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AA.VV. (a cura di S. GAMBINO), Stati nazionali e poteri locali. La distribuzione territoriale delle competenze, Rimini, 1998. 12. LA SINGOLARITÀ FRANCESE NELLA PROSPETTIVA EUROPEA di Yves Mény Istituto Universitario Europeo - Fiesole Stretto fra le autorità locali e sovranazionali, lo Stato è forse condannato a diventare un vestigio del passato, un residuo antiquato da relegare fra le antichità della storia? Vittima di spoliazioni clamorose o più spesso di espropriazioni striscianti, non è forse già un guscio semivuoto? Non mancano argomenti per rispondere affermativamente a queste domande ed alimentare il processo intentato dai nostalgici del vecchio Stato repubblicano alle evoluzioni in corso, giudicate pericolose e dannose. Quelli che, al contrario, plaudono a tali trasformazioni convengono sulla medesima diagnosi per felicitarsene: i federalisti convinti, i regionalisti o nazionalisti militanti proclamano da mezzo secolo in quà che lo Stato-nazione è condannato a scomparire e che vi è un futuro in Europa solo per le regioni federate. Come spesso capita, la verità indubbiamente si colloca a metà strada fra la visione allarmista degli statalisti giacobini ed i proclami visionari più eccitati. Che lo Stato giacobino dell’ultimo secolo sia ormai una reliquia del passato è indiscutibile. Il ciclo del 1789 è ormai compiuto, dal momento che il modello rivoluzionario per conseguire la sua piena attuazione doveva essere doppiamente egemonico: all’interno, con l’assoggetta- mento delle collettività locali allo Stato, all’esterno (Traduzione dal francese di Silvio Gambino, Università della Calabria).

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AA.VV. (a cura di S. GAMBINO), Stati nazionali e poteri locali. La distribuzione territoriale delle competenze, Rimini, 1998.

12.LA SINGOLARITÀ FRANCESE NELLA PROSPETTIVA EUROPEA

di Yves MényIstituto Universitario Europeo - Fiesole

Stretto fra le autorità locali e sovranazionali, lo Stato è forse condannato a diventare un vestigio del passato, un residuo antiquato da relegare fra le antichità della storia? Vittima di spoliazioni clamorose o più spesso di espropriazioni striscianti, non è forse già un guscio semivuoto? Non mancano argomenti per rispondere affermativamente a queste domande ed alimentare il processo intentato dai nostalgici del vecchio Stato repubblicano alle evoluzioni in corso, giudicate pericolose e dannose. Quelli che, al contrario, plaudono a tali trasformazioni convengono sulla medesima diagnosi per felicitarsene: i federalisti convinti, i regionalisti o nazionalisti militanti proclamano da mezzo secolo in quà che lo Stato-nazione è condannato a scomparire e che vi è un futuro in Europa solo per le regioni federate.

Come spesso capita, la verità indubbiamente si colloca a metà strada fra la visione allarmista degli statalisti giacobini ed i proclami visionari più eccitati.

Che lo Stato giacobino dell’ultimo secolo sia ormai una reliquia del passato è indiscutibile. Il ciclo del 1789 è ormai compiuto, dal momento che il modello rivoluzionario per conseguire la sua piena attuazione doveva essere doppiamente egemonico: all’interno, con l’assoggetta-mento delle collettività locali allo Stato, all’esterno con la capacità di quest’ultimo d’imporre le proprie scelte anche con la forza. Da questo punto di vista, il tempo napoleonico raggiunge la quasi perfezione prima di scomparire. Il secondo tentativo di realizzazione dello Stato-nazione secondo il modello giacobino sarà portato a buon fine, cioè in modo più durevole (benché in tono minore) dalla III Repubblica: compromesso repubblicano all’interno tra le élites repubblicane e i notabili, espansione coloniale in mancanza di egemonia europea indiscussa e incontrastata. Il periodo che va dal 1914 al 1945, sotto tale profilo, costituisce un periodo di transizione: i miti restano, ma singolarmente viene meno la sostanza che consentirebbe di assicurare l’imperium assoluto

(Traduzione dal francese di Silvio Gambino, Università della Calabria).

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dello Stato-nazione sia all’interno che all’esterno. La Costituzione del 1946 è eloquente: essa riconosce velatamente, all’interno e all’esterno, il nuovo ordine delle cose, ma si scontra con le resistenze dell’antico ordine. È così che il preambolo riconosce la supremazia del diritto internazionale, accetta limitazioni di sovranità e proclama il rifiuto del ricorso alla guerra contro i popoli colonizzati (!) mentre la Costituzione priva i prefetti delle loro funzioni di esecutivo dipartimentale ed annuncia, unitamente a nuovi statuti per le grandi città, la soppressione delle tutele. La diagnosi era giusta, ma la sua piena accettazione o la relativa attuazione troppo difficile: aggredita da ogni parte, la IV Repubblica non seppe gestire la ritirata coloniale né attuare la riforma delle istituzioni locali. Tuttavia, essa ebbe il merito di tracciare un percorso di cui si sarebbe poi fatto carico la V Repubblica: dal 1954-1955 sono poste le prime pietre delle politiche regionali e, come è noto, nel 1957, viene sottoscritto il Trattato di Roma che completa ed amplia il Trattato della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (C.E.C.A.). Nulla, a priori, appariva più contrario alla filosofia di chi, come De Gaulle, ha evocato in termini così appassionati la “nazione, questa madonna affrescata sulle pareti”. Tuttavia, lungi dal cambiare la direzione di marcia, De Gaulle e la V Repubblica cercheranno di imprimerle il proprio segno, controllarne gli impulsi e il moto. Segno indubbiamente che, se era ipotizzabile cambiare il corso delle cose, non era certo possibile mutarne la direzione. Che meraviglioso paradosso: la regionalizzazione e l’Europa sono debitrici indubbiamente tanto a M. Debré e al generale de Gaulle quanto a Jean-François Gravier o Jean Monnet. Questi ultimi ebbero le intuizioni del futuro, i primi, nonostante i propri dubbi, ebbero sufficientemente il senso del realismo e la comprensione delle evoluzioni necessarie per conformare la propria politica allo Stato del mondo e della Francia. Il piano Fouchet o le proposte di regionalizzazione, nel ’69, erano indubbiamente criticabili da un punto di vista tecnico e inopportuni da quello politico: tuttavia, essi traducevano egualmente un senso acuto degli adattamenti e degli aggiustamenti che avrebbe dovuto conoscere lo Stato. Cosa si può dire di più lucido dell’osservazione, decisiva nella sua concisione, del generale De Gaulle quando afferma: “lo sforzo multisecolare di centralizzazione non si giustifica più”?

È come dire che l’insoddisfazione dei nostalgici dello Stato-nazione non ha molto più senso del delirio anti-Stato dei partigiani accaniti di un’Europa delle regioni. Resta una sfida importante per lo Stato: trovare un posto ed un ruolo nuovo tra questi due partners ingombranti e sempre più potenti che sono le autorità locali, da una parte, le autorità europee, dall’altra. Ogni riflessione su tale

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questione può fondarsi su alcune ipotesi (o constatazioni) semplici che consentono di orientare la riflessione.

Nonostante le critiche — spesso legittime — che gli sono indirizzate, lo Stato resta una struttura di organizzazione indispensabile. L’esempio degli ex paesi socialisti ne offre giorno dopo giorno la controprova. Tanto la forma di “Stato-nazione” è spesso criticabile (al contempo in quanto oppressiva nella sua affermazione e/o potenzialmente distruttrice dello Stato quando è plurinazionale), tanto l’orga-nizzazione statale appare oggi come una struttura moderna e adeguata alle società contemporanee. Rimane da fissarne le forme particolari, evitando di gettare il bambino con l’acqua sporca.

La partita che si gioca a tre (Europa, Stato, collettività locali) non è un gioco a somma zero come ritengono a torto i critici delle evoluzioni attuali. Questi ultimi credono — o fingono di credere — che tutto ciò che è conquistato dall’Europa o dalle collettività locali è sottratto al patrimonio dello Stato ridotto alla porzione congrua. Altri, invece, godono dell’indebolimento dell’autorità in generale (qualunque sia il livello considerato) e difendono la causa di uno Stato minimo. In realtà, nell’assalto sovra o infranazionale, le critiche neo-liberali non sono riuscite a indebolire lo Stato, tantomeno a farne quello Stato modesto di cui aveva parlato Michel Crozier. Il gioco attualmente in atto è, al contrario, un gioco a somma positivo: il ruolo dello Stato muta, evolve, ma significherebbe ragionare un po’ troppo in fretta affermare che esso scompare. Questa evoluzione d’altronde non è esclusiva esperienza dell’Europa: negli stati Uniti, ad esempio, la centralizzazione di Washington non ha affatto significato il declino degli States o del Local Government.

I partners del gioco attualmente in corso — tranne che per la semplificazione necessaria alle esigenze del linguaggio e dell’analisi — non costituiscono entità perfettamente distinte ed autonome. Solo per facilità concettuale e di linguaggio isoliamo lo Stato, l’Europa, le collettività locali. In realtà — e sempre di più — ci riferiamo ad una triade: ognuna delle componenti è al contempo una e composita, collocandosi lo Stato, al centro del dispositivo per sua stessa natura. Le collettività locali sono autonome, ma ovunque, in ogni paese, lo Stato penetra o ne controlla le strutture, il finanziamento, il personale con modalità più o meno incisive o specifiche. Parimenti, l’Europa detiene una sua sfera propria di decisione, ma più frequentemente questa non è che la risultanza delle volontà più o meno contraddittorie degli stati membri. Lo Stato, infine, è “colonizzato” (anche in questo caso secondo ampiezze e modalità variegate) all’interno da parte delle autorità

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locali o assoggettato a vincoli esterni a cui può difficilmente sfuggire (attuazione delle direttive e regolamenti comunitari, esecuzione delle decisioni di Bruxelles o della Corte di giustizia di Lussemburgo). In breve, più che ad entità distinte e separate, ci riferiamo, dunque, ad un insieme dinamico e spesso indeterminato. Questo magma istituzionale evidentemente non ha molto a che vedere con una costruzione gerarchizzata, razionale e semplice. Ma forse è un difetto dello spirito giacobino sognare costruzioni rigorose ed ordinate a rischio di ridurre queste belle armonie ad un semplice “effetto dell’arte”.

1. LE COLLETTIVITÀ LOCALI IN EUROPA: LA FRANCIA E GLI ALTRI

Non esiste un “modello” unico di rapporti centro-periferia nei diversi stati europei. Ogni paese, in funzione della sua storia, delle sue tradizioni, ha costruito nel corso del tempo una propria rete di rapporti fra potere centrale e potere locale. Certamente, su questo patrimonio si sono innestate mutuazioni (più o meno volontarie) da esperienze esterne. La specificità e l’originalità di ogni Stato non devono, tuttavia impedire di definire alcuni “ideal tipi” a partire dalle caratteristiche osservate nell’organizzazione del potere locale. Per facilità, designeremo questi ideal tipi con i paesi nei quali i principali tratti caratterizzanti sono meglio definiti: avremo così un modello francese, un modello inglese, un modello tedesco.

Il modello francese forgiato durante la Rivoluzione e l’Impero, messo a punto durante il XIX secolo, è sufficientemente noto perché vi sia bisogno di trattarlo nei dettagli. Ricordiamone soltanto i maggiori tratti classici che lo contrappongono agli altri modelli:

— affermazione del principio dell’indivisibilità dello Stato che si esprime soprattutto nella uniformità delle regole;

— previsione di due livelli di decentramento, non gerarchizzati (dipartimento e comune), subordinati allo Stato con un sistema di controlli e di tutela. È del tutto escluso ogni livello intermedio (regioni) che potrebbe offuscare lo Stato-nazione;

— affermazione del principio di competenza generale dell’ente locale sul proprio territorio (“il Consiglio comunale gestisce con proprie deliberazioni gli affari del comune”);

— previsione di un cumulo di funzioni statali e locali in capo all’ese-cutivo (sindaco o prefetto);

— sviluppo di cospicui servizi statali in periferia (servizi esterni) sotto la sferza del rappresentante dello Stato, il prefetto;

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— divisione di ruoli fra assemblee elettive che deliberano ed un esecutivo (nominato, in seguito eletto) che prepara ed esegue le decisioni del Consiglio.

Tuttavia, questa costruzione razionale e logica è fonte di tensioni e conflitti: fra gli organi nominati e gli organi elettivi; fra l’afferma-zione di competenze generali sul territorio ed il ruolo onnipresente dello Stato. Nonostante una giuridicizzazione estrema dei rapporti centro-periferia tutto s’incentra sull’influenza e sui rapporti di forza.

Questo modello francese predomina in una gran parte del continente europeo sia perché imposto da Napoleone Bonaparte sia perché imitato nel corso del XIX secolo: i paesi del Benelux, il Portogallo, la Spagna, l’Italia si ricollegano a questo modello, anche se numerose variazioni introducono molto più di una sfumatura tra le diverse varianti di questa prima “famiglia”.

Il modello inglese si colloca agli antipodi del sistema giacobino alla francese:

— la sovranità incarnata dal Parlamento non impedisce la persistenza di specificità locali (linguistiche, giuridiche, organizzative). Gli Inglesi non pretendono che tutte le onde si assomiglino, dal momento che la Corona rules the waves. Fino a data recente il maggiore pragmatismo istituzionale e normativo si sposava con l’indiscussa supremazia del governo di Sua Maestà.

— il governo centrale decide ma non amministra; esso dispone di servizi esterni embrionali (essenzialmente finanziari) e non rappresentanti in servizio presso il livello locale. Competenze che sono altrove considerate come il cuore stesso dello Stato (polizia, educazione) sono interamente affidate al local government in Gran Bretagna. Lo Stato (o piuttosto il governo, dal momento che il termine state non è più utilizzato in Gran Bretagna ... tranne che nella letteratura neo-marxista) si accontenta (si accontentava ...) di fissare gli orientamenti generali. La struttura del personale traduce tale divisione dei compiti tra decisione ed esecuzione: 500.000 funzionari centrali soltanto contro 3.000.000 di funzionari locali, generalmente specializzati e tecnici (professionals);

— l’organizzazione del local government non obbedisce al principio di separazione delle funzioni sul quale si fonda il modello francese. In Gran Bretagna, la distinzione esecutivo/assemblea deliberante non ha senso. Esiste un esecutivo meramente simbolico (il major è nel sistema locale ciò che il sovrano britannico è per il Regno Unito) e la gestione degli affari locali dipende da commissioni specializzate. Si tratta, quindi, di una forma di governo più collegiale (Government by committee);

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— le competenze locali sono specifiche ed attribuite dalla legge. Non esistono attribuzioni generali di competenza a favore degli enti locali sul proprio territorio;

— l’assenza di costituzione scritta e la separazione fra politica nazionale e locale, fra amministrazione locale e nazionale rendono il local government britannico estremamente vulnerabile. Le autorità locali sono considerate come erogatrici di servizi più che come “comunità” con diritto ad una loro specifica organizzazione. Ciò soprattutto spiega perché gli enti locali britannici abbiano potuto essere ridotti a meno di 500 in nome dell’efficacia ... e della razionalità. Coloro che hanno mitizzato il local government all’inglese farebbero bene a rivedere il proprio universo idealizzato!

Esiste un modello tedesco? No, se con questo termine intendiamo una omogeneità di regole, di istituzioni e di strutture. Sì, se riconosciamo al modello i seguenti tratti:

— un profondo decentramento a vantaggio dei Laender e delle collettività di base giustificato al contempo dalla tradizione (assenza di centralizzazione tranne che durante il nazismo), dalla filosofia federalista (principio di sussidiarietà) e dalle pressioni francesi del dopoguerra (la Francia giacobina voleva una Germania federale all’estremo, quindi, dal proprio punto di vista, debole. Ironia della storia ...). Come in Gran Bretagna, la “debolezza” del potere centrale (il Bund) si misura dagli organici del personale, cioè soltanto 300.000 dipendenti federali;

— una grande diversità organizzativa ereditata tanto dalla tradizione degli Stati tedeschi quanto dall’impronta lasciata dagli occupanti americani, inglesi o francesi. (L’ex zona britannica ha “importato” la forma di governo locale all’inglese mentre i Francesi hanno favorito la creazione di un potere municipale più forte in Renania-Palatinato, per esempio). Un processo identico è attualmente in corso con l’esporta-zione delle soluzioni praticate all’ovest nei cinque Laender dell’Est;

— un federalismo originale nel quale l’essenziale del potere di decisione viene lasciato al Bund mentre la totalità dell’esecuzione è riservata ai Laender ed alle autorità locali (contrariamente al federalismo americano nel quale ognuno è in via di principio responsabile della decisione e dell’esecuzione nella propria sfera di competenza). Nella pratica, tale divisione dei compiti fra decisione ed esecuzione è evoluta nella direzione di un sistema di contrattualizzazione generalizzata in cui tutto si realizza per consenso, trattati e mutui accordi. Questa interpenetrazione fra centro e periferia trova la sua espressione più compiuta nella molteplicità delle disposizioni costituzionali di questo “federalismo

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cooperativo” e nella sofisticazione dei meccanismi di riparto delle risorse fiscali e di perequazione finanziaria;

— una razionalizzazione delle strutture comunali (il numero dei comuni è passato da 27.000 a 9.000 durante gli anni ’70) come in Gran Bretagna, ma, a differenza di quest’ultima, mediante decentramento (ogni Land è responsabile sul proprio territorio) ed incentivi piuttosto che ricorrendo alla coazione.

Tuttavia, questa breve presentazione di ideal tipi non può dar conto dell’estrema varietà delle situazioni, soprattutto per quanto concerne il modello francese esportato manu militari circa due secoli fa. In un certo senso, quest’ultimo è quello maggiormente riguardato dalle evoluzioni in corso, non solo nelle sue modalità, ma nella sua stessa concezione: la maggior parte dei presupposti sui quali si fonda sono compromessi dalla costruzione europea o molto più semplicemente dalla naturale evoluzione del welfare state.

I principali postulati di base del sistema francese sono stati enunciati per mettere ordine nell’incredibile guazzabuglio dell’Ancien Régime e per rispondere ai bisogni funzionali del nuovo ordine delle cose: il dipartimento viene concepito come un’articolazione dell’ammi-nistrazione dello Stato ed il comune (rurale e scarsamente popolato) non è più tollerato come istituzione autonoma in quanto costituisce poco più di una mera “famiglia allargata”. Il richiamo di queste primizie ideologiche non avrebbe alcuna importanza se non sopravvivessero i miti, le credenze e le strutture di un epoca ormai ampiamente superata. La Francia urbana del 2.000 vive dunque con i suoi 36.500 comuni, i propri dipartimenti più attenti ai cantoni rurali che alle politiche urbane, la sua inestricabile farragine di istituzioni locali, il suo obsoleto sistema di tassazione che si cerca di giustificare ricorrendo al principio per cui “le buone imposte sono le vecchie imposte”, un riparto dei poteri e delle risorse che sfida il buon senso e che sopravvive solo grazie a rattoppi legislativi, regolamentari e finanziari.

Per questa ragione, la Francia ha grande tentazione di guardare se l’erba del vicino è più verde di quella del proprio prato. In verità, i confronti sono spesso sommari e si realizzano sulla base di un registro binario semplicistico: quello dell’apologia o della condanna tanto radicali quanto elementari. È per questo che si è potuto proporre di dividere il numero dei comuni per quindici ispirandosi a modelli britannici o scandinavi ma senza interrogarsi sui particolarismi del territorio francese; o ancora, in relazione alla Germania che contava solo dieci Laender oltre a Berlino (prima dell’unificazione!), di dividere per due le regioni francesi poiché il loro numero (22) non le rendeva competitive rispetto alle omologhe

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straniere. Si è potuto vedere Valéry Giscard d’Estaing utilizzare l’esempio dell’U.R.S.S. (una volta non si usava!), degli Stati Uniti e della Germania per dimostrare che la Francia non poteva consentirsi il lusso di tre livelli di amministrazione locale mentre i suoi principali partners ne contavano solo due. Questa brillante dimostrazione televisiva, carte alla mano, non aveva che un difetto: quello di omettere un livello di amministrazione nei paesi citati, il che rendeva evidentemente la tesi maggiormente “probante”. Si è potuto ascoltare George Pompidou evocare — horror referens — la regionalizzazione italiana degli anni ’70 per giustificare la regione-sgorbio del 1974. In breve, più che solidi elementi di confronto, i modelli stranieri servono spesso come alibi per querelles o per passioni interne.

Dalla coesistenza di questi diversi modelli in Europa si possono trarre alcune lezioni e osservazioni.

L’autonomia del potere locale è difficile da misurare, in assenza di parametri puntuali. Le norme giuridiche (statuti costituzionali o legislativi) costituiscono un mero indicatore grossolano ed approssimativo. Esso non può essere utilizzato se non in combinazione con altre variabili organizzative, politiche, finanziarie. Per esempio le regioni italiane, in via di principio, sono fortemente autonome dal punto di vista del diritto e della retorica politica. L’esame delle loro risorse (in gran parte di origine statale) e soprattutto del loro impiego (condizionato al 90%), tuttavia, relativizza in modo significativo la qualificazione di “Stato regionale” talora applicata all’Italia. La valutazione dell’autono-mia regionale e locale deve dunque effettuarsi ricorrendo a più indicatori e, nel caso, procedendo per settori.

L’organizzazione delle collettività locali, in via principio, non è stata interessata dalla costruzione europea, dal momento che ogni Stato membro resta competente sulla sua organizzazione interna. Tuttavia, il crescente interventismo della CEE e lo sviluppo delle politiche comuni hanno avuto come effetto di trasformare il senso o la portata delle competenze assegnate alle autorità decentrate, in particolare quelle regionali. Cosa significa, ad esempio, la competenza del diritto comune in materia agricola attribuita alle regioni italiane, se non attuare la politica che è ormai elaborata a Bruxelles?

Importanti cambiamenti si manifestano a livello locale in funzione della cultura e dello “stile” politico-amministrativo dominanti. Variazioni sono osservabili da Stato a Stato ma talvolta anche all’interno di ogni singolo Stato (Laender del Nord o dell’Est e Baviera in Germania, Fiandra e Vallonia in Belgio, Scozia o Paesi del

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Galles e Inghilterra nel Regno Unito, Italia del Nord, del Centro e del Sud, Catalogna, Paesi Baschi e altre regioni spagnole). Non si può comprendere la complessità del puzzle locale senza farsi carico di fenomeni come il cumulo dei mandati in Francia, il ruolo dei partiti in Italia, in Germania o in Belgio, lo stile consensuale olandese, il carattere collegiale (Gran Bretagna), frammentato (Italia) o iper-concentrato (Francia) dell’eserci-zio del potere, la politicizzazione, la neutralità, il professionismo della funzione pubblica locale.

È con questa straordinaria diversità che gli stati, da una parte, l’Eu-ropa, dall’altra, devono ormai confrontarsi.

2. GLI ENTI LOCALI NELL’EUROPA DEI DODICI: LO SVILUPPO CRESCENTE

Fin dalla costruzione del Mercato comune, gli enti locali sono stati praticamente ignorati dal Trattato di Roma. Varie ragioni concorrevano a tenere una simile condotta. Innanzitutto, una ragione di fondo: la preoccupazione maggiore era quella di integrare mercati chiusi e non di favorire o accentuare la disgregazione; è ciò che spiega come mai le regioni (in quanto entità geo-economiche) non sono evocate se non in relazione al loro eventuale sottosviluppo e per considerare le necessarie misure di compensazione e di ricupero. Inoltre, una ragione di fatto: all’interno dei sei paesi fondatori, solo la R.F.T. aveva una struttura intermedia forte, quella degli undici Laender. La regionalizzazione era effettiva in Italia solo per cinque regioni a statuto speciale e non era avviata ancora in Belgio e in Francia. Inoltre, le autorità di Bruxelles continuarono ad avere come soli interlocutori gli stati e le amministrazioni centrali. Tale soluzione presentava a suo tempo ogni vantaggio: era conforme alle tradizioni del diritto internazionale (che ignora la struttura interna dello Stato, particolarmente per ciò che riguarda l’eventuale impegno della sua responsabilità); corrispondeva alle necessità del momento (nell’essenziale, negoziazione ed attuazione delle politiche regali); consentiva infine di tenere sotto controllo le suscettibilità degli stati più permalosi circa la concezione della propria sovranità interna ed esterna.

Questa situazione è perdurata fino agli anni ’70 e si è poco a poco modificata sotto la pressione di molteplici fattori:

— Innanzitutto, l’evoluzione delle politiche settoriali della Comunità. Mentre nella sua fase iniziale la C.E.E. era portata ad occuparsi soprattutto di tariffe doganali, di politiche commerciali, di libera circolazione ed infine di politica agricola, tutti ambiti di competenza, in generale, delle amministrazioni centrali, lo sviluppo delle politiche comuni (per esempio, ambiente) o l’accentuazione

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degli interventi di crisi (siderurgia) condussero Bruxelles ad adottare misure il cui impatto regionale e locale era molto più netto. Diviene evidente che Bruxelles non poteva “tentare di farla franca” rispetto alle autorità locali;

— La valorizzazione delle politiche regionali sviluppate a partire dal 1972, soprattutto per offrire una compensazione alla pesante contribuzione netta sopportata dagli Inglesi. Anche in questo caso, risulta palese come una politica regionale comunitaria non potesse contentarsi di un dialogo esclusivo con le amministrazioni centrali. A poco a poco si rinforzarono i legami fra Bruxelles e le regioni grazie all’integrazione dei reciproci interessi dei partners interessati: la burocrazia di Bruxelles vi coglieva uno strumento per ampliare la propria influenza e le regioni più dinamiche ritenevano di poter trarre vantaggio da questo confronto diretto.

— La protesta dei Laender tedeschi o delle regioni italiane, che i processi di negoziazione comunitari contribuivano a marginalizzare trasferendo di fatto le competenze attribuite dalla Costituzione allo Stato centrale ogni volta che la Comunità si impadroniva del dossier.

— L’attivismo di varie regioni o collettività locali che agiscono per proprio conto o collettivamente (regioni periferiche marittime, regioni di montagna, regioni insulari, ecc.), per ottenere misure specifiche.

— Le rivendicazioni ambigue ed ambivalenti di diverse regioni (isti-tuzionalizzate o meno) che rivendicano al contempo maggiore autonomia e più aiuti, sottolineando le proprie specificità ma rivendicando un riallineamento delle condizioni economiche. In questo clima di tensione le cui radici erano al contempo economiche, ideologiche, talora culturali e religiose, l’idea della “Europa delle regioni” è servita come fermento e cemento per varie iniziative in favore della valorizzazione delle regioni ed accessoriamente delle altre collettività locali.

Indipendentemente dalla costruzione europea, la valorizzazione degli enti locali è stata significativa in tutta l’Europa dopo la seconda guerra mondiale. La crescita dei loro compiti, delle risorse e del relativo personale è, al contempo, concomitante e dipendente dal formidabile sviluppo del welfare state, dal momento che la centralizzazione può dimostrarsi tanto efficace nelle tradizionali politiche regali quanto rivelarsi inadeguata a farsi carico “dalla culla alla tomba” dei cittadini in tutti gli aspetti della loro vita quotidiana. Sarebbe fastidioso enumerare in questa sede le mille e una modalità di intervento delle autorità locali. Limitiamoci a proporne due illustrazioni simboliche: la gestione degli istituti scolastici affidata

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LA SINGOLARITÀ FRANCESE NELLA PROSPETTIVA EUROPEA

dopo il 1983 alle collettività locali francesi, prima breccia nel monolitismo statale vecchio di un secolo; e, dall’altra sponda della Manica, l’attacco violento del thatcherismo neoliberale contro le collettività locali, accusate di incarnare la burocrazia, l’interventismo e lo sperpero del welfare state. In Gran Bretagna, quando si è voluto costringere lo Stato alla ritirata (To roll back the state), è appunto alle collettività di base che si è pensato!

A questi fattori istituzionali o culturali, occorre aggiungere la lenta e graduale presa di coscienza per cui la disintegrazione politica tanto temuta dagli stati era meno pericolosa di quanto si fosse potuto credere e che, in cambio, le distanze e le divergenze economiche diventavano sempre più marcate. In breve, più che il separatismo politico erano da temere le diseguaglianze regionali: fra il nord e il sud del Regno Unito, fra la Vallonia e la Fiandra, fra Parigi e il sud-est, da una parte, l’est, il nord, il Massiccio centrale, dall’altra, fra Milano o Torino e il Mezzogiorno.

Nuove solidarietà si venivano a creare oltre le frontiere mentre nuove barriere economiche e sociali facevano la comparsa all’interno degli stati. In altre parole, la crescita dell’ultimo mezzo secolo e l’integra-zione comunitaria hanno fatto apparire zone di omogeneità sovranazionale (grosso modo lo spazio dell’Europa delle città borghesi e commerciali dell’asse Londra-Milano) e, al contempo, profonde divergenze infranazionali. Di fronte a queste evoluzioni contrastate, i più ricchi hanno la tentazione di rivendicare maggiore autonomia (lo Stato centrale appare come un handicap e le regioni meno sviluppate come un fardello. È il caso, ad esempio, del fenomeno delle leghe in Italia o delle rivendicazioni basche e catalane). I più poveri non vogliono essere da meno, sperando che una maggiore libertà, coniugata con la manna europea, potrà dare loro ciò che lo Stato è stato incapace di assicurare. D’altronde, queste domande sono tanto più forti e pressanti in quanto, quasi ovunque (la Gran Bretagna rimane la principale eccezione fino al 1998) le regioni sono state istituzionalizzate, comportando la comparsa di nuove élites politiche e amministrative che hanno un evidente interesse a rafforzare la base del loro potere e influenza.

L’integrazione europea produce quindi effetti ambivalenti: da un lato, consente, in un universo dominato da colossi economici, militari o demografici, di offrire all’Europa una “taglia critica”, di praticare economie di scala per l’allargamento del mercato, di offrire a stati piccoli o medi un’opportunità di sopravvivenza all’interno di un insieme confederale e federale. Ma, dall’altro, superando e desacralizzando lo Stato nazionale classico, essa consente processi di differenziazione soprattutto a vantaggio degli insiemi più dinamici. Differenziazione economica non significa

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disgregazione e ricomposizione dello Stato, come dimostra, per esempio, l’America del nord in cui l’osmosi economica sulle frontiere nord e sud degli Stati Uniti con il Canada e il Messico non comporta alcuna rivendicazione politica. Benché l’esercizio sia più difficile in Europa, in cui le nozioni di Stato e di frontiera conservano un forza ideologica e simbolica singolari, gli Europei — e in particolare i Francesi — dovranno imparare a conciliare diversi tipi di fedeltà (locale, nazionale, europea) e ad applicare con forza il principio di sussidiarietà. L’operazione non è certamente semplice negli stati nazionali come la Francia, la Gran Bretagna o anche in Spagna, che conservano ancora una mentalità imperialistica. Ma la parola d’ordine americana think federal diventa, anche per loro, una necessità. È il prezzo dell’adattamento ad un universo multipolare, interdipendente, pluralista e competitivo nel quale i valori tradizionali di gerarchia rigida, di subordinazione, di autorità indivisibile sono sempre più svalorizzati e accantonati.

3. QUALCHE LEZIONE E CONCLUSIONE PER IL SISTEMA FRANCESE

Senza che sia stata prestata molta attenzione, una “rivoluzione” mentale si è ormai realizzata in Francia, operando un vero capovolgimento dei valori: il giacobinismo batte in ritirata e le autorità locali, mediante i leaders che le rappresentano, appaiono trionfanti. Dalla parte opposta, l’Europa è egualmente un “valore in ascesa” a tal punto che diverse voci cominciano a preoccuparsene, a causa dell’indebolimento dello Stato, altre per il suo impoverimento, ecc. Tuttavia i pericoli e i rischi, come si è visto, si ritrovano meno nel deperimento dello Stato centrale, quanto nella cattiva allocazione delle risorse fra gli attori e nella inadeguatezza delle regole in vigore.

Che fare allora affinché la Francia, nelle sue diverse componenti istituzionali, sia messa nelle condizioni di affrontare una situazione di interdipendenza e di pluralismo degli attori sempre più accentuata? Si possono suggerire cinque linee di orientamento e di azione:

— Ridefinire le funzioni ed i modi di intervento dello Stato.Lo si è detto e ripetuto, lo Stato, sia nella sua amministrazione

centrale che nei suoi dirigenti politici (e spesso nelle aspettative del pubblico), interviene troppo ed in maniera eccessivamente puntuale. È inutile ad esempio sperare che lo Stato possa controllare la pianificazione territoriale di 36.500 comuni della Francia come ha cercato di fare fin al 1983 e come cerca ancora di farlo con altri strumenti. Lo smacco è palese: lo Stato non è in grado

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di impedire l’urbanizzazione selvaggia del litorale (talora l’ha organizzata), né l’utilizzazione maldestra della montagna o lo sviluppo anarchico delle conurbazioni male attrezzate. Sarebbe stato probabilmente meglio fissare obiettivi più vincolanti del tipo “niente licenza di costruzione senza il previo pagamento degli oneri di urbanizzazione”, come avviene in alcuni paesi (ad esempio, esistenza di una rete fognaria nella zona urbana o urbanizzabile). Il controllo di un simile dispositivo è reso efficace non dalla presenza di ispettori, ma dal controllo diffuso che gli stessi cittadini interessati esercitano. Lo Stato deve concentrarsi sui grandi compiti consistenti nel delineare gli orientamenti generali e controllarne la relativa realizzazione.

— Decentralizzare con forza nella direzione delle regioni e delle zone metropolitane.

Numerose opinioni denunciano attualmente l’eccesso di competenze attribuite alle collettività locali, ciò che implicherebbe spreco e corruzione. Ciò facendo, si confonde la ripartizione dei poteri a questa o quella istituzione e la sua concentrazione a vantaggio di un piccolo numero di decisori. Quest’ultimo aspetto merita discussione (vi ritorneremo), come pure un migliore riparto dei poteri a favore delle autorità locali appare indispensabile: ad esempio, il decentramento dovrebbe essere rafforzato in materia scolastica, universitaria, ambientale. Ma questa forte “rivoluzione” è possibile solo su alcune “teste”: le regioni e alcune metropoli urbane indubbiamente. Sarebbe illusorio, costoso, perfino pericoloso decentrare a favore di 36.500 comuni. Si potrebbe osservare che per 30.000 comuni, tale decentramento è senza rischi, dal momento che gli stessi non sono in grado di utilizzare in modo effettivo le proprie competenze. Indubbiamente, ma il problema è appunto quello di alcune migliaia di comuni situati in punti sensibili (e, da questo punto di vista, la loro taglia demografica non ha alcuna importanza): comuni periferici delle città-centro, comuni degli assi maggiori dello sviluppo (vallata della Senna o del Rhône, ad esempio). In tutti questi casi, la comparazione non è da fare con l’Europa ma con gli Stati Uniti. Come in questo paese, la frammentazione comunale, l’anarchia fiscale, locale e la strategia degli attori privati (imprese, promotori) si coniugano per massimizzare gli effetti perversi.

Ogni collettività locale, come è naturale, cerca ad internalizzare il massimo dei benefici e ad esternalizzare i costi sui vicini. Questo gioco è universale, ma è particolarmente pericoloso quando il corrispettivo peso degli attori è particolarmente diseguale (cfr. Parigi e la sua periferia) e/o quando la frammentazione comunale riguarda uno spazio ambito come il litorale. Tutti hanno interesse

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allo sviluppo massimo e nessuno alla tutela. Non sogniamo: nessuno può pensare di sopprimere un comune in Francia, anche quando esso non conta più del numero di abitanti adulti necessari per far funzionare un consiglio. Ma sarebbe possibile concepire una migliore ripartizione delle risorse, almeno se si auspica di varare un minimo di pianificazione spaziale. Allo stato attuale delle cose, questa è un’illusione per quanto concerne il territorio: con 36.000 piani di occupazione dei suoli o documenti di urbanizzazione non si fa urbanistica, ma edilizia. Troppo spesso un piano di occupazione dei suoli, in zona rurale, non è molto di più che l’incrocio degli interessi fondiari e delle reti esistenti (acqua ed elettricità). Senza volerlo, Eletricité de France è indubbiamente il primo pianificatore della Francia! Tenuto conto del fatto che ciò non costituisce la sua missione precipua, ci si chiede se bisogna rallegrarsene.

— Accettare la diversificazione delle attribuzioni e delle competenze.

La Francia è stata a lungo prigioniera di una stupida convinzione secondo cui l’eguaglianza richiede l’uniformità. È in nome di questo principio che i Francesi accettano varie diseguaglianze di fatto, purché la sacrosanta verità non sia toccata? Questa convinzione, come è noto, si manifesta in tutti i settori. Quando si è voluto eliminare la principale eccezione ancora vigente nel campo degli enti locali, quella dello statuto di Parigi, non si è fatto che richiedere per la capitale uno statuto identico a quello degli altri comuni. Il Consiglio Costituzionale ha applicato lo stesso principio nei confronti delle regioni d’oltre mare, il che implica l’assurda situazione di dipartimenti-regioni che dispongono di due assemblee e di due esecutivi che operano sullo stesso territorio in ambiti spesso vicini, perfino concorrenti! Fortunatamente, il Consiglio, nella sua decisione del 1991 sulla Corsica, ha fatto prevalere il buon senso ed alla fine ha accettato una differenziazione istituzionale nella metropoli. Questo mutamento giurisprudenziale costituisce pura saggezza, tanto l’uniformità di facciata è smentita dai fatti da una diversità estrema delle istituzioni e del sottogoverno locale, cioè il ginepraio di istituzioni ad hoc (società di economia mista, consorzi, enti pubblici, associazioni, ecc.). È giunta dunque l’ora di guardare in faccia alla realtà, ossia ammettere che la Limousine non l’Île-de-France. Contrariamente a ciò che spesso si pensa, il numero delle regioni non costituisce in sé un problema (la loro riduzione costituirebbe, invece, un vero problema politico): sul più ampio territorio dell’Europa, le ventidue regioni francesi non fanno cattiva figura di fronte ai sedici Laender tedeschi (di cui alcuni molto piccoli), alle sedici Comunità Autonome spagnole, alle venti regioni italiane, alle tre regioni belghe. Il problema sta molto più

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concretamente nella limitatezza delle loro competenze e dei relativi mezzi finanziari. Il loro rafforzamento appare necessario, in particolare nel campo della pianificazione territoriale, abbandonato dallo Stato e gestito alla giornata e secondo leggi del maledetto egoismo delle 36.500 cittadelle locali.

— Chiarire i ruoli degli attori politici e amministrativi.La patria di Montesquieu è divenuta quella della confusione dei

poteri. Confusione dei poteri attraverso cumulo dei mandati e delle funzioni, innanzitutto. In nessuna parte del mondo occidentale esiste un simile fenomeno a favore di chi accumula mandati nazionali e locali. Poiché il problema non è solo quello del cumulo dei mandati portato a due (o tre a seconda della taglia dei comuni interessati) dopo il dicembre del 1985, ma soprattutto quello delle funzioni. La parte sommersa dell’iceberg è impressionante, come testimonia il biglietto da visita degli eletti o la lettura del Who’s Who. Il sistema francese è l’ultima “monarchia” in Europa ed è monarchica dalla base al vertice, dal comune fino alla presidenza. È senz’altro difficile ridimensionare questo tratto della nostra cultura politica amplificato dalla V Repubblica e dalle leggi Defferre, ma almeno occorrerebbe limitarne gli effetti vietando cumuli che sono alla base dei conflitti di interesse e della corruzione.

Inoltre, sarebbe indispensabile dissociare, all’interno della funzione pubblica statale, le funzioni di decisione e quelle di controllo. La loro confusione è senza dubbio fonte di efficacia, ma anche di molti effetti negativi o di perversioni. I funzionari dell’agricoltura o dei lavori pubblici nei servizi esterni, ad esempio, dovrebbero esercitare mere funzioni di controllo e smettere di essere gli esecutori delle politiche locali.

— Rafforzare i controlli esterni sulle amministrazioni in particolare su quelle locali.

Il sistema francese di controllo si basa essenzialmente su un controllo interno (ispezioni) o debolmente esternalizzato (Corte dei conti, giurisdizioni amministrative). Il controllo dei cittadini è difficile da esercitare e non può che esprimersi seguendo la strada lunga ed aleatoria del ricorso per eccesso di potere, mentre l’amministrazione gode della pregiudizialità o di regole arcaiche come quella secondo la quale “opera pubblica mal costruita non si abbatte”. In altre parole, l’ammi-nistrazione beneficia del fatto compiuto. D’altra parte, la responsabilità personale dei funzionari è inesistente e quella degli eletti molto simbolica (una sconfitta elettorale, quando interviene, costituisce un prezzo da pagare più che modesto).

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Allo stato attuale delle mentalità e delle abitudini, in Francia, è inutile sognare rivoluzioni. Ma è necessario ed urgente rafforzare il solo sistema di controllo nei confronti delle collettività locali, quello della giurisdizione amministrativa o delle camere regionali dei conti: incrementare il loro personale, implementarne i mezzi, garantire l’appli-cazione delle relative decisioni con sanzioni severe, garantire il rispetto dell’esecuzione. Sarebbe egualmente opportuno che il legislatore intervenga per limitare l’eccessiva benevolenza del giudice amministrativo nei confronti dell’inerzia amministrativa. In uno Stato che si ritiene Stato di diritto, l’amministrazione deve applicare le regole oppure vedersi sanzionata se non lo fa. Al potere politico spetta, invece, di cambiare la legge se questa gli sembra inadeguata. Ma allo stato attuale delle cose, il cittadino non dispone che di ricorsi aleatori, mediocri e lunghi, spesso per sentirsi dire che l’amministrazione è padrona del suo tempo!

— Rafforzare la partecipazioneIl politologo inglese David Marquand è l’autore di una formula di

successo che si dimentica spesso di attribuirgli, quella del “deficit democratico” delle istituzioni europee. La stessa diagnosi, più o meno, potrebbe applicarsi alle collettività locali francesi, a meno che non si ritenga che un voto ogni sei anni costituisca un indicatore sufficiente di democrazia. Il problema è tanto più acuto in Francia in quanto convergono diversi elementi: l’aumento delle competenze delle autorità locali, la crescita ininterrotta della fiscalità, la concentrazione dei poteri in capo al vertice dell’esecutivo. Ora, nulla è venuto a compensare dall’angolazione della “società civile” lo squilibrio che si è operato a favore delle élites politiche. Se, come appare auspicabile, si vuole rafforzare il ruolo delle collettività locali, in Francia e nella costruzione europea, occorre che i destinatari e i beneficiari possano dire la loro. Molte riforme potrebbero essere suggerite:

a) miglioramento dell’informazione con la presentazione di un bilancio consolidato e dell’insieme degli impegni istituzionali e finanziari della collettività considerata;

b) previsione di consultazioni popolari per ogni aumento del budget (bilancio consolidato) superiore ad esempio del 2,5% all’ammontare dell’inflazione.

c) creazione, nelle grandi città, di consigli di quartiere eletti dall’intera popolazione francese e straniera che vive nel quartiere considerato. Per aggirare l’ostacolo costituzionale del diritto di voto degli stranieri, questi eletti non dovrebbero in nessun caso partecipare all’elezione dei senatori. Questi consigli potrebbero svolgere il ruolo degli attuali consigli di circoscrizione

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(arrondissement) di Parigi, Lyon e Marsiglia molto criticati al momento della loro istituzione ma apprezzati attualmente come tramite fra la popolazione e il palazzo comunale;

d) creazione di una circoscrizione elettorale regionale che possa assicurare l’adeguamento necessario fra rappresentanza e poteri;

e) elezione a suffragio universale degli organi di cooperazione intercomunali (consorzi, distretti, comunità urbane) del tutto invisibili e irresponsabili. La scelta sarebbe allora fra la moltiplicazione (irreali-stica) di consultazioni elettorali ed una ridefinizione indispensabile dello spazio urbano e rurale. Suggestione utopica, si dirà. Certo. Ma perché gli eletti, così pronti ad evocare il suffragio universale, dovrebbero rifiutarlo in favore di organi di cooperazione spesso responsabili delle decisioni maggiori in materia di lavori pubblici?

Il sistema francese non è senza meriti ma non è il luogo né il momento di esaminarli. Esso, tuttavia, non è immune da difetti ed è ora di porvi rimedio conoscendo il peso che le autorità locali hanno assunto o assumeranno nella costruzione in corso della società europea. Le autorità europee, infatti, benché abbiano un potere decisionale notevole e crescente, sono, tuttavia, del tutto sguarnite di mezzi di esecuzione. Spetta agli stati nazionali, cioè, nei fatti, alle autorità locali applicare le misure adottate a Bruxelles. Si può ben decidere di proteggere gli uccelli migratori, ma tale politica resta inefficace se gli attori locali (prefetti, sindaci) del sud-ovest rifiutano di applicarla. L’Unione europea deve dunque far perno sulle collettività locali, cruciali per assicurare la corretta applicazione del diritto comunitario. Tuttavia, questo dialogo necessario è possibile solo con un numero ridotto di interlocutori. Sarebbe utopico ritenere che i comuni francesi, tranne quattro o cinque, possano essere partners di Bruxelles. Solo le regioni possono costituire il livello adeguato a condizione di essere consolidate e rafforzate. Inoltre, occorrerebbe, dal versante francese, adottare le misure adeguate alla sfida che è in corso.

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