VESPERTILLA maggio giugno 2013 spettacolo
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Periodico romano di approfondimento culturale: arti, lettere, spettacolo
“...non più una cul-tura che consoli nel-le sofferenze, ma unacultura che proteggadalle sofferenze, chele combatta e le eli-mini...”
Elio Vittorini, 1945
“Scrivere non è descri-vere. Dipingere non èrappresentare.”
George Braque
2VESPERTILLA - Anno X - n° 3 maggio-giugno 2013
VESPERTILLA
Direttore Responsabile: Serena Petrini
Direttore Editoriale: Luigi Silvi
Condirettore: Ilaria Lombardi
Vicedirettori: Serena Epifani, Francesca Martel-lini
Responsabile settore teatro: Mariella Demi-chele
Segretaria di Direzione: Maria Pia Monte-duro
Hanno collaborato a questo numero: Concita Brunetti, Mariella Demichele, SerenaEpifani, Marina Humar, Ilaria Lombardi, Fran-cesca Martellini, Maria Pia Monteduro, SibillaPanerai, Laura Ruzickova, Luigi Silvi, OfeliaSisca.
La collaborazione sotto ogni forma è gratuita
Impaginazione grafica: Maria Pia Monte-duro
Editing: Serena Epifani
Editore:Associazione Culturale ANTICAMentevia Sannio 21, 00183 Roma
INFO [email protected]@tiscali.it
Pubblicazione registrata presso il TribunaleCivile di Roma n. 335-05.08.2004
Stampa:Copypoint - via de�’ Funari 25 00186 Roma
Doganalisti specializzati in Mostre d’ArtePadova Rovigo Vicenza
Tutte le operazioni doganali e le istanzepresso la Sovrintendenza al le Bel le Artiper reperti archeologici e opere d’arteprovenient i dal l ’es tero e inviat i a l l ’e -stero per esposizioni e scambi cultural i .
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e-mail [email protected] fiscale e Partita I.V.A. 00289000283
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Teatro
SEZIONE SPETTACOLOSOMMARIO
TEATROVERITÀ INUTILE ORPELLO, ONESTÀ ETERNA SCONFITTAUn marito ideale, Teatro Qurino, di Concita Brunetti PAG. 4
INTERPRETARE PIRANDELLO: PERCHÈ?Il fu Mattia Pascal, Teatro Quirino, di Francesca Martellini PAG. 6
DUE GRANDI FRATELLI SERVILLO PER EDUARDOLe voci di dentro, Teatro Argentina, di Maria Pia Monteduro PAG. 8
LA DANZA MACABRA DEL VIVERE AL BUIOI giorni del buio, Teatro Argentina, di Maria Pia Monteduro PAG. 10
SULLE TRACCE DI UN GENIOIo, Ludwig van Beethoven, Teatro Belli, di Maria Pia Monteduro PAG. 12
DISCUTIBILE TENTATIVO DI AFFRONTARE L’OMOFOBIAStill Life, Teatro Argentina, di Mariella Demichele PAG. 14
TRAGICO MINUETTO DI CORPI PRESENTI NELL’ASSENZAJudit, Teatro di Documenti, di Concita Brunetti PAG. 20
MERCUZIO E ALTRE UTOPIE REALIZZATE, di Mariella Demichele PAG. 22
DONNA DI CLASSE ATTRICE DI CARISMARicordando Rossella Falk, di Maria Pia Monteduro PAG. 28
LEONESSA INDOMITARicordando Franca Rame, di Maria Pia Monteduro PAG. 30
CINEMASERVILLO COME MASTROIANNILa grande bellezza, Paolo Sorrentino, di Luigi Silvi PAG. 34
SUL FILO DEL RASOIO SOCIALEGli equilibristi, Ivano De Matteo, di Maria Pia Monteduro PAG. 42
VIOLETA PARRA E LA CANZONE POPOLAREVioleta Parra Went to Heaven, Andrés Wood. di Luigi Silvi PAG. 44
BEATA SOLITUDO SOLA BEATITUDO?Viaggio sola, Maria Sole Tognazzi, di Maria Pia Monteduro PAG. 46
POLITICA TRA MARKETING E MERCATONo. I giorni dell�’arcobaleno, Pablo Larrain, di Luigi Silvi PAG. 48
NON SI TACITI LA COSCIENZAMuffa �– Ruf, Ali Aydin, di Maria Pia Monteduro PAG. 62
ODIO RISPOSTA ALLA CRISILa quinta stagione, Peter Brosens e Jessica Woodworth, di Luigi Silvi PAG. 66
RESTAURATO TO BE OR NOT TO BE DI ERNST LUBITSCHVogliamo vivere, Ernst Lubitsch, di Ofelia Sisca PAG. 74
FELICE CONNUBIO TRA SPORT E SPETTACOLORicordando Esther Williams, di Maria Pia Monteduro PAG. 78
MUSICAMA QUANDO SCOPPIA LA RIVOLUZIONE?Franco Battiato, Auditorium Parco della Musica, di Maria Pia Monteduro PAG. 84
VESPERTILLA - Anno X - n° 3 maggio-giugno 2013
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Teatro
�“Gli uomini possono essere analizzati, le donne,l�’irrazionale, possono solo essere ammirate�”.
Oscar Wilde
Il testo andò in scena per la prima volta aLondra nel 1895, ma ad assistervi oggi nonsi direbbe affatto per l�’eterna attualità deltesto. Un marito ideale, opera tra le miglioridel �“famigerato dandy�” Oscar Wilde, è por-tata in scena dalla compagnia Lavia Anagni,con la regia di Roberto Valerio. Il regista, cheha curato anche la traduzione, ha liberato lospirito di Wilde dal pantano del luogo co-mune. La questione che si dibatte sulle ta-vole del palcoscenico non può lasciarenessuno indifferente, perché riguardaquanto mai da vicino tutti: esiste un legamefra la moralità pubblica e quelle privata op-pure tutto è lecito? Questo tema, di cocenteattualità, viene svolto attraverso conversa-zioni brillanti, dialoghi pungenti, massime eaforismi di inusitata precisione. Valerio ri-serva fin da subito una sorpresa, spiazzandoil pubblico: accoglie con la fine della comme-dia laddove tutti si attendevano l�’inizio. In-chino, applausi, e poi via con il rewind . Lascena, che si offre mentre gli attori si muo-vono al contrario, è di grande impatto: dueenormi strutture di legno, dentro cui bascu-lano dei pannelli che, aprendosi e chiuden-dosi modificano l�’ambiente e danno vita allascena. Si comincia con immancabili temi diuna conversazione borghese, politica, com-mercio, donne, dove si rivelano opinioni di-scordanti tra le parti. In scena gli archetipidi uomini e donne della società inglese. Ilprimo è Mrs. Cheveley (Valentina Sperlì ec-cellente), spregiudicato e moderno membrodell�’alta società, donna di potere molto inte-ressante con la passione per la politica. Manon si dimentichi che nelle opere di Wildenulla è ciò che appare e la perfezione affet-tata è pura apparenza. La dama è giunta aLondra per ricattare il giovane e morigeratoSir Chiltern (Roberto Valerio), giovane sot-tosegretario agli Affari Esteri, il secondo ar-chetipo. L�’astuta donna è in possesso di unalettera che testimonia una scorrettezza di cuiSir Chiltern si è macchiato all�’inizio dellasua brillante carriera politica. A condire ilpiatto già ricco, Lady Gertrude Chiltern(Chiara Degani), moglie-bambina affetta dagrave ingenuità, e poi, ultimo ma non perimportanza, l�’alter-ego wildiano Lord Goring
(Pietro Contempo), in apparenza leggero econtrario all�’utile, ma che utile sarà a diri-mere la questione. La giovane moglie mettesubito in chiaro la sua avversione per la na-vigata Mrs. Cheveley, così distante dai suoiideali di limpidezza. Ma, come le spiega ilsuo dolce maritino, gli affari della politica ei suoi ingranaggi spingono al compromesso,le cose cambiano al variare delle circostanze.E alla tenera donna le circostanze, ovvero lacorruzione passata di suo marito, sono sco-nosciute, almeno per ora. Ma la verità leverrà presto rivelata, poiché il marito si ri-fiuta di accettare il ricatto e allora il suostesso amore per il marito vacilla con l�’onoredi quest�’ultimo. Eppure ella non accetta leragioni del compromesso, che per lei è ver-gogna. Arriva la sera sui problemi di que-st�’apparente perfetta società e il tramontotrapela dai pannelli che si muovono per va-riare la scena. Artur, l�’amico, il mercuzio, ilgiullare, fa notare al pubblico e al giovanegiglio-moglie come il vangelo dell�’oro nonsempre funzioni e che i penitenti sono amatia meno che essi non siano politici. Infatti unpolitico non può pentirsi, come farebbe poi aparlare di moralità due volte al giorno, da-vanti a un pubblico totalmente immorale, es-sendo esso stesso e col bene placido di tutti,un immorale? Dunque anche Gertrud do-vrebbe accettare la sporcizia dell�’animo disuo marito e gettarla sotto il tappeto del si-lenzio. In fondo tutti hanno i piedi di creta!Si arriva allo scontro diretto tra le due dame:il bene contro il male, persino i loro abiti gri-dano questa contraditio terminis: la sposina,avvolta in un vestito da fata turchina e laben navigata dama, ammantata di rosso enero. Ma alla fine, il bene della società edella giovane coppia trionfa grazie al salvi-fico intervento del leggiadro amico lord Go-ring che assesta un colpo gobbo contro lascaltra dama in rosso, costretta a retrocederee, come se non bastasse, il giovane politicoha l�’occasione di fare passi in avanti nellasua carriera. Così tutto è bene ciò che finiscebene, in barba alla verità, inutile orpello, eall�’onestà, eterna sconfitta. Per consolazioneal pubblico resta la splendida recitazionedegli attori, tutti perfetti nei tempi e nellepause, capaci di arricchire un dialogare giàdi gran pregio.
Concita Brunetti
VERITÀ INUTILE ORPELLO, ONESTÀ ETERNA SCONFITTAUN MARITO IDEALE, Teatro Quirino
VESPERTILLA - Anno X - n° 3 maggio-giugno 2013
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Teatro
Lady Gertrude Chiltern (Chiara Degani), Sir Chiltern (Roberto Valerio).
VESPERTILLA - Anno X - n° 3 maggio-giugno 2013
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Teatro
Mattia Pascal (Tato Russo).
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Teatro
Sul calendario ad anelli aperto sulla scrivania di Pi-randello, all�’ultimo piano del villino in una traversadi via Nomentana, a Roma, in data 9 dicembre 1936il figlio Stefano annotava: �“Sempre a letto�”. Lo scrit-tore morì il giorno successivo, per una polmonitecontratta mentre assisteva alle riprese del film Il fuMattia Pascal del regista e sceneggiatore Pierre Che-nal, ispirato all�’omonimo romanzo. L�’autore avevaseguito attivamente le scene romane, girate soprat-tutto negli studi di Cinecittà che allora si trovavanoin via Tuscolana. L�’anno successivo uscirono due ver-sioni del film �– in francese e in italiano �– entrambe gi-rate da Chenal che scelse Pierre Blanchar per il ruolodel protagonista; titolo originale L�’homme de nullepart, richiamo alla condanna del protagonista a�“porsi fuori dalla vita�” e da ogni meccanismo so-ciale. Una prima versione cinematografica del ro-manzo risaliva al 1926 con la regia del franceseMarcel L�’Herbier, la più recente è quella diretta daMario Monicelli nel 1985, Le due vite di Mattia Pascal,con Marcello Mastroianni che incarna le peripeziedello squattrinato bibliotecario. Il romanzo era statoscritto dopo la grave crisi familiare del 1903, chemise Pirandello in difficili condizioni economiche escatenò la malattia mentale della moglie. Fu pubbli-cato a puntate sulla rivista Nuova Antologia nel 1904,e il notevole successo introdusse l�’autore presso ilpiù importante editore del tempo, Emilio Treves. Apochi anni dopo risale l�’esplicito collegamento alsaggio su L�’umorismo, che uscì nel 1908 con la dedica�“Alla buon�’anima di Mattia Pascal bibliotecario�”. Idue capitoli iniziali del romanzo, con la Premessa, el�’intero capitolo XII, dedicato allo strappo del cielodi carta di un teatrino (che enuncia la trasformazionedi Oreste, tipico eroe della tragedia, in un modernoAmleto) sono a tutti gli effetti dei contributi teoricialla poetica dell�’umorismo: i personaggi modernisono incerti e problematici perché intuiscono l�’oltreche c�’è nelle cose, ma sono incapaci di coglierlo, ridu-cendosi a marionette lontane da azioni concrete. Il fuMattia Pascal fu il primo successo letterario di Piran-dello; sebbene a partire dal 1915 la sua scrittura siorienti decisamente verso il teatro �– adattando per lascena gran parte del suo patrimonio di novelle �– nonsi conoscono versioni drammaturgiche del testo fir-mate dallo stesso autore. Nel 1974 il critico cinema-tografico Tullio Kezich curò l�’adattamento teatraledel romanzo, che ricevette il suo �“battesimo�” al Tea-tro di Genova con Giorgio Albertazzi e la regia diLuigi Squarzina; nel 1986 il copione è stato ripresodalla produzione del Teatro di Roma, messo in scenada Maurizio Scaparro e interpretato da Pino Micol.Un articolo di La Repubblica, del 6 aprile dello stessoanno, ricorda che �“è soprattutto il rapporto tra Pi-randello e Roma che Scaparro ha voluto mettere inevidenza in questo spettacolo, un rapporto che �– cia-scuno con le sue peculiarità �– hanno vissuto quanti,da altre parti d�’Italia, si sono trasferiti nella capitale,e pur essendone condizionati, hanno a loro voltacontribuito a mutarla�”. Nonostante l�’adattamentodel 1974 abbia superato (con grande successo di cri-tica e di pubblico) le migliaia di rappresentazioni,Tato Russo cura personalmente la versione teatraledello spettacolo, del quale si riserva anche il ruolo di
regista e di protagonista. L�’impresa (ardua) presen-tava dei rischi: Il fu Mattia Pascal è uno dei testi piùletti del Novecento, strutturato in tre parti che corri-spondono a diversi modelli di romanzo, esposti inuna sorta di lungo flash back dall�’ormai �“fu�” MattiaPascal che �– come estraneo alla vita �– racconta inprima persona la propria storia. Attraverso le vi-cende di Pascal e di Adriano Meis, Tato Russo sem-bra chiedersi �– con tono shakespeariano �– a cosacorrisponda un semplice nome proprio, e per viag-giare nel mondo delle convenzioni e dei modi d�’ap-parire sceglie di allontanarsi da una proposta troppovincolata alla struttura del testo, per riscrivere lacommedia in chiave autoironica e leggera. Ne nasceun personaggio �“esile�”, che ride di sé in maniera fa-stidiosa e si lascia sopraffare dagli eventi come se ve-nisse trascinato di peso da una scena all�’altra.L�’inettitudine, il doppio, il sogno di un�’evasione im-possibile che alla fine trasforma consapevolmenteMattia/Adriano in un antieroe sono alcune delle te-matiche più forti del romanzo, ma nella versione tea-trale di Russo ogni aspetto è dilatato e rallentato alpunto di ottenere l�’effetto opposto, ovvero quello didistrarre lo spettatore che si perde tra scene al ral-lenty e digressioni musicali. Il primo atto è quasi in-teramente dedicato alla parte idillico-familiare delromanzo, ambientata tra la casa e la biblioteca di Mi-ragno, e sfoltire alcuni dei litigi domestici avrebbeaiutato a introdurre con maggior freschezza la scenadella roulette, che �– al contrario �– passa quasi in sor-dina. Ogni attore, per scelta di regia, porta in scenapiù ruoli, come se tutti i personaggi fossero coinvoltinello scambio di identità e nella tendenza allo sdop-piamento che caratterizza la storia. Nelle battuteviene ovattato ogni riferimento ai soliloqui, segnatidal ricorso continuo alle interiezioni e alle domanderetoriche, in uno stile già di per sé �“recitativo�” che �–pur togliendo fluidità al romanzo �– animava il testodi una espressività grottesca che manca totalmentenell�’adattamento teatrale. Le scenografie di ToninoDi Ronza creano un palcoscenico senza soluzioni dicontinuità, sorta di �“magazzino�” praticabile che al-l�’occorrenza diviene salotto, treno, lungotevere: �“Ungran luogo dei ricordi �– scrive Tato Russo nelle notedi regia �– uno spazio vuoto di memoria, una perenneevocazione di fantasmi, un sorgere di anime vagantiche man mano prendevano i colori dei personaggi edegli interpreti�”. Non convincono le scelte di Russo,che sembrano ridurre il testo a un onirico passaggioda una scena all�’altra senza cogliere il �“frutto che sene può cavare�” (come dice lo stesso Pascal, nel capi-tolo finale, a proposito del suo racconto): le rifles-sioni del protagonista sono �“chiacchiere�” pococonsapevoli, e senza amalgamare il ridicolo e il tra-gico �– che insieme esprimono la consapevolezza diun�’esistenza assurda �– diventano macchiette autore-ferenziali. Misurarsi con testi così importanti è unascelta ambiziosa, ma talvolta necessaria nella vita ar-tistica di un regista: dispiace che Il fu Mattia Pascal inquestione brilli solo della luce del lanternino, unafiaccola �“che projetta tutt�’intorno a noi un cerchiopiù o meno ampio di luce, di là dal quale l�’ombra ènera�”.
Francesca Martellini
INTERPRETARE PIRANDELLO: PERCHÉ?IL FU MATTIA PASCAL, Teatro Quirino
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Teatro
Toni Servillo ha molto rispetto e ammirazioneper Eduardo. Lo chiarifica egli stesso:�“Eduardo De Filippo è il più straordinario eforse l�’ultimo rappresentante di una dramma-turgia contemporanea popolare: dopo di lui ilprevalere dell�’aspetto formale ha allontanatosempre più il teatro da una dimensione auten-ticamente popolare. È inoltre l�’autore italianoche con maggior efficacia, all�’interno del suomeccanismo drammaturgico, favorisce l�’in-contro e non la separazione tra testo e messain scena. Seguendo il suo insegnamento cerconel mio lavoro di non far mai prevalere il testosull�’interpretazione, l�’interpretazione sultesto, la regia sul testo e sull�’interpretazione.Il profondo spazio silenzioso che c�’è fra iltesto, gli interpreti ed il pubblico va riempitodi senso sera per sera sul palcoscenico, replicadopo replica�”. Queste profonde osservazioninell�’edizione di Servillo si tramutano in unospettacolo di particolare equilibrio registico,che rispetta totalmente la traccia di Eduardo,ma la rivitalizza senza alterarla. Il testo fucomposto dal commediografo napoletano insoli sette giorni nel 1948, per sostituire Lagrande magia, le cui repliche furono forzata-mente interrotte a causa di una malattia di Ti-tina. Con quest�’ultima opera e Questi fantasmi
si può parlare di una trilogia surreale diEduardo, dov�’è sempre presente una dimen-sione pirandelliana metateatrale, ma si puòquasi risalire alla dimensione onirica di moltoteatro strindberghiano. Il la viene dato dallagrande delusione subita da Eduardo nella ri-costruzione dell�’Italia. La guerra ha lasciatoferite profondissime nell�’animo umano, conun sfiducia generale e con un radicato so-spetto l�’uno nei confronti dell�’altro. La man-canza di stima reciproca è per Eduardo di persé un delitto, che può far scaturire nuovi de-litti. Egli scrive Le voci di dentro proprio sullemacerie della seconda guerra mondiale, evi-denziando con penetrazione quella tragica ca-duta di valori che poi segnerà purtroppo lasocietà, e non solo quella italiana, per i suc-cessivi decenni. Come sempre poi c�’è un ri-chiamo all�’attualità: alcune situazionirichiamano subito alla mente episodi di cro-naca nera che in quegli anni riempivano leprime pagine dei quotidiani: immeditato il ri-chiamo alla Cianciulli, la saponificatrice, nellafigura di donna Rosa che, per risparmiare,fabbrica in casa, un po�’ misteriosamente in-vero, saponi e candele. È molto spesso così nelteatro di Eduardo: un fatto di cronaca, l�’averavuto notizia di un�’ingiustizia fa scaturire
DUE GRANDI FRATELLI SERVILLO PER EDUARDOLE VOCI DI DENTRO, Teatro Argentina
Alberto Saporito (Toni Servillo).
VESPERTILLA - Anno X - n° 3 maggio-giugno 2013
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Teatronell�’autore la molla per comporre una suacommedia. L�’edizione di Toni Servillo, che in-terpreta anche il ruolo del protagonista Al-berto Saporito, sembra voler riprendere,attualizzandola, questa mancanza di valoriche tanto aveva colpito Eduardo. E con grandeintelligenza affida il ruolo del fratello del pro-tagonista, Carlo, a suo fratello Peppe che offreun�’interpretazione molto positiva, arricchitada una mimica straordinaria. Sicuramente deFilippo, che aveva composto spesso drammi,come Napoli milionaria!, Filumena Maturano,proprio per sé e per i suoi fratelli attori Pep-pino e Titina, sarebbe entusiasta di questascelta. Toni Servillo riduce la commedia diEduardo un po�’ all�’essenziale, togliendo al-cuni barocchismi, letterari e scenografici, chel�’autore partenopeo spesso utilizzava. Ne ri-sulta uno spettacolo essenziale, pulito, quasiminimalista, dal quale emergono con straor-dinaria potenza le interpretazioni notevolis-sime di tutto il cast, capitanato ovviamentedai fratelli Servillo. Le luci sottolineano l�’a-spetto legato all�’inconscio del testo, in traspa-renza si intravedono le sedie, patrimonio deifratelli Saporito che vivono in una particolare
abitazione in cui affastellano sedie perchésono �“apparecchiatori�” di feste, mestiere tipi-camente napoletano. Regia, attori, scene, luci:tutto contribuisce a delineare un quadro scon-solato del dopoguerra (ma s�’insinua prepo-tente l�’oggi�…), ove personaggio emblematicodiviene zi�’ Nicola Saporito, che da anni ormaiha smesso di parlare, perché ha compresocome sia del tutto inutile appunto parlare, epertanto comunica con i nipoti solo attraversolo scoppio dei fuochi d�’artificio, utilizzati ingenere per le feste. Vanno sottolineate serietàe umiltà di Toni Servillo: ai calorosissimi ap-plausi e alla conclusiva standing ovation, Ser-villo risponde uscendo alla ribalta sempre ecomunque con tutta la compagnia, senza con-cedersi qualche vezzo da divo, che potevaforse permettersi. Forse è l�’unico attore e regi-sta a interpretare egregiamente Eduardosenza imitarlo. Parafrasando Luigi Pirandelloche, quando vide proprio Eduardo de Filippointerpretare Il berretto a sonagli, disse �“Ciampaha trovato il suo interprete�”, si potrebbe direche in Toni e Peppe Servillo i fratelli Saporitohanno trovato i loro interpreti.
Maria Pia Monteduro
Carlo Saporito (Peppe Servillo), Alberto Saporito (Toni Servillo).
VESPERTILLA - Anno X - n° 3 maggio-giugno 2013
Come cinicamente e lucidamente raccontato da WainerMolteni nel recente Io sono nessuno, ogni persona, anchela più insospettabile, può divenire un barbone, un clo-chard, un underclasser, come si diceva in epoche dove l�’i-deologia contava. Roma �– Roma Capitale anzi, comepomposamente è definita �– lo sa bene e le sue strade, nonquelle periferiche, sono popolate, frequentate, abitate dapersone che fanno della strada, delle stazioni, la propriacasa, la propria vita. Questa è la traccia-base su cui simuove Gabriele Lavia, drammaturgo e regista, per il sag-gio di Diploma del III anno del Corso di Recitazione Ac-cademia Nazionale d�’Arte Drammatica Silvio d�’Amico,che ha coinvolto diciannove giovani attori. Le note diregia così spiegano: �“Ho chiesto ai giovani attori dell�’Ac-cademia d�’Arte Drammatica di raccogliere le testimo-nianze o confessioni (ma forse sarebbe meglio dire leconfidenze) di uomini e donne che vivono accanto ad altriuomini e donne con la casa. Cosa differenzia gli uni daglialtri? La casa, appunto. Non avere la casa è il buio perquesti uomini e donne. Vivere per la strada non ha luce�”.Giorni del buio quindi, dove buio è mancanza di rapportiveri, di solidarietà, di riferimenti personali, di speranza,di progettualità, di ricchezza di ricordi. Buio sociale,spesso buio ontologicamente personale e individuale. Lospettacolo ha la struttura quasi di una danza (coreogra-fia di Enzo Cosimi), ma pur se condotta a tratti anche conlevità, trattasi comunque di una danza macabra. Entranoin scena spingendo silenziosamente il proprio carrello,con le loro poche cose; sulle loro spalle di vinti pesa lacondanna, spesso definitiva e senza appello, all�’invisibi-lità. Uomini e donne, nudi nella loro sconfitta sociale,spesso esistenziale. Ai giovani �– bravissimi �– attori ilcompito di dare voce e visibilità a ognuno per i pochi mi-nuti che occupano, da protagonisti, la scena, uno allavolta, prima di ripiombare nel buio dell�’emarginazione.Un preciso disegno-luci aiuta a sottolineare la dispera-zione e la tristezza delle loro esistenze. Si assiste (decisa-mente infastiditi dalle risate sciocche e vacue di alcunispettatori, che confondono l�’amara ironia di alcune bat-tute con situazioni comiche!) a una triste mescolanza dietà, nazionalità, sessi, lingue: i reietti di Roma (ma maicome in questo caso Caput mundi) appaiono massa indi-stinta, ombre anonime, pur se ognuno si presenta connome, nazionalità e zona cittadina �“preferita�”. A pareredella scrivente avrebbe completato meglio il quadro,quasi agghiacciante, almeno un accenno a un�’indaginesociale e civile sul perché di queste tragedie, che sfioranoognuno di noi, senza quasi mai turbarci più che tanto.Forse però l�’intenzione dell�’autore-regista era di realiz-zare uno spettacolo-saggio, in cui gli interpreti non aves-sero punti di riferimento di personaggi teatralmente giàcodificati, presentando figure quasi �“anonime�”, da ve-stire con il proprio talento e la propria capacità interpre-tativa attoriale. In tal caso operazione riuscita. È giustoricordare i nome dei giovani attori, sperando che per lorosi aprano strade professionali degne di questo nome:Rosy Bonfiglio, Valentina Carli, Barbara Chichiarelli,Giulio Maria Corso, Flaminia Cuzzoli, Valerio D�’Amore,Alessandra De Luca, Arianna Di Stefano, Desiree Dome-nici, Carmine Fabbricatore, Giulia Gallone, Samuel Kay,Matteo Mauriello, Marco Mazzanti, Ottavia Orticello,Alessandra Pacifico Griffini, Gianluca Pantosti, EugenioPapalia, Matteo Ramundo, Veronica Polacco.
Maria Pia Monteduro
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Teatro
LA DANZA MACABRA DEL VIVERE AL BUIOI GIORNI DEL BUIO, Teatro Argentina
VESPERTILLA - Anno X - n° 3 maggio-giugno 2013
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TeatroVESPERTILLA - Anno X - n° 3 maggio-giugno 2013
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Teatro
Non è facile parlare e far vivere la musicain uno spettacolo teatrale. Dar corpo allenote e farle sussistere di vita propria. Non èfacile, ma quando si riesce il risultato èstraordinario. Questo è quanto è avvenutoin questo spettacolo, ideato, scritto, direttoe interpretato da Corrado d�’Elia. Si iniziacon l�’Ouverture di Coriolano , che già dàforza e potenza alla scena, per altro ridottaal minimo: uno sgabello alto, su cui è se-duto d�’Elia, un sapiente e ritmato gioco diluci, e poi ancora e sempre tanta e tantamusica. Quasi sempre di Ludwig vanBeethoven, ovviamente, ma anche di NicolòPaganini, di Gioacchino Rossini, per illu-strare al meglio la temperie culturale in cuioperò e compose l�’aquilotto di Bonn. Cor-
rado d�’Elia, con trasporto e intelligente pas-sione, racconta la vita straordinaria diBeethoven, non risparmiando di definirlopiù volte genio: tormentato, spesso infelice,umanamente incompreso (non artistica-mente), ma sempre genio. Solitario, invisoagli uomini, ma compagno fedele di una ca-pacità creativa e rivoluzionaria che fanno dilui un pilastro della musica e della culturatedesca, ma soprattutto europea. Un uomoche rompe gli schemi musicali in primis, maanche dei rapporti interpersonali, incurantedi convenzioni e prassi tradizionali, obbe-diente solo all�’imperativo categorico delsuo intelletto: creare musica, scrivere con-tinuamente, anche negli anni apparente-mente di silenzio creativo. Uno tra i
SULLE TRACCE DI UN GENIOIO, LUDWIG VAN BEETHOVEN, Teatro Belli
Corrado d�’Elia
VESPERTILLA - Anno X - n° 3 maggio-giugno 2013
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Teatro
maggiori compositori della storia della mu-sica colpito dalla più grande sciagura chepossa colpire un musicista: la sordità. MaLudwig non si arrende mai: compone, com-pone, compone. Nove sinfonie (nove capo-lavori), concerti, sonate, quartetti d�’archi,un�’opera lirica, sempre nuovi e rivoluzio-nari, sempre con il suo stile inconfondibilee pur sempre imprevisti e imprevedibili.L�’acme dello spettacolo (e l�’acme della vitaartistica di Beethoven) è narrato da d�’Eliacon un�’emozione che coinvolge il pubblico,straordinariamente numeroso e attento:dopo dieci anni di silenzio, nel 1824 Beetho-ven si ripresenta all�’intellighenzia e al po-polo di Vienna, città che comunque loconsidera un idolo, dirigendo la NonaSinfonia. Il pubblico viennese è in attesaspasmodica di conoscere l�’ultima creazionedi Beethoven, che infatti non delude: l�’im-missione in una Sinfonia del coro che cantal�’Inno alla gioia di Friedrich Schiller (1786)è, musicalmente parlando, sconvolgente! Ilpubblico lo capisce, ne resta folgorato e allafine, per tributare il proprio omaggio e rin-graziamento al musicista, lo �“applaude�”sventolando fazzoletti bianchi, sapendobene che Beethoven non avrebbe potuto go-dere del suono degli applausi. D�’Elia èun�’interprete coinvolgente: si emoziona,
spiega la musica con una semplicità e unacompetenza tali da far invidia a musicologie a insegnanti di musica. Sarebbe auspica-bile anzi che uno spettacolo simile sia por-tato nelle scuole, per far approcciare iragazzi, anche i bambini, al mondo dellamusica in maniera non fredda e pretta-mente teorica, ma appassionante e trasci-nante. Solo d�’Elia quindi, Ludwig vanBeethoven e un sapientissimo gioco di lucicoordinate alla musica stessa per uno spet-tacolo egregio, un piccolo capolavoro, dovel�’equilibrio tra parola, musica, luci non siinterrompe mai. In questi tempi bui e vol-gari un evento così riconcilia con il teatro,anche lui colpevole di aver, in troppi casi,rincretinito il pubblico con spettacoli leg-geri e superficiali, a volte camuffati con in-tellettualismi falsi e di maniera. Più di unapersona, compresa la scrivente, si sonocommosse durante lo spettacolo: non è su-perficiale dar spazio anche alle emozioninel seguire e recensire uno spettacolo. L�’im-portante, a parere di chi scrive, è che que-ste emozioni (come in questo caso) sianoguidate da un evento teatrale realizzato conrigore scientifico e con autentica professio-nalità. Corrado d�’Elia opera propriamentecosì.
Maria Pia Monteduro
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La ventesima edizione della rassegna Garofanoverde, la manifestazione pubblica �“più longevain Italia tra quelle basate su drammaturgia eperformance a tematica omosessuale�” �– comeha scritto il suo storico curatore, Rodolfo diGianmarco �– quest�’anno non ha potuto avva-lersi del sostegno economico del Comune diRoma: si spera in rapidi interventi della nuovagiunta, tali da consentire almeno una parzialeprogrammazione in autunno. Un così impor-tante anniversario non poteva però passareinosservato e, grazie alla collaborazione di piùsoggetti, è stato possibile festeggiare con un�’u-nica serata evento che ha visto in scena al Tea-tro Argentina lo spettacolo Still life diRicci/Forte, appositamente creato per l�’occa-sione. Il lavoro �– definito dagli autori come�“massacro a cinque voci per una vittima�” �– si èispirato al recente episodio del giovane stu-dente di un liceo romano impiccatosi perchévittima degli insulti omofobi dei suoi compa-gni; centrale, dunque, �“il tema della discrimi-nazione, del mobbing psicologico identitario chedetermina la repressione dell�’immaginazione espinge all�’autoannientamento�”. Un grido d�’ac-cusa che é segno d�’encomiabile sensibilità ci-vile, in un momento in cui si assiste al dilagaredirompente dell�’intolleranza e della violenzanei confronti di tutto ciò che viene percepitocome diversità; un appello per suscitare �“la re-sponsabilità dei cittadini della polis, dal mo-mento che per combattere la discriminazione�”�– così Ricci e Forte �– �“è necessario scuotere l�’in-differenza sociale e politica con atti di corag-gio�”. Il teatro è senz�’altro �“un mezzopotentissimo attraverso il quale esaltare il po-tenziale che c�’è nelle differenze tra gli esseriumani e lo strumento con cui comunicare nuovimodi di osservare la realtà, nel rispetto dellescelte e delle nature dei singoli�”, ma può assol-vere a questa funzione solo se attinge a risorsesue proprie, capaci di trasfigurare in poesial�’oggettività bruta della cronaca. Purtroppo, ca-pita spesso, andando a teatro, di ripensare alleparole di Jean Genet che, alla metà del secoloscorso, lamentava la pessima abitudine di cari-care gli spettacoli di �“intenti che hanno a chevedere con la politica, la morale, o chissà chealtro ancora�”, trasformando così �“l�’azionedrammatica in strumento didattico�”. E proprioquesto sembra il limite fortissimo di Still lifeche, pensato come una conferenza, riesce a con-centrare nei testi tutta una serie di luoghi co-muni sull�’argomento, raggiungendo in alcunipassaggi �– come ad esempio quello della cop-pia lesbo che parla dell�’educazione che vor-rebbe dare a un/a eventuale figlio/a �– livelli diinaudita banalità. Cosa c�’entra con l�’identità digenere il desiderio di insegnare ai propri figli anon azionare il tergicristallo quando al se-maforo si avvicina il lavavetro o a preferire il
calore degli abbracci degli amici all�’algido ri-flesso azzurrino dello schermo di un computer?Una qualsiasi coppia eterosessuale dotata dibuon senso condividerebbe questi desideri el�’intero repertorio delle buone intenzioni! Sulpalcoscenico dilatato fino a occupare tutta laparte centrale del primo settore di poltrone edelimitato sullo sfondo dal tagliafuoco abbas-sato, davanti al quale sono stati sistemati centi-naia di lumini accesi e usato come schermo perproiettare i nomi delle tante vittime, i cinque at-tori �– Fabio Gomiero, Anna Gualdo, LilianaLaera, Giuseppe Sartori e Francesco Scolletta �–vestiti da ragazzi perbene si muovono veloce-mente impegnati nel gioco dei mimi. Il gruppoè preciso e sicuro nei movimenti e s�’intuisce chel�’affiatamento è il risultato di un lungo lavorodi laboratorio. Dopo un�’ammiccante coreogra-fia sulle note di un brano di Shirley Ellis sientra nel vivo della conferenza-spettacolo che,anche questa volta, come in tutti i precedenti la-vori di Ricci/Forte, cerca il coinvolgimentodegli spettatori in un continuo processo osmo-tico con i performer. La radicalità di alcuneazioni teatrali, pur se tipiche dello stile voluta-mente dissacrante e iconoclasta degli artisti ro-mani, è sembrata forzata e, talvolta, pocorispettosa. Non disturbano certo le frattagliebovine maciullate con ostentato compiaci-mento; né l�’esposizione del corpo nudo di Fran-cesco Scolletta, deturpato dai rivoli di verniceematica che gli colano dalla bocca e dai segni diinchiostro nero che lasciano le suole degli an-fibi con i quali lo colpiscono i suoi compagni.Ma non si può davvero pensare, a parere dellascrivente, che sia legittimo �“smascherare il fan-tasma razzista�” che c�’è in ognuno di noi costrin-gendo il pubblico in sala ad accettare il bacioomosessuale imposto dai performer. E la spruz-zatina di deodorante per la bocca non rendecerto più accettabile la violenza dell�’atto perfor-mativo. Un susseguirsi frenetico di scene di cuinon si coglie la consequenzialità e la necessitàche confluiscono nella liturgia di catarsi collet-tiva con la quale, alla fine dello spettacolo, sullenote di La fine di Nesli, gli spettatori vengonoinvitati a scrivere su un tabellone posto al cen-tro della scena il nome di una persona cara cheha subito sulla propria pelle il dramma dell�’e-sclusione. La poesia è comunque riuscita adaprirsi un varco nella mole di metafore inutil-mente complesse, liberandosi leggera nel mo-mento in cui sono esplosi i cuscini chesoffocavano i volti degli attori: l�’unica imma-gine che rimarrà impressa, legata indelebil-mente al tema dell�’omofobia, sarà quella dellepiume che fluttuavano leggere nella sala, neitagli di luce creati dai fari, in un silenzio irrealee metafisico più potente ed espressivo di qual-siasi parola o astruso funambolismo.
Mariella Demichele
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DISCUTIBILE TENTATIVO DI AFFRONTARE L�’OMOFOBIASTILL LIFE, Teatro Argentina
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Giuseppe Sartori e Anna Gualdo.
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Liliana Laera, Anna Gualdo, Francesco Scolletta, Giuseppe Sartori.
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Teatro
Le botole del Teatro di Documenti si apronosu una tragedia vivida e reale scritta dall�’au-tore argentino Jorge Palant, una delle perso-nalità più vigorose del teatro argentino degliultimi decenni. La tragedia prende corpo gra-zie alla magia creata da Luciano Damiani, unodei massimi scenografi di tutti i tempi. Da-miani, dopo aver lavorato nei principali teatridi prosa e di lirica del mondo, decise di creareuno spazio che potesse esprimere la sua ideadi teatro, uno spazio che, senza rinnegare ilpassato e la tradizione, diventasse il �“teatroche prima non esisteva�”: il teatro dell�’assi-stere, del partecipare e della libera scelta. IlTeatro di Documenti, �“gioiello architettonico�”,è tutto questo, è teatro all�’ennesima potenza.Dunque le botole si aprono per dar vita a untesto che tratta una storia, una piccola storia,racchiusa in una più grande: la terribile ditta-tura del regime militare che ha dilaniato l�’Ar-gentina dal 1976 al 1983; un momento oscurodella storia, quando qualsiasi forma di oppo-sizione o dissenso non mancava di esseresoffocata con la violenza. Tradotta e diretta daAnna Ceravolo, la pièce inizia con una tangerache apre le porte per l�’ingresso delle attrici,poi esce di scena per scomparire dietro lequinte, lasciando il pubblico al caldo abbrac-cio della musica. La prima a entrare in scenaè una donna matura, Melissa, (Martha Cok),che si siede e comincia un racconto coivol-gente. Nel contempo, sul muro vengonoproiettate pagine di un calendario, il ricordodegli eventi mai dimenticati. Entra sulla scenain seconda battuta la protagonista della storia,Judit, interpretata da Cristina Maccà. Questinumeri e queste date scorrono sulle teste deglispettatori a ricordare che vent�’anni sono pas-sati dal tragico momento in cui il tempo, perl�’allora giovane Judit, si è fermato. Ha provatoa dimenticare Judit, ma come dimenticare l�’a-guzzino che ti ha dato una figlia. Sì, una figlia,Leda è il suo nome. Melissa, la tata, un po�’grillo parlante, spiega cos�’è accaduto neglianni della dittatura, quando la giovane Juditlottava contro il potere occulto, contro la suafamiglia potente, scontrandosi con il piùatroce dei destini. Aranda, criminale di guerrache il tribunale dovrà giudicare, è l�’uomo chela sequestrò e ne fece la sua schiava. Melissa,dopo aver fornito un quadro degli avveni-menti, lascia il palco e nel versante oppostodel ventre della balena del Teatro di Docu-menti, come per magia, un argano sollevaparte del palco: appare lui, Aranda (Francesco
Marzi). Judit vuole incontrarlo per dirglitutto, ma il dialogo fra i due è difficile. Lei gliha promesso di ucciderlo, ma ha mancato l�’oc-casione ben vent�’anni prima. Judit gioca con lasua ombra sul portale da cui, come una perlaspunta dall�’ostrica, è venuto fuori il coman-dante. È stata Judit a volere questo incontro,cerca un risarcimento morale, vuole che la ve-rità trionfi, e chiede a quell�’individuo perchéabbia accettato il suo invito. La sua rispostanon si fa attendere: �“perché sentire la tua vocemi ha fatto ritornare in mente l�’atmosferadella guerra!�”. Tutto il potere di un militare inuna dittatura si esprime nel disprezzo e nellaviolenza delle sue parole che raggelano Judit ela riconducano allo stato di paura in cui deveaver vissuto quando, pur di salvare la propriavita, è divenuta amante di Aranda. Quelli diJudit e Aranda sono corpi che resistono allospazio, rigidi, completamente privati di quellanecessaria comunione con lo spazio scenico,presenti nell�’assenza. Intercorre tra i due unasorta di coreografia statica dove, come il gattocon il topo, si stuzzicano, si provocano, sispingono e si sporgono sull�’orlo di orridi bara-tri psicologici. Si dipana un tragico minuetto,in cui i due protagonisti si parlano, ma i lorocorpi sono rivolti ai due opposti muri che de-limitano la scena. Si danno le spalle incar-nando l�’incomunicabilità dell�’odio, nato dauna violenza indimenticabile. Torna Melissa econ lei le immagini, stavolta quelle di Giudittae Oloferne, di cui racconta la storia, e diquanto Judit abbia osservato quel quadro. MaJudit nel confronto con il mito biblico, non ècosì forte o forse lo è anche di più. Riesce a li-berarsi del peso di un segreto che la divora,gli dice della loro Leda, la figlia nata dall�’odioe dalla violenza. Provocata e armata Judit re-siste, ancora una volta non spara, sarebbe lacosa più facile, ma si stanno riaprendo i pro-cessi per le stragi di guerra e Aranda teme latestimonianza di questa donna distrutta. Luiha una scintilla di malvagità negli occhi men-tre racconta la sua storia, la storia di ungruppo di militari contro ragazzi che giocanoai rivoluzionari. Questione di ruoli, dice; inquegli anni in Argentina c�’erano due tipi dipersone: quelli che credevano che le cose do-vessero cambiare e quelli che non pensavanoche qualcosa dovesse cambiare. Chi sa dire chiabbia prevalso! Ma almeno sulla scena, sarà lagiustistia e il tribunale a decidere chi avevaragione.
Concita Brunetti
TRAGICO MINUETTO DI CORPI PRESENTI NELL�’ASSENZAJUDIT, Teatro di Documenti
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Judit (Cristina Macchè) e Aranda (Francesco Marzi).
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Volterra Teatro festeggia il venticin-quesimo compleanno e, come ante-prima del Festival che si svolgeràdal 18 al 28 luglio, Armando Punzoe cinque dei suoi detenuti attorihanno incontrato il pubblico a Fi-renze al Gabinetto Vieusseux pressoPalazzo Strozzi. Già il titolo dell�’in-contro �– Mercuzio e altre utopie realiz-zate �– è una sintesi efficace dellarivoluzione culturale e sociale chePunzo ha operato nel carcere di Vol-terra: con un lavoro ostinato e silen-zioso ha trasformato questo luogodi reclusione in un centro di culturanel quale, oltre alle centinaia dispettatori che accorrono ogni estate,a fine luglio, per assistere allo spet-tacolo della Compagnia della For-tezza, s�’incontrano tutto l�’annostudiosi di teatro e studenti di tuttoil mondo, attratti da questa espe-rienza unica al mondo. Attraverso iframmenti di alcuni degli spettacolipiù importanti e i contributi di qua-lificati ospiti che �– come si legge nelcomunicato stampa �– �“da sempresono stati spettatori di quest�’espe-rienza, ma che ora fanno parte, atutti gli effetti, della vita, della sto-ria e della realizzazione di questautopia�”, il pubblico ha ripercorso letappe principali della storia dellaCompagnia. Il viaggio è cominciatocon la testimonianza di GianfrancoCapitta che ha parlato della suaesperienza di spettatore del primospettacolo della Compagnia, LaGatta Cenerentola, nel 1989. Lavoroestremamente godibile che sprigio-nava una forza capace di rompere iconfini fisici e mentali imposti dallarealtà carceraria. Gli spettatori, sor-presi dall�’inconsueta immagine divirili attori en travesti che sotto levaporose gonne bianche lasciavanointravedere polpacci tatuati, veni-vano letteralmente travolti da quel-l�’energia scenica che è rimasta unadelle caratteristiche principali ditutti gli spettacoli successivi, oltre aldesiderio di ricerca estetica da con-durre attingendo a ogni singolo ele-mento del linguaggio teatrale.Autore dei costumi fu Tobia Erco-lino, artista che l�’anno precedenteaveva lavorato per Le Troiane diThierry Salmon. Grande conquista,nel contesto carcerario, fu quella diottenere dagli attori che interpretas-sero parti femminili: unico ruolo
MERCUZIO E ALTRE U
Incontro per il venticinquennale della Compagnia della Fortezza al Gabinetto Vieuss
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UTOPIE REALIZZATE
eux a Firenze.
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Teatroche rifiutarono fu quello del �“femminiello�” chetoccò �– ricorda divertito Capitta �– allo stesso Ar-mando Punzo. Sulla processualità della costru-zione drammaturgica e del lavoro con gli attoricome elemento specifico della maieutica teatraledi Punzo si sono soffermati molti degli ospitidella serata. Teresa Giannoni, giornalista e au-trice del libro La scena rinchiusa, tra i primi lavoridedicati alla Compagnia della Fortezza, ha rac-contato dei lunghi pomeriggi in carcere durantela preparazione dello spettacolo Masaniello del1990, dello straniamento provato dal lei, unicadonna, in un ambiente tutto maschile in cui iltempo veniva scandito dai rituali del caffè e dellesigarette. Interminabili tempi d�’attesa in cui si al-ternavano pieni e vuoti, silenzi e intense discus-sioni, in cui sembrava non succedesse niente finoall�’esplodere improvviso e dirompente dellascintilla creativa. Un continuo rimescolarsi diumori ed energie che la sensibilità artistica eumana di Punzo riesce a trasformare in azioneteatrale. Sul fascino del processo creativo ha in-sistito anche Piergiorgio Giacchè, il quale, a par-tire dalla sua prima visita in carcere per unaconferenza su Masaniello, ha maturato la convin-zione che il complesso lavoro della Compagniasia stato, e continui ancora a essere, alimentatodal contrasto tra la duplice identità del dete-nuto/attore e tra la grandezza del luogo/carcere,rappresentato dall�’imponente fortezza medicea,e l�’esiguità dello spazio/teatro, collocato, ancoraoggi, in una ex-cella di tre metri per nove. Con-trasto che non può e non deve essere sciolto e sulquale sarebbe opportuno riflettere, a più livelli,per comprendere in che modo sia stato possibiletrasformare il carcere in un luogo di cultura cheavrebbe molto da insegnare a tanti Teatri Stabiliitaliani, che si limitano a replicare stancamenteforme e modelli oltremodo datati. Il teatro di Ar-mando Punzo è teatro di poesia, qualità che sievidenzia, come spiega Giacomo Trinci, nella�“radicalità con la quale si pongono le domandeprincipali, senza intellettualismi pacificanti�”. Ilconfronto con le opere-mondo avviene in mododa portare a una totale destrutturazione dellaforma che �“invade�” il nostro mondo, generandoun processo oppositivo. Gli spettacoli della Com-pagnia non sono �“oggetti torniti da portarsi acasa�” ma sfida continua a mettersi in discus-sione; un�’idea di teatro come �“rivelazione e pro-vocazione�” che, per le sue implicazioniestetico-poetiche, andrebbe paragonato �– cosìGoffredo Fofi �– alla ricerca artistica di autoricome Scaldati e Ciprì e Maresco. Sulle dinamichedel rapporto con gli spettatori si è soffermataanche Cristina Valenti, ricordando lo spettacoloLa prigione, ispirato a The Brig di Kenneth H.Brown; rappresentato in carcere nel 1994, fu in-serito due anni più tardi nel programma di unamanifestazione teatrale a Forlì durante la qualela curiosità un po�’ morbosa del pubblico si tra-sformò in pieno apprezzamento e riconosci-mento del valore artistico di quel lavoro cheJudith Malina, storica fondatrice del LivingTheater, aveva definito un �“urlo�”, per la sua ca-pacità di comunicare, attraverso la trasfigura-zione artistica dei racconti degli attori,
l�’assurdità del sistema concentrazionario. Lospettatore, dunque, non è un semplice fruitore:gli si chiede di �“farsi�” il suo spettacolo muoven-dosi da un luogo all�’altro �– come accadeva nel la-birinto dell�’Orlando furioso nel 1998, nell�’Operada tre soldi del 2002 e nei Pescecani del 2003, finoall�‘Hamlice del 2010 �–, di accettare sarcasmo edissacrazione �– come in Budini, capretti, capponi egrassi signori ovvero La Scuola dei Buffoni, spetta-colo del 2006 ispirato a Rabelais �– , ma anche mo-menti che Gabriele Rizza ha definito di�“rarefazione onirica�” �– come nell�’Amleto del 2001�– o liberatori, nei quali lasciarsi andare alla feli-cità di una ritrovata fanciullezza �– come avve-niva nel momento finale del lancio delle letterein Hamlice o passeggiando nel luna park popo-lato di elfi e fate in P.P. Pasolini ovvero Elogio aldisimpegno del 2004. Storia lunga e complessaquella della Compagnia della Fortezza che saràpossibile ripercorrere nel libro intitolato È aivinti che va il suo amore, che le edizioni Clichystanno preparando per celebrare questo impor-tante anniversario, e del quale sono state datedelle anticipazioni; una storia che non si sarebbemai potuta realizzare se l�’intuizione di ArmandoPunzo non fosse stata inizialmente accolta daRenzo Graziani, Direttore del carcere di Volterra,e costantemente sostenuta, nel corso degli anni,dalla Provincia di Pisa e dalla Regione Toscana,che continuano a investire in questo progetto,nonostante le attuali difficoltà economiche per-ché �– come ha ricordato l�’Assessore Scaletti �– èsempre più importante tutelare l�’importanzadella �“parola�” che consente il teatro, soprattuttoin luoghi come il carcere, per loro natura desti-nati alla rimozione e al silenzio. Un impegno chenon ha niente a che vedere con l�’azione sociale eil pietismo, ma radicato nella volontà di faremergere attraverso l�’arte quel �“meraviglioso po-tenziale che è in ognuno�” e che �– come scrivePunzo �– è �“piagato da una natura che non credein niente, che tutto imbriglia, imprigiona e giu-stizia�”. La scelta di confrontarsi con le opere diJean Genet per lo studio che la Compagnia pre-senterà in carcere durante il Festival non è ca-suale, ma deriva proprio dal bisogno di �“darevoce ai muti�”, di �“portare ad un livello esteticociò che è impossibile esaltare�”. La scoperta delladignità del lavoro nell�’esperienza della praticateatrale, il confronto serrato con le grandi do-mande che da sempre agitano il cuore dell�’uomo,sono i presupposti che rendono possibile la tra-sformazione di tutti i soggetti coinvolti; processolento e doloroso in cui ognuno dei detenuti/at-tori cerca di ricostruire se stesso come persona,per ritrovare �– come ha ricordato la Dott.ssa An-tonietta Fiorillo, Presidente del Tribunale di sor-veglianza di Firenze �– �“quella identità di sé chehanno perso commettendo delitti�”. In quellacella di tre metri per nove, allora, il teatro non èsolo una delle possibili attività trattamentali cheil carcere può offrire: lì si �“disfa e si rifà l�’uomo�”.Motivo che sembra più che sufficiente per augu-rare alla Compagnia della Fortezza che il pro-getto di un Teatro stabile all�’interno del carceredi Volterra possa al più presto diventare realtà.
Mariella Demichele
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Armando Punzo e Gianfranco Capitta.
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Armando Punzo e Goffredo Fofi.
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Teatro
Un�’altra grande attrice, forse l�’ultima diva, la-scia la scena. Rossella Flak è morta all�’età diottantasei anni e la camera ardente è stata al-lestita nel Teatro Eliseo, di cui è stata dal 1981al 1997 assieme a Umberto Orsini direttoreartistico, e nel cui palazzo viveva. La Falk �– ilcui vero nome era Rosa Antonia o RosellinaFalzacappa �– aveva un tratto distintivo cheesaltava ancora di più il suo straordinario ta-lento: era regale, quasi austera, di una bel-lezza algida. L�’attrice ci scherzava sopra,dicendo che la scelta dei personaggi da inte-pretare era determinata anche dalla sua al-tezza, notevole per quegli anni (�“Essere altaun metro e settantasei, che ai miei tempi eradavvero molto, mi ha impedito di interpre-tare certi ruoli tradizionali come Ofelia o Giu-lietta, insomma quelle fanciulle vulnerabili,palpitanti. Fui sempre chiamata a imperso-nare donne di grande carattere, inavvicina-bili. Ma io non sono così�”). Eccezionaleinterprete teatrale di autori contemporanei,che aveva conosciuto personalmente (adesempio Tennessee Williams), il grande saltonella storia dello spettacolo avviene primacon la compagnia Paolo Stoppa-Rina Morellie poi quando diviene tra le fondatrici e le co-lonne portanti della Compagnia dei giovani,assieme a Romolo Valli e Giorgio De Lullo.Fu questa compagnia che ebbe il merito didiffondere il teatro di Pirandello, interpretan-dolo in maniera filologica, ma nel contemporiuscendo a divulgarlo. Pur se si sentiva prin-cipalmente attrice teatrale, la Falk lavoròanche nel grande cinema: basti ricordare 8 e½ di Federico Fellini (1963) e Quando muoreuna stella di Robert Aldrich (1968). Donna digrande ironia e autoironia, si divertiva moltoquando la chiamavano �“la Greta Garbo ita-liana�”, per la sua eleganza innata e per quelpizzico di apparente alterigia che invece erasolo un atteggiamento scherzoso, non sem-pre compreso: come ebbe a dire la stessaFalk: �“Fin dai primi momenti della mia car-riera mi sono sentita guardare in un certomodo, quasi che gli altri avessero soggezione.Mi vedevano alta, regale, con un�’attitudinenaturale a mettere in riga la gente. Entravo inscena, o in una stanza, e mi rimiravano comela Madonna�”. Grazie alla sua reale amiciziacon il soprano greco, seppe portare in scena,con grande affetto e verosimiglianza, la bio-grafia di Maria Callas nel 2004 con Vissi d�’arte,vissi d�’amore. Forse, tra le tante, la migliore de-finizione l�’ha offerta Roberto Herlitzka ilgiorno delle esequie alla Chiesa degli Artistidi piazza del Popolo ricordando �“quell�’iro-nia un po�’ beffarda che sembrava dicesse anoi attori: voi recitate, io parlo�”. Un altrograve lutto quindi nel panorama teatrale ita-liano, accresciuto dal fatto che si avvertecome, purtroppo, molti di questi artisti nonhanno assolutamente degni sostituti.
Maria Pia Monteduro
DONNA DI CLASSE ATTRICE DI CARISMARICORDANDO ROSSELLA FALK
Rossella Falk.
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Federico Fellini e Rossella Falk alla prima di Otto e 1/2 (1963).
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Franca Rame in Lo stupro.
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Gad Lerner, compagno di scuola di JacopoFo e quindi amico e frequentatore da sem-pre della famiglia Fo-Rame, dà, a pareredella scrivente, forse la migliore definizionetra le tante che si sono lette su Franca Ramedopo la sua morte: una leonessa. Bella conla sua biondissima criniera, fiera, dotata dicarisma, indomabile e indomata (ci prova-rono anche con lo stupro�…), donna sul pal-coscenico, attrice nella vita. Una personache non voleva e non sapeva distinguerel�’impegno sociale da quello politico, daquello artistico da quello civile: straordina-ria sintesi di impegno totale e totalizzante,autentica risorsa per la cultura e la demo-crazia. Una leonessa in tutte le occasioniforti della sua vita: quando con il maritoDario Fo lasciò l�’ETI, struttura forte e cheproteggeva gli attori, per approdare a situa-zioni teatrali-organizzative più rischiosema più libere; quando non si fece intimidiredalla censura RAI; quando decise di por-tare sulla scena, senza sconti né addolci-menti, il dramma dello stupro subito adopera di cinque neofascisti, che obbedivanoa non si sa chi�…. Una leonessa nel gestire levarie difficoltà di una compagnia libera, nelvoler contribuire allo sviluppo di SoccorsoRosso, nell�’insistere e ottenere che i pro-venti del Nobel andassero quasi completa-mente in beneficenza. Una leonessaapparentemente in secondo piano nei con-fronti del marito leone, che invece nel rice-vere proprio il Nobel nel 1999 riconobbepubblicamente che Dario senza Franca nonsarebbe mai stato Dario Fo. Una leonessanel gestire il rapporto di coppia, fortissimoma comunque anticonvenzionale, con unagestione quasi �“pubblica�” delle crisi che,come ogni coppia, attraversarono. Una leo-nessa conscia della propria bellezza e avve-nenza, che però, incredibilmente, nonriusciva a far capitolare il giovane e un po�’imbranato Dario Fo, finché, come semprespiritosamente ricordava, non fu lei a pren-dere l�’iniziativa. Una leonessa nel gestireun amore e un sodalizio artistico quasiunico nel panorama del teatro italiano. Edè stata una leonessa anche in politica, nellasua breve parentesi istituzionale in Senato,dal quale si dimise amareggiata e nauseata,ma soprattutto nella sua militanza continuae indefessa da parte degli ultimi e degliemarginati, soprattutto in termini politici esociali. Di lei, per fortuna, rimangono mol-tissime testimonianze artistiche e civili,libri, registrazioni video, atti parlamentari,interviste, scritti autografi e via discor-rendo. Sarebbe importante che questasgangherata Italia, non solo artistica ma so-prattutto civile, ricordi di lei (per imitarla)la fierezza e la dignità della leonessa.Franca Rame Fo ne sarebbe sicuramente or-gogliosa.
Maria Pia Monteduro
LEONESSA INDOMITARICORDANDO FRANCA RAME
Franca Rame in Mistero Buffo.
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Don Andrea Gallo e Franca Rame.
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Un film su Roma, sulla Roma di oggi, come negli anni�’60 lo fu la felliniana Dolce vita. Lì guidava un giornali-sta, Marcello Mastroianni, qui un intellettuale, Toni Ser-villo. Ma cosa vuol dire magnificare la bellezza diRoma? Per certe cose basta dire �“Roma�”, oppure am-mirarla come lo fanno gli orgogliosi romani e i milionidi turisti e pellegrini che la sfiorano senza conoscerla.Paolo Sorrentino invece vuole anatomizzarla, sperandodi farla sfolgorare con inquadrature che certo non stu-piscono chi Roma la conosce o con volute, ma inutili, ci-tazioni felliniane. Inutili perché fuori luogo e perchévuotate del proprio senso nel momento che vengonoestrapolate dal rigido contesto in cui, con alta valenzastilistica, le aveva incastonate il regista riminese. Felliniè stato forse il più grande cantore di Roma, lo è stato inLo sceicco bianco, La strada, Il bidone, Le notti di Cabiria, Ladolce vita, Giulietta degli spiriti, Fellini Satyricon, Roma, eda ultimo, con sguardo diverso, Toby Dammit, maanche L�’intervista. Per Fellini Roma e il suo hinterlandsono lo scenario naturale del suo fare cinema: la citasempre, ma mai in maniera scontata, la guarda dall�’altocon gli occhi del Cristo che vola nelle prime sequenzede La dolce vita; la fa protagonista di se stessa in Roma,e poi è sempre lì che occhieggia, forse un po�’scontrosa,quasi nume tutelare, o musa ispiratrice, che mai abban-dona il regista. Quasi a ogni volger di decennio Fellinila rimedita e la affresca. Altra cosa è il film di Sorren-tino. Egli racconta, senza affrescare, una delle Rome dioggi. Ma Roma non occhieggia, Roma non tutela, sem-bra un collage sbagliato, Roma si è ritirata e si offre soloa pochi: a chi è in grado di cogliere il suo spirito e sa cer-carla rispettandola. Ogni tanto le vicende del protago-nista si svolgono in situazioni romane, ma chepotrebbero anche svolgersi in altri luoghi e a volte sonosolo forzate. In Roma Fellini racconta Palazzo Altieri epiazza del Gesù incontrando Anna Magnani, che rien-tra, e un po�’lo sfotte, nella sua abitazione proprio a Pa-lazzo Altieri. In La grande bellezza Toni Servillo incontrain via Veneto, richiamo estremo, un vecchio amico chelo fa entrare in un locale che gestisce. Ma la scena po-teva svolgersi dappertutto: a Broadway o a Place Pi-galle o ancora a Soho. Sicuramente una certa Roma ècome quella descritta da Sorrentino, ma è una Roma diestrema nicchia, una Roma di intellettuali falliti, di pre-lati tra quelli combattuti da papa Francesco, di nobilipiù che decaduti e di rami più che cadetti, che utiliz-zano la propria storia solo per alzare il prezzo dellecomparsate di cui vengono richiesti. Ma Roma non èsolo questo. La �“dolce vita�” fu sì un episodio effimeroe fugace, ma direttamente o indirettamente coinvolsetutta la città e tutta la sua popolazione: questo lesse e af-frescò Fellini. I protagonisti del film di Sorrentino in-vece si conoscono e si riconoscono solo tra di loro e lospettatore addirittura conosce e riconosce solo Toni Ser-villo e non il suo personaggio. Forse, anche se �“con i see con i ma la storia non si fa�” senza Fellini e senza il ci-nema italiano degli anni �’60, La grande bellezza potrebbeessere ascritta tra i capolavori, ma in questo caso i metridi giudizio sarebbero radicalmente diversi. Di questofilm, a parte le citazioni, rimarrà solamente la grandeinterpretazione di Toni Servillo, che, se paragoni si de-vono fare, è l�’unico aspetto del film che non fa rimpian-gere Marcello Mastroianni. Se Servillo fosse americanoavrebbe già ricevuto l�’Oscar e non solo uno.
Luigi Silvi
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Cinema
SERVILLO COMELA GRANDE BELLEZZA, PAOLO SORRENTINO
Jep Gambardella (Toni Servillo).
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Cinema
E MASTROIANNIVESPERTILLA - Anno X - n° 3 maggio-giugno 2013
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CinemaVESPERTILLA - Anno X - n° 3 maggio-giugno 2013
Jep
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Cinema
Marcello Rubini (Marcello Mastroianni) e diva americana (Anita Ekberg) in La dolce vita, regia Federico Fellini, 1960.
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Diva americana (Anita Ekberg) in La dolce vita, regia Federico Fellini, 1960.
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Piazza Santa Maria in Trastevere da Roma, regia Federico Fellini, 1972.
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Trinità dei Monti da Roma, regia Federico Fellini, 1972.
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Non s�’illuda nessuno, a meno che nonpossieda un conto in qualche banca (me-glio all�’estero�…) con cifre dai molti zeri: ilconfine tra benessere e miseria, tra rispet-tabilità e vergogna, tra integrazione edemarginazione sociale è estremamente la-bile e dietro l�’angolo, per una fascia sem-pre più ampia di popolazione, c�’è lospauracchio della povertà conclamata,non più mimetizzabile. E come per viverela propria vita individuale di essereumano è necessaria una buona dose diequilibrio, così per salvarsi in una societàtrita-tutto bisogna trasformarsi in equili-bristi. Ne sa qualcosa Giulio (un validoValerio Mastandrea, David di Donatello2013 �– miglior attore protagonista, Pre-mio Francesco Pasinetti a Venezia 2012come attore protagonista) che, causa unasua infedeltà, è trascinato dalla moglie inun divorzio che lui non vuole, ma checerca di subire con rispetto e dignità. Perlui è sempre più difficile dare gli alimentialla famiglia e mantenere se stesso, cer-cando di sopravvivere al dolore perso-nale e alla povertà sempre più vicina.Ivan De Matteo offre uno spaccato abba-stanza veritiero e sensibile dell�’Italiad�’oggi, con qualche punta di sentimenta-lismo che poteva essere risparmiata, macon molta verosimiglianza. Battutachiave del film è probabilmente �“Il divor-zio è per i ricchi, quelli come noi non se lopossono permettere�”, che non lascia certoscampo a illusioni e a speranze di happyend. Un�’Italia per ricchi quindi, una so-cietà che non aiuta né le mogli né i maritiseparati, e che troppo spesso si affida asoluzioni, egregie e meritorie, ma pursempre private quali, ad esempio, la Ca-ritas. E chi ne fa le spese è la persona ma-gari più sensibile o più sprovveduta. Cosìspecifica il regista, spiegando che il pro-tagonista arriverà a �“un suo vero e pro-prio scollamento con la società. Giuliocontinuerà a raccontare a tutti, famigliaried amici, che sta bene e se la cava, ma ov-viamente non è così�… è la vergogna chelo fa agire in questo modo. E non vi èpeggior sentimento che la vergogna versogli altri e, soprattutto, verso sé stessi dasaper affrontare, perché è qualcosa di im-palpabile, non è visualizzabile, ma che titrascina a fondo�”. Certo, è una storia cheVittorio De Sica, mutatis mutandi, avevagià raccontato in Umberto D con risultatiinnegabilmente diversi e superiori. Ma èpur importante che il cinema italiano af-fronti ancora le realtà sgradevoli della so-cietà, come i nuovi poveri, anche se lesoluzioni, purtroppo, non sono mai indi-cate.
Maria Pia Monteduro
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Cinema
SUL FILO DEL RASOIO SOCIALEGLI EQUILIBRISTI, IVANO DE MATTEO
Giulio (Valerio Mastandrea).
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Cinema
Giulio (Valerio Mastandrea).
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Violeta Parra è figlia d�’arte, ilpadre insegnante di musica, ilfratello poeta. Causa gravi pro-blemi economici della famiglia,decide di cantare e suonare in-sieme ai fratelli per le strade,nei circhi ambulanti, sui treni eanche nei bordelli; Violeta sce-glie di studiare i generi poeticipopolari, uscendo dalle stradedel folklore tradizionale, cer-cando le radici musicali del pro-prio popolo. Dopo un recital acasa di Pablo Neruda, vienechiamata da Radio Cile per unprogramma sul folklore locale: èdiventata uno dei maggiori co-noscitori della musica popolarecilena e cerca di conservare lagrande tradizione orale, regi-strando quanto più materialepossibile. Negli anni �’50 compieuna serie di tournée che la por-tano in Europa. Nel 1964 è laprima donna latino-americana aesporre le proprie opere in unapersonale al Louvre: nella se-zione arti decorative propone ipropri arazzi. In Cile installa ungrande tendone, la carpa de laReina, alle porte di Santiago, conl�’intenzione di costituire un cen-tro culturale per le ricerche sulletradizioni popolari; è sostenutain particolare da Victor Jara, manon riesce a ottenere l�’interessedel grande pubblico. Nel 1967, acinquant�’anni, colpita da graveforma depressiva, si suicida. Ilfilm cerca di cogliere il caratteree le vicende personali di unagrande artista poliedrica e diuna ricercatrice, che salverà daperdita irreparabile il patrimo-nio musicale del popolo cileno,e di leggere attraverso le sue vi-cende personali, sia artisticheche private, la sua vita intensa ele motivazioni che l�’hanno por-tata alla tragica scelta definitiva.Andrés Wood riesce a proporrein maniera credibile una Violetasia pubblica che privata.
Luigi Silvi
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Cinema
VIOLETA PARRA E LA CANZONE POPOLAREVIOLETA PARRA WENT TO HEAVEN, ANDRÉS WOOD
Violeta Parra (Vanesa González).
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Violeta Parra (Vanesa González).
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CinemaVESPERTILLA - Anno X - n° 3 maggio-giugno 2013
Libertà serena o solitaria rinuncia a unavita piena? Irene (Margherita Buy, inec-cepibile come sempre) di professione fala cosiddetta ospite a sorpresa, vale a direuna persona che, rigorosamente in inco-gnito, visita alberghi a 5 stelle per con-trollare che tutto mantenga il lorostandard di lusso, dalla temperatura giu-sta del brodo servito in camera alla puli-zia sotto i letti alla cortesia non invadentedel personale. Lei vive così, viaggiandocontinuamente, mantenendo uno splen-dido rapporto di vera amicizia con l�’ex-fidanzato Andrea (Stefano Accorsi,preciso nel delineare il personaggio) econ la sorella molto diversa da lei. Ireneè serena, non le manca nulla, viaggia solaper lavoro e nella vita. Ma quando An-drea le confida che una donna con cui haavuto una fuggevole storia è rimasta in-cinta e vuole tenere il bambino, Irene ini-zia a vivere una crisi personale. Farlariflettere con profondità sul suo modo divivere sarà compito di Kate Sherman, an-tropologa inglese incontrata a Berlino. Ilfilm si interroga con intelligenza e senzaarroganza sulla generazione dei quaran-tenni, schiacciati forse dall�’ultima gene-razione che ha creduto nell�’impegno, macomunque meno disincantati e cinici deigiovani venticinquenni che si stanno af-facciando, senza alcuna speranza, almondo del lavoro e dei sentimenti. MariaSole Tognazzi, al suo terzo lungometrag-gio, ha creduto nella forza e nella validitàdi una solitudine, purché sia ricca di sag-gezza e non autoreferenziale, e, assiemeagli sceneggiatori Francesca Marciano eIvan Cotroneo, suoi coetanei (�“Siamotutti e tre quarantenni, tutti e tre non spo-sati, tutti e tre senza figli, e stiamo benecosì�”) ha costruito una storia credibile,pur se la protagonista svolge un lavoroquantomeno �“raro�”. Il film ha riscossoun successo superiore alle aspettativedella stessa regista, sicuramente anchegrazie ai protagonisti: la Buy infatti haottenuto il David di Donatello come mi-gliore attrice protagonista, e la stessa re-gista il Nastro d�’argento per la migliorecommedia. Un film gradevole, che fa sor-ridere e riflettere e non ha atteggiamentida �“trancia-giudizi�”. Sembra suggerireche il vecchio adagio �“meglio soli chemale accompagnati�” sia sempre valido,ma che la scelta di solitudine non deveessere una fuga dalla condivisione diprogettualità, né difesa dalla paura disoffrire. Se è la risposta a una reale esi-genza diviene sola beatitudo, ma non devechiudere la porta aprioristicamente anessun tipo di amore, amicizia, affetti-vità.
Maria Pia Monteduro
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Cinema
BEATA SOLITUDO SOLA BEATITUDO?VIAGGIO SOLA, MARIA SOLE TOGNAZZI
Irene (Margherita Buy).
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Irene (Margherita Buy).
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Nel 1988, costretto dalle pressioni internazionali, ilgenerale Augusto Pinochet, da quindici anni ditta-tore del Cile dopo aver preso il potere con un san-guinoso colpo di stato e con l�’assassinio delPresidente in carica democraticamente eletto Salva-dor Allende, dopo aver torturato gli oppositori estroncato nel sangue ogni tentetivo di pensiero di-verso dal suo, indice un referendum sulla propriapermanenza alla Presidenza. È convinto di vincere:crede infatti che i Cileni alla libertà preferiscano unordine sicuro, anche se basato su violenza, ingiusti-zia, torture e assassinii. L�’opposizione democri-stiana, comunista e socialista compie un azzardo eincarica della gestione della campagna referendariaun giovane pubblicitario, che lavora per un impor-tante studio americano, René Saavedra (Gael GarciaBernal) (gli Americani, che sostennero pesantementeil golpe contro Allende, ora si accingono a cambiarecavallo). Il giovane sfacciato e spregiudicato, cheperò s�’innamora della causa, capisce, e convince ileader dell�’opposizione, che non si vince ricordandole brutture e le violenze, ma dando speranza, per-ché il mondo è cambiato e non è più quello deitempi di Allende. La vittoria viene raggiunta conquindici minuti di spot televisivo quotidiano nei 27giorni di campagna elettorale, con lo slogan Chile l�’a-legria ya viene. Quando una parte dello spot vienecensurata dai militari, in quello del giorno seguenteappaiono le manifestazioni di piazza contro la cen-sura. Il NO, è storia, è quasi plebiscitario: il Cile silibera di uno dei peggiori dittatori della storia delXX secolo senza spargere una goccia di sangue. Nonc�’è possibilità però di proporre un sistema alterna-tivo a quello capitalista , non c�’è spazio per marxi-smo e/o teologia della liberazione: libertà sì, dirittisì, giustizia sì, ma all�’interno di un sistema di mer-cato. Il film è girato con macchine da presa analogi-che per non far pesare la differenza tra i filmati deglianni �‘70 e quelli girati oggi. L�’opera di Pablo Larrainpone la politica di fronte a due grandi dilemmi: sipuò vincere una consultazione popolare senza uti-lizzare al meglio le tecniche avanzate di pubblicità edi marketing, ed è possibile costruire un sistema al-ternativo a quello capitalista, o si può soltanto im-brigliare questo all�’interno di regole certe econdivise? La risposta sta, purtroppo, nel fatto che,anche se benauguratamente, i Cileni hanno scelto lasperanza. Il regista coglie puntualmente tutte le am-biguità e le difficoltà che si palesano per la primavolta drammaticamente nel referndum cileno. Lastampa italiana di destra esprime ancora una voltasu questo film la propria volgarità, la propria po-chezza, la propria ignoranza, la propria arroganza,scrivendo che il film ha poca suspence (beceri e ridi-coli!) e definendo in termini offensivi l�’attore Bernal�“nanerottolo messicano�”. Guai però a chi in Italiaosa far satira o ironia sulla bassa statura di alcunidei leader della destra...! Questa destra vergognosaancora una volta si qualifica da sola: l�’opposto diogni formula democratica e nessun rispetto per ladignità degli avversari.
Luigi Silvi
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POLITICA TRA MARKNO. I GIORNI DELL�’ARCOBALENO, PABLO LARRAIN
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KETING E MERCATOVESPERTILLA - Anno X - n° 3 maggio-giugno 2013
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CinemaVESPERTILLA - Anno X - n° 3 maggio-giugno 2013
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Ali Aydin, regista turco nato nel 1981, ha vinto,meritatamente, il Premio Luigi De Laurentiis perla migliore opera prima alla sessantanovesimaMostra del Cinema di Venezia. Un film da piùparti definito neorealista, l�’accanimento disperatodi un padre che non si arrende e continua nono-stante tutto a chiedere notizie del figlio arrestatoper le proprie idee politiche e sparito diciottoanni prima: nonostante arresti, torture, rispostevaghe ed evasive, tentativi di stupro, intimida-zioni varie, non si arrende e continua a scrivereogni mese due lettere, una al Ministro dell�’In-terno e una alla Questura, per sapere che fineabbia fatto il figlio. Basri (un intenso Ercan Kesal,attore già apprezzato in altre pellicole turche),questo il nome del padre indomito, ha cinquanta-cinque anni e di lavoro fa il controllore di binari.Cammina ogni giorno, che piova o tiri vento, perventi chilometri, da solo, con l�’unica compagniadi una radiolina. Solo al mondo �– anche la moglieè morta �– Basri non si arrende, non può arren-dersi. Personaggio, per stessa ammissione del re-gista, dostoevskiano, quest�’uomo è larappresentazione della coscienza che non siferma, che non ammette sconti, che non si fa com-prare: �“l�’elemento che mi ha portato a scriverequesta storia è stato la mia coscienza. Scrivendo,volevo mettermi in pace con lei e fare in modoche la tragedia delle persone scomparse pesassesulla coscienza di tutti. Durante la fase di scrit-tura, che è durata sette anni, sono stato colpito dadue cose: la prima riguarda senz�’altro le storiedelle famiglie devastate degli scomparsi, la se-conda è legata invece alla lettura di Dostoïevski,che descrive con acume in quasi tutte le sue operela solitudine, le nevrosi, i sensi di colpa, i dubbi,le malinconie che assalgono la coscienza umana.La cupezza delle sue atmosfere ha nutrito cosìl�’essenza del mio personaggio che perde a poco apoco la speranza.�” Atmosfere neorealiste, si di-ceva, piccole storie di piccole persone ma narratecon rigore morale e stilistico: la grande storiasullo sfondo �– un gruppo di donne che nel 1995ha iniziato una protesta permanente, riunendosiogni sabato davanti al liceo di Galatasaray con lefotografie dei propri figli scomparsi in seguito alloro arresto �– e in primo piano la stoia di unpadre che pian piano diviene disperato. �“Lemadri del sabato�” sono un solido gruppo che sidà forza al suo interno, Basri è solo ivece, anchese nei suoi diciotto anni di ricerca ha incontratotanti altri Basri, tanti altri �“idioti�” dosteovskianiche vivono per colmare una perdita, senza riu-scirci. Un titolo assolutamente fuori marketingper una storia che ricorda un�’Italia cinematogra-ficamente passata, che solo qualche distributorecoraggioso (la Sacher di Moretti) fa girare, per-ché è un film scomodo, cupo, sicuramente non diintrattenimento, ma di alto valore civile.
Maria Pia Monteduro
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NON SI TACITI MUFFA �– KUF, ALI AYDIN
Basri (Ercan Kesa).
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LA COSCIENZAVESPERTILLA - Anno X - n° 3 maggio-giugno 2013
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Basri (Ercan Kesa).
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CinemaVESPERTILLA - Anno X - n° 3 maggio-giugno 2013
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In un villaggio nelle campagnedelle Ardenne la vita di una piccolacomunità rurale viene sconvolta daun mutamento inquietante, oscuripresagi di fine del mondo. Qual-cosa impedisce l�’avvicendamentodelle stagioni, il corso normaledella vita animale e vegetale, la pri-mavera si rifiuta di arrivare, laterra inaridisce, la legna del falònon prende fuoco, il gallo ammuto-lisce, le api scompaiono, i semi nongerminano più, gli alberi cadono, lemucche non producono latte, ipesci muoiono, le provviste scar-seggiano, gli abitanti si cibano dimosche e blatte. Il ciclo della na-tura si sconvolge, la natura stessaprende il sopravvento, provocandocosì l�’implosione della comunità.Sembra fantascienza, ma gli autoridi questo genere, di norma, proiet-tano le vicende in un futuro inde-terminato, dove il pianeta ormaiinvivibile è già stato abbandonatodai suoi abitanti: i registi Peter Bro-sens e Jessica Woodworth invecepropongono una vicenda che sisvolge nel presente. Ma, come inogni crisi, è in agguato la rispostadell�’odio: a pagarne le conseguenzechi è slegato dalle radici, chi è no-made e libero. Nella ricerca di unacausa e di un colpevole i paesanitrovano una risposta feroce: ilcapro espiatorio diventa l�’uomo ve-nuto dall�’altrove, il diverso, lo stra-niero che parla un�’altra lingua. Se ilfalò per bruciare l�’inverno non si èacceso, bisogna comunque fare �“lafesta�” a qualcuno. La favola ecolo-gica è foriera di un messaggio con-tro l�’avidità dell�’uomo cheaccompagna il genere umano versol�’ecatombe ambientale e l�’estin-zione della specie, che ne è artefice.Il film forse è un po�’ lezioso e por-tatore di un pessimismo cosmico,spesso esagerato. Ma ancora unavolta da destra si leva lo squillodell�’ignoranza e della volgarità. Ilfilm viene definito �“cupo e crudeledramma campagnolo�” con spregiorazzista alla campagna e alla vitarurale aggiunge �“che barba il finalehorror�” (ma dov�’l�’horror? Neancheconoscono il significato corretto deitermini!) e chiude in bellezza dimo-strando di non capire nulla perl�’ennesima volta: �“per fortuna nonci sono più le mezze stagioni�”.
Luigi Silvi
ODIO RISPOSTA ALLA CRISILA QUINTA STAGIONE, PETER BROSENS e JESSICA WOODWORTH
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Ci sono opere, film nella fattispecie, chetoccano dentro, che è impossibile ignorareche parlano direttamente alla propriaanima. Senti che si rivolgono direttamente,con precisione millimetrica, a te, che stai insala e ti guardi intorno con l�’aria di chi vor-rebbe chiedere al proprio vicino di posto:�“Scusa ma parla con me, o sbaglio? A te falo stesso effetto?�”. È proprio di questo at-timo, in cui il tuo sguardo e quello di chi èseduto di fianco si incrociano, che è ora ilcaso di parlare. Perchè nella maggior partedei casi, e molte volte ciò si dimostra essereanche piuttosto divertente a pensarci a po-steriori, il vicino di posto, che sgranocchiatranquillamente i suoi pop-corn, non capi-sce ciò che, implicitamente, gli si chiede dicondividere; molte volte ti guarda con unvago sorriso e intanto si stringe nella suapoltrona pensando quanto è stato sfortu-nato a sedersi proprio vicino al mattoquella sera. Questo perché? Perché spesso evolentieri ci sono film (spettacoli, testi,opere d�’arte) che parlano a noi e noi sol-tanto, che segnano qualcosa nelle nostrevite, anche se si fatica in principio a cre-derlo, disabituati alla magia. Sono quelleopere che ricordano che la sinestesia è pos-sibile, che, per quanto ognuno sta solo sulcuor della terra trafitto da un raggio di sole(ed è subito sera), esistono degli spiragli,insperati e inspirati, di condivisione nel-l�’arte, che fanno della vita un gioco bello esempre nuovo, Arte/Vita che a momenti ditotale isolamento dal mondo alterna quelliin cui, con getto repentino e stregonesco,svela avvinghiati in un abbraccio fraterno estritolante con lui. Ma questo non è il mo-mento di parlare di opere che parlano a unoe uno soltanto, questo è il momento di chie-dersi: cosa succede, invece, quando il vicinodi posto, nella sala buia e accogliente di uncinema, ricambia lo sguardo complice, nonsi ritira nella poltrona, ma, divertito e, sem-pre implicitamente, risponde, �“Lo so, lo so,per me è lo stesso!�”? Credo di conoscere larisposta, e la condividerò come ho condi-viso quello sguardo. Vuol dire che siamodavanti al capolavoro. Quello che si rivolgea tutti, tutti riesce a coinvolgere come fos-sero uno. Questo è Vogliamo Vivere (titoloche è melensa traduzione di un evocativo Tobe or not to be originale), film che non è soloun�’ora da passare chiuso in un cinema a di-
strarsi dalla vita esterna e reale; è la dimo-strazione che anche l�’uomo è capace dicreare ritmi vitali perfetti. In questo casol�’uomo si chiama Ernst Lubitsch, e, guardacaso, è uno dei più grandi registi e sceneg-giatori di tutti i tempi. Ogni spettatore ègalvanizzato alla visione, divertito nel se-guire l�’incalzante incedere dell�’azione mairidondante, tanto ben oliata. Oltre al pia-cere sensuale di seguire una storia scorre-vole, tragica e comica sempre al momentogiusto, il ritmo dell�’azione dà carica, e sem-bra innescare, anche negli ingranaggi deinostri ragionamenti abituali e quotidiani,un�’accelerazione; sembra di essere improv-visamente in grado di usare un tempo men-tale nuovo, sgranchito. Naturale esconosciuto. La storia è presto detta, unacompagnia di attori polacchi, all�’indomanidell�’invasione nazista capeggiata da Hitlerche incombe insieme come essere abomine-vole e annichilente e ridicolo spauracchio dise stesso, si trova dall�’oggi al domani apoter modificare le sorti della guerra, sal-vando la resistenza polacca dalle spie tede-sche. Tutto in ballo, dai sentimenti di amorpatrio all�’amore sensuale, beghe matrimo-niali, gerarchie di palcoscenico, scene diguerra e pietà, velleità di varia natura epiani militari magistralmente organizzati siintersecano e si incastrano senza sforzi e,sull�’onda dell�’incredulità �– di chi guarda �–e senza mai perdere la veridicità �– la loro�–portano storditi ai titoli di coda. Milioni lefrasi che sarebbero da citare, i dialoghi chehanno fatto storia. Letteratura e vita distrada si amalgamano in sipari che creanoattese e risvolti sempre più sorprendenti diquelli che ci si aspettava. Figlio degli anniQuaranta che continuano a sembrare pre-maturi per la modernità, sarcasticité esguardo lucido e tagliente, Vogliamo Vivere,fuori da ogni logica di genere e di gusti per-sonali, continua a insegnare come si fanno ifilm, perché li si fa, perché li si va ancora avedere, ma, soprattutto, ricorda i motivi peri quali, il cinema, si continua ancora adamarlo. Con lo spirito che molte volte sipensa di aver irrimediabilmente perduto, dianno in anno, di filmaccio in filmaccio, ci siscopre invece frementi sulle poltrone, sem-pre pronti e speranzosi, ansiosi di lasciarsistupire, ancora e ancora, e deliziare.
Ofelia Sisca
RESTAURATO TO BE OR NOT TO BE DI ERNST LUBITSCHVOGLIAMO VIVERE, ERNST LUBITSCH
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CinemaVESPERTILLA - Anno X - n° 3 maggio-giugno 2013
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CinemaVESPERTILLA - Anno X - n° 3 maggio-giugno 2013
Un�’atleta e un�’attrice, non solo unanuotatrice che recitava. Queste è stataEsther Williams, morta in giugno al-l�’età di 91 anni. Già campionessa dinuoto �– a 15 anni aveva vinto tutte legare disputate in California nei 100metri stile libero femminili �– arrivainaspettatamente al cinema causa laSeconda Guerra Mondiale, che la co-stringe a interrompere attività agoni-stica e studi universitari. Scritturatadalla Metro-Goldwyn-Mayer, dopoqualche film in cui non è notata in ma-niera preponderante, il successo ar-riva con Bellezze al bagno del 1944 conla regia di George Sidney, dove sasfruttare al meglio le sue doti di bellanuotatrice con scene di acrobazie ac-quatiche entrate nella storia del ci-nema. Dopo alcuni musical minori(eccezion fatta per Ziegfeld Follies del1945 dove interpreta se stessa in unballetto acquatico acrobatico), nel1947 arriva un altro successo strepi-toso: La matadora dove è diretta da Ri-chard Thorpe. Da quel momento inpoi i film vengono cuciti su misuraper lei: La figlia di Nettuno (EdwardBuzzell, 1949), La duchessa dell�’Idaho(Robert Z. Leonard, 1950), La sirena delcirco (Charles Walters, 1951), ma so-prattutto La ninfa degli antipodi(Mervyn LeRoy, 1952), dove la Wil-liams dà una grande prova come at-trice drammatica. Quando qualcheanno dopo arriva il primo insuccesso,segnale che i gusti del pubblico sonoirrimediabilmente cambiati, EstherWilliams ha l�’intelligenza di dare l�’ad-dio alle scene; dopo questa decisionesi dedica alla meritoria attività bene-fica di insegnante di nuoto per bam-bini ciechi. Simbolo di un�’Hollywoodspettacolare e scacciapensieri, la si-rena Esther Williams rappresenta uninteressante fenomeno di felice connu-bio tra lo sport e lo spettacolo.
Maria Pia Monteduro
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FELICE CONNUBIO TRARICORDANDO ESTHER WILLIAMS
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A SPORT E SPETTACOLOVESPERTILLA - Anno X - n° 3 maggio-giugno 2013
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Esther Williams
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Esther Williams
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Cinema
Dangerous When Wet, regia Charles Walters, 1953 .
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Musica
Un concerto particolare, diverso dai soliti concerti del can-tautore catanese, per lo meno all�’inizio. Infatti l�’evento è in-serito nella manifestazione Per voi giovani, realizzata percelebrare la trasmissione radiofonica di Radio2RAI cheseppe avvicinare nei primi anni �‘70 milioni di ascoltatori allagrande musica rock internazionale, autentica e insostitui-bile colonna sonora di trasformazioni epocali in ambito cul-turale, sociale, esistenziale. Trasmissione che tanto hacontribuito a valorizzazione, studio e diffusione di unanuova musica leggera: impegnata, seria, portatrice di un�’a-ria di rivoluzione. Il concerto era stato programmato as-sieme a Claudio Rocchi (curatore e ideatore dell�’interrarassegna) e Gianni Maroccolo, ma la recentissima scom-parsa di Rocchi �– purtroppo da tempo malato �– ha fatto sìche Battiato si esibisse da solo. Ovviamente non è mancatoil giusto omaggio e riconoscimento al cantautore milanese,già bassista degli Stormy Six, conduttore radiofonico (pro-prio di Per voi giovani), senza dubbio uno dei protagonistidel rock psichedelico e rock progressivo italiano. Rocchi eBattiato condividevano anche il debito culturale per la spi-ritualità orientale. L�’artista ha eseguito con commozione unodei brani più profondi e interessanti di Rocchi stesso (Larealtà non esiste) e ha impostato tutta la prima parte del con-certo sulla musica psichedelica, elettronica, di ricerca. D�’al-tronde lo stesso Battiato, una delle personalità più eclettichee originali del panorama musicale italiano, durante i primianni della sua carriera �– gli anni �’70 �– ha composto musicapsichedelica e di ricerca, ottenendo anche prestigiosi rico-noscimenti (Premio Stockhausen di musica contemporanea1979). Sul palco della cavea dell�’Auditorium Carlo Guaitolial pianoforte, Angelo Privitera alle tastiere e programma-zione, Davide Ferrario, Andrea Torresani alla chitarra ebasso e Giordano Colombo alla batteria. Aria di rivoluzionequindi, dal titolo di una canzone del 1973 di Battiato (�“Que-sta mia generazione / vuole nuovi valori /e ho già sentito /aria di rivoluzione�”), ma la rivoluzione è presente anche inmolti altri brani eseguiti nel corso del concerto. Una rivolu-zione musicale (un omaggio ai Rolling Stones con la celebrecover del 2000 di Ruby Tuesday del 1967), ma soprattutto unarivoluzione interiore, il coraggio e la determinazione nell�’af-frontare scelte categoriche e rigorose soprattutto con sestessi (�“Non servono più eccitanti o ideologie: ci vuole un�’al-tra vita�”da Un�’altra vita 1983). Ecco quindi sapientementealternate canzoni celeberrime (quelle più cult del quaran-tennale repertorio del cantautore catanese, cantate a squar-ciagola da tutto il pubblico) a brani più remoti, conun�’atmosfera misticheggiante (per altro abbastanza comun-que in moltissimi brani di Battiato), quali ad esempio Daoriente a occidente (�“Lontano da queste tenebre / matura l�’av-venire�”, 1973), Il mantello e la spiga dove si esorta improroga-bilmente �“Lascia tutto e seguiti�”. E poi tanti intransigentiattacchi alla società contemporanea (�“Viviamo in un mondoorribile�” da Passacaglia, 2012), (�“Abbocchi sempre all'amo /le barricate in piazza le fai per conto della borghesia / checrea falsi miti di progresso�” da Up Patriots To Arm, 1980),(�“Siamo figli delle stelle e pronipoti di sua maestà il denaro�“da Bandiera bianca, 1981), sottolineati sempre da scrosciantiapplausi di un pubblico, variegatissimo per età, che ricono-sce in Battiato una sorta di autorità da profeta, che l�’artistaaccoglie con sorniona ironia. Un concerto dove il passato eil presente dell�’artista, che ha attraversato molti stili e affron-tato tanti linguaggi musicali sempre con molta coerenza, siamalgamano perfettamente per offrire tante occasioni di ri-flettere sulla rivoluzione, soprattutto quella interiore e per-sonale, che forse sarebbe ora che scoppiasse.
Maria Pia Monteduro
MA QUANDO SCOPPIFRANCO BATTIATO. ARIA DI RIVOLUZIONE, Auditorium Parco della Musica
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IA LA RIVOLUZIONE?VESPERTILLA - Anno X - n° 3 maggio-giugno 2013
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Franco Battiato
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Claudio Rocchi
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Musica“... La vera terra dei barbari non è quella che non ha maiconosciuto l’arte, ma quella che, disseminata di capolavori,non sa né apprezzarli né conservarli...” (Marcel Proust)
Claudio Rocchi e Franco Battiato.