della pena da un terzo a due terzi per i responsabili dei reati previsti dagli articoli 318,

319, 319-ter, 319-quater, 320, 321, 322 e 322-bis, che si siano efficacemente adoperati «per evitare

che l’attività delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori, per assicurare le prove dei reati e per

l’individuazione degli altri responsabili ovvero per il sequestro delle somme o altre utilità

trasferite».

La ratio della novella, evidentemente, è la medesima della causa sopravvenuta di non punibilità

proposta dal pool di Milano, ossia di incentivare le denunce e offrire elementi decisivi ai fini delle

indagini per favorire l’emersione degli accordi corruttivi. Tuttavia, essa non cerca di conseguire

questo scopo mediante un approccio radicale, scardinando l’ordinaria sequenza reato-pena. Questo

dato fu probabilmente quello che le consentì di schivare le resistenze che ostacolarono

l’introduzione della causa di non punibilità proposta all’interno del Progetto di Cernobbio.

Al di là della ratio essendi, possiamo riscontrare tra tale causa di non punibilità e la circostanza

attenuante introdotta con la L.190/2015 all’art 323-bis c.p. differenze e similitudini.

La divergenza si riscontra nel fatto che si configura come circostanza attenuante la condotta del reo

volta a circoscrivere il danno e il pericolo, ma non a eliminarlo, mentre la causa di non punibilità

prevede una condotta funzionale alla salvaguardia, seppur tardiva dell’interesse protetto. Perciò

mentre la circostanza attenuante si limita a mitigare la pena imposta dal legislatore, la causa di non

22 V. MONGILLO, Le riforme in materia di contrasto alla corruzione introdotte dalla Legge n. 69 del 2015, in Diritto Penale Contemporaneo, pag.10.23 V. MONGILLO, Le riforme in materia di contrasto alla corruzione introdotte dalla Legge n. 69 del 2015, in Diritto Penale Contemporaneo, pag.11.

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punibilità permette totalmente di escluderla, quando sussistono i requisiti richiesti all’interno della

norma.

I due istituti appaiono invece convergenti poiché entrambi fanno leva sulla volontarietà del

comportamento del reo. Inoltre ambedue richiedono che l’autodenuncia sia efficace, in quanto «è

richiesta la realizzazione di un risultato che torni utile e proficuo agli organi giudiziari, nel

senso che, senza la collaborazione del colpevole, valutando il complesso degli elementi

processuali sussistenti al momento del suo sorgere, non si sarebbe innescato quel processo

conducente alla raccolta delle prove o all'individuazione degli altri responsabili 24».

A breve distanza dall’ultima riforma, il tema della repressione della corruzione è tornato attuale con

il disegno di legge n.1189 “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione e in

materia di trasparenza dei partiti e i movimenti politici”, presentato alla Camera dei Deputati dal

Ministro della Giustizia Bonafede il 24 settembre 2018, e approvato in seguito con la L. n. 3 del

2019. Tra le varie modifiche apportate al codice penale, questa legge ha inserito proprio una nuova

causa speciale di non punibilità in caso di volontaria, tempestiva e fattiva collaborazione,

consacrandola nell’art. 323-ter c.p.

2.2. Il nuovo art. 323-ter c.p.: requisiti e scopi della causa di non punibilità.

L’articolo25 introduce una causa sopravvenuta di non punibilità di natura personale ponendo

condizioni rigorose per la sua applicazione.

Al primo comma si richiede che l’autore del reato si attivi entro limiti temporali strettissimi dalla

commissione di taluno dei fatti previsti dalla norma, infatti il denunciante in primo luogo non deve

aver avuto notizia che nei suoi confronti sono state svolte indagini in relazione ai fatti criminosi

richiamati dalla norma; in secondo luogo non devono comunque essere trascorsi quattro mesi dalla

24 C.BENUSSI, Alcune note sulla nuova attenuante del secondo comma dell’art 323-bis c.p., in Diritto penale contemporaneo, 26 Giungo 2015.25 «Non è punibile chi ha commesso taluno dei fatti previsti dagli articoli 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320, 321, 322-

bis, limitatamente ai delitti di corruzione e di induzione indebita ivi indicati, 353, 353-bis e 354 se, prima di avere

notizia che nei suoi confronti sono svolte indagini in relazione a tali fatti e, comunque, entro quattro mesi dalla

commissione del fatto, lo denuncia volontariamente e fornisce indicazioni utili e concrete per assicurare la prova del

reato e per individuare gli altri responsabili. La non punibilità del denunciante è subordinata alla messa a disposizione

dell’utilità dallo stesso percepita o, in caso di impossibilità, di una somma di denaro di valore equivalente, ovvero

all’indicazione di elementi utili e concreti per individuarne il beneficiario effettivo, entro il medesimo termine di cui al

primo comma. La causa di non punibilità non si applica quando la denuncia di cui al primo comma è preordinata

rispetto alla commissione del reato denunciato. La causa di non punibilità non si applica in favore dell’agente sotto

copertura che ha agito in violazione delle disposizioni dell’articolo 9 della legge 16 marzo 2006 n.146.» 10

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commissione del fatto di reato. Si presuppone dunque che il soggetto si autodenunci senza sapere se

il suo nominativo sia stato o meno iscritto nel registro degli indagati.

Il secondo comma prevede ulteriori presupposti per l’applicazione della causa di non punibilità al

pubblico ufficiale, all’incaricato di pubblico servizio e al privato. Il denunciante deve mettere a

disposizione quanto illecitamente percepito se possibile, altrimenti fornire una somma di denaro

equivalente o indicare elementi utili per individuare il beneficiario effettivo. Si richiede quindi un

comportamento volontario, tempestivo, concretamente antagonista rispetto alla condotta delittuosa

in modo tale da individuare i correi, assicurare la prova del fatto e neutralizzare il profitto illecito.

Di conseguenza si richiede al reo un autentico ravvedimento.

Nell’ultimo comma il legislatore esclude l’applicabilità della causa di esenzione della punibilità

quando la denuncia sia preordinata alla commissione del reato denunciato. La ratio di questo

presidio è evitare eventuali strumentalizzazioni a fini illeciti della causa di non punibilità, ossia

evitare che possa essere utilizzata «per provocare impunemente il delitto di corruzione, al solo

scopo di denunciare un rivale26». Infine si estromette l’applicazione della causa di esclusione della

punibilità nei confronti dell’agente sotto copertura qualora, non si sia limitato a compiere condotte

criminose divenute legittime al solo fine di acquisire elementi di prova, ma abbia posto in essere

condotte istigatorie, assumendo perciò una funzione promotrice. Pertanto è necessario che l’accordo

illecito sia già stato concluso da altri: l’agente sotto copertura quindi non può confondersi con

l’agente provocatore27.

In sintesi, dunque, l’art. 323-ter c.p. è incentrato sulla «regressione dell’offesa28» a determinate

condizioni, affinché la reintegrazione dell’interesse offeso dal reato sia utile e tempestiva e possa

«riconnettersi alla minaccia iniziale, e apparire quindi come osservanza, sia pur tardiva, di quello

stesso precetto che è stato violato»29. Duplice è lo scopo perseguito: sul piano special-preventivo

l’obiettivo è rompere l’omertà e la solidarietà tipiche delle fattispecie bilaterali come quelle

corruttive e consentire l’acquisizione di elementi probatori che in genere difficilmente emergono nel

processo. Sul piano general-preventivo lo scopo è disincentivare le condotte illecite così che gli

attori dello scambio illecito non potranno più fare affidamento certo su un comune interesse a

tacere.

3. Pro e contro della causa di non punibilità: rottura dell’omertà o garanzia di impunità?

26 M. GAMBARDELLA, Il grande assente nella nuova “legge Spazzacorrotti”: il microsistema delle fattispecie di corruzione, in Cassazione Penale, n. 1, 2019, pag. 56.

27 T. PADOVANI, La spazzacorrotti, Riforma delle illusioni e illusioni della riforma, in Archivio Penale 2018, n.3, pag.4.28 Vd Disegno di legge n.1189 del 24 settembre 2018, pag. 21.29 Vd Disegno di legge n.1189 del 24 settembre 2018, pag. 21.

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3.1 Termini di decadenza e opportunità di ricerca probatoria del primo comma dell’art. 323-

ter c.p.

Il primo problema che emerge dalla formulazione dell’art. 323-ter c.p. si riferisce al termine da esso

previsto per l’autodenuncia: prima di avere avuto notizia dello svolgimento delle indagini e

comunque entro quattro mesi dalla commissione del fatto.

La condotta di ravvedimento deve perciò avvenire prima della conoscenza da parte del reo dello

svolgimento delle indagini a suo carico. Ci chiediamo chi mai possa autodenunciarsi non sapendo

se nel frattempo nei suoi confronti siano state svolte indagini in relazione al fatto di reato da lui

commesso. Si chiederebbe quindi un vero e proprio pentimento civile, secondo il quale il reo

dovrebbe non solo porre fine alla condotta illecita, ma anche accusarsi ancor prima che il reato gli

venga contestato. Chi lo farebbe? A testimonianza di ciò l’esperienza di Tangentopoli dimostra che

di regola ha parlato solo chi era già stato arrestato per qualche altro processo o si trovava in custodia

cautelare per altra ragione30, potendo essere così messa in dubbio la spontaneità della dichiarazione

stessa.

Inoltre lo stesso termine di quattro mesi dalla commissione del fatto illecito risulta equivoco, poiché

il reato di corruzione può dislocarsi entro un arco temporale anche piuttosto lungo. Essendo infatti

un reato a consumazione prolungata, è difficile capire a partire da quale momento inizi

effettivamente la commissione del reato.

Infine il primo comma paventa una nuova opportunità in ambito probatorio per il reato di

corruzione. Si prevede infatti che il correo fornisca elementi utili e concreti per individuare gli altri

responsabili e per assicurare la prova del reato. Tale previsione potrebbe essere quindi un mezzo per

venire a conoscenza di elementi utili alle indagini che probabilmente non sarebbe stato possibile

ottenere in altro modo.

3.2 La possibile strumentalizzazione del terzo comma dell’art 323-ter c.p.

La prima parte del terzo comma dell’art. 323-ter c.p. dispone che la causa di non punibilità venga

riconosciuta quando la denuncia, di cui al primo comma, non sia preordinata rispetto alla

commissione del reato denunciato. Tale presidio potrebbe però risultare insufficiente a li

mitare la commissione del reato di corruzione. Infatti con l’introduzione di questo articolo, il reo

potrebbe essere spinto a commettere comunque il fatto di reato sapendo che, rispettando i limiti

temporali, potrebbe godere della causa di non punibilità. Questa finirebbe così per rappresentare

30 C. F. GROSSO, L’iniziativa di Pietro su Tangentopoli, in Cassazione Penale, Riv. mens. di giur., Agosto-Settembre, 1994, pag. 2346.

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una vera e propria garanzia di impunità per il reo, il quale potrebbe preordinare la denuncia

strumentalizzando la causa di non punibilità.

Nella seconda parte del terzo comma invece si prevede che la causa di non punibilità non si

applichi in favore dell’agente sotto copertura che agisce in violazione dell’art. 9 comma 1 lett. a)

della legge 16 marzo 2006, n. 146. Quest’ultimo prevede la non punibilità degli agenti sotto

copertura che «[…]nei limiti delle proprie competenze, i quali, nel corso di specifiche operazioni

di polizia e, comunque, al solo fine di acquisire elementi di prova […] danno rifugio o comunque

prestano assistenza agli associati, acquistano, ricevono, sostituiscono od occultano denaro, armi,

documenti, stupefacenti, beni ovvero cose che sono oggetto, prodotto, profitto o mezzo per

commettere il reato o altrimenti ostacolano l'individuazione della loro provenienza o ne

consentono l'impiego». Di conseguenza l’art. 323-ter c.p. non si applica all’agente sotto copertura

che abbia assunto il ruolo di promotore e abbia posto in essere condotte istigatorie, non limitandosi

a quanto previsto dall’art. 9 comma 1 lett. a) della legge 16 marzo 2006, n. 146. La condotta

dell’agente provocatore consiste infatti nell’indurre e promuovere il fatto penalmente illecito che

altrimenti non si sarebbe verificato senza il suo intervento. Ma ancora una volta, pur

introducendo la previsione del terzo comma, il rischio di possibili abusi non sembra scongiurato,

poiché risulterà difficile tracciare una linea di demarcazione tra agente provocatore e agente che

opera in esecuzione di un accordo illecito già concluso da altri, secondo l’art. 9 comma 1 lett. a)

della L. n. 146/2006.

3.3 Il possibile utilizzo come arma di ricatto nel rapporto tra corrotto e corruttore o rottura

della solidarietà del pactum sceleris.

A questo punto della trattazione, ci soffermiamo sul duplice effetto che l’art. 323-ter c.p. produce

nel rapporto tra corrotto e corruttore.

La forza del pactum sceleris è la solidarietà tra i due: nessuno dei due ha interesse a far sì che il

reato venga scoperto.

Quindi il primo obiettivo che si pone il legislatore con l’art. 323-ter c.p. è rompere la solidarietà tra

corrotto e corruttore. Infatti con l’esenzione della pena per chi denunci il fatto, nessuna delle parti

dello scambio corruttivo potrà più fare affidamento su un comune interesse a tacere. Stringere il

pactum sceleris diventa incerto e rischioso, poiché entro i quattro mesi dalla commissione del reato

ciascuna delle due parti potrebbe unilateralmente “recedere” dal patto, denunciando.

Di conseguenza piuttosto che rompere l’omertà, la causa di non punibilità potrebbe concretizzarsi in

un rafforzamento del rapporto tra corrotto e corruttore, costituendo un’arma di ricatto a disposizione

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delle parti. Così facendo una delle parti potrebbe esercitare pressioni nei confronti dell’altra

affinchè quest’ultima ceda ad ulteriori concessioni al fine di realizzare atti pubblici dietro il

pagamento di tangenti.

3.4 Il rapporto con i principi di garanzia del diritto penale.

Avendo considerato l’art. 323-ter c.p. come nuova opportunità in ambito probatorio, poniamo

l’attenzione sulle perplessità che esso fa sorgere in relazione al diritto di difesa. Infatti se da un lato

l’autodenuncia del correo permette l’acquisizione di indicazioni utili e concrete per assicurare la

prova del reato e per individuare gli altri responsabili, dall’altro potrebbe provocare un

«deprezzamento del diritto di difesa31». Poiché infatti il nuovo articolo fa leva sull’autodenuncia,

alle informazioni con essa fornite viene attribuito un alto valore probatorio. Quindi la sola

“confessione” del denunciante potrebbe arrivare ad assumere il valore di piena prova, con la

conseguente lesione del diritto di difesa del correo.

Un ulteriore principio che potrebbe essere leso dalla nuova causa di non punibilità è quello di

precisione, il quale obbliga il legislatore a formulare norme chiare e precise32. Questo si riferisce

alla struttura della fattispecie e richiede al legislatore, nella redazione della stessa, una chiarezza tale

da ridurre la discrezionalità del giudice. L’art 323-ter c.p. sembrerebbe così ledere il principio di

precisione. Il legislatore, pur fissando il termine di quattro mesi dalla commissione del fatto illecito

per l’autodenuncia, non precisa il momento a partire dal quale la realizzazione del reato si considera

compiuta. Infatti il reato di corruzione essendo a consumazione prolungata richiederebbe una

formulazione più precisa rispetto al momento a partire dal quale la condotta possa considerarsi

reato. Di conseguenza, a causa della scarsa precisione del testo dell’articolo, il legislatore

sembrerebbe lasciare eccessivo margine di discrezionalità al giudice.

Il terzo principio che sembrerebbe violato è quello dell’obbligatorietà dell’azione penale, sancito

dall’art. 112 Cost., il quale dispone che il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione

penale. Il problema che la causa di non punibilità per la corruzione avrebbe potuto ledere tale

principio si era già prospettato nelle critiche alla Proposta di Cernobbio. Nonostante le perplessità,

l’obbligatorietà dell’azione penale non sembra essere in gioco. La stessa Corte Costituzionale, con

la sentenza n. 148 del 1983, ha affermato che questo principio relativo al processo penale non è

pertinente alla problematica delle cause di non punibilità dell’azione penale. Infatti le cause di non

punibilità sono istituti di diritto penale sostanziale, le quali vengono utilizzate in sede processuale

31 C. F. GROSSO, L’iniziativa di Pietro su Tangentopoli, in Cassazione Penale, Riv. mens. di giur., Agosto-Settembre, 1994, pag. 2345.32 G. MARINUCCI E. DOLCINI, Manuale di diritto penale, Parte Generale, quinta edizione, pag. 67.

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come tutti gli altri istituti sostanziali dei quali il giudice fa applicazione nel pronunciare la

sentenza33.

Più in generale alcuni34 hanno sostenuto che la causa di non punibilità introdotta potesse condurre

alla rinuncia della finalità rieducativa della pena, sancita all’art. 27 comma 3 Cost. La finalità

rieducativa del nostro ordinamento impone al giudice di scegliere la pena più idonea a prevenire il

rischio che il reo delinqua nuovamente, intimidendolo o promuovendone il reinserimento nella

società35. In realtà la critica sembra essere pretestuosa perché la funzione dell’art. 323-ter c.p. è

proprio quella di limitare l’intervento penale opponendosi a pene che siano incompatibili con la

finalità rieducativa36.

4.Conclusioni: una scelta imprecisa ma consapevole.

L’introduzione della causa di non punibilità dell’art.323-ter c.p. rappresenta l’ennesimo tentativo

compiuto dal legislatore di fornire una risposta adeguata a contrastare il fenomeno corruttivo.

A nostro parere, come precedentemente evidenziato, la formulazione della norma risulta essere

imprecisa. Riscontriamo questa imprecisione soprattutto nel primo comma dell’art 323-ter c.p. Il

legislatore infatti sembrerebbe lasciare eccessiva discrezionalità al giudice, il quale dovrà

valutare il momento a partire dal quale la condotta rappresenti una violazione di una norma

incriminatrice posta a tutela della pubblica amministrazione.

Nonostante ciò, l’introduzione dell’art. 323-ter c.p. è stata probabilmente la soluzione premiale più

efficace scelta dal legislatore per arginare la corruzione. La circostanza attenuante precedentemente

introdotta, infatti, pur condividendo la medesima ratio della causa di non punibilità, risulta essere

meno incisiva della seconda, e pertanto meno appetibile.

Il legislatore quindi con l’art 323-ter c.p. sembra aver compiuto notevoli passi avanti nell’apprestare

un nuovo strumento per la lotta alla corruzione, intraprendendo con l’introduzione di questo una

strada diversa ma già utilizzata in ambito penale ad esempio per combattere il fenomeno del

terrorismo. Pertanto è per noi condivisibile l’obiettivo general-preventivo attribuito all’art. 323-

ter c.p., ovvero disincentivare la corruzione, ma è ancor più ammirevole la scelta del legislatore

relativa al mezzo con il quale raggiungere tale scopo. Egli ha infatti cercato di arginare il

fenomeno corruttivo tramite la previsione di una misura premiale e non per mezzo di un

33 D. PULITANO’, La Giustizia penale alla prova del fuoco, in Riv. it. dir, e proc., fasc.1, 1997, pag. 21.34 G. PECORELLA, Presidente delle Camere Penali, nell’intervista sul Corriere della sera del 14 settembre 1994. 35 G. MARINUCCI E. DOLCINI, Manuale di diritto penale, Parte Generale, quinta edizione, pag. 15.36 D. PULITANO’, La Giustizia penale alla prova del fuoco, in Riv. it. dir, e proc., fasc.1, 1997, pag. 21.

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inasprimento della pena, strumento solitamente utilizzato. Probabilmente il legislatore ha

consapevolmente ritenuto inadatto dilatare la cornice edittale prevista per alcuni dei reati a tutela

della pubblica amministrazione, preferendo l’introduzione della causa di non punibilità.

Concludendo, il punto di maggior forza dell’art. 323-ter c.p. ci sembra essere la messa a

disposizione dell’utilità percepita o, in caso di impossibilità, di una somma di denaro avente valore

equivalente o di elementi utili e concreti per individuare il beneficiario effettivo, di cui al secondo

comma. È questo il giusto prezzo che il reo deve pagare per godere della causa di non punibilità, in

quanto idoneo a bilanciare il conferimento della misura premiale. Se ciò non fosse stato previsto

dalla norma infatti il reo avrebbe goduto di due vantaggi: la non punibilità e la ritenzione della

somma derivante dall’atto illecito.

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G. PECORELLA, Presidente delle Camere Penali, nell’intervista sul Corriere della sera del 14

settembre 1994.

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