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1 Università della Calabria Corso di Laurea Magistrale in Sociologia e ricerca sociale (Anno Accedemico 2017-18) Insegnamento di Metodi della ricerca sociale (docenti S. Licursi – C. De Rose) Dispensa 1 Introduzione alla ricerca sociale di Carlo De Rose

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Università della Calabria

Corso di Laurea Magistrale in Sociologia e ricerca sociale

(Anno Accedemico 2017-18)

Insegnamento di Metodi della ricerca sociale (docenti S. Licursi – C. De Rose)

Dispensa 1

Introduzione alla ricerca sociale

di Carlo De Rose

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Che cos’è la ricerca sociale

1.1 Una definizione preliminare

Che cos’è la ricerca sociale? A questa semplice domanda non corrisponde una risposta altrettanto semplice. Ciò per due sostanziali ragioni. La prima ha a che fare con la matrice multidisciplinare della ricerca sociale e con la varietà dei fenomeni oggetto di suo interesse. La seconda con la molteplicità di prospettive teoriche e soluzioni metodologiche adottate nelle scienze sociali.

Per districarsi dalle complicazioni cui rinvia questa domanda, può pertanto essere utile procedere per pic-coli passi. A tal fine è opportuno prendere le mosse da una definizione elementare, cui poi apportare successive integrazioni. Per ricerca sociale si intende quell’attività scientifica, a carattere empirico, finalizzata all’ac-quisizione ed elaborazione di informazioni utili a descrivere e interpretare i fenomeni sociali. Questa defini-zione, pur nella sua formulazione essenziale, consente di introdurre delle considerazioni preliminari intorno ad alcuni elementi distintivi della ricerca sociale.

La prima considerazione riguarda la qualificazione di questa attività come scientifica. Si può in prima approssimazione affermare che la ricerca sociale è da considerarsi un’attività scientifica nella misura in cui risulta fondata sull’applicazione di un metodo. Senza ancora addentrarci nel merito di questo metodo e delle sue implicazioni, qui si fa osservare che il riferimento ad esso consente semplicemente di stabilire una linea di demarcazione rispetto ad altri modi di costruire e giustificare la conoscenza. Serve cioè a chiarire che il con-tributo che la ricerca sociale può portare alla descrizione e interpretazione dei fenomeni sociali non si fonda né su mere intuizioni o episodiche esperienze soggettive, né su opinioni di senso comune. La ricerca sociale aspira piuttosto ad acquisire ed elaborare informazioni ricorrendo a procedure codificate, giustificabili in rap-porto ai fenomeni da indagare e agli obiettivi conoscitivi perseguiti.

La seconda considerazione riguarda il carattere empirico della ricerca sociale. Con esso ci si riferisce al fatto che le informazioni oggetto di interesse vengono acquisite attraverso un’attività sistematica di osserva-zione o rilevazione. Il che presuppone che queste informazioni non siano già disponibili, ovvero non siano già state acquisite. A rigore, infatti, se le informazioni utili a descrivere o spiegare un determinato fenomeno so-ciale fossero già disponibili, non si dovrebbe neanche parlare di ricerca empirica. Meglio sarebbe parlare di “studi” o di “analisi”. Si potrebbe cioè ricorrere ad altre espressioni per indicare quell’attività di descrizione e interpretazione dei fenomeni operata utilizzando informazioni (ovvero dati) già disponibili. La dimensione empirica cui qui ci si riferisce trova, d’altra parte, un’efficace traduzione nell’espressione “lavoro sul campo”, sovente utilizzata proprio per indicare quell’attività di osservazione e rilevazione sistematica delle informa-zioni abitualmente condotta dai ricercatori sociali ricorrendo ad un bagaglio variegato di tecniche di indagine.

La terza considerazione di commento alla definizione proposta riguarda l’oggetto di interesse della ricerca sociale, ovvero i fenomeni sociali. A tal proposito è possibile seguire due percorsi di chiarificazione. Il primo consiste nell’esplicitare la natura di questi fenomeni, l’altro nell’identificare il raggruppamento di scienze che si interessano ad essi.

Tra i fenomeni di interesse dei ricercatori sociali comprendiamo intanto le azioni umane e le espressioni della soggettività che risultano orientate socialmente, ovvero che sono espressione di un agire che assume significato in rapporto ai modelli socio-culturali di riferimento della collettività di appartenenza. Inoltre, nel campo di interesse dei ricercatori sociali rientrano a pieno titolo le forme, i contenuti, gli obiettivi e le modalità di regolazione delle interazioni sociali che gli individui stabiliscono all’interno di gruppi, organizzazioni, isti-tuzioni, ovvero la logica costitutiva e di funzionamento nonché i processi di trasformazione di questi stessi gruppi, organizzazioni e istituzioni.

Questi fenomeni ricadono, pur se in modi e con specificità distinte, nell’area di competenza di discipline quali la sociologia, la scienza politica, l’antropologia, la psicologia sociale, l’economia, ovvero di quelle di-scipline che compongono il variegato raggruppamento delle così dette scienze sociali. Si tratta di discipline che affrontano i fenomeni sopra menzionati da prospettive diverse, rispondendo ad interrogativi anch’essi di-versi. Il loro approccio metodologico nell’analizzare o ricostruire i fenomeni fa leva inoltre su procedure di indagine in parte differenti, derivanti dalla propria tradizione di ricerca oltre che, ovviamente, dai propri spe-cifici quadri teorici (cfr. Punch, 1998, pp. 8-10).

Per questo motivo esistono opinioni discordanti anche sulla opportunità di ricomprendere sotto la dizione “scienze sociali” discipline con interessi di studio e tradizioni metodologiche così distanti tra loro, per le quali

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si potrebbe parlare piuttosto di una “famiglia di discipline” (cfr. Rossi, 1997, p. 467). Come esistono opinioni discordanti anche in merito a quali discipline effettivamente includere e quali no. E ulteriori complicazioni nell’identificare un corpus unico delle scienze sociali derivano inoltre dal fatto che all’interno delle diverse discipline si riscontrano ramificazioni sub-disciplinari in parte estranee, o comunque disinteressate, al lavoro di ricerca empirica in senso stretto.

Questa incertezza dei confini delle scienze sociali trova conferma anche nel ricorso ad altre espressioni, quale quella di scienze umane, introdotte per includere in un unico corpo onnicomprensivo altre discipline quali ad esempio la psicologia, la socio-linguistica, la pedagogia, la demografia, la geografia. Non sempre unanime è poi la posizione a riguardo della storiografia, che per alcuni versi mantiene uno statuto proprio non assimilabile a quello delle altre scienze sociali, ma che altre volte viene ricompresa in esse.

1.2 Un territorio conteso

I fenomeni oggetto di interesse della ricerca sociale sono innumerevoli. Basterebbe sfogliare qualche rivista scientifica o qualche repertorio delle ricerche condotte nei dipartimenti universitari per rendersi conto della varietà dei fenomeni studiati.

I ricercatori sociali sono interessati ad indagare le esperienze e le condizioni di vita degli individui, i loro comportamenti e orientamenti culturali, le loro opinioni e preferenze, le loro convinzioni e credenze, le loro scelte e le relative motivazioni, i modelli cui si ispirano, gli obiettivi che perseguono e le strategie che mettono in atto. I ricercatori sociali dimostrano inoltre interesse per gli atteggiamenti, le capacità, le inclinazioni e le attitudini degli individui, ovvero per i profili della loro identità e per i tratti distintivi della loro personalità. L’attenzione dei ricercatori altre volte ricade piuttosto sulla natura e sulla struttura delle relazioni tra gli indi-vidui, ovvero sulle dinamiche che si producono all’interno di tutti quei contesti riconosciuti come spazi e forme della vita sociale. Infine i ricercatori sociali si interessano del funzionamento e dei processi di mutamento dei gruppi, delle organizzazioni e delle istituzioni proprie di ogni collettività, così come dei sistemi culturali e normativi che ne sono espressione.

Questi fenomeni, tuttavia, non possono considerarsi di esclusiva pertinenza dei ricercatori sociali. Su di essi confluisce piuttosto l’interesse di una varietà di soggetti. I ricercatori sociali, cioè, non rappresentano gli unici “esperti” interpellati, e per dar conto della poliedricità di voci e posizioni coinvolte si potrebbero fare innumerevoli esempi.

Prendiamo in considerazione un fenomeno quale quello del consumo di sostanze stupefacenti da parte degli adolescenti. Si tratta di un fenomeno che potrebbe essere oggetto di un interesse scientifico da parte dei ricercatori sociali orientati a indagarne le cause, ad esplicitare i modi e le circostanze in cui avviene questo consumo ed i bisogni sottesi in esso, a valutarne il grado di diffusione in un determinato territorio, magari operando un confronto tra contesti sociali diversi. Questo stesso fenomeno, tuttavia, potrebbe altresì essere oggetto di inchieste giornalistiche o di analisi da parte di specifici operatori (educatori e insegnanti, psicologi e assistenti sociali, magistrati ed esperti di narcotraffico). Potrebbe anche essere oggetto di interpretazioni e commenti da parte di genitori, parroci, opinionisti di ogni tipo, politici o responsabili di associazioni giovanili.

Considerazioni simili si potrebbero avanzare anche a proposito di molti altri fenomeni sociali. Si pensi, a solo titolo esemplificativo, ai flussi migratori, alle condizioni di vita degli anziani, ai risultati elettorali, ai consumi delle famiglie, alla vita dei senzatetto, alla prostituzione. Questi, come molti altri fenomeni sociali, rappresentano cioè un territorio di analisi conteso tra più competenze.

Alla sovrapposizione di esperti diversi, si aggiunge inoltre quella dei non esperti. Ci si riferisce al fatto che i fenomeni sociali sono anche oggetto di interesse delle persone comuni.

In famiglia, con gli amici, con i colleghi di studio o di lavoro, in metropolitana o al bar, ci si ritrova sovente coinvolti in discorsi attraverso i quali si esprimono commenti e opinioni intorno a comportamenti, atteggia-menti, modi di pensare e orientamenti culturali, tendenze e fatti di costume che interessano in modo genera-lizzato la società in cui si vive o che attengono più specificamente a qualche gruppo o categoria sociale. Può trattarsi dei giovani o degli anziani, dei mariti o delle mogli, dei genitori o dei figli, degli operai o dei datori di lavoro, dei disoccupati, degli immigrati, dei senza tetto che vivono nelle città. Ma avviene anche che non ci si riferisca ad alcuna categoria sociale in particolare. In questo caso si parla più genericamente della “gente”, alludendo a comportamenti e modi di pensare che si ritiene siano diffusi all’interno della comunità o società cui si appartiene.

Il più delle volte questo interesse per ciò che la gente fa e pensa non è di tipo professionale. Non ci si interroga su determinate questioni che attengono al comportamento o agli orientamenti altrui in quanto esperti, ma lo si fa da semplici osservatori, più o meno attenti e informati, più o meno critici e appassionati. Oppure lo si fa in quanto soggetti coinvolti direttamente, facendo in questo caso affidamento sulla propria esperienza o sul proprio essere dei “testimoni”.

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Le circostanze in cui si esercita tale ruolo di opinionisti sono le più diverse. Molte occasioni vengono offerte da ciò che accade nel quotidiano, nelle relazioni interpersonali che si hanno con chi fa parte della cerchia di persone più vicine: familiari, amici, colleghi, vicini di casa. Lo spunto può essere un fatto di cronaca, i risultati di un’indagine presentati su una rivista, un dibattito politico o di costume trasmesso in TV, una testimonianza ascoltata alla radio, un episodio accaduto in città, un commento del nonno a tavola, un film visto al cinema, le ultime elezioni.

A fronte di questo interesse trasversale, occorre però osservare che esistono modi diversi di descrivere, analizzare e interpretare i fenomeni sociali (cfr. Ragin, Amoroso, 2011). Quello dei ricercatori sociali, pur presentando talvolta dei punti di contatto o di somiglianza con quello proprio di altri esperti o di altri osserva-tori della vita sociale, se ne distingue in rapporto ad alcuni elementi essenziali.

Il primo di essi ha a che fare con il modo di identificare i fenomeni sociali su cui focalizzare l’attenzione, ovvero con il modo di formulare gli interrogativi che guidano la propria attività di ricerca. Per i ricercatori sociali ciò comporta una esplicitazione della rilevanza che i fenomeni da studiare assumono non tanto e non solo nelle loro espressioni particolari, quanto piuttosto in rapporto al contesto in cui si producono. Il che signi-fica che casi, episodi ed eventi particolari non sono interessanti di per sé, ma lo sono in quanto espressioni di fenomeni più generali (e spesso più complessi) di cui occorre dar conto.

Il secondo elemento di differenziazione riguarda lo sforzo di inquadramento teorico dei fenomeni da inda-gare empiricamente. Proprio in ragione di quanto detto sopra, infatti, i ricercatori sociali tendono a identificare le questioni da indagare partendo dal quadro teorico esistente, ovvero dalle conoscenze già acquisite su un determinato fenomeno. I risultati ottenuti attraverso l’attività di ricerca, inoltre, vanno a loro volta ad arricchire il quadro teorico a disposizione della comunità scientifica. Talvolta offrendo delle conferme alle interpreta-zioni prevalenti già accreditate da altre ricerche, altre volte proponendo nuove interpretazioni.

Il terzo elemento distintivo del modo di procedere dei ricercatori sociali riguarda la centralità assegnata alle evidenze empiriche sulla base delle quali giustificare le descrizioni e spiegazioni dei fenomeni indagati. Tali evidenze empiriche devono essere fondate su un insieme significativo di osservazioni e informazioni. La significatività cui ci si riferisce ha a che fare sia con la rappresentatività del “campo di osservazione”, sia con il rigore metodologico con cui sono state acquisite le informazioni.

Infine, i ricercatori sociali adottano procedure sistematiche di analisi per tradurre le informazioni acquisite in resoconti, descrizioni e spiegazioni subordinate al rigore argomentativo.

L’impostazione che contraddistingue l’attività dei ricercatori sociali consente dunque di evidenziare le distanze rispetto ad altri modi di costruire descrizioni e interpretazioni degli stessi fenomeni. Soprattutto con-sente di mettere in evidenza in che modo i ricercatori sociali provano a limitare i rischi derivanti da una serie di errori interpretativi che di frequente trovano spazio nei discorsi di senso comune, ma che non di rado sono presenti anche nelle analisi di altri osservatori e professionisti impegnati nell’analisi dei fenomeni sociali. Tali errori interpretativi possono essere ricondotti a diversi fattori di distorsione della realtà.

Uno di questi fattori di distorsione è da identificare nell’inadeguatezza delle informazioni a disposizione, ovvero nella loro limitatezza e parzialità. È difficile riuscire a formulare descrizioni e interpretazioni attendibili se si hanno poche informazioni o se le informazioni a disposizione derivano soltanto dalla propria esperienza. Tale inadeguatezza si accompagna spesso con una tendenziale semplificazione della realtà. Ci si riferisce al fatto che, piuttosto che riconoscere la varietà di situazioni e motivi che potrebbero consentire di dar conto della complessità di alcuni fenomeni sociali, si finisce talvolta per ridurre o eliminare del tutto tale complessità, adottando delle scorciatoie interpretative. Così, se si parla degli immigrati piuttosto che dei giovani, dei disoc-cupati del sud piuttosto che dei dipendenti pubblici, delle casalinghe piuttosto che dei politici di professione, si finisce per focalizzarsi più sugli aspetti di omologazione che non su quelli di differenziazione degli individui appartenenti a determinate categorie. E simili semplificazioni si riscontrano di frequente nelle interpretazioni comuni di tanti altri fenomeni sociali quali la disoccupazione giovanile piuttosto che il lavoro nero, il bullismo nelle scuole piuttosto che la dispersione scolastica, la violenza sulle donne piuttosto che le disparità di genere.

Un ultimo fattore di distorsione è rappresentato dalla selezione arbitraria delle informazioni cui attribuire rilevanza. Un orientamento, consapevole o meno, dettato per lo più da condizionamenti culturali, pregiudizi, e posizioni ideologiche. Succede così che le informazioni a disposizione vengono filtrate in rapporto a ciò che può costituire o meno una conferma di interpretazioni già formulate che si vuole difendere o legittimare.

1.3 Ricerca e teoria

Il rilievo assegnato alla dimensione empirica della ricerca sociale consente di richiamare l’attenzione anche sull’attività più propriamente teorica che supporta il processo di costruzione della conoscenza scientifica nelle scienze sociali come in qualsiasi altra scienza. Ci si riferisce alla teoria sociale, ossia a quel campo del sapere scientifico che raccoglie le sistematizzazioni dei saperi disciplinari sui singoli fenomeni di interesse delle

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scienze sociali proponendo modelli interpretativi, teorie o sistemi coerenti di teorie che consentono di dare ragione dei fenomeni stessi o di inquadrarli nel loro contesto fenomenico, storico, culturale, processuale.

Tale distinzione tra ricerca sociale e teoria sociale non deve però essere interpretata come una separazione. Ricerca e teoria non sono tra loro indipendenti. Anzi, necessitano l’una dell’altra, e l’una alimenta l’altra. La teoria sociale necessita di quel patrimonio di conoscenze derivante dall’attività d’osservazione che si traduce in acquisizioni sistematiche di dati e informazioni. La ricerca, d’altronde, necessita della teoria, sia per orien-tare l’osservazione - cioè per stabilire quali siano le domande più significative con le quali interrogare la realtà - sia per interpretare i risultati dell’osservazione e per collocare questi risultati all’interno di processi più com-plessi, spesso non riconoscibili allorché ci si focalizza su contesti e fenomeni circoscritti.

Così come avviene nelle altre scienze, teoria e ricerca rappresentano cioè dei momenti diversi, ma tra loro interconnessi, di quel processo circolare attraverso il quale si costruisce la conoscenza. La teoria orienta la ricerca empirica, nel senso che pone nuove questioni e segnala dei bisogni di informazione da soddisfare per rendere riconoscibili e spiegabili i fenomeni che si producono storicamente nella realtà. La ricerca empirica, a sua volta, sollecita la teoria a mettere a punto nuovi modelli di spiegazione in grado di rendere conto dei comportamenti e degli atteggiamenti degli individui rilevabili attraverso l’osservazione sistematica della realtà. Una teoria senza ricerca produrrebbe perciò delle conoscenze astratte; mentre un’attività di ricerca senza una prospettiva teorica si tradurrebbe in una massa informe di dati, difficilmente interpretabili.

Questa compenetrazione tra teoria e ricerca può risultare non del tutto evidente per il fatto che gli scienziati sociali tendono a specializzarsi nelle loro attività e nei loro interessi. Alcuni di loro si occupano prevalente-mente di teoria, altri prevalentemente di ricerca. Tant’è che per distinguerli in rapporto al loro ruolo e alla loro attività, i primi vengono anche identificati con l’appellativo di teorici sociali, mentre per i secondi si utilizza l’appellativo di ricercatori sociali. Si tratta però di una distinzione che ha a che fare soltanto con l’organizza-zione della comunità scientifica e che in un certo senso è una delle conseguenze derivanti dalla complessità del processo d’analisi e interpretazione dei fenomeni sociali, dove la scomposizione dei ruoli, in rapporto alle competenze teoriche e metodologiche richieste in ogni sua fase, risulta funzionale al buon esito del processo stesso. Ciò non toglie che un teorico, per poter formulare delle interpretazioni o delle generalizzazioni di più ampio respiro su un qualsiasi fenomeno oggetto di interesse, debba necessariamente confrontarsi con i risultati del lavoro dei suoi colleghi ricercatori e possibilmente avere presenti una varietà di ricerche condotte sui fe-nomeni ad esso connessi. Anche nel caso in cui il suo interesse fosse focalizzato su un livello più elevato di teorizzazione, ossia di elaborazione di modelli interpretativi di ordine generale, le sue teorie difficilmente po-tranno essere il frutto di mere costruzioni concettuali, ma dovranno essere ancorate alla realtà, e possibilmente giustificate sulla base di riferimenti a contesti e fenomeni indagati attraverso la ricerca. Un simile collegamento tra teoria e ricerca, del resto, si stabilisce anche in senso inverso. Così, per quegli scienziati sociali maggior-mente impegnati nel “lavoro sul campo”, alle prese con estenuanti fasi di osservazione, con interviste e que-stionari, o indaffarati in complesse analisi statistiche, risulterà indispensabile confrontarsi, oltre che con i ri-sultati di altre ricerche simili, con le analisi, le categorie concettuali ed i modelli interpretativi elaborati dai teorici sociali.

Il rilievo posto sull’interdipendenza tra teoria e ricerca consente di introdurre un’altra questione che ri-guarda le molteplici prospettive interpretative da cui muovono i ricercatori sociali e le implicazioni empiriche che ne derivano. Anche in rapporto alla diversificazione disciplinare e sub-disciplinare interna alle scienze sociali, c’è infatti da tener conto che l’analisi dei fenomeni di loro interesse può fondarsi su assunti teorici diversi ed alternativi tra loro. Tale circostanza, che talvolta viene rievocata per segnalare una sorta di incer-tezza epistemologica delle scienze sociali, merita di essere meglio esplicitata.

Richiamando le considerazioni già introdotte a proposito della variegata composizione delle scienze so-ciali, occorre intanto riconoscere l’assenza di un unico paradigma di riferimento1. Sia tra discipline diverse, sia all’interno di una stessa disciplina, coesistono piuttosto molteplici paradigmi in concorrenza tra loro (cfr. Bailey, 1982, trad. it. p. 40). Talvolta si parla anche di assenza di paradigmi per indicare per l’appunto questa situazione di incertezza derivante da una varietà di prospettive teoriche non coordinate né coerenti tra loro.

Tale situazione può essere considerata significativa di una effettiva debolezza scientifica che si proietta anche sui risultati della ricerca sociale, mettendone in dubbio l’attendibilità e significatività. Ma essa può anche essere interpretata come il riflesso della complessità dei fenomeni sociali stessi che non può essere risolta attraverso l’adozione di un paradigma onnicomprensivo (cfr. Thomas, 1979, trad. it. pp. 271-82). Una complessità che non può essere affrontata, allo stato attuale delle conoscenze disponibili, neanche attraverso

1 Come osserva Corbetta (1999, p. 17), il termine “paradigma” nelle scienze sociali è utilizzato con accezioni diverse. Qui viene

assunto nel significato attribuitogli da Thomas Kuhn (1962) quale prospettiva teorica condivisa e riconosciuta all’interno dalla comu-nità scientifica in cui è adottata in ragione delle risultanze scientifiche acquisite; tale prospettiva teorica indirizza la ricerca determi-nando di volta in volta i fenomeni su cui risulta discriminante concentrare l’attenzione, suggerendo ipotesi da sottoporre a verifica empirica e validando le tecniche di ricerca adottate. Nella concezione di Kuhn, ogni disciplina necessita di un paradigma per orientare la propria attività di ricerca, per cui la maturità di una disciplina si valuta anche in rapporto alla presenza e solidità di un paradigma di riferimento.

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un insieme coerente di paradigmi adottato concordemente dall’intera comunità scientifica. Tale cornice multi paradigmatica è del resto riconoscibile nel modo di procedere dei ricercatori sociali che,

a seconda dell’indirizzo disciplinare che orienta la propria attività, fanno proprie prospettive teoriche differenti che hanno delle conseguenze sullo stesso impianto empirico delle proprie ricerche. Ciò vale sia per quelle ricerche focalizzate sulla dimensione micro sociale, ovvero sulle espressioni della soggettività e sull’azione e interazione degli individui all’interno di determinati contesti (relazionali, culturali, sociali, ecc.), sia per quelle ricerche incentrate su una dimensione sistemica, ovvero sul funzionamento, le trasformazioni e l’azione di gruppi, organizzazioni, istituzioni.

Le prospettive teoriche cui ci si riferisce si contraddistinguono sostanzialmente per il modello interpreta-tivo adottato e per il rilievo assegnato a differenti fattori esplicativi. Pertanto, i comportamenti, le opinioni, gli orientamenti culturali, le preferenze, gli atteggiamenti, i valori e i modelli di riferimento degli individui, pos-sono essere analizzati muovendo da assunti e da obiettivi diversi che risultano coerenti con il paradigma cui implicitamente il ricercatore aderisce. Detto in altri termini, anche quando il fenomeno preso in esame dai ricercatori è apparentemente lo stesso, il loro modo di guardare ad esso può essere diverso, perché diversi sono gli interrogativi che essi si pongono ed in rapporto ai quali decidono ciò che è rilevante osservare e rilevare empiricamente.

Supponiamo, ad esempio, che si intenda condurre una ricerca sull’aggressività con l’intento di: identificare i profili degli individui che ricorrono ad essa, sia nella sfera privata che nella vita pubblica; chiarire le forme che questa aggressività assume e le circostanze in cui essa viene messa in atto; spiegare le ragioni che sono alla base di un ricorso ad essa (sistematico o occasionale che sia) da parte di alcuni individui. Premesso che tale fenomeno potrebbe ricadere nel campo di interesse di sociologi, antropologi, psicologi, esperti di politiche sociali, ma anche di pedagogisti, criminologi, giuristi e storiografi, non deve meravigliare il fatto che esso possa essere affrontato da prospettive diverse che, come già chiarito, presuppongono interrogativi e assunti teorici differenti.

Il fenomeno potrebbe essere indagato soffermandosi sui modelli socio-culturali e sui processi di socializ-zazione degli individui con l’intento di ricostruire le radici del comportamento aggressivo e i modi in cui esso si riproduce. In questo caso si adotterebbe un paradigma che trova origine nella tradizione sociologica e i cui capisaldi possono essere identificati già nell’impianto teorico di Durkheim (1895), secondo il quale i modi di pensare, i costumi, i valori morali, i modelli di comportamento storicamente prevalenti tra gli individui di una società non possono considerarsi delle mere espressioni di deliberazioni e scelte soggettive. La loro ricorrenza rivela piuttosto che nella società sono all’opera delle forze che vincolano e formano le coscienze individuali. Queste forze, che egli identifica in un corpo di regole e credenze condivise, ovvero in una serie di rappresen-tazioni collettive di ordine culturale che costituiscono la morale di una società, esercitano un potere coercitivo sugli individui. Un potere che si esprime attraverso sistemi di sanzioni, attraverso i modi della riprovazione e del controllo sociale, e che garantisce la convivenza necessaria al riprodursi dello stesso sistema sociale. Per cui, ogni disallineamento dal sistema di norme e valori prevalenti all’interno di una collettività deve conside-rarsi una forma di devianza che può avere cause diverse. Essa può essere espressione di trasformazioni socio-culturali in atto nella società che rendono più inefficaci i processi di socializzazione e controllo sociale e l’azione delle istituzioni ad esse preposte. Oppure essa può anche essere espressione di una sovrapposizione di sottosistemi socio-culturali in cui dominano norme e valori differenti e che generano delle tensioni che trovano espressione nei comportamenti adottati dai singoli individui (cfr. Merton, 1968).

Un sociologo che dovesse soffermarsi su una delle tante declinazioni possibili dell’aggressività, quale ad esempio quella del bullismo tra gli adolescenti, potrebbe a tal proposito essere interessato ad acquisire infor-mazioni che riguardano i contesti socio-culturali, i modelli familiari ed i valori di riferimento, gli stili di vita, le esperienze di socializzazione degli adolescenti coinvolti nel fenomeno, ciò nella convinzione che da queste informazioni sia possibile trarre elementi utili alla descrizione e spiegazione del fenomeno stesso.

Il fenomeno dell’aggressività potrebbe però essere analizzato muovendo anche da un altro paradigma, quale quello socio-biologico. In questo secondo paradigma, il rilievo assegnato ai fattori biologici ridimensiona sia il ruolo della volontà soggettiva che quello dei condizionamenti ambientali, riconducendo tutta una serie di espressioni della soggettività a differenze individuali associate piuttosto a tipi genetici differenti o all’azione che talune condizioni di stress possono avere sulla produzione di determinati stimoli aggressivi veicolati ma-gari da taluni ormoni. Secondo tale paradigma, cioè, è la natura che spiegherebbe tutta una serie di disposizioni individuali, inclinazioni, modi di reagire, preferenze, abilità e performance cognitive, modi di comportamento, compresa l’aggressività o il ricorso alla violenza (cfr. Pinker, 2002). I ricercatori sociali che per formazione scientifica adottano questo paradigma, nell’approcciare il fenomeno dell’aggressività potrebbero dunque es-sere interessati ad acquisire informazioni e riscontri empirici totalmente differenti da quelli socio-culturali privilegiati dai sociologi.

Nelle ricerche sul fenomeno dell’aggressività si potrebbero poi riscontrare ulteriori percorsi suggeriti da altri assunti teorici. Così l’aggressività potrebbe essere interpretata, in coerenza con alcune teorie psicologiche, come l’espressione e la conseguenza di stati e condizioni di frustrazione (cfr. Dollard et al. 1939; Miller 1941),

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per cui i ricercatori potrebbero essere interessati a focalizzare le proprie osservazioni e rilevazioni, o anche i propri esperimenti, sulla identificazione del tipo di nessi frustrazione-aggressività, sulle condizioni associate alla risposta aggressiva o non aggressiva da parte degli individui, sul modo in cui vengono definite e ricono-sciute come frustranti alcune condizioni personali. Tutto ciò lasciando inesplorati tanto la questione del con-testo sociale e delle sue norme, quanto la dimensione biologica o i meccanismi biochimici.

Ancora, l’aggressività potrebbe essere analizzata adottando quelle prospettive teoriche proprie della psi-cologia sociale che, mettendo in discussione ogni tipo di determinismo (sociologico, biologico, psicologico), hanno richiamato l’attenzione sui processi di interazione all’interno dei quali trovano origine, prendono forma e si consolidano i comportamenti devianti. Ci si riferisce al costruzionismo di Lemert (1967) e alla teoria dell’etichettamento di Becker (1963), due prospettive ispirate all’interazionismo simbolico di Mead (1934) e Blumer (1969). In questo caso i ricercatori potrebbero analizzare i comportamenti aggressivi iscrivendoli all’interno dei processi di costruzione sociale dell’identità deviante. Ciò partendo dall’assunto che tali processi, cui concorrono le stesse istituzioni preposte al controllo e alla rieducazione, finiscano in effetti per favorire l’adozione di taluni modelli comportamentali in virtù proprio degli effetti conseguenti ai meccanismi di eti-chettamento (Goffman 1961; Matza, 1969).

1.4 Metodo scientifico e metodi di ricerca

Alle prospettive interpretative indicate come possibili alternative nell’analisi dei comportamenti aggressivi se ne potrebbero aggiungere delle altre, ciò a conferma della cornice multi paradigmatica entro la quale si situa la composita famiglia delle scienze sociali. Tale varietà di prospettive, riscontrabile nell’analisi di molti altri fenomeni sociali, si coniuga inoltre con la pluralità di metodi adottati dai ricercatori.

Prima di entrare nel merito di essi, è pero necessario operare un preliminare chiarimento lessicale intorno ai significati attribuiti al termine metodo.

In una accezione coerente con la radice etimologica greca, il termine metodo sta ad indicare la strada attraverso la quale raggiungere un certo fine. Questa originaria accezione suppone implicitamente l’idea di un percorso che non può essere casuale, che non può essere lasciato all’improvvisazione o alla semplice intui-zione. Così inteso, il metodo rappresenta un elemento centrale del problema della giustificazione della cono-scenza che si ripropone per lungo tempo nella riflessione filosofica. L’interrogativo di fondo che anima questa riflessione riguarda il modo attraverso cui si può giungere ad una conoscenza della realtà che non sia fondata su mere opinioni. Un interrogativo che trova nel corso del tempo risposte diverse, incentrate ora sulla necessità di costrutti logico-argomentativi, ora sul richiamo alle categorie innate dell’intelletto, ora sulle evidenze rica-vabili dalle esperienze.

In epoca moderna, questo stesso interrogativo diventa cruciale per la nascente scienza interessata a fondare su basi diverse la conoscenza della realtà. Così, nei due secoli che intercorrono tra il Discorso sul metodo di Cartesio (1644) ed il Sistema di logica deduttiva e induttiva di John Stuart Mill (1843), la riflessione intorno al metodo viene a configurarsi sempre più come una riflessione sul metodo scientifico. Una riflessione che culmina in una più compiuta (sebbene non definitiva) sintesi di quelli che sono i fondamenti del sapere scien-tifico fatti propri dalla filosofia positivista ottocentesca.

A tale stadio di sviluppo della riflessione prevale una concezione olistica del metodo scientifico ben espressa dalla sua esclusiva declinazione al singolare. Si fa riferimento al metodo (e non ai metodi) per due ragioni sostanziali. In primo luogo perché si assume che esso comprenda i principi di ordine generale che sovrintendono alla produzione del sapere scientifico. In secondo luogo perché si presuppone (e si impone) l’estensibilità e applicabilità del metodo stesso a tutte le scienze, o per lo meno a tutte quelle discipline che ambiscono al riconoscimento della scientificità dei propri risultati di ricerca.

Benché entrambi questi assunti - sostanzialmente riconducibili alla logica scientifica elaborata da Mill a metà del diciannovesimo secolo e poi rivisitata nel corso del novecento dai rappresentanti del neopositivismo - siano stati, e siano ancora oggi, oggetto di una serie di critiche e di revisioni2, essi continuano a fare da fondamento ad una certa idea della scienza, legittimando il riferimento al metodo scientifico come ad un unico metodo, ed alimentando una implicita differenziazione tra scienze esatte e scienze non esatte (o non ancora esatte). Tra queste ultime rientrerebbero per l’appunto le scienze sociali.

A questa accezione olistica del metodo scientifico si contrappone una concezione critica della scienza di matrice positivista. L’intransigente posizione incentrata sull’unicità del metodo viene così messa in discus-sione richiamandone alcuni limiti. Alcuni di essi vengono identificati nella pretesa di validare ogni conoscenza

2 Per un approfondimento sulle questioni oggetto della riflessione critica intorno agli assunti iniziali della concezione positivista

della scienza e ai successivi sviluppi della corrente neopositivista si fa rinvio a: Lanfredini (1995); Losee (2001); O’Hear (1989); Parrini (1980); Lambert, Brittan (1970).

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scientifica sulla base dei principi propri dell’empirismo, altri nella inadeguatezza del modello dominante nelle scienze della natura (fisica, chimica, biologia, ecc.) quale modello universale verso cui anche le altre scienze sarebbero chiamate a tendere.

Queste critiche fanno da sfondo ad un processo di declinazione plurale dei metodi di ricerca: al tradizionale riferimento univoco al metodo scientifico si affianca cioè il riferimento ad una pluralità di metodi di ricerca. Si tratta di una evoluzione non sempre messa a tema in modo esplicito, che in realtà trova origine in due distinte esigenze.

La prima ha a che fare con l’emancipazione dal monolitico e dominante metodo delle scienze naturali. Una emancipazione perseguita soprattutto dalle scienze sociali interessate al riconoscimento del proprio statuto scientifico considerato inconciliabile con quello proprio delle scienze così dette esatte, ma che viene sostenuta anche dal processo di revisione dei principi neo positivisti cui concorrono i contributi critici più recenti dei filosofi della scienza.

Vi è poi l’esigenza più pragmatica di superare il livello di astrazione spesso associato alla descrizione dei principi generali del metodo scientifico - ossia dei suoi costrutti - portandolo sul livello della operatività, ov-vero delle procedure adottate nella concreta attività di ricerca. Ciò anche per tener conto del fatto che nella prassi della ricerca scientifica spesso si impongono processi adattivi che si traducono nella identificazione di specifiche soluzioni metodologiche la cui valenza non è valutabile soltanto in rapporto all’aderenza ad astratti principi di ordine generale (cfr. Toulmin, 1972, p. 150).

Tale riferimento plurale ai metodi della ricerca è chiaramente rintracciabile nella tradizione delle scienze sociali, soprattutto in quella di matrice anglosassone, anche se c’è chi intravvede in questo riferimento un potenziale fraintendimento concettuale dovuto ad una sovrapposizione di significati tra metodo e tecniche della ricerca (Marradi, 2007, pp. 16-20). Un potenziale fraintendimento che può essere risolto se si riconoscono due differenti livelli semantici impliciti nell’uso del termine, da cui discendono due differenti accezioni. Ad un livello più generale, cui corrisponde l’uso del termine nell’espressione “metodo scientifico”, ci si riferisce alla logica che sovrintende alla produzione della conoscenza e alla sua giustificabilità. Nella seconda accezione, cui corrisponde l’uso del termine nell’espressione “metodo di ricerca”, ci si riferisce alle procedure attraverso le quali si acquisiscono informazioni, si operano osservazioni e si costruiscono descrizioni e spiegazioni della realtà. Risulta evidente che solo in rapporto alla prima accezione è possibile perseguire il proposito di una definizione univoca, su cui però occorre ancora addivenire ad una sintesi universalmente condivisa. Nella seconda accezione, invece, non si può non riconoscere la legittimità di una declinazione plurale del concetto di metodo, riferendosi dunque a diversi metodi di ricerca, ciascuno dei quali risponde alla specificità dei feno-meni indagati e alle finalità conoscitive perseguite.

Circoscrivendo la riflessione alle sole scienze sociali, c’è in ogni caso da prendere atto che ancora oggi non esiste una esplicita convergenza su una univoca definizione di quello che dovrebbe considerarsi il metodo scientifico cui tutti i ricercatori sociali dovrebbero subordinare la propria attività scientifica, nonostante qual-che tentativo perseguito di enuclearne gli elementi costitutivi (cfr. Theodorson, Theodorson, 1970, p. 370). Tra gli scienziati sociali prevale insomma una valutazione critica a riguardo di simili costrutti definitori intrav-vedendo in essi solo una riproposizione del modello positivista delle scienze naturali considerato inadeguato a dar conto della natura dei fenomeni indagati dalle scienze sociali.

Il riferimento plurale ai metodi, dunque, pur lasciando implicitamente sullo sfondo la questione relativa ai principi metodologici comuni a tutte le scienze, presenta il vantaggio di spostare pragmaticamente l’attenzione sul livello procedurale dell’attività di ricerca. Entrando nel merito delle soluzioni ricorrenti nelle scienze so-ciali, è possibile a tal proposito distinguere i metodi di ricerca in rapporto a due criteri di classificazione: l’approccio metodologico e l’approccio empirico.

1.5 Ricerca quantitativa e ricerca qualitativa

L’approccio metodologico dipende dal tipo di analisi descrittiva e interpretativa dei fenomeni perseguita dai ricercatori e dal modo in cui essi definiscono, di conseguenza, il processo di acquisizione ed elaborazione delle informazioni. Gli approcci metodologici cui fare riferimento sono sostanzialmente due, riconducibili alla di-stinzione comunemente accettata nella comunità scientifica tra ricerca quantitativa e ricerca qualitativa.

Pur essendo ampiamente adottata, tale distinzione viene presentata e argomentata in modi difformi nei diversi manuali di metodologia della ricerca sociale dove è possibile rintracciare una varietà di quadri sinottici proposti per illustrare la specificità dei due approcci. Ciò segnala chiaramente una non completa convergenza di idee in merito a quelli che possono considerarsi i caratteri effettivamente distintivi dei due approcci e gli assunti teorici ad essi sottostanti3.

3 A tal proposito c’è da segnalare che la discussione intorno alle differenze tra i due approcci metodologici si è configurata spesso

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Alcuni autori assegnano a questa distinzione un valore meramente pratico connesso all’esplicitazione delle tecniche e degli strumenti utilizzati nella ricerca. Su questa posizione si colloca ad esempio Bruschi (2005, p. 203-4), il quale arriva anche a metterne in discussione l’efficacia in termini concettuali: «... il significato di “qualitativo” e “quantitativo” ha un campo semantico eterogeneo, composto da una molteplicità di dimensioni, nessuna delle quali ha un ruolo dominante sulle altre. Pertanto, la distinzione, se pur ha una qualche utilità pratica, non regge a una rigorosa analisi critica, sotto i cui “ferri” mostra tutta la sua ambiguità».

Altri autori, assegnando una precisa rilevanza alla distinzione tra i due approcci metodologici, si preoccu-pano invece di enucleare in modo analitico le diverse dimensioni in gioco nel determinare le distanze tra ricerca quantitativa e ricerca qualitativa (Corbetta, 1999, pp. 54-76). Condividendo questo secondo orientamento, qui di seguito si propone un raffronto tra i due approcci metodologici a partire da quelli che possono considerarsi gli elementi che ne costituiscono in modo più inequivocabile i caratteri effettivamente discriminanti.

Ai fini di questo raffronto, risulta utile prendere dapprima in considerazione la finalità dell’attività asso-ciata ai due approcci e la forma in cui si sostanziano tipicamente i rispettivi prodotti empirici, quelli che, ricorrendo ad un’espressione inglese, si possono definire output.

I ricercatori che adottano un approccio metodologico di tipo quantitativo sono interessati ad acquisire in-formazioni che consentano loro di: a) descrivere i fenomeni ricorrendo a delle misurazioni; b) formulare pos-sibili spiegazioni dei fenomeni stessi attraverso l’identificazione di relazioni causali corroborate da evidenze statistiche. A questo scopo, le informazioni vengono acquisite dai ricercatori sotto forma di dati e analizzati statisticamente come variabili sia per rispondere ad una semplice descrizione relativa alle dimensioni, alle caratteristiche e alla distribuzione dei caratteri che assumono i fenomeni, sia per verificare ipotesi esplicative dei fenomeni stessi.

I ricercatori che adottano un approccio qualitativo, invece, sono piuttosto interessati ad acquisire informa-zioni che gli consentano di riconoscere e distinguere i diversi caratteri e i modi di prodursi dei fenomeni studiati, ovvero le forme che assumono, le condizioni in cui si manifestano, i processi che li caratterizzano, le loro possibili cause. Tutto ciò senza pretendere (e senza avere la necessità) di attribuire ad essi una dimensione quantitativa. La descrizione e spiegazione dei fenomeni che essi perseguono, cioè, non si traduce in misura-zioni e non cerca conferme in ricorrenze o correlazioni statistiche. Né potrebbe essere altrimenti atteso che i prodotti finali della ricerca qualitativa si configurano tipicamente sotto forma di resoconti, narrazioni, annota-zioni, documenti. Su di essi i ricercatori costruiscono le proprie descrizioni in termini argomentativi e le pro-prie spiegazioni in termini di plausibilità.

I modi di procedere che risultano più funzionali al raggiungimento delle finalità distintive dei due approcci metodologici sono differenti, come risulta dalla sequenza logico-operativa adottata e dal rapporto che si stabi-lisce tra teoria e ricerca.

I ricercatori che adottano un approccio quantitativo tendono a determinare preliminarmente, ossia prima ancora di avviare l’attività empirica vera e propria, quali informazioni acquisire e come acquisirle, ciò in rap-porto al quadro teorico di riferimento e alle eventuali ipotesi che si intende verificare. La determinazione delle informazioni da acquisire, a sua volta, presuppone un processo di traduzione univoca dei concetti che descri-vono i caratteri dei fenomeni studiati in variabili empiricamente definite. Un processo che, abbinato all’uso di strumenti idonei, consente una rilevazione standardizzata delle informazioni funzionale alla determinazione gli obiettivi propri della misurazione e della generalizzazione dei risultati.

Nella ricerca qualitativa, la sequenza logico-operativa presenta invece un grado inferiore di predetermina-zione. Il quadro teorico di riferimento e la letteratura disponibile sul fenomeno possono suggerire ai ricercatori degli interrogativi cui dare risposta e delle informazioni da acquisire; ma gli uni e gli altri possono ridefinirsi durante la ricerca. In altri termini, l’esperienza sul campo rappresenta un momento di elaborazione di una strategia di osservazione e al contempo di traduzione delle osservazioni in concetti. Un percorso metodologico che, proprio perché teso a favorire l’emergere di elementi ancora poco noti o più difficilmente rilevabili del fenomeno, risulta inconciliabile con procedure empiriche standardizzate e ancor meno con l’adozione di rigidi protocolli.

Un terzo elemento di distinzione tra i due approcci metodologici va ricercato negli strumenti utilizzati e nella natura delle informazioni acquisite attraverso la ricerca.

Nella ricerca quantitativa prevale l’uso di strumenti funzionali all’esigenza di standardizzare il processo di rilevazione delle informazioni e garantire così un output (una matrice dati) idoneo alla successiva elaborazione statistica. Gli strumenti per eccellenza della ricerca quantitativa nelle scienze sociali sono rappresentati dai questionari, ovvero da schede strutturate per l’acquisizione sistematica di dati o l’annotazione di osservazioni subordinate ad un preciso protocollo (come avviene in alcune ricerche a carattere sperimentale). Ciò che con-traddistingue questi strumenti è che le informazioni da rilevare sono formulate sotto forma di domande e al-ternative di risposta già definite, ovvero in variabili i cui possibili valori o modalità sono predeterminati e che

come uno scontro tra due paradigmi, ovvero tra due contrapposte posizioni epistemologiche ed ontologiche intorno ai processi che stanno alla base della conoscenza dei fenomeni umani (cfr. Bryman, 2008).

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possono tradursi in dati quanto più possibile oggettivi, cioè non subordinati ad interpretazioni soggettive. Il che presuppone due diverse condizioni: a) che il ricercatore disponga già di una conoscenza sufficiente del fenomeno indagato da consentirgli non solo di formulare delle domande, ma anche di prevedere delle alterna-tive di risposta a queste domande; b) che le informazioni da acquisire siano effettivamente rilevabili attraverso il sistema delle domande/risposte predeterminate.

Nella ricerca qualitativa, invece, prevale l’uso di strumenti (o tecniche) che consentono di acquisire infor-mazioni in modo non rigidamente strutturato. Osservazioni, colloqui di interviste e focus group rappresentano le soluzioni preferite dai ricercatori quando l’obiettivo perseguito è quello di esplorare i fenomeni in una pro-spettiva quanto più possibile aperta4. Nella conduzione delle interviste e dei focus group o nella pratica dell’os-servazione, infatti, i ricercatori sono guidati solo da alcuni interrogativi di fondo con cui leggono la realtà. Non ci sono domande con risposte predefinite perché si parte dal presupposto che non sia possibile identificarle in modo esaustivo e pertinente, ovvero perché si ritiene che esse potrebbero rappresentare una inutile limitazione in una fase di analisi del fenomeno in cui si è anche interessati a far emergere sfumature e livelli di profondità (o complessità) che altrimenti resterebbero inesplorati5.

Un ulteriore elemento di distinzione tra i due approcci va poi identificato nel modo di definire il perimetro empirico privilegiato, ovvero il campo d’osservazione, che può essere di tipo estensivo o intensivo.

Nelle ricerche quantitative prevale una soluzione estensiva, qualificazione che qui viene proposta per in-dicare quell’orientamento finalizzato ad acquisire un numero definito di informazioni (elaborabili sotto forma di variabili) su un numero di casi quanto più ampio possibile. La numerosità e conseguente rappresentatività dei casi analizzati viene assunta come una condizione indispensabile per assegnare significatività scientifica ai risultati che si ottengono dalle elaborazioni sulle variabili in termini di descrizioni e spiegazioni dei feno-meni indagati. Ciò con un corollario non secondario che è rappresentato dalla generalizzabilità dei risultati ottenuti. Detto in altri termini, l’estensione dei casi osservati giustifica l’assunto che i risultati ottenuti possano descrivere e spiegare in modo sufficientemente attendibile la natura dei fenomeni indagati, per lo meno in rapporto alle variabili prese in considerazione e analizzate. Da qui la necessaria standardizzazione delle rile-vazioni che non possono non fondarsi, per tutti i casi esaminati, sullo stesso insieme predefinito di variabili e su un sistema di analisi incentrato sulla così detta matrice dati6.

Nelle ricerche qualitative prevale invece una soluzione intensiva: alla numerosità dei casi si preferisce la profondità e varietà di informazioni acquisite. Per i ricercatori che adottino un approccio qualitativo, cioè, alla preoccupazione per la numerosità dei casi si contrappone quella per la numerosità delle informazioni, espri-mendo con ciò un interesse più marcato verso l’esplorazione e l’interpretazione della complessità che può essere riconosciuta dietro ad ogni singolo caso (comunque esso sia definito) e che non può essere pienamente riassunta in un insieme predefinito di variabili. La numerosità dei casi risulta perciò una condizione relativa-mente secondaria, anche perché i ricercatori perseguono in modi diversi l’obiettivo della rappresentatività dei casi esaminati e della generalizzabilità dei risultati ottenuti. La rappresentatività dei casi presi in considera-zione non è di tipo statistico, ma solo tipologica, rispondendo all’esigenza di cogliere le diversità tra i casi o le loro specificità, non il peso che essi hanno sul più ampio insieme da cui sono estrapolati (la popolazione di riferimento oggetto di analisi). Di conseguenza, il requisito della generalizzabilità dei risultati ottenuti non viene inteso in termini di una estensibilità statisticamente corroborata, quanto piuttosto in termini di potere descrittivo dei singoli casi in quanto tali, ovvero del loro contenuto esemplificativo, anche quando il caso si riduce ad essere uno solo7.

4 Sul ricorso all’osservazione quale pratica di ricerca si rinvia alla trattazione del tema proposta nel paragrafo successivo. Per

approfondimenti in merito all’utilizzo e alle tecniche dell’intervista (nelle sue diverse modalità di conduzione) e del focus group si suggeriscono invece le seguenti letture: Cardano (2003, pp. 73-106, 153-76); Zammuner (2003); Gramegna (2004); Kaufmann (2007); Frisina (2010); Cardano (2011, pp. 147-239).

5 In merito alla natura dei dati e al confronto tra i due approcci metodologici, Corbetta (1999, p. 62) osserva che: «Nella ricerca di orientamento quantitativo essi [i dati] sono (o comunque ci si attende che siano) affidabili, precisi, rigorosi, univoci: il termine inglese che viene utilizzato per definire sinteticamente questi attributi è hard; in italiano lo esprimerei con gli attributi di “oggettivi” e “stan-dardizzati”. Oggettivi, nel duplice senso che i dati non dovrebbero essere esposti alla soggettività interpretativa del ricercatore (anche cambiando il ricercatore non deve cambiare il risultato della rilevazione), né alla soggettività espositiva del soggetto studiato (due situazioni eguali, caratterizzanti soggetti diversi, devono produrre, come risultato della rilevazione, lo stesso dato). Standardizzati nel senso che i dati raccolti sui diversi soggetti (ed eventualmente da diversi ricercatori) devono essere fra loro confrontabili (in genere per poter fare ciò, saranno espressi in forma numerica). (...) La ricerca qualitativa, all’opposto, non si pone il problema dell’oggettività e della standardizzazione dei dati, preoccupandosi invece della loro ricchezza e profondità; nella letteratura di lingua inglese i dati che produce sono definiti, in contrasto con i precedenti, soft».

6 La matrice dati, anche detta “matrice casi per variabili”, rappresenta un modo di organizzare i dati ai fini della successiva elabo-razione statistica. Si tratta di uno strumento operativo fondamentale per la standardizzazione dei dati, ovvero per la definizione, rile-vazione e successiva analisi delle informazioni tradotte sotto forma di variabili. Sulla logica di costruzione della matrice dei dati si fa rinvio alla trattazione proposta nell’8° capitolo.

7 La distinzione qui proposta tra perimetro empirico di tipo estensivo e intensivo, per come argomentata, può essere ricondotta alla distinzione ricorrente nei manuali metodologici in lingua inglese tra ricerca variable-based e ricerca case-based, distinzione uti-lizzata per l’appunto per qualificare rispettivamente la ricerca quantitativa e qualitativa.

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L’ultima linea di demarcazione tra ricerca quantitativa e ricerca qualitativa va infine identificata nel diverso orientamento epistemologico ed ontologico cui sono associati i due approcci metodologici.

Nelle scienze sociali è possibile distinguere due principali orientamenti cui corrispondono due diverse concezioni del processo attraverso il quale si osserva la realtà e si stabiliscono nuove conoscenze. Il primo di essi è identificabile nel positivismo, riconducibile alla formalizzazione del metodo scientifico proposta inizial-mente da John Stuart Mill a metà dell’Ottocento e alle sue successive rielaborazioni intervenute nel corso del Novecento ad opera degli esponenti del neopositivismo e post positivismo8. Il secondo orientamento è rappre-sentato dall’interpretativismo, la cui origine può essere identificata nel dibattito sul metodo scientifico pro-mosso a partire dalla seconda metà dell’Ottocento dai rappresentanti delle scienze storico-sociali che si con-trapponevano al principio positivista dell’unicità del metodo (monismo metodologico) e all’egemonia del mo-dello proprio delle scienze naturali9.

L’orientamento positivista, nella sua versione originaria, si fonda intanto su un duplice assunto ontologico di tipo oggettivistico e realistico: i fenomeni sociali esistono e possono essere indagati in termini rigorosamente oggettivi. Ciò implica che è possibile assumere una separazione tra osservatore e oggetto osservato simile a quella che si assume nello studio dei fenomeni naturali. I fenomeni sociali possono (e devono) essere osservati, descritti e interpretati dal ricercatore in modo oggettivo, neutrale e distaccato, operando in modo tale da elimi-nare le influenze soggettive (del ricercatore) e garantire alla comunità scientifica la possibilità di controllo sui risultati ottenuti. Il modello di conoscenza perseguito dai ricercatori che adottano un orientamento positivista è incentrato sulla spiegazione dei fenomeni, ovvero sull’identificazione delle relazioni causali che sono alla base del loro prodursi.

Nelle rielaborazioni del neopositivismo e del post positivismo, questi assunti dell’impianto positivista ot-tocentesco vengono ridefiniti ed in parte superati. Sul piano ontologico, il fatto di considerare i fenomeni sociali come reali e oggettivamente indagabili viene riconosciuto come una pretesa ingenua. Ad essa si con-trappone una concezione fondata su un “realismo critico” che - pur confermando il principio realistico per cui si assume che i fenomeni sociali esistono indipendentemente dall’attività conoscitiva dell’uomo - problema-tizza l’imperativo positivista dell’oggettività della conoscenza, riconoscendo i limiti di questa in rapporto an-che alla natura propria dei fenomeni sociali e alle strutture socio-culturali che ne condizionano il discerni-mento. Una problematizzazione che per altri versi è sostenuta dalla consapevolezza che ogni rappresentazione della realtà è “carica di teoria” (Hanson, 1958), essendo sempre frutto di una elaborazione in rapporto ad una teoria di riferimento che costituisce, per così dire, la cornice entro la quale le stesse osservazioni empiriche trovano origine e assumono significato (cfr. Popper, 1935).

Sul piano epistemologico, l’allontanamento dall’ortodossia positivista determinato dagli sviluppi del neo-positivismo e del post positivismo si concretizza nell’accettazione di un diverso modello di spiegazione scien-tifica. Al modello di spiegazione nomologica incentrato sulla identificazione delle relazioni di causa-effetto e sulla riconducibilità di queste a leggi universali (anche dette “leggi di copertura”), si affianca infatti un modello di spiegazione di tipo probabilistico (cfr. Hempel, 1965). Ciò significa che, pur rimanendo incentrata sull’iden-tificazione delle cause, la spiegazione dei fenomeni non viene più subordinata ad un principio deterministico di regolarità e necessità, ma costruita sulla base di corroborazioni di tipo statistico.

L’orientamento interpretativista, distanziandosi in modo ancor più netto dall’orientamento positivista, si fonda su un assunto ontologico completamente diverso. Ponendo in discussione la questione dell’oggettività per come formulata nella tradizione positivista, i sostenitori dell’orientamento interpretativista richiamano l’at-tenzione sul fatto che le rappresentazioni della realtà sono il frutto di un processo di costruzione sociale di senso, tesi questa che costituisce l’assunto fondamentale del così detto costruttivismo sociale. Ciò non significa che i fenomeni sociali siano da considerare il prodotto dell’immaginazione degli scienziati sociali, ma che il modo in cui essi sono riconosciuti, indagati e rappresentati non risponde tanto all’imperativo della loro spie-gazione, quanto della loro intelligibilità10. Indagare la realtà sociale, cioè, vuol dire attribuire significati ai fenomeni che in essa si producono provando a stabilire un ordine e dei nessi tra questi stessi fenomeni (cfr.

8 Per una ricostruzione del dibattito sviluppatosi nel corso del Novecento all’interno della scuola neopositivista intorno agli assunti

fondativi della concezione positivista della scienza, e per un approfondimento sulle posizioni critiche sorte nei riguardi della stessa epistemologia neopositivista, si fa rinvio a: Sciuto (1995), Barone (1986), Parrini (1980), Kolakowski (1972).

9 Il dibattito cui ci si riferisce, meglio noto come Methodenstreit, trova avvio ad opera di esponenti dello storicismo tedesco quali W. Dilthey, W. Windelband e H. Rikert, che sostengono, pur se con argomentazioni diverse, l’irriducibilità della conoscenza storica a leggi universali necessarie. Le scienze storico-sociali (anche dette “scienze dello spirito”) non possono essere assimilate, nel metodo adottato, alle scienze della natura. Ciò perché i fenomeni di interesse delle une e delle altre presuppongono un orientamento gnoseolo-gico differente. Nelle scienze naturali prevale un interesse verso il riconoscimento di leggi generali, da cui la qualificazione di Win-delband di “scienze nomotetiche”. Nelle scienze storico-sociali, definite “scienze idiografiche”, prevale invece un interesse verso una ricostruzione dei fenomeni individuali, non soggetti a leggi e a necessità. Per un approfondimento sui temi di questo dibattito, e sulla ridefinizione dei suoi termini essenziali ad opera di M. Weber, si fa rinvio a: Rossi (1988 e 1994), Fornari (2002), Sparti (2002).

10 Intervenendo nel dibattito sul metodo e sulla questione relativa all’estensibilità del modello di spiegazione tipica delle scienze naturali alle scienze storiche, Aron (1972-74, trad. it. p. 193) osserva che: «... la ricostruzione dell’intelligibilità d’una società non è un mezzo per ottenere una spiegazione scientifica, ma è proprio lo scopo del lavoro storico».

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Della Porta, Keating, 2008, p. 24). Il che implica un modo di costruire la conoscenza incentrato su priorità diverse, ben sintetizzato nella definizione proposta da Geertz (1973, trad. it. p. 41) «Non una scienza speri-mentale in cerca di leggi, ma una scienza interpretativa in cerca di significati».

Nei termini posti dall’orientamento interpretativista, la realtà sociale non può essere semplicemente osser-vata, ma richiede di essere interpretata. Una considerazione questa intorno alla quale già alla fine dell’Otto-cento si costruisce uno spartiacque tra scienze naturali e scienze storico-sociali con la già citata disputa sul metodo promossa dai rappresentanti dello storicismo tedesco. Ed il riferimento ad un necessario processo in-terpretativo, dissimile da quello dell’osservazione oggettiva auspicata dai sostenitori del positivismo, è alla base della distinzione tra una conoscenza fondata sulla spiegazione (sia essa nomologica o probabilistica) ed una conoscenza fondata sulla comprensione11.

All’interesse per l’identificazione di relazioni di causa-effetto e di leggi generali sotto le quali sussumere tali relazioni viene cioè contrapposto quello per il discernimento del senso e della logica delle azioni umane. Un discernimento che di per sé non esclude la ricerca delle cause (o delle condizioni) che consentono di dar conto del prodursi dei fenomeni indagati dagli scienziati sociali, ma che ne ridefinisce il contributo esplicativo e la generalizzabilità. L’attenzione si sposta piuttosto sul riconoscimento delle connessioni causali che, nel significato assegnato ad esse da Weber, vanno intese come possibili cause cui ricondurre le azioni umane assunte nella loro individualità o nella loro ricorrenza tipologica, sapendo tuttavia che su di esse agiscono un numero indeterminabile di altre cause (cfr. Weber, 1922, trad. it. pp. 92-3).

Tali connessioni causali non sono da intendere in termini deterministici e non sono riconducibili a leggi generali. Piuttosto sono da considerare come elementi di un modello, ovvero come enunciati di possibilità (Boudon, 1984, trad. it. pp. 85-93 e 239-41) di cui occorre valutare la plausibilità più che il carattere di neces-sità e regolarità. Ciò anche perché, nelle scienze storico-sociali, i fenomeni indagati possono anche assumere una pregnanza in quanto fenomeni unici e irripetibili, storicamente e socialmente contestualizzati: quella rivo-luzione, quel crollo della borsa, quell’eccidio di un popolo, quel movimento di protesta, quel flusso migratorio, quelle condizioni di povertà, l’affermazione di quella setta religiosa, quegli atti terroristici, il consenso eletto-rale di quel partito in quel momento. Simili fenomeni sono difficilmente riconducibili alla logica della regola-rità e necessità; per la comprensione di essi risulta più appropriato un approccio idiografico12, orientato a co-glierne la specificità. Il che non esclude che la comprensione di fenomeni o eventi specifici possa anche essere utile alla comprensione di fenomeni o classi di eventi più generali: le rivoluzioni, il funzionamento delle borse, le dittature, i movimenti, il terrorismo, le migrazioni, la povertà, la religiosità, il consenso politico.

1.6 Approcci empirici

La distinzione tra ricerca quantitativa e ricerca qualitativa ed il riferimento a differenti orientamenti epistemo-logici e ontologici trova concreta espressione anche nella varietà di approcci empirici, ovvero di soluzioni operative adottate dai ricercatori sociali per acquisire le informazioni utili a descrivere e interpretare i fenomeni oggetto d’analisi. Tali soluzioni, cui è possibile ricondurre l’insieme variegato dei metodi della ricerca sociale, differiscono a seconda che l’acquisizione delle informazioni risulti fondata su esperimenti, indagini, osserva-zioni o sull’uso di documenti.

1.6.1. GLI ESPERIMENTI L’approccio empirico di tipo sperimentale deriva dalla prassi di ricerca propria delle scienze naturali, dove trova una precisa collocazione nel processo di validazione delle ipotesi formulate sul piano teorico. L’esperi-mento consente ai ricercatori di valutare il prodursi dei fenomeni studiati in un ambiente controllato (il labo-ratorio), dove i fattori che si presume possano influire sulla manifestazione del fenomeno stesso vengono mo-nitorati al fine di stabilire le eventuali relazioni esistenti tra essi. Il linguaggio formale adottato negli esperi-menti è quello delle variabili, ed il tipo di analisi operata su queste è normalmente tesa a rilevare e misurare la covariazione tra esse, distinguendo queste stesse variabili in rapporto al ruolo che assumono in quanto variabili indipendenti, dipendenti, intervenienti (anche dette variabili di controllo). Tutto ciò avendo come obiettivo la messa alla prova - in termini di conferma o di confutazione - di un modello di spiegazione causale riconducibile

11 Per un approfondimento sulla dicotomia spiegazione-comprensione nelle scienze sociali e sui presupposti epistemologici dei due modelli si fa rinvio a Fornari (2002).

12 Il termine è ricavato da Windelband, il quale distingue tra scienze nomotetiche e scienze idiografiche. Le prime sono rappre-sentate da quelle scienze che indagano fenomeni generali, ossia quei fenomeni che si producono con regolarità essendo sottoposti alle leggi della natura. Le altre sono rappresentate dalle scienze che invece indagano i fenomeni assunti nella loro singolarità, come avviene per la storiografia, il cui oggetto di interesse è rappresentato dai singoli avvenimenti (cfr. Windelband, 1914, trad. it. p. 320).

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a teorie più generali13. L’adozione del metodo sperimentale da parte dei ricercatori sociali si ispira sostanzialmente alla stessa

logica che ne guida la sua applicazione nelle scienze naturali, pur se con alcune significative differenze di cui occorre tener conto. Ad esso i ricercatori sociali ricorrono soprattutto per studiare, in un ambiente quanto più controllato possibile, i comportamenti, gli atteggiamenti, le performance degli individui sottoposti ad alcuni stimoli. A fronte degli stimoli dati agli individui coinvolti nell’esperimento, i ricercatori rilevano, e dove pos-sibile misurano, le risposte degli stessi individui a questi stimoli.

Nella specifica applicazione ai fenomeni di interesse dei ricercatori sociali, il metodo sperimentale trova differenti formulazioni operative, distinguibili in base ad un triplice criterio: a) il grado di controllo esercitato sull’ambiente scelto per l’osservazione; b) il tipo di stimolo/risposta su cui si fonda l’esperimento; c) il tipo di rilevazione operata sulle risposte agli stimoli.

In rapporto al primo criterio è possibile distinguere tra esperimenti di laboratorio ed esperimenti sul campo (Corbetta, 1999, p.145-50). L’esperimento di laboratorio viene condotto in una situazione in cui è possibile operare un maggior controllo sia sui fattori che possono rappresentare un elemento di disturbo (eliminandoli o per lo meno limitandoli), sia sulle condizioni di realizzazione dell’esperimento (codificate in un protocollo)14. L’esperimento sul campo è invece quello che si realizza in un contesto di vita reale, dove la possibilità di tenere sotto controllo eventuali fattori di disturbo è limitata, ma dove è possibile rilevare le risposte a determinati stimoli in una situazione che risulti più familiare o abituale, cioè meno artificiale. Il che presuppone anche che ci si possa attendere comportamenti e atteggiamenti più spontanei, meno condizionati dalla stessa consapevo-lezza di partecipare ad un esperimento.

In rapporto al secondo criterio, è possibile operare un’ulteriore distinzione tra: a) esperimenti che impli-cano un coinvolgimento dei soggetti su un determinato compito o in una determinata situazione artificialmente prodotta dai ricercatori; b) sperimenti in cui ai soggetti che partecipano all’esperimento si chiede solo di espri-mere dei giudizi o dare conto di propri pensieri o emozioni; c) esperimenti in cui i soggetti partecipanti sono, consapevolmente o meno, solo oggetto di un’osservazione.

Infine, gli esperimenti si possono distinguere a seconda che le risposte agli stimoli siano rilevate dai ricer-catori in modo sistematico o metrico oppure sotto forma resoconti osservativi situazionali o clinici. Le rileva-zioni sistematiche o metriche afferiscono all’approccio quantitativo, sono espresse in numeri e riguardano rispettivamente la frequenza o intensità delle risposte rilevate. Le rilevazioni situazionali o cliniche sono invece espresse attraverso un linguaggio descrittivo e riguardano in genere la risposta comportamentale o cognitiva a determinati stimoli erogati dai ricercatori ai soggetti coinvolti nell’esperimento.

1.6.2. L’INDAGINE SOCIALE (CON INTERROGAZIONE) Il secondo approccio empirico da prendere in considerazione è quello fondato sulle indagini sociali, una espres-sione questa con la quale non si fa riferimento ad un unico metodo di ricerca, quanto piuttosto ad un modo specifico di procedere nell’acquisizione delle informazioni interrogando, ossia rivolgendo domande15. L’in-dagine sociale si distingue dalle altre soluzioni empiriche (esperimenti, osservazioni e uso dei documenti) per tre motivi fondamentali. In primo luogo perché non implica l’adozione della logica operativa dello stimolo-risposta e del controllo dell’ambiente privilegiata negli esperimenti. In secondo luogo perché, diversamente dall’osservazione, prevede un processo di acquisizione delle informazioni che passa attraverso il porre espli-citamente domande e nel richiedere esplicitamente delle risposte su queste domande, dando così voce a coloro i quali sono direttamente o indirettamente coinvolti nel fenomeno indagato, ovvero a quei soggetti la cui opi-nione sul fenomeno indagato risulti rilevante in rapporto agli obiettivi conoscitivi perseguiti. Infine, l’indagine sociale si distingue dall’indagine documentale perché non ricorre a informazioni già disponibili o implicita-mente ricavabili dai documenti esistenti, ma ne prevede la rilevazione ex novo a partire da una preliminare concettualizzazione delle informazioni che ne garantisca l’effettiva rilevabilità empirica.

Rimanendo nei confini della definizione proposta, l’indagine sociale contempla più soluzioni, che si con-figurano come specifici metodi di ricerca. Tra le diverse soluzioni adottate dai ricercatori sociali, l’indagine campionaria - corrispondente a quella che nel mondo anglosassone viene per lo più indicata come survey - ha conquistato col tempo il maggior riconoscimento quale modello di indagine sociale più rappresentativo

13 Nelle scienze sociali, il metodo sperimentale trova applicazione soprattutto in psicologia e psicologia sociale. Per un approfon-

dimento sulla logica dei metodi sperimentali e sulle procedure adottate nella definizione operativa e nel controllo delle variabili si rinvia a Wilson, Aronson, Carlsmith (2010).

14 Negli esperimenti di laboratorio realizzati dai ricercatori sociali tale controllo non è comunque mai totale per il semplice fatto che è difficile riconoscere e isolare tutti i fattori che potrebbero condizionare le risposte individuali agli stimoli.

15 La definizione di indagine sociale qui proposta trae spunto dalla distinzione utilizzata da Corbetta (1999, p. 169) per indicare i modi di raccolta delle informazioni, allorché colloca da una parte l’attività di osservazione e dall’altra l’attività del rilevare informazioni interrogando.

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dell’approccio metodologico di tipo quantitativo. Ma alla categoria delle indagini sociali appartengono anche altri metodi della ricerca che prevedono il ricorso a tecniche e strumenti di rilevazione delle informazioni tipici di un approccio metodologico di tipo qualitativo (interviste in profondità, interviste biografiche o focus group), o a soluzioni empiriche che rappresentano una combinazione di approcci quantitativi e qualitativi.

L’indagine sociale, per come si configura e per come si realizza oggi, è comunque da considerare il risul-tato di un processo di progressiva differenziazione e specializzazione di una pratica di ricerca che trova le sue radici nei primi censimenti socio-demografici a carattere sistematico e nelle inchieste condotte nel dicianno-vesimo secolo sulle condizioni di vita della popolazione delle aree urbane industrializzate dell’Inghilterra e degli Stati Uniti.

Per ciò che attiene i censimenti, pur ricordando che si tratta di una pratica con scopi amministrativi già adottata nell’antico Egitto e successivamente sotto l’impero Romano, il metodo della rilevazione sistematica sulle singole persone presenti sul territorio è riconducibile alle prime esperienze censuarie avviate negli Stati Uniti (1790) e più tardi in Europa. Tra il 14 e il 15 ottobre del 1846 fu condotto in Belgio il primo censimento simultaneo su tutte le famiglie sotto la guida metodologica di Quételet, cui fecero seguito negli anni successivi esperienze simili in Germania, Austria-Ungheria, Inghilterra, Svizzera e, a partire dal 1861, in Italia.

Per ciò che attiene invece le inchieste sulle condizioni di vita della popolazione, un primo significativo esempio è rappresentato dalla pionieristica ricognizione sul contesto urbano londinese operata da Mayhew a partire dal 1841 e presentata in London Labour and the London Poor, nella sua prima edizione in tre volumi pubblicata nel 1851. Un’opera per molti versi originale, in cui l’autore offre resoconti dettagliati su molteplici aspetti della condizione sociale della popolazione nella Londra vittoriana. Resoconti basati su conversazioni con la gente della strada e sull’osservazione della vita quotidiana, arricchiti da dati statistici tratti dai censi-menti e dai registri della polizia (cfr. Mayhew, 1861-62).

L’altra inchiesta che occorre citare è quella di Booth, i cui risultati sono descritti in Life and labour of the People in London, opera in diciassette volumi pubblicata tra il 1892 e il 1903. Il suo lavoro ispirerà a sua volta l’inchiesta di Rowntree (1901) sulle condizioni di povertà della popolazione di York, e costituirà un riferimento metodologico anche per le prime inchieste sociali dello stesso periodo negli Stati Uniti, tra cui quella condotta da Du Bois (1899) sulla condizione della popolazione afro-americana residente nell’area di Philadelphia.

Queste pionieristiche inchieste sociali, così come la più parte di quelle condotte nei due decenni immedia-tamente successivi, risultano fondate prevalentemente su un approccio metodologico di tipo qualitativo, dove l’eventuale rilevazione o elaborazione di dati quantitativi assume per lo più una funzione di supporto argo-mentativo ai resoconti proposti. Dopo la seconda guerra mondiale, tuttavia, il ricorso più sistematico a proce-dure di campionamento, unitamente allo sviluppo dei metodi di analisi statistica, determina l’emergere di un diverso orientamento metodologico che, nel giro di due soli decenni, si traduce in una netta affermazione dell’inchiesta campionaria incentrata su un approccio quantitativo ispirato, per quanto possibile, al modello positivista (cfr Neuman, 2014, p. 317-9).

Tale svolta è particolarmente evidente negli Stati Uniti, dove il metodo dell’indagine campionaria trova un terreno di sviluppo particolarmente favorevole. Il linguaggio e le tecniche di rilevazione e di analisi dei dati introdotti e perfezionati nel mondo accademico vengono infatti applicati in misura crescente in altri ambiti della società. Ad essi si fa diffusamente ricorso: nel settore privato della ricerca specializzato in sondaggi di opinione e indagini di mercato16; nel campo della ricerca sociale promossa dalle fondazioni private (Carnagie, Rockefeller, e altre); nelle amministrazioni pubbliche operanti nell’area del welfare, della giustizia, dell’istru-zione, della sanità. L’indagine campionaria diventa inoltre uno strumento privilegiato dall’agenzia nazionale deputata alle rilevazioni statistiche (Census Bureau) che ad essa ricorre per le rilevazioni periodiche su aspetti diversi della vita sociale (occupazione, prezzi, consumi, condizioni delle famiglie, ecc.).

1.6.3. L’OSSERVAZIONE Vi sono circostanze in cui i ricercatori non possono né condurre esperimenti né ricorrere a indagini sociali. Ciò significa che non tutti i fenomeni di interesse dei ricercatori sociali, né tutti gli interrogativi e gli obiettivi conoscitivi che essi si pongono, possono essere affrontati ricorrendo agli approcci empirici sopra descritti. Talvolta i ricercatori sociali devono dunque adottare soluzioni metodologiche differenti per riuscire ad acqui-sire informazioni utili a comprendere i fenomeni o i contesti sociali su cui focalizzano la propria attenzione o i propri interrogativi di ricerca.

Tra gli approcci empirici alternativi, un posto di rilievo assume sicuramente l’osservazione, intesa come quella pratica di ricerca finalizzata ad acquisire informazioni guardando ciò che succede e ascoltando ciò che

16 Nei manuali di ricerca sociale, il sondaggio di opinione viene talvolta presentato come un metodo distinto dall’inchiesta cam-

pionaria, altre volte come una sua variante. I caratteri distintivi dell’inchiesta e del sondaggio sono illustrati nel terzo capitolo al quale si rinvia anche per i necessari rimandi bibliografici.

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si dice17. Una pratica questa con una storia consolidata che è riconducibile a più tradizioni di ricerca afferenti alle scienze sociali. Il ricorso ad essa, seppur in modo non ancora sistematico, è rintracciabile nel lavoro degli etnologi già a partire dalla seconda metà del XIX secolo, ma anche nelle pionieristiche inchieste sociali di Mayhew, Booth, Rowntree e Du Bois cui si è già fatto riferimento nel precedente paragrafo. A partire dai primi decenni del XX secolo, tale pratica trova poi una maggiore formalizzazione metodologica grazie ai contributi degli antropologi, tra i quali occorre citare Franz Boas, Robert Lowie e Bronislaw Malinowski, le cui ricerche inaugurano una prassi di ricerca empiricamente incentrata sulla così detta osservazione partecipante. Questa pratica dell’osservazione viene poi mutuata dai ricercatori sociali della Scuola di Chicago che nello stesso periodo danno avvio a quel filone di studi di sociologia urbana sotto l’impulso iniziale di Robert Park. Infine, l’osservazione diventa un approccio empirico distintivo anche per la psicologia comportamentale, quella cor-rente della psicologia che nasce anch’essa a Chicago e che, nel primo ventennio del XX secolo, trova in John Watson il suo esponente principale.

Nei decenni successivi, l’osservazione si impone come uno specifico approccio empirico alla conoscenza dei fenomeni sociali, riscuotendo un riconoscimento crescente nella comunità scientifica anche in ragione del moltiplicarsi delle ricerche in cui si fa ricorso con successo ad essa.

Alla pratica dell’osservazione viene così ad essere attribuita una rilevanza metodologica soprattutto in rapporto a tutte quelle situazioni che riguardano in particolare l’interazione umana, in cui il ricorso formale alle domande direttamente poste agli interessati può risultare meno efficace e l’esplorazione a carattere speri-mentale problematica, se non impossibile.

I modi di condurre l’osservazione e gli obiettivi associati ad essa sono comunque molteplici, dipendendo sia dall’orientamento prevalente nelle singole scienze sociali e relative sub-discipline, sia dall’oggetto di inda-gine. A tal proposito, la distinzione principale cui fare riferimento è quella tra osservazione così detta natura-listica e osservazione di laboratorio. L’osservazione naturalistica è un’osservazione condotta nei contesti di vita abituali delle persone, ossia nel loro ambiente, dove è possibile sia valorizzare i contenuti impliciti nei comportamenti non verbali (Bailey, 1982, trad. it. pp. 280-1), sia aggirare i processi di razionalizzazione che si innescano nelle persone quando devono assolvere al compito di rispondere a specifiche domande. Si tratta di un’osservazione che generalmente è focalizzata sulle interazioni sociali che si stabiliscono tra gli individui nelle situazioni reali, ovvero sui concreti comportamenti messi in atto e sui modi ed i contenuti della comuni-cazione18. Un’osservazione che consente anche di eliminare i caratteri di artificiosità e intrusività tipici degli esperimenti di laboratorio (cfr. Pedon, Gnisci, 2004, p. 231). L’osservazione di laboratorio, invece, consiste in quell’attività osservativa che accompagna il processo stimolo-risposta tipico degli esperimenti di laboratorio cui si è già accennato e su cui non torniamo a soffermarci.

Tale distinzione stabilisce in effetti una linea di demarcazione che va posta in relazione anche con le finalità conoscitive perseguite. Ci si riferisce al fatto che l’osservazione non costituisce un approccio empirico decli-nabile soltanto nei termini distintivi della ricerca qualitativa, trovando altresì applicazione in ricerche che ri-flettono un approccio metodologico quantitativo. In questo secondo caso, le osservazioni acquisite non sono rese in termini di resoconti descrittivi, quanto piuttosto di rilevazioni per così dire “oggettive”, espresse in

17 Questa definizione impone un chiarimento. Anche coloro che ricercatori sociali non sono, infatti, potrebbero affermare di fare

abitualmente esperienza di osservazione, e che guardare ciò che succede e ascoltare ciò che si dice rappresenta dopo tutto un’espe-rienza “ordinaria”, in qualche modo anche spontanea. Per l’uso che ne fanno i ricercatori sociali, tuttavia, l’osservazione non può considerarsi un’attività spontanea, quanto piuttosto un’attività esplicitamente organizzata e pianificata. Un’attività attraverso la quale si perseguono consapevolmente degli obiettivi conoscitivi e che è guidata da specifici interrogativi che orientano la stessa osservazione. Talvolta su aspetti molto circoscritti e rigorosamente predefiniti, come avviene ad esempio nelle ricerche condotte nell’ambito della psicologia comportamentale. Altre volte su sistemi complessi di relazioni, come avviene negli studi etnologici e sociologici su gruppi, movimenti, comunità, istituzioni. L’osservazione, intesa come specifica pratica di ricerca, non può considerarsi neanche un’attività ordinaria, nel senso che essa impone una “discesa sul campo” che è anche un’operazione di scoperta, un calarsi in situazioni di cui non sempre si ha consuetudine, in contesti che talvolta risultano completamente estranei. Infine, l’osservazione messa in atto dai ricercatori parte dal presupposto che non sempre ciò che appare corrisponde a ciò che effettivamente è, e che occorra piuttosto una messa in discussione di quella che è una concezione “ingenua” dell’osservazione. Detto in altri termini, la realtà sociale non è così semplice da osservare e ciò che avviene in un determinato contesto socio-culturale o relazionale non è sempre immediatamente riconoscibile o decifrabile. Il che oltretutto significa che non si può condurre un’osservazione se non si sa cosa osservare e come osservare, ovvero se non si hanno delle domande cui dare risposta e se non si fa ricorso ad un metodo di osservazione.

18 Nell’ambito dell’osservazione naturalistica, una ulteriore distinzione da ricordare è quella tra osservazione a distanza e osser-vazione partecipante. Nel primo caso il ricercatore conduce le proprie osservazioni dall’esterno, evitando cioè di entrare di persona in quello che è il contesto osservato, e ciò al fine di non condizionare, con la sua presenza estranea, i comportamenti, gli atteggiamenti e le forme di interazione delle persone coinvolte nel contesto o nella situazione studiata. Nel secondo caso, invece, il ricercatore conduce la propria osservazione ponendosi egli stesso all’interno del contesto sociale da osservare, interagendo direttamente con le altre persone presenti, coinvolgendosi nelle situazioni nel mentre esse si producono. Un approccio quest’ultimo che costituisce il tratto distintivo della ricerca etnografica per come definita dagli antropologi e per come poi interpretata e messa in pratica dai sociologi in innumerevoli situazioni. Per un approfondimento sulle molteplici applicazioni dell’osservazione partecipante si fa rinvio all’ampia ricostruzione storica proposta da Céfaï (2003). Per una riflessione sulle premesse teoriche e sui risvolti metodologici dell’osservazione partecipante si suggerisce inoltre la lettura dei relativi capitoli proposti nei testi di Bailey (1982, trad. it. pp. 279-316), Corbetta (1999, pp. 367-403), Cardano (2011, pp. 93-146).

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termini di frequenza e intensità degli atti osservati a seconda che si ricorra ad osservazioni così dette sistema-tiche o metriche (cfr. ivi, pp. 102-5).

1.6.4. L’USO DEI DOCUMENTI Gli esperimenti, le indagini e l’osservazione rappresentano approcci empirici adottati dai ricercatori sociali quando si tratta di acquisire informazioni e dati non ancora disponibili. Ciascuno di questi tre approcci risponde ad esigenze e logiche operative specifiche, accomunate però dal fatto che in tutti e tre i casi viene operata, da parte dei ricercatori, una apposita rilevazione di informazioni sul fenomeno oggetto di interesse. Come ab-biamo visto, tale rilevazione spesso implica un rapporto con i soggetti che direttamente o indirettamente sono coinvolti nei fenomeni oggetto di indagine. Nella definizione di ricerca sociale proposta all’inizio del capitolo abbiamo posto l’accento su questo aspetto indicandolo come un elemento qualificante la sua dimensione em-pirica.

In talune circostanze, tuttavia, i ricercatori sociali adottano anche altre soluzioni per acquisire le informa-zioni di cui hanno necessità. Ci si riferisce a soluzioni che non presuppongono rilevazioni dirette di informa-zioni, quanto piuttosto l’utilizzo di informazioni già disponibili, ricavabili da documenti esistenti, spesso pro-dotti per altri scopi diversi da quelli per i quali i ricercatori decidono di utilizzarli.

Il ricorso a documenti esistenti può rispondere a ragioni diverse. Talvolta per i ricercatori si tratta di una scelta del tutto obbligata, come quando si decide di interessarsi di un fenomeno o ricostruire eventi che appar-tengono al passato e per i quali è difficile trovare dei testimoni diretti. Altre volte risponde piuttosto a motivi di opportunità consentendo questa soluzione di evitare, o anche solo ridurre, l’attività di rilevazione di nuove informazioni lì dove quelle esistenti consentono in qualche modo di rispondere agli interrogativi della ricerca stessa. Infine, all’uso dei documenti i ricercatori talvolta ricorrono volutamente come una fonte di informa-zione complementare a quella ricavabile attraverso altri approcci empirici, proprio perché mette a disposizione informazioni non direttamente rilevabili.

I documenti di interesse dei ricercatori sociali sono molteplici ed afferiscono sia alla sfera pubblica che a quella privata. Tra essi ritroviamo articoli di giornale, filmati e registrazioni audio, lettere e diari personali, autobiografie, registri di ogni sorta, atti amministrativi, sentenze di tribunali, bilanci delle società, contratti e atti notarili, testimonianze e resoconti scritti, dati censuari e altri dati statistici.

Si tratta nella gran parte dei casi di documenti la cui esistenza è indipendente dall’azione o dall’iniziativa del ricercatore: egli può solo decidere di valorizzare questi documenti trovando il modo di estrapolarne le informazioni di cui necessita ai fini della ricerca. Inoltre, si tratta per lo più di documenti che all’origine sono stati prodotti per fini completamente diversi da quelli della ricerca. Tali circostanze possono costituire degli svantaggi o comunque delle complicazioni per il lavoro del ricercatore, ma possono anche offrire dei vantaggi non trascurabili.

Tra i possibili svantaggi occorre intanto citare quello della possibile dispersione. Le informazioni di inte-resse dei ricercatori, cioè, potrebbero essere sparpagliati in una mole di documenti e confusi insieme a tante altre informazioni che invece risultano inutili ai fini della ricerca. Ciò significa che il lavoro necessario per passare in rassegna tutti i documenti ed estrapolarne le informazioni di effettivo interesse può risultare estre-mamente impegnativo, soprattutto quando non esiste già una qualche catalogazione di questi documenti e dei relativi contenuti.

Un secondo svantaggio è costituito dalla possibile disomogeneità dei documenti disponibili che rendono le informazioni estrapolate da essi non del tutto comparabili o comunque non del tutto utilizzabili. La disomo-geneità delle informazioni può oltretutto spingere i ricercatori ad operare delle rinunce rispetto agli obiettivi della ricerca o a circoscrivere diversamente gli aspetti su cui è possibile costruire una descrizione o interpre-tazione del fenomeno indagato. Al problema della disomogeneità si aggiunge poi quello della incompletezza dei documenti esistenti o semplicemente reperibili dai ricercatori. A tal riguardo c’è da considerare che in molti casi i documenti di possibile interesse dei ricercatori sociali sono anche distribuiti in luoghi diversi, custoditi da soggetti diversi e non sempre resi accessibili. Il che ha anche una conseguenza in termini di rap-presentatività delle informazioni ricavabili da questi documenti.

C’è per ultimo da tener conto anche del problema dell’attendibilità dei documenti, questione questa che risulta evidente in rapporto ad alcuni documenti personali (lettere, diari, autobiografie), ma che potrebbe ri-guardare anche documenti pubblici qualora questi per qualche motivo sono stati oggetto di manipolazioni, censure, costruzioni artificiose, ecc.

L’uso di documenti può d’altra parte offrire anche dei vantaggi. Intanto può consentire ai ricercatori sociali di allargare l’arco temporale di riferimento e di realizzare analisi longitudinali con un approccio retrospettivo. Non si tratta di un vantaggio di poco conto se si considera che con gli esperimenti, le indagini e le osservazioni si rilevano più che altro le situazioni attuali, il presente, il contingente. A tale vantaggio, si aggiunge il fatto che il ricorso ai documenti svincola i ricercatori sociali anche da altre limitazioni dovute proprio all’attività

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pratica della ricerca realizzata con gli altri approcci, consentendo di operare economie di tempo e di risorse. Vantaggi questi che possono anche tradursi in un ampliamento del campo di osservazione su aspetti altrimenti difficilmente esplorabili o su contesti diversi e geograficamente distanti, per i quali magari diventa possibile operare delle comparazioni che altrimenti sarebbero state difficili.

Il fare ricorso a documenti elaborati per scopi diversi dalla ricerca, consente inoltre ai ricercatori sociali di non doversi confrontare con le possibili distorsioni prodotte dalla loro stessa azione. C’è infatti da considerare che, per le persone coinvolte nelle attività di ricerca, il fatto stesso che qualcuno ponga loro delle domande, che rilevi i propri comportamenti o stati d’animo, che li osservi, può effettivamente costituire una situazione artificiale e alimentare in loro una percezione di intrusività che li porta a esprimersi in modo non del tutto naturale e spontaneo. Detto in altri termini, l’uso dei documenti elimina il problema della così detta reattività, ossia elimina gli effetti di distorsione che l’attività di acquisizione delle informazioni produce sulle informa-zioni stesse (cfr. Bailey, 1982, trad. it. pp. 338-9; Singleton, Straits, Straits, 1993, p. 364).

Infine, l’uso di documenti esistenti può consentire ai ricercatori un’economia di tempo e risorse, per lo meno quando le informazioni in essi contenuti corrispondono alle informazioni di interesse dei ricercatori, ovvero ad informazioni che possono effettivamente contribuire alla descrizione e interpretazione dei fenomeni oggetto di indagine. In questi casi, ai ricercatori resta solo l’onere di estrapolare le informazioni di interesse, compito questo non sempre semplice per le ragioni sopra evidenziate, ma che può comunque assicurare dei risultati che con altri metodi di rilevazione diretta sarebbero difficili da raggiungere se non impossibili.

1.7 Metodi di indagine e strategie della ricerca sociale

Gli approcci metodologici e gli approcci empirici presentati nei due precedenti paragrafi costituiscono criteri di differenziazione essenziali dei principali metodi di indagine adottati dai ricercatori sociali. Lo schema si-nottico proposto nella Figura 1 riassume il posizionamento di tali metodi di indagine in rapporto alla matrice che si ottiene combinando rispettivamente la ricerca quantitativa e la ricerca qualitativa con l’esperimento, l’interrogazione, l’osservazione e l’uso dei documenti. La varietà di soluzioni che se ne ricava richiede alcuni chiarimenti di ordine generale.

TABELLA 1.1 Quadro sinottico dei metodi di indagine nella ricerca sociale

Senza entrare nel merito delle caratteristiche distintive di ciascun metodo, è necessario dapprima esplicitare le ragioni che sono alla base della pluralità dei metodi indicati. Tale proposito si impone anche perché tale plu-ralità di metodi potrebbe essere interpretata come la conseguenza di quell’incertezza epistemologica talvolta attribuita alle scienze sociali cui viene altresì ricondotta, come già evidenziato, una incapacità a delimitare in modo netto il proprio perimetro paradigmatico. Chi condivide questa interpretazione tende a non riconoscere

Test con rilevazione sistematica o metrica

Indagine campionariaSondaggio

Osservazione sistematica

Osservazione metrica

Test con questionario Indagine biograficaFocus group

Indagine con intervistein profondità o discorsive

Test con analisi situazionale o clinica

Osservazione naturalisticaMetodo etnograficocon osservazione partecipante

Indagini su documenti di archivio con estrapolazione di dati

Analisi contenutistichesu documenti vari

Indagini totali/censimenti

Quantitativo Qualitativo

Esperimento

Interrogazione

Osservazione

Uso di documenti

Approccio metodologico

App

rocc

io e

mpi

rico

Shadowing

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pari dignità scientifica a tutti i metodi di indagine propugnando implicitamente una sorta di gerarchia metodo-logica. Una posizione intransigente, questa, che è assunta anche da una parte degli stessi ricercatori sociali che, di conseguenza, finiscono per praticare l’attività di ricerca restringendo la propria scelta esclusivamente ad un metodo o a varianti di esso tra loro considerate compatibili con il proprio orientamento epistemologico.

La numerosità dei metodi di indagine praticati dai ricercatori sociali può però trovare - ed è questa la posizione qui sostenuta - anche altre spiegazioni ed altre valutazioni. Intanto essa va posta in relazione con la dimensione multidisciplinare delle scienze sociali. Sociologia, antropologia, psicologia, economia, scienza politica - per citare solo alcune delle discipline comunemente comprese nella famiglia delle scienze sociali - hanno conosciuto sviluppi indipendenti, specializzandosi su pratiche empiriche funzionali alle proprie prospet-tive teoriche. Ciò significa che ciascuno dei metodi riepilogati nella Figura 1 trova un’applicazione prevalente in alcune discipline e non in altre. Così, ad esempio, il test è un metodo che appartiene prevalentemente alla psicologia e ad alcune sue branche sub disciplinari; mentre il metodo etnografico con osservazione parteci-pante appartiene soprattutto alla tradizione di ricerca dell’antropologia e della sociologia.

Ma la varietà di soluzioni metodologiche disponibili è soprattutto da ricondurre al fatto che ciascun metodo risulta funzionale alla costruzione di risposte a interrogativi tra loro differenti ovvero a fenomeni indagabili in condizioni non standardizzabili. Per il ricercatore sociale ciò implica a rigore un processo di selezione del metodo da utilizzare; una selezione che si rende necessaria atteso che non esiste un metodo di indagine uni-versale cui ricorrere in tutte le circostanze.

La scelta del metodo di indagine è normalmente subordinata a tre differenti criteri: l’adeguatezza, l’appli-cabilità, la coerenza.

Intanto il metodo adottato deve risultare adeguato a dare risposta agli interrogativi che guidano l’attività del ricercatore per come essi sono formulati, ossia per la finalità conoscitiva perseguita. Se si vuole operare una predizione sui possibili risultati di un’imminente elezione politica occorre ricorrere ad un metodo in grado di stabilire, con un certo grado di probabilità ed affidabilità, quali saranno le preferenze attribuite dagli elettori ai diversi candidati o a ai diversi partiti. In tal caso la scelta del ricercatore ricadrà presumibilmente sul son-daggio di opinione. Se invece il ricercatore vuole analizzare come gli individui sottoposti a determinati stimoli elaborino delle specifiche risposte e quali sono i fattori che possono influenzare talune risposte piuttosto che altre, stabilendo altresì la frequenza e intensità di specifiche reazioni comportamentali o emotive, allora po-trebbe risultare più adeguato il ricorso ad un test di laboratorio con rilevazione sistematica o metrica di detti comportamenti o reazioni emotive.

Il metodo adottato dal ricercatore deve inoltre risultare effettivamente applicabile in rapporto alle circo-stanze e condizioni in cui il fenomeno indagato si manifesta, tenendo altresì in considerazione i vincoli cui sono sottoposte le osservazioni, rilevazioni e misurazioni dei comportamenti umani. Così, ad esempio, do-vendo rilevare i comportamenti messi in atto dai membri di un gruppo nelle loro interazioni in specifici contesti relazionali, il metodo dell’osservazione naturalistica potrebbe risultare più applicabile di altri. Problematico potrebbe invece risultare l’adozione dei metodi basati sugli esperimenti, perché in questo caso le persone po-trebbero essere condizionate dalla consapevolezza di essere osservate, il che determinerebbe una distorsione rispetto agli stessi comportamenti da loro messi in atto in un setting naturale.

Infine, la scelta del metodo risulta anche subordinata alla coerenza con gli assunti teorici da cui il ricerca-tore prende le mosse nel definire il disegno della ricerca. Così, se uno psicologo del comportamento aderisce ad una interpretazione biologica delle differenze individuali, probabilmente adotterà un metodo di indagine che gli consenta di isolare talune modalità espressive della soggettività tenendo sotto controllo altri fattori assunti come variabili indipendenti o come variabili intervenienti, condizione questa meglio perseguibile ri-correndo a test di laboratorio o ad osservazioni a carattere sistematico.

Spostando l’attenzione su un altro piano, c’è comunque da osservare che i diversi approcci metodologici e empirici presentati, con le diverse soluzioni che generano, non devono essere interpretati come approcci tra loro inconciliabili. Se è vero che ciascun approccio stabilisce uno specifico modo di procedere nella concreta attività di ricerca riflettendo anche concezioni differenti in merito alle forme della conoscenza scientifica, ciò non significa che non sia possibile coniugare tali approcci adottandoli come soluzioni tra loro complementari.

Da più parti, anzi, si fa rilevare la necessità di eliminare le barriere che talvolta vengono erette tra approcci differenti superando l’idea semplicistica di una loro mutua esclusività. Proposito questo che ha trovato espres-sione nel più recente dibattito sul pluralismo metodologico interno alle scienze sociali. Un dibattito che ha coinvolto studiosi di più discipline e che si è focalizzato sia sulle possibili forme di integrazione tra ricerca quantitativa e ricerca qualitativa, sia sulle possibili combinazioni di più metodi di indagine ovvero di più ap-procci empirici (cfr. Tashakkori, Teddlie, 2010; Creswell, Plano Clark, 2011; Hesse-Biber, Johnson, 2015).

Questo dibattito ha contribuito a mettere in discussione la logica della contrapposizione per lungo tempo alimentata all’interno delle scienze sociali tra orientamento positivista e orientamento interpretativista, ispi-rando una serie di ricerche in cui lo stesso fenomeno sociale è stato affrontato integrando tra loro differenti approcci metodologici. Esso ha anche consentito di spostare l’attenzione dalle disquisizioni intorno al primato

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dell’uno o dell’altro approccio metodologico, alle valutazioni sulla appropriatezza di ciascuno di essi in rap-porto alle finalità conoscitive e alla specificità dei fenomeni indagati.

Alla fedele adesione ad un’ortodossia metodologica che per lungo tempo ha sancito la divisione della comunità scientifica tra sostenitori dell’uno o dell’altro approccio metodologico, si è andata cioè contrappo-nendo una concezione più pragmatica dell’attività di ricerca. Non si tratta di stabilire in termini assoluti quale sia il metodo migliore, quanto piuttosto di identificare quello più appropriato a rispondere agli interrogativi che ci si pone, non escludendo altresì che uno stesso interrogativo possa essere affrontato da prospettive di-verse, che implicano metodi e approcci empirici differenti. Ciò, beninteso, senza disconoscere le differenze tra i diversi approcci metodologici ed empirici, ma valorizzandoli per il diverso contributo che essi possono ap-portare19.

Sulla base di questa concezione favorevole ad un pluralismo metodologico, possiamo distinguere almeno tre diverse strategie alternative a quelle incentrate su una scelta metodologica univoca.

La prima strategia la possiamo definire processuale. Si tratta di una strategia fondata su una articolazione metodologica per fasi, dove il disegno della ricerca prevede per lo più una fase di esplorazione iniziale condotta facendo ricorso ad un approccio metodologico di tipo qualitativo, seguita da una fase di rilevazione sistematica condotta ricorrendo ad un approccio quantitativo. Una strategia questa che risulta particolarmente efficace quando i ricercatori indagano un fenomeno di cui hanno ancora scarsa conoscenza, circostanza questa che rende difficile, nelle fasi iniziali, organizzare una rilevazione di tipo standardizzato che sia finalizzata alla misurazione. In questo caso, sono i risultati messi a disposizione dalla ricerca esplorativa di tipo qualitativo a fornire indicazioni utili alla successiva rilevazione sistematica di tipo quantitativo, tutto ciò all’interno di un disegno di ricerca comunque unitario.

La seconda strategia la possiamo invece definire integrativa. Ci si riferisce a quella strategia adottata al-lorché si parte dall’assunto che un determinato fenomeno, nella sua complessità, impone approcci metodolo-gici differenti, ognuno dei quali risulta più idoneo a indagarne una specifica dimensione. Tale strategia pre-suppone la scomponibilità del fenomeno in rapporto ai diversi interrogativi sottostanti alla identificazione di dimensioni tra loro distinguibili sia sul piano concettuale che empirico. Così, ad esempio, se l’oggetto della ricerca riguarda le forme della religiosità, si potrebbe pensare di indagare la dimensione della “pratica reli-giosa” ricorrendo ad un approccio quantitativo assumendo una rilevabilità standardizzata degli atti con cui si rende per l’appunto manifesta la pratica religiosa. La dimensione relativa alle implicazioni cognitive ed emo-tive dell’adesione ad un sistema di credenze potrebbe invece essere indagata ricorrendo ad un approccio di tipo qualitativo, che consenta meglio di far emergere la costruzione dei significati soggettivi attribuiti all’espe-rienza religiosa. Anche in questo caso, l’integrazione tra approccio quantitativo e qualitativo potrebbe iscri-versi all’interno dello stesso disegno della ricerca20.

Infine il ricercatore può ricorrere ad una strategia combinata di metodi anche appartenenti ad uno stesso approccio metodologico. Ad una simile logica risponde ad esempio il metodo dello studio dei casi. Ci si rife-risce al quel metodo incentrato su un’analisi approfondita su un numero relativamente ridotto di casi. Ai fini del necessario approfondimento, infatti, può risultare utile poter ricorrere a metodi differenti, ciascuno dei quali restituisce specifiche informazioni distinguibili anche in rapporto alla fonte da cui sono tratte. Così, ad esempio, in una ricerca sulle strategie messe in atto da alcune imprese di successo, si potrebbero combinare l’uso di documenti (bilanci d’esercizio, dati sul fatturato rapportati ai mercati di riferimento, contratti di lavoro, ecc.) con interviste in profondità agli imprenditori sulla loro condotta imprenditoriale e le loro scelte strategi-che, cui aggiungere un lavoro di osservazione naturalistica finalizzata a rilevare il clima interno alle imprese, le modalità di relazione e comunicazione che si stabiliscono tra gli imprenditori e i loro collaboratori.

19 Questa stessa considerazione è espressa anche da Corbetta (1999, p. 76) allorché, prendendo posizione a favore di una comple-

mentarietà tra approccio metodologico quantitativo e qualitativo, afferma: «... approccio neopositivista e approccio interpretativo, tec-niche quantitative e tecniche qualitative, portano a conoscenze diverse. Ma questo non è un limite, ma un arricchimento, in quanto c’è la necessità di un approccio multiplo e differenziato alla realtà sociale per poterla effettivamente conoscere...».

20 Non tutti sono concordi sulla possibilità di integrare all’interno di una stessa ricerca approccio quantitativo e qualitativo. Di questo avviso è Corbetta, il quale, pur riconoscendo il contributo dell’uno e dell’altro approccio, ritiene difficilmente praticabile la loro integrazione nella prassi del singolo ricercatore: «... ritengo difficile se non impossibile contemplare i due approcci dentro lo stesso disegno di ricerca. Troppo diverse sono le procedure e gli strumenti utilizzati. (...) Ritengo altresì difficile che uno stesso ricercatore possa condurre con pari risultati, ovviamente in tempi diversi, ricerche seguendo i diversi approcci. La sua formazione di studioso, vorrei dire la stessa struttura della sua personalità scientifica, mi fa pensare che solo con molta difficoltà e in casi rari si possa mostrare un simile flessibilità» (ibid.).

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