Partiti politici, forma di governo e forma di Stato (di...

57
1 Partiti politici, forma di governo e forma di Stato (di democrazia pluralista) di Silvio Gambino 1. Partiti politici, forma di Stato e forma di governo. Note metodologiche e sottolineature problematiche per una introduzione al tema Per chiunque voglia seguirla nelle stesse declinazioni teorico-costituzionali, fin dai primi anni ’70 del secolo scorso è disponibile un’approfondita analisi teorica sulla natura giuridica e sulla trasformazione dei partiti politici, e sui condizionamenti delle istituzioni rappresentative e di governo conseguiti dagli stessi, in breve sui rapporti fra rappresentanza politica, democrazia partecipativa e democrazia di partito. Ne proponiamo qui una breve sintesi prima di procedere nell’analisi delle evoluz ioni più recenti della forma-partito e della relativa crisi. La rilevanza dei partiti politici nell’ordinamento costituzionale – cresciuta nel tempo in ragione dello sviluppo delle relative funzioni oltre che nell’ambito associativo nelle attività a rilevanza pubblicistica degli stessi, nonché della stessa capacità di incidere sull’intera impalcatura costituzionale dello Stato contemporaneo costituisce ormai un dato pienamente condiviso dalla dottrina costituzionale italiana e, più in generale, da quella europea (a partire dalle analisi del Triepel, negli anni ’20). Tale orientamento pone termine a una lunga e contrastata evoluzione in cui si sono confrontate due opposte correnti di pensiero, una che individuava nel partito politico la natura di associazione privata (venendo disciplinato sotto il profilo civilistico dagli artt. 36-39 c.c.) e l’altra che, al contrario, ne coglieva una natura a rilevanza pubblicistica, di organo o quasi-organo dello Stato. Più di recente, anche in ragione dell’instabilità e della difficoltà dei governi a darsi indirizzi politici stabili e coesi e per il persistere della crisi istituzionale, la questione si ripropone anche come questione di politica costituzionale, orientata alla ricerca di soluzioni (più o meno radicali) di riforma.

Transcript of Partiti politici, forma di governo e forma di Stato (di...

1

Partiti politici, forma di governo

e forma di Stato (di democrazia pluralista) di Silvio Gambino

1. Partiti politici, forma di Stato e forma di governo. Note metodologiche e

sottolineature problematiche per una introduzione al tema

Per chiunque voglia seguirla nelle stesse declinazioni teorico-costituzionali, fin dai

primi anni ’70 del secolo scorso è disponibile un’approfondita analisi teorica sulla

natura giuridica e sulla trasformazione dei partiti politici, e sui condizionamenti delle

istituzioni rappresentative e di governo conseguiti dagli stessi, in breve sui rapporti

fra rappresentanza politica, democrazia partecipativa e democrazia di partito. Ne

proponiamo qui una breve sintesi prima di procedere nell’analisi delle evoluzioni più

recenti della forma-partito e della relativa crisi.

La rilevanza dei partiti politici nell’ordinamento costituzionale – cresciuta nel

tempo in ragione dello sviluppo delle relative funzioni – oltre che nell’ambito

associativo – nelle attività a rilevanza pubblicistica degli stessi, nonché della stessa

capacità di incidere sull’intera impalcatura costituzionale dello Stato contemporaneo

– costituisce ormai un dato pienamente condiviso dalla dottrina costituzionale italiana

e, più in generale, da quella europea (a partire dalle analisi del Triepel, negli anni

’20).

Tale orientamento pone termine a una lunga e contrastata evoluzione in cui si sono

confrontate due opposte correnti di pensiero, una che individuava nel partito politico

la natura di associazione privata (venendo disciplinato sotto il profilo civilistico dagli

artt. 36-39 c.c.) e l’altra che, al contrario, ne coglieva una natura a rilevanza

pubblicistica, di organo o quasi-organo dello Stato.

Più di recente, anche in ragione dell’instabilità e della difficoltà dei governi a darsi

indirizzi politici stabili e coesi e per il persistere della crisi istituzionale, la questione

si ripropone anche come questione di politica costituzionale, orientata alla ricerca di

soluzioni (più o meno radicali) di riforma.

ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013

2

In tale ultimo approccio rilevano sia le questioni inerenti al partito (individuato

come singolo e come sistema), al posto e al ruolo occupati nel sistema costituzionale,

alla questione della sua democraticità interna, sia i relativi rapporti con le istituzioni

costituzionali di governo e gli stessi ripensamenti della dottrina costituzionale in

materia, chiamata a riflettere sullo stesso metodo giuridico-costituzionale utilizzato al

fine di renderlo più adeguato alla comprensione delle complesse fenomenologie delle

forme di stato e di governo contemporanee.

L’orientamento dottrinario orientato a sottolineare nel sistema dei partiti – oltre

all’elemento del ‘concorso’ nella definizione delle politiche nazionali (art. 49 Cost.) –

un processo (complesso, dialettico e giuridicamente incompiuto) di trasformazione

dell’originario modello della democrazia rappresentativa, si afferma embrionalmente

nei primi anni ’20 e pienamente a partire dagli anni ’40, trovando linee di riflessione

comune alla dottrina costituzionale tradizionale e a quella che potremmo definire ‘più

moderna’.

È trascorso ormai più di una metà di secolo da quando, in Italia, V.E. Orlando,

costituzionalista di formazione classica, si era cimentato (in particolare in uno dei

suoi ultimi scritti) in un tentativo – rimasto incompiuto – di sistemazione

metodologica dei partiti politici all’interno della scienza costituzionale, riconoscendo

la necessità di avviare uno studio finalizzato ad elaborare una nuova teoria dei partiti

che potesse servire per una più adeguata comprensione del mutamento profondo nella

vita degli Stati contemporanei.

Nella sua analisi, egli sottolineava con lucidità – registrandone pienamente l’effetto

dirompente rispetto all’organizzazione costituzionale dei poteri esistente – il ruolo

significativo che andava assumendo lo sviluppo dei partiti nella profonda

trasformazione della struttura dei regimi politici e della stessa forma dello Stato

moderno (e contemporaneo).

Nella stessa direzione, qualche anno più tardi, introducendo un omologo studio sul

‘partito nello ordinamento giuridico’ – destinato a divenire un classico nello studio

dei rapporti fra partiti politici ed ordinamento costituzionale – Pietro Virga osservava

che “sia che i partiti siano assurti ad elementi costitutivi del sistema di governo

(‘Stato di partiti’), sia che un unico partito abbia informato ai suoi princìpi lo stesso

ordinamento dello Stato divenendone l’elemento motore (‘Stato-partito’), non si può

negare che, parallelamente allo sviluppo ed all’organizzazione dei partiti, si sia

profondamente mutata la realtà costituzionale”.

Se, da un approccio generale, l’analisi si volge a considerare le carte costituzionali,

per cogliere il grado di istituzionalizzazione e di costituzionalizzazione conseguito in

S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)

3

esse dai partiti, si può osservare che le ragioni dell’attenzione e del ruolo attribuito ad

essi nelle nuove costituzioni della fase storica che va dalla fine della prima guerra

mondiale all’inizio della seconda deve attribuirsi – unitamente ad altri fattori storico-

politici – ai loro autori, molto spesso uomini di partito, che in questo modo tendevano

a legittimare la loro azione diplomatica e/o rivoluzionaria.

Ma le ragioni teoriche profonde sono da individuare soprattutto nella ricerca di

meccanismi di ‘razionalizzazione’ del potere, concepiti come ricerca di strumenti per

il bilanciamento fra i poteri dello Stato, che apparivano, nel tempo,

significativamente sfasati a causa dell’ingresso sulla scena politico-istituzionale, in

modo organizzato, del popolo, inteso sia nella sua generalità, sia – e forse soprattutto

– nelle sue articolazioni in gruppi e classi sociali portatori di interessi fra loro

confliggenti.

A un esame anche sommario, infatti, i testi costituzionali di questo periodo

dimostrano una notevole incertezza nei confronti dei partiti, come, più in generale,

nei confronti dell’associazionismo politico e sindacale. Solo alcune costituzioni si

spingono fino a riconoscere in modo esplicito i partiti e ad attribuire loro ruoli

rilevanti; fra di esse, come è noto, la Legge Fondamentale di Bonn (art. 21) perviene

al processo più spinto di attrazione del partito nell’ambito costituzionale.

Ispiratore principale, in modo diretto o indiretto, di questo atteggiamento delle

costituzioni europee verso i partiti, e più in generale del modello di democrazia

politica che si va affermando (ispiratore egli stesso della Costituzione austriaca del

1920), è senz’altro il Kelsen degli studi teorico-dogmatici sul diritto e sullo Stato.

La concezione kelseniana della democrazia – come è noto – ha fondamenti ben

diversi da quelli radicali-giacobini teorizzati dal Rousseau, secondo cui la

individuazione della ‘sovranità’ nella ‘volontà generale’ della collettività implicava

necessariamente indivisibilità e rifiuto della delega. La libertà del singolo, in questo

modello, viene garantita dal suo assoggettamento alla legge. Tuttavia, la produzione

di tale ‘strumento di libertà’, la legge, in una collettività dagli interessi e dai valori

sostanzialmente disomogenei, non potrà essere che l’atto finale di un compromesso

fra maggioranza e minoranza, in cui quest’ultima cercherà di far passare nella

decisione finale la maggior parte possibile delle proprie domande ed aspettative.

Con Kelsen si ha, così, l’affermazione di una teoria della sovranità del popolo che

si contrappone alla teoria della ‘sovranità nazionale’: una teoria che nega

l’attribuzione della sovranità a una entità astratta, come la nazione, per ripartirla –

restando sempre integra – fra la totalità dei soggetti che compongono lo Stato-società.

ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013

4

Le conseguenze di una simile teorizzazione sono ovvie; con il principio della

rappresentanza del corpo elettorale, ogni deputato rappresenterà una parte della

collettività. In questo modello, la rappresentanza suppone l’esistenza e

l’organizzazione dei partiti politici, soprattutto per presiedere alle fasi costitutive

delle liste elettorali ed alla sorveglianza delle operazioni elettorali. Nella concezione

kelseniana, così, è il partito, in base al consenso numerico di cui dispone, a dover

selezionare i propri deputati da mandare in Parlamento.

Se ne può concludere che se nelle costituzioni del primo dopoguerra non sono state

trasfuse tutte le intuizioni del Kelsen, la maggior parte di esse sono senz’altro

presenti nel definire il quadro giuridico delle associazioni-partiti, che costituiscono, al

contempo, le premesse teoriche per l’evoluzione ulteriore che il rapporto Stato-partiti

registrerà nelle costituzioni del secondo dopo-guerra.

Ma il processo di avvicinamento dei partiti allo Stato – e con esso la ridefinizione

fattuale del suo funzionamento – non è certo un processo lineare, unidirezionale e

senza contraddizioni.

Nella fase di transizione dallo Stato liberale (monoclasse, secondo l’appropriata

definizione-descrizione del Giannini) allo Stato ‘sociale’ contemporaneo (pluriclasse)

si introduce, così, uno degli elementi fondamentali nella definizione dei sistemi

politico-istituzionali contemporanei. Esso è dato, in via generale, da un insieme di

attività dello Stato che concretizzano un principio definibile di auto-tutela, che si

esplica in modo precipuo attraverso l’espunsione dal sistema politico-istituzionale del

partito o dei partiti ritenuti anti-istituzionali, cioè dei partiti la cui ‘lealtà’ sostanziale

ai principi liberal-democratici posti a base degli ordinamenti costituzionali, alle

regole di fondo della democrazia liberale non appaia garantita.

Questo modello, che si è riprodotto, nella sua forma più abnorme, nei regimi

fascista, nazista, franchista, salazarista, consiste nella reazione violenta dello Stato

contro i partiti nella loro pluralità per lasciare spazio, nella teoria e nella pratica

politica, al partito-unico che diviene espressione e sintesi dell’unità della nazione –

concepita essa stessa con forti contenuti etico-idealistici – e si fa al contempo organo

dello Stato-persona. Tale evoluzione si rafforza mutando le forme in cui si esprime

con il procedere negli anni verso la grande crisi degli anni ’30 del secolo scorso e con

il processo di delegittimazione sostanziale a cui la crisi economica sottoponeva il

sistema politico nelle più diverse realtà nazionali.

L’analisi dottrinaria relativa ai rapporti (nel diritto e nella realtà) fra partiti politici

e Stato s’inscrive, soprattutto nel corso degli ultimi decenni, nel contesto di una

chiara tendenza al superamento delle concezioni tradizionali del diritto, che se non

S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)

5

comportano il superamento del rigido approccio formalistico ai problemi del diritto (e

dello Stato) almeno favoriscono una più attenta riconsiderazione dei complessi

rapporti esistenti tra la realtà sociale ed il complesso delle norme, in un tentativo di

riconoscimento del continuum pregiuridico-giuridico che solo riesce a rendere la

complessità dell’ordinamento giuridico vigente, della c.d. costituzione ‘vivente’,

‘reale’.

Peraltro, tale tendenza appare ancora più rilevante all’interno della scienza

costituzionale, dove forte è l’insoddisfazione da parte dello studioso per una scienza

meramente esegetica, incapace di identificare i fini e i valori della società e dove viva

è l’esigenza di una più adeguata comprensione degli istituti giuridici e degli stretti

rapporti esistenti tra essi e le norme fondamentali dell’ordinamento costituzionale.

Nella prospettiva di tale sforzo di rinnovamento metodologico, la novità

fondamentale dello studio dei partiti (e del loro inserirsi fattualmente nella

organizzazione costituzionale dello Stato), considerati sia nel loro aspetto sociologico

(partiti di massa o di quadri, partiti istituzionali o anti-istituzionali, partiti cartello,

ecc.), sia nel loro aspetto di sistema, consiste nel fatto che essi costituiscono ormai un

elemento fondamentale per giungere all’identificazione della forma dello Stato e del

suo modello organizzativo, la forma di governo.

Sia l’una che l’altra non si definiscono più in termini astrattamente fissi quanto

piuttosto, come sottolinea L. Elia, in funzione dinamica, “come parti del diritto

costituzionale vivente”, non potendosi più trascurare le reciproche influenze e

interferenze che vanno istaurandosi tra le due figure, fino al punto che l’instabilità

dell’assetto governativo opera in termini fortemente negativi sulla stessa vitalità-

sopravvivenza della forma dello Stato. Proprio in questo rinnovamento metodologico,

che ha imposto alla dottrina costituzionale una verifica di forme e di contenuti, trova

ampia giustificazione il tentativo di assumere il sistema dei partiti come un elemento

imprescindibile nello studio dei governi parlamentari di tipo rappresentativo, come un

elemento fondamentale per comprendere il funzionamento del meccanismo

costituzionale complessivo.

In tal senso, nell’approccio alla living Constitution, diviene obiettivo primario

l’analisi della rilevanza dei partiti politici, nella loro duplice e dialettica

configurazione giuridica, all’interno dei sistemi di governo degli stati contemporanei.

Essi si presentano, infatti, come organi costituzionali sostanziali di indirizzo politico

in posizione di parità giuridica e al contempo come associazioni di tipo privato e

dunque strettamente collegate alla società.

ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013

6

La concezione dello Stato contemporaneo come ‘Stato di partiti’, così, costituisce

un apporto rilevante a una moderna teoria dello Stato democratico-rappresentativo.

Come si è ricordato, essa fu in gran parte elaborata, anche sotto il profilo dogmatico,

dalla dottrina tedesca degli anni ’20 del secolo scorso e solo successivamente fatta

propria da quella italiana, passando per un approccio metodologico, quello

mortatiano della ‘costituzione materiale’ che, nella realtà (almeno a livello

tendenziale), risulta per più profili giustificazionistico di prassi di occupazione

indebita di poteri costituzionali. Con essa sembra farsi maggiore chiarezza su tutta

una serie di problematiche che il costituzionalismo classico non riusciva più ormai a

risolvere, fermo com’era a concezioni ancora asettiche e statiche delle forme di Stato

e di governo, in cui non trovavano posto i moderni e complessi problemi imposti

dalla crisi non solo del parlamentarismo ma anche dei partiti.

Pur costituendo un indubbio passo in avanti nell’elaborazione dottrinaria, lo ‘Stato

dei partiti’, nell’accezione che ne ha offerto la dottrina costituzionale, tuttavia, non

riesce più a cogliere in modo adeguato la complessità della problematica dello Stato

contemporaneo. Ed è qui che la scienza costituzionale avverte maggiormente, nella

fase attuale, la necessità di recuperare la propria socialità e pertanto di ricorrere

all’ausilio di altre scienze, per comprendere a fondo gli stretti rapporti d’interazione

esistenti fra l’insieme delle strutture, comportamenti sociali e ambiti giuridici al fine

precipuo di rispondere alle problematiche poste dall’effettività delle norme giuridico-

costituzionali.

In questo contesto, assume rilievo e significato l’analisi del ruolo effettivo svolto

da tutte le formazioni sociali e politiche diverse dai partiti che operano sia attraverso

forme dirette di pressione sul potere esecutivo sia attraverso forme di democrazia

semi-diretta come il referendum, l’iniziativa popolare ma anche l’associazionismo e

l’azione sindacale.

In questa nuova luce appaiono nettamente i limiti della concezione dello Stato

contemporaneo come ‘Stato di partiti’, che sembra attribuire in modo riduttivo ad

alcune strutture soltanto, investite da un processo evidente di istituzionalizzazione, le

funzioni di rappresentanza e di mediazione della realtà sociale all’interno dello Stato-

persona, laddove il sistema prefigurato dalla Costituzione nei suoi primi tre articoli e

nell’art. 49 rifiuta tale interpretazione per accogliere nel diritto di partecipazione

‘permanente’ dei cittadini alla determinazione della politica nazionale tutte le

conseguenze di un simile capovolgimento di prospettiva.

È quanto costituisce parte rilevante della dottrina costituzionale quando,

sottolineando l’ambiguità di talune categorie costituzionali, affronta la mutata

prospettiva di analisi in termini di ‘Stato di democrazia pluralista’ o ‘Stato di

S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)

7

democrazia partecipativa’, con tale terminologia sottolineando la necessità di

considerare la realtà sociale nella sua complessa e conflittuale articolazione.

Come si può osservare, in breve, nel quadro dell’esigenza di rinnovamento della

metodologia scientifica nel campo della scienza giuridica e soprattutto in quello del

diritto costituzionale – diritto che è, per sua natura, ‘di frontiera’ – il problema

fondamentale non è più quello di una mera analisi della ‘costituzionalità’ o meno del

sistema dei partiti nei suoi rapporti con lo Stato, quanto piuttosto di verificare, non

più in termini di modello astratto, la concreta funzionalità delle forme di governo

dello Stato contemporaneo, caratterizzate e ridefinite dalla presenza dei grandi partiti

di massa.

Tale impostazione, che comincia a farsi strada anche nella dottrina più tradizionale,

finisce però con il concentrare l’attenzione sulle relazioni tra i partiti e le istituzioni

tipiche del sistema di governo parlamentare (sostanzialmente sul binomio partiti-

Parlamento e partiti-Governo) mettendo in secondo piano elementi fondamentali

della fenomenologia dei rapporti politici che pure avevano dato corpo alla crisi del

sistema stesso.

I partiti politici, come si può cogliere dalle considerazioni finora svolte, non si

limitano soltanto ad incidere sulla forma di governo per organizzare il proprio

concorso partecipativo, ideologicamente caratterizzato; essi incidono sulla stessa

forma dello Stato, costituendone la cosiddetta ‘costituzione materiale’, il ‘regime

politico’.

In tale ottica, risulta ormai del tutto superata la tradizionale querelle teorico-

politica che, con il termine ‘partitocrazia’, assumeva ogni tipo di critica sulla scarsa

capacità rappresentativa dei partiti e sulla relativa invadenza negli ambiti propri dei

soggetti titolari di sovranità.

Il sistema dei partiti, dunque, sia nella sua funzione di impulso che in quella di

condizionamento delle istituzioni costituzionali costituisce un dato sempre più

accettato, almeno dalla dottrina prevalente.

Risultano inaccettabili sotto tale profilo quegli orientamenti dottrinari i quali

assumono che “solo attraverso la partecipazione alla vita di un partito il cittadino può

aspirare ad esercitare pienamente i suoi diritti sovrani o, che fa lo stesso, che la

sovranità popolare si realizza solo attraverso i partiti politici”.

Così, se rientra indubbiamente nell’aggiornamento del modello costituzionale il

riconoscimento ai partiti politici della funzione di organizzare il popolo secondo una

ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013

8

data ideologia, dando voce agli interessi e alle esigenze dei paese reale, nella sua

concreta articolazione di ceti, formazioni sociali e gruppi contrastanti, ciò che risulta

meno convincente in tale modello esplicativo è piuttosto la concezione secondo cui la

sovranità del popolo si esaurirebbe in modo esclusivo (o quasi) nei partiti, i quali,

così, da strumento di rappresentanza, di mediazione fra corpo sociale e Stato

finiscono per trasformarsi in uno dei poli di tale raccordo.

L’allusione al partito-Stato, alla Inkorporierung della tipizzazione del Triepel è

sufficientemente evidente per non avvertire l’esigenza di sottolineare i limiti di una

siffatta concezione. Rispetto al problema del singolo partito si può agevolmente

concludere che, se risultano valide le osservazioni finora svolte, siamo in presenza di

una doppia istituzionalità (interna ed esterna) e si è in presenza altresì di una tendenza

che vede il partito (e il sistema dei partiti) perdere quelle funzioni di tramite

permanente, costituendosi spesso come un pericoloso diaframma, uno strumento di

organizzazione – più che di rappresentanza – della società nello Stato, finendo in tal

modo con il restringere più che ampliare gli spazi di libertà della moderna

democrazia.

Passando nuovamente a riflettere, sia pure brevemente, sulla questione della natura

giuridica del partito politico e degli orientamenti dottrinari affermatisi sul punto nei

tempi più recenti, si può ricordare che, soprattutto nella prima fase della riflessione

dottrinaria, sviluppatasi alla fine degli anni ’50 del secolo scorso con significativi

contributi, l’analisi giuridica dei partiti politici si era concentrata sull’esegesi dell’art.

49 Cost. (in alcuni autori ancora disancorata da una interpretazione sistematica della

norma costituzionale) pervenendo ad una conclusione sulla natura meramente

associazionistica degli stessi, per i quali veniva prevista la mera tutela giuridica

accordata alle associazioni non riconosciute.

Una parte della dottrina, sia pubblicistica che privatistica, aveva qualificato tale

interpretazione con argomenti che l’avevano portata a sostenere che la natura

privatistica per le associazioni partitiche sarebbe stata maggiormente in grado di dare

efficace tutela ed adeguato rilievo alla libertà di associazione politica di concorrere

alla formazione della volontà statale di quanto non potesse, invece, fare una

concezione del partito intesa come organo o quasi-organo dello Stato. Tuttavia, tale

considerazione rinviava a concezioni di organicismo statuale che era stato senz’altro

volontà dei costituenti superare, dopo il pesante smacco per le libertà civili e politiche

nel regime fascista, con la giuridicizzazione-statalizzazione della realtà sociale che

esso aveva perseguito.

Benché non aliene da riflessi antistatuali, spesso immanenti in una parte della

cultura delle istituzioni (a cui si ascrivono prevalentemente tali orientamenti

S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)

9

dottrinari, in gran parte dovuti a giuristi di orientamento cattolico), tali

argomentazioni, che mirano ad accentuare l’insediamento sociale dei partiti e quindi

la loro natura di ‘formazioni sociali’, come si è già osservato, non appaiono adeguate

a spiegare tutta una serie di fenomeni nuovi (prassi e convenzioni), con i relativi

riflessi e condizionamenti che è possibile osservare nel reale funzionamento delle

istituzioni rappresentative, le quali, come è noto, si presentano come ampiamente

discordanti dal modello costituzionale.

Senza soffermarsi oltre a discutere la validità di un simile approccio metodologico

nell’analisi dottrinaria, che si dà quindi come presupposto, così, si può osservare che,

se si parte da un’interpretazione più ampia dell’art. 49 Cost., mirante a cogliere la

stretta interconnessione della sua previsione normativa nell’ambito più generale del

sistema di democrazia previsto dai costituenti, non si può che trovare angusta ed

inadeguata la natura associazionistica di tipo privato che quest’orientamento

dottrinario ha individuato per il partito politico, benché l’ordinamento positivo

propenda in modo prevalente per tale indirizzo interpretativo.

Benché, con differenziazioni interne, una parte della dottrina gius-pubblicistica ha

sostanzialmente affrontato l’analisi esegetica dell’art. 49 Cost. riconoscendo, accanto

alla necessaria pluralità dei partiti e all’esigenza del ‘metodo democratico’ nel loro

funzionamento interno, una natura giuridico-costituzionale di libere associazioni di

cittadini “istituzionalmente dirette, in concorso dialettico con altrettali associazioni,

alla determinazione della politica nazionale”.

Ma, come si è fatto bene osservare, se l’analisi si ferma a questo risultato rischiano

di sfuggire tutta una serie di altri elementi che a buona ragione la fanno apparire, più

che formalistica, scarsamente adeguata a comprendere il reale equilibrio fra gli organi

costituzionali registrato nella realtà e quindi le vere problematiche, i nodi della forma

statuale della democrazia italiana contemporanea. Per tale diverso approccio più

adeguata appare una indagine ispirata alle dottrine istituzionalistiche del diritto più

che a quelle normativistiche.

Fra i tanti contributi, in tale prospettiva, appare quanto mai opportuno richiamare

in materia una riflessione di C. Esposito circa il ruolo effettivo dei partiti

nell’ordinamento costituzionale reale, per il quale “secondo considerazioni

largamente diffuse solo nelle costituzioni formali o legali degli stati contemporanei

con pluralità di partiti è scritto che le leggi sono fatte da deputati e senatori eletti dai

cittadini e rappresentativi della nazione ... In effetti, invece, all’ombra

dell’impalcatura legalistica della Costituzione, i partiti politici avrebbero nelle mani

ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013

10

la legislazione, il governo, la giurisdizione e l’amministrazione ... Una costituzione

legale adeguata alla realtà dovrebbe abbandonare le finzioni delle assemblee

legislative composte da liberi deputati, dei governi formati dai capi di Stato ... e

riconoscere che nella comunità statale il potere di direzione politica spetta ai partiti;

dovrebbe inoltre precisare le forme, i presupposti e le conseguenze dell’ascesa dei

partiti al potere, determinare il valore degli accordi tra i partiti (e tra i capo-partiti),

indicare la via per la soluzione dei conflitti insorgenti fra essi”.

In questo autorevole orientamento, come si può osservare, viene richiamata, a mo’

di premessa metodologica generale all’analisi dei partiti nella Costituzione, una

problematizzazione di grande rilievo che ha ad oggetto la questione della effettività

dell’ordinamento costituzionale rispetto alle discrasie cui è sottoposto per

l’insorgenza di attività partitiche ultronee rispetto alle funzioni costituzionalmente

definite per i partiti politici nell’art. 49 Cost.

È nell’ambito di un diverso approccio – conosciuto in dottrina, ormai da tempo,

con la mutevole terminologia – ancorché incerta ed ambigua – di ‘costituzione

materiale’, ‘reale’, ‘vivente’ – che va riconosciuto come l’effettivo potere di indirizzo

politico e la formulazione e l’attuazione delle relative modalità concrete si sia

trasferito ai partiti, in grado come sono di “avere nelle mani” la legislazione, il

Governo, l’amministrazione e – per taluni (riattualizzando un approccio di Minghetti

valido per il secolo scorso) – la stessa giurisdizione.

Si riconosce, così, che non coglie l’effettiva realtà costituzionale chi ritenga ancora

di trovarsi di fronte ad una forma di Stato democratico parlamentare, disconoscendo

ciò che in via di fatto si è andato realizzando: un completo, effettuale, superamento

della democrazia rappresentativa di stampo ottocentesco, fondata sulla centralità

dell’organo parlamentare, nella direzione di una democrazia di massa basata sui

partiti politici, al cui interno, tuttavia, permangono forme, istituti e procedure della

previgente forma democratica, che riappaiono soprattutto in determinate situazioni

limite (voto segreto in contrasto con le indicazioni di partito, ecc.).

Salvo a ritornare su tale problema, che costituisce una questione centrale

nell’approfondimento della tematica oggetto di analisi, occorre ora accennare, anche

se in modo essenziale, alle principali novità metodologiche registrate nel corso degli

anni ’70 e ai più significativi risultati conseguiti nell’analisi dei partiti (considerati sia

uti singuli sia nella loro pluralità, come ‘sistema pluripartitico polarizzato’, come

‘sistema tendenzialmente bipartitico’ o a ‘bipartitismo esasperato’, a seconda delle

varie ipotesi interpretative) da parte della dottrina.

S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)

11

In tal senso, nell’ambito della dottrina che si è occupata della questione, si deve

fare riferimento, in particolare, alle analisi di due autori che più di altri studiosi della

materia possono individuarsi come capofila di una approfondita analisi dottrinaria sui

partiti, incentrata, al contempo, sia sul singolo partito (colto nella sua dinamica

evolutiva, il c.d. partito ‘situé’), sia sul relativo rapporto con le istituzioni di governo;

oltre a L. Elia, ci riferiamo, in tal senso, a G.U. Rescigno, le cui analisi sono

parimenti fondamentali nel fondare la svolta metodologica nello studio dei partiti

politici come espressione e strumento della trasformazione della democrazia

contemporanea.

Alle loro analisi, in particolare e alle innovazioni nella stessa metodologica seguita

– pur partendo da premesse metodologiche diverse – si possono far risalire le

evoluzioni dottrinarie più significative in materia di partiti politici e lo stesso

riconoscimento dell’esigenza di approfondire l’analisi di tale materia ponendo

nell’obiettivo della ricerca gius-pubblicistica gli stessi aspetti della vita interna dei

partiti e della conseguente dinamica d’interazione con le istituzioni pubbliche.

Secondo quest’orientamento, che parte da premesse diverse ma raggiunge lo stesso

risultato, i partiti non possono considerarsi alla stregua di mere associazioni di diritto

privato, come ritiene parte della dottrina. Essi costituiscono un elemento

fondamentale (come per altro avevano significativamente riconosciuto ricerche sui

partiti, negli anni ‘40, dovute al Ferri e al Virga, per citare una parte soltanto della

dottrina che se ne è occupato con maggiore organicità) per giungere alla corretta

identificazione della forma di Stato e del suo modello organizzativo, la forma di

governo, rendendo obsolete ed inefficaci, a tale scopo, le stesse classiche

metodologie adottate per lo studio comparato delle forme statuali moderne e

contemporanee e della loro evoluzione nel tempo.

Tuttavia, se di tipo prevalentemente metodologiche sono le conclusioni sul punto

cui perviene Elia, le argomentazioni del Rescigno sembrano spingere oltre l’indagine,

richiamandosi ad una metodologia e ad una riflessione di vecchia data nell’ambito

della dottrina più critica, che individua per il partito politico la natura di ente

complesso, che integra, al contempo ed in modo necessariamente correlate, la natura

giuridica delle associazioni private e quella degli organi (o quasi organi) dello Stato

soggetto. La carenza di uno dei due elementi, in un quadro in cui essi si assumono,

come si è detto, necessariamente complementari, per le funzioni cui assolvono nello

Stato di democrazia pluralista (rappresentanza e mediazione-integrazione), farebbe

venir meno l’intera funzionalità del sistema di democrazia rappresentativa.

ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013

12

All’interno delle forme di governo degli stati contemporanei a struttura liberal-

democratica ed in quelli a preminente caratterizzazione ‘sociale’, come quello

delineato dalla Costituzione italiana del ’47, così, i partiti politici, in ragione delle

funzioni assolte nella rappresentanza politica e nella collaborazione allo svolgimento

di funzioni a rilevanza pubblicistica, costituiscono organi di effettivo rilievo

costituzionale titolari, in via fattuale, della formulazione e della attuazione

dell’indirizzo politico. Ma essi sono, al contempo, associazioni di tipo privato e

quindi strettamente insediati nella società, difficile apparendo così la ricomposizione

strutturale e funzionale in una lineare definizione della loro natura giuridica.

Questa osservazione, peraltro, giustifica ampiamente il pessimismo sulle capacità

risolutive della crisi in atto ad opera delle riforme istituzionali-costituzionali fin qui

discusse nella prospettiva de jure condendo, le quali, nel loro limitarsi a discutere

proposizioni di riforma più o meno rilevanti dell’attuale forma di governo verso

soluzioni di neo-parlamentarismo razionalizzato o perfino di semipresidenzialismo,

escludono, tuttavia, – in modo discutibile per le ragioni argomentate in precedenza –

di affrontare le ragioni di crisi dovute appunto alle interferenze sugli organi

costituzionali di governo da parte dei partiti politici, i quali, peraltro, non sempre

sono retti da normative statutarie nelle quali sia assicurato il rispetto della democrazia

interna.

Si può, dunque, osservare come indicazione conclusiva di queste premesse generali

sulla natura giuridica del partito politico e sulle letture che ne ha dato la dottrina

costituzionale che il ritardo registrato da una parte significativa della dottrina nel

considerare il partito sotto il suo aspetto funzionale di “elemento costitutivo del

sistema di governo” costituisce anche una ragione della più generale difficoltà a

comprendere la sua configurazione “a prevalente gravitazione pubblicistica” e

dunque la sua natura di parte integrante fondamentale del modello di democrazia e

della forma di Stato vigente, la quale – come si è ricordato – viene appunto definita

‘Stato dei (di) partiti’ in quanto concretizzata ed incentrata sul funzionamento del

modello previsto dalla carta costituzionale ad opera di un sistema di partiti dai tratti

giuridici dalla natura privatistico-associativo e al contempo organicistica, mentre dai

tratti sociologico-politologici, caratterizzato dall’esistenza di una pluralità di partiti,

ma dei quali alcuni soltanto hanno potuto accedere alle maggioranze di governo

(clausola ed excludendum e inesistenza della regola dell’alternanza fino ai primi anni

‘90 come regola convenzionale che ha guidato la formazione dei governi per mezzo

secolo).

S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)

13

2. La democrazia bloccata (da superare) e l’alternanza al Governo (da realizzare)

all’origine di un processo di riforme elettorali (inadeguato e incompiuto), con effetti

sui partiti politici (depoliticizzazione, presidenzializzazione) e sulla stessa forma di

governo (iper-valorizzazione delle funzioni del capo dello Stato).

La legislazione elettorale, i relativi rapporti con i partiti politici e la forma di

governo accolta nell’ordinamento politico-costituzionale costituisce una questione

risalente al dibattito costituente e caratterizzandosi, in seguito, e soprattutto a partire

dagli anni ’90, come bisognosa di riforma. Sui contenuti di tale riforma diversi e

contrapposti erano gli orientamenti discussi nella dottrina, nel corpo elettorale e nei

movimenti referendari, muovendo da modelli maggioritaristici (‘alla inglese’) e

modelli di proporzionalismo puro.

Tuttavia, l’idoneità/congruità delle regole elettorali ad assicurare un equilibrio

accettabile fra funzioni di rappresentanza politica e di stabilità governativa – che

costituivano due profili particolarmente dibattuti agli inizi degli anni ’90, in un

contesto segnato dal crollo del Muro di Berlino e dagli eventi politico-istituzionali del

post-1989 – fu messa ben presto in questione a favore di una strategia istituzionale

volta a intervenire direttamente sul livello costituzionale. Nella Gazzetta Ufficiale

269 del 18 novembre 2005, verrà infatti pubblicata la legge costituzionale recante

«Modifiche alla Parte II della Costituzione», testo approvato in seconda votazione a

maggioranza assoluta (170 voti favorevoli, 132 contrari e 3 astenuti), e pertanto

lasciando piena libertà al corpo sociale di richiedere il referendum confermativo.

Riformulando le stesse modalità di legittimazione dell’Esecutivo e rafforzandone il

ruolo, tale testo di revisione costituzionale (felicemente respinto nel referendum

costituzionale del 25-26 giugno 2006) si ispirava a un modello di premierato forte, in

parte seguendo le formulazioni costituzionali accolte nel cancellierato tedesco (il che

naturalmente non pone problema alcuno di ordine costituzionale né di tipo politico),

ed in parte ispirandosi alle formule previste nella forma di governo israeliana prima

che le sue previsioni fossero riviste dal legislatore israeliano.

La premessa di questa analisi, dunque, è che, pur non avendo voluto il costituente

italiano assegnare veste costituzionale a leggi elettorali di tipo proporzionale,

l’architettura dei poteri costituzionali della Repubblica se ne ispirava nei contenuti di

fondo.

Ed è appunto per tale considerazione che una riflessione in questa materia impone

di tenere strettamente connesse le esigenze proprie della forma dello Stato con quella

di governo, connotandosi il modello repubblicano per scelte di legittimazione di tipo

ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013

14

rappresentativo-parlamentari arricchite ulteriormente da istituti e modalità diffuse di

partecipazione politica, operanti a loro volta nel quadro di un ampio pluralismo

politico e di un esteso sistema di libertà politiche, ispirate alla centralità del principio

personalistico e di quello partecipativo.

Con ciò si vuole sottolineare, in premessa di questa analisi, che il costituente

repubblicano ha adottato misure fortemente innovative rispetto a quelle accolte nella

Costituzione liberal-democratica (Statuto albertino).

Accanto alla previsione del voto per la prima volta nella storia costituzionale del

Paese esteso a tutti i cittadini (“uomini e donne che hanno raggiunto la maggiore età”,

come recita l’art. 48, I co., Cost.), tali misure costituzionali riconoscono a tutti i

cittadini il potere di concorrere alla determinazione della politica nazionale mediante

partiti (art. 49 Cost.), libere associazioni che conoscono i soli limiti costituzionali

della ‘democrazia interna’ e della loro necessaria pluralità (la Costituzione parla di

“partiti” al plurale), escludendosi in tal modo ogni ipotesi di partito unico, pur se in

ipotesi pienamente democratico.

Naturalmente, a tali organizzazioni comunitarie si estendono i più generali limiti

previsti costituzionalmente per l’esercizio della libertà di associazione. Se non

soggiacciono più al vincolo della previa autorizzazione, i cittadini possono così

esercitare il loro diritto di associarsi liberamente, rimanendo esclusa da tale garanzia

costituzionale il solo perseguimento di finalità vietate ai singoli dalla legge penale,

cui si aggiunge il divieto di associazionismo segreto che persegua, anche

indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare (art. 18

Cost. ).

Tanto brevemente richiamato, pare necessario sottolineare come le soluzioni

accolte in tema di riforme elettorali e quelle che si dovranno in futuro ancora

prevedere in tale materia devono dimostrare, per tabulas, la capacità di assolvere da

parte dei partiti politici – concepiti in Costituzione come centri tipizzati di potere

politico-comunitario – alle funzioni di partecipazione politica per essi

costituzionalmente previste.

Ed è per questa ragione che, nell’approccio al tema che ne faremo, riteniamo

necessario richiamare, sia pure per grandi linee, le tematiche relative al rapporto fra

riforme elettorali, sistema politico-partitico e partecipazione politica, colte, tuttavia,

secondo un approccio che non si vuole attento prevalentemente alle technicalities,

quanto piuttosto al necessario raccordo fra (funzioni di) rappresentanza politica e

(funzione di) governo o, per dirlo senza molte mediazioni, fra finalità democratiche

S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)

15

proprie della forma di Stato democratico disegnata dal costituente repubblicano e

forma di governo.

L’attenzione centrale che riteniamo di dover assegnare alla trattazione del tema,

cioè, riguarda i rapporti fra gli organi attivi della rappresentanza e del governo

nell’ottica – l’uno e l’altro – di garantire la realizzazione delle finalità democratiche

dello Stato.

La riflessione sulle problematiche politiche e costituzionali poste dalla

‘democrazia dei partiti’ (ParteienStaat) ma anche ‘nei partiti’ ha caratterizzato lo

sviluppo della vita democratica del Paese, dal 1948 ad oggi, all’interno più ampio di

una forma di Stato e di una democrazia partecipativa fondate sul concorso alla

determinazione dei cittadini alla politica nazionale.

Una forma di democrazia che in modo fortemente innovativo e per la prima volta

venne pensata dai costituenti repubblicani come fondata sui partiti di massa (forgiati

dalle durezze imposte dalla clandestinità in cui la lotta al fascismo li aveva costretti e

superando radicalmente l’originaria natura di partiti borghesi, di élite, come gli stessi

si connotavano nella fase della liberal-democrazia del suffragio ristretto sulla base del

censo) e sulla partecipazione politica (allargata a multiformi altri strumenti di

partecipazione, che vanno dal referendum abrogativo alla iniziativa legislativa

popolare, dalla partecipazione sindacale alla manifestazione del pensiero

(naturalmente anche di quello critico) accolta nell’art. 21 Cost.).

Una forma di democrazia, dunque, che si edifica nella resistenza al fascismo, nel

compromesso costituzionale fra forze politiche e ideologiche differenziate (cattolici,

marxisti e laico-risorgimentali) e si perfeziona nel dibattito costituente, trovando

approdo nel testo costituzionale del 1947, e attuazione sia pure graduale e incompleta

nei quasi settanta anni che ci separano dalla vigenza della carta costituzionale a

partire dal 1° gennaio 1948.

Nei primi anni ’90, il dibattito sui rapporti fra democrazia/forma di Stato e forma

di governo si sviluppa in occasione dell’adozione delle nuove leggi elettorali per la

Camera e per il Senato, per le amministrazioni locali (l. 142/90) e per le regioni e più

in generale nello sforzo politico-istituzionale – rimasto in gran parte incompiuto – di

avviare una importante riforma nella direzione della trasparenza amministrativa e di

democratizzazione della amministrazione (l. 241/90), mediante il coinvolgimento

attivo dei destinatari dell’azione amministrativa all’interno dello stesso procedimento

amministrativo, e limitando forme risalenti della gestione amministrativa, spesso

autoreferenziali e autoritarie (nel mentre lo spazio normativo loro consentito era solo

ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013

16

quello dell’autoritatività, ma su queste questioni anche tecniche non potremo

fermarci, salvo che il dibattito non vorrà positivamente riprenderlo).

In questo quadro, così, la riflessione è chiamata ad incentrarsi tanto sulla dinamica

(formale e sostanziale) dei rapporti fra sistema dei partiti e istituti costituzionali del

circuito rappresentativo e di governo, quanto sulla questione dell’autoriforma dei

partiti e quindi della democratizzazione della loro vita interna e sulla previsione di

una diversa disciplina dei relativi rapporti con gli organi e i poteri costituzionali dello

Stato (e delle assemblee rappresentative territoriali).

L’attuazione di una simile dinamica di rapporti richiede una disciplina legislativa

delle più significative attività a rilevanza pubblicistica svolte da parte dei partiti

politici, a partire dalla previsione legislativa di uno statuto tipo per (tutti) i partiti, di

forme di controllo che impediscano il prodursi (e il ripetersi) di fatti penalmente (e

politicamente) rilevanti, come nella vita parlamentare ma soprattutto nella vita

istituzionale di molte regioni è dato osservare, senza differenze di rilievo nella gravità

degli eventi denunciati alla opinione pubblica (ora in via di accertamento delle

relative responsabilità legali) fra regioni del centro, del nord e del sud. Se non si

banalizzasse un problema serio di credibilità democratica e istituzionale, lo

chiameremmo il “modello Batman”, la capacità evocativa dei cui effetti

delegittimanti la credibilità istituzionale di istituzioni territoriali rende superfluo

profondersi in molte altre spiegazioni.

Tale esigenza trovava la sua giustificazione nella considerazione fattuale secondo

cui i partiti si sono ormai trasformati, prima in modo embrionale e in seguito in modo

sempre più marcato, in macchine organizzative autoreferenziali, chiuse in sé e

scarsamente capaci di sintonizzarsi (per rappresentarle) con le domande della società

e (soprattutto) dei cittadini.

L’evoluzione più di recente ne sottolinea la relativa evoluzione individuandone la

trasformazione in veri e propri ‘partiti personali’, portando a conclusione in tal modo

una evoluzione già lucidamente anticipata da Robert Michels, che nelle sue analisi

parlava di un modello di ‘partito pigliatutto’ come esito del processo di

trasformazione del partito di massa.

La letteratura sociologica e politologica sui partiti politici, in tal senso, ha da

tempo sottolineato come i ‘partiti di combattimento’ della prima stagione liberal-

democratica (il partito socialista della fase tardo-ottocentesca di cui ci ha parlato G.U.

Rescigno nelle sue lucide analisi sul punto) – e i ‘partiti di massa’, più di recente,

negli ultimi 66 anni che ci separano dal varo della Costituzione repubblicana del ’47,

sono ormai definitivamente scomparsi, venendo sostituiti da un nuovo modello di

S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)

17

partito che analisi politologiche approfondite (Richard Katz e Peter Mair, già dal

1995) hanno colto come partito elettorale, come ‘partito cartello’.

Le connotazioni interne ai partiti (“collusione intra-partitica”) e quelle esterne agli

stessi (compenetrazione fra partito e Stato) danno pienamente ragione di questa

analisi circa il processo di trasformazione profonda registrata dai partiti alla fine del

XX sec. e dei connessi effetti di depoliticizzazione indotta dagli stessi, con

conseguenze inevitabili sullo stesso contenuto e sulla qualità della democrazia

contemporanea1.

Fatti penalmente rilevanti, disvelati a partire dai primi anni ’90, hanno confermato

come simili ‘macchine’ – prima di configurarsi/trasformarsi in vere e proprie ‘caste’

– avessero perso nel tempo una parte significativa della capacità e della qualità

rappresentativa, per concentrarsi su tecniche di ricerca del consenso secondo modalità

che poco avevano a che fare con le funzioni proprie del partito, che sono quelle della

rappresentanza degli interessi dei cittadini volte ad assicurarne il concorso alla

determinazione della politica nazionale, nel rispetto del dettato costituzionale.

In evidente asimmetria con una interpretazione diffusa dei risultati elettorali delle

più recenti elezioni politiche e in contrasto con talune tesi pessimistiche (pur)

sostenute da autorevoli studiosi, per i quali la legislazione elettorale dei primi anni

’90 del secolo scorso – di tipo prevalentemente maggioritaria, e quella disegnata

dall’on. Calderoli, nel 2005 (con il consenso di molti e il non dissenso di quasi tutti

gli altri, tranne che dei partiti piccoli, cd partiti cespuglio) – avrebbe definitivamente

distrutto i partiti di massa (così come li abbiamo conosciuto nell’ultima metà del

secolo scorso), e contrariamente ad ogni rappresentazione che ne viene fatta,

1 “Il partito cartello è un tipo di partito che emerge nelle democrazie avanzate ed è caratterizzato dalla interpenetrazione

del partito e dello Stato e da un modello di collusione intra-partitica. Con lo sviluppo del partito cartello, le finalità della

politica diventano autoreferenziali, professionali e tecnocratiche, e quel poco che resta della competizione tra partiti si

focalizza sulla gestione del sistema di governo. Le campagne elettorali condotte dai partiti cartello sono ad alta intensità

di capitale, professionalizzate e centralizzate, e sono organizzate sulla base di una forte dipendenza dallo stato per

finanziamenti, e altri rimborsi e privilegi. All’interno del partito, la differenza tra iscritti e non iscritti al partito diventa

confusa, in quanto, attraverso primarie, sondaggi elettronici ecc., i partiti invitano tutti i loro sostenitori, iscritti o non

iscritti, a partecipare alle attività di partito e alle decisioni. Soprattutto, con l’emergere dei partiti cartello, la politica

diventa sempre più depoliticizzata”. Con ciò i partiti si staccano nettamente dalla società civile per divenire “alleanze di

professionisti”, “sistemi di franchising, non associazioni di cittadini”. “La politica diventa un lavoro”; così è “quasi

inevitabile che essi [i partiti] inizino ad assomigliarsi sempre di più”, e prendano a sviluppare dei comportamenti

velatamente o scopertamente collusivi, appunto di cartello. Cambia con ciò il contenuto stesso della democrazia: “La

democrazia sta nel tentativo delle élite di accattivarsi il favore del pubblico, piuttosto che nel coinvolgimento del

pubblico nella politica”.

ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013

18

argomentata con richiami al rifiuto della delega teorizzato da J.J. Rousseau, non

troviamo convincente la prognosi più o meno interessata di chi prospetta i partiti

come ormai definitivamente scomparsi dall’orizzonte degli strumenti della

democrazia partecipativa.

Nonostante gli eventi dell’attualità politica ed elettorale – con la emersione di

importanti ‘partiti-movimento’ che (pur operando in tutto e per tutto come veri e

propri partiti accentrati e gerarchizzati) vorrebbero essere colti come ‘non partiti’,

espressamente dichiarandosi per questo indisponibili a darsi regole statutarie –

continuiamo a ritenere tutt’altro che conclusa la funzione rappresentativa dei partiti a

favore di modalità rappresentative di tipo esclusivamente personalistico, assicurate

dal ruolo svolto dalle leadership nel quadro di formule di legittimazione politica che

respingono la democrazia rappresentativa a favore di forme di democrazia diretta, e

che troverebbero il loro pendant costituzionale nella prospettiva di nuovi assetti di

“presidenzializzazione della politica” e delle istituzioni di governo del Paese.

Ciò sia che si pensi alle inadeguate formule di governo semipresidenzialistiche

previste nei lavori della Commissione bicamerale operante nella meta degli anni’90

del secolo scorso, sia che si pensi alle (perfino ancora più) discutibili soluzioni di

parlamentarismo iper-razionalizzato per la forma di governo accolte nel progetto di

riforma costituzionale (approvato il 23 marzo 2005 dalla Camera dei deputati e il 16

novembre 2005 dal Senato), relativamente alle forme di elezione (quasi) diretta del

Presidente del Consiglio/Primo Ministro. Uno studioso di qualità ha parlato per tale

formula di un “premierato assoluto”, volendo sottolineare la carenza di pesi e

contrappesi presenti nella richiamata formula di riforma del governo voluto dalla

maggioranza di centro-destra.

Rispetto alle diverse proposte di riforma costituzionale prospettate con riferimento

a ipotesi (più o meno radicali) di presidenzialismo e di “personalizzazione della

politica”, esse possono ritenersi del tutto inadeguate quando si rifletta al fatto che una

parte significativa degli stessi studiosi degli Stati Uniti ritiene la forma di governo

presidenziale inadeguata rispetto alle esigenze di ‘governabilità’ del Paese nord-

americano.

Discorso omologo può farsi anche per il semipresidenzialismo, per ragioni che

sembrano trovare ormai d’accordo la maggioritaria dottrina costituzionale del nostro

Paese, del Paese francese e la dottrina europea, nonostante le declinazioni

evidentemente presidenzialistiche che, da alcuni anni nel Paese, la gestione della

grave crisi finanziaria in corso da almeno un quinquennio, sta facendo assumere alla

forma del governo (parlamentare) e allo stesso Presidente della Repubblica.

S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)

19

Sia pure nel quadro di un conclamato scenario di crisi economica e finanziaria del

Paese, in particolare, secondo tale ottica, la nomina del Governo Monti, in Italia, ad

esempio, avrebbe risposto appunto a questa eccezionalità costituita dalla successione

temporale ravvicinata della nomina del prof. Monti a senatore a vita e

immediatamente dopo nel conferimento allo stesso della formazione del governo (di

crisi), aperto ad una (fino ad allora inedita) maggioranza costituita, oltre che dalle

forze politiche (fino a quel momento) maggioritarie in Parlamento, dalla gran parte

delle stesse forze di opposizione.

La qualificazione che taluno ha dato di questa esperienza di governo come

“governo del Presidente”, tuttavia, risulta incongrua a coglierne i profili strutturali e

istituzionali, quando si consideri che il Governo Monti ha goduto comunque, per tutta

la sua (non lunga) durata, della fiducia del Parlamento, fino a quando la stessa non è

venuta meno a seguito delle dichiarazioni (parlamentari, ancorché non in sede di un

voto formalizzato di sfiducia al Governo, e dunque nella persistenza di forme di crisi

extraparlamentari del Governo) del segretario (pro tempore) del partito di

maggioranza in Parlamento, determinando in tal modo la decisione presidenziale di

scioglimento del Parlamento e di indizione delle nuove elezioni.

Se, dunque – nonostante la diversa convinzione dell’ex Presidente del Consiglio

Berlusconi, che si era perfino candidato a dirigere la Convenzione costituzionale

chiamata e riscrivere la Seconda Parte della Costituzione – la presente fase politica

non sembra lasciare aperte molte strade a una ingegneria costituzionale fondata

sull’accoglimento di forme di ‘presidenzializzazione’ della politica, con le relative

conseguenze di accentuata ‘personalizzazione’ delle cariche istituzionali (di vertice e

non), si conferma che i partiti politici, così come ridefiniti alla luce delle esigenze

rappresentative imposte dalla legislazione elettorale, (e nonostante la gravità della

crisi nella quale da tempo versano, secondo un giudizio che è molto diffuso)

continuano a costituire strumenti qualificati e insostituibili per assicurare le funzioni

di rappresentanza politica e di mediazione che risultano assolutamente necessarie

rispetto alla eterogenea e conflittuale congerie degli interessi rappresentati in

Parlamento (e nelle altre assemblee elettive territoriali).

Tale necessità dei partiti al fini di assicurare le esigenze di mediazione/integrazione

sociale e di rappresentanza politica, tuttavia, non consentono ai partiti di poter

rivendicare ruoli di ‘esclusività’ nell’esercizio di tali funzioni, che in passato hanno

politicamente preteso e praticato, ma che attualmente devono apprendere a

condividere con le manifestazioni del pluralismo politico e istituzionale emerse dal

basso della partecipazione politica diffusa presente nel Paese

ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013

20

La crisi dei partiti, tuttavia, non riguarda la sola loro funzione –

sociale/comunitaria – di concorso dei cittadini alla determinazione alla politica

nazionale – che comunque costituiva e costituisce tuttora un modello avanzato e

come si è già detto insostituibile costituzionalmente di partecipazione e di democrazia

politica – quanto piuttosto il processo di condizionamento degli organi costituzionali

di rappresentanza e di governo, soprattutto in ciò che viene colta come una “fusione

partitocratrica” di Esecutivo e Legislativo (con ciò che ne consegue in termini di

deresponsabilizzazione e di confusione istituzionale).

Lungi dalla pretesa di svalorizzare le più recenti manifestazioni del concorso dei

cittadini alla formazione della politica nazionale, tale orientamento di pensiero

assume che il principio democratico e quello partecipativo devono ulteriormente e più

adeguatamente diffondersi sia nell’ambito delle organizzazioni partitiche sia

attraverso l’utilizzazione di nuovi e più efficaci strumenti di formazione della volontà

politica.

Ciò soprattutto dopo la scelta operata con le (ormai non più recenti) leggi di

riforma elettorale che, come è comune osservazione, non hanno conseguito gli

obiettivi sistemici ai quali si erano ispirate, irrigidendo ulteriormente il carattere

oligarchico ed autoreferenziale dei partiti politici.

In tale visione, infatti, era stato assunto che il sistema elettorale, inteso non

semplicemente come strumento tecnico-giuridico di trasposizione dei voti in seggi

ma come un fondamentale elemento di ridefinizione-riqualificazione della

rappresentanza politica, potesse svolgere una delicata quanto fondamentale funzione

istituzionale finalizzata alla trasformazione della stessa forma di governo verso il

modello prevalente nelle contemporanee democrazie rappresentative, fondato sul

ricambio della classe di governo e sull’alternanza al potere fra partiti (o coalizioni di

partiti) alternativi, tutti comunque legittimati a governare, realizzando in tal modo

una democrazia ‘compiuta’ e ‘governante’.

Va tuttavia rilevato, in merito, come l’approccio con cui per lungo tempo sia la

dottrina costituzionale che (e soprattutto) i partiti politici hanno affrontato la

questione elettorale si sia rivelato del tutto strumentale ed insufficiente. Solo nel

dibattito teorico e parlamentare più recente la riforma della rappresentanza politica,

infatti, viene presa in considerazione non più solo come valore autonomo ma come

elemento che va considerato in stretta correlazione con l’obiettivo sistemico

identificabile nella definizione di una forma di governo ispirata al principio di

alternanza e a quello, correlato, dell’effettualità della responsabilità politica del ceto

politico (di governo e di opposizione) nei confronti del corpo elettorale e delle

dinamiche costituzionali maggioranza/opposizione. Quest’ultima verrebbe conseguita

S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)

21

anche attraverso una valorizzazione del peso decisionale del voto (non più solo per la

scelta delle rappresentanze parlamentari ma per l’investitura ‘quasi diretta’ dello

stesso Governo e come ‘voto-sanzione’).

In un orientamento di pensiero che è stato maggioritario nel Paese (e che da più

tempo s’interroga sui limiti di riforme elettorali non accompagnate da riforme

istituzionali e costituzionali nella direzione della garanzia delle minoranze, della par

condicio nell’accesso ai mezzi di comunicazione di massa e del rispetto del divieto di

concentrazione degli stessi), si era ritenuto che le distorsioni presenti nel sistema

politico, che avevano la loro manifestazione più evidente nella crisi della

rappresentanza, nella carente funzionalità degli apparati istituzionali di governo

(circuito Parlamento-Governo) e ancor di più nella occupazione/lottizzazione

partitica dello Stato, fossero aggredibili attraverso il superamento del carattere

‘bloccato’ e incompiuto della forma di democrazia conosciuta nel Paese (e della

cosiddetta ‘prassi consociativa’), ispirandosi a concetti di democrazia di tipo

sistemico, di tipo competitivi più che proiettivi.

Secondo l’opinione prevalente, pur avendo garantito il funzionamento delle

istituzioni rappresentative durante le fasi cruciali della storia repubblicana, un simile

‘patto compromissorio’ aveva finito con il privilegiare il metodo della cogestione

rispetto all’esercizio del controllo democratico sul Governo e all’elaborazione di

progetti alternativi, impedendo, in tal modo, una nitida differenziazione in ordine alla

imputazione chiara delle rispettive responsabilità e competenze istituzionali tra

maggioranza ed opposizione, tra Parlamento e Governo, tra esecutivi e legislativi in

generale.

Pur nella sottolineatura dei rischi di deriva populistico-plebiscitaria connessi allo

sviluppo delle forme della ‘democrazia referendaria’ e di formule assimilabili di

democrazia diretta (cd direttismo), si deve ricordare come uno gli obiettivi centrali

del movimento referendario, che si era attivamente impegnato nei primi anni ’90 per

l’abrogazione delle leggi elettorali a base proporzionale al tempo vigenti (nonché per

la soppressione delle preferenze multiple), fosse appunto quello di giungere ad un

pieno dispiegamento del modello democratico-parlamentare attraverso la

trasposizione delle regole istituzionali proprie dei regimi costituzionali cosiddetti

dell’alternanza, che si caratterizzano per un’accentuata competitività delle forze

politiche rappresentate in Parlamento, per la funzione di critica, controllo e di

rappresentanza di posizioni alternative sulle singole issues svolte dall’opposizione,

della quale viene pertanto garantita ‘istituzionalmente’ la possibilità reale di

ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013

22

sostituirsi al/i partito/i di maggioranza (battendolo/i alle elezioni politiche) nel

governo del Paese.

In tale contesto, l’avvio di un processo di riforme elettorali si era proposto

l’obiettivo del superamento dei processi consociativi con i limiti che, in sede di

‘costituzione reale’, avevano caratterizzato la forma di governo del Paese nell’ultima

metà del secolo appena alle spalle.

Nel concreto svolgimento dei rapporti fra (funzioni di) rappresentanza politica e

(funzionalità degli) organi di governo, infatti, la mancata alternanza fra forze

politiche ed in particolare l’operatività di convenzioni preclusive verso alcune forze

politiche, a sinistra e a destra dello schieramento parlamentare, si erano

accompagnate con prassi consociative, sia nell’ambito legislativo che nella stessa

amministrazione, secondo moduli convenzionali che Giuliano Amato aveva colto

come “governo spartitorio” in una ricerca pubblicata in quegli anni.

Corresponsabilizzando impropriamente (sia pure con diverso grado) le forze

parlamentari di governo e quelle di opposizione, tale prospettiva (di natura

consociativa) aveva reso difficile per il cittadino-sovrano l’esercizio del voto-

indirizzo e del voto-sanzione, essendo quest’ultimo, in tal modo, limitato ad

esprimere, sostanzialmente, un mero voto-mandato al partito (e al sistema dei partiti).

Coniugandosi con le rigidità imposte dalla ‘crisi fiscale dello Stato’ e con le

resistenze del sistema politico-istituzionale a varare riforme organiche nella direzione

della razionalizzazione delle istituzioni pubbliche, i limiti di un simile ‘governo

spartitorio’ avevano alimentato un convincimento diffuso sulle positive opportunità

offerte da una riforma elettorale che si proponesse di conseguire l’obiettivo di una

maggiore responsabilizzazione della rappresentanza politica, rispondendo meglio

all’esigenza di sciogliere i principali nodi evidenziati nel sistema politico-

istituzionale.

I termini della questione erano stati identificati, in tale ambito, nella necessità

d’individuare nuovi e più efficaci strumenti di rappresentanza e di governo in un

panorama istituzionale capace di ridare nuova linfa e corretto svolgimento allo

schema classico delle democrazie rappresentative, con una chiara distinzione di ruolo

e di responsabilità tra maggioranza ed opposizione parlamentare. Si poteva ritenere,

infatti, che tali elementi potessero concorrere a rafforzare, anche all’interno della

cultura e della prassi delle forze politiche, una tendenza verso la trasformazione della

democrazia rappresentativa, con una riforma del sistema istituzionale che potesse

segnare il passaggio dalla ‘cultura della coalizione alla cultura della rappresentanza’ –

S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)

23

che costituisce, come è noto, la regola di fondo della trasparenza e della

responsabilizzazione politica delle istituzioni rappresentative e di governo –.

In tale contesto, dunque, la questione elettorale era affrontata con riferimento alle

reali condizioni del sistema politico ed a quella che era stata definita la ‘costituzione

materiale’ realizzata dai più importanti centri di potere politico-comunitari, partiti

politici in primis.

In tale chiave interpretativa, la revisione del sistema elettorale si collocava,

dunque, come un elemento di assestamento istituzionale rispetto ai profondi

mutamenti registrati sul piano della ‘costituzione materiale’, che si riconducevano,

fondamentalmente, alla crisi della concezione di “esclusività” nella rappresentanza

politica ritenuta dai partiti politici, anche al di là della previsione costituzionale,

nonché all’inadeguatezza del modello consociativo a definire una forma compiuta di

democrazia parlamentare.

Tali analisi, in breve, portavano a sottolineare come – a fronte della natura

peculiare della crisi istituzionale in atto nel Paese (consistente, più che nella

debolezza dell’Esecutivo, nella trasformazione complessiva del sistema

costituzionale di governo rispetto all’impatto con il sistema politico-partitico) –

s’imponesse una strategia istituzionale volta a restituire certezza alle regole,

autorevolezza, funzionalità e capacità decisionale alle istituzioni costituzionali di

governo, unitamente alle funzioni rappresentative proprie delle assemblee elettive.

In tal senso, si era fatto osservare come la questione cruciale non fosse data dalla

sola modificazione della forma di governo quanto piuttosto dalla previsione di un

sistema elettorale capace di consentire ai cittadini di operare in modo diretto delle

scelte sui rappresentanti (eletti e partiti), sulle politiche (programmi politici) e sugli

schieramenti (alternativi).

In una parola, la riforma elettorale costituiva argomento centrale perché era

chiamata – secondo la filosofia istituzionale cui s’ispirava – a operare una nuova

legittimazione delle istituzioni della rappresentanza e del governo, attraverso una

maggiore responsabilizzazione delle forze politiche (nella dinamica maggioranza-

opposizione) e una possibilità reale garantita ai cittadini-elettori di una loro

sanzionabilità politica.

3. La riforma del ParteienStaat, fra leggi elettorali e modelli di democrazia

ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013

24

Una riflessione sull’inquadramento di tale tema nel più ampio dibattito sulle

riforme istituzionali, la stessa valutazione delle proposte di riforma istituzionali

(recenti e non), così, impongono di sottolineare un dato, che è anche di ordine

metodologico, su cui concordano da tempo gli studiosi di diritto costituzionale. Esso

è dato, come si è già osservato, dal superamento della stessa validità ermeneutica

delle analisi sulle forme di governo che si fondano sul tradizionale principio della

separazione dei poteri.

L’evoluzione del costituzionalismo italiano (ma analogo discorso può farsi per tutti

gli altri ordinamenti costituzionali europei), dalla originaria fase liberal-democratica a

quella contemporanea, impone di accogliere – accanto alla disciplina dei rapporti fra

Stato e cittadini (posta a presidio delle libertà civili e politiche) e a quella relativa alle

diverse relazioni fra i soggetti costituzionali – la presenza e l’operatività di attori

sociali differenziati, di centri di potere politico-comunitari, che organizzano –

rendendolo efficace – l’esercizio della libertà di partecipazione politica e che, in

qualche modo, mettono in questione – condizionandoli significativamente – la stessa

attività e l’indirizzo degli organi costituzionali di governo, in ciò concretizzandosi il

modello della ‘democrazia di partito/i’.

Per il tipo di rapporti che sono andati intessendo con lo Stato e la manifestazione

sociale e pubblica dei relativi poteri, i partiti politici, centri di potere comunitario, che

ne costituiscono l’espressione più stabile, organizzata e in questo senso più

qualificata, (sono stati e) possono (tuttora) cogliersi come organi ausiliari dello Stato,

se non come veri propri organi statali, come pure sono stati definiti da autorevole

dottrina, nei primi anni ’50, a partire da Pietro Virga autorevole costituzionalista

operante nelle università di Catania e di Palermo. Nello stesso senso anche V.

Crisafulli, T. Martines, G.U. Rescigno, L. Elia.

All’interno delle forme di governo degli stati contemporanei, a livello embrionale

nella fase originaria (come quella delineata dalla Costituzione italiana del ’47) e in

modo compiuto in quella più recente, così, i partiti politici, per le modalità di

svolgimento delle funzioni connesse alla rappresentanza politica (e alla mediazione

fra gli interessi sociali), diventano sempre più – sia pure nella sola via fattuale –

organi di rilievo costituzionale, capaci di determinare o anche solo d’incidere in

modo determinante sulla formulazione e sull’esercizio dell’indirizzo politico. Ma essi

sono, al contempo, associazioni di tipo privato e come tali sono fortemente insediate

nella società, apparendo difficile, anche per tale ragione, la ricomposizione strutturale

e funzionale in una lineare, soddisfacente, definizione della loro stessa natura

giuridica.

S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)

25

Si può osservare, in proposito, che il ritardo registrato da una parte significativa

della dottrina nel considerare il partito sotto il suo aspetto funzionale di ‘elemento

costitutivo del sistema di governo’ costituisce anche una ragione della più generale

difficoltà a comprendere la sua configurazione ‘a prevalente gravitazione

pubblicistica’ e dunque la sua natura di parte integrante fondamentale del modello di

democrazia e della forma di Stato vigente.

Quest’ultima è stata appunto definita ‘Stato dei (di) partiti’ in quanto caratterizza il

funzionamento del modello di democrazia previsto dalla Carta costituzionale a partire

dall’attività prevalente dei partiti, nella cui configurazione giuridica, come si è detto,

rileva tanto una natura associazionistica di rango privatistico, quanto una, contestuale

e inscindibile, di tipo organicistico, di natura pubblicistica.

In un quadro come quello appena richiamato, il dibattito sulle forme di governo ha

ritrovato una sua nuova attualità (soprattutto) dopo la riforma elettorale italiana dei

primi anni ’90, a seguito del pronunciamento referendario sulla (parziale)

abrogazione della previgente legge elettorale per la Camera e per il Senato.

Per richiamare, in modo essenziale, con qualche interesse ai fini dell’analisi che

stiamo conducendo (sulla forma-partito e) sulla comparazione con altri sistemi

politico-costituzionali le soluzioni offerte dalla riforma elettorale dei primi anni ’90 e

accostarsi alle problematiche che essa ha dischiuso nell’analisi giuridica e nel

dibattito politico del Paese, occorre inquadrare l’intera tematica ora in considerazione

nella più generale problematica posta dalla trasformazione da tempo in corso del

sistema dei partiti, da una parte, e dalla riforma istituzionale (e costituzionale), essa

stessa in corso da tempo (almeno nell’analisi teorico-politica), e che ha conosciuto

una sua accelerazione, soprattutto a partire dai primi anni ’80, con la proposta

craxiana della ‘grande riforma’ e quelle dottrinarie avanzate dal c.d. ‘gruppo di

Milano’, orientate a una riforma costituzionale nella prospettiva di ‘governi

presidenziali’ o ‘semi-presidenziali’, nel primo caso, oppure verso ‘governi di

legislatura’, secondo l’orientamento del richiamato gruppo di giuristi milanesi. Questi

ultimi hanno trovato parziale accoglimento nelle previsioni di riforma costituzionale

del Titolo V della Costituzione e nella forma di governo regionale.

In questo contesto, le riforme elettorali venivano individuate in via generale come

snodo obbligato per affrontare le problematiche istituzionali dell’instabilità

governativa e della connessa difficoltà di assicurare la coesione delle coalizioni di

governo e la omogeneità dei relativi indirizzi politici.

ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013

26

L’analisi teorico-dottrinaria e il dibattito parlamentare, nel loro complesso, hanno

evidenziato, tuttavia, un atteggiamento di forte resistenza nelle forze politiche a

ritrovare un accordo su riforme istituzionali e costituzionali relative alla forma di

governo e alla c.d. ‘legislazione di contorno’.

Le resistenze espresse dalle forze parlamentari a varare riforme istituzionali-

costituzionali in tali àmbiti (superate nel merito dall’intervento del corpo elettorale

attraverso il referendum) rinviano alla questione centrale posta dall’esistenza nel

Paese di una ‘costituzione reale’ che non sempre si conforma a quella formale e, al

suo interno, dalla centralità occupata dai partiti politici nel loro concreto impatto sulla

forma di governo effettivamente vigente.

Dal punto di vista costituzionale, così, la questione viene ricollegata alla necessità

di analizzare – accanto ai meccanismi costituzionali predisposti per disciplinare in

una forma ‘razionalizzata’ (rispetto al parlamentarismo ottocentesco e novecentesco e

alle stesse vigenti disposizioni costituzionali) i rapporti fra gli organi della

rappresentanza politica e quelli del governo, – tutta una serie di prassi e di

convenzioni costituzionali (ultra ma anche contra constitutionem) che, nelle diverse

fasi della vita repubblicana del Paese, hanno caratterizzato lo svolgimento e gli

equilibri costituzionali complessivi della forma di governo.

Dal punto di vista più strettamente politico, l’esperienza italiana si caratterizzava,

fino ai primi anni ’90, come è noto anche agli osservatori stranieri, per una costante

indisponibilità ad aprire le coalizioni di governo alle forze politiche collocate a destra

e (soprattutto) a sinistra delle tradizionali coalizioni governative. Un’autorevole

dottrina (Elia) aveva colto in tale assetto materiale l’esistenza di una vera e propria

‘conventio ad excludendum’, che delineava scenari di ‘democrazia zoppa’, una

democrazia, cioé, nella quale risultava assente la ‘regola aurea’ del parlamentarismo

liberal-democratico – costituita dall’alternanza al governo fra forze politiche, intesa –

quest’ultima – come principio di trasparenza e di effettualità della responsabilità

politica, rispettivamente, del Parlamento e del Governo.

Tale crisi delle forme costituzionali relative alla organizzazione e al funzionamento

del Governo (soprattutto nelle sue fasi fondamentali relative alla formazione e alla

crisi) si salda, soprattutto a cavallo degli anni ’90, con la crisi delle principali forze

politiche di maggioranza (e della relativa leadership), evidenziandosi con la

affermazione di movimenti politici nuovi, di caratterizzazione eminentemente

regionale/localistico (leghe), e aggravandosi in modo irreversibile con riferimento al

coinvolgimento giudiziario dei più importanti leaders partitici dell’area di governo,

ma anche di opposizione (sia pure in questo caso in misura minore).

S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)

27

Così richiamati i termini fondamentali dello scenario politico in cui si affermano le

nuove regole elettorali, occorre richiamare nuovamente, sia pure in termini essenziali,

la filosofia politica e i princìpi istituzionali invocati a sostegno delle riforme elettorali

da parte del movimento referendario e della stessa dottrina che ne aveva sostenuto le

ragioni.

Quali che fossero le scelte auspicate dai partiti politici, rimane come dato certo

che, nelle aspettative del corpo sociale, gli obiettivi cui doveva conformarsi la

riforma elettorale erano sostanzialmente di due tipi. Innanzitutto, si trattava

d’individuare meccanismi capaci di assicurare una maggiore stabilità, forza e

autorevolezza allo Esecutivo (riassunti nella formula descrittiva della

‘governabilità’), rafforzando le coalizioni di governo attraverso i vantaggi assicurati

dalla distribuzione dei seggi parlamentari effettuata con un sistema elettorale di tipo

(prevalentemente) maggioritario.

Un secondo obiettivo assegnato alla riforma elettorale, sul quale erano stati

enunciati orientamenti dottrinari articolati ed anche fortemente critici, era

riassumibile, secondo una formula di successo di quegli anni, nella “restituzione dello

scettro al principe” – i cittadini-sovrani – uno scettro che era stato occupato, con

scarsa qualità rappresentativa, dai partiti politici che, da strumenti di partecipazione

politica, gradualmente, si erano andati costituendo come un vero e proprio diaframma

fra i cittadini (titolari della “concorsualità” nella determinazione della politica

nazionale attraverso i partiti politici) e i partiti (ormai stabilmente costituiti in

oligarchie cristallizzate ed ossificate al loro interno e nella funzione di rappresentanza

e di mediazione rispetto alle istituzioni rappresentative e di governo).

Secondo tale profilo (che risulta centrale se si vuole riannodare il tema elettorale

con quello dei partiti ed anche con lo stesso tema dell’efficienza del circuito

parlamentare e governativo), questo orientamento assumeva, in modi e con finalità

esplicite, la necessità di orientare le linee di direzione del processo riformistico

(elettorale ed istituzionale) verso forme di democrazia che tendessero a comprimere i

ruoli impropri svolti dai partiti politici per espandere una più piena e matura crescita

partecipativa/decisionale del cittadino, come singolo e nelle multiformi

manifestazioni assicurate dall’esercizio delle libertà costituzionali.

Tali modalità, nel dibattito costituzionale, con formula indubbiamente schematica

mutuata dalla dottrina d’oltralpe, sono state anche definite ‘immediate’ per

sottolineare un rapporto di diretta investitura dei governi da parte del corpo elettorale.

ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013

28

Un nuovo orientamento a favore di sistemi elettorali a base maggioritaria, che

altrove erano stati sperimentati da tempo e con relativo successo (rispetto agli

obiettivi loro assegnati), appariva, così, maggiormente convincente per la sua

capacità di dare una risposta alle aspettative del corpo sociale relativamente alla

valorizzazione del conflitto democratico ed alla garanzia dell’alternanza fra forze

politiche, in una parola alla realizzazione di un processo di maggiore trasparenza dei

(e nei) rapporti fra istituzioni rappresentative e di governo e con il corpo elettorale.

Accanto alle opportunità offerte dalle diverse formule elettorali, lo scenario di tale

dibattito, come si può osservare, metteva a confronto due diversi modelli di

democrazia.

Rispetto al primo dei due, che il Paese aveva sperimentato nell’ultima metà di

secolo – un modello di democrazia ‘mediata’, ‘consociativa’, fondato sul

pluripartitismo più o meno esasperato (benché bilanciato al suo interno dalla già

richiamata clausola preclusiva, nella formazione dei governi, verso i partiti ritenuti

‘antisistema’) –, il secondo dei due modelli ha rinviato a forme di organizzazione

della democrazia di tipo ‘competitivo’, che sono state anche definite ‘immediate’ per

sottolineare la ricerca di un rapporto di maggiore prossimità del cittadino sovrano nel

suo potere d’influenza/determinazione della politica nazionale, soprattutto in sede di

scelta dei suoi organi rappresentativi e dei vertici degli esecutivi, la cui

determinazione, in tal modo, veniva sottratta alla disponibilità dei partiti. Secondo

tale diversa e nuova formula, il modello di democrazia risultava particolarmente

agevolato, transitando, in tal modo, da una cultura della coalizione a una

dell’alternanza.

Così evocata la filosofia istituzionale ispiratrice della riforma elettorale dei primi

anni ’90, rimane ora da chiedersi, alla luce di (più di) un ventennio di

sperimentazione, quali effetti concreti essa ha potuto/saputo esercitare sulla

costituzione materiale del Paese (soprattutto in tema di coesione interna ai governi ‘di

coalizione’) e sulla stessa legittimazione (sociale e politica) dei partiti.

Rimane, inoltre, da riproporsi il quesito se la stessa sia stata (o meno) capace di

assicurare quegli obiettivi attesi di ‘governabilità’ ai quali si era ispirata (e che il

corpo elettorale aveva fatto propri con un esito referendario particolarmente chiaro).

Nell’accostarsi a un tema che appare indubbiamente complesso, attesa la

prossimità storica alla fase politico-istituzionale oggetto ora di analisi, può dirsi, in

una prima valutazione generale, che la riforma elettorale dei primi anni ’90 ha

indubbiamente assicurato uno degli obiettivi per il quale era stato richiesto e

S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)

29

approvato, quello cioè di consentire l’effettività dell’alternanza al governo fra forze

politiche contrapposte.

Nelle due legislature successive alla riforma, infatti, due partiti che in precedenza

erano stati ritenuti ‘antistema’ e per questo erano stati esclusi dalla formazione dei

governi per circa una metà di secolo – sia pure in uno scenario politico-istituzionale

nuovo, caratterizzato dalla ridefinizione delle relative ragioni sociali e da nuovi

programmi/statuti politici (il PCI poi trasformatosi in DS e di recente in PD e il MSI

in AN, poi confluito nella Casa delle libertà ed infine scomparso dalla scena politica)

– hanno potuto accedere per la prima volta al governo, all’interno di governi di

coalizione.

Con tale accesso all’interno delle maggioranze parlamentari di turno, si è parimenti

determinato un secondo importante effetto, quello della loro piena legittimazione

(nell’accesso al governo) e di un loro reciproco riconoscimento democratico di forze

politiche operanti nel sistema.

Sotto tale profilo, dunque, non può che sottolinearsi il successo di un sistema

elettorale che ha visto allargata la base di formazione dei governi, confermando, in tal

senso, la fondatezza delle aspettative in esso riposte sia da parte del corpo

referendario sia da parte del Parlamento e della dottrina che ne aveva sostenuto

(almeno parzialmente) le ragioni.

Tuttavia, problemi non erano mancati soprattutto con riferimento alla debolezza

dei vincoli di lealtà esistenti all’interno dei partiti della coalizione (soprattutto di

governo).

Mentre nel corso della prima delle due richiamate legislature basate sul nuovo

sistema elettorale (prevalentemente) maggioritario tale debolezza determinava un

persistente ricorso alla risalente prassi (incostituzionale) delle crisi extra-parlamentari

(con l’abbandono della maggioranza governativa del tempo da parte di una delle sue

componenti più critiche, quella di Rifondazione comunista), nella legislatura

successiva tale debolezza del vincolo di coalizione si manifestava come

rafforzamento relativo di una delle componenti della maggioranza governativa, quella

della Lega Nord, che aveva buon gioco, in tale quadro, di ricorrere ad un potere di

‘minaccia della crisi’ per conseguire una negoziazione politico-programmatica che

risultava puntualmente di favore per tale attore politico (almeno fino alla crisi in cui

esso stesso si è ritrovato, per ragioni che sarebbe bene analizzare in quanto pertinenti

rispetto al tema ma che non avremo il tempo di effettuare in questa sede).

ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013

30

Il mancato prodursi di una nuova crisi extra-parlamentare in un simile quadro pare

dovuto a una evidente capacità di negoziazione bilaterale all’interno della

maggioranza governativa (con evidenti effetti critici su altre forze politiche che la

compongono) e alla piena disponibilità dell’indirizzo politico della maggioranza

governativa e soprattutto del suo leader di farsi carico di una negoziazione sullo

stesso testo di revisione della Costituzione secondo una direzione (almeno

apparentemente) imposta dalla Lega Nord.

Prima di ritornare su tale questione (come faremo fra poco), occorre anche

aggiungere che se il nuovo sistema elettorale (prevalentemente) maggioritario non

appare direttamente responsabile della crisi del ‘partito di massa’ almeno può

affermarsi (ed è stato da molti affermato) che la sua pratica si è accompagnata con

tale crisi.

Le relative manifestazioni appaiono di comune osservazione; esse vanno

dall’indebolimento del vincolo di lealtà politica fra eletti e partiti (con lo sviluppo

abnorme del ‘transfughismo’), dalla costituzione di una molteplicità di gruppi

parlamentari (con la crescita parimenti abnorme del numero dei parlamentari iscritti

al gruppo misto sia alla Camera che al Senato) fino al rafforzamento della tendenza

alla ‘personalizzazione’ del potere (soprattutto, ma non solo, negli esecutivi).

L’affermazione di ‘partiti personali’, del partito-cartello, del c.d. ‘partito-azienda’

(Forza Italia), costituisce, in tal senso, così, il sintomo di un processo più vasto e

profondo, che ha le sue radici in una perdita progressiva del modulo partecipativo

nella scelta dei candidati a favore di decisioni che si trasferiscono – sia all’interno del

richiamato ‘partito-azienda’, sia (ancorché in forme più celate) negli altri partiti –

direttamente nelle mani del leader unico (nel primo dei due casi richiamati) ovvero

nelle (egualmente ristrettissime) segreterie politiche (di norma esclusivamente

nazionali) con riferimento alle altre ipotesi richiamate.

È a questo livello in particolare che trovano una loro giustificazione quegli

orientamenti giù richiamati in precedenza circa l’opportunità e/o necessità che la

riforma elettorale si accompagnasse con la ripresa di un’attenzione riformistica

relativa alla democrazia interna ai partiti e con la stessa apertura da parte di questi

ultimi alla scelta di candidati alle elezioni politiche e agli organi esecutivi di vertice

non solo al proprio interno ma aprendosi, mediante elezioni primarie aperte, anche a

candidature provenienti dalla società civile, secondo un metodo disciplinato in via

legislativa e non solo in via di autoregolazione.

Ma, come si è già sottolineato, ciò non si è verificato, con conseguenze di

disgregazioni ulteriori nel quadro del sistema politico-partitico (soprattutto nella sua

S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)

31

componente di centro-sinistra, attese le peculiarità del partito di centro-destra e della

funzione stabilizzatrice operata per tale partito dal suo leader, Silvio Berlusconi) e

con la conferma sostanziale di forme di autoreferenzialità anche dei nuovi partiti

affacciatisi sulla scena politica (materialmente impossibilitati anche a porsi il

problema della democrazia interna, avendo gli eletti di tali partiti accettato, al

momento della candidatura, regole di conformazione del proprio mandato politico

alle determinazioni del vertice ristretto del ‘partito-non partito’, con il relativo statuto

significativamente qualificato come ‘non-statuto’).

Una delle ragioni dell’almeno parziale fallimento delle nuove regole elettorali

risiede appunto nella mancata adesione da parte del sistema politico-partitico verso

quest’apertura alle regole della democrazia interna dei partiti e nella stessa mancata

apertura (formale) del procedimento elettorale, da una parte, al sistema

legislativamente regolato delle ‘elezioni primarie aperte’ e, dall’altra, alla stessa

candidatura delle donne nelle liste elettorali.

Ritornando al tema sul quale ci eravamo soffermati in precedenza, si può allora

sottolineare che quella legislazione elettorale pare indubbiamente aver risolto una

delle questioni centrali nella formazione delle maggioranze parlamentari, quella cioè

relativa all’investitura elettorale diretta (o quasi diretta) dei relativi leaders nelle

cariche di governo, la cui capacità di trascinamento elettorale si riflette in modo

indubbiamente positivo sulla (almeno tendenziale) stabilizzazione della forma di

governo, in un quadro che, come si è già detto, resta caratterizzato dal ricorso a

‘governi di coalizione’. Ma come sappiamo, anche la possibilità di esistenza di questi

ultimi diviene funzione di una necessaria riforma elettorale che consenta il formarsi

di possibili maggioranze alternativistiche all’interno del Parlamento.

Sotto tale ultimo profilo, si potrebbe osservare che la nuova costituzione materiale

determinata dalla riforma elettorale sottrae materialmente al Presidente della

Repubblica la individuazione del leader incaricato della formazione del Governo; pur

restando formalmente libero nell’esercizio di tale onere costituzionale, il capo dello

Stato riceve un indubbio e inequivoco indirizzo da parte del corpo elettorale,

risultandone in tal modo sostanzialmente condizionato.

Ciò che invece le nuove regole elettorali non potevano assicurare era la coerenza di

azione dei partiti all’interno di governi che erano (e restavano) di coalizione, con la

conseguenza che alla parziale stabilità conseguita dall’Esecutivo attraverso

l’investitura del suo leader non si accompagnavano la forza, la coesione interna e

pertanto la stessa autorevolezza delle relative scelte politico-programmatiche.

ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013

32

Qualora assunto come obiettivo positivo da conseguire (come, tuttavia, non

assumiamo, in ragione della diversa e risalente storia parlamentare del Paese), tale

obiettivo avrebbe potuto essere conseguito solo ricorrendo (come il corpo

referendario dei primi anni ’90 aveva probabilmente voluto, ma che le forze politiche

del tempo avevano assunto come non adeguato alle esigenze rappresentative e

istituzionali del Paese) a un diverso sistema elettorale, interamente maggioritario, a

base uninominale.

L’effetto di una simile formula elettorale sul sistema politico del Paese, in tale

caso, avrebbe potuto più coerentemente e sistemicamente operare secondo un’attesa

logica bipolare; tale sistema avrebbe consentito, probabilmente, la stessa presenza

parlamentare di un partito eminentemente regionale, come la Lega Nord, al pari di

quanto è dato osservare nel sistema britannico per lo Scottish party, esso stesso

partito con base regionale. La formula elettorale utilizzata in Gran Bretagna, inoltre, e

come è ben noto, più che ‘investire’ un leader legittimandolo direttamente

nell’esercizio della funzione di capo del Governo, consente la scelta da parte degli

elettori di un partito, chiamandolo direttamente alla responsabilità di governo e

sostenendolo nel suo indirizzo politico.

Tale scelta, in un’ottica che è appunto di tipo bipolare, si accompagna con regole

parlamentari particolarmente stringenti, che sono volte ad assicurare al Governo una

sua continuità nell’indirizzo politico fra maggioranza parlamentare e maggioranza di

governo, accompagnata dalla stabilità della sua compagine istituzionale; con la

conseguenza che, in caso di inadeguatezza di quest’ultimo o di un contrasto ritenuto

negativo da parte della maggioranza parlamentare di sostegno, quest’ultima potrà

liberamente decidere di sostituire il Premier senza dover ricorrere alle più complesse

e macchinose previsioni di bilanciamento, come quelle di riconoscere al Premier un

potere di scioglimento delle Camere e a queste ultime di poterlo comunque sostituire

ricorrendo ad altro leader appartenente alla stessa maggioranza parlamentare (come

si prevedeva nell’ultimo testo di revisione costituzionale).

Come si può osservare, la riflessione appena svolta invoca l’utilità del ricorso alle

esperienze comparatistiche in tema di ‘democrazia maggioritaria’; ciò anche in

considerazione del fatto che l’attesa stabilità del Governo, in Italia, è stata

sicuramente assicurata, ma non pare potersi affermare che tale successo si estenda

anche alla coerenza interna al Governo.

I governi fondati su un bipolarismo (almeno tendenziale) sostenuto dalla

legislazione elettorale (prevalentemente) maggioritaria adottata nei primi anni ’90,

così, si sono rivelati, nella realtà, per quelli che istituzionalmente essi sono, cioè

‘governi di coalizione’, in altri termini, governi sostenuti da forze politiche e fondati

S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)

33

su accordi elettorali intorno ad un leader, le quali, in Parlamento, rivendicano

(comprensibilmente) visibilità e responsabilità rappresentativa. Quali che siano i

meccanismi utilizzati, dunque, non pare conseguito l’atteso obiettivo di una

legislazione elettorale a sostegno di un ‘governo del Premier’.

Il tema ritorna così a riproporsi negli stessi termini dei primi anni ’90, allorché si

era manifestato nel Paese un orientamento indiscusso verso la ‘democrazia

maggioritaria’, fatta in gran parte di scelte d’investitura diretta dei vertici degli

esecutivi e di semplificazioni elettorali e partitiche, in breve, di formule orientate

nella direzione della ‘personalizzazione’ della politica e della ‘presidenzializzazione’

del potere esecutivo.

4. La legge n. 270/2005: una riforma elettorale ‘partitocratica’.

Dopo un ventennio di pratica di tale modello di democrazia è ragionevole

interrogarsi sui rapporti fra rappresentanza e governabilità per come assicurati da tale

legislazione prevalentemente maggioritaria, prima, e sostanzialmente maggioritaria,

in seguito, a seguito dei molteplici sbarramenti verso le forze politiche minori e in

ragione dei significativi premi elettorali che conseguono l’obiettivo di consegnare la

maggioranza di governo alla più votata delle minoranze presenti nel Parlamento.

Ciò appare particolarmente opportuno anche in ragione del fatto che se, da una

parte, i partiti politici ne sono risultati (in parte significativa) delegittimati, dall’altra,

la dinamica dei rapporti fra Parlamento e Governo ha visto il primo pressoché

totalmente asservito al secondo e quest’ultimo piegato a logiche di tutela di interessi

settoriali e spesso ‘personali’ incompatibili con un modello di democrazia che si

assume come matura.

Il bipolarismo, dunque, se doveva costituire, nell’intenzione dei riformatori dei

primi anni ’90, una modalità per farsi carico dei problemi della ‘governabilità’, non

pare riuscito nello intento e, al contempo, ha compresso oltre il ragionevole le

esigenze di rappresentanza.

Era (e resta) ragionevole interrogarsi sui rendimenti sistemici e politico-

istituzionali di tale legislazione.

Che la soluzione seguita dalla più recente riforma elettorale, nel 2005 (legge

Calderoli), costituisca una risposta plausibile appare del tutto discutibile, se non per

una evidente volontà volta verso una strategia elettorale a breve termine da parte di

uno dei partiti della maggioranza parlamentare di centro destra che volle quella

ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013

34

riforma, al fine di ricavarne un possibile vantaggio competitivo da parte della

maggioranza parlamentare del tempo.

Al contrario, se l’obiettivo fosse stato quello di affrontare in modo adeguato il

tema di un necessario ed equilibrato rapporto da prevedersi fra esigenze della

rappresentanza politica ed esigenze di ‘governabilità’, sia nel dibattito dottrinario del

Paese sia nell’esperienza di altri Paesi sarebbe possibile individuare soluzioni

adeguate a soddisfare ambedue i richiamati valori.

Fra le esperienze di razionalizzazione del parlamentarismo utili da richiamare,

ricordiamo, come vedremo meglio in seguito, la forma di governo e il sistema

elettorale accolto in Germania, con il ricorso ad un sistema elettorale proporzionale

con soglie di sbarramento (questo modello ha ben funzionato con riferimento alle

esigenze di funzionalità del cancellierato tedesco), oppure – in un’alternativa che si

vedrebbe comunque in continuità con l’opzione in favore di sistemi a base

maggioritaria – quello francese, basato su un sistema elettorale maggioritario a

doppio turno.

L’analisi può ora concludersi con alcune (brevi) riflessioni conclusive

relativamente alle linee salienti della nuova legge elettorale a base proporzionale con

premio di maggioranza (l. n. 270 del 21 dicembre 2005) e alle sue evidenti

discontinuità rispetto alle aspettative ‘maggioritaristiche’ sollevate dai primi

referendum degli anni ’90 (1991, 1993) nonché alle relative previsioni legislative di

riforma.

Seguendo un approccio già utilizzato nell’analisi della legislazione elettorale

previgente, in tale riflessione, non ci soffermeremo sull’analisi delle soluzioni

tecniche e dei molteplici sbarramenti in essa previsti (della cui legittimità, invero, si è

molto discusso in dottrina), rinviando alle specifiche analisi di dettaglio che si sono

già ampiamente profuse in merito. Non ci soffermeremo nemmeno, come pure non

sarebbe consentito in un’analisi che non si voglia troppo incompleta, sul vaglio dei

singoli profili di irrazionalità presenti nella legge, in quanto appunto disciplinante la

materia elettorale in modo (almeno in parte) irrazionale e per questo incostituzionale.

L’approccio cui c’ispireremo, pertanto, non potrà che (in)seguire la ricerca della

logica sistemica sottesa alla nuova legge elettorale, portando ad interrogarsi sulla sua

idoneità (o meno) a farsi carico, al contempo, delle esigenze di rappresentanza e di

governabilità e sui possibili (ma in realtà certi, quando si considerino gli impatti sul

sistema politico e su quello istituzionale di governo della sua prima applicazione)

effetti negativi che la stessa potrà avere relativamente alla previsione delle ‘liste

bloccate’ nell’individuazione dei candidati e degli eletti. Una scelta – quest’ultima –

S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)

35

che, in quanto fortemente dis-rappresentativa e di dubbia legittimità, rischia di

allontanare ulteriormente e in modo (forse) definitivo i cittadini dai partiti,

alimentando un sentimento antipartitico che rischia perfino di trasformarsi in un

sentimento di antipolitica. Un sentimento – quest’ultimo – che rischierebbe di minare

nel profondo la qualità e la stessa tenuta della democrazia.

La crisi in atto e le pulsioni antipartitiche registrate nel dibattito in corso del Paese,

infatti, costituiscono un riscontro non attingibile solo da quegli animali che, come

nella metafora ben nota, mettono le mani davanti agli occhi traendone la convinzione

che non si veda nulla all’orizzonte.

In un penultimo profilo, ci interrogheremo, infine, sui rapporti fra tale legislazione

e le nuove prospettive della forma di governo, per cogliere, anche in questo caso, la

funzionalità (o meno) delle nuove regole elettorali a sostenere le opzioni accolte con

particolare riferimento alle modalità di scelta del Premier nonché della coalizione

chiamata a governare.

Così richiamati i temi ora oggetto di analisi, non può non osservarsi come la nuova

legge di riforma elettorale costituisca, sotto ognuno dei profili richiamati, un netto

abbandono dei princìpi sistemici che avevano in passato ispirato la riforma

(prevalentemente) maggioritaria (essi stessi, invero, molto incerti).

Tale opzione, tuttavia, non sembrerebbe seguire un criterio formale di disinteresse

istituzionale verso l’obiettivo della governabilità, quando si consideri che (almeno)

alcune disposizioni sono previste in tale prospettiva (art. 1, V co., della l. 270/2005),

come, ad es., la presentazione alla Camera di un “programma elettorale” e

l’indicazione dei dati personali del leader indicato dai partiti o dai gruppi politici

organizzati quale “capo della forza politica”, indici – questi ultimi – che farebbero

assumere un interesse verso la formazione di coalizioni guidate da un leader certo.

Ma si tratta, come si può osservare, di disposizioni ampiamente inadeguate rispetto

all’obiettivo atteso della stabilità e della coesione interna della maggioranza di

governo, soprattutto se comparate con le più stringenti formule del sistema elettorale

previgente, sia nella individuazione del leader capofila delle coalizioni sia nei

meccanismi di trasformazione dei voti in seggi parlamentari.

È rispetto a questa incertezza di fondo nella garanzia della ‘governabilità’ che

appaiono incongrue e irrazionali le farraginose soluzioni accolte con riferimento alla

distribuzione del premio di maggioranza, fino a doversi sostenere, in unum con gli

orientamenti della prevalente dottrina che si è fin qui occupata della questione, che

ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013

36

siamo in presenza di una ‘irrazionalità complessiva’ della legge, che, per questa

ragione, dovrebbe essere censurata dal Giudice delle leggi (qualora adito).

Da una parte, infatti, la legge non prevede (ma forse non poteva, quando si

consideri la previsione accolta nell’art. 67 Cost.) alcuna sanzione per le coalizioni di

forze politiche che, dopo aver fruito del premio di maggioranza, immediatamente

dopo decidano di sciogliersi per confluire in altre forze politiche, violando in tal

modo il principio di eguaglianza del voto e alterando di conseguenza le condizioni

della competizione elettorale; dall’altra – e soprattutto – occorre sottolineare la scarsa

(e anche per questo irrazionale) capacità premiante del ‘premio di maggioranza’,

quando si consideri come la stessa, in sede di assegnazione dei seggi al Senato,

finisca in realtà per annullarsi all’interno di ogni singola regione, non producendo

quell’atteso effetto premiante espressamente voluto dalla legge e di stabilizzazione

della coalizione di forze politiche vittoriose alle elezioni per assicurare alle stesse

almeno il 55% dei seggi, a garanzia della stabilità governativa. Un premio regionale –

quest’ultimo – che diviene manifestamente un “non premio” a livello nazionale in

quanto i differenti, singoli, premi possono finire per annullarsi.

Si tratta, in conclusione, di un sistema elettorale a base proporzionale corretto con

premio di maggioranza e sbarramenti (variegati) che, tuttavia, non risulta idoneo ad

assicurare i princìpi proiettivi propri dei sistemi elettorali a base proporzionale, né ad

assicurare in modo congruo il ruolo di rappresentanza attraverso gli eletti.

Il paradosso di una riforma tanto in contrasto con la filosofia della governabilità

seguita nell’ultimo decennio, nonostante i già richiamati limiti di tale legislazione

elettorale, consistenti nella sola garanzia della stabilizzazione della maggioranza

parlamentare non accompagnata dalla relativa coesione interna, tuttavia, sollecita

l’interrogativo circa l’esistenza (o meno) di “interessi partigiani” congiunturali, che

hanno spinto la maggioranza parlamentare del tempo a violare consolidate regole

della costituzione materiale e in contrasto con i princìpi dello stesso patrimonio

costituzionale europeo.

Naturalmente, una simile ricerca non può ‘assolvere’ le ragioni d’irrazionalità, e

pertanto d’illegittimità, del nuovo sistema elettorale, per come già autorevolmente

sottolineate dalla dottrina. Ma potrà forse aiutare a comprendere l’evidente difficoltà

del più recente legislatore, anche in ragione delle esigenze politiche di vedere

garantita una coesione all’interno della maggioranza parlamentare rispetto al ‘potere

di crisi’ esercitato da una forza minore, come quella della Lega Nord.

Una simile ricerca, supportata da dati empirici, è stata bene svolta, di recente, con

argomentazioni pienamente condivisibili nello spirito di questa analisi. Interrogandosi

S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)

37

sugli effetti, almeno apparentemente ‘schizofrenici’, della vigente legislazione

elettorale, consistenti nella considerazione secondo cui, per effetto del premio di

maggioranza, il nuovo sistema premierebbe una minoranza rendendola maggioranza

e per altro verso penalizzerebbe oltremodo i partiti che, ancorché coalizzati, non

riescono a superare lo sbarramento, l’appena richiamata analisi pare ben sciogliere

l’arcano, il paradosso, che per questo risulterebbe solo apparente.

Rimane, infine, da affrontare la distanza – si direbbe siderale – di una simile

riforma elettorale rispetto alla filosofia-ingegneria istituzionale posta a base del testo

di revisione costituzionale (poi respinto in sede referendaria). Quest’ultimo risultava

ispirato a una “nuova democrazia” fondata sulla (pressoché esclusiva) investitura

diretta dei governi, accompagnandosi con la volontà di attutire fortemente (fino quasi

a farli scomparire) meccanismi di equilibrio che i costituenti del ’48 avevano

assegnato al capo dello Stato ed alla Corte costituzionale; equilibri – questi ultimi –

che nel complesso hanno ben funzionato, nel loro ruolo di equilibratori del sistema

fondato comunque sulla rappresentanza parlamentare.

Il modello di governo prospettato nel testo di revisione costituzionale (respinto in

sede di referendum confermativo) si allontanava dal modello britannico per

avvicinarsi alla fallimentare esperienza israeliana. Non richiamava, infatti, il modello

britannico perché il Premier inglese non dispone del potere di scioglimento delle

Camere (e d’altra parte lo stesso può essere sostituito dalla sua maggioranza con altro

leader, come è puntualmente avvenuto nello avvicendamento fra la Thatcher e

Major); si avvicinava fortemente, invece, a quello israeliano, cioè ad un premierato

espressamente elettivo con potere di scioglimento, modello di cui peraltro Israele si

era presto disfatto per i suoi conclamati limiti d’instabilità politica di quella formula

di governo.

In altri termini, pareva volersi inseguire un modello di allontanamento

dell’investitura della maggioranza parlamentare a favore di una leadership solitaria,

cioè quella del capo del Governo, dominus, nella fase di formazione del Governo e

nella sua vita istituzionale, del potere di risolvere la crisi ogni volta che essa

insorgesse, ricorrendo alle risorse istituzionali/costituzionali piuttosto che a quelle,

più adeguate, di un dialogo stringente fra il Premier e la sua maggioranza

parlamentare. In breve, si ricorreva a una ‘scorciatoia’ costituzionale che era

assolutamente in squilibrio rispetto al mix di ‘pesi e contrappesi’ che sono necessari

in una democrazia parlamentare e perfino in una forma presidenziale, come ci hanno

insegnato gli stessi costituenti nord-americani.

ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013

38

5. Riflessioni a mo’ di conclusione

Come si può facilmente cogliere, la tesi che si è voluto argomentare fin qui risulta

perfino ispirata ad una sorta di provocazione se la rapportiamo agli eventi osservabili

nelle statistiche della partecipazione politico-partitica e agli stessi esiti elettorali delle

più recenti elezioni politiche.

Tali esiti sembrano sottolineare che i partiti politici di massa – per come osservano

attenti studiosi di politologia e di sociologia politica – avrebbero ormai concluso la

loro parabola storica, passando il testimone ad una nuova forma-partito.

Tale osservazione, così, si pone in contrapposizione con la tesi che si è voluto

argomentare, secondo la quale le peculiarità della forma di Stato e di governo in Italia

e più in generale nella democrazia contemporanea, almeno in quella europea

dell’ultima metà di secolo, risiedono nella sussidiarietà dei partiti politici nella

funzione di mediazione sociale e di rappresentanza politica e per questo nel loro

proporsi come i veri garanti della democrazia, mediante il potere di concorrere alla

formazione della politica nazionale da parte dei cittadini unitamente al Parlamento

che ne è il formale rappresentate, l’espressione istituzionale della sovranità nazionale.

I partiti, dunque, hanno costituito e costituiscono tutt’oggi, sia pure con modalità e

intensità diverse, l’asse portante della democrazia, potendosi/dovendosi assumere che

dopo di essi non resta spazio di mediazione/rappresentanza altro che per i demagoghi

e per le leadership populistiche/cesaristiche. In breve, lo scenario che fu già evocato

problematicamente da L. Elia di una deriva verso forme di presidenzialismo latino-

americane, certo non compatibili con l’appartenenza del Paese all’Unione europea.

Quando allora si parla di una crisi dei partiti occorre fare bene attenzione alle

manifestazioni di tale crisi. Un errore di prospettiva, infatti, potrebbe falsare

pericolosamente, per le scelte che si andassero ad adottare, il quadro di riferimento

delle garanzie democratiche e costituzionali. La crisi dei partiti è innanzitutto una

crisi che riguarda la concezione che essi hanno di sapere/potere esaurire, in modo

esclusivo, le composite, articolate e spesso conflittuali, aspettative del corpo sociale.

In termini politico-istituzionali tale convincimento si è tradotto fin qui e si traduce

ancora, giorno dopo giorno, in politiche legislative ispirate alla convinzione circa

l’esclusività del sistema dei partiti nella funzione rappresentativa, in una parola,

nell’affermazione di un potere di monopolio rappresentativo dei partiti.

Per non risalire troppo indietro nel tempo, si può rinvenire una conferma storica di

questo atteggiamento nelle difficoltà registrate dai partiti nei confronti della

contestazione giovanile, di quella studentesca ed operaia, alla fine degli anni ’60 (il

S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)

39

“68”), nei confronti della domanda di tutela ‘radicale’ dei diritti civili e politici

affermatasi nel corso degli anni ’70, in una parola in riferimento a tutte le

manifestazioni dei movimenti collettivi sorti nel Paese, nel corso degli anni, a difesa,

di volta in volta, di interessi (più o meno) diffusi o (più o meno) settoriali, e ciò a

prescindere dalle tradizionali aree di rappresentatività dei partiti storici.

La stabilità della democrazia, dunque, e il suo fondarsi in modo prevalente sui

partiti politici di massa, ha fatto sì che non trovassero immediato ed attento ascolto le

esigenze del cambiamento, le quali hanno dovuto essere canalizzate in movimenti

collettivi cui si deve una parte molto importante della modernizzazione della vita

politica (ed anche istituzionale) nel nostro Paese.

La manifestazione più importante del processo che si è fin qui evidenziato, consiste

così nella graduale svalorizzazione della funzione rappresentativa dei partiti a favore

di funzioni di mediazione (che sono proprie delle istanze parlamentari). Si tratta, in

una parola, del processo di istituzionalizzazione dei partiti politici come soggetti

materialiter costituzionali di indirizzo politico, della loro attrazione nell’orbita delle

istituzioni e dell’autorità statale.

Tale processo si può riassumere nei termini della prevalenza delle problematiche

rappresentative e della integrazione sociale su quelle (che sono più rilevanti ai fini

della modernità e della funzionalità dello Stato e della macchina amministrativa)

della decisione-opposizione, della capacità, in breve, di fornire risposte istituzionali

adeguate per velocità e contenuti alle problematiche poste da una società

profondamente articolata e in via di crescente modernizzazione nonché da un sistema

produttivo privato fortemente concorrenziale benché frenato da una economia

pubblica la cui direzione e i cui risultati sono risultati ampiamente condizionati, nel

passato risalente ma anche recente, dalle scelte di lottizzazione operate in sede di

nomina dei vertici burocratici e manageriali.

Le tematiche di questa vera e propria delegittimazione del sistema dei partiti si

coniugano, traendone motivi di conferma, con le difficoltà registrate nel dibattito

parlamentare ma soprattutto partitico a trovare un ragionevole punto di incontro delle

rispettive esigenze in proposte di riforme istituzionali capaci di ridare stabilità,

autorevolezza e funzionalità alle istituzioni costituzionali.

Ma prima ancora, e soprattutto, l’osservazione di fenomeni elettorali come

l’astensionismo, le leghe, le coalizioni referendarie, e più di recente le declinazioni

della cd web democracy nell’ambito di forme nuove di partecipazione politica

(partito-rete) sottolineano una evidente volontà del corpo elettorale di superamento

ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013

40

delle discriminanti ideologiche a favore di tematiche di riforma ispirate alla

vitalizzazione della politica come efficienza degli apparati statali incaricati di

elaborare le decisioni politiche e di quelli predisposti per attuarne i disposti.

È ciò che si vuole intendere quando, con terminologia certamente approssimativa,

si parla dell’obiettivo di garantire la ‘governabilità’ in modo strettamente connesso

alla rappresentanza/mediazione di bisogni/domande sociali.

Ed è appunto a questo livello che è in corso, durante gli ultimi anni una vera e

propria lotta contro il sistema dei partiti “conformato in corporazione proprietaria”,

come “casta”, cioè come classe dei professionisti della politica che osteggia o, nella

versione più edulcorata, risulta indifferente verso ogni proposta di riforma che ne

metta in questione l’esistenza, la legittimità e la qualità rappresentativa.

A questa corporazione castale va contrapponendosi attualmente, più che un

movimento collettivo dai contorni ben chiari, un movimento di modernizzazione

molto composito, ma anche molto contraddittorio.

“Il fallimento di un governo sostenuto dal PD-PdL ci consegnerà nella successiva

tornata elettorale la totalità dei seggi alla Camera e al Senato”. In modo più o meno

preciso tali parole hanno di recente costituito oggetto di ricorrenti dichiarazioni

politiche del leader del Movimento 5 Stelle, Grillo.

Senza necessità di farne approfondite analisi, non può non sottolinearsi come un

simile obiettivo risulti confliggente con i principi costituzionali del pluralismo

(politico, ideologico e istituzionale). Peraltro, a ben riflettere, una simile politica –

fondata sulla pretesa di mono-rappresentatività politica – non fu perseguita

strategicamente dagli stessi totalitarismi e dai relativi leaders negli anni ’30 del

secolo scorso. Naturalmente, con tale affermazione, non vogliamo nemmeno

ipotizzare che le finalità dei nuovi movimenti politici che hanno goduto di così ampio

consenso elettorale fossero comparabili sia pure latamente a simili infauste

esperienze storiche. Ma se è così perché utilizzare terminologie e strategie tanto

incongrue (irragionevoli politicamente e insostenibili costituzionalmente) da parte dei

leader di tali movimenti? La domanda, che è pienamente legittima, non sembra poter

avere una risposta, salvo a prendere atto che il Partito/Movimento ha voluto

espressamente limitarsi a rappresentare socialmente un movimento di critica della

politica istituzionalizzata e dei partiti, senza che a tale rappresentazione

corrispondesse un’assunzione di responsabilità politica nei confronti dei propri

elettori.

Insomma, un modello di rappresentazione senza rappresentanza, un modello di

rottura fra le funzioni di mediazione e quelle di rappresentanza politica; nel fondo, un

S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)

41

modello fondato sulla rottura con i principi bisecolari della democrazia di tipo

rappresentativo a favore di indeterminate prospettive di democrazia diretta o semi-

diretta dei cittadini! Anche qui un caveat non risulta inutile.

Che la democrazia rappresentativa costituisca una “finzione rappresentativa” non

lo afferma qualche sconosciuto teorico radicale alla ricerca di qualche spazio di

notorietà ma lo stesso teorico per eccellenza della teoria pura del diritto, Hans Kelsen.

Pertanto, se di finzione rappresentativa deve parlarsi come punto di partenza

dell’analisi della democrazia contemporanea come di quella liberal-democratica

originaria, non si nega che vi sia (e vi debba essere) spazio per la ri-qualificazione

della politica e per forme di organizzazione costituzionale dello Stato idonee a

comporre democraticamente e razionalmente i bisogni e la loro soddisfazione

secondo meccanismi che impediscano il ricorso alla violenza e che per questo si

fondino sul solo principio che può dare legittimità alle decisioni parlamentari, il

principio di maggioranza.

Non va parimenti dimenticato che quando si è voluto imprimere una critica alla

teoria rappresentativa, a partire dalla rivoluzione bolscevica del 1917, da quella

fascista del 1922, da quella nazista del 1933-34 … la direzione obbligata è stata

quella verso il Partito-Stato, con tutto ciò che storicamente ha significato la

distruzione di ogni distinzione fra società e Stato a favore di forme di integrazione

organica di tipo autoritario della prima nel secondo, esso stesso ridefinito attraverso

l’identificazione fra leader del Partito unico e Stato. In breve l’apoteosi del

fuhrerprinzip!

Ma vi è un’altra spiegazione della crisi dei partiti che fa perno sulla loro

ossificazione politica come effetto indotto dalla mancata pratica di un’alternanza al

Governo nel corso del cinquantennio di esperienza repubblicana lasciata alle spalle e

come mancata pratica della democrazia al loro interno, almeno a seguito

dell’evoluzione del costituzionalismo contemporaneo post-1989.

La scarsa permeabilità dei partiti alle nuove domande sociali è a sua volta

profondamente condizionata dalle loro diverse modalità organizzative oltre che dalle

modalità e dai limiti conosciuti nelle forme di competizione esistenti nel sistema

partitico.

Tale osservazione merita tuttavia un chiarimento, che potrà risultare utile nella

stessa riflessione sulle proposte di riforma istituzionali-costituzionali in discussione.

Il generale convincimento sulla esistenza di un patto costituzionale sotteso alla

Costituzione, stipulato alle origini della Repubblica democratica dai maggiori partiti

ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013

42

politici e fondato sui valori di riferimento centrali della realtà sociale italiana (cultura

marxista, cattolica e laica) deve spingere alla conclusione che, così come la

Costituzione si fondò su un accordo, la sua eventuale modifica non può che fondarsi

su una ristipulazione di quel patto ad opera degli attori e dei soggetti politici operanti

e riconosciuti nella vita politica del Paese, ancorché aggiornato alla attualizzazione di

quei valori secondo gli orientamenti maggioritari della coscienza civile e politica del

paese.

Come corollario di questa osservazione, si può affermare con qualche

ragionevolezza che non si dà riforma istituzionale-costituzionale che non si fondi o

che non rispecchi gli interessi rappresentati dai partiti. Se mai qui sarebbe da operare

una selezione fra interessi tattici ed interessi strategici, ma non vi è dubbio che non si

possa (almeno utilmente) discutere di riforme istituzionali se non si accetta di

evidenziare e discutere degli interessi politici sottesi ad ogni proposta di riforma. La

discussione in corso nel Paese sulla opportunità di costituire una Convenzione

costituente affidata alla presidenza di un leader politico noto nel Paese per le capacità

rappresentative di tipo populistico ne costituisce una esemplificazione quanto mai

illuminante!

Assunta, come si diceva poc’anzi, una maggiore praticabilità (la stessa possibilità)

di riforme istituzionali-costituzionali attraverso la strada partitico-parlamentare – non

risultando se non in via eccezionale plausibili diverse ipotesi (come quella di una

Assemblea costituente) fondate su una grave crisi di delegittimazione del sistema

politico-costituzionale – il problema centrale che si pone e che tuttavia non risulta fin

qui adeguatamente affrontato è quello di sapere se esista un comune interesse o se sia

possibile prospettare una domanda rappresentativa forte e almeno tendenzialmente

unitaria da parte della coalizione di centro-sinistra nel suo complesso come pure da

parte dello schieramento di centro-destra (ed ora se si dia o meno un punto di

gravitazione accettabile all’interno dell’attuale maggioranza allargata che consenta di

individuare punti condivisi di riforma costituzionale, peraltro già convenuti negli anni

passati (c.d. manutenzione costituzionale), evitando di intraprendere un lacerante

percorso, inevitabilmente senza vie di uscita, che mirasse a riforme della forma di

governo fondate sulla legittimazione diretta del capo dello Stato o del Presidente del

Governo).

Il tema della riqualificazione della rappresentanza politica negli ordinamenti

costituzionali contemporanei, ed in particolare in quello italiano, così, presenta una

duplice valenza che investe, da un lato, la ridefinizione del sistema elettorale in senso

stretto, vale a dire i meccanismi di trasformazione dei voti in seggi (passaggio dal

sistema proporzionale a quello maggioritario) e, dall’altro, la c.d. ‘legislazione

S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)

43

elettorale di contorno’ (garanzie del procedimento di elezione, regolamentazione

delle campagne elettorali, ineleggibilità e incompatibilità) e più in generale il c.d.

“diritto dei partiti”, con una legge che non è ulteriormente rinviabile che disciplini

almeno i nodi più significativi costituiti dal finanziamento e dalla democrazia interna.

Tuttavia alla necessarietà politica di una simile legge non corrisponde culturalmente

una capacità del sistema politico-partitico in campo di coglierne l’urgenza, con

conseguenze fortemente problematiche sulla possibilità di recupero della

legittimazione politica da parte dei partiti, anche in ragione della critica diffusa nei

loro confronti.

5.1. La democrazia “nei” partiti: un tema da riprendere

In una pur breve riflessione conclusiva in tema di ‘democrazia nei partiti’, per le

ragioni generali già richiamate appare opportuno ricordare che l’approccio al tema

nella fase attuale non si colloca nell’ambito prevalente di quella risalente analisi per

la quale erano stati già avanzati rilievi critici da parte di autorevole dottrina.

L’esigenza di tutelare, anche per via legislativa, il cittadino nei confronti degli organi

interni dei partiti sarebbe caratterizzato, secondo un tale approccio, da un astratto

moralismo che trarrebbe linfa dal riferimento a una concezione statuale superata,

quella dello Stato nella sua caratterizzazione liberal-democratica. La questione risulta

di grande momento, essendo giunti ormai ad uno snodo fondamentale per la stessa

sopravvivenza dello ‘Stato dei partiti’ e delle stesse positive funzioni di

rappresentanza e di concorso alla politica nazionale, quella che i partiti hanno svolto

nella formazione della moderna realtà politica fondata sulla universalizzazione del

suffragio.

Ad ulteriore argomentazione si possono richiamare due elementi. Il primo è dato

dal processo critico attualmente in atto con diversa intensità nei partiti, e che ha già

portato ad importanti riassetti fra gli stessi ed anche, sia pure in casi limitati, a

riforme di statuto, volte a dare maggiore peso agli eletti e agli elettori rispetto

all’apparato di partito ed alla modifica di talune parti dei regolamenti dei gruppi

parlamentari alla Camera (è il caso del PD), nonché alla formulazione di regole

stringenti accolte nel Codice di comportamento di talune nuove forze politiche,

ancorché autoqualificate esplicitamente come ‘Non Statuto’(è il caso del Movimento

5 Stelle).

Il secondo elemento, più rilevante, consiste in quell’approccio che fa del self-

restraint, dell’autoregolamentazione, l’unico rimedio, legittimo ed auspicabile, contro

ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013

44

il prepotere dei partiti, esercitato, all’interno, verso i propri iscritti e, all’esterno, nei

confronti degli organi costituzionali. Benché questa opinione abbia costituito, nel

recente passato, dottrina pressoché maggioritaria, pare opportuno riconoscere come

tale proposta nel fondo lascia (più che) perplessi. Se è vero, infatti, che i partiti e le

relative burocrazie interne hanno consolidato situazioni di potere verso gli iscritti e

nei confronti degli organi costituzionali; se viene perfino giustificata teoricamente

tale loro posizione (privilegio dei partiti), non si comprenderebbe per quale ragione i

partiti dovrebbero muoversi verso una riforma degli statuti che ribaltasse tale loro

situazione di monopolio sostanziale. Anche questa proposta, dunque, sembrerebbe

affetta da quella scarsa efficacia operativa di cui sono caratterizzate le stesse proposte

di regolazione legislativa già a partire dalla fase immediatamente successiva

all’approvazione della Carta costituzionale.

Ciò detto, può essere utile richiamare, sia pure in termini essenziali, il quadro delle

proposte di regolazione legislativa avanzate negli anni più o meno recenti. Si tratta di

proposte disomogenee fra loro e per questo difficili da inquadrare in tipologie

coerenti. Esse concernono, in primo luogo, l’azione orizzontale dei partiti, problema

che, come si è detto, è di significativo rilievo anche giuridico da quando si è

affermata la potenza organizzativa dei partiti e, quindi, di una loro strutturazione

burocratico-oligarchica e, in secondo luogo, da quando si è consolidata la dinamica

partiti-Stato-governo.

Rispetto (soprattutto) al primo problema, che in campo gius-pubblicistico è emerso

nell’analisi dei controlli attuativi del ‘metodo democratico’, di cui all’art. 49 Cost.,

non si possono che fare degli accenni essenziali (di recente, si veda anche E. Cheli, S.

Passigli, Amato, in Astrid). Può essere più utile soffermarsi sulle proposte che

concernono i rapporti partiti-organi costituzionali dello Stato e su alcune di esse più

specificamente, anche se risalenti, come il progetto Mortati e quello Sturzo.

Nell’ambito di queste ultime, di recente, sono state avanzate limitate proposte che,

nel fondo, non toccano la tematica centrale dei controlli, limitandosi ad estendere le

previsioni normative, con le relative garanzie, dalla fase dell’espressione del voto a

quella pre-elettorale, che è pressoché totalmente nelle disponibilità decisionali degli

organi dirigenziali dei partiti (senza l’attivazione delle procedure democratiche

interne ai partiti). Viene, infatti, osservato come già in questo ambito siano decise, in

termini di designazione delle candidature alle cariche elettive, le scelte sui

rappresentanti nelle assemblee rappresentative, non residuando all’elettore altra

libertà che quella di orientare il proprio voto su di esse, ovvero di non esercitare il

voto.

Altra materia su cui è stato avviato un ripensamento, in sede dottrinaria ma anche

S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)

45

di politica legislativa, è quella della legislazione sul finanziamento pubblico, che

cionondimeno (prima delle recenti dichiarazioni del Presidente del Consiglio, nel suo

programma alle Camere nel quale si fa espresso riferimento alla sua abrogazione) ha

portato a un (più che) raddoppio del contributo economico dello Stato ai partiti. Una

revisione della legge nei suoi criteri orientatori e nelle modalità di erogazione dei

fondi pubblici, ma soprattutto un richiamo all’esperienza legislativa di alcuni

ordinamenti costituzionali e legislativi europei in materia di legislazione di sostegno

alla partecipazione politica generalizzata dei cittadini (ma soprattutto dei giovani e

delle donne), unitamente ad una diversa legislazione in materia di accesso

(soprattutto) al mezzo radiotelevisivo (libertà d’accesso, libertà d’antenna, accesso

gratuito agli spazi pubblici, par condicio) – che si potrebbe sinteticamente definire

legislazione di finanziamento indiretto della partecipazione politica – concluderà la

presentazione del quadro delle proposte.

Sul primo versante, le proposte de jure condendo riguardano fondamentalmente la

pretesa del cittadino all’iscrizione ai partiti, stante la vigente sostanziale chiusura del

loro sistema. Una eventuale disciplina legislativa dovrebbe riguardare, in tal senso,

qualche forma di “obbligatoria pubblicità delle iscrizioni”, con la previsione di

disposizioni semplici e chiare per la domanda di iscrizione, la pubblicità del nome

degli iscritti per singola sezione e soprattutto l’enunciazione del “criterio

discriminante”, con la precisazione, nello statuto, dei requisiti politici e morali

necessari per l’iscrizione.

Una simile normativa potrebbe sortire benefici effetti, oltre che nella garanzia del

diritto di iscrizione dei richiedenti, nella stessa immagine del partito, alle cui

segreterie nazionali e locali verrebbe, in tal modo, posto un freno negli abusi

amministrativi, consistenti nelle (ricorrenti) manipolazioni delle iscrizioni.

Una variante di questa proposta ritiene necessaria una più adeguata riflessione che

non si fermi alla mera tutela della domanda di ammissione al partito ma che, in

ragione della configurazione attuale della rappresentanza politica, miri a riconoscere

una sostanziale equiparazione dell’elettore all’iscritto e a garantire all’elettore una più

adeguata capacità di incisione nell’elaborazione del programma politico del partito e

nella selezione della sua classe dirigente. Le proposte in tal senso a che, a livello

nazionale come a quello regionale-locale, l’elettorato possa partecipare alla gestione

del potere esercitato dai partiti, in modo tale che la stessa sia in tal modo condizionata

non dai soli iscritti ma anche dai simpatizzanti (e più in generale dallo elettorato),

sono un terreno di riflessione dei partiti negli ultimi anni, trovando proposte e

attuazione diverse da partito a partito (ma nel complesso senza pervenire a soluzioni

ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013

46

significative).

Un altro campo in cui, come si è già osservato, da tempo si è esercitata, su fronti

contrapposti, la dottrina giuridica è quello della legislazione di finanziamento

pubblico dei partiti, legittimata come sostegno delle funzioni cui gli stessi assolvono

nell’ordinamento giuridico-costituzionale e in quello sociale (di recente, C. Pinelli, in

Astrid). Sono note a tutti le vicende della legge n. 195/1974 e delle sue integrazioni,

varata a grande maggioranza e in breve tempo. Rispetto ad un tale quadro, che merita

tuttavia ricerche specifiche sui singoli partiti, sono state avanzate almeno quattro

ipotesi di riforma della normativa sul finanziamento pubblico, che dovrebbero

riguardare: a) il settore dei divieti, b) la trasparenza della situazione del partito ed

un’anagrafe tributaria politica degli eletti a cariche pubbliche, c) controlli sulla

veridicità delle situazioni dichiarate, d) più adeguate sanzioni. Sul punto, in ogni

caso, è dato ipotizzare (per come già sottolineato) un (imminente?) mutamento

dell’indirizzo legislativo, salvo a registrarne ripensamenti dell’ultimo momento.

Vi è, infine, tutta un’altra tipologia variegata di proposte, difficilmente analizzabile

in questa sede. Alcune di esse mirano ad esercitare un controllo sulle modalità di

svolgimento delle campagne elettorali, vietando le espressioni più dispendiose, altre

ad introdurre, in sostituzione di un finanziamento diretto dei partiti, uno di tipo

indiretto (affissioni, spazi, strutture audiovisive, ecc.), i cui destinatari non sono

soltanto i candidati alle elezioni ma tutti coloro che “fanno politica”, in modo anche

minimamente organizzato.

Né si possono trascurare, in questa rapida rassegna, quelle proposte legislative che

mirano alla limitazione del prepotere dei partiti, avendo come oggetto specifico

l’eliminazione della corruzione, del malcostume politico e più di recente la

limitazione dei costi (obiettivamente eccessivi) della politica e delle stesse istituzioni

pubbliche. Ciò che viene talora anche riassunto nel termine trasparenza.

Un’ultima serie di proposte, che riguardano i rapporti interni al partito ma

concernono, altresì, una delle funzioni dello stesso – che si colloca, secondo alcuni, in

un processo strettamente connesso con la funzione pubblica esercitata nelle procedure

elettorali di espressione del voto, per altri, in una fase direttamente previa al voto ma

in ciò condizionata nettamente dall’attività e, quindi, dagli organi dirigenti dei partiti

– concerne la titolarità e le procedure di designazione dei candidati per le liste

elettorali. Per alcuni tali proposte si spingono fino a configurare come auspicabile e/o

necessario (espressione della libertà di associazione politica) un sistema di

designazione dei candidati alle cariche pubbliche affidato direttamente al corpo

elettorale, attraverso procedimenti elettivi regolati legislativamente. La logica cui si

ispira quest’ultimo sistema, c.d. delle “primarie” – che può dunque riguardare tutto

S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)

47

l’elettorato (sistema delle primarie aperte) o il solo elettorato del partito (sistema

delle primarie chiuse) previa dichiarazione di appartenenza – è quella di garantire,

ben più di quanto possa avvenire con la mera espressione elettorale del voto al

partito, una scelta diretta del cittadino-elettore, in una delle fasi che è fra le più

importanti dell’intera procedura, quella cioè della designazione dei candidati che, se

raggiungono il consenso previsto, saranno parte attiva nella determinazione delle

scelte di politica nazionale, nelle competenti sedi legislative e di governo.

Alcune osservazioni che si possono avanzare su queste proposte, peraltro di

difficile (benché non impossibile) applicazione nel sistema elettorale vigente,

spingono a ritenere che in via teorica tale sistema appare offrire una più adeguata

espressione della libertà di associazione politica ai sensi dell’art. 49 Cost. Ma si tratta

probabilmente di una libertà solo formale, stante la forza consolidata dei partiti, che

può trasferire a questo livello la pressione del proprio apparato organizzativo (ed il

residuo vincolo più prettamente ideologico di cui i partiti possono eventualmente

ancora disporre).

In uno scenario politico-istituzionale (che è stato prevalentemente maggioritario

per più di un decennio, nella vigenza delle leggi elettorali per la Camera e per il

Senato, nn. 276 e 277, del 1993, cd. legge Mattarella e successivamente

sostanzialmente maggioritario, pur formalmente proporzionale secondo la legge

Calderoli), peraltro, tali ultimi profili hanno concorso a tal punto a qualificare il

sistema della rappresentanza politica da far assumere che una scarsa considerazione

di una siffatta analisi avrebbe di certo prodotto una riduzione degli stessi standard di

efficienza rappresentativa. In tale quadro di riferimento assume rilievo la proposta di

introdurre il sistema delle elezioni primarie per la designazione delle candidature

all’interno dei partiti e nell’ambito degli schieramenti elettorali al fine di assicurare il

‘concorso’ dei cittadini alla potestà di iniziativa nella funzione elettorale

“monopolizzata” finora dai partiti politici. Considerato che le due riforme elettorali

più recenti hanno originato nel sistema partitico una tendenza quantomeno verso un

sistema bipolare di tipo coalizionale, l’introduzione di un meccanismo di elezioni

primarie dovrebbe prevedere un circuito di selezione dei candidati alquanto

articolato. Più precisamente, tale meccanismo dovrebbe fondarsi su un complesso di

regole e di garanzie che assicuri trasparenza e un alto livello partecipativo, di

rappresentatività e, nel contempo, limiti il potere di decisione dei partiti maggiori

della coalizione, e al contempo accresca le possibilità di vittoria della coalizione nella

competizione elettorale.

Mentre negli Stati Uniti, le primarie, sebbene aperte, rimangono primarie di partito,

ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013

48

in Italia, al contrario, si andrebbero a configurare come primarie di schieramento con

tutti i problemi, non solo tecnici, ma politici, dell’organizzazione di ‘primarie non per

un partito’ ma ‘per una coalizione’ che presenta al suo interno uno o più partiti

politicamente e numericamente predominanti. Per tali ragioni, appare opportuno

indirizzarsi verso un sistema di primarie ‘aperte’ anche a soggetti appartenenti a

gruppi, movimenti, sindacati e associazioni di riferimento. Un sistema massimamente

partecipativo, tale da garantire il protagonismo propositivo ed estimativo di tutte le

organizzazioni partitiche che compongono la coalizione, siano ad essa legati da un

vincolo di affinità politico-programmatica e siano, comunque, portatori di interessi

comuni da rappresentare.

Rispetto al modello delle primarie chiuse, vale a dire riservate ai soli iscritti, il

sistema delle primarie aperte, impone, tuttavia, una più articolata regolazione, magari

attraverso una definizione normativa dei principi di carattere generale e la riserva

all’autonomia di ciascun schieramento, sulla base di un accordo tra le parti della

coalizione, della puntuale disciplina elettorale.

Nello stesso tempo, vi è la necessità di assicurare la massima regolarità del voto

attraverso l’individuazione di meccanismi garanti della partecipazione dell’elettore

alle primarie di un solo partito o di una sola coalizione. Non ritenendosi esportabile il

metodo dell’autoregistrazione, utilizzato negli Stati Uniti, per il vantaggio rilevante

che ne deriverebbe per i meglio organizzati apparati partitici, la soluzione potrebbe

essere quella di rilasciare a ciascun elettore una sorta di pre-certificato elettorale

utilizzabile per una sola primaria.

Per quanto riguarda l’individuazione dei candidati è indispensabile che alle

primarie partecipino solo candidati che condividano un comune indirizzo politico-

programmatico e che siano legati da un accordo implicito che impegni gli sconfitti a

non candidarsi alle elezioni effettive e a sostenere, comunque, il candidato vincente e

la coalizione (patto di desistenza).

Se, come suggerisce la più recente tendenza alla formazione di schieramenti

coalizionali contrapposti, è preferibile indirizzarsi verso primarie aperte, il problema

più complesso appare, tuttavia, quello di definire modalità di votazione che

garantiscano tutte le componenti della coalizione e riducano l’influenza dei gruppi

più forti e organizzati, escludendo, pur nel quadro di semplici ma sicuri principi di

fondo, rigide standardizzazioni nella disciplina delle tecniche elettorali, che invece

vanno opportunamente differenziate a seconda del tipo di competizione.

Nella disciplina concreta, il problema più rilevante da affrontare è quello di

rinvenire meccanismi e regole adeguati che limitino il potere condizionante dei

S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)

49

gruppi più numerosi, organizzati e fortemente strutturati lasciando spazio, nei

processi di designazione, a candidature espresse da gruppi non organizzati, ma

altamente rappresentativi e che accrescano le reali possibilità di vittoria della

coalizione, che rimane il principale obiettivo delle elezioni primarie.

Infine, va evidenziata la necessità di limitare il circuito delle primarie ai casi

esaminati (elezioni politiche, designazione dei vertici degli esecutivi locali, regionali

e nazionale, liste rigide) escludendolo invece per gli altri livelli di elezione al fine di

evitare un eccesso di personalizzazione della politica e la riproposizione all’interno

dei partiti o delle coalizioni della pratica degli accordi o delle ‘cordate’ che aveva

così negativamente caratterizzato il sistema delle preferenze multiple nelle

competizioni elettorali.

A mo’ di indicazione conclusiva sul punto specifico, si può osservare che la

risposta al problema sollevato in dottrina e nell’opinione pubblica – che, come si è

detto, è un problema nodale della democrazia italiana di questi anni – non può

esaurirsi nell’avanzare qualche limitato adattamento legislativo.

E stato osservato come l’approccio più corretto poteva solo consistere nel

presentare il quadro delle problematiche concernenti la rappresentanza politica

(peraltro in modo essenziale) e le forme attuali verso cui essa sembra evolvere e

nell’offrire una rilettura del sistema costituzionale di democrazia delineata dai

costituenti, che non deve tuttavia far pensare ad una (kelseniana) equazione circa la

sua vigenza. E in questa luce che l’analisi ha voluto: da una parte, offrire un riesame

critico della prevalente riflessione dottrinaria circa la legittimità di una pretesa

all’esclusività nella rappresentanza da parte dei partiti politici; dall’altra, fornire

elementi di riflessione sulle proposte di regolazione legislativa, a favore di una più

attenta considerazione di una prospettiva di politica legislativa che, nel modificare, in

modo indiretto, l’attuale situazione di monopolio e di prepotere dei partiti e in

particolare di quelli di governo, sia in grado, da un versante, di rimettere in moto la

regola dell’alternanza al governo e, dall’altro, di ridare senso e garanzia alla legittima

domanda del cittadino di concorrere al processo di formazione delle scelte politiche

nazionali.

La mancata soluzione di questi nodi, come prevedono attenti studiosi della forma

di governo italiana, rischia di condurre (con premesse che appaiono ormai divenute

prassi dopo le recenti elezioni) verso la prospettiva di uno Stato post-partitico in cui,

specularmente all’ideologia proclamata di un ‘governo dal basso’, con caratteri

plebiscitari, si affermano strutture di governo improntate al mero decisionismo e alla

ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013

50

personalizzazione esasperata nella legittimazione democratica. Tali tendenze

rischiano, se definitivamente consolidate, di rendere obsolescente l’intera forma di

Stato democratico e il sistema delle decisioni e delle responsabilità in esso previste.

5.2. Modelli europei di legislazione elettorale e prospettive (incerte) sulla riforma

elettorale in Italia.

Il clima di transizione in cui, da più di un trentennio, versa il sistema politico del

Paese, e nel quale sono stati sperimentati reiterati (e vani) tentativi di riforma

costituzionale volti a realizzare la strategia istituzionale del sostegno alle finalità

partecipative e a quella della garanzia della stabilità governativa, sollecita, da ultimo,

una riflessione sul dibattito in corso in tema di riforme elettorali. In un quadro di

riferimento che auspica (e che assume comunque come determinante) un raccordo

con la riforma costituzionale della forma di governo, queste ultime assumono, così,

una loro non superata centralità nella discussione politica e istituzionale del Paese.

Prima di andare oltre nell’analisi, così, e diversamente da quanto si assumeva nei

primi anni ’90, si sottolinea che un processo di riforma deve strettamente integrare

l’autoriforma dei partiti politici, la riforma elettorale e la riforma costituzionale (sia

nel senso di un’ispirazione al principio monocratico del governo, sia nella direzione

di una riduzione del numero dei parlamentari e dello stesso superamento dell’attuale

bicameralismo).

Entrando ora (sia pure brevemente) nel merito della riflessione sul tema, si può

sottolineare, in via preliminare, che le soluzioni astrattamente ipotizzabili in tema di

riforma elettorale possono essere variegate, ancorché “specializzate” in base

all’angolo di osservazione più adeguato costituito dalle preferenze che si possono

esprimere, in via generale, a favore dell’una o dell’altra articolazione interna dei vari

sistemi elettorali astrattamente adottabili. Molte, così, sarebbero le soluzioni

ipotizzabili come maggiormente adeguate a dare soluzione alle più significative

problematiche di rappresentanza e di governo presenti nel contingente quadro

politico.

Le problematiche politiche insite nella riforma di una legge elettorale, in ogni caso,

portano ad osservare che le riforme che potranno/potrebbero concretamente

affermarsi sono quelle soltanto che maggiormente rispondono agli interessi

(partigiani) delle forze parlamentari che saranno chiamate alla relativa approvazione

parlamentare e che rispondono a una valutazione di merito relativamente alle

performance positive (o meno) del tipo di bipolarismo conosciuto nel Paese a seguito

delle riforme elettorali dei primi anni ’90. In questa fase lo scenario è ulteriormente

S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)

51

complicato dalla continuità/discontinuità di interesse politico delle due maggiori

forze politiche attualmente partners della maggioranza governativa.

Come ipotesi di lavoro, in ogni caso, può dubitarsi che le prevalenti modellistiche

invocate possano avere un seguito parlamentare, atteso che le stesse (soprattutto nella

modulazione accolta all’interno della c.d. Bozza Vassallo-Ceccanti) non rispondono

in modo omologo agli interessi partigiani dei due maggiori partiti del quadro politico

attuale (il Partito Democratico, appunto, e il Partito del Popolo delle libertà).

Le formule elettorali maggiormente richiamate (e discusse) nel recente dibattito

politico e in quello dottrinario sono date, da una parte, da quella accolta nel sistema

elettorale tedesco e, dall’altra, da quella accolta dal legislatore elettorale spagnolo.

Se, al contrario, la riflessione seguisse il criterio sistemico, costituito

dall’integrazione fra legge elettorale, stabilità del governo e garanzia della

rappresentanza, occorrerebbe sottolineare come, fra tutti i sistemi elettorali in campo,

quello più prossimo a farsi carico dell’insieme degli obiettivi politico-istituzionali

richiamati sarebbe il sistema elettorale francese. Tale sistema parrebbe costituire il

logico e coerente sviluppo della legislazione elettorale (prevalentemente

maggioritaria) dei primi anni ’90 (vigente fino all’adozione della legge n. 270 del

2005; c.d. legge Calderoli).

Tuttavia, tale analisi non ha incontrato fin qui il consenso delle forze di centro-

destra delle precedenti maggioranze parlamentari, costituendo tale sistema elettorale,

da più di un decennio, l’opzione istituzionale accolta nei programmi politici dei DS,

almeno prima che questo partito (fondasse e) confluisse nel Partito Democratico. Gli

orientamenti che precedono, in ogni caso, esprimono una mera valutazione tecnica, di

coerenza politico-istituzionale, e non certo una preferenza personale nei riguardi del

sistema elettorale d’oltr’alpe, limitandosi a sottolineare come esso costituisca la

formula maggiormente coerente all’esito referendario dei primi anni ’90 (che andava

rispettata, al momento di progettare un nuovo sistema elettorale) e soprattutto al

sistema elettorale adottato a valle di tale pronunciamento referendario (c.d. legge

Mattarella).

Nel considerare gli effetti di tale sistema elettorale sul sistema politico francese –

ormai stabili da più di un quarantennio – così, non può non prendersi atto come, sotto

lo stesso profilo della rappresentanza parlamentare, tale sistema abbia consentito

un’efficace garanzia della stabilità e della governabilità attraverso la presenza

parlamentare, a supporto del Governo, e la stessa articolazione si è registrata nella

ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013

52

opposizione parlamentare, di almeno due forze politiche (la c.d. “quadriglia

bipolare”).

Nel merito dell’operatività di tale forma di governo, tuttavia, deve sottolinearsi

come la stessa non può essere colta validamente qualora analizzata in modo disgiunto

dalle caratteristiche istituzionali-costituzionali della forma di governo accolta nella

Quinta Repubblica francese (parlamentare razionalizzata con esecutivo diarchico), a

sua volta strettamente connessa, nella costituzione materiale di quel Paese, al

presidenzialismo maggioritario e a tutto ciò che lo connota istituzionalmente:

Esecutivo duale, ma gerarchizzato da un’indiscussa supremazia presidenziale,

dominio dell’esecutivo sulla maggioranza parlamentare, sistema partitico a logica

quadripolare e a formato limitato.

È per tale idoneità a conformare un bipolarismo articolato al suo interno e

accompagnato da una previa conoscibilità da parte dell’elettore che si è assunto come

tale sistema possa utilmente offrire i suoi servigi allo stesso frammentato quadro

politico del Paese.

Passiamo ora, sia pure brevemente, a qualche riflessione essenziale sui sistemi

richiamati nel dibattito in corso, a partire da sistema elettorale tedesco e a seguire da

quello spagnolo, per trarne, in conclusione, qualche prospettazione de jure condendo.

Il sistema elettorale tedesco – proporzionale personalizzato, corretto dalla clausola

di sbarramento – si presenta come un sistema misto e si caratterizza, in particolare,

per l’attribuzione all’elettore di due voti.

Tale sistema, come è noto, opera nel quadro di una forma di governo stabile ed

efficace, nella quale un ruolo di snodo è svolto indubbiamente dalla previsione

costituzionale della sfiducia costruttiva (peraltro operante nella stessa forma di

governo spagnolo, di cui si dirà in seguito) e dalla primazia del Cancelliere federale

rispetto ai ministri; una primazia – quest’ultima – che si accompagna con il potere

riconosciuto a tale organo di dettare “direttive” vincolanti nei confronti dei diversi

ministri che compongono l’Esecutivo.

Con il primo voto (Erststimme) l’elettore vota, a scrutinio uninominale (e a

maggioranza relativa dei voti espressi), per l’elezione del 50% dei deputati del

Bundestag in altrettante circoscrizioni elettorali. Pertanto, con tale voto, da parte

dell’elettore, si procede ad esprimere la propria preferenza per il candidato di uno dei

partiti presenti nel collegio uninominale, risultando eletto quel candidato che abbia

ottenuto la maggioranza relativa dei voti nel collegio stesso. Con il secondo voto

(Zweistimme), l’elettore vota la seconda metà dei componenti il Bundestag, con

sistema proporzionale, in base allo scrutinio di lista, secondo i voti riportati nei

S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)

53

Laender dalle liste dei singoli partiti. Si tratta di un sistema volto a dare

rappresentanza parlamentare a maggioranze già costituite, senza operare forzature

sulla base di premi elettorali, tranne quelle della preclusione delle forze politiche che

non raggiungano il 5% dei voti.

Il riparto dei seggi avviene, mediante l’applicazione del metodo d’Hondt, fra le

diverse liste di partiti in competizione, in proporzione ai voti riportati dalle singole

forze politiche a livello nazionale, che abbiano superato il 5% dei secondi voti in tutto

il territorio della Federazione (ovvero che siano riusciti a conseguire almeno tre

mandati diretti). Il riparto dei seggi fra i vari partiti avviene in una prima fase a livello

statale ed in una seconda a livello dei singoli Laender. È stato bene osservato, sul

punto, che l’originalità di tale sistema elettorale risiede appunto nel suo saper

coniugare “i vantaggi e gli svantaggi dei due sistemi elettorali di base (il

maggioritario e il proporzionale)”.

Qualche ulteriore dato di funzionamento risulta utile ai fini di una migliore

comprensione del funzionamento di tale sistema elettorale. In via generale, esso opera

all’interno di un’architettura politico-partitica di tipo centripeta, favorita dalla

previsione costituzionale di esclusione dalla partecipazione politica di quelle forze

politiche i cui statuti non assicurino la relativa conformazione ai principi liberal-

democratici posti a base dell’ordinamento costituzionale (art. 21 Legge Fondamentale

di Bonn).

Se si fa eccezione per i partiti che non superano lo sbarramento del 5% (ovvero

che, qualora ottengano meno del 5%, abbiano vinto almeno in 3 collegi uninominali),

pertanto, tale sistema elettorale opera come un sistema proporzionale puro. In questa

cornice, in Germania, si registra una evidente sovra-rappresentazione dei due

principali partiti (CDU/CSU e SPD).

Un dettaglio non secondario nel funzionamento di tale sistema elettorale, come si è

già osservato, pertanto, è quello che porta ad osservare che l’elettore esprime, sulla

stessa scheda, due voti: uno per l’elezione dei parlamentari nei collegi uninominali

maggioritari e uno sulla lista bloccata. La questione centrale, tuttavia, è data dalla

considerazione secondo cui, con il secondo voto, l’elettore può incidere anche sui

risultati del primo voto espresso. Sul punto, è stato osservato che “… il voto

proporzionale determina ‘quanti’ sono gli eletti (compresi quelli dei collegi

uninominali) per cui non sono due voti alla pari, non si tratta di due pezzi non

comunicanti del sistema. È un ‘proporzionale personalizzato’, dove il secondo decide

tutto (proporzionale) e il primo (personalizzato) serve in sostanza a individuare

ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013

54

‘quali’ sono gli eletti dentro la lista votata. Quindi, col voto di lista si determina

‘quanti’ sono eletti; col voto nei collegi ‘quali’ vengono eletti nell’ambito del partito

votato col voto di lista”.

È inoltre da sottolineare come parte qualificante di tale sistema la previsione dei

regolamenti parlamentari volta a vietare la creazione di gruppi parlamentari che non

corrispondano a forze politiche che si sono presentate alle elezioni. Una previsione –

quest’ultima – che dovrebbe essere prevista nelle riforme in discussione nel Paese,

qualunque sia il modello che alla fine prevarrà.

Diversamente da quanto si prevede in una delle bozze di riforma elettorale

maggiormente dibattute (la cd “bozza Vassallo”, predisposta per la discussione

interna al Partito democratico, laddove si prevede l’espressione unica del voto da

parte dell’elettore), dunque, uno dei profili maggiormente caratterizzanti il sistema

elettorale tedesco è appunto il sistema doppio di voto riconosciuto all’elettore,

mediante il cui esercizio si procede da parte dell’elettore al voto per il singolo

candidato e, al contempo, per il partito. A ben cogliere, la composizione del

Parlamento dipenderà in gran parte dal risultato delle elezioni nella componente

proporzionale del voto espresso.

Se appare di tutta evidenza la scarsa idoneità sistemica di una simile formula

elettorale a sostenere la strategia politica del bipolarismo, possono comprendersi le

ragioni di alcune forze politiche (e le connesse perplessità di altre) che hanno portato

ad accogliere come strumento di lavoro la “bozza Vassallo”, la quale si caratterizza

per il suo ispirarsi al sistema elettorale tedesco del 1949 (prima cioè che, nel 1953,

fosse introdotto nella scheda elettorale l’attuale doppio voto).

La strategia istituzionale alla base di tale bozza, modificativa in modo significativo

della formula elettorale tedesca, s’ispira espressamente alla finalità di “preservare la

dinamica bipolare” del sistema politico del Paese; un bipolarismo del quale, tuttavia,

occorre sottolineare come, per molti versi, sia risultato, fin qui, artificioso e

inadeguato quanto alla capacità di limitare la frammentazione partitica (successiva al

voto) e alla capacità di assicurare la coesione interna alle forze politiche delle

maggioranze di governo. Un bipolarismo, che si è accompagnato con fenomeni

assolutamente negativi nella dinamica democratica interna ai partiti (– nel senso cioè

che spesso, e per talune forze politiche quasi sempre, il vincolo costituzionale del

“metodo democratico” interno ai partiti è risultato assente sia negli statuti che nella

prassi della vita interna dei partiti –), e che ha trovato la sua logica (e non contrastata)

soluzione nell’adozione della lista bloccata dalla vigente legge elettorale (l. n.

270/2005), voluta per strategie poco adamantine dalla maggioranza di centro-destra

del tempo e non avversate in modo convincente dall’opposizione del centro-sinistra

S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)

55

del tempo (naturalmente, per omologhi interessi partigiani, sia pure di diversa

direzione).

Con l’adozione del voto unico per il collegio uninominale (e dunque per l’elezione

della metà dei parlamentari) e per il voto di lista, come è stato sottolineato, così, si

vanifica una delle ragioni di maggiori criticità nei confronti della legge elettorale

vigente, quella delle c.d. liste bloccate. La libertà di scelta dell’elettore, pertanto, ne

risulta fortemente compromessa2.

Al fine di una partecipazione anche da parte dei partiti più piccoli alla

redistribuzione dei seggi della quota proporzionale, inoltre, secondo tale ipotesi di

riforma, si prevede che ogni forza politica debba presentarsi con propri candidati nei

collegi uninominali. Una partecipazione, quest’ultima, che si presterebbe a

valutazioni molto problematiche.

Un secondo prevalente modello di riferimento presente nel dibattito elettorale

riguarda il sistema elettorale spagnolo. Pensato per conseguire un grado elevato di

bipartitismo e una buona rappresentanza dei partiti regionali e allo scopo di

disincentivare la presenza nelle Cortes dei partiti minori nazionali, tale esperienza fa

egualmente ricorso al sistema elettorale proporzionale ma operante in collegi di

piccola dimensione, con la conseguenza di produrre effetti selettivi molto efficaci di

tipo maggioritario.

Mediante una simile opzione, nelle elezioni parlamentari come anche in quelle

autonomiche, in Spagna, infatti, si è determinato una tendenza dei trend elettorali di

tipo (fattualmente) maggioritario, con una evidente sovra-rappresentazione dei due

maggiori partiti (PSOE e PP)3.

2 Come sottolinea O. Massari (“Osservazioni rapide sulla Bozza Vassallo”, in Seminario Astrid sui sistemi elettorali

tedesco e spagnolo, del 20/11/2007), “Il punto più debole, a mio avviso, è il voto unico per il collegio uninominale e il

voto di lista. Questo vanifica il primo obiettivo. L’elettore non ha la libertà di scelta, essendo costretto a scegliere in

blocco tanto il candidato (la persona) nel collegio uninominale quanto la lista bloccata. La libertà di scelta si ha, al

contrario, se il voto alla persona è disgiunto dal voto alla lista. E’ questo il pregio del sistema tedesco. Il voto unico

vanifica questo pregio, che è anche un vantaggio per l’elettore e i partiti. Il doppio voto sulla scheda, infatti, favorisce,

come accade puntualmente nelle elezioni tedesche, il voto strategico (ossia, attraverso un’azione di coordinamento i due

grandi partiti – o anche autonomamente gli elettorati fedeli – dirottano parte del loro voto sul loro più piccolo alleato,

con il quale c’è stato un accordo pre-elettorale; i socialdemocratici verso i verdi nel voto di lista proporzionale, e i

cristiano-democratici verso i liberali; viceversa i due grandi partiti ricevono più voti nei collegi uninominali, perché i

due piccoli partiti alleati riversano parte del loro voto verso i grandi). E’ un meccanismo virtuoso che garantisce tanto la

libertà dell’elettore, quanto la possibilità di costruire alleanze pre-elettorali chiare e coerenti (grazie appunto al voto

disgiunto)”.

3 Si comprende come si affermi che “a queste condizioni il sistema spagnolo funziona effettivamente come un sistema

bipolare virtuoso senza necessità di premi che costringono i partiti a fare grandi ammucchiate preelettorali. Lì non c’è

ASTRID RASSEGNA - N. 11/2013

56

Fondato sull’operatività del sistema proporzionale puro all’interno di ogni

circoscrizione elettorale e sul ritaglio del territorio in un numero molto elevato di

circoscrizioni, corrispondenti alle province, il sistema, come si è già detto, opera con

effetti fortemente selettivi, sulla base di uno “sbarramento implicito” molto

consistente, destinato a favorire – sovrarappresentandole – le formazioni più grandi a

discapito di quelle più piccole. Al contrario, non pare significativa la selettività

operata dallo sbarramento formale, fissato al 3% a livello circoscrizionale.

La concentrazione regionale di formazioni a base nazionalistica, ovvero regionale

(che in Spagna costituiscono una connotazione rilevante del sistema politico-

partitico), pertanto, non è tale da incorrere in effetti preclusivi operati dal livello

basso dello sbarramento previsto. Il sistema, in tal modo, consente di acquisire il

consenso di tali formazioni (medie o piccole), bilanciando in tal modo la

rappresentatività popolare con quella territoriale espressa dalle istanze

autonomistiche, molto spinte nel Paese iberico.

Diversamente da quanto deve dirsi per il sistema elettorale tedesco, sotto il profilo

tecnico (ma non sotto quello della preferenza), un simile sistema, qualora adottato, si

presenterebbe come fortemente adattabile al caso italiano, dal momento che

occorrerebbe solo procedere ad una frammentazione ulteriore delle attuali

circoscrizioni elettorali per ridurne la taglia e con esse il numero degli elettori.

Se tuttavia nessuna delle due esperienze richiamate parrebbe offrire riferimenti

certi nell’ottica del sostegno al bipolarismo (bensì in quella premiante dei partiti

maggiori del sistema politico-partitico), per come da molte parti si sollecita – a meno

di non fare ricorso a premi elettorali per sostenere la formazione di maggioranze

parlamentari, ovvero a sbarramenti debordanti, che mal celerebbero la loro inidoneità

ad assicurare l’eguaglianza costituzionale del voto – sembrerebbe doversi

sottolineare, con qualche ragionevolezza e consequenzialità, l’inidoneità delle ipotesi

di riforma elettorale maggiormente discusse in questa fase nell’ottica del sostegno al

bipolarismo (il quale, come si è già detto, non ha saputo evidenziare profili di pregio

per un intero ventennio di sperimentazione).

D’altra parte, è anche chiaro a tutti come il bipolarismo non possa prodursi in

modo artificioso, come risultato di una scelta legislativa (“per decreto” ha

commentato icasticamente taluno), e che pertanto lo spazio politico da dissodare

un premio di maggioranza, ma il vero premio è quello legato alle caratteristiche di un sistema elettorale che ha

sistematicamente sovrarappresentato i due maggiori partiti e impedito la nascita e la crescita di altri partiti nazionali che

ne potessero mettere in discussione l’egemonia. La politica, la storia, la geografia del paese sono certamente dietro a

tutto ciò, ma è il sistema elettorale il fattore decisivo, con le sue circoscrizioni piccole, le sue soglie di sbarramento

elevate e una formula elettorale – il d’Hondt – che favorisce i grandi partiti” (R. D’Alimonte).

S. GAMBINO - PARTITI POLITICI, FORMA DI GOVERNO E FORMA DI STATO (DI DEMOCRAZIA PLURALISTA)

57

rimane quello della politica e della ricerca di riforme al suo interno, mediante

aggregazioni libere fra forze politiche contigue e mediante una ripresa di attenzione

all’autoriforma, alla democrazia interna ai partiti e alla integrazione di quest’ultima

con forme di apertura degli stessi alla società civile (le elezioni primarie costituiscono

una indubbia innovazione in questa direzione, come si sottolineerà in seguito).

Rispetto ai modelli elettorali richiamati, in conclusione, il modello di riferimento

che appare astrattamente obbligato per la riforma della legge elettorale in discussione,

sia in quanto non incorre in forzature legislative (premi in termini di seggi o di

sbarramenti differenziati) sia, e soprattutto, per il suo presentarsi come rispettoso di

una logica sistemica (se rapportato alle esigenze della governabilità), risulta essere

quello francese (sistema elettorale a doppio turno).

Tale sistema, come si è già detto in precedenza, si potrebbe prestare ad alcune

importanti modulazioni interne che non ne mettono in questione la piena funzionalità.

Ad esempio, se indubbiamente il primo turno svolge la funzione di garanzia della

rapppresentatività per tutte le forze politiche in campo (e che sono, naturalmente,

disponibili a presentarsi, con i loro programmi e i loro uomini), non si dovrebbe, in

via di principio, escludere che, al secondo turno, possano essere ammesse più forze

politiche rispetto a quanto prevede l’attuale legge elettorale francese (che, al

contrario, prevede uno sbarramento dell’11,5% per passare al secondo turno).

Un premio elettorale, in questo caso, premierebbe quelle forze politiche minori che

si coalizzano per competere al secondo turno, nella cornice di un accordo politico che

supera i limiti programmatici delle forze politiche singolarmente considerate. Rimane

naturalmente aperta la scelta, per i partiti alle estremità degli schieramenti politici, di

non partecipare all’accordo di coalizione per il secondo turno, decidendo in tal modo

di auto-emarginarsi dalla competizione politica. L’adozione di una simile legge

risulta offrire argomentazioni convincenti a chi si interroga, senza ricevere risposte

risolutive, sui rischi intrinseci del c.d. “nuovo bipolarismo” la cui sperimentazione

istituzionale può dirsi a buona ragione senza esiti di pregio, salvo a delegittimare

ulteriormente il sistema politico partici in campo, come le ultime elezioni politiche

sembrano aver sancito senza molte incertezze.