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DIPARTIMENTO DI STUDI LINGUISTICO-LETTERALI, STORICO-FILOSOFICI E GIURIDICI Relazione per il Corso di Diritto Penale progredito nel Corso di Laurea in Giurisprudenza, LMG-01 A.A. 2019/2020 LA CRIMINALIZZAZIONE DELL’HATE SPEECH IN ITALIA Riccardo Celletti e Marco Fornara Relatore: Dott.ssa Martina Galli 1

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DIPARTIMENTO DI STUDI LINGUISTICO-LETTERALI, STORICO-FILOSOFICI E GIURIDICI

Relazione per il Corso di Diritto Penale progreditonel Corso di Laurea in Giurisprudenza, LMG-01

A.A. 2019/2020

LA CRIMINALIZZAZIONE DELL’HATE SPEECH

IN ITALIA

Riccardo Celletti e Marco Fornara

Relatore: Dott.ssa Martina Galli

1

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Indice

0. Piano dell’analisi.............................................................................................................................31. Hate speech: una nozione giuridicamente controversa...............................................................3

1.1 Evoluzione storica del concetto di “odio discriminatorio”........................................................3

1.2. Il “discorso” d’odio c.d. non-targeted e il problema della sua criminalizzazione....................5

2. L’evoluzione normativa dal dopoguerra ad oggi.........................................................................82.1. L’incriminazione delle manifestazioni fasciste e di apologia del fascismo nella legge Scelba e

nella giurisprudenza Costituzionale.................................................................................................8

2.2 La Convenzione di New York e l’obbligo per gli Stati di prevedere un intervento penale

contro la discriminazione razziale....................................................................................................9

2.3 Dalla legge n. 654 del 1975 alla legge n. 85 del 2006: definizione progressiva dei reati d’odio

........................................................................................................................................................10

3. Analisi dei reati di «propaganda razzista» e «istigazione a commettere atti di discriminazione» di cui all’art. 604-bis lett. a) c.p.........................................................................12

3.1. Il bene giuridico tutelato..........................................................................................................12

3.2. I profili oggettivi e soggettivi dei reati....................................................................................14

4. Il c.d. processo di Verona.............................................................................................................164.1. Analisi del caso.......................................................................................................................16

4.2. La criminalizzazione dell’hate speech tra tutela della dignità umana e garanzia della libertà

di espressione.................................................................................................................................18

4.3. Una direzione ostinata e contraria: le tesi costituzionaliste....................................................21

5. Riflessioni finali............................................................................................................................24BIBLIOGRAFIA..............................................................................................................................25

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0. Piano dell’analisi

Questo lavoro prenderà in analisi la criminalizzazione dell’hate speech in Italia. Dopo aver

inquadrato il fenomeno dal punto di vista storico, concentreremo l’indagine sull’evoluzione

normativa in materia. Successivamente, sposteremo il nostro sguardo sull’analisi del reato di

propaganda razzista e istigazione a commettere atti di discriminazione di cui all’art. 604-bis lett. a)

c.p., ripercorrendo una vicenda chiave per la formazione dalla disciplina vigente, ossia il c.d.

processo di Verona. Concluderemo la trattazione soffermandoci non solo sul bilanciamento tra

libertà di espressione e tutela della dignità umana, ma anche sulle discordanti tesi al riguardo,

proponendo una soluzione alternativa.

1. Hate speech: una nozione giuridicamente controversa

Benché tutt’oggi non esista una definizione univoca di discorso d’odio, quella maggiormente

seguita in dottrina e giurisprudenza si rinviene all’interno della Raccomandazione n. 20 del 1997

del Consiglio d’Europa, secondo cui il concetto di hate speech rimanderebbe a «qualsiasi forma di

espressione – verbale, gestuale o figurativa – diretta a diffondere, incitare, promuovere o

giustificare l’odio basato sull’intolleranza»1. Un altro tentativo di definizione si rintraccia in una

bozza di aggiornamento dell’Oxford English Dictionary del dicembre 2002, secondo cui l’hate

speech sarebbe un «discorso che esprime odio o intolleranza di altri gruppi sociali, soprattutto sulla

base della razza o della sessualità»2.

1.1 Evoluzione storica del concetto di “odio discriminatorio”

Non è stato semplice arrivare a una definizione di hate speech, non solo per l’enorme difficoltà

nell’inquadramento del fenomeno in termini giuridici, ma anche per l’evoluzione che il concetto

stesso di odio ha subito nel corso degli anni. Iniziando da un’analisi letterale, “odio” significa

«espressione di estremo dispiacere e avversione. Detestare, suscitare orrore, provare astio»3.

Tuttavia, il concetto di odio che a noi interessa è quello che lo vede legato alla discriminazione. Il

percorso evolutivo che andremo a prendere in esame ha origine nel XIX secolo. In seguito alla

pubblicazione de «L’origine delle specie per selezione naturale» del 1859 da parte dello studioso

1 Consiglio d'Europa, Raccomandazione di Budapest 30 ottobre 1997, n. 20. Cfr. R.C. POST, La disciplina dell’hate speech tra considerazioni giuridiche e sociologiche, in D. Tega (a cura di), Le discriminazioni razziali ed etniche. Profili giuridici di tutela, UNAR, 2011, p. 97. L’A. sottolinea come non ci sia una definizione univoca di hate speech, aggiungendo che vietare espressioni d’odio significa vietare espressioni di intolleranza estrema e di estrema avversione.2 Oxford English Dictionary, «Hate speech may be defined as speech expressing hatred or intolerance of other social groups, especially on the basis of race or sexuality».3 Oxford English Dictionary, «emotion of extreme dislike or aversion; detestation, abhorrence, hatred».

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Charles Robert Darwin, si instaurò una filosofia basata su una naturale posizione di superiorità di

una razza rispetto all’altra, che prende il nome di positivismo darwiniano. Secondo tale corrente non

solo l’essere umano si pone verso l’esterno al di sopra di qualsiasi altro animale, ma anche

internamente esistono delle gerarchie tra gli uomini: nella lotta alla sopravvivenza vige la selezione

naturale del più adatto, di colui, cioè, che è riuscito ad imporsi sugli altri grazie a determinate

qualità, come quelle che hanno portato la razza bianca a porsi al vertice, a discapito delle altre.

Durante il XX secolo, caratterizzato dai totalitarismi, questa visione ha preso il sopravvento ed è

stata la grande giustificazione per la commissione di terribili genocidi e per il diffondersi delle

politiche razziste. Nel secondo dopoguerra, in reazione agli orrori provocati dal diffondersi di

visioni fondate sulla superiorità razziale, sia a livello europeo che internazionale si assiste alla

promozione dei valori dell’uguaglianza e della pace tra le culture, accompagnata da una messa al

bando di ogni forma di razzismo, nonché dei partiti politici d’ispirazione fascista e nazista4. Il

messaggio è chiaro: ciò che è accaduto è qualcosa di deplorevole e si deve fare tutto ciò che è in

potere della comunità internazionale per evitare il ripresentarsi di fenomeni analoghi, in particolare

mediante interventi penali da parte degli Stati a tutela del diritto di ognuno alla propria identità. Il

concetto di odio discriminatorio viene peraltro non più inteso solo in riferimento alla razza, ma

anche all’etnia, alla nazione ed alla religione. La nostra Costituzione accoglie questo concetto, in

particolare all’interno degli artt. 2 e 35.

Dobbiamo peraltro sottolineare come sia ormai lontano (ed in parte superato) quel concetto di odio

“razziale” che il legislatore italiano si trovò a fronteggiare nell’immediato secondo dopoguerra. Si è

infatti passati da un odio prettamente razziale ad uno ben diverso, più sfumato, meno palese, e

quindi più facilmente suscettibile di ricevere consenso. Come evidenziato dal sociologo francese

Michel Wieviorka, il nuovo razzismo, o neorazzismo, «non si basa più sulla presunta disuguaglianza

biologica, bensì su formulazioni simboliche» che tendono a sfuggire sia alle definizioni normative e

ai relativi meccanismi sanzionatori, sia alla percezione collettiva e, quindi, alle reazioni di

stigmatizzazione sociale6. In particolare, mentre si tende a riconoscere e accettare l’esistenza di

uomini differenti, culture differenti, razze, nazioni, etnie e religioni differenti, si parte da questo

4 V. Cost., XII disp. trans. e fin. «È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista. In deroga all’art. 48, sono stabilite con leggi, per non oltre un quinquennio dall’entrata in vigore della Costituzione, limitazioni temporanee al diritto di voto e alla eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista».5 V. Cost., art. 2 «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» e art. 3 «Tutti i cittadini hanno pari dignità e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».6 Sul pensiero del sociologo Michel Wieviorka si veda L. PICOTTI, Istigazione e propaganda della discriminazione razziale fra offesa dei diritti fondamentali della persona e libertà di manifestazione del pensiero, in S. Riondato (a cura di), Discriminazione razziale, xenofobia, odio religioso. Diritti fondamentali e tutela penale, Cedam, 2006, p. 121.

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riconoscimento per introdurre una differenza nella differenza, anomala rispetto alla propria, che

consente di rimproverare agli altri diversi non tanto di essere tali (questo sarebbe razzismo puro),

bensì di esserlo in modo anomalo, sulla base di valutazioni negative fondate sulla morale, l’etica, la

civiltà del gruppo cui appartiene chi si giudica superiore. Ad esempio, «non si stigmatizza lo

zingaro per essere zingaro, ma perché egli vive come uno zingaro, dunque come si ritiene che

vivano tutti gli zingari, prediligendo il nomadismo, l’accattonaggio, la nullafacenza, la ruberia»7.

Caratteristica del neorazzismo è di riconoscere che gli uomini siano astrattamente uguali eppure di

ritenere che siano concretamente diversi, ancora divisi tra superiori (coloro che rientrano nel gruppo

di appartenenza) e inferiori (gli altri che ne sono esclusi). Cosicché, pur vigendo un generale

rispetto dei principi antirazzisti, questo sarebbe solo apparente. Giustamente la giurisprudenza ha

perciò sottolineato che l’antirazzismo, conquistato sul piano formale, resta per molti versi un

traguardo ancora da raggiungere8.

1.2. Il “discorso” d’odio c.d. non-targeted e il problema della sua criminalizzazione

In dottrina è stata tracciata una distinzione tra due tipologie di “discorso d’odio”: targeted e non

targeted hate speech. I discorsi del primo tipo hanno come bersaglio uno o più soggetti determinati:

l’offesa è in questi casi ben tangibile, colpendo i beni dell’onore e della reputazione delle persone

interessate dalla manifestazione caratterizzata da contenuti discriminatori. In questi casi non

emergono particolari problemi rispetto alla predisposizione di una reazione penale, in particolare

mediante il reato di diffamazione ex art. 595 c.p., che – in ragione del contenuto discriminatorio

dell’offesa – potrà eventualmente essere accompagnato dall’aggravante dell’odio razziale oggi

prevista all’art. 604-ter c.p.9. Un esempio in tal senso è il caso Calderoli-Kyenge10. Nei discorsi

d’odio non-targeted il bersaglio è invece un’intera collettività di soggetti, che viene presa di mira in

ragione di vere o supposte caratteristiche di gruppo. A differenza dei discorsi d’odio targeted il

7 Così la sentenza del Trib. Di Verona, 2 dicembre 2004, n. 2203.8 «L’eguaglianza non ci è data, ma è il risultato dell’organizzazione umana nella misura in cui si fa guidare dal principio di giustizia. Non si nasce uguali; si diventa uguali come membri di un gruppo in virtù della decisione di garantirsi reciprocamente i diritti»: così la sentenza del Trib. di Verona, 2 dicembre 2004, n. 2203.9 V. art. 604-ter c.p. «Per i reati punibili con pena diversa da quella dell'ergastolo commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, ovvero al fine di agevolare l'attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità la pena è aumentata fino alla metà. Le circostanze attenuanti, diverse da quella prevista dall'articolo 98, concorrenti con l'aggravante di cui al primo comma, non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a questa e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall'aumento conseguente alla predetta aggravante».10 Il caso in questione riguarda l’esponente della Lega Roberto Calderoli e l’ex ministro del Governo Letta Cecile Kyenge. Il 13 luglio del 2013, in occasione della festa del Carroccio di Treviglio, l’allora Senatore aveva dichiarato: «Amo gli animali, orsi e lupi, com’è noto. Ma quando vedo le immagini della Kyenge non posso non pensare, anche se non dico che lo sia, alle sembianze di un orango». Inizialmente il Senato aveva deliberato l’insindacabilità di cui all’art. 68, co. 1 Cost., ma la C. Cost. ha annullato la delibera, sottolineando l’assenza di qualsivoglia nesso tra le affermazioni del Senatore e l’esercizio delle funzioni parlamentari. Il 14 gennaio del 2019 il Tribunale di Bergamo ha condannato in primo grado Calderoli a 18 mesi per diffamazione con l’aggravante dell’odio razziale.

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contenuto offensivo tende dunque a essere più sfumato e generico, non avendo a oggetto i beni

personali di soggetti determinati e, più in generale, risultando difficile individuare il referente

oggettivo della lesione11.

Quando si affronta il problema della criminalizzazione dei discorsi d’odio, ci si rivolge

essenzialmente ai discorsi non-targeted, nella prospettiva di analizzare le tensioni che questa tende

a creare, da un lato, con il principio di libertà di espressione (il quale prevede che «tutti hanno

diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di

diffusione», art. 21 Cost.)12 e, dall’altro, con il principio penalistico di offensività13.

Bisogna peraltro subito evidenziare come il livello di tensione rispetto ai principi sopra evocati si

riduca notevolmente quando il discorso d’odio abbia un contenuto esecutivo (ossia direttamente

corrispondente alla commissione di atti di discriminazione o di violenza)14 o anche istigatorio, ciò

che accade quando esso non si limiti alla manifestazione di un contenuto di pensiero ma si traduca

in una sollecitazione alla violenza o alla discriminazione, suscettibile di essere accolta dal pubblico

dei destinatari. In questo caso, la punizione del discorso d’odio si giustifica più facilmente in

ragione delle sue immediate ricadute “fattuali”, ossia in base alla concreta probabilità che una

determinata espressione d’odio si traduca in azioni violente o almeno in atti di discriminazione.

A questo proposito, conviene introdurre anche un’altra nozione. Il discorso d’odio penalmente

rilevante (talvolta definiti come hate speech crime)15 appare infatti come una categoria di confine

dei c.d. hate crime, in italiano reati d’odio. Alla categoria dei reati d’odio tende infatti a essere

riportato «ogni tipo di comportamento previsto come reato dalla legge e al contempo motivato da

un pregiudizio a base discriminatoria»16. La categoria degli hate crime è dunque molto ampia,

accogliendo al suo interno diverse manifestazioni criminose (tra cui anche i c.d. hate speech crime).

Tuttavia, non vi è dubbio che al suo centro trovi quei reati di natura violenta che, a partire da

motivazioni d’odio, vedono come vittime soggetti discriminati. Tristemente noto è il caso Traini,

11 Cfr. G. PUGLISI, La parola acuminata. Contributo allo studio dei delitti contro l’eguaglianza, tra aporie strutturali e alternative alla pena detentiva, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., fasc. 3, 1° settembre 2018, pag. 1325.12 Di fatti, dopo l’emanazione della l. 654/1975, larga parte degli studiosi affermava l’illegittimità costituzionale dei delitti di propaganda e istigazione razziale; attualmente, questa visione “liberale” è ormai condivisa solo da una dottrina minoritaria, mentre sia la giurisprudenza sia la dottrina maggioritaria concordano sul fatto che queste norme non violino l’art. 21 della Costituzione, ma lo circoscrivano.13 V. G. MARINUCCI, E. DOLCINI, Manuale di diritto penale. Parte generale, Giuffrè, sesta edizione, Milano, 2017, p. 10 «Secondo il principio di offensività non vi può essere reato senza offesa a un bene giuridico, cioè a una situazione di fatto o giuridica, carica di valore, modificabile e quindi offendibile per effetto di un comportamento dell’uomo».14A. SPENA, La parola(-)odio. Sovraesposizione, criminalizzazione e interpretazione dello hate speech, in Criminalia, Ets, 2016, p. 593. «Bisogna, tuttavia, considerare che gli atti di discriminazione e la violenza motivati dall’odio possiedono anch’essi una dimensione comunicativa, che li rende assimilabili alla parola; e che è proprio in virtù di questa dimensione che essi assumono rilievo all’interno dell’art. 3, l. 654/1975».15 V. M. GALLI, Soltanto parole? Discorso d’odio e intervento penale, in R. Petrilli (a cura di), Hate speech. L’odio nel discorso pubblico. Politica, media, società, Roma, 2020, p. 23.16 Definizione elaborata dall’Osce in occasione del Consiglio dei ministri europei tenutosi a Maastricht nel 2003.

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avvenuto a Macerata nel 201817. Una delle motivazioni a sostegno della criminalizzazione dei

discorsi d’odio è proprio il loro collegamento con i fenomeni d’odio più gravi: in questa prospettiva,

punire i discorsi d’odio significherebbe porre un argine preventivo al dilagare di azioni violente.

Infine, sorge spontaneo un confronto con i c.d. reati di opinione, in quanto anche questi prevedono

la criminalizzazione della manifestazione di un pensiero e, quindi, si pongono in naturale tensione

con l’art. 21 della Costituzione. Tuttavia, non sembra opportuno ricondurre la categoria degli hate

speech a queste ipotesi di reato, poiché sussiste almeno una differenza: mentre storicamente i reati

di opinione (es. «attività antinazionale del cittadino all’estero» ex art. 269 c.p.; «delitti contro i culti

ammessi dallo Stato» ex art. 406 c.p., «vilipendio alla nazione italiana» ex art. 291 c.p., «offese a

una confessione religiosa mediante vilipendio di persone» ex art. 403 c.p. …) si rivolgono contro il

potere costituito (in particolare lo Stato) mettendolo in discussione, i “discorsi d’odio” tendono a

colpire soggetti già di per sé deboli (ad esempio gli immigrati). In base a questo si è detto che,

mentre i comportamenti qualificati come reati opinione «possiedono una dimensione sovra-

individuale, una “funzione sociale”», dal momento che consistono «in forme di critica del potere,

come tale finanche necessarie a garantire una declinazione democratica dei rapporti fra individuo e

autorità», i discorsi d’odio sarebbero invece del tutto privi di questa “funzione sociale”18. Questo va

a incidere sul peso da attribuire alla libertà di espressione, che assume più forza quando, come nei

reati di opinione, il suo esercizio risulti utile per supportare il soddisfacimento di esigenze

comunque socialmente apprezzabili, caratteristica totalmente mancante negli hate speech19. Proprio

questo fa sì che essi si pongano in una dimensione periferica rispetto all’ambito di operatività

dell’art. 21 Cost., il quale più difficilmente riesce a essere usato come argomento contrario alla loro

criminalizzazione.

17 Il 3 febbraio 2018, a Macerata, furono esplosi alcuni colpi di pistola nel centro cittadino da una vettura in movimento, ferendo diverse persone. Nella sparatoria, rimasero ferite sei persone, tutti immigrati di origine sub-sahariana dai 20 ai 32 anni. Per l'attacco fu fermato un uomo di 28 anni, Luca Traini. il quale, secondo la ricostruzione, sarebbe partito da Tolentino, per poi scendere dall'auto con il tricolore legato al collo, avrebbe fatto il saluto romano e gridato «Viva l'Italia» davanti al monumento ai Caduti, prima di arrendersi alle Forze dell'Ordine. Nella sua casa furono rinvenuti elementi riconducibili all'estrema destra, tra cui una copia del Mein Kampf. La sparatoria, che si appurò essere stata indirizzata appositamente verso gli immigrati, fu ricondotta a una matrice razzista. La Procura della Repubblica di Macerata formulò nei suoi confronti l'accusa di strage aggravata dalla finalità di razzismo. Il 3 ottobre 2018 fu condannato a 12 anni di carcere con rito abbreviato. Il 2 ottobre 2019 la corte d'assise d'appello di Ancona ha confermato la condanna di 12 anni.18 A. SPENA, op.cit., p. 606. 19 Ivi, p. 604. L’A. sottolinea come il peso da attribuire all’art. 21 Cost. assuma più forza anche nel diritto di cronaca quale causa di liceità rispetto a condotte diffamatorie, in quanto all’interesse individuale del soggetto la cui reputazione è lesa si contrappone l’interesse di un’intera collettività a conoscere la notizia. Questo attribuisce al diritto di cronaca una funzione civile e politica.

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2. L’evoluzione normativa dal dopoguerra ad oggi

2.1. L’incriminazione delle manifestazioni fasciste e di apologia del fascismo nella legge Scelba

e nella giurisprudenza Costituzionale

La legislazione italiana in materia anti-odio nasce in reazione al Ventennio e agli orrori dei regimi

totalitari. Infatti, dopo la fine della guerra e l’emanazione della Costituzione del 1948, era ancora

ben vivido il ricordo del fascismo, ragion per cui si è sentito il bisogno di porre subito dei limiti

contenutistici alla conquista più grande del secondo dopoguerra, ossia la libertà di manifestazione

del pensiero sancita dall’ art. 21 della Carta costituzionale. La prima norma in materia, infatti, si

rinviene direttamente nella XII Disp. trans. e fin. della Costituzione, la quale vieta la

riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista20. Per dare attuazione alla

Disposizione citata, fu emanata la l. 20 giugno 1952, n. 645, comunemente nota come “legge

Scelba” dal nome dell’allora Ministro dell’Interno. L’art. 1 della suddetta legge ha appunto vietato

la ricostruzione del partito, inteso come gruppo che persegue finalità antidemocratiche proprie

dell’ideologia fascista21, prevedendo quali condotte materiali idonee alla realizzazione l’esaltazione,

la minaccia o la violenza quale metodo di lotta politica, la soppressione delle libertà garantite dalla

Costituzione, la denigrazione della democrazia o la propaganda razzista. Il legislatore del 1952

aveva dunque sì previsto la propaganda razzista, ma la tutela offerta era ancora molto lontana da

quella fornita nel decennio successivo (v. par. 2.2), in quanto ad essere punito era comunque un

odio razziale di appartenenza politica, e non tanto quella generica discriminazione razziale su cui il

fascismo fonda le proprie radici. Oltre al divieto di ricostituzione del partito fascista, la l. Scelba

prevedeva anche il reato di «apologia del fascismo» (art. 4)22, che punisce la propaganda per la

costituzione di un movimento di ispirazione fascista oppure l’esaltazione pubblica di esponenti,

principi, fatti o metodi fascisti, e quello di «manifestazioni fasciste» (art. 5)23, che punisce chi

compie, in pubbliche riunioni, manifestazioni riconducibili al disciolto partito. L’incriminazione dei

delitti previsti dalla l. Scelba è stata ampiamente trattata dalla giurisprudenza della Corte

20 V. nota 421 La pena prevista era «da tre a dieci anni» per i promotori, organizzatori e dirigenti, «fino a due anni» per i partecipanti.22 L. 20 giugno 1952, n. 645, art. 4 «Chiunque fa propaganda per la costituzione di una associazione, di un movimento o di un gruppo avente le caratteristiche e perseguente le finalità indicate nell'articolo 1 è punto con la reclusione da sei mesi a due anni e con la multa da lire 400.000 a lire 1.000.000. Alla stessa pena di cui al primo comma soggiace chi pubblicamente esalta esponenti, princìpi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche. Se il fatto riguarda idee o metodi razzisti, la pena è della reclusione da uno a tre anni e della multa da uno a due milioni. La pena è della reclusione da due a cinque anni e della multa da 1.000.000 a 4.000.000 di lire se alcuno dei fatti previsti nei commi precedenti è commesso con il mezzo della stampa. La condanna comporta la privazione dei diritti previsti nell'articolo 28, comma secondo, numeri 1 e 2, del c.p., per un periodo di cinque anni». 23 Ivi, art. 5 «Chiunque, partecipando a pubbliche riunioni, compie manifestazioni usuali del disciolto partito fascista ovvero di organizzazioni naziste è punito con la pena della reclusione sino a tre anni e con la multa da 400.000 a 1.000.000 di lire. Il giudice, nel pronunciare la condanna, può disporre la privazione dei diritti previsti nell'articolo 28, comma secondo, numeri 1 e 2, del Codice penale per un periodo di cinque anni».

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costituzionale, la quale ha voluto trovare un più accorto bilanciamento con la libertà d’espressione,

fin troppo limitata nell’ipotesi originariamente prevista. La sentenza che si è occupata

maggiormente di questo problema è stata la n. 74 del 1958, in cui la Consulta ha affermato che, per

ricondurre una condotta alle fattispecie citate, non basta la semplice manifestazione di un pensiero

ispirato all’ideologia fascista, dovendosi in essa estrinsecare un reale e concreto pericolo di

ricostituzione del partito. Inoltre, la Corte ha ritenuto necessario sottoporre la condotta incriminata a

un giudizio di idoneità, sottolineando che, affinché il fatto possa dirsi punibile, debba trovare «nel

momento e nell’ambiente in cui è compiuto circostanze tali da renderlo idoneo a provocare

adesioni e consensi ed a concorrere alla diffusione di concezioni favorevoli alla ricostituzione di

organizzazioni fasciste»24. Ad essere incriminati, dunque, non sono né l’ideologia fascista in sé né

l’espressione d’odio riconducibile a tale ideologia, bensì solo quei comportamenti idonei a

ricostituire il partito che diede vita alla dittatura.

2.2 La Convenzione di New York e l’obbligo per gli Stati di prevedere un intervento penale

contro la discriminazione razziale

Dopo la legge Scelba, il primo intervento legislativo recante disposizioni in materia fu la l. n. 654

del 1975, di ratifica della «Convenzione sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione

razziale», firmata il 7 marzo del 1966 a New York. La Convenzione apriva il suo testo all’articolo 1,

enunciando che «nella presente Convenzione, l’espressione “discriminazione razziale” sta ad

indicare ogni distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore,

l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di

compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti

dell’uomo e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale o in ogni

altro settore della vita pubblica». L’art. 2 poneva in capo ai soggetti firmatari l’obbligo di porre in

essere una lunga serie di politiche, norma dopo norma elencate, volte a dissuadere la

discriminazione razziale25, inoltre prevedendo, all’art. 4, uno specifico obbligo di incriminazione. In 24 «La denominazione di “manifestazioni fasciste” adottata dalla legge del 1952 e l’uso dell’avverbio “pubblicamente” fanno chiaramente intendere che, seppure il fatto può essere commesso da una sola persona, esso deve trovare nel momento e nell'ambiente in cui è compiuto circostanze tali, da renderlo idoneo a provocare adesioni e consensi ed a concorrere alla diffusione di concezioni favorevoli alla ricostituzione di organizzazioni fasciste» così la sentenza della C. Cost., 25 novembre 1958, n. 74.25 Conv. Di New York, art. 2.1 «Gli Stati contraenti condannano la discriminazione razziale e si impegnano a continuare, con tutti i mezzi adeguati e senza indugio, una politica tendente ad eliminare ogni forma di discriminazione razziale ed a favorire l’intesa tra tutte le razze, e, a tale scopo: a) ogni Stato contraente si impegna a non porre in opera atti o pratiche di discriminazione razziale verso individui, gruppi di individui od istituzioni ed a fare in modo che tutte le pubbliche attività e le pubbliche istituzioni, nazionali e locali, si uniformino a tale obbligo; b) ogni Stato contraente si impegna a non incoraggiare, difendere ed appoggiare la discriminazione razziale praticata da qualsiasi individuo od organizzazione; c) ogni Stato contraente deve adottare delle efficaci misure per rivedere le politiche governative nazionali e locali e per modificare, abrogare o annullare ogni legge ed ogni disposizione regolamentare che abbia il risultato di creare la discriminazione o perpetuarla ove esista; d) ogni Stato contraente deve, se le circostanze lo richiedono, vietare e por fine con tutti i mezzi più opportuni, provvedimenti legislativi compresi, alla discriminazione razziale praticata da singoli individui, gruppi od organizzazioni; e) ogni Stato contraente s’impegna,

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particolare, tale norma imponeva di prevedere figure di reato volte a punire «ogni diffusione di idee

basate sulla superiorità o sull’odio razziale, ogni incitamento alla discriminazione razziale, nonché

ogni atto di violenza, od incitamento a tali atti diretti contro ogni razza o gruppo di individui di

colore diverso o di diversa origine etnica, come ogni aiuto apportato ad attività razzistiche,

compreso il loro finanziamento»; di vietare ogni organizzazione e attività di propaganda organizzata

e ogni altro tipo di propaganda che inciti alla discriminazione razziale o che la incoraggi; di

prevedere illeciti penali che sanzionino la partecipazione a tali organizzazioni o attività; infine di

non permettere alle autorità pubbliche di incitare o incoraggiare la discriminazione razziale.26

2.3 Dalla legge n. 654 del 1975 alla legge n. 85 del 2006: definizione progressiva dei reati

d’odio

Con la l. n. 654/1975 di ratifica della Convenzione di New York lo Stato italiano compiva un deciso

passo nel senso del contrasto alla discriminazione razziale, introducendo nell’ordinamento

nazionale tre nuove ipotesi di reato. In particolare, l’art. 3, co. 1, di tale legge puniva con la

reclusione da uno a quattro anni: a) la diffusione in qualsiasi modo di idee fondate sulla superiorità

o sull’odio razziale27; b) l’incitamento, in qualsiasi modo, alla discriminazione o a commettere atti

di violenza o di provocazione alla violenza nei confronti di persone perché appartenenti ad un

gruppo nazionale, etnico o razziale, ovvero la commissione di atti di violenza così finalizzati 28.

L’ambito di applicazione del citato articolo è stato negli anni ampliato, prima con l’art. 2 della legge

8 marzo 1989, n. 101 di recepimento dell’intesa tra lo Stato italiano e le Comunità ebraiche, che ha

stabilito come l’art. 3 si dovesse applicare anche alle «manifestazioni di intolleranza e pregiudizio

religioso» e, poi, con l’art. 18-bis della legge 15 dicembre 1999, n. 482, che ha esteso la materia

anche alle minoranze linguistiche.

La disciplina prevista dalla legge del 1975 è stata poi modificata con il d. l. 26 aprile 1993, n. 122,

convertito con la l. 25 giugno 1993, n. 205, meglio nota come “legge Mancino”. Tale legge, oltre a

ove occorra, a favorire le organizzazioni ed i movimenti integrazionisti multirazziali e gli altri mezzi ad eliminare le barriere che esistono tra le razze, nonché a scoraggiare quanto tende a rafforzare la separazione razziale».26 Ivi, art. 4 27 Cfr. C. CITTERIO, Discriminazione razziale: figure di reato e oscillazioni del rigore punitivo nel tempo, in S. Riondato (a cura di), Discriminazione razziale, xenofobia, odio religioso. Diritti fondamentali e tutela penale, Cedam, 2006, p. 148. 28 L’art. 3, co. 2, nel vietare ogni organizzazione o associazione avente tra i suoi scopi di incitare all’odio o alla discriminazione razziale, prevedeva che «chi partecipi ad organizzazioni o associazioni di tal genere, o presti assistenza alla loro attività, è punito per il solo fatto della partecipazione o dell’assistenza, con la reclusione da uno a cinque anni».

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modificare il carico delle pene29 e a prevedere autonome previsioni sanzionatorie30, introduceva,

all’art. 2, due nuove fattispecie di reato, di c.d. “esibizionismo razzista”, punendo il fatto di chi in

pubbliche riunioni, compia manifestazioni esteriori od ostenti emblemi o simboli propri o usuali

delle organizzazioni punite dall’art. 3 co. 2 della legge del 1975 (art. 2, co. 1) e quello di chi acceda

con siffatti emblemi o simboli a luoghi dove si svolgono competizioni agonistiche (art. 2, co. 2).

Inoltre, all’art. 3, questa legge introduceva una duplice circostanza aggravante applicabile a tutti i

reati che siano commessi «per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o

religioso» o «al fine di agevolare l’attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che

hanno tra i loro scopi le medesime finalità».

In seguito alla legge Mancino, la legislazione italiana ha continuato a rinnovarsi, nella direzione di

una riduzione dell’intervento penale in materia. La l. n. 85/2006 ha infatti anzitutto provveduto a

ridimensionare il trattamento sanzionatorio dei reati di diffusione e di incitamento a commettere atti

di discriminazione, divenendo la detenzione alternativa rispetto ad una pena pecuniaria31; cosa che

non è avvenuta per la più grave ipotesi di «incitamento a commettere atti di violenza», con una

conseguente distinzione tra quelle che potremmo definire come figure di hate speech “puro” e

figure espressive di una diversa offensività perché implicanti un’aggressione fisica nei confronti di

persone discriminate.

Inoltre, nel tentativo di restringere i contorni applicativi delle incriminazioni, questa legge ha

provveduto anche a modificare la fisionomia delle fattispecie precedentemente delineate. Anzitutto,

si passa dalla formula «chi diffonde in qualsiasi modo idee…» a «chi propaganda idee…»,

scegliendo un termine che nell’intenzione del legislatore avrebbe dovuto marcare un quid pluris in

termini di offensività della condotta. Come diremo meglio più avanti, il termine “propagandare”

appare infatti più tecnico e preciso di “diffondere”. Inoltre, anche il termine «incitamento» fu

modificato con quello di «istigazione», secondo una variazione di significato tuttavia più sfumata.

Va infine sottolineato che l’intera materia è stata oggi trasposta agli artt. 604-bis («Propaganda e

istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale, etnica e religiosa») e 604-ter

(«Circostanza aggravante») del Codice penale ad opera del d.lgs. 1 marzo 2018, n. 21, sulla riserva

29 C. CITTERIO, op. cit., pp. 50-51, L’A. descrive come le pene siano state modificate «sino a tre anni» per la diffusione e l'incitamento alla discriminazione, «da sei mesi a quattro anni» per l'incitamento a commettere o la commissione di atti di violenza; sparisce l'aggravante dell'uso della stampa o di altro mezzo di propaganda o della pubblica riunione; per le condotte associative le pene scendono «da sei mesi a quattro anni» per partecipazione ed assistenza, «da uno a sei anni» per promozione e direzione; le finalità che caratterizzano le associazioni vietate si riducono all'incitamento alla discriminazione ed alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi; rimane l'aggravante, ma si riduce l'aumento di pena «fino alla metà», senza quindi un limite minimo.30 Ibidem, «In particolare, sono previste quattro sanzioni accessorie, applicabili anche congiuntamente, tra le quali merita evidenziare l'obbligo di prestare un’attività non retribuita a favore della collettività per finalità sociali o di pubblica utilità. Si deve adempiere al termine della pena detentiva e per un periodo massimo di dodici settimane, con modalità tali da non pregiudicare le esigenze lavorative, di studio o di reinserimento sociale del condannato».31 Si passa dalla pena della «reclusione sino a tre anni» prevista dalla l. n. 205 del 1993 alla pena alternativa tra la «reclusione fino a un anno e sei mesi» e la «multa fino a seimila euro» prevista dalla l. n. 85 del 2006.

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di codice. In particolare, i reati in questione sono stati inseriti alla sez. I-bis «Dei delitti contro

l’eguaglianza» (la quale evidenzia l’importanza del bene giuridico in gioco richiamando un

interesse di natura costituzionale), all’interno di un nuovo capo sui «delitti contro la personalità

individuale», inserito al titolo XII («Dei delitti contro la persona»).

3. Analisi dei reati di «propaganda razzista» e «istigazione a commettere atti di discriminazione» di cui all’art. 604-bis lett. a) c.p.

Ripercorsa l’evoluzione normativa che ha interessato la criminalizzazione dei discorsi d’odio

nell’ordinamento italiano, dobbiamo rivolgerci in particolare all’analisi dell’art. 604-bis, lett. a) c.p.

il quale punisce «con la reclusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro chi

propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere

o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi».

3.1. Il bene giuridico tutelato

In riferimento al bene giuridico tutelato, la visione tradizionale della dottrina e della giurisprudenza

tendeva a individuarlo nell’ordine pubblico, affermando che la normativa antirazzista fosse deputata

a «impedire che ideologie contenenti il germe della sopraffazione ed enunciazioni filosofico-

politico-sociali conducessero a discriminazioni aberranti, col pericolo che derivasse violenza, odio

e sopraffazione»32. Tuttavia, questa visione è stata criticata dalla dottrina33, poiché l’idea di ordine

pubblico non esprime un interesse afferrabile, rendendo perciò il reato scarsamente compatibile con

il principio di offensività.

Questa visione è stata così superata, passando per una lettura del reato in ottica plurioffensiva,

affermandosi che da un lato il reato tutelerebbe l’«ordine pubblico in senso stretto […] inteso quale

buon assetto e regolare andamento del vivere civile, cui corrispondono, nella collettività,

l’opinione e il senso della tranquillità e della sicurezza» e, dall’altro, il «diritto fondamentale a non

subire discriminazione alcuna fondata sulla razza o sulle analoghe ragioni di identità», data la

«dignità di ogni uomo ad essere considerato come egli è, per razza, per nazione o per credo

religioso»34.

A tale visione si è però obiettato che il bene giuridico della dignità umana è un «diritto

fondamentale» e «inviolabile» della persona, avente un così chiaro rango primario di rilievo

costituzionale ed internazionale che non occorre aggiungere alcun altro interesse di natura collettiva

o pubblica. Inoltre, la dignità umana avrebbe una «dimensione concreta e personalistica» tale da

32 Cass., sez. I, sent. n. 3791/1993.33 V. P. CAROLI, Codice penale, a cura di T. Padovani, Tomo II, ed. VII, Milano, 2019, p. 4152.34 Trib. di Verona, sent. 2 dicembre 2004, n, 2203.

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potersi considerare superato «ogni dubbio relativo a requisiti di materialità ed offensività della

fattispecie»35.

Su questa scia, la giurisprudenza successiva ha eliminato dalla propria visuale l’ordine pubblico,

individuando quale unico bene colpito dalla fattispecie incriminatrice la dignità umana36. Tuttavia,

in sentenze più recenti la Cassazione ha rivalutato la sua posizione, sottolineando come il reato

debba essere considerato a carattere plurioffensivo, evidenziando che sono almeno due i beni offesi

dall’hate speech: l’ordine pubblico inteso come diritto alla tranquillità sociale e la dignità umana,

accordando però preminenza alla seconda37. Va precisato che il bene giuridico tutelato non è

comunque la dignità tout court, che amplierebbe fin troppo la fattispecie penale, ma la dignità intesa

come uguaglianza38.

La definizione del bene giuridico tutelato in quest’ultima accezione, ossia come diritto a non essere

discriminati, incide anche sull’individuazione della discriminazione penalmente rilevante. Per

chiarire, qui ci affidiamo a un esempio che ha portato a galla il problema. L’ex euro parlamentare

Dacia Valent, nel suo blog verbavalent.com, aveva scritto un post dai connotati estremamente

razzisti verso il popolo italiano39, ma, nonostante la condotta di propaganda fosse integrata sia dal

punto di vista contenutistico che del modus operandi, non è mai iniziato un processo penale contro

di lei. Per la giurisprudenza, l’obiettivo del discorso d’odio deve essere infatti quello di colpire dei

soggetti già ritenuti deboli di per sé, non potendosi altrimenti rinvenire le ragioni che invece

muovono la tutela penale. Per questa ragione, gli hate speech pronunciati da membri delle

minoranze nei confronti delle maggioranze sono ritenuti penalmente irrilevanti40.

35 App. Venezia, sez. I, sent. 30 gennaio 2007.36 Cass., sez. III, sent. 13 dicembre 2007, n. 13234.37 Cass., Sez. III, sent. n. 36906/2015 «Siamo di fronte a un reato plurioffensivo, in quanto sono almeno due i beni-interesse protetti: l’ordine pubblico inteso come diritto alla tranquillità sociale, e la dignità umana. Con una preminenza, tuttavia, che dottrina e giurisprudenza riconoscono al secondo».38 V. G. PUGLISI, op. cit., pp. 8-9-10. L’A. afferma che, nella visione della l. 205/1993, l’attenzione si era spostata su un concetto di dignità fin troppo ampio, a metà tra diritto e morale, che avrebbe condotto in un intricatissimo ginepraio. Per questo era necessario individuare un nucleo di significato costante, che si trova nel concetto di dignità quale uguaglianza, aggiungendo che, a livello penalistico, affinchè l’offesa si collochi in una dimensione intersoggettiva, occorre insistere sulla nozione di eguale rispetto.39 Si trascrive un breve estratto dal testo: «Voi non riuscite nemmeno a immaginare quanto sia difficile per me scrivere, tentando di non ferire le vostre povere sensibilità di piccoli bianchi, totalmente ignoranti del loro passato di carnefici di neri, ebrei e musulmani. (...) Me ne fotto degli italiani brava gente. Non lo siete. Siete ignoranti, stupidi, pavidi, vigliacchi. Siete il peggio che la razza bianca abbia mai prodotto. Brutti come la fame, privi di capacità e di ingegno se non nel business della malavita organizzata e nella volontà delle vostre donne (studentesse, casalinghe, madri di famiglie) di prostituirsi e di prostituire le proprie figlie. (...) Non avete una classe media, siete una penosa e noiosa classe mediocre, incivile e selvaggia. I giornali più venduti sono quelli che trattano di gossip e i programmi televisivi più gettonati – al fine di vendere le proprie figlie come bestiame, come le vacche che sono destinate inevitabilmente a diventare, vista la vostra genia – sono i reality. (...) Un popolo di mafiosi, camorristi, ignoranti bastardi senza un futuro perché non lo meritano: che possano i loro figli morire nelle culle o non essere mai partoriti. Questo mondo non ha bisogno di schiavi dentro come lo siete voi, feccia umana, non ha bisogno di persone che si inginocchiano a dei che si chiamano potere e denaro e nemmeno di chi della solidarietà ha fatto business (...)».40 Cfr. Cass., sez. III, sent. 36906/2015 «L’offensività dell’espressione va relazionata di volta in volta con l’etnia verso cui si dirige e deve altresì rivelare il sentimento di superiorità della razza o dell’etnia di appartenenza del soggetto attivo ovvero di odio per la razza o l’etnia di appartenenza del soggetto passivo».

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3.2. I profili oggettivi e soggettivi dei reati

Individuato il bene giuridico tutelato, ci spostiamo sull’analisi dei profili oggettivi e soggettivi.

Anzitutto, dobbiamo chiarire che l’art. 604-bis c.p. lett. a) si configura come una tipica disposizione

a più norme, contenente cioè una pluralità di reati41: il reato di «propaganda di idee razziste» e

quello di «istigazione a commettere atti di discriminazione».

Iniziando dal reato di propaganda, la giurisprudenza e la dottrina hanno sempre sottolineato che si

tratta di un reato di mera condotta, in cui non rileva la conseguenza che ne deriva, per cui il reato si

perfeziona nel momento in cui il pensiero viene divulgato, ossia «quando divenga percepibile da

parte di terzi»42. Inoltre, affinché il reato si configuri è necessaria la divulgazione a più persone, a

differenza del reato di istigazione che vedremo in seguito.

Il concetto di propaganda è stato ampiamente trattato a livello giurisprudenziale. Dopo la riforma

del 2006 e la modifica terminologica dei reati, la Corte di Cassazione si è espressa più volte,

talvolta sostenendo una sostanziale uguaglianza tra i termini e altre volte affermando che il concetto

di propaganda è più ristretto e determinato rispetto a quello di diffusione. Ad esempio, nella

sentenza n. 13234/2007, la Corte di Cassazione ha affermato che «propagandare un’idea significa

divulgarla al fine di condizionare o influenzare il comportamento o la psicologia di un vasto

pubblico in modo da raccogliere adesioni intorno all’idea propagandata». Questa visione che

evidenziava una maggior determinatezza del concetto di propaganda rispetto a quello di diffusione è

stata subito smentita dagli stessi giudici di legittimità che, nella sentenza n. 37581/2008, hanno

concluso che, pur essendo letteralmente il concetto di propaganda più circoscritto di quello di

diffusione, «la nuova formulazione introdotta dal legislatore del 2006 non ha circoscritto la

fattispecie penale prevista dal legislatore del 1993. Infatti, in entrambe le formulazioni, accanto

alla condotta di diffusione o propaganda delle idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale, è

sempre incriminata con la stessa pena anche la condotta di incitamento o istigazione a commettere

atti di discriminazione razziale» concludendo che «la propaganda prevista nella norma del 2006

non era diversa dalla diffusione più incitamento già previsti dalla norma del 1993». Nonostante

questa sentenza, la Cassazione è di recente tornata sulla precedente impostazione con la sent. n.

36906/201543, e questo sembra oggi rappresentare l’indirizzo dominante.

41 V. G. MARINUCCI, E. DOLCINI, op.cit., pp. 534-535.42 V. L. PICOTTI, op. cit., p. 13943 V. Cass., sez. III, sent. n. 36906/2015: «Tuttavia è evidente che il concetto di propaganda è più ristretto rispetto a quello di “diffusione in qualsiasi modo” di cui al testo previgente. Propagandare, infatti, come ha precisato anche la Corte costituzionale nell’ormai lontana sentenza n. 87 del 1966, non significa semplicemente divulgare idee da poter portare a conoscenza di altri, ma implica un quid pluris consistente in un’azione più specifica il cui risultato è rivolto

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Per il reato di istigazione a commettere atti di discriminazione si sono posti meno problemi.

Anzitutto, va detto che anche in questo caso si parla di un reato di pura condotta, non essendo

necessaria la verificazione di alcun evento per la configurazione del reato. Dottrina e giurisprudenza

sono concordi nel ritenere che per aversi “istigazione” sia necessario uno specifico contenuto di

«spinta, stimolo, sprone» a fare qualcosa e, dunque, ad agire44 rivolto a un terzo. A questo

proposito, bisogna sottolineare che, a differenza della “propaganda” non occorre il profilo della

divulgazione a più persone, poiché l’istigazione può essere tale anche laddove sia indirizzata anche

ad un singolo destinatario. Per quanto riguarda la differenza tra incitamento e istigazione, la

giurisprudenza è unanime nell’affermare l’identità tra i due termini, come spiegato dalla già citata

sentenza n. 37581/2008, dove si dice che «la sostituzione del verbo “incitare” col verbo “istigare”

non è altro che una precisazione linguistica che non modifica per nulla la portata incriminatrice

della norma»45. Tuttavia, il termine sembrerebbe suggerire una lettura più restrittiva, anche per il

fatto che nella stessa norma l’istigazione viene equiparata alla commissione di atti discriminatori, il

che porta a pensare nel senso di una concreta probabilità che una determinata espressione d’odio si

traduca effettivamente in atti di discriminazione.

A tal proposito, un problema si pone relativamente alla definizione dei reati in termini di pericolo

astratto o di pericolo concreto. Infatti, sebbene la disposizione sembrerebbe configurare la presenza

di un pericolo astratto, la giurisprudenza non ha tutt’ora una visione univoca, nel senso che, mentre

inizialmente sembrava che bastasse una valutazione astratta della pericolosità, in sentenze recenti i

giudici di legittimità hanno riconfigurato il reato in termini di pericolo concreto, essendo chiesta per

la sua integrazione la verifica di un’effettiva lesione al bene giuridico tutelato. Di questo comunque

ci occuperemo meglio nei paragrafi successivi.

Per quanto riguarda il profilo soggettivo, per entrambe le ipotesi di reato è richiesto il dolo

generico, essendo tipizzato soltanto il movente ideologico («per motivi razziali, etnici, nazionali o

religiosi») ma non anche il fine (ciò che esclude la necessità di un dolo specifico). Perché i reati

ad influire sulla psicologia e sull’altrui comportamento e pertanto implica che la diffusione debba essere idonea a raccogliere consensi intorno all’idea divulgata» e inoltre «la valutazione dei comportamenti e dei giudizi deve essere compiuta tenendo presente il preminente interesse generale al libero svolgimento della vita democratica». Cfr. anche C. Cost., sent. n. 87/1966 «La propaganda non si identifica perfettamente con la manifestazione del pensiero; essa è indubbiamente manifestazione, ma non di un pensiero puro ed astratto, quale può essere quello scientifico, didattico, artistico o religioso, che tende a far sorgere una conoscenza oppure a sollecitare un sentimento in altre persone. Nella propaganda, la manifestazione è rivolta e strettamente collegata al raggiungimento di uno scopo diverso, che la qualifica e la pone su un altro piano».44 V. L. PICOTTI, op. cit., p. 14145 V. Cass, sez. III, sent. 37581/2008: «Nessun dubbio può sussistere tra la ipotesi di incitamento e quella di istigazione a commettere atti di discriminazione per motivi razziali (…). Infatti, secondo il comune significato delle parole, istigazione altro non è che l'incitamento a commettere atti riprovevoli, sicché anche l'incitamento a commettere atti di discriminazione per motivi razziali, adoperato dal legislatore del 1993, equivaleva alla istigazione, considerato che la discriminazione razziale continua a essere riprovevole nella successione delle leggi penali di cui si discute. In sostanza, la sostituzione del verbo "incitare" col verbo "istigare" non è altro che una precisazione linguistica che non modifica per nulla la portata incriminatrice della norma».

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siano integrati sul piano soggettivo è dunque necessario e sufficiente che il soggetto, agendo

volontariamente, sia consapevole, nel momento in cui agisce, del contenuto/oggetto della propria

condotta; deve anche essere cosciente dell’idoneità dei suoi atti a stimolare nei terzi idee e pensieri

che possano portare alla commissione di atti discriminatori46.

4. Il c.d. processo di Verona

Svolta l’analisi dei reati, è bene rivolgerci all’analisi di un noto caso giudiziario, il c.d. “caso Tosi”,

che ha fatto emergere vari nodi problematici, in particolare relativamente al rapporto tra discorsi

d’odio e libertà d’espressione.

4.1. Analisi del caso

Il caso in questione riguarda l’accesa campagna politica portata avanti dalla Lega Nord nel 2001

contro la presenza dei campi nomadi a Verona, pubblicizzata con l’affissione di manifesti

discriminatori sui muri della città e culminata con la raccolta firme «No ai campi nomadi. Firma

anche tu per mandare via gli zingari».

Originariamente (nel 2004), i leghisti imputati, tra i quali era presente il candidato sindaco Tosi,

furono condannati in primo grado sia per il reato di «diffusione» che per il reato di «incitamento a

commettere atti discriminatori»47. In particolare, per il Tribunale di Verona gli imputati avrebbero

«diffuso idee fondate sulla superiorità e sull’odio razziale ed etnico ed incitato i pubblici

amministratori competenti a commettere atti di discriminazione per motivi razziali ed etnici».

Anzitutto, il tribunale di Verona ha evidenziato come il concetto di razzismo sia mutato nel corso

degli anni, affermando che il giudice deve aver ben chiaro che il razzismo contemporaneo è «quasi

sempre un fenomeno implicito», chiarendo che «se, infatti, il razzismo viene ristretto

concettualmente all’idea della diversità tra le razze secondo una scala gerarchica (…), allora si

finisce per dimenticarne l’evoluzione ideologica nei vari contesti socio-politici». Il giudice di primo

grado, in questo lungo excursus dedicato alla definizione odierna di razzismo, ha evidenziato

dunque come esso sia andato incontro a un fenomeno di c.d. debiologizzazione, accogliendo il

razzismo c.d. “differenzialista”, ossia «fondato sulla negazione della comune umanità e, quindi,

sull’assolutezza dell’identità e delle differenze razziali, etniche, culturali, nazionali del gruppo».

Allo stesso tempo, il giudice di primo grado ha circoscritto il concetto di discriminazione

46 Cfr. M. MONTI, Libertà di espressione e “hate speech” razzista: un’analisi mediante le categorie di “speakers”, in www.dirittifondamentali.it, 2015, p. 12: «Per quanto riguarda l’elemento soggettivo dello “speaker” si ritiene sia sufficiente all’integrazione del reato il dolo generico: la sentenza n. 13234/2007 compie l’”overruling”, per usare una terminologia anglosassone, della precedente giurisprudenza in tema, la quale prevedeva per l’integrazione della fattispecie delittuosa il dolo specifico». Per la distinzione tra dolo generico e dolo specifico v. G. MARINUCCI, E. DOLCINI, op.cit., p. 345.47 V. Trib. Verona, sent. 2 dicembre 2004.

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penalmente rilevante, affermando che una condotta può essere definita tale solo nel caso in cui la si

ravveda per l’altrui diversità, e non per l’altrui criminosità. Infatti, nel caso di specie gli zingari

venivano discriminati «per il solo fatto di essere zingari e, quindi, appartenenti ad un etnia diversa

e non integrabile nella città». Discriminare lo zingaro perché ruba o l’immigrato perché spaccia è

un comportamento socialmente riprovevole, ma non punibile, in quanto i “diversi” non vengono

discriminati in quanto tali, ma per le condotte che pongono in essere. Questa visione pare

confermata dalla sent. 36906/2015, la quale ha annullato la sentenza di condanna inflitta

all’imputato Salmè, accusato di aver propagandato idee razziali attraverso un volantino che

raffigurava caricature di personaggi di varie etnie mentre commettevano dei reati (lo zingaro che

rubava ecc.). Ad avviso della Suprema Corte non sussisteva il reato perché il volantino in questione

non era indirizzato «contro altre etnie, ma contro i delinquenti di altre etnie».

L’analisi del giudice di primo grado nel caso Tosi si è poi focalizzata sui profili della pericolosità.

Infatti, pur affermando che la norma incriminatrice prevede «un reato di pura condotta e di

pericolo astratto», ha successivamente evidenziato che «nel concetto di pericolo astratto si annida

un equivoco di fondo: se il pericolo è probabilità dell’evento temuto, e l’evento è quello giuridico,

dunque sempre ravvisabile in relazione a qualsiasi tipo di reato, non si può propriamente parlare di

un pericolo in cui questa probabilità manchi. Quello che, così, si definisce (impropriamente)

astratto è un pericolo propriamente concreto», da accertarsi secondo un giudizio di prognosi

postuma (ex ante). I giudici infatti hanno valutato nel caso concreto che le condotte degli imputati

avevano comportato «un concreto turbamento della coesistenza pacifica dei vari gruppi etnici nel

contesto sociale al quale il messaggio era indirizzato, mediante l’iniziativa di raccolta di firme per

mandare via gli zingari – presentata in un’apposita conferenza stampa ed ampiamente

pubblicizzata con l’affissione di manifesti sui muri della città e con dichiarazioni rese alla stampa –

rivolta ai cittadini veronesi e finalizzata ad ottenere il definitivo allontanamento dal territorio

comunale di Verona degli zingari, anche se iscritti nell’anagrafe (di quella) città».

La Corte d’Appello di Venezia48 ha confermato la condanna inflitta dal tribunale per il primo capo

d’imputazione (propaganda), ravvisando nelle condotte degli imputati un comportamento volto a

diffondere un messaggio di superiorità etnica avente come contenuto l’odio razziale verso gli

zingari; ciò che poteva essere desunto dal tono e dall’oggetto degli slogan e dai manifesti. Al

contrario, la Corte territoriale ha negato la condanna per il secondo capo d’imputazione

(istigazione), sottolineando che il contenuto della petizione non era di per sé illecito, non avendo

come scopo quello di istigare gli amministratori a compiere atti amministrativi discriminatori nei

48 Si ricorda che tra la sentenza di primo grado e quella di appello, anche sulla spinta della risonanza mediatica che ha avuto il caso in questione, è stata emanata la riforma dei reati di opinione del 2006, la quale ha modificato i reati in esame in «propaganda» e «istigazione», restringendone dunque l’ambito applicativo, specialmente per il primo.

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confronti degli zingari; per questo non era integrabile la fattispecie di incitamento. Inoltre,

l’elemento che non hanno ravvisato i giudici di secondo grado è la presenza del pericolo nella

condotta istigatoria degli imputati, in quanto hanno ritenuto isolata la manifestazione razzista e non

suscettibile di essere seguita dalla maggioranza della popolazione49.

Dopo la discussa sentenza di appello, le difese degli imputati hanno proposto ricorso per Cassazione

per mancanza o contraddittorietà della motivazione. I giudici di legittimità, oltre a confermare

l’assoluzione per il reato di «istigazione a commettere atti di discriminazione», hanno disposto

l’annullamento con rinvio della parte della sentenza relativa alla condanna per il reato di

«propaganda», considerando carente la motivazione offerta dalla Corte d’appello di Venezia50. In

particolare, la Suprema Corte ha chiesto di spiegare perché, venuto meno il capo d’imputazione

relativo all’istigazione a commettere atti di discriminazione sussistesse ancora il fatto di

propaganda, posto che, secondo la formulazione della Corte, la propaganda doveva sostenere

proprio l’atto considerato lecito. Inoltre, nel rivalutare la motivazione, la Corte d’appello avrebbe

dovuto analizzare il contenuto della propaganda in relazione al contesto globale della vicenda. Nel

successivo giudizio di rinvio la Corte di appello ha riesaminato la motivazione della sentenza,

affermando che la condanna per il reato di propaganda appariva «fuori discussione», nonostante

l’assoluzione per il reato di istigazione. Per di più, il giudice del rinvio ha voluto sottolineare come

il contenuto dei manifesti non lasciasse dubbi circa il suo significato discriminatorio e che, al di là

del significato letterale delle frasi, anche il contesto, con riferimento alla campagna elettorale in

atto, deponeva per un atteggiamento discriminatorio, tenuto conto delle frasi pronunciate da Tosi in

conferenza stampa e delle dichiarazioni fatte dallo stesso in occasione di un’assemblea, nonché

degli slogan lanciati e del non breve asso temporale durante il quale la condotta si era

concretizzata51. La Cassazione ha apprezzato la rielaborazione della motivazione della Corte

territoriale, che infatti ha confermato definitivamente nel 2009, condannando Tosi per il reato di

“propaganda” razzista52.

4.2. La criminalizzazione dell’hate speech tra tutela della dignità umana e garanzia della

libertà di espressione

Questo caso ci offre l’occasione per riflettere sul rapporto che intercorre tra i reati esaminati e la

libertà di espressione. Anzitutto, va rilevato come quest’ultima sia considerata la pietra angolare

tanto del sistema costituzionale (art. 21 Cost.), quanto del sistema convenzionale (art. 10 CEDU). 49 App. Venezia, sez. I, sent. 30 gennaio 2007.50 Cass., sez. III, sent. 13 dicembre 2007, n. 13234.51 App. Venezia, sez. I, sent. 30 ottobre 2008.52 Cass., sez. IV, sent. 10 luglio 2009, n. 41819.

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Di fatti, la giurisprudenza europea si è trovata reiteratamente ad affermarne il necessario

bilanciamento con un altro valore di capitale importanza, ossia il divieto di non discriminazione

sancito dall’art. 14 della CEDU. Nel contrasto tra due valori di così primaria entità, la Corte di

Strasburgo ha cercato di risolvere il problema, evidenziando che le forme di abuso del diritto (art.

17 CEDU53) non possono rientrare nella libertà di espressione. Nel caso italiano, il Tribunale di

Verona è intervenuto in questo ambito; in particolare, il giudice di primo grado ha affermato, nella

sentenza del 2004, che «Il pensiero di per sé è liberamente esternabile sino a quando, come effetto

del pensiero in sé assolutamente libero, non lede o mette in pericolo altri diritti costituzionalmente

garantiti in sé, quali la dignità umana, l’identità razziale o culturale, l’orientamento sessuale, il

credo religioso, la reputazione, ecc.». Con questo passaggio, il tribunale ha voluto evidenziare

come la libertà d’espressione non possa essere utilizzata come ancora di salvataggio a qualunque

pensiero, in quanto ci sono interessi in gioco molto importanti da proteggere, necessari per il buon

andamento di una società fondata sì sulla libertà, ma soprattutto sulla pari dignità di tutti i

consociati, valore costituzionalmente garantito dall’art. 3 e che, addirittura, «preesiste alla

Costituzione». Particolarmente interessante è il passaggio in cui i giudici respingono i dubbi di

costituzionalità che vedrebbero la norma come non rispettosa del diritto alla libertà di espressione,

affermando che: «La norma contestata non viola il diritto di libera manifestazione del pensiero

(art. 21 Cost.), perché l’incitamento ha un contenuto fattivo di istigazione ad una condotta, quanto

meno intesa come comportamento generale, e realizza un quid pluris rispetto ad una

manifestazione di opinioni, ragionamenti o convincimenti personali».

Va dunque fatto un bilanciamento tra gli interessi in gioco, e in questo caso il tribunale non ha

dubbi nell’affermare che il bene della dignità umana sia preponderante su una libertà di espressione

che, in questo caso, dovrebbe ampliare fin troppo la propria garanzia54.

Benché sia stato sicuramente il primo giudice ad aver trattato più largamente il tema relativo all’art.

21, non sono mancate ulteriori precisazioni da parte degli altri giudici. Nel confermare la condanna

per il reato di «propaganda» nel giudizio di rinvio, la Corte d’Appello di Venezia ha affermato che

«nella condotta degli imputati […] si va oltre la mera manifestazione del pensiero (come tale

tutelata dalla Costituzione) e si ravvisano tutti gli estremi della propaganda, cioè dell’intendimento

53 CEDU, art. 17 «Nessuna disposizione della presente Convenzione può essere interpretata nel senso di comportare il diritto di uno Stato, un gruppo o un individuo di esercitare un’attività o compiere un atto che miri alla distruzione dei diritti o delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione o di imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla stessa Convenzione».54 Il Trib. Di Verona, nella sentenza del 2 dicembre 2004, ha sottolineato che «non può essere dato ingresso ad un giudizio di liceità di una critica ovvero di un pensiero manifestato in dispregio della dignità umana, diritto che preesiste alla Costituzione: il rispetto della dignità umana costituisce l’essenza di uno Stato democratico, e sul principio di tale rispetto si fondano tutti gli altri diritti fondamentali» aggiungendo che le libertà garantite dall’art. 21 Cost. «sono finalizzate allo sviluppo e alla più completa realizzazione della personalità umana. Indipendentemente, dunque, dalla circostanza che la propria opinione (anche di etica) sia di maggioranza o di minoranza, essa deve essere comunque un’opinione espressa nell’assoluto rispetto della dignità umana dell’interlocutore, individuale o collettivo».

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di suscitare comportamenti, decisioni e idee altrui». La Cassazione ha tuttavia voluto precisare un

elemento, affermando che la manifestazione di un pensiero va contestualizzata e non può essere

valutata estrapolandola “nuda” da un discorso, in particolare quando si tratta di “propaganda

politica”. A tal proposito, la Corte ha riconosciuto che, nei periodi di campagna elettorale, non si

può non tener conto del fatto che i toni si possano fare molto più accesi rispetto a quelli

comunemente adoperati; per questo, «non si può dal contesto di un discorso estrapolare una frase

poco opportuna per attribuire all'autore idee razziste senza esaminare il contesto nel quale tale

frase è stata pronunciata». Ciononostante, fu proprio in seguito alla contestualizzazione, in

particolare in relazione alla campagna elettorale in atto, al luogo in cui erano state pronunciate le

dichiarazioni e al lungo asso temporale durante il quale la condotta era stata integrata, che i giudici

del rinvio confermarono la condanna.

Sul bilanciamento tra libertà di espressione e tutela della dignità umana si è espressa la successiva

giurisprudenza di legittimità, la quale ha affermato che «nel possibile contrasto tra la libertà di

manifestazione del pensiero e la pari dignità dei cittadini, va data preminenza a quest’ultima solo

in presenza di condotte che disvelino una concreta pericolosità per il bene giuridico tutelato»55, in

quanto non si può comprimere il diritto alla libera manifestazione del pensiero sulla sola base di una

valutazione astratta della pericolosità, quanto meno nei casi in cui il tipo di condotta (come la

propaganda) sia intrinsecamente caratterizzata da una carica offensiva suscettibile di recare

pregiudizio al valore egualitario dell’art. 3 Cost.. Dunque, il giudice dovrà di volta in volta valutare

nel caso concreto se l’azione, sulla base di quanto detto, costituisca reato, interpretando la

normativa valorizzando la concreta pericolosità e offensività delle condotte. Un tentativo di

bilanciamento è proprio da ravvisarsi nella configurazione del reato in termini di pericolo concreto,

il cui test si svolge attraverso un necessario giudizio di contestualizzazione dei fatti, che, ad avviso

della stessa Corte, «porterebbe a raggiungere un soddisfacente punto di equilibrio fra i principi di

rango costituzionale della libertà di espressione e della pari dignità e non discriminazione». A tal

proposito, la Corte ha anche voluto sottolineare, questa volta in riferimento all’aggravante di

discriminazione razziale (art. 604-ter c.p.), che non può considerarsi sufficiente una semplice

motivazione interiore, ma occorre che questa si presenti come intenzionalmente diretta o almeno

potenzialmente idonea a suscitare in altri il sentimento di odio razziale o comunque dar luogo al

concreto pericolo di comportamenti discriminatori. Questa tendenza pare in qualche modo

ricollegarsi a quanto affermato dalla Corte costituzionale nella già analizzata sentenza n. 74 del

1958 sul reato di apologia del fascismo; infatti, già qui si riteneva necessario che le condotte poste

in essere si estrinsecassero in un pericolo concreto di ricostituzione del partito, con un giudizio che

55 Cass., sez. III, sent. n. 36906/2015.

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il giudice avrebbe dovuto compiere ex ante per valutarne l’effettiva pericolosità in relazione al

contesto globale della vicenda.

Questa visione a favore della pericolosità in concreto pare confermata nella sent. n. 6933/2020, in

riferimento all’odio online. Il caso in questione riguardava un commento discriminatorio su

Facebook a una foto satellitare dell’Italia priva delle regioni meridionali56; mentre il Tribunale di

Monza aveva condannato l’imputata per il reato di propaganda, la Corte d’appello di Milano l’ha

assolta, non ravvisando la configurazione del reato in relazione al contesto della vicenda. La

Cassazione ha confermato l’assoluzione, evidenziando che «il commento postato dall'imputata non

poteva essere valutato per la sua astratta valenza discriminatoria» e, analizzata in relazione al

contesto, la condotta dell’imputata non poteva essere punibile57.

4.3. Una direzione ostinata e contraria: le tesi costituzionaliste

Quello che sin ora si è detto è chiaro: i limiti alla libertà di espressione cominciano quando iniziano

le libertà individuali altrui. Il problema rimane comprendere concretamente dove e in che misura

sorgano questi limiti. Gli approcci al riguardo sono due. Da una parte troviamo quello favorevole

all’impiego del diritto penale per scongiurare ipotesi di manifestazioni di pensiero che vadano a

mettere in pericolo le libertà dei soggetti più deboli; dall’altra, quello sostenuto da autorevoli

costituzionalisti che promuove la tendenza alla più vasta libertà di manifestazione del pensiero, non

ravvisando ragioni valide per confinare a tal punto uno dei principi fondanti la nostra democrazia

costituzionale58.56 A tal proposito, va detto che la Cassazione, nella sent. n. 37596 del 2014, aveva affermato che Facebook va considerato come «luogo pubblico o aperto al pubblico» e che tale condotta si considera integrata anche a mezzo della pubblicazione di post o commenti di post altrui all’interno della rete.57 Cass., sez. I, sent. n. 6933/2020 «Tuttavia, il commento postato dall'imputata non poteva essere valutato per la sua astratta valenza discriminatoria, ma andava contestualizzato e inserito nel contesto comunicativo, palesemente paradossale, in cui venivano pronunciate le parole incriminate. (…) In questo contesto, appaiono condivisibili le conclusioni della Corte di appello di Milano che correlava i contenuti del commento controverso alle modalità telematiche con cui veniva trasmessa la comunicazione, postata su Facebook senza connotazioni propagandistiche. (…) Nel caso in esame, pertanto, veniva compiuto un vaglio ineccepibile del commento dell'imputata, sulla base del quale veniva esclusa l'idoneità propagandistica dell'attività comunicativa a ledere il bene giuridico tutelato dalla fattispecie del D.L. n. 122 del 1993, art. 1; inidoneità offensiva che derivava dai toni - del tutto contrastanti con le più elementari regole del buon senso, ancorchè spregevoli moralmente - utilizzati dall'imputata per manifestare il suo pensiero».58L’acceso dibattito tra le due teorie trae le sue origini oltreoceano, nel continente americano, dove ad essere contrapposti sono i modelli statunitensi e quelli canadesi in quella che viene chiamata la critical race theory ed il silencing effect, ossia il danno cagionato ai singoli e alle collettività delle propagande razziste e simili. In particolare, seppur sinteticamente, le rispettive Supreme corti hanno deciso di percorrere strade opposte: da una parte (USA) si censurano di volta in volta le varie forme di incriminazione introdotte negli Stati federali per contrastare i fenomeni di racist speech e richiamando a tal fine la tradizionale fiducia americana nell'egualitario marketplace of ideas, senza una dottrina generale, con una tendenziale esclusione del discorso d'odio o razzista, anzi sotto un certo aspetto “valorizzato” per alimentare il “libero mercato delle idee”; dall'altra (Canada) si è ritenuta legittima l'incriminazione della hate propaganda, facendo appello alla necessità di salvaguardare, con le parole dell'opinione di maggioranza, «l'impegno a una visione multiculturale della nostra nazione nella quale occorre rinforzare la nozione di mutuo rispetto, indispensabile in una nazione che crede nel principio di eguaglianza a difesa di una società libera e democratica». Su questo v. C. VISCONTI, Il reato di propaganda razzista tra dignità umana e libertà di espressione , in [email protected], II,

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Rispetto a questo secondo approccio, sono due le dottrine di matrice costituzionalista che

analizzeremo: quella di Giorgio Pino e quella di Michela Manetti. Entrambe partono da uno studio

socio-antropologico, affermando che la razza non è un mero dato biologico, ma principalmente una

costruzione sociale, e che quindi la propaganda razzista riproduce e consolida le asimmetrie tra i

gruppi dominanti e le minoranze. Gli hate speeches farebbero sorgere prepotentemente nella mente

dei soggetti passivi rabbia e sofferenza psichica, disumanizzandoli e facendo perdere loro

autostima; è proprio per tale motivo che cominciano a sentirsi inferiori, scoraggiati a partecipare

attivamente al dibattito pubblico (c.d. silencing effect). Tuttavia, nonostante i “danni sociali”

connessi agli hate speeches, il legislatore deve preferire un presidio penalistico ridotto al “minimo”

contro i discorsi razzisti.

Per Giorgio Pino, a dover essere puniti devono essere solo gli insulti diretti o le «condotte

comunicative che hanno come conseguenza atti di violenza»59, sia verso le vittime, sia provenienti

dalle vittime come reazione al discorso razzista. Per arrivare a tale conclusione, l’autore parte dal

problema relativo alla incerta afferrabilità del concetto di “danno sociale” e alla difficile

dimostrabilità della sua derivazione causale da singoli hate speech. Inoltre, si rileva come, affinché

gli hate speeches dimostrino un’effettiva dannosità sociale, questi non solo dovrebbero provenire da

una fonte riconosciuta autoritativa nella società, ma dovrebbero, oltretutto, essere condivisi dalla

società nel suo complesso (o almeno da una significativa maggioranza o, ancora, da una minoranza

stabilmente in possesso delle redini del potere), cosa che non sembra essere possibile nella maggior

parte delle società occidentali contemporanee dove sono adottate misure sia positive che repressive

contro la discriminazione razziale e dove esiste un notevole grado di consenso sociale sul rifiuto del

razzismo. Per ultimo, dunque, secondo Pino rimane «controverso se in questi casi il discorso

razzista causi realmente un danno, oppure sia soltanto qualcosa di più simile ad un fastidioso

rumore di fondo»60, troppo indeterminato per essere abbracciato efficacemente dallo strumento

penale. Di fatti, ciò che propone è la promozione di politiche di sensibilizzazione che portino la

società stessa a ripudiare quel danno che, seppur indeterminatamente, può scaturire dal discorso

d’odio; così facendo «la [sua] valenza socialmente dannosa verrebbe, almeno in parte,

neutralizzata»61.

1, 2009, pp. 206-207.59 G. PINO, Discorso razzista e libertà di manifestazione del pensiero, in Politica del diritto, XXXIX, 2, 2008, p. 303.60 G. PINO, op. cit., p. 304.61 Ivi, p. 305. Cfr. C. VISCONTI, op. cit., p. 209. Interessanti sono gli aspetti problematici di questa teoria rinvenuti da Costantino Visconti. Il problema principale è relativo alle “affermazioni causali”, ovvero come gli “insulti diretti” o le “istigazioni alla violenza”, per Pino, siano facilmente dimostrabili rispetto alla mera propaganda, ed addirittura al più generico “discorso d’odio”. Eppure, anche per queste due ipotesi non sembra che ci si trovi di fronte ad affermazioni causali “dimostrabili” nel senso auspicato; inoltre, se «il bene giuridico aggredito dall'insulto diretto è l'onore personale della vittima», dice Visconti, «va ribadito che è alquanto difficile impiegare il concetto di danno senza al contempo rimanere consapevoli che per lo più ci si trova innanzi a mere “ipotesi” di danno, a maggior ragione per l'istigazione».

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Se da questa teoria si evince un tentativo di bilanciamento tendenzialmente liberale, incentrato sul

self-restraint del singolo, nella visione di Michela Manetti l’ago della bilancia pende totalmente

dalla parte dell’art. 21. Infatti, un suo importante saggio si conclude con un appello per la

“cancellazione” delle fattispecie incriminatrici del discorso razzista62, avendo il timore che le

politiche repressive possano dar vita a una crescente criminalizzazione delle manifestazioni del

pensiero. Mettendo a paragone il modello europeo (Inghilterra, Francia, Germania, Italia) e quello

statunitense, individua come, mentre nel primo le fattispecie penali vigenti sono generalmente

considerate un necessario e legittimo sacrificio della libertà di manifestazione del pensiero, nel

secondo tali previsioni normative sono considerate una inaccettabile violazione del I

emendamento63. Ciò che l’autrice riscontra è che per l’Europa la valutazione del discorso razzista

affonda le sue radici nell’esperienza storica dei totalitarismi e «nell’angoscia esistenziale che ha

accompagnato la totale perdita di fiducia nella razionalità e nella moralità dell’essere umano»64.

Oltretutto, aggiunge, le nostre disposizioni penali sono state introdotte in attuazione di precisi

obblighi internazionali (e non motu proprio), i quali prefigurano una sorta di “ordine ideale” di

repressione rispetto ad un odio che non esiste più, incapace di ledere la dignità delle minoranze.

Questa dottrina, quindi, registra una tendenza generale verso una piena affermazione delle libertà

garantite dallo Stato di diritto, la quale sarebbe testimoniata da quanto affermato dai giudici delle

leggi tedeschi nella sentenza del 5 maggio 2001 concernente la libertà di manifestare da parte di una

formazione politica di ispirazione neonazista: «un’importante garanzia contro la rinascita del

neonazionalismo è rappresentata dal rispetto dei principi dello Stato di diritto, che mostra la sua

forza proprio quando tratta i suoi nemici secondo le regole generali per tutti». Comprensibilmente

ci si domanda il motivo per cui, se un paese come la Germania, tanto avanzato a livello democratico

quanto storicamente mortificato dalle vicende passate, non possa essere seguito dall'Italia, e di cosa

abbia paura il nostro popolo rispetto ai tedeschi, che «si sentono abbastanza forti da non temere più

la propaganda nazista»65.

5. Riflessioni finali

62 V. M. MANETTI, L’incitamento all’odio razziale tra realizzazione dell’eguaglianza e difesa dello Stato , in www.associazionedeicostituzionalisti.it, pp. 33-34.63 Cost. USA, I emendamento: «Congress shall make no law respecting an establishment of religion, or prohibiting the free exercise thereof; or abridging the freedom of speech, or of the press; or the right of the people peaceably to assemble, and to petition the Government for a redress of grievances». Cfr. C. VISCONTI, op. cit., p. 210 «Orientamento ribadito anche di recente nella sentenza Black vs. Virginia del 2003, ove si afferma a chiare lettere che il sostenere la superiorità dei bianchi rispetto alle altre razze appartiene al core political speech». 64 M. MANETTI, op. cit, cit., p. 18.65 Ivi, p. 19. Cfr. C. VISCONTI, op.cit., p. 211. Domanda simile se la pone il giurista e costituzionalista Alessandro Pizzorusso, che nel 2003 affermò che le nostre norme penali sul discorso razzista erano blande e destinate a rimanere su carta, come un monito, poiché mai si sarebbe pensato ad un ritorno dell'odio razziale, benché «le vicende di questi ultimi anni sembrano purtroppo dimostrare l'infondatezza di una tale convinzione».

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A fronte di questa analisi, pensiamo che alla lunga una propaganda basata sull’odio razziale, anche

se in un primo momento non provochi reazioni, possa manifestarsi tanto efficace quanto dannosa.

Di fronte all’hate speech, «cioè a parole o scritte che diventano come pugnali affondati nella dignità

delle persone»66, norme come quelle in esame trovano una solida base legittimante dei diritti umani

fondamentali: il diritto alla libertà di pensiero non implica il diritto di offendere. Il punto però è che

vi è il “rischio” che si decida di ricorrere allo strumento penale più che per la precisa finalità di

reprimere e contenere un dato comportamento, per esprimere valutazioni etico-sociali, ovvero che la

pena venga ad assumere il ruolo di dare un segnale e diventi una pena simbolo, non venendo più a

punire determinati comportamenti, ma ad elaborare valori e norme di coscienza confondendo il

piano del diritto con quello dell’etica. È vero che il ruolo della legge penale non è mai

esclusivamente punitivo, poiché mira anche a veicolare messaggi, ma per tali ipotesi pare essere

preponderante questo secondo obiettivo a discapito del primo. Anche se tale strumento è

considerato tradizionalmente il più dissuasivo, nonché talvolta preferito di fronte a valori di rango

costituzionale, riteniamo dunque, viste le lacune che da esso traspaiono, che le sanzioni

amministrative potrebbero rappresentare una ragionevole alternativa alla pena. Anche queste ultime,

infatti, possono avere un’efficacia di prevenzione speciale e generale, non dissimile dalla pena,

senza peraltro avere attitudine stigmatizzante e il pesante costo individuale che, in alcuni casi, può

produrre effetti negativi maggiori rispetto ai benefici di tutela. Inoltre, queste offrono garanzie di

maggior tempestività ed effettività e, dunque, si mostrano più idonee sotto il profilo della

deterrenza. Ciò non di meno, lo strumento penale ci appare necessario nell’ottica del legislatore, il

quale intende ripudiare ogni forma di discriminazione, anche in ragione dell’art. 14 della CEDU

(«divieto di discriminazione»). In conclusione, riteniamo che per punire la propaganda razzista le

sanzioni amministrative possano rappresentare la regola e che lo strumento penale, invece, possa

essere impiegato per le ipotesi più “gravi”, che si caratterizzano la capacità di istigare atti violenti o

anche discriminatori.

BIBLIOGRAFIA

66 V. F. SALOTTO, Reato di propaganda razziale e modifiche ai reati di opinione (l. 13 ottobre 1975, n. 654; l. 24 febbraio 2006, n. 85), in S. Riondato (a cura di), Discriminazione razziale, xenofobia, odio religioso. Diritti fondamentali e tutela penale, Cedam, 2006, p. 176.

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10) C. VISCONTI, Il reato di propaganda razzista tra dignità umana e libertà di espressione, in

[email protected], II, 1, 2009, pp. 191 ss.

11) F. SALOTTO, Reato di propaganda razziale e modifiche ai reati di opinione (l. 13 ottobre 1975,

n. 654; l. 24 febbraio 2006, n. 85), in S. Riondato (a cura di), Discriminazione razziale, xenofobia,

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12) P. CAROLI, Codice penale, a cura di T. Padovani, Tomo II, ed. VII, Milano, 2019.

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15) G. PINO, Discorso razzista e libertà di manifestazione del pensiero, in Politica del diritto,

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16) M. MANETTI, L’incitamento all’odio razziale tra realizzazione dell’eguaglianza e difesa dello

Stato, in www.associazionedeicostituzionalisti.it.

17) Trib. Di Verona, 2 dicembre 2004, n. 2203

18) App. Venezia, sez. I, sent. 30 gennaio 2007.

19) Cass., sez. III, sent. 13 dicembre 2007, n. 13234.

20) App. Venezia, sez. I, sent. 30 ottobre 2008.

21) Cass., sez. IV, sent. 10 luglio 2009, n. 41819.

22) Cass., sez. III, sent. 14 settembre 2015, n. 36906.

23) Cass., sez. I, sent. 21 febbraio 2020, n. 6933.

24) C. Cost., sent. 25 novembre 1958, n. 74

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