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Istituzioni di diritto pubblico AO a.a. 2014-2015 Prof.ssa Silvia Niccolai II Modulo 284 La forma di governo della Repubblica italiana COMPONENTI DI FONDO Quella descritta nella nostra Costituzione è una forma di governo parlamentare, in cui il Governo assume la pienezza delle sue funzioni grazie alla fiducia delle Camere, e la perde, dovendo dimettersi, quando questa fiducia viene meno. Va tenuto presente peraltro, che, sebbene la forma di governo in senso riguardi i rapporti tra gli organi di indirizzo politico, nella nostra forma di governo hanno un ruolo importante, accanto al parlamento e al governo, anche due organi “di garanzia”, cioè due organi che non hanno poteri di indirizzo politico, non sono eletti né designati dal popolo né responsabili di fronte a esso, e non perseguono un proprio progetto politico. Questi due organi sono il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale. Essi sono definiti organi di garanzia perché la finalità delle loro funzioni è quella di assicurare, quindi “garantire”, il regolare svolgimento della vita pubblica secondo le norme della Costituzione. La Corte costituzionale rimane più lontana dal circuito dell’indirizzo politico, ma le sue decisioni (la dichiarazione di incostituzionalità di una legge o di un atto avente forza di legge; la decisione di un conflitto tra i poteri dello stato) possono riverberarsi su di esso; questa influenza della giustizia costituzionale sul circuito della forma di governo ha avuto una dimostrazione eclatante quando, nel dicembre 2013, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della vigente legge elettorale. Molto più interno al circuito dell’indirizzo politico è il cioè dei rapporti tra i due organi di indirizzo politico, il Parlamento e il Governo, è il Presidente della Repubblica, che, come vedremo, è dotato di attribuzioni che lo mettono in contatto con tutte le componenti della forma di governo e in particolare lo collocano in stretto rapporto con l’Esecutivo. Il Presidente della Repubblica Il Presidente della Repubblica assolve nella nostra forma di governo alla funzione di organo imparziale chiamato a garantire il corretto svolgimento della vita istituzionale. Questa importante funzione è il tessuto connettore delle numerose attribuzionidel Capo dello Stato e viene esercitata sia attraverso il compimento di atti formali (come il rinvio di una legge per il nuovo esame alle Camere o lo scioglimento delle Camere), sia attraverso una attività informale fatta di contatti, sollecitazioni, messaggi scritti o anche “esternazioni”, come vengono chiamate le prese di posizione pubblica del Capo dello Stato su questioni di volta in volta rilevanti. Gli atti formali sono quelli previsti e descritti in Costituzione e che devono seguire certe procedure e rispettare certi requisiti (ad es. per sciogliere le Camere il Presidente deve sentire i loro Presidenti: art. 88 Cost.) ; gli atti informali sono quelli cui il Presidente dà vita in assenza di una previsione che li definisca. Nello svolgimento della sua funzione, il Capo dello stato ha attribuzioni che lo mettono in contatto con i tre poteri dello stato, legislativo, esecutivo e giudiziario. Rispetto al potere legislativo, spetta al Capo dello Stato, in particolare:

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Istituzioni di diritto pubblico AO a.a. 2014-2015 Prof.ssa Silvia Niccolai II Modulo

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La forma di governo della Repubblica italiana

COMPONENTI DI FONDO

Quella descritta nella nostra Costituzione è una forma di governo parlamentare, in cui il Governo

assume la pienezza delle sue funzioni grazie alla fiducia delle Camere, e la perde, dovendo

dimettersi, quando questa fiducia viene meno. Va tenuto presente peraltro, che, sebbene la forma

di governo in senso riguardi i rapporti tra gli organi di indirizzo politico, nella nostra forma

di governo hanno un ruolo importante, accanto al parlamento e al governo, anche due organi

“di garanzia”, cioè due organi che non hanno poteri di indirizzo politico, non sono eletti né

designati dal popolo né responsabili di fronte a esso, e non perseguono un proprio progetto

politico.

Questi due organi sono il Presidente della Repubblica e la Corte costituzionale. Essi sono

definiti organi di garanzia perché la finalità delle loro funzioni è quella di assicurare, quindi

“garantire”, il regolare svolgimento della vita pubblica secondo le norme della Costituzione.

La Corte costituzionale rimane più lontana dal circuito dell’indirizzo politico, ma le sue decisioni

(la dichiarazione di incostituzionalità di una legge o di un atto avente forza di legge; la decisione di

un conflitto tra i poteri dello stato) possono riverberarsi su di esso; questa influenza della giustizia

costituzionale sul circuito della forma di governo ha avuto una dimostrazione eclatante quando, nel

dicembre 2013, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della vigente legge

elettorale. Molto più interno al circuito dell’indirizzo politico è il cioè dei rapporti tra i due organi

di indirizzo politico, il Parlamento e il Governo, è il Presidente della Repubblica, che, come

vedremo, è dotato di attribuzioni che lo mettono in contatto con tutte le componenti della forma di

governo e in particolare lo collocano in stretto rapporto con l’Esecutivo.

Il Presidente della Repubblica

Il Presidente della Repubblica assolve nella nostra forma di governo alla funzione di organo

imparziale chiamato a garantire il corretto svolgimento della vita istituzionale.

Questa importante funzione è il tessuto connettore delle numerose attribuzionidel Capo dello Stato e

viene esercitata sia attraverso il compimento di atti formali (come il rinvio di una legge per il

nuovo esame alle Camere o lo scioglimento delle Camere), sia attraverso una attività informale

fatta di contatti, sollecitazioni, messaggi scritti o anche “esternazioni”, come vengono chiamate le

prese di posizione pubblica del Capo dello Stato su questioni di volta in volta rilevanti. Gli atti

formali sono quelli previsti e descritti in Costituzione e che devono seguire certe procedure e

rispettare certi requisiti (ad es. per sciogliere le Camere il Presidente deve sentire i loro Presidenti:

art. 88 Cost.) ; gli atti informali sono quelli cui il Presidente dà vita in assenza di una previsione

che li definisca.

Nello svolgimento della sua funzione, il Capo dello stato ha attribuzioni che lo mettono in contatto

con i tre poteri dello stato, legislativo, esecutivo e giudiziario.

Rispetto al potere legislativo, spetta al Capo dello Stato, in particolare:

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sciogliere le Camere (art. 88); indire nuove elezioni e fissarne la prima riunione (art. 87), in

modo che questa delicata scelta non sia rimessa alle valutazioni di opportunità dei due

organi che vedono da queste scelte direttamente condizionata la loro esistenza in vita e la

propria possibilità di rielezione, il Parlamento e il Governo;

promulgare le leggi (art. 87) svolgendo una valutazione sulla loro correttezza costituzionale

che può tradursi nel rinvio della legge per un nuovo esame alle Camere (art. 74) (le quali

possono peraltro riapprovare la legge senza tener conto delle osservazioni del Capo dello

Stato, che è tenuto in questo caso a promulgarla senza ulteriore indugio);

indirizzare messaggi alle Camere (art. 87).

Col potere di ‘messaggio’ il Capo dello Stato può sottoporre alle Camere un problema o

una serie di problemi che a suo avviso dovrebbero essere urgentemente considerati dalle

Camere stesse nella loro attività legislativa, indicando anche i modi con cui a suo avviso il

problema dovrebbe essere affrontato. Per esempio, nel suo unico messaggio alle Camere,

dell’8 ottobre 2013, il Presidente Napolitano si è occupato della questione del

sovraffollamento carcerario, prendendo spunto da decisioni della Corte europea dei diritti

dell’uomo che hanno condannato il nostro paese per la disumanità delle condizioni delle

nostre carceri, e ha indicato una serie di strumenti molto puntuali con cui future leggi

avrebbero dovuto a suo avviso affrontare il problema1 . Il potere di messaggio è un potere

estremamente delicato, che i Presidenti esercitano molto raramente, anche perché vi è il

rischio che il messaggio del Presidente cada per così dire nel vuoto, non abbia seguito da

parte delle Camere, il che può nuocere all’immagine istituzionale del Capo dello Stato,

indebolendone il prestigio e l’autorevolezza.

Rispetto al Governo, spetta al Capo dello Stato, in particolare:

ricevere le dimissioni del Governo e nominare il Presidente del consiglio e i ministri (art. 92

e 93 Cost.), svolgendo le delicate valutazioni che a questo riguardo possono essere implicate

da una crisi di governo in corso di legislatura;

emanare gli atti del Governo (che assumono la forma di decreti del Presidente della

Repubblica) e autorizzare la presentazione da parte del Governo di disegni di legge alle

Camere (art. 87). Delicatissima in questo campo è la valutazione che spetta al capo dello

stato sulla emanazione di decreti legge e sulla presentazione alle Camere del relativo

disegno di legge di conversione.

Strettissimamente confinanti con quelle del Governo sono le attribuzioni che il Presidente ha

nel campo della politica estera. Il Presidente accredita e riceve i rappresentanti diplomatici,

1 Li menzioniamo per dare l’idea della precisione e del grado di dettaglio che le indicazioni presidenziali possono raggiungere nel contesto di un messaggio alle Camere. Il Presidente raccomandava: “1). L'introduzione di meccanismi di probation, [cioè] per taluni reati e in caso di assenza di pericolosità sociale, la possibilità per il giudice di applicare direttamente la "messa alla prova" come pena principale. In tal modo il condannato eviterà l'ingresso in carcere venendo, da subito, assegnato a un percorso di reinserimento; 2) la previsione di pene limitative della libertà personale, ma "non carcerarie" ("reclusione presso il domicilio"); 3) la riduzione dell'area applicativa della custodia cautelare in carcere; 4) l'accrescimento dello sforzo diretto a far sì che i detenuti stranieri possano espiare la pena inflitta in Italia nei loro Paesi di origine. 5) l'attenuazione degli effetti della recidiva quale presupposto ostativo per l'ammissione dei condannati alle misure alternative alla detenzione carceraria; modifiche all'istituto della liberazione anticipata [per] detrarre dalla pena da espiare i periodi di "buona condotta" riferibili al tempo trascorso in "custodia cautelare", aumentando così le possibilità di accesso ai benefici penitenziari; 6) infine, una incisiva depenalizzazione dei reati, per i quali la previsione di una sanzione diversa da quella penale può avere una efficacia di prevenzione generale non minore. Il testo completo del messaggio, insieme a una ricca documentazione sugli atti presidenziali, è reperibile nel sito della Presidenza della Repubblica.

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ratifica i trattati internazionali previa, quando occorra, l’autorizzazione delle Camere, ha il

comando delle Forze Armate , presiede il Consiglio Supremo di Difesa e dichiara lo stato di

guerra deliberato dalle due Camere (art. 87).

Rispetto alla Magistratura, spetta al Capo dello Stato

esercita la presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura, l’organo di autogoverno

della magistratura ordinaria (art. 104).

Il Presidente inoltre ha il potere di grazia (“può concedere la grazia e commutare le pene”: art. 87)

che è un potere confinante con il campo proprio della giurisdizione.

Il Presidente della Repubblica indice il referendum popolare (87).

Ha importanti poteri di nomina. In particolare, ha il potere di scegliere cinque ‘senatori a vita’

(“Il Presidente della Repubblica può nominare senatori a vita cinque cittadini che hanno illustrato la

Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”, art. 59 comma 2

Cost.;) e un terzo dei componenti la Corte costituzionale (art. 134).

Il Presidente della Repubblica dopo la scadere del suo mandato è di diritto senatore a vita (art. 59

comma 1).

E’ molto importante tenere presente che, proprio in virtù del ruolo di garanzia che è chiamato a

esercitare, il Presidente della Repubblica non è un organo di indirizzo politico. Egli non viene

eletto in considerazione delle sue visioni politiche né tanto meno è portatore di un proprio

programma, di propri obiettivi politici. Conseguentemente, il Capo dello Stato è un organo privo

di responsabilità politica.

La responsabilità politica consiste nel rispondere per l’opportunità delle proprie azioni. La

responsabilità politica lega il Governo al Parlamento ed è sancita dal nesso fiduciario: con il

voto di fiducia, le Camere autorizzano il Governo a porre in essere il suo programma politico ma

qualora il Governo si allontani dal programma che aveva promesso di perseguire o compia azioni

che le Camere considerano inopportune, sbagliate, ingiuste – politicamente non condivisibili – esse

possono chiamarlo a rispondere fino al punto di farlo cadere con il voto di sfiducia. Un nesso di

responsabilità politica lega le Camere all’elettorato, che può far sentire il proprio dissenso verso

il modo in cui i rappresentanti eletti in Parlamento hanno svolto le loro funzioni con la critica e non

votandoli più.

Essendo privo di poteri di indirizzo politico, il Capo dello Stato non può essere chiamato a

rispondere per il senso politico delle proprie azioni, per la loro opportunità, per la loro minore o

maggiore rispondenza a promesse fatte in sede elettorale o all’atto del programma (come avviene

per il Parlamento e il Governo). Secondo l’art. 90 della Costituzione, “Il Presidente della

Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per

alto tradimento o per attentato alla Costituzione”.

L’unico tipo di responsabilità specifica prevista per il Capo dello Stato è la responsabilità, penale,

per il reato di alto tradimento e attentato alla Costituzione, due reati che possono essere compiuti

solo dal Capo dello Stato e che implicano l’essere venuto meno agli obblighi costituzionali inerenti

la sua funzione (il giudizio su questi reati è, come abbiamo visto, di competenza della Corte

costituzionale (cd. Giudizio sulle accuse: art. 90 comma 1 Cost.).

Il reato di alto tradimento e attentato alla Costituzione sono definiti “reati funzionali” cioè reati che

solo il presidente della repubblica può compiere in quanto consistenti in attività connesse alla sua

funzione. La maggioranza della dottrina ha sempre ritenuto che mentre per questi reati funzionali

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esiste la speciale procedura appena descritta, per i reati, o per i fatti illeciti, ‘extrafunzionali’ cioè

per qualunque reato si renda responsabile, o meglio possa essere imputata o chiamata a rispondere

la persona fisica che riveste la carica di presidente della Repubblica, non esiste alcuna speciale

immunità, e si applicherebbe il diritto comune. Il Presidente dunque godrebbe di una speciale

posizione nell’ordinamento che consiste nell’assenza di responsabilità politica e di responsabilità

civile e penale per tutti gli atti connessi alla sua funzione, ma avrebbe una posizione del tutto

analoga a ogni altro consociato per gli atti non connessi alla sua funzione.

In questo momento ci preme sottolineare il punto della estraneità del Capo dello Stato dal circuito

della responsabilità politica che lega il Governo al Parlamento e quest’ultimo al corpo elettorale.

Tale estraneità, ha sottolineato nel corso del tempo la dottrina, è segnalata anche dalle modalità di

elezione e durata in carica del Capo dello Stato. La durata in carica è fissata a 7 anni ed eccede

perciò la durata di una legislatura (il capo dello stato è eletto da maggioranze politiche che non

corrispondono necessariamente a quelle in carica a un dato momento della sua presidenza) e per la

sua elezione sono richieste maggioranze superiori alla maggioranza semplice (la maggioranza che

sostiene il governo non è sufficiente per eleggere il capo dello stato) e per la precisione i due terzi

nella prima e seconda votazione e la maggioranza assoluta a partire dalla terza votazione.

Il Presidente non è dunque l’espressione di una maggioranza, non riceve un ‘mandato’, non viene

eletto per un suo programma politico, non è neppure l’espressione di una volontà delle sole forze

politiche, ma dell’intera Repubblica: infatti il parlamento in seduta comune, organo competente per

la sua elezione, è integrato dalla presenza di tre rappresentanti per ogni regione (uno per la Valle

d’Aosta). Questo è il senso che viene attribuito alla espressione della Costituzione che lo definisce

come “rappresentante dell’unità nazionale” (art. 87).

La controfirma degli atti del Presidente della Repubblica

Alla irresponsabilità politica del Capo dello Stato si lega all’istituto della controfirma.

“Nessun atto del Presidente è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che se ne

assumono la responsabilità” dice l’art. 89, specificando che gli atti che hanno valore legislativo e

altri atti indicati dalla legge sono controfirmati anche dal Presidente del Consiglio dei Ministri.

Gli atti del Presidente devono essere controfirmati dal Ministro proponente, di modo che è il

governo ad assumersi la responsabilità di essi. La controfirma significa in primo luogo che il

Governo ha preso conoscenza dell’atto presidenziale.

In certi casi, l’atto che il presidente firma e il governo controfirma è in realtà un atto

governativo, un atto cioè il cui contenuto è stato voluto dal Governo (si parla in questi casi di

atti formalmente presidenziali e sostanzialmente governativi). Si pensi all’autorizzazione alla

presentazione di disegni di legge o alla emanazione dei decreti legge. In queste ipotesi il soggetto

controfirmante, cioè il ministro e per esso il Governo, è in realtà l’autore dell’atto e la firma del

Presidente sta a significare che il Presidente ha visto l’atto, e ritiene che non abbia difetti o vizi

talmente significativi da precludergli di darvi corso. E’ chiaro che il potere di firmare gli atti del

Governo, di autorizzarne l’emanazione o la presentazione, permette al Presidente di mettersi in

dialogo con il Governo, far notare cose che a suo giudizio non vanno, chiedere modifiche. In questi

casi a un atto formale (l’emanazione del decreto, per esempio), si mescola una attività informale di

contatti e scambi di informazioni e di opinione, suggerimenti e consigli più o meno perentori che il

Presidente può indirizzare al Governo per condizionare la propria autorizzazione di un atto

dell’esecutivo (è una attività informale che viene spesso designata ‘moral suasion’).

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Tra gli atti di competenza del Presidente, alcuni sono però considerati veri e propri atti

presidenziali, cioè atti il cui contenuto è deciso dal presidente della Repubblica da solo (si parla

in questi casi di atti formalmente e sostanzialmente presidenziali). Questo è il caso ad esempio delle

nomine dei giudici costituzionali, una competenza che è rimessa al Presidente proprio per la sua

posizione di indipendenza ed imparzialità. In queste ipotesi, la firma del presidente equivale a vera

e propria sottoscrizione dell’atto da parte del suo autore, e la controfirma esprime la presa d’atto e

l’assunzione di responsabilità da parte del Governo, che però non ha il potere di influire sul

contenuto dell’atto come lo ha individuato il Presidente.

Vi sono poi atti, che la dottrina ha definito talvolta atti ‘misti’ o ‘duali’ o ‘complessi’, in cui la

controfirma esprime un ulteriore e diverso significato. Si tratta di atti che sono ‘codecisi’ dal

Presidente e dal Governo, atti nei quali cioè, a differenza che nel caso degli atti “tutti

presidenziali” o degli atti “tutti governativi”, è richiesto, per formare il contenuto dell’atto, il

concorso delle volontà del Presidente e del Governo. Esempio tipico di questo tipo di atti è lo

scioglimento delle Camere, che si ritiene corretto il Presidente decida con il consenso e il concorso

del Governo. Decidere di sciogliere le camere e andare ad elezioni contro la volontà del Governo

sarebbe infatti, da parte del Presidente, una decisione così carica di politicità da cozzare contro il

suo ruolo di garanzia.

In generale, si considera ragionevole ed accettabile che il Presidente esprima una influenza sulle

decisioni del Governo, in quanto questa influenza può servire a far valere nei confronti del Governo

valutazioni sulla legittimità, correttezza, e financo opportunità dei suoi atti che, data la posizione del

Presidente, non dovrebbero rispondere ad altro che a imparziali considerazioni circa ciò che va

nell’interesse della nazione e della sua unità, che il Presidente rappresenta. E’ molto meno

ragionevole ed accettabile che il Governo, essendo per definizione organo di parte, influenzi gli atti

del Presidente, perché questo minerebbe la funzione imparziale e riequilibratrice che le decisioni e

gli atti del Presidente dovrebbero svolgere. Per questo è accettata e anzi fisiologica, entro certi

limiti, la ‘moral suasion’ del Presidente nei confronti del Governo, e non il contrario (e che cioè sia

il Governo a fare ‘moral suasion’ sul Presidente). E’ anche vero, però, che il Presidente non può

esercitare le sue funzioni come se fosse una ‘monade’ che non tiene conto di che cosa il Governo fa,

della fase politica, ecc., perché questo le renderebbe disfunzionali.

La controfirma dunque delinea come una sfera mobile e porosa che corre lungo le attribuzioni

presidenziali e nella quale avvengono contatti col Governo, contatti continui e di diversa intensità,

ed è una sfera che indica il peso rispettivo del Governo – e cioè dei partiti politici - e del Presidente

nella dinamica politica e della forma di governo. E’ importante tener presente, infatti, che la

Costituzione non stabilisce quali atti del presidente sono ‘presidenziali’, quali ‘governativi’,

quali ‘duali’ o ‘misti’. Il ‘giusto peso’ dell’uno o dell’altro organo in ciascun atto viene tracciato

dalla giurisprudenza costituzionale e dagli studiosi tenendo conto di molti elementi, e la lista degli

atti presidenziali duali o governativi può cambiare, o essere stilata in modo diverso in diversi

periodi o a seconda dei punti di vista di studiosi diversi. Per esempio, chi assume in modo molto

rigoroso alcuni principi, e cioè che la forma di governo è parlamentare, il governo è responsabile

davanti alle Camere, il presidente è un organo privo di responsabilità politica e pertanto non ha

poteri di indirizzo, tenderà a considerare più ampia la lista degli atti governativi e duali e più ridotta

quella degli atti presidenziali. Nei fatti, il progressivo indebolimento dei partiti politici, il ruolo

crescente acquistato dal presidente della repubblica nella forma di governo che si è delineato negli

ultimi anni, e su cui torneremo, si è tradotto anche in un significativo allargamento del novero

degli atti ‘tutti presidenziali’.

Ci riferimento al provvedimento di concessione della grazia. La grazia era sempre stata considerata

dalla maggior parte degli studiosi un atto squisitamente duale, misto. La grazia è un provvedimento

di clemenza che può avere grandi implicazioni e risonanza politica, per questo motivo si riteneva

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che fosse equilibrato richiedere, nella decisione sulla grazia, il convergere della valutazione

imparziale del capo dello stato e della sensibilità politica del Governo. Nei primi anni 2000 l’allora

Presidente della Repubblica Ciampi e l’allora Guardasigilli Castelli, esponente del Partito delle

Libertà, si trovarono in dissenso in ordine al se dare o meno seguito alla richiesta di grazia

presentata da Ovidio Bompressi. In gioventù esponente della formazione politica di estrema sinistra

Lotta Continua, Bompressi era in carcere per il suo coinvolgimento nell’assassinio del commissario

Calabresi, avvenuto nel 1972, uno degli episodi più tragici degli ‘anni di piombo’; gravemente

ammalato, chiedeva la grazia. Mentre Ciampi era orientato per concederla Castelli era contrario,

esprimendo anche l’orientamento del Governo. La grazia a Bompressi sarebbe stata una decisione

del tutto contraria agli orientamenti dell’elettorato che sosteneva le forze politiche allora al

Governo, e quest’ultimo, pertanto, si opponeva. Ciampi sollevò allora un conflitto di attribuzione

davanti alla Corte costituzionale per vedere sancito a chi spetta secondo la Costituzione la decisione

della grazia. Con la sentenza n. 200/2006 (emessa quando ormai era Presidente della Repubblica

Giorgio Napolitano) la Corte costituzionale sancì che il potere di grazia è un potere

squisitamente ed esclusivamente presidenziale, dunque il Ministro di Grazia e Giustizia non può

opporsi alla decisione del Capo dello Stato. La Corte costituzionale motivò quella decisione

dicendo che la grazia è un atto che risponde solo ed esclusivamente a motivazioni umanitarie, non

politiche, e per questo è rimessa al Capo dello Stato. Secondo la Corte Costituzionale:

“deve ritenersi, che l'esercizio del potere di grazia risponda a finalità essenzialmente umanitarie, da apprezzare in rapporto ad una serie di circostanze (non sempre astrattamente tipizzabili), inerenti alla persona del condannato o comunque involgenti apprezzamenti di carattere equitativo, idonee a giustificare l'adozione di un atto di clemenza individuale, il quale incide pur sempre sull'esecuzione di una pena validamente e definitivamente inflitta da un organo imparziale, il giudice, con le garanzie formali e sostanziali offerte dall'ordinamento del processo penale.

La funzione della grazia è, dunque, in definitiva, quella di attuare i valori costituzionali, consacrati nel terzo comma dell'art. 27 Cost., garantendo soprattutto il «senso di umanità», cui devono ispirarsi tutte le pene, e ciò anche nella prospettiva di assicurare il pieno rispetto del principio desumibile dall'art. 2 Cost., non senza trascurare il profilo di «rieducazione» proprio della pena.

È evidente, altresì, come – determinando l'esercizio del potere di grazia una deroga al principio di legalità – il suo impiego debba essere contenuto entro ambiti circoscritti destinati a valorizzare soltanto eccezionali esigenze di natura umanitaria. Ciò vale a superare il dubbio – al quale ha sostanzialmente fatto riferimento lo stesso Guardasigilli nella nota 24 novembre 2004, che ha occasionato il conflitto – che il suo esercizio possa dare luogo ad una violazione del principio di eguaglianza consacrato nell'art. 3 della Costituzione.

La stessa disamina della prassi formatasi sulla concessione della grazia dopo l'avvento della Costituzione repubblicana, pone in evidenza, in base a dati statistici ministeriali, l'esistenza di una ulteriore evoluzione dell'istituto, o meglio della funzione assolta con il suo impiego.

Se infatti molto frequente, fino alla metà degli anni '80 del secolo appena concluso, si è presentato il ricorso a tale strumento, tanto da legittimare l'idea di un suo possibile uso a fini di politica penitenziaria, a partire dal 1986 – ed in coincidenza, non casualmente, con l'entrata in vigore della legge 10 ottobre 1986, n. 663 (Modifiche alla legge sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) – si è assistito ad un ridimensionamento nella sua utilizzazione: valga, a titolo esemplificativo, il raffronto tra i 1.003 provvedimenti di clemenza dell'anno 1966 e gli appena 104 adottati nel 1987, ma il dato numerico è ulteriormente diminuito negli anni successivi, riducendosi fino a poche decine.

Un'evenienza, quella appena indicata, da ascrivere – come si notava – all'introduzione di una apposita legislazione in tema di trattamento carcerario ed esecuzione della pena detentiva. Ciò nella convinzione che le ordinarie esigenze di adeguamento delle sanzioni applicate a i condannati alle peculiarità dei casi concreti – esigenze fino a quel momento soddisfatte in via pressoché esclusiva attraverso l'esercizio del potere di grazia – dovessero realizzarsi mediante l'impiego, certamente più appropriato anche per la loro riconduzione alla sfera giurisdizionale, degli strumenti tipici previsti dall'ordinamento penale, processual-penale e penitenziario (ad esempio, liberazione condizionale, detenzione domiciliare, affidamento ai servizi sociali ed altri).

Ciò ha fatto sì, dunque, che l'istituto della grazia sia stato restituito – correggendo la prassi, per certi versi distorsiva, sviluppatasi nel corso dei primi decenni di applicazione della disposizione costituzionale di cui all'art. 87, undicesimo comma, Cost. – alla sua funzione di eccezionale strumento destinato a soddisfare straordinarie esigenze di natura umanitaria.

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In una certa direzione, la sentenza della Corte costituzionale è ricca di significato e di senso. Se

considerazioni di opportunità politica, come per esempio quelle di non scontentare il proprio

elettorato, potessero prevalere sulle ragioni umanitarie, quali quelle di alleviare le sofferenze di un

detenuto ormai moribondo, questo non significherebbe subordinare la dignità dell’uomo e il valore

della vita umana al calcolo di utilità politica? E’ anche sensato attribuire a un organo che secondo la

Costituzione è imparziale e non fa una propria politica, come il Capo dello Stato, il compito di dare

spazio a quelle valutazioni che l’atto di clemenza racchiude, cioè il perdono, valutazioni che in

tanto possono essere tali in quanto sono libere da secondi fini.

E’ un fatto però che il risultato della sentenza n. 200 del 2006 è stato semplicemente che il

Presidente concede la grazia autonomamente, per decisione propria, e per valutazioni

espressamente politiche e non ‘umanitarie’. Il Presidente Napolitano ha fatto molto discutere

quando, nel 2013, ha concesso la grazia al colonnello americano Joseph Romano III, condannato in

contumacia (dunque non era neppure detenuto) per avere rapito, su ordine dei servizi segreti

americani e nell’ambito della lotta al terrorismo islamico, un religioso musulmano, Abu Omar, nel

nostro territorio. In quella occasione i presupposti umanitari mancavano del tutto (come detto il

colonello americano non era neppure detenuto), e dichiaratamente l’obiettivo della grazia è stato

quello tutto politico di mantenere buone le nostre relazioni con gli Stati Uniti2.

Il potere di grazia, passato da potere ‘duale’ a potere ‘presidenziale’ è la cartina di tornasole di un

aumento dei poteri del Presidente, che con la Presidenza Napolitano ha acquisito un ruolo

autonomo di decisione e di indirizzo, forse senza precedenti, e ci avverte che la classificazione degli

atti del Capo dello Stato in presidenziali duali e misti non solo non è fissa e sancita una volta per

tutte a priori, ma descrive di periodo in periodo lo spazio e il ruolo giocati dal Capo dello Stato

nella forma di governo.

Il ruolo del Capo dello Stato

Le considerazioni fatte sin qui e le nozioni sin qui raccolte ci permettono di cogliere che il

Presidente della Repubblica è dunque un organo estremamente complesso: la sua attività è intrisa di

politicità, ma egli non è politicamente responsabile. E’ un paradosso apparente, perché un principio

dello stato di diritto imporrebbe che dove c’è potere vi sia responsabilità (L. Carlassare).

A questo apparente paradosso la dottrina costituzionalistica italiana ha risposto seguendo due

principali filoni interpretativi sul ruolo del Capo dello Stato.

Secondo una corrente di studi il Presidente della Repubblica non va considerato un organo non-

politico, ma un organo portatore di un suo particolare indirizzo politico, il cd. indirizzo politico

costituzionale. Questo lo renderebbe interprete delle esigenze profonde e durature della Nazione

davanti e in dialettica con le forze politiche di maggioranza. Per esempio, un Presidente convinto

che il bene dell’Italia sia rimanere nella Ue, approfondire i legami con questo ordinamento ecc.,

potrebbe nel corso della sua presidenza muoversi, nella scelta del presidente del consiglio, nelle sue

esternazioni, nelle nomine, ecc. sviluppando costantemente questa sua visione, cercando di imporla

ai diversi governi. La sfera della sua politicità sarebbe superiore agli indirizzi politici contingenti

portati avanti dai vari Governi, e starebbe tutta intorno e al di sopra di essi. Mentre il Governo

2 Nel provvedimento si legge che “L’esercizio del potere di clemenza ha ovviato a una situazione di evidente delicatezza sotto il profilo delle

relazioni bilaterali con un Paese amico, con il quale intercorrono rapporti di alleanza e dunque di stretta cooperazione in funzione dei

comuni obiettivi di promozione della democrazia e di tutela della sicurezza”.

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sarebbe legittimato dal rapporto con le Camere, che lo lega solo a una maggioranza, il Presidente,

eletto da una maggioranza più alta, riceverebbe, quale ‘rappresentante dell’unità nazionale’ una

sorta di mandato a sviluppare e garantire le scelte che consolidano gli interessi della Nazione, al di

là del cambiamento delle maggioranze e dei contingenti indirizzi politici. L’archetipo istituzionale

al quale la figura del presidente della Repubblica si ispirerebbe sarebbe dunque quello del Re,

immagine vivente di una unità della Nazione che permane nelle diverse fasi politiche, sovrasta la

diversità di schieramenti partitici, ne contiene e armonizza le dinamiche, capisce e vede ‘di più’, e

più lontano, circa ciò che è bene per la Nazione, di quello che le singole parti, cioè i partiti, il

governo, e il parlamento riescono a vedere.

A questa tesi si è tradizionalmente opposta l’altra, che ha spiegato il ruolo del Presidente della

Repubblica nei termini di una funzione maieutica. Secondo questa tesi il Presidente è un tramite

imparziale che permette la ricerca di soluzioni ai conflitti che agitano la vita politica, un facilitatore

di decisioni che mette la sua posizione terza e neutrale al servizio di una elaborazione dialettica e

pacifica dei vari e numerosi snodi che la vita politica e istituzionale assume. Chi ha sostenuto questa

tesi ha esaltato il legame tra Presidente e partiti politici: quando si elegge un presidente, i partiti

vanno alla ricerca di una figura ben inserita nella vita politica, che può mettersi in rapporto con tutti,

perché? Perché chi è in grado di dialogare con tutti, di mediare, di fare in modo che diversi interessi

e visioni entrino in relazione può permettere a quegli interessi e a quelle visioni, di cui sono

portatrici i partiti, di esprimersi fattivamente senza rimanere paralizzate in conflitti e divisioni.

Secondo queste interpretazioni vi è un solo indirizzo politico, quello che si sviluppa tra parlamento

e governo in funzione delle indicazioni dell’elettorato, e il Capo dello Stato ha il ruolo di facilitare

lo svolgimento dell’indirizzo politico mettendo le sue risorse di mediazione e dialogo a

disposizione delle parti. L’archetipo della figura presidenziale, nel caso di queste tesi, che si

avvalgono, per descrivere il ruolo del Presidente, di espressioni come ‘magistratura di influenza’ o

‘potere terzo e intermediario’, è quello del giudice, che esercita la virtù ‘allotria’ (rivolta al

vantaggio di altri, non al vantaggio proprio) della giustizia dando a ciascuno il suo, oppure quella

del Re-giudice di medievale memoria, che garantisce il mutuo rispetto tra tutti gli attori.

Le interpretazioni dottrinali sul ruolo di un organo costituzionale, in questo caso del Presidente, non

sono vuote esercitazioni intellettuali ma altrettanti tentativi di offrire chiavi per affrontare problemi

pratici: come è corretto, opportuno, che il Presidente si comporti in certi casi? Quanto ampia è la

sua discrezionalità nel compiere certi atti? E’ ammissibile che nomini ‘governi di sua fiducia’, o

deve sempre rimettersi alle scelte dei partiti, anche se non le condivide?

Le capacità ricostruttive (cioè di aderire alla realtà, spiegarne le componenti, offrire indirizzi

convincenti ed efficaci per la soluzione di problemi pratici) delle diverse tesi interpretative variano

nel tempo, perché nel tempo mutano le circostanze, i contesti, in cui i problemi si presentano, e

mutano le sensibilità, cioè i giudizi diffusi su ciò che, in un certo ordinamento, è importante,

pregevole e deve essere salvaguardato.

Le capacità ricostruttive della tesi delle funzioni maieutiche sono state molto forti finché è esistito

in Italia un sistema dei partiti funzionante sulla base di certe regolarità ed effettivo protagonista

della vita politica: una fase che non è andata oltre i primi anni ’90 dello scorso secolo. Da allora i

partiti vivendo crisi e trasformazioni molteplici, il Presidente sembra diventato molto spesso più un

decisore che un maieuta. La tesi dell’indirizzo politico costituzionale sembrerebbe qualche volta

confermata dalle dinamiche più recenti, e tuttavia essa presenta un fianco scoperto molto forte, che

è quello della mancanza di responsabilità politica del Capo dello Stato. Un potere politico

irresponsabile (‘sacra e inviolabile’ era la persona del Re statutario) cozza secondo molti contro le

premesse di una democrazia costituzionale: se la tesi dell’indirizzo politico costituzionale fosse

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venuta a corrispondere al vero, questo potrebbe implicare, alcuni temono, un cedimento della

tenuta delle idee di fondo di quel modello organizzativo.

Coloro che si sono sforzati di interpretare la figura presidenziale in termini armonici con le

premesse delle democrazie costituzionali (ricordiamo che: “ad ogni potere corrisponde

responsabilità”) hanno infatti non solo rifiutato l’idea del Presidente-Re, ma anche sviluppato la tesi

che il Presidente è soggetto a una forma peculiare di responsabilità, la cd responsabilità diffusa,

consistente nel, e garantita dal, dibattito delle opinioni, sui giornali, nei mass media, in ordine alle

sue azioni e alla opportunità di esse. La differenza tra il Re statutario e il Presidente correrebbe

molto su questo: del primo non si poteva parlare criticamente (semmai si potevano criticare i

suoi governi), del secondo invece si può parlare criticamente senza incorrere in un delitto di

‘lesa maestà’.

Alla crescita del ruolo del Presidente segnata – come unanimemente rilevato – dalla presidenza di

Giorgio Napolitano, ha coinciso però un accentuato restringimento della pubblicità della sua

azione e del dibattito intorno ad essa. Un episodio molto rilevante in questo senso è stato quello

inerente la utilizzabilità o meno, nel processo penale, di registrazioni telefoniche in cui –

casualmente-fosse rimasta incisa la voce del Presidente della Repubblica. All’interno delle indagini

che hanno condotto al processo che indaga su fatti di mafia e terrorismo degli anni ’90, e che è noto

all’opinione pubblica come il processo sulla “Trattativa” (si ipotizza che cariche dello stato siano

state indotte ad attenuare le condizioni carcerarie di condanni per mafia dal ricatto, della mafia

stessa, di compiere atti stragisti in caso contrario, di qui l’espressione ‘Trattativa’), i pubblici

ministeri avevano infatti raccolto anche registrazioni siffatte. Gli stessi pubblici ministeri avevano

valutato quelle registrazioni irrilevanti ai fini del processo, e la loro intenzione era distruggerle. La

legge però, in omaggio ai principi del processo accusatorio, prevede che tutte le prove in possesso

del pubblico ministero siano portate a conoscenza degli imputati e solo dopo questa udienza esse

possano essere distrutte. Infatti, può darsi benissimo che il pubblico ministero distruggerebbe

altrimenti, definendola ‘irrilevante’, una prova controproducente per l’accusa, ma per lo stesso

motivo interessante per gli imputati. La difesa di questi ultimi infatti può avvalersi anche delle

prove raccolte dal pubblico ministero. Sicché il problema era: possono i nastri contenenti la voce

del presidente essere ascoltati in questa udienza (aperta solo alle parti ossia ai loro avvocati), come

tutte le altre prove raccolte dal pm, per essere poi distrutte insieme a tutte le altre prove che

pubblica accusa e parti private hanno convenuto di ritenere irrilevanti?

Il Presidente della Repubblica ritenne in questa circostanza di sollevare conflitto di attribuzione,

davanti alla Corte costituzionale, contro la procura di Palermo, cui appartenevano i pubblici

ministeri che avevano raccolto le prove suddette. Nell’ipotesi che i nastri fossero ascoltati, e in

questo senso resi pubblici (per quanto l’udienza per la distruzione delle prove sia aperta non al

pubblico, ma solo alle parti), il Presidente ravvisava una lesione della propria sfera di competenza,

del proprio ruolo costituzionalmente garantito. La Corte costituzionale ha dato ragione al

Presidente, ritenendo che il suo ruolo costituzionale richieda che egli sia assistito, nel compimento

di tutti i suoi atti, compresi in modo particolare quelli ‘informali’, di una “sfera particolarmente

qualificata di riservatezza”.

Leggiamo qualche passaggio di questa importante decisione, la n. 1 del 2013.

8.– Nel merito, il ricorso è fondato.

8.1.– Al fine di decidere il presente conflitto di attribuzione, non è sufficiente una mera esegesi testuale di disposizioni normative, costituzionali od ordinarie, ma è necessario far riferimento all’insieme dei principi costituzionali, da cui emergono la figura ed il ruolo del Presidente della Repubblica nel sistema costituzionale italiano.

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È appena il caso di osservare, inoltre, che in tutte le sedi giurisdizionali (e quindi non solo in quella costituzionale) occorre interpretare le leggi ordinarie alla luce della Costituzione, e non viceversa. La Carta fondamentale contiene in sé principi e regole, che non soltanto si impongono sulle altre fonti e condizionano pertanto la legislazione ordinaria – determinandone la illegittimità in caso di contrasto – ma contribuiscono a conformare tale legislazione, mediante il dovere del giudice di attribuire ad ogni singola disposizione normativa il significato più aderente alle norme costituzionali, sollevando la questione di legittimità davanti a questa Corte solo quando sia impossibile, per insuperabili barriere testuali, individuare una interpretazione conforme (sentenza n. 356 del 1996). Naturalmente allo stesso principio deve ispirarsi il giudice delle leggi.

La conformità a Costituzione dell’interpretazione giudiziale non può peraltro limitarsi ad una comparazione testuale e meramente letterale tra la disposizione legislativa da interpretare e la norma costituzionale di riferimento. La Costituzione è fatta soprattutto di principi e questi ultimi sono in stretto collegamento tra loro, bilanciandosi vicendevolmente, di modo che la valutazione di conformità alla Costituzione stessa deve essere operata con riferimento al sistema, e non a singole norme, isolatamente considerate. Un’interpretazione frammentaria delle disposizioni normative, sia costituzionali che ordinarie, rischia di condurre, in molti casi, ad esiti paradossali, che finirebbero per contraddire le stesse loro finalità di tutela.

8.2.– Poste le premesse metodologiche di cui sopra, la ricostruzione del complesso delle attribuzioni del Presidente della Repubblica nel sistema costituzionale italiano mette in rilievo che lo stesso è stato collocato dalla Costituzione al di fuori dei tradizionali poteri dello Stato e, naturalmente, al di sopra di tutte le parti politiche. Egli dispone pertanto di competenze che incidono su ognuno dei citati poteri, allo scopo di salvaguardare, ad un tempo, sia la loro separazione che il loro equilibrio. Tale singolare caratteristica della posizione del Presidente si riflette sulla natura delle sue attribuzioni, che non implicano il potere di adottare decisioni nel merito di specifiche materie, ma danno allo stesso gli strumenti per indurre gli altri poteri costituzionali a svolgere correttamente le proprie funzioni, da cui devono scaturire le relative decisioni di merito. La specificità della posizione del Capo dello Stato si fonda sulla descritta natura delle sue attribuzioni, che lo differenziano dagli altri organi costituzionali, senza incidere, tuttavia, sul principio di parità tra gli stessi.

Alla luce di quanto detto, il Presidente della Repubblica «rappresenta l’unità nazionale» (art. 87, primo comma, Cost.) non soltanto nel senso dell’unità territoriale dello Stato, ma anche, e soprattutto, nel senso della coesione e dell’armonico funzionamento dei poteri, politici e di garanzia, che compongono l’assetto costituzionale della Repubblica. Si tratta di organo di moderazione e di stimolo nei confronti di altri poteri, in ipotesi tendenti ad esorbitanze o ad inerzia.

Tutti i poteri del Presidente della Repubblica hanno dunque lo scopo di consentire allo stesso di indirizzare gli appropriati impulsi ai titolari degli organi che devono assumere decisioni di merito, senza mai sostituirsi a questi, ma avviando e assecondando il loro funzionamento, oppure, in ipotesi di stasi o di blocco, adottando provvedimenti intesi a riavviare il normale ciclo di svolgimento delle funzioni costituzionali. Tali sono, ad esempio, il potere di sciogliere le Camere, per consentire al corpo elettorale di indicare la soluzione politica di uno stato di crisi, che non permette la formazione di un Governo o incide in modo grave sulla rappresentatività del Parlamento; la nomina del Presidente del Consiglio e, su proposta di questi, dei ministri, per consentire l’operatività del vertice del potere esecutivo; l’assunzione, nella sua qualità di Presidente del Consiglio superiore della magistratura, di iniziative volte a garantire le condizioni esterne per un indipendente e coerente esercizio della funzione giurisdizionale.

8.3.– Per svolgere efficacemente il proprio ruolo di garante dell’equilibrio costituzionale e di “magistratura di influenza”, il Presidente deve tessere costantemente una rete di raccordi allo scopo di armonizzare eventuali posizioni in conflitto ed asprezze polemiche, indicare ai vari titolari di organi costituzionali i principi in base ai quali possono e devono essere ricercate soluzioni il più possibile condivise dei diversi problemi che via via si pongono.

È indispensabile, in questo quadro, che il Presidente affianchi continuamente ai propri poteri formali, che si estrinsecano nell’emanazione di atti determinati e puntuali, espressamente previsti dalla Costituzione, un uso discreto di quello che è stato definito il “potere di persuasione”, essenzialmente composto di attività informali, che possono precedere o seguire l’adozione, da parte propria o di altri organi costituzionali, di specifici provvedimenti, sia per valutare, in via preventiva, la loro opportunità istituzionale, sia per saggiarne, in via successiva, l’impatto sul sistema delle relazioni tra i poteri dello Stato. Le attività informali sono pertanto inestricabilmente connesse a quelle formali.

Le suddette attività informali, fatte di incontri, comunicazioni e raffronti dialettici, implicano necessariamente considerazioni e giudizi parziali e provvisori da parte del Presidente e dei suoi interlocutori. Le attività di raccordo e di influenza possono e devono essere valutate e giudicate, positivamente o negativamente, in base ai loro risultati, non già in modo frammentario ed episodico, a seguito di estrapolazioni parziali ed indebite. L’efficacia, e la stessa praticabilità, delle funzioni di raccordo e di persuasione, sarebbero inevitabilmente compromesse dalla indiscriminata e casuale pubblicizzazione dei contenuti dei singoli atti comunicativi. Non occorrono molte parole per dimostrare che un’attività informale di stimolo, moderazione e persuasione – che costituisce il cuore del ruolo presidenziale nella forma di governo italiana – sarebbe destinata a sicuro fallimento, se si dovesse esercitare mediante dichiarazioni pubbliche. La discrezione, e quindi la riservatezza, delle comunicazioni del Presidente della Repubblica sono pertanto coessenziali al suo ruolo nell’ordinamento costituzionale. Non solo le stesse non si pongono in contrasto con la generale eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, ma costituiscono modalità imprescindibili di esercizio della funzione di equilibrio

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costituzionale – derivanti direttamente dalla Costituzione e non da altre fonti normative – dal cui mantenimento dipende la concreta possibilità di tutelare gli stessi diritti fondamentali, che in quell’equilibrio trovano la loro garanzia generale e preliminare.

9.– Dalle considerazioni svolte consegue che il Presidente della Repubblica deve poter contare sulla riservatezza assoluta delle proprie comunicazioni, non in rapporto ad una specifica funzione, ma per l’efficace esercizio di tutte. Anche le funzioni che implicano decisioni molto incisive, che si concretizzano in solenni atti formali, come lo scioglimento anticipato delle assemblee legislative (art. 88 Cost.), presuppongono che il Presidente intrattenga, nel periodo che precede l’assunzione della decisione, intensi contatti con le forze politiche rappresentate in Parlamento e con altri soggetti, esponenti della società civile e delle istituzioni, allo scopo di valutare tutte le alternative costituzionalmente possibili, sia per consentire alla legislatura di giungere alla sua naturale scadenza, sia per troncare, con l’appello agli elettori, situazioni di stallo e di ingovernabilità. La propalazione del contenuto di tali colloqui, nel corso dei quali ciascuno degli interlocutori può esprimere apprezzamenti non definitivi e valutazioni di parte su persone e formazioni politiche, sarebbe estremamente dannosa non solo per la figura e per le funzioni del Capo dello Stato, ma anche, e soprattutto, per il sistema costituzionale complessivo, che dovrebbe sopportare le conseguenze dell’acuirsi delle contrapposizioni e degli scontri.

Le stesse considerazioni è possibile fare a proposito dei contatti necessari per un efficace svolgimento del ruolo di Presidente del Consiglio superiore della magistratura, che non si riduce ai discorsi ufficiali in occasione delle sedute solenni di quest’organo o alla firma dei provvedimenti dallo stesso deliberati, ma implica la conoscenza di specifiche situazioni e particolari problemi, che attengono all’esercizio della giurisdizione a tutti i livelli, senza ovviamente alcuna interferenza con il merito degli orientamenti, processuali e sostanziali, dei giudici nell’esercizio delle loro funzioni.

Ancora va ricordato come il Capo dello Stato presieda il Consiglio supremo di difesa ed abbia il comando delle Forze armate, e come sia chiamato ad intrattenere, anche nelle vesti indicate, rapporti e comunicazioni del cui carattere riservato non occorre dare particolare dimostrazione.

Dagli esempi testé prospettati si può dedurre in quale misura, nel campo delle prerogative costituzionali, vengano in rilievo le esigenze intrinseche del sistema, che non sempre sono enunciate dalla Costituzione in norme esplicite, e che risultano peraltro del tutto evidenti, se si adotta un punto di vista sensibile alla tenuta dell’equilibrio tra i poteri. Questa Corte ha reiteratamente affermato che le prerogative degli organi costituzionali – in quanto derogatorie del principio della parità di trattamento davanti alla giurisdizione, posto alle origini della formazione dello Stato di diritto (sentenza n. 24 del 2004) – trovano fondamento nel dettato costituzionale, al quale il legislatore ordinario può dare solo stretta attuazione (sentenza n. 262 del 2009), senza aggiungere alcuna nuova deroga al diritto comune. Tale esigenza, peraltro, è soddisfatta anche quando quel fondamento, pur nell’assenza di una enunciazione formale ed espressa, emerga in modo univoco dal sistema costituzionale (sentenza n. 148 del 1983).

È evidente altresì che tutti gli organi costituzionali hanno necessità di disporre di una garanzia di riservatezza particolarmente intensa, in relazione alle rispettive comunicazioni inerenti ad attività informali, sul presupposto che tale garanzia – principio generale valevole per tutti i cittadini, ai sensi dell’art. 15 Cost. – assume contorni e finalità specifiche, se vengono in rilievo ulteriori interessi costituzionalmente meritevoli di protezione, quale l’efficace e libero svolgimento, ad esempio, dell’attività parlamentare e di governo.

Si inquadra in questa prospettiva la disposizione di cui all’art. 68, terzo comma, Cost., riguardante i membri delle due Camere, la quale stabilisce che non si possa ricorrere, nei confronti di tali soggetti, ad intercettazioni telefoniche o ad altri mezzi invasivi di ricerca della prova, se non a seguito di autorizzazione concessa dalla Camera competente. Specifiche limitazioni all’esercizio di poteri di indagine mediante atti invasivi, quali le intercettazioni telefoniche, sono previste da norme di rango costituzionale anche per i componenti del Governo (art. 10 della legge cost. 16 gennaio 1989, n. 1, recante « Modifiche degli articoli 96, 134 e 135 della Costituzione e della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, e norme in materia di procedimenti per i reati di cui all’articolo 96 della Costituzione»).

La posizione dei soggetti appena indicati e quella del Presidente della Repubblica divergono tuttavia per due distinti profili. In primo luogo, il Presidente possiede soltanto funzioni di raccordo e di equilibrio, che non implicano l’assunzione, nella sua quotidiana attività, di decisioni politiche – delle quali debba rispondere ai suoi elettori o a chi abbia accordato la fiducia – ma richiedono che ponga in collegamento tutti i titolari delle istituzioni di vertice, esercitando quei poteri di impulso, di persuasione e di moderazione, di cui si diceva prima, richiedenti necessariamente discrezione e riservatezza. Per altro verso, e non a caso, la Costituzione non prevede alcuno strumento per rimuovere la preclusione all’utilizzazione, nei confronti del Presidente, di mezzi di ricerca della prova invasivi, a differenza di quel che concerne i parlamentari ed i componenti del Governo, per i quali è possibile procedere a tali forme di controllo se la Camera competente, secondo le diverse discipline della materia, concede la prescritta autorizzazione.

Nel quadro normativo fa difetto, del resto, ogni riferimento ai soggetti istituzionali cui sarebbe possibile chiedere, da parte dell’autorità giudiziaria, una autorizzazione concernente il Presidente della Repubblica. L’assenza di una previsione non potrebbe essere superata in via interpretativa, neanche da parte di questa Corte, poiché manca in modo evidente una soluzione costituzionalmente obbligata. L’individuazione di un soggetto competente a rilasciare un’autorizzazione del genere potrebbe essere

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operata soltanto da una norma di rango costituzionale, non surrogabile da alcun altro tipo di fonte né, tanto meno, da una pronuncia del giudice costituzionale.

La mancata previsione di atti autorizzatori simili a quelli contemplati per i parlamentari ed i ministri, e la carenza inoltre di limitazioni esplicite per categorie di reati stabilite da norme costituzionali, non possono portare alla paradossale conseguenza che le comunicazioni del Presidente della Repubblica godano di una tutela inferiore a quella degli altri soggetti istituzionali menzionati, ma alla più coerente conclusione che il silenzio della Costituzione sul punto sia espressivo della inderogabilità – in linea di principio e con l’eccezione costituzionalmente necessaria di cui si dirà poco oltre – della riservatezza della sfera delle comunicazioni presidenziali.

Tale inderogabilità discende dalla posizione e dal ruolo del Capo dello Stato nel sistema costituzionale italiano e non può essere riferita ad una norma specifica ed esplicita, poiché non esiste una disposizione che individui un soggetto istituzionale competente ad autorizzare il superamento della prerogativa. Non si tratta quindi di una lacuna, ma, al contrario, della presupposizione logica, di natura giuridico-costituzionale, dell’intangibilità della sfera di comunicazioni del supremo garante dell’equilibrio tra i poteri dello Stato.

Da quanto sinora detto si deduce l’improponibilità di qualunque analogia, nella disciplina della prerogativa di riservatezza delle comunicazioni del Capo dello Stato, sia in funzione estensiva che restrittiva, con le norme contenute nella legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), da considerare attuative – specie dopo la sentenza di questa Corte n. 24 del 2004 – di una previsione costituzionale riguardante soltanto i membri del Parlamento. È proprio dallo stesso art. 68 Cost., e non dalle norme di legge ordinaria che vi hanno dato attuazione, che si può invece muovere, sulla base di una logica argomentazione a fortiori, per dare un significato, nella direzione indicata, al silenzio della Costituzione in tema di intercettazione delle comunicazioni del Presidente della Repubblica.

(…)

11.– L’art. 90 Cost. prevede che il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o attentato alla Costituzione. È opinione pacifica che l’immunità di cui alla citata norma costituzionale sia onnicomprensiva, copra cioè i settori penale, civile, amministrativo e politico. Tuttavia la perseguibilità del Capo dello Stato per i delitti di alto tradimento e di attentato alla Costituzione rende necessario che, allo scopo di accertare così gravi illeciti penali, di rilevanza non solo personale, ma istituzionale, possano essere utilizzati anche mezzi di ricerca della prova particolarmente invasivi, come le intercettazioni telefoniche. Si tratta di una limitazione logica ed implicita alla statuizione costituzionale che assoggetta il Presidente della Repubblica alla giurisdizione penale – sia pure con forme e procedimenti peculiari – in vista dell’accertamento della sua responsabilità per il compimento di uno dei suddetti reati funzionali.

La ritenuta necessità di consentire l’esercizio di poteri investigativi particolarmente penetranti, come (per quanto qui interessa) le intercettazioni telefoniche, ha indotto il legislatore ordinario a dare stretta attuazione al disposto costituzionale, mediante l’art. 7, commi 2 e 3, della legge n. 219 del 1989. Tale disciplina attribuisce al Comitato parlamentare, di cui all’art. 12 della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1 (Norme integrative della Costituzione concernenti la Corte costituzionale), il potere di deliberare i provvedimenti che dispongono intercettazioni telefoniche nei confronti del Presidente della Repubblica, sempre dopo che la Corte costituzionale abbia sospeso lo stesso dalla carica: un’eccezione, stabilita con legge ordinaria, al generale divieto, desumibile dal sistema costituzionale, di intercettare le comunicazioni del Capo dello Stato. La norma eccezionale si contiene nei limiti strettamente necessari all’attuazione processuale dell’art. 90 Cost. – che costituisce, a sua volta, norma derogatoria – disponendo, per di più, che, finanche nell’ipotesi di indagini volte all’accertamento dei più gravi delitti contro le istituzioni della Repubblica previsti dall’ordinamento costituzionale, siano interdette agli investigatori intercettazioni telefoniche nei confronti del Presidente in carica.

Lo stesso argomento a fortiori, che consente di dare un significato coerente con il sistema al silenzio della Costituzione sulle garanzie di riservatezza delle comunicazioni del Capo dello Stato, deve essere utilizzato per dedurre dalla rigorosa previsione dell’art. 7, commi 2 e 3, della legge n. 219 del 1989, la conclusione che la garanzia prevista perfino per le indagini concernenti i delitti più gravi sul piano istituzionale implica che, per tutte le altre fattispecie, non si possa ipotizzare un livello di tutela inferiore. Ciò, del resto, è esplicitamente riconosciuto anche da quella parte della dottrina che circoscrive nel modo più restrittivo le prerogative presidenziali. La stessa Procura della Repubblica di Palermo, odierna resistente, non contesta che sia inibita qualunque forma di intercettazione telefonica nei confronti del Presidente della Repubblica ed ha piuttosto incentrato le sue difese – come si vedrà poco più avanti – sull’asserita impossibilità di riferire tale divieto alle intercettazioni «casuali».

12.– Sulla base delle considerazioni sinora esposte, si deve affermare altresì che, al fine di determinare l’ampiezza della tutela della riservatezza delle comunicazioni del Presidente della Repubblica, non assume alcuna rilevanza la distinzione tra reati funzionali ed extrafunzionali, giacché l’interesse costituzionalmente protetto non è la salvaguardia della persona del titolare della carica, ma l’efficace svolgimento delle funzioni di equilibrio e raccordo tipiche del ruolo del Presidente della Repubblica nel sistema costituzionale italiano, fondato sulla separazione e sull’integrazione dei poteri dello Stato.

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13.– Ugualmente fuor di luogo sono tutte le discussioni sviluppate in questo giudizio sulla responsabilità penale del Presidente della Repubblica per reati extrafunzionali. È noto infatti come questa Corte abbia stabilito che «l’art. 90 della Costituzione sancisce la irresponsabilità del Presidente – salve le ipotesi estreme dell’alto tradimento e dell’attentato alla Costituzione – solo per gli “atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni”». La medesima pronuncia ha concluso sul punto con chiarezza: «È dunque necessario tenere ferma la distinzione fra atti e dichiarazioni inerenti all’esercizio delle funzioni, e atti e dichiarazioni che, per non essere esplicazione di tali funzioni restano addebitabili, ove forieri di responsabilità, alla persona fisica del titolare della carica» (sentenza n. 154 del 2004).

Allo scopo di fugare ogni ulteriore equivoco sul punto, va riaffermato che il Presidente, per eventuali reati commessi al di fuori dell’esercizio delle sue funzioni, è assoggettato alla medesima responsabilità penale che grava su tutti i cittadini. Ciò che invece non è ammissibile è l’utilizzazione di strumenti invasivi di ricerca della prova, quali sono le intercettazioni telefoniche, che finirebbero per coinvolgere, in modo inevitabile e indistinto, non solo le private conversazioni del Presidente, ma tutte le comunicazioni, comprese quelle necessarie per lo svolgimento delle sue essenziali funzioni istituzionali, per le quali, giova ripeterlo, si determina un intreccio continuo tra aspetti personali e funzionali, non preventivabile, e quindi non calcolabile ex ante da parte delle autorità che compiono le indagini. In tali frangenti, la ricerca della prova riguardo ad eventuali reati extrafunzionali deve avvenire con mezzi diversi (documenti, testimonianze ed altro), tali da non arrecare una lesione alla sfera di comunicazione costituzionalmente protetta del Presidente.

In definitiva, nella materia su cui incide il presente conflitto si deve procedere tenendo conto del necessario bilanciamento tra le esigenze di giustizia e gli interessi supremi delle istituzioni, senza giungere al sacrificio né delle prime né dei secondi. Va ribadito peraltro, anche a questo proposito, che il tema della responsabilità penale del Presidente della Repubblica resta estraneo all’odierno giudizio.

14.– Contrariamente a quanto sostiene la resistente, non assume neppure rilevanza – se non per il profilo che appresso si indicherà – la distinzione (tuttora oggetto di controversie nei casi concreti) tra intercettazioni dirette, indirette e casuali.

In via preliminare va ricordato come, secondo la giurisprudenza costituzionale formatasi a proposito delle indagini riguardanti parlamentari o membri del Governo, occorra distinguere tra controlli mirati all’ascolto delle comunicazioni del soggetto munito della prerogativa, e controlli casuali od occasionali, cioè intervenuti accidentalmente in forza dell’intercettazione disposta a carico di un soggetto non immune. Nella prima delle due categorie sono comprese anche le intercettazioni “indirette”, cioè quelle indagini che, pur non riguardando (a differenza delle intercettazioni “dirette”) le utenze in uso al soggetto immune, siano comunque mirate a captarne le comunicazioni, a causa del suo rapporto personale o professionale con la persona assoggettata al controllo (si vedano, in proposito, le sentenze n. 114 e n. 113 del 2010, n. 390 del 2007, nonché le ordinanze n. 171 del 2011 e n. 263 del 2010).

Nel caso in esame, l’occasionalità delle intercettazioni effettuate non è in contestazione fra le parti. Sia nell’atto introduttivo del giudizio che nella successiva memoria, lo stesso ricorrente muove, infatti, dall’esplicito presupposto che le captazioni dei colloqui presidenziali siano state operate accidentalmente, non prospettando, neppure in via di ipotesi, un intento surrettizio degli inquirenti di accedere alla sfera delle comunicazioni del Capo dello Stato tramite il monitoraggio delle utenze in uso all’indagato.

Tuttavia, anche aderendo alla concorde qualificazione operata dalle parti, ciò non comporta che le intercettazioni in questione debbano ritenersi consentite e suscettibili di utilizzazione processuale, sulla base dell’argomento che quanto è fortuito non può formare oggetto di divieto. Difatti, se il fondamento della tutela della riservatezza delle comunicazioni presidenziali non è l’espressione di una presunta – e inesistente – immunità del Presidente per i reati extrafunzionali, ma consiste nell’essenziale protezione delle attività informali di equilibrio e raccordo tra poteri dello Stato, ossia tra soggetti che svolgono funzioni, politiche o di garanzia, costituzionalmente rilevanti, allora si deve riconoscere che il livello di tutela non si abbassa per effetto della circostanza, non prevista dagli inquirenti e non conosciuta ovviamente dallo stesso Presidente, che l’intercettazione non riguardi una utenza in uso al Capo dello Stato, ma quella di un terzo destinatario di indagini giudiziarie. Si verificherebbe, secondo l’opposta opinione, la singolare situazione di una tutela costituzionale che degrada in seguito a circostanze casuali, imprevedibili anche da parte degli stessi inquirenti.

Semmai la distinzione di cui sopra potrebbe assumere rilevanza per valutare la responsabilità di chi dispone le intercettazioni, giacché diversa è la posizione di chi deliberatamente interferisce in modo illegittimo nella sfera di riservatezza di un organo costituzionale e di chi si trovi occasionalmente di fronte ad una conversazione captata nel corso di una attività di controllo legittimamente mirata verso un altro soggetto.

Se l’intercettazione è stata casuale, cioè non prevedibile né evitabile, il problema non è quello di affermare il suo divieto preventivo, che, in via generale, esiste, ma non è applicabile nella fattispecie – anche per le modalità tecniche della relativa esecuzione – proprio per la casualità e l’imprevedibilità della captazione (considerazione che priva, tra l’altro, della sua necessaria premessa logica la richiesta del ricorrente di dichiarare che non spettava agli inquirenti non interrompere la registrazione delle conversazioni). La funzione di tutela del divieto si trasferisce dalla fase anteriore all’intercettazione, in cui rileva la direzione impressa all’atto di indagine dall’autorità procedente, a quella posteriore, giacché si impone alle autorità che hanno disposto ed

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effettuato le captazioni l’obbligo di non aggravare il vulnus alla sfera di riservatezza delle comunicazioni presidenziali, adottando tutte le misure necessarie e utili per impedire la diffusione del contenuto delle intercettazioni.

Si tratta di conclusioni perfettamente compatibili con la logica dei divieti probatori nel processo penale, cui si connette la sanzione dell’inutilizzabilità della prova (art. 191 cod. proc. pen.). Tale sanzione processuale opera a garanzia dell’interesse presidiato dal divieto, a prescindere dalla responsabilità dell’inquirente per la violazione di regole procedurali nell’attività di acquisizione. Il carattere casuale di una captazione non consentita (si pensi all’episodico contatto, da parte di una persona legittimamente sottoposta ad intercettazione, con un soggetto tenuto al segreto professionale) non incide sulla necessità di tutela della riservatezza del relativo colloquio.

È chiaro dunque come, specie ai livelli di protezione assoluta che si sono riscontrati riguardo alle comunicazioni del Presidente della Repubblica, già la semplice rivelazione ai mezzi di informazione dell’esistenza delle registrazioni costituisca un vulnus che deve essere evitato. Se poi si arrivasse ad intraprendere iniziative processuali suscettibili di sfociare nella divulgazione dei contenuti delle stesse comunicazioni, la tutela costituzionale, di cui sinora si è trattato, sarebbe irrimediabilmente e totalmente compromessa. Dovere dei giudici – soggetti alla legge, e quindi, in primo luogo, alla Costituzione – è quello di evitare che ciò possa accadere e, quando ciò casualmente accada, di non portare ad ulteriori conseguenze la lesione involontariamente recata alla sfera di riservatezza costituzionalmente protetta.

15.– La soluzione del presente conflitto non può che fondarsi – in base a quanto detto sinora – sull’affermazione dell’obbligo per l’autorità giudiziaria procedente di distruggere, nel più breve tempo, le registrazioni casualmente effettuate di conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica, che nel caso di specie risultano essere quattro, peraltro intrattenute mediante linee telefoniche del Palazzo del Quirinale.

Lo strumento processuale per giungere a tale risultato, costituzionalmente imposto, non può essere quello previsto dagli artt. 268 e 269 cod. proc. pen., giacché tali norme richiedono la fissazione di un’udienza camerale, con la partecipazione di tutte le parti del giudizio, i cui difensori, secondo quanto prevede il comma 6 del citato art. 268, «hanno facoltà di esaminare gli atti e ascoltare le registrazioni», previamente depositati a tale fine. Anche la procedura di distruzione regolata dai commi 2 e 3 del citato art. 269 è incentrata, come questa Corte ha ribadito a suo tempo con la sentenza n. 463 del 1994, sull’adozione del rito camerale e dei connessi strumenti di garanzia del contraddittorio.

Un duplice ordine di motivi conduce ad escludere la legittimità del ricorso agli istituti processuali in questione.

In primo luogo, la cosiddetta «udienza di stralcio», di cui al sesto comma dell’art. 268 cod. proc. pen., è inconferente rispetto al caso che ha dato origine al conflitto, essendo strutturalmente destinata alla selezione dei colloqui che le parti giudicano rilevanti ai fini dell’accertamento dei fatti per cui è processo. Nel caso di specie nessuna valutazione di rilevanza è possibile, alla luce del riscontrato divieto di divulgare, ed a maggior ragione di utilizzare in chiave probatoria, riguardo ai fatti oggetto di investigazione, colloqui casualmente intercettati del Presidente della Repubblica. Quanto alla procedura partecipata di distruzione, essa riguarda per definizione conversazioni prive di rilevanza ma astrattamente utilizzabili, come risulta dalla clausola di esclusione inserita, riguardo alle intercettazioni delle quali sia vietata l’utilizzazione, in apertura del secondo comma dell’art. 269 cod. proc. pen.

È evidente d’altra parte, nella dimensione propria e prevalente delle tutele costituzionali, che l’adozione delle procedure indicate vanificherebbe totalmente e irrimediabilmente la garanzia della riservatezza delle comunicazioni del Presidente della Repubblica.

Esiste piuttosto un’altra norma processuale – cioè l’art. 271, comma 3, cod. proc. pen., invocato dal ricorrente – che prevede che il giudice disponga la distruzione della documentazione delle intercettazioni di cui è vietata l’utilizzazione ai sensi dei precedenti commi dello stesso articolo, in particolare e anzitutto perché «eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge», salvo che essa costituisca corpo di reato. Per le ragioni fin qui illustrate, le intercettazioni delle conversazioni del Presidente della Repubblica ricadono in tale ampia previsione, ancorché effettuate in modo occasionale.

Quanto alla procedura da seguire, nella citata disposizione non sono contenuti rinvii ad altre norme del codice di rito, e manca in particolare il richiamo all’art. 127, che invece è operato nella contigua previsione dell’art. 269 cod. proc. pen. Dunque, la norma processuale in questione non impone la fissazione di una udienza camerale “partecipata”, e neppure la esclude.

La soluzione è coerente con l’eterogeneità delle fattispecie regolate dallo stesso art. 271 cod. proc. pen., consentendo di tener conto delle diverse ragioni che sono alla base delle singole ipotesi di inutilizzabilità. Questa può derivare, per un verso, dall’inosservanza di regole procedurali, che prescindono dalla qualità dei soggetti coinvolti e dal contenuto delle comunicazioni captate: tali, in particolare, le prescrizioni degli artt. 267 e 268, commi 1 e 3, specificamente richiamate dal comma 1 dell’art. 271 cod. proc. pen., in materia di presupposti e modalità di esecuzione delle operazioni. Ma l’inutilizzabilità può connettersi anche a ragioni di ordine sostanziale, espressive di un’esigenza di tutela “rafforzata” di determinati colloqui in funzione di salvaguardia di valori e diritti di rilievo costituzionale che si affiancano al generale interesse alla segretezza delle comunicazioni (quali la libertà di religione, il diritto di difesa, la tutela della riservatezza su dati sensibili ed altro). È questo il caso, specificamente previsto dal

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successivo comma 2, delle intercettazioni di comunicazioni o conversazioni dei soggetti indicati dall’art. 200, comma 1, cod. proc. pen. (ministri di confessioni religiose, avvocati, investigatori privati, medici ed altro), allorché abbiano ad oggetto fatti conosciuti per ragione del loro ministero, ufficio o professione. Ma è questo ovviamente anche il caso dell’intercettazione, benché casuale, di colloqui del Capo dello Stato, riconducibile, come detto, all’ipotesi delle intercettazioni «eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge», cui è preliminare e distinto riferimento (come univocamente emerge dall’impiego della particella disgiuntiva «o») nel comma 1 dell’art. 271: previsione che si presta a svolgere un ruolo “di chiusura” della disciplina dell’inutilizzabilità, abbracciando fattispecie preclusive diverse e ulteriori rispetto a quelle dianzi indicate, ricavabili anche, e in primo luogo, dalla Costituzione.

A proposito delle regole da seguire ai fini della distruzione del materiale inutilizzabile, il trattamento delle due categorie di intercettazioni deve essere diverso. Le intercettazioni inutilizzabili per vizi di ordine procedurale attengono a comunicazioni di per sé non inconoscibili, e che avrebbero potuto essere legittimamente captate se fosse stata seguita la procedura corretta. La loro distruzione può pertanto seguire l’ordinaria procedura camerale, nel contraddittorio fra le parti. Nel caso invece si tratti di intercettazioni non utilizzabili per ragioni sostanziali, derivanti dalla violazione di una protezione “assoluta” del colloquio per la qualità degli interlocutori o per la pertinenza del suo oggetto, la medesima soluzione risulterebbe antitetica rispetto alla ratio della tutela. L’accesso delle altre parti del giudizio, con rischio concreto di divulgazione dei contenuti del colloquio anche al di fuori del processo, vanificherebbe l’obiettivo perseguito, sacrificando i principi e i diritti di rilievo costituzionale che si intende salvaguardare. Basti pensare alla conoscenza da parte dei terzi – o, peggio, alla diffusione mediatica – dei contenuti di una confessione resa ad un ministro del culto, ovvero all’ostensione al difensore della parte civile del colloquio riservato tra l’imputato e il suo difensore (possibile ove la procedura di cui all’art. 271, comma 3, cod. proc. pen. fosse avviata dopo l’esercizio dell’azione penale).

Nelle ipotesi ora indicate – e dunque anche, a maggior ragione (stante il rango degli interessi coinvolti), in quella dell’intercettazione di colloqui presidenziali – deve ritenersi che i principi tutelati dalla Costituzione non possano essere sacrificati in nome di una astratta simmetria processuale, peraltro non espressamente richiesta dall’art. 271, comma 3, cod. proc. pen. Né gioverebbe richiamare, in senso contrario, la sentenza di questa Corte n. 173 del 2009, che ha stabilito la necessità dell’udienza camerale, nel contraddittorio delle parti, per procedere alla distruzione dei documenti, supporti o atti recanti dati illegalmente acquisiti inerenti a comunicazioni telefoniche o telematiche, ovvero ad informazioni illegalmente raccolte. A prescindere da ogni altro possibile rilievo, si discuteva, nel caso che ha dato origine alla questione decisa con la suddetta pronuncia, di documenti che costituivano essi stessi corpo di reato, esplicitamente esclusi dalla previsione di distruzione di cui al comma 3 dell’art. 271 cod. proc. pen., palesemente inapplicabile dunque a quelle fattispecie.

16.– Le intercettazioni oggetto dell’odierno conflitto devono essere distrutte, in ogni caso, sotto il controllo del giudice, non essendo ammissibile, né richiesto dallo stesso ricorrente, che alla distruzione proceda unilateralmente il pubblico ministero. Tale controllo è garanzia di legalità con riguardo anzitutto alla effettiva riferibilità delle conversazioni intercettate al Capo dello Stato, e quindi, più in generale, quanto alla loro inutilizzabilità, in forza delle norme costituzionali ed ordinarie fin qui citate.

Ferma restando la assoluta inutilizzabilità, nel procedimento da cui trae origine il conflitto, delle intercettazioni del Presidente della Repubblica, e, in ogni caso, l’esclusione della procedura camerale “partecipata”, l’Autorità giudiziaria dovrà tenere conto della eventuale esigenza di evitare il sacrificio di interessi riferibili a principi costituzionali supremi: tutela della vita e della libertà personale e salvaguardia dell’integrità costituzionale delle istituzioni della Repubblica (art. 90 Cost.). In tali estreme ipotesi, la stessa Autorità adotterà le iniziative consentite dall’ordinamento.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara che non spettava alla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo di valutare la rilevanza delle intercettazioni di conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica, operate nell’ambito del procedimento penale n. 11609/08;

dichiara che non spettava alla stessa Procura della Repubblica di omettere di chiedere al giudice l’immediata distruzione del la documentazione relativa alle intercettazioni indicate, ai sensi dell’art. 271, comma 3, del codice di procedura penale, senza sottoposizione della stessa al contraddittorio tra le parti e con modalità idonee ad assicurare la segretezza del contenuto delle conversazioni intercettate.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 dicembre 2012.

Successivamente alla sentenza in discorso, i Presidenti delle Camere in più di una occasione hanno

proibito che all’interno delle Camere si svolgessero discussioni sul Presidente della Repubblica,

sostenendo che sarebbe ‘vietato’ parlare del Presidente della Repubblica nelle aule parlamentari o

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addirittura sarebbe proibito nominarlo. Una tesi sicuramente ardita, quanto meno se si considera che

il Parlamento ha il potere di mettere in stato d’accusa il Capo dello Stato per i delitti di alto

tradimento e di attentato alla Costituzione, e non si vede come il Parlamento potrebbe arrivare a

votare una simile mozione se prima i parlamentari non ne discutessero.

Il quadro che la sentenza n. 1 del 2013 offre della figura presidenziale è quello di un organo il

perno della cui funzione è la ‘persuasione’, l’esercizio di una influenza sugli altri poteri, che

ha bisogno, per essere efficace, di una continua attività, da parte del Capo dello Stato, di

contatti e di raccolta di informazioni e che deve essere protetta da una totale riservatezza. In

sostanza, il Presidente deve poter tutto conoscere, ma ciò che fa non deve essere conoscibile.

Questo ha spinto la dottrina recentemente ad accostare la figura del Presidente della Repubblica al

Panopticon di Jeremy Bentham.

Il fondatore dell’utilitarismo e grande filosofo e pensatore politico aveva pensato al Panopticon

come a una struttura carceraria: una struttura di forma rotonda, con tutti gli alloggiamenti dei

detenuti aperti verso l’interno e con al centro una colonna che permettesse a chi vi si collocava di

vedere tutto quello che accade nel carcere. Ma la struttura poteva servire come fabbrica, o come

ospizio per i poveri. Il Panopticon (= che vede tutto) ha ispirato la riflessione di Michel Foucault

(“Sorvegliare e punire” 1974) che vi ha visto una metafora delle caratteristiche che il potere assume

nel mondo contemporaneo, quando abbraccia tutta la società, vi si diffonde, la fagocita e si

mantiene esercitando una continua invisibile sorveglianza su tutto e su tutti. Scrive Andrea

Morrone3:

“Posto al crocevia di tutti i poteri dello Stato, il Quirinale deve poter conoscere tutte le diverse situazioni che

caratterizzano i propositi e l’azione dei diversi attori politici e istituzionali. La crescita di un simile ‘potere informativo’

non si registra solamente nei confronti degli organi dell’indirizzo politico, cioè dell’esecutivo e del parlamento, né è

limitato solamente alle occasioni nelle quali si svolgono alcuni riti della nostra Repubblica (come per esempio le

‘consultazioni’ in vista della formazione di un nuovo governo), ma diventa attività di informazione e di monitoraggio

potenzialmente continua, anche nei confronti di organi che godono di spazi di autonomia costituzionalmente riservata.

Emblematici, a questo proposito, gli interventi di Giorgio Napolitano nelle vicende giudiziarie relative all’inchiesta

‘why not’, in cui era coinvolto il ministro della Giustizia Clemente Mastella, nell’ottobre 2007, e, soprattutto, a quella

relativa allo ‘scontro’ tra le Procure della Repubblica di Catanzaro e di Salerno del 2008, quando il segretario generale

del Quirinale inviò una lettera, nella quale il Presidente della Repubblica chiedeva la ‘urgente trasmissione di ogni

notizia e –ove possibile – di ogni atto utile a conoscere una vicenda senza precedenti”. [Così] il Quirinale è venuto

assumendo nel tempo le vesti del Panopticon di Jeremy Bentham, diventandone una nuova, ennesima forma

istituzionale. Come quella mitica struttura, pure la presidenza della Repubblica si connota per ‘uno spazio di leggibilità

dettagliata’ (Foucault) che arricchisce e produce potere. Proprio come il Panopticon, il Presidente della Repubblica, per

svolgere un potere di sorveglianza assiduo e totale, deve poter disporre, più che di una presenza reale, in ogni contesto

che richiede lo svolgimento delle sue funzioni di mediazione e di equilibrio, di una ‘apparente onnipotenza’

presupposto indispensabile per ogni intervento (di freno o attivo che sia) per la sua ‘presenza reale’ (Bentham).”

Secondo lo studioso che stiamo citando, il ruolo del Capo dello Stato si specifica sempre più come

caratterizzato da un potere di comunicazione, nel senso che il potere del Capo dello Stato è fatto

di, e si esprime attraverso la, comunicazione. Il potere di comunicazione avrebbe tre componenti: la

3 Il Presidente della Repubblica in trasformazione, in Quaderni costituzionali, n. 2/2013, p. 287 ss., p. 290-291.

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raccolta di informazioni (potere informativo), l’influenza sugli altri organi (potere di persuasione),

le dichiarazioni rivolte alla stampa o all’opinione pubblica mediante comunicati, moniti, interviste,

discorsi, note rilasciate dal quirinale o lasciate filtrare, come si scrive sui giornali, da ‘ambienti

quirinalizi’ (potere di esternazione): queste tre componenti sono tutte altrettante forme di

comunicazione. Mentre il potere informativo e quello di persuasione sono naturalmente ‘riservati’

(‘privati’ anzi, spiega Morrone, ‘in quanto non accessibili a terzi, non propalabioli quanto ai loro

contenuti, e non giustiziabili’) il potere di esternazione è destinato alla conoscenza da parte di

chiunque, è fatto apposta perché il presidente ‘dica’ qualcosa al paese o anche, come spesso

avviene, alla comunità internazionale. Il ‘potere comunicativo’ del Capo dello stato, che da questi

tre poteri risulta, “ha carattere generale ed è tendenzialmente onnipervasivo, si affianca e finisce per

sovrapporsi a tutti i poteri formali modificandone i caratteri; si rivolge non solo alle istituzioni

interne ed esterne ma alla società civile, contribuisce alla formazione dell’opinione pubblica

influenzandola e orientandola. La legittimazione del Capo dello Stato non proviene più né solo né

principalmente dall’organo che lo ha eletto, dai soggetti che vi si esprimono, ma proviene dal

rapporto con la Nazione che il Presidente istituisce tramite le sue esternazioni (che spesso, tra

l’altro, insistono sui simboli nazionali, la bandiera, ecc.).

La definizione costituzionale che vuole il Presidente ‘rappresentante dell’unità nazionale’, e la cui

interpretazione ha tanto e tanto a lungo interrogato e diviso gli studiosi, assume il significato di far

rivivere il concetto di ‘rappresentanza’ che abbiamo conosciuto nel periodo liberale, quando le

istituzioni rappresentavano la Nazione nel senso di un popolo, un insieme di tradizioni, una

coscienza nazionale, ma non nel senso di derivarne per via elettorale, di doverne seguire gli

indirizzi politici, di rispondere politicamente; riemerge insomma il concetto di rappresentanza, iche

ha convissuto con sistemi politici non fondati sul suffragio universale e sulla idea di rappresentanza

(e responsabilità) politica che esso porta con sé.

A questa considerazione può essere accostata l’altra, che fa lo stesso Morrone, che il potere di

comunicazione si esprime soprattutto attraverso gli atti informali. Questo significa che gli atti

formali, ossia le competenze elencate in Costituzione come proprie del Capo dello Stato,

racchiudono solo qualcosa di secondario rispetto al ‘grosso’ dei compiti e dei poteri del Presidente.

Se le cose stanno così, va da sé che un presupposto fondamentale dello stato costituzionale di diritto

(il potere è delimitato da regole che definiscono i suoi limiti, e ne rendono controllabili e

giustiziabili gli abusi) va molto in sofferenza e il criterio di legittimazione dei poteri del Presidente

appare non consistere neppure in quello, di stampo liberale, fondato sulla legalità (il potere è

legittimo perché è legale) ma su quello, di stampo assolutistico, della ragion di stato (il potere è

legittimo perché si esercita in modo razionale rispetto agli scopi che ne sono la ragione di essere).

Potremmo essere di fronte, sia detto per inciso, a una delle tante manifestazioni della tendenza degli

atti espressivi di scelte politiche a ‘deformalizzarsi’ o ‘detipicizzarsi’, tendenza che abbiamo visto

essere caratteristica del tempo della globalizzazione.

I partiti e il sistema elettorale

Le norme della nostra Costituzione in tema di forma di governo presuppongono tutte l’esistenza dei

partiti; il modo in cui i partiti sono strutturati, i loro rapporti, le loro vicende hanno avuto un

condizionamento fortissimo nel qualificare il significato, cioè la portata effettiva, delle norme

costituzionali sulla forma di governo, e in particolare i poteri del parlamento, il rapporto tra governo

e parlamento, il comportamento del Presidente della Repubblica nella soluzione delle crisi

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Un elemento estremamente influente nel funzionamento di una forma di governo è, pertanto, il

sistema elettorale, che condiziona la composizione e l’atteggiamento dei partiti politici e il loro

rapporto reciproco e così si ripercuote sull’intera forma di governo.

Il sistema elettorale è stato definito come un modo per tradurre i voti in seggi. Infatti, il sistema

elettorale serve a stabilire quanti “posti” (seggi) in parlamento avranno i diversi partiti politici che si

candidano alle elezioni. Supponendo che gli elettori votanti siano 10 milioni, e i seggi in palio 100,

le liste candidate 5 (A, B, C, D, E,) , che ricevono una 4 milioni di voti, una 3 milioni di voti, una

un milione e mezzo di voti, una un milione e una mezzo milione di voti, quanti seggi andranno a

ciascuna di esse? Questa domanda riceve risposte diverse a seconda del sistema elettorale adottato.

I sistemi elettorali si dividono in due grandi famiglie, i sistemi proporzionali e i sistemi

maggioritari.

In linea generale, nel sistema proporzionale le liste concorrenti ricevono un numero di seggi

proporzionale ai voti ottenuti.

Nell’esempio fatto sopra, la lista A avrà 40 deputati, B 30, C 15, D 10 e E 5.

Il sistema proporzionale si associa al voto per lista e al calcolo proporzionale dei voti. Il territorio

nazionale viene diviso in circoscrizioni, e le varie liste (A B C D E) presentano i loro candidati,

raggruppati in elenchi (liste), in ciascuna circoscrizione. Per ciascuna circoscrizione si calcola il

totale dei voti, si calcola come questo totale si ripartisce tra le singole liste, e si elegge per ciascuna

lista il numero di rappresentanti proporzionale ai voti ottenuti (si tiene conto di tutte le liste di

candidati che abbiano ottenuto almeno una percentuale minima di voti, detta quoziente elettorale).

Può darsi che uno o più dei partiti in lizza in una singola circoscrizione abbia superato il quoziente

elettorale, ma non raggiunga il numero di voti sufficiente ad eleggere almeno uno dei suoi. Nel caso

del sistema elettorale vigente da noi tra il 1946 e il 1993, questi voti residui (resti) venivano

calcolati a livello nazionale (cioè sommando tutti i resti nelle singole circoscrizioni) e dalla loro

somma può uscire un deputato o due anche per una lista molto minoritaria.

Vantaggi del sistema elettorale proporzionale

I vantaggi del sistema elettorale proporzionale sono che l’organo che risulterà eletto, il Parlamento,

rispecchierà in modo fedele gli orientamenti del corpo elettorale. A meno che non vengano fissate

‘soglie di sbarramento’ (es. ottenere almeno il 4% dei voti per poter partecipare alla ripartizione dei

seggi), anche un partito con un piccolo seguito elettorale può sperare di eleggere almeno un

deputato o senatore. Di conseguenza, il sistema proporzionale incoraggia i partiti a presentarsi alle

elezioni, e dunque favorisce l’esistenza di un numero alto di formazioni partitiche; e incoraggia gli

elettori a votare, data l’alta scelta a disposizione.

Svantaggi del sistema proporzionale

D’altro canto, il sistema proporzionale, e in questo tradizionalmente molti vedono un suo

svantaggio, può avere come facile conseguenza che nessun partito ottiene un numero di seggi tale

da permettere la formazione di un governo che di quel solo partito sia espressione. Nel nostro

esempio, per fare il governo (che richiede la fiducia della maggioranza semplice, e dunque, per

sicurezza, l’avere un numero di voti in parlamento pari almeno al 51% dei seggi), nessun partito

potrebbe rappresentare da solo una maggioranza di governo, occorrerebbe almeno che A e B si

associno. Supponendo che A e B, che raccolgono il più vasto seguito nel corpo elettorale, siano

però sue partiti molto distanti tra loro, che non possono sostenere lo stesso governo, la maggioranza

potrebbe venire dalla somma di A+C, ma se anche C non va d’accordo con A, la maggioranza

richiederebbe almeno tre partiti, A+D+E. Il sistema elettorale proporzionale si associa naturalmente

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a governi di coalizione , cioè formati da più partiti. Questi governi tenderebbero ad avere un

programma più incerto e “compromissorio” (perché risulta dall’accordo tra i punti di vista diversi

dei diversi partiti membri) e una vita più debole (c’è sempre il rischio che un partito che fa parte

della maggioranza, al momento del voto in parlamento su una proposta del governo si “dissoci” e

voti con la minoranza), che non i governi composti da un solo partito (almeno se questo partito è

coeso al suo interno).

Inoltre, il governo di coalizione può dare un peso sproporzionato a un partito piccolo. Nel nostro

esempio è grazie ad E, coi suoi 5 seggi, che il governo ha la maggioranza. Con la minaccia di

dissociarsi dal governo E può avere una enorme influenza, non giustificata dal suo ridotto seguito

elettorale (cd. legge dell’ago della bilancia). Se investito in modo ricattatorio, il peso del partito

piccolo nella coalizione non corrisponde al peso che esso ha in termini elettorali, e questa

sproporzione introduce un elemento di alterazione della rappresentanza elettorale.

Il sistema elettorale maggioritario

Il sistema elettorale maggioritario assegna alle liste concorrenti un numero di seggi più che

proporzionale ai voti ottenuti e in genere tale da assicurare alla lista che ha ottenuto più voti

degli altri almeno la maggioranza assoluta in Parlamento.

Se 5 liste candidate (A, B, C, D, E,) ricevono una 4 milioni di voti, una 3 milioni di voti, una un

milione e mezzo di voti, una un milione e una mezzo milione di voti, che corrispondono al 40%,

30%, 10% e 5% dei voti, col proporzionale, la lista A avrà 40 deputati, B 30, C 15, D 10 e E 5. Con

un maggioritario, la lista A avrà almeno 51 deputati, e B C D ed E si ripartiranno i restanti 49

(mentre in precedenza se ne ripartivano 60) con un quadro che potrebbe essere B : 27, C: 13, D: 8,

E: 1. Nel maggioritario, chi ha più voti degli altri viene sovra-rappresentato, e chi ha meno voti

viene sotto-rappresentato o rischia anche di non venire rappresentato affatto, pur avendo ottenuto

voti.

I sistemi maggioritari si associano di solito a un meccanismo di attribuzione dei voti per cui ogni

circoscrizione elegge solo il o i candidati (questo varia a seconda del tipo di sistema maggioritario

adottato) che hanno ottenuto la maggioranza dei voti, o almeno più voti delle altre. Per esempio,

nella circoscrizione Lazio si candidano le nostre cinque liste A B C D E, e A ottiene più voti di

tutte: solo il candidato o i candidati di A vengono eletti. In molti casi il sistema maggioritario è

associato a circoscrizioni uninominali (le circoscrizioni elettorali sono molto piccole e in ciascuna

di esse ogni forza politica presenta candidato, viene eletto quello che raggiunge la maggioranza dei

voti o che, al ‘ballottaggio’, cioè in una seconda fase del procedimento elettorale destinata a

selezionare i due candidati che hanno raggiunto un certo numero di voti ma nessuno dei quali ha

avuto la maggioranza, supera l’avversario).

L’effetto maggioritario si ottiene anche quando al sistema proporzionale di calcolo dei voti

viene aggiunto il cd. premio di maggioranza. In queste ipotesi, i voti vengono calcolati in modo

proporzionale, ma poi si dà un premio alla lista che ha avuto più voti delle altre, di solito in modo

da darle almeno la maggioranza assoluta dei seggi (e corrispondentemente, sottraendo seggi alle

altre, rispetto a quelli cui col calcolo proporzionale avrebbero avuto titolo). Di solito si stabilisce in

questi casi una ‘soglia’ cioè una percentuale dei voti totali che un partito deve raggiungere affinché

scatti in suo favore il premio di maggioranza.

I sistemi maggioritari sono selettivi, nel senso che, anziché portare in parlamento i rappresentanti di

tendenzialmente tutte le liste che si sono presentate, tende a portarvi solo i rappresentanti delle liste

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che hanno avuto la maggioranza dei voti, mentre le forze che raggiungono anche tanti voti, ma

meno dell’altra, restano fuori.

Vantaggi e svantaggi del sistema elettorale maggioritario

I sistemi maggioritari tendono a scoraggiare le forze politiche piccole a presentarsi alle elezioni, se

non in alleanza con altre forze politiche. Tendono dunque a semplificare il sistema dei partiti

intorno a due tre grandi forze, oppure, come è accaduto da noi, a spingere i partiti a formare

coalizioni, anche ampie, pre-elettorali, cioè a presentarsi alleati alle elezioni in modo da usufruire

insieme del premio di maggioranza. I sistemi maggioritari sono anche causa di disaffezione al voto:

le persone che non si riconoscono in alcuna delle poche forze politiche che si candidano,

preferiscono infatti non votare.

Il vantaggio starebbe nella governabilità. Siccome dal sistema maggioritario esce una forza che in

Parlamento ha almeno il 51 per cento dei seggi, esso renderebbe più facile la formazione del

governo, più solida la maggioranza, più forte il programma di governo e più stabile, meno litigioso,

l’esecutivo.

I sistemi elettorali in Italia

Sino al 1993 in Italia le Camere sono state elette con un sistema elettorale proporzionale.

Anche l’Assemblea Costituente era stata eletta con questo tipo di sistema elettorale. I motivi erano

scritti nella nostra storia e nel nostro presente di allora. Il paese era uscito dalla guerra e dalla

dittatura con profonde divisioni ideologiche: il corpo elettorale si orientava tra due forze

polarizzate, un grande partito di ispirazione cattolica, filoatlantico, come la Democrazia Cristiana

(DC) e un grande partito di ispirazione comunista (PCI). Dopo anni di dittatura, la democrazia

doveva essere consolidata. Si pensò che un sistema elettorale proporzionale, che garantiva a tutti gli

elettori di vedere la forza politica in cui si riconoscevano rappresentata in parlamento, potesse

rafforzare il radicamento della democrazia. Nel 1993, per effetto di un referendum abrogativo, e

in concomitanza con un momento di profonda sfiducia nei partiti, dovuto all’emergere della

conoscenza di gravi e diffusi fatti corruttivi (“Tangentopoli”) la legge elettorale proporzionale

fu abrogata. Essa venne sostituita da un sistema di tipo maggioritario misto a elementi di

proporzionale (il 75% dei seggi veniva assegnato con metodo maggioritario e il restante 25% con

metodo maggioritario). Nel 2005, è stata approvata una nuova legge elettorale che adotta un

sistema proporzionale di calcolo dei voti con premio di maggioranza, volta a garantire che

comunque la coalizione o la singola lista più votata abbia la maggioranza in Parlamento. La legge è

stata molto criticata perché non consente agli elettori l’espressione del voto di preferenza,

riservando così interamente ai partiti la scelta sulle possibilità di successo dei candidati, e perché il

premio di maggioranza scatta a favore della coalizione che abbia avuto un solo voto più delle altre

senza bisogno che abbia raggiunto una soglia minima di voti (se il partito o la coalizione A ottiene il

26% dei voti e B il 25% dei voti, A ottiene il 51% dei seggi).

Dopo avere dichiarato inammissibile una richiesta di referendum abrogativo presentata nel 2010

contro la legge elettorale, la Corte Costituzionale ha invece accolto una questione di legittimità

costituzionale sollevata contro di essa, che è stata dichiarata incostituzionale in particolare per il

carattere spropositato del premio di maggioranza che altera e distorce gli orientamenti effettivi del

corpo elettorale, e per la mancanza della possibilità per gli elettori di esprimere preferenze.

Leggiamo alcuni stralci di questa sentenza, che è interessante anche perché in essa la Corte fa uso di

un criterio di giudizio chiamato principio di proporzionalità, che nella sua giurisprudenza più

recente sta affiancando il più tradizionale principio di ragionevolezza e quasi ne sta prendendo il

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posto. Prediletto da Corti straniere (come quella tedesca) e dalle Corti sovranazionali, il principio di

proporzionalità appare più ‘oggettivo’ della ragionevolezza perché, come vedremo leggendo la

sentenza, si traduce in una specie di test cui vengono sottoposte le misure legislative esaminate

(hanno esse compresso un diritto in una misura eccessiva, potendo esistere un modo di regolare la

materia che sacrificasse meno il diritto considerato?). Con il principio di proporzionalità si vuole

dare l’impressione che la giurisdizione ‘misuri’ e non ‘valuti’, cioè operi secondo i canoni

della razionalità scientifica. Chi ricorda le considerazioni che abbiamo fatto nel corso delle nostre

precedenti lezioni in ordine alle due accezioni, quantitativa e qualitativa, dell’eguaglianza, può forse

cogliere che la ‘proporzionalità’ riporta in prima linea una concezione quantitativa dell’uguaglianza.

Essa è la spia della larga diffusione che nei tempi attuali, dominati da finalità economicistiche,

tornano ad avere visioni ‘razionalistiche’.

La sentenza nasce da un giudizio in via incidentale. Un cittadino aveva sollevato un giudizio

affinché fosse “accertato che il suo diritto di voto non aveva potuto e non può essere esercitato in

coerenza con i principi costituzionali” dati i caratteri della vigente legge elettorale.

SENTENZA N. 1 ANNO 2014

3.1.– La questione è fondata.

Questa Corte ha da tempo ricordato che l’Assemblea Costituente, «pur manifestando, con l’approvazione di un ordine del giorno, il favore per il sistema proporzionale nell’elezione dei membri della Camera dei deputati, non intese irrigidire questa materia sul piano normativo, costituzionalizzando una scelta proporzionalistica o disponendo formalmente in ordine ai sistemi elettorali, la configurazione dei quali resta affidata alla legge ordinaria» (sentenza n. 429 del 1995). Pertanto, la «determinazione delle formule e dei sistemi elettorali costituisce un ambito nel quale si esprime con un massimo di evidenza la politicità della scelta legislativa» (sentenza n. 242 del 2012; ordinanza n. 260 del 2002; sentenza n. 107 del 1996). Il principio costituzionale di eguaglianza del voto – ha inoltre rilevato questa Corte – esige che l’esercizio dell’elettorato attivo avvenga in condizione di parità, in quanto «ciascun voto contribuisce potenzialmente e con pari efficacia alla formazione degli organi elettivi» (sentenza n. 43 del 1961), ma «non si estende […] al risultato concreto della manifestazione di volontà dell’elettore […] che dipende […] esclusivamente dal sistema che il legislatore ordinario, non avendo la Costituzione disposto al riguardo, ha adottato per le elezioni politiche e amministrative, in relazione alle mutevoli esigenze che si ricollegano alle consultazioni popolari» (sentenza n. 43 del 1961).

Non c’è, in altri termini, un modello di sistema elettorale imposto dalla Carta costituzionale, in quanto quest’ultima lascia alla discrezionalità del legislatore la scelta del sistema che ritenga più idoneo ed efficace in considerazione del contesto storico.

Il sistema elettorale, tuttavia, pur costituendo espressione dell’ampia discrezionalità legislativa, non è esente da controllo, essendo sempre censurabile in sede di giudizio di costituzionalità quando risulti manifestamente irragionevole (sentenze n. 242 del 2012 e n. 107 del 1996; ordinanza n. 260 del 2002).

In ambiti connotati da un’ampia discrezionalità legislativa, quale quello in esame, siffatto scrutinio impone a questa Corte di verificare che il bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti non sia stato realizzato con modalità tali da determinare il sacrificio o la compressione di uno di essi in misura eccessiva e pertanto incompatibile con il dettato costituzionale. Tale giudizio deve svolgersi «attraverso ponderazioni relative alla proporzionalità dei mezzi prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalità rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalità che intende perseguire, tenuto conto delle circostanze e delle limitazioni concretamente sussistenti» (sentenza n. 1130 del 1988). Il test di proporzionalità utilizzato da questa Corte come da molte delle giurisdizioni costituzionali europee, spesso insieme con quello di ragionevolezza, ed essenziale strumento della Corte di giustizia dell’Unione europea per il controllo giurisdizionale di legittimità degli atti dell’Unione e degli Stati membri, richiede di valutare se la norma oggetto di scrutinio, con la misura e le modalità di applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto, tra più misure appropriate, prescriva quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi.

Nella specie, le suddette condizioni non sono soddisfatte.

Le disposizioni censurate sono dirette ad agevolare la formazione di una adeguata maggioranza parlamentare, allo scopo di garantire la stabilità del governo del Paese e di rendere più rapido il processo decisionale, ciò che costituisce senz’altro un obiettivo

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costituzionalmente legittimo. Questo obiettivo è perseguito mediante un meccanismo premiale destinato ad essere attivato ogniqualvolta la votazione con il sistema proporzionale non abbia assicurato ad alcuna lista o coalizione di liste un numero di voti tale da tradursi in una maggioranza anche superiore a quella assoluta di seggi (340 su 630). Se dunque si verifica tale eventualità, il meccanismo premiale garantisce l’attribuzione di seggi aggiuntivi (fino alla soglia dei 340 seggi) a quella lista o coalizione di liste che abbia ottenuto anche un solo voto in più delle altre, e ciò pure nel caso che il numero di voti sia in assoluto molto esiguo, in difetto della previsione di una soglia minima di voti e/o di seggi.

Le disposizioni censurate non si limitano, tuttavia, ad introdurre un correttivo (ulteriore rispetto a quello già costituito dalla previsione di soglie di sbarramento all’accesso, di cui al n. 3 ed al n. 6 del medesimo comma 1 del citato art. 83, qui non censurati) al sistema di trasformazione dei voti in seggi «in ragione proporzionale», stabilito dall’art. 1, comma 2, del medesimo d.P.R. n. 361 del 1957, in vista del legittimo obiettivo di favorire la formazione di stabili maggioranze parlamentari e quindi di stabili governi, ma rovesciano la ratio della formula elettorale prescelta dallo stesso legislatore del 2005, che è quella di assicurare la rappresentatività dell’assemblea parlamentare. In tal modo, dette norme producono una eccessiva divaricazione tra la composizione dell’organo della rappresentanza politica, che è al centro del sistema di democrazia rappresentativa e della forma di governo parlamentare prefigurati dalla Costituzione, e la volontà dei cittadini espressa attraverso il voto, che costituisce il principale strumento di manifestazione della sovranità popolare, secondo l’art. 1, secondo comma, Cost.

In altri termini, le disposizioni in esame non impongono il raggiungimento di una soglia minima di voti alla lista (o coalizione di liste) di maggioranza relativa dei voti; e ad essa assegnano automaticamente un numero anche molto elevato di seggi, tale da trasformare, in ipotesi, una formazione che ha conseguito una percentuale pur molto ridotta di suffragi in quella che raggiunge la maggioranza assoluta dei componenti dell’assemblea. Risulta, pertanto, palese che in tal modo esse consentono una illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare, incompatibile con i principi costituzionali in base ai quali le assemblee parlamentari sono sedi esclusive della «rappresentanza politica nazionale» (art. 67 Cost.), si fondano sull’espressione del voto e quindi della sovranità popolare, ed in virtù di ciò ad esse sono affidate funzioni fondamentali, dotate di «una caratterizzazione tipica ed infungibile» (sentenza n. 106 del 2002), fra le quali vi sono, accanto a quelle di indirizzo e controllo del governo, anche le delicate funzioni connesse alla stessa garanzia della Costituzione (art. 138 Cost.): ciò che peraltro distingue il Parlamento da altre assemblee rappresentative di enti territoriali.

Il meccanismo di attribuzione del premio di maggioranza prefigurato dalle norme censurate, inserite nel sistema proporzionale introdotto con la legge n. 270 del 2005, in quanto combinato con l’assenza di una ragionevole soglia di voti minima per competere all’assegnazione del premio, è pertanto tale da determinare un’alterazione del circuito democratico definito dalla Costituzione, basato sul principio fondamentale di eguaglianza del voto (art. 48, secondo comma, Cost.). Esso, infatti, pur non vincolando il legislatore ordinario alla scelta di un determinato sistema, esige comunque che ciascun voto contribuisca potenzialmente e con pari efficacia alla formazione degli organi elettivi (sentenza n. 43 del 1961) ed assume sfumature diverse in funzione del sistema elettorale prescelto.

Le norme censurate, pur perseguendo un obiettivo di rilievo costituzionale, qual è quello della stabilità del governo del Paese e dell’efficienza dei processi decisionali nell’ambito parlamentare, dettano una disciplina che non rispetta il vincolo del minor sacrificio possibile degli altri interessi e valori costituzionalmente protetti, ponendosi in contrasto con gli artt. 1, secondo comma, 3, 48, secondo comma, e 67 Cost. In definitiva, detta disciplina non è proporzionata rispetto all’obiettivo perseguito, posto che determina una compressione della funzione rappresentativa dell’assemblea, nonché dell’eguale diritto di voto, eccessiva e tale da produrre un’alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica, sulla quale si fonda l’intera architettura dell’ordinamento costituzionale vigente.

Deve, quindi, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 83, comma 1, n. 5, e comma 2, del d.P.R. n. 361 del 1957.

4.– Le medesime argomentazioni vanno svolte anche in relazione alle censure sollevate, in relazione agli stessi parametri costituzionali, nei confronti dell’art. 17, commi 2 e 4, del d.lgs. n. 533 del 1993, che disciplina il premio di maggioranza per le elezioni del Senato della Repubblica, prevedendo che l’Ufficio elettorale regionale, qualora la coalizione di liste o la singola lista, che abbiano ottenuto il maggior numero di voti validi espressi nell’àmbito della circoscrizione, non abbiano conseguito almeno il 55 per cento dei seggi assegnati alla regione, assegni alle medesime un numero di seggi ulteriore necessario per raggiungere il 55 per cento dei seggi assegnati alla regione.

Anche queste norme, nell’attribuire in siffatto modo il premio della maggioranza assoluta, in ambito regionale, alla lista (o coalizione di liste) che abbia ottenuto semplicemente un numero maggiore di voti rispetto alle altre liste, in difetto del raggiungimento di una soglia minima, contengono una disciplina manifestamente irragionevole, che comprime la rappresentatività dell’assemblea parlamentare, attraverso la quale si esprime la sovranità popolare, in misura sproporzionata rispetto all’obiettivo perseguito (garantire la stabilità di governo e l’efficienza decisionale del sistema), incidendo anche sull’eguaglianza del voto, in violazione degli artt. 1, secondo comma, 3, 48, secondo comma, e 67 Cost.

Nella specie, il test di proporzionalità evidenzia, oltre al difetto di proporzionalità in senso stretto della disciplina censurata, anche l’inidoneità della stessa al raggiungimento dell’obiettivo perseguito, in modo più netto rispetto alla disciplina prevista per l’elezione

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della Camera dei deputati. Essa, infatti, stabilendo che l’attribuzione del premio di maggioranza è su scala regionale, produce l’effetto che la maggioranza in seno all’assemblea del Senato sia il risultato casuale di una somma di premi regionali, che può finire per rovesciare il risultato ottenuto dalle liste o coalizioni di liste su base nazionale, favorendo la formazione di maggioranze parlamentari non coincidenti nei due rami del Parlamento, pur in presenza di una distribuzione del voto nell’insieme sostanzialmente omogenea. Ciò rischia di compromettere sia il funzionamento della forma di governo parlamentare delineata dalla Costituzione repubblicana, nella quale il Governo deve avere la fiducia delle due Camere (art. 94, primo comma, Cost.), sia l’esercizio della funzione legislativa, che l’art. 70 Cost. attribuisce collettivamente alla Camera ed al Senato. In definitiva, rischia di vanificare il risultato che si intende conseguire con un’adeguata stabilità della maggioranza parlamentare e del governo. E benché tali profili costituiscano, in larga misura, l’oggetto di scelte politiche riservate al legislatore ordinario, questa Corte ha tuttavia il dovere di verificare se la disciplina legislativa violi manifestamente, come nella specie, i principi di proporzionalità e ragionevolezza e, pertanto, sia lesiva degli artt. 1, secondo comma, 3, 48, secondo comma, e 67 Cost.

Deve, pertanto, dichiararsi l’illegittimità costituzionale dell’art. 17, commi 2 e 4, del d.lgs. n. 533 del 1993.

5.– Occorre, infine, esaminare le censure relative all’art. 4, comma 2, del d.P.R. n. 361 del 1957 e, in via consequenziale, all’art. 59, comma 1, del medesimo d.P.R., nonché all’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 533 del 1993, nella parte in cui, rispettivamente, prevedono: l’art. 4, comma 2, del d.P.R. n. 361 del 1957, che «Ogni elettore dispone di un voto per la scelta della lista ai fini dell’attribuzione dei seggi in ragione proporzionale, da esprimere su un’unica scheda recante il contrassegno di ciascuna lista»; l’art. 59 del medesimo d.P.R. n. 361, che «Una scheda valida per la scelta della lista rappresenta un voto di lista»; nonché l’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 533 del 1993, che «Il voto si esprime tracciando, con la matita, sulla scheda un solo segno, comunque apposto, sul rettangolo contenente il contrassegno della lista prescelta».

Secondo il rimettente, tali disposizioni, non consentendo all’elettore di esprimere alcuna preferenza, ma solo di scegliere una lista di partito, cui è rimessa la designazione e la collocazione in lista di tutti i candidati, renderebbero il voto sostanzialmente “indiretto”, posto che i partiti non possono sostituirsi al corpo elettorale e che l’art. 67 Cost. presuppone l’esistenza di un mandato conferito direttamente dagli elettori. Ciò violerebbe gli artt. 56, primo comma, e 58, primo comma, Cost., l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 3 del protocollo 1 della CEDU, che riconosce al popolo il diritto alla “scelta del corpo legislativo”, e l’art. 49 Cost. Inoltre, sottraendo all’elettore la facoltà di scegliere l’eletto, farebbero sì che il voto non sia né libero, né personale, in violazione dell’art. 48, secondo comma, Cost.

5.1.– La questione è fondata nei termini di seguito precisati.

Le norme censurate, concernenti le modalità di espressione del voto per l’elezione dei componenti, rispettivamente, della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica, si inseriscono in un contesto normativo in base al quale tale voto avviene per liste concorrenti di candidati presentati «secondo un determinato ordine», in numero «non inferiore a un terzo e non superiore ai seggi assegnati alla circoscrizione». Le circoscrizioni elettorali, la cui disciplina non è investita dalle censure qui esaminate, corrispondono sempre, per il Senato, ai territori delle Regioni; per la Camera dei deputati, le circoscrizioni corrispondono ai territori regionali, con l’eccezione delle Regioni di maggiori dimensioni, nelle quali sono presenti due circoscrizioni (Piemonte, Veneto, Lazio, Campania e Sicilia) o tre (Lombardia).

La ripartizione dei seggi tra le liste concorrenti è, inoltre, effettuata in ragione proporzionale, con l’eventuale attribuzione del premio di maggioranza, che è definito, per il Senato, «di coalizione regionale»; e sono proclamati «eletti, nei limiti dei seggi ai quali ciascuna lista ha diritto, i candidati compresi nella lista medesima, secondo l’ordine di presentazione» nella lista.

In questo quadro, le disposizioni censurate, nello stabilire che il voto espresso dall’elettore, destinato a determinare per intero la composizione della Camera e del Senato, è un voto per la scelta della lista, escludono ogni facoltà dell’elettore di incidere sull’elezione dei propri rappresentanti, la quale dipende, oltre che, ovviamente, dal numero dei seggi ottenuti dalla lista di appartenenza, dall’ordine di presentazione dei candidati nella stessa, ordine di presentazione che è sostanzialmente deciso dai partiti. La scelta dell’elettore, in altri termini, si traduce in un voto di preferenza esclusivamente per la lista, che – in quanto presentata in circoscrizioni elettorali molto ampie, come si è rilevato – contiene un numero assai elevato di candidati, che può corrispondere all’intero numero dei seggi assegnati alla circoscrizione, e li rende, di conseguenza, difficilmente conoscibili dall’elettore stesso.

Una simile disciplina priva l’elettore di ogni margine di scelta dei propri rappresentanti, scelta che è totalmente rimessa ai partiti. A tal proposito, questa Corte ha chiarito che «le funzioni attribuite ai partiti politici dalla legge ordinaria al fine di eleggere le assemblee – quali la “presentazione di alternative elettorali” e la “selezione dei candidati alle cariche elettive pubbliche” – non consentono di desumere l’esistenza di attribuzioni costituzionali, ma costituiscono il modo in cui il legislatore ordinario ha ritenuto di raccordare il diritto, costituzionalmente riconosciuto ai cittadini, di associarsi in una pluralità di partiti con la rappresentanza politica, necessaria per concorrere nell’ambito del procedimento elettorale, e trovano solo un fondamento nello stesso art. 49 Cost.» (ordinanza n. 79 del 2006). Simili funzioni devono, quindi, essere preordinate ad agevolare la partecipazione alla vita politica dei cittadini ed alla realizzazione di linee programmatiche che le formazioni politiche sottopongono al corpo elettorale, al fine di consentire una scelta più chiara e consapevole anche in riferimento ai candidati.

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Sulla base di analoghi argomenti, questa Corte si è già espressa, sia pure con riferimento al sistema elettorale vigente nel 1975 per i Comuni al di sotto dei 5.000 abitanti, contraddistinto anche esso dalla ripartizione dei seggi in ragione proporzionale fra liste concorrenti di candidati. In quella occasione, la Corte ha affermato che la circostanza che il legislatore abbia lasciato ai partiti il compito di indicare l’ordine di presentazione delle candidature non lede in alcun modo la libertà di voto del cittadino: a condizione che quest’ultimo sia «pur sempre libero e garantito nella sua manifestazione di volontà, sia nella scelta del raggruppamento che concorre alle elezioni, sia nel votare questo o quel candidato incluso nella lista prescelta, attraverso il voto di preferenza» (sentenza n. 203 del 1975).

Nella specie, tale libertà risulta compromessa, posto che il cittadino è chiamato a determinare l’elezione di tutti i deputati e di tutti senatori, votando un elenco spesso assai lungo (nelle circoscrizioni più popolose) di candidati, che difficilmente conosce. Questi, invero, sono individuati sulla base di scelte operate dai partiti, che si riflettono nell’ordine di presentazione, sì che anche l’aspettativa relativa all’elezione in riferimento allo stesso ordine di lista può essere delusa, tenuto conto della possibilità di candidature multiple e della facoltà dell’eletto di optare per altre circoscrizioni sulla base delle indicazioni del partito.

In definitiva, è la circostanza che alla totalità dei parlamentari eletti, senza alcuna eccezione, manca il sostegno della indicazione personale dei cittadini, che ferisce la logica della rappresentanza consegnata nella Costituzione. Simili condizioni di voto, che impongono al cittadino, scegliendo una lista, di scegliere in blocco anche tutti i numerosi candidati in essa elencati, che non ha avuto modo di conoscere e valutare e che sono automaticamente destinati, in ragione della posizione in lista, a diventare deputati o senatori, rendono la disciplina in esame non comparabile né con altri sistemi caratterizzati da liste bloccate solo per una parte dei seggi, né con altri caratterizzati da circoscrizioni elettorali di dimensioni territorialmente ridotte, nelle quali il numero dei candidati da eleggere sia talmente esiguo da garantire l’effettiva conoscibilità degli stessi e con essa l’effettività della scelta e la libertà del voto (al pari di quanto accade nel caso dei collegi uninominali).

Le condizioni stabilite dalle norme censurate sono, viceversa, tali da alterare per l’intero complesso dei parlamentari il rapporto di rappresentanza fra elettori ed eletti. Anzi, impedendo che esso si costituisca correttamente e direttamente, coartano la libertà di scelta degli elettori nell’elezione dei propri rappresentanti in Parlamento, che costituisce una delle principali espressioni della sovranità popolare, e pertanto contraddicono il principio democratico, incidendo sulla stessa libertà del voto di cui all’art. 48 Cost. (sentenza n. 16 del 1978).

Deve, pertanto, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale degli artt. 4, comma 2, e 59 del d.P.R. n. 361 del 1957, nonché dell’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 533 del 1993, nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza per i candidati, al fine di determinarne l’elezione.

Resta, pertanto, assorbita la questione proposta in riferimento all’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 3 del protocollo 1 della CEDU. Peraltro, nessun rilievo assume la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 13 marzo 2012 (caso Saccomanno e altri contro Italia), resa a seguito di un ricorso proposto da alcuni cittadini italiani che deducevano la pretesa violazione di quel parametro precisamente dalle norme elettorali qui in esame, sentenza che ha dichiarato tutti i motivi di ricorso manifestamente infondati, sul presupposto dell’«ampio margine di discrezionalità di cui dispongono gli Stati in materia» (paragrafo 64). Spetta, in definitiva, a questa Corte di verificare la compatibilità delle norme in questione con la Costituzione.

6.– La normativa che resta in vigore per effetto della dichiarata illegittimità costituzionale delle disposizioni oggetto delle questioni sollevate dalla Corte di cassazione è «complessivamente idonea a garantire il rinnovo, in ogni momento, dell’organo costituzionale elettivo», così come richiesto dalla costante giurisprudenza di questa Corte (da ultimo, sentenza n. 13 del 2012). Le leggi elettorali sono, infatti, “costituzionalmente necessarie”, in quanto «indispensabili per assicurare il funzionamento e la continuità degli organi costituzionali» (sentenza n. 13 del 2012; analogamente, sentenze n. 15 e n. 16 del 2008, n. 13 del 1999, n. 26 del 1997, n. 5 del 1995, n. 32 del 1993, n. 47 del 1991, n. 29 del 1987), dovendosi inoltre scongiurare l’eventualità di «paralizzare il potere di scioglimento del Presidente della Repubblica previsto dall’art. 88 Cost.» (sentenza n. 13 del 2012).

7.– È evidente, infine, che la decisione che si assume, di annullamento delle norme censurate, avendo modificato in parte qua la normativa che disciplina le elezioni per la Camera e per il Senato, produrrà i suoi effetti esclusivamente in occasione di una nuova consultazione elettorale, consultazione che si dovrà effettuare o secondo le regole contenute nella normativa che resta in vigore a seguito della presente decisione, ovvero secondo la nuova normativa elettorale eventualmente adottata dalle Camere.

Essa, pertanto, non tocca in alcun modo gli atti posti in essere in conseguenza di quanto stabilito durante il vigore delle norme annullate, compresi gli esiti delle elezioni svoltesi e gli atti adottati dal Parlamento eletto. Vale appena ricordare che il principio secondo il quale gli effetti delle sentenze di accoglimento di questa Corte, alla stregua dell’art. 136 Cost. e dell’art. 30 della legge n. 87 del 1953, risalgono fino al momento di entrata in vigore della norma annullata, principio «che suole essere enunciato con il ricorso alla formula della c.d. “retroattività” di dette sentenze, vale però soltanto per i rapporti tuttora pendenti, con conseguente esclusione di quelli esauriti, i quali rimangono regolati dalla legge dichiarata invalida» (sentenza n. 139 del 1984).

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Le elezioni che si sono svolte in applicazione anche delle norme elettorali dichiarate costituzionalmente illegittime costituiscono, in definitiva, e con ogni evidenza, un fatto concluso, posto che il processo di composizione delle Camere si compie con la proclamazione degli eletti.

Del pari, non sono riguardati gli atti che le Camere adotteranno prima che si svolgano nuove consultazioni elettorali.

Rileva nella specie il principio fondamentale della continuità dello Stato, che non è un’astrazione e dunque si realizza in concreto attraverso la continuità in particolare dei suoi organi costituzionali: di tutti gli organi costituzionali, a cominciare dal Parlamento. È pertanto fuori di ogni ragionevole dubbio – è appena il caso di ribadirlo – che nessuna incidenza è in grado di spiegare la presente decisione neppure con riferimento agli atti che le Camere adotteranno prima di nuove consultazioni elettorali: le Camere sono organi costituzionalmente necessari ed indefettibili e non possono in alcun momento cessare di esistere o perdere la capacità di deliberare. Tanto ciò è vero che, proprio al fine di assicurare la continuità dello Stato, è la stessa Costituzione a prevedere, ad esempio, a seguito delle elezioni, la prorogatio dei poteri delle Camere precedenti «finchè non siano riunite le nuove Camere» (art. 61 Cost.), come anche a prescrivere che le Camere, «anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni» per la conversione in legge di decreti-legge adottati dal Governo (art. 77, secondo comma, Cost.).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 83, comma 1, n. 5, e comma 2, del d.P.R. 30 marzo 1957 n. 361 (Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati);

2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 17, commi 2 e 4, del decreto legislativo 20 dicembre 1993, n. 533 (Testo unico delle leggi recanti norme per l’elezione del Senato della Repubblica);

3) dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 4, comma 2, e 59 del d.P.R. n. 361 del 1957, nonché dell’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 533 del 1993, nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza per i candidati.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 dicembre 2013.

Per effetto di questa decisione, tutte le parti della legge elettorale dichiarate incostituzionali sono

state annullate e pertanto la legge elettorale del 2005 è rimasta in vigore ma senza il premio di

maggioranza e con il metodo delle preferenze. Siccome un principio fondamentale di ogni

democrazia costituzionale, richiamato molte volte dalla stessa Corte costituzionale, e anche nella

sentenza che abbiamo appena letto, è che per nessun motivo per nemmeno un’ora un paese può

vivere senza una legge elettorale (perché significherebbe che le elezioni non sono possibili,

dunque che il principio di sovranità popolare è infranto). In teoria, dunque, già dal giorno

successivo la dichiarazione di incostituzionalità elezioni avrebbero potuto essere convocate e si

sarebbero potute svolgere, e vi è chi ha considerato questa scelta non solo opportuna, ma anche

doverosa, perché i rapporti di forza attualmente presenti in Parlamento, particolarmente il numero di

seggi, dunque di voti, di cui dispone il partito che ha goduto del premio di maggioranza sono il

frutto di una alterazione della rappresentanza politica. Tuttavia, questa scelta è stata

immediatamente esclusa dal capo dello Stato e dal Governo allora in carica e dalle forze politiche,

per un motivo tutto sommato intuibile: ogni legge elettorale è il frutto di previsioni su quelli che

saranno i risultati elettorali, la si fa, diciamo, in vista dell’ottenimento di certi schemi di governo, e

votare con una legge che non è il risultato di quelle previsioni, ma dell’abrogazione di una parte di

una legge preesistente sarebbe, per i partiti, esporsi al rischio di risultati ‘a caso’, ‘fuori schema’ che

‘renderebbero difficile la governabilità’. Le forze politiche però, a un anno dalla dichiarazione di

incostituzionalità del ‘Porcellum’, non hanno raggiunto un accordo sulla nuova legge elettorale (che

va sotto il nome di ‘Italicum’): i nodi sono se attribuire il premio di coalizione al partito o alla

coalizione di partiti che si presenti alleata alle elezioni; dove fissare la soglia per ottenere il premio

di maggioranza, come reintrodurre le preferenze. Quest’ultimo è un problema molto grave per le

forze politiche, perché le la mancanza di preferenze consente di comporre le liste dei candidati in

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modo del tutto deciso dal partito, e offre a quest’ultimo un notevole potere ‘di ricatto’ sui suoi eletti,

garantendo una maggiore ‘fedeltà’.

Nei fatti, dunque, abbiamo una legge elettorale formalmente vigente, ma è una legge elettorale con

cui ‘non si può’ andare a votare perché darebbe risultati imprevedibili, a cominciare dalla

impossibilità per i partiti di controllare la selezione degli eletti che deriverebbe dalla reintroduzione

piena delle preferenze. In questa condizione, avere una legge elettorale o non averla fa poca

differenza, di fatto le elezioni non sono ‘politicamente’ possibili, e questo può giustificare qualche

preoccupazione in relazione allo ‘stato di salute’ del principio di sovranità popolare in Italia, che

appare in qualche modo condizionato o subordinato alle ‘compatibilità’ dei partiti (se i partiti non

sono ‘pronti’ per un motivo o per un altro, ad andare ad elezioni, non si vota a meno che non scada

la legislatura). Questo dato non costituisce una novità, lo si può per certi versi addirittura

considerare fisiologico in una democrazia fondata sulla rappresentanza partitica. Gli scioglimenti

anticipati, la decisione di andare ad elezioni prima della scadenza della legislatura, hanno sempre

corrisposto, da noi, a momenti di ri-allocazione dei rapporti tra i partiti e di ri-definizione delle

alleanze di governo. In altre democrazie parlamentari si concede normalmente al Governo di

sciogliere le camere quando al partito che è al governo ciò sembra opportuno per avere una

conferma o un rafforzamento della propria maggioranza. Tuttavia non era mai successo, e non

succede nelle democrazie, come quella britannica, che spesso vengono portate a esempio di modelli

meglio funzionanti del nostro, che il controllo dei partiti sul momento elettorale si traducesse in una

incertezza su quale sarà la legge elettorale con cui andremo a votare (la vecchia? Una nuova?). In

democrazia, si è sempre detto, le regole devono pre-esistere al gioco, mentre l’incertezza sulla legge

elettorale dà icasticamente l’immagine di giocatori (i partiti) che ri-modellano le regole del gioco in

funzione della partita che stanno giocando, o meglio, che sono disposti ad andare a giocare solo

dopo essersi assicurati quale esito avrà. Una partita, in altri termini, del cui risultato sembra che gli

elettori siano quasi apertamente chiamati solo a dare una ratifica a posteriori.

Uno strumento di democrazia diretta in un sistema imperniato sulla

democrazia rappresentativa: il referendum abrogativo

Insieme al referendum confermativo previsto nel procedimento di revisione costituzionale il

referendum abrogativo è l’unico strumento di democrazia diretta previsto dalla nostra Costituzione

ed è uno strumento attraverso il quale il corpo elettorale si esprime, anziché eleggendo i propri

rappresentanti, direttamente su una certa questione. Vediamone il funzionamento.

ll procedimento referendario

Secondo l’art. 75 della nostra Costituzione

“E’ indetto referendum popolare per deliberare l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto

avente valore di legge, quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque consigli regionali.

“Non è ammesso referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e indulto, di autorizzazione alla

ratifica dei trattati internazionali.

“Hanno diritto a partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati.

“La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli

aventi diritto, e se si è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi.

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La Costituzione istituisce il referendum e ne pone, nelle grandi linee, il procedimento; dice inoltre

che certi tipi di legge non sono sottoposti a referendum. La legge costituzionale del 1948 che regola

i procedimenti davanti alla Corte costituzionale previde inoltre che il giudizio sulla ammissibilità

del referendum spettasse a quest’ultima. Ma per fare funzionare effettivamente l’istituto occorreva

una legge che lo regolasse nel dettaglio, e questa legge è stata approvata solo nel 1970 (prima di

allora, dunque, il referendum era un istituto esistente solo ‘sulla carta’).

In base al combinato disposto della Costituzione, della legge costituzionale sul funzionamento della

Corte costituzionale e della legge ordinaria sul referendum, il procedimento referendario è il

seguente:

a dare il via al procedimento è il comitato promotore, un gruppo di persone che individua il

quesito referendario, cioè la legge da abrogare e le parti di essa che si intende abrogare e predispone

la domanda che si sottoporrà al popolo. Il comitato procede alla raccolta delle firme;

una volta raccolte le firme, il quesito e le firme vengono depositati presso un organo appositamente

istituito, l’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di Cassazione, che esamina la

regolarità delle firme, e controlla inoltre che il quesito riguardi disposizioni di legge effettivamente

in vigore. (Se il referendum è a iniziativa regionale il procedimento non richiede raccolta di firme e

inizia con l’esame del quesito e della sua regolarità da parte dell’Ufficio centrale).

Una volta superato il controllo presso l’Ufficio centrale, il quesito passa alla Corte costituzionale,

che esamina l’ammissibilità.

Se il quesito supera l’esame di ammissibilità, che deve concludersi entro il 10 febbraio, la

consultazione referendaria viene fissata in una domenica tra il 15 aprile e il 15 giugno successivi.

Bisogna tenere presente che durante tutto il corso del procedimento referendario il parlamento rimane in

grado di modificare la legge sottoposta a referendum. Originariamente la legge del 1970 prevedeva che

qualunque modifica apportata alla legge sottoposta al referendum comportasse l’automatica cessazione del

procedimento referendario, anche se il referendum era già stato indetto. In tal modo si faceva salva la

possibilità di evitare il referendum approvando una modifica anche solo apparente della legge sulla quale il

referendum era stato richiesto. In seguito a una pronuncia della Corte costituzionale è stato chiarito che se la

legge sottoposta a referendum viene modificata nell’intervallo tra il giudizio di ammissibilità e la data delle

operazioni di voto, l’Ufficio centrale per il referendum deve esaminare la nuova legge e, a meno che

quest’ultima non rappresenti una modifica reale della legge previgente, esso trasferisce il quesito sulla nuova

legge.

Requisiti di ammissibilità del referendum

Con una importantissima decisione del 1976, la Corte costituzionale ha anche dettato una serie di

principi sulla ammissibilità del referendum, che integrano le previsioni dell’art. 75. Si è trattato di

una sentenza-legge, cioè di una sentenza che ha stabilito che per i casi futuri la Corte avrebbe

osservato, nel sindacare la ammissibilità del referendum, tutta una serie di criteri che non stanno

scritti nell’art. 75 ma che la Corte, nella sua sentenza, concepisce come logicamente discendenti da

quello che nell’art. 75 è detto espressamente.

L’art. 75 stabilisce due criteri: che il referendum deve avere ad oggetto leggi o atti aventi forza di

legge (decreti legge e leggi delegate) e che esso non può riguardare leggi tributarie e di bilancio, di

amnistia e indulto, di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali. Il motivo per cui queste

categorie di leggi non possono essere sottoposte al referendum è che nel primo caso (leggi

tributarie) sarebbe fin troppo prevedibile che leggi che prevedono tasse sarebbero abrogate;

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nell’ultimo (leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali) l’abrogazione potrebbe

esporre lo stato, firmatario di un trattato, a una responsabilità internazionale; inoltre, tutte queste

leggi hanno a che vedere con le manifestazioni fondamentali della sovranità (il bilancio, l’esenzione

dalle pene, i rapporti internazionali).

Partendo dai due criteri esplicitamente posti dall’art. 75 la Corte ha desunto che devono altresì

considerarsi esclusi dal referendum:

a) Le leggi costituzionali e di revisione costituzionale e gli atti regolamentari (in quanto sono

ammesse solo le leggi e gli atti aventi forza di legge, dunque devono ritenersi esclusi da referendum

tutti gli altri atti normativi);

b) Le leggi ordinarie che hanno una particolare connessione con la Costituzione e le leggi

costituzionali e di revisione costituzionale, e cioè b1) le leggi costituzionalmente necessarie, e b2)

le leggi a contenuto costituzionalmente vincolato.

Le leggi costituzionalmente necessarie sono le leggi ordinarie che sono necessarie a permettere il

funzionamento di organi o istituti costituzionali. Rientra tra queste la legge elettorale, non potendosi

ammettere in una democrazia, ha detto più volte la Corte, che anche per un solo giorno manchi la

legge che rende possibile lo svolgimento delle elezioni. Tuttavia, di fronte a richieste di referendum

di tale forza politica (come quelle che hanno teso all’abrogazione della legge elettorale

proporzionale del 1993) che non sarebbe stato possibile, sensato arginarle dichiarando

inammissibile il referendum (ciò che sarebbe suonato come una autoritaria limitazione della

possibilità per il popolo di esprimersi su una materia molto importante), la Corte ha in seguito

precisato che, in caso di referendum che hanno ad oggetto leggi elettorali, occorre che il quesito sia

formulato in modo tale che dall’eventuale abrogazione esca una normativa in grado di funzionare.

Perciò, il quesito referendario in caso di referendum su legge elettorale deve essere un quesito

‘manipolativo’: un quesito che toglie varie parti alla legge elettorale vigente e le toglie in modo che

quello che resta disegni una legge elettorale funzionante (e diversa da quella vigente).

Le leggi a contenuto costituzionalmente vincolato sono le leggi ordinarie che contengono alcune

scelte così corrispondenti ai principi e ai valori costituzionali che devono essere considerate come

loro attuazione e pertanto indisponibili. Per esempio, la Corte costituzionale ha dato applicazione a

questo criterio nel 2004 in occasione dei referendum sulla legge sulla fecondazione assistita. Erano

stati presentati diversi quesiti, uno dei quali prevedeva l’abrogazione della parte della legge in cui si

parla di “interesse dell’embrione”, considerando l’embrione come un essere vivente che ha diritto

alla vita. Questo quesito è stato considerato inammissibile perché ‘costituzionalmente vincolato’ nel

senso che la protezione dell’interesse dell’embrione è, a giudizio della Corte, una scelta che non

riflette le sole preferenze della maggioranza che ha approvato la legge sulla fecondazione assistita,

ma il valore costituzionale della protezione della vita.

c) Le leggi ‘connesse’ a quelle espressamente enunciate nell’art. 75, cioè che hanno

caratteristiche, contenuti e finalità analoghe; per esempio la legge finanziaria come legge connessa a

quella di bilancio.

Altri limiti sono stati dedotti dall’art. 48 che riguarda il diritto di voto e che dice che il voto è

‘personale, uguale, libero e segreto’. Dal principio di libertà del voto la Corte ha dedotto il criterio

secondo cui il quesito referendario deve essere univoco, chiaro ed omogeneo. Infatti, se

all’elettore viene sottoposto un quesito non chiaro, oppure se gli si sottopone nello stesso quesito la

domanda se abrogare parti diverse di una legge, la libertà del voto è coartata, in quanto l’elettore

potrebbe voler abrogare una parte della legge, ma non l’altra parte, ma, se le due parti sono investite

da un unico quesito, all’elettore non rimane che dire sì o no all’abrogazione di tutte e due le parti,

così vedendo impedita la propria libertà di scelta.

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L’innesto del referendum nella forma di governo

In Italia è stata molto discussa e studiata una tematica che va sotto il nome di ‘innesto’ del

referendum nella forma di governo: strumento di democrazia diretta inserito in una democrazia

rappresentativa, il referendum esprime funzioni molto complesse dovute al fatto che esso esprime

una interazione del corpo elettorale nell’agenda dei partiti e delle istituzioni rappresentative, e

questa interazione può avere vari effetti ed esiti.

Nel suo Manuale di diritto costituzionale, il costituzionalista Francesco Bilancia individua queste

diverse possibilità di “innesto”:

a) Il referendum può determinare l’ingresso nell’arena politica di nuovi soggetti, gruppi,

partiti, che non erano rappresentati fino a quel momento in Parlamento. Si può pensare

all’esempio del Partito radicale, nato di fatto come movimento di opinione ed affermatosi poi nel

sistema politico rappresentativo proprio grazie al sistematico ricorso all’istituto del referendum, a

partire alla metà degli anni 1970. Oppure, più di recente, primi anni 1990, al movimento per la

riforma elettorale in senso maggioritario: il comitato promotore aveva tutte le premesse per dare

vita a una nuova forza politica, che però poi si è ‘sciolta’ all’interno di diversi partiti.

b) Il referendum può essere utilizzato dai partiti, da soli o in alleanza con gruppi spontanei

della società civile, per ottenere certi effetti all’interno o nei confronti del sistema dei partiti. Il

referendum sul divorzio, primo referendum della storia del Paese (1974) si risolse in parte in un

attacco alle componenti più conservatrici della Democrazia cristiana, attacco nato anche all’interno

della stessa DC, le cui correnti più progressiste e favorevoli a una futura alleanza con il PCI

favorirono il referendum, sperando che la vittoria dei no all’abrogazione del divorzio indebolisse le

correnti più conservatrici; il referendum sull’aborto (1978) originò da una iniziativa dei Radicali e

di forze di estrema sinistra anche come attacco al Partito comunista, che non intendeva affrontare il

tema dell’aborto né altri temi che lo avrebbero troppo diviso dalla Democrazia cristiana rallentando

o impedendo la strategia del compromesso storico, e che veniva perciò ‘denunciato’ come troppo

poco sensibile a temi progressisti; i referendum elettorali del 1993 (che per la loro importanza

costituiscono peraltro un caso a sé) hanno determinato una radicale trasformazione dell’intero

sistema politico italiano; in altri casi a noi più recenti, il referendum in materia elettorale è stato

strumentalizzato, scrive Bilancia, dai partiti di maggioranza relativa allo scopo di sovra-

rappresentare se stessi in Parlamento, mediante l’accentuazione dei caratteri maggioritari del

sistema elettorale. E' stato il caso dei referendum del 2009 coi quali si intendeva abrogare la parte

della legge elettorale che richiede ai partiti di allearsi in coalizioni prima delle elezioni, e pertanto

divide tra di loro il premio elettorale. Se il referendum fosse passato, questo avrebbe garantito una

sovra-rappresentazione al partito che ottenesse più voti, sostanzialmente nullificando il peso di tutti

gli altri partiti. In quel caso non si raggiunse il quorum necessario a rendere valido il referendum (è

necessario infatti che al referendum partecipi la maggioranza degli elettori, altrimenti le operazioni

non sono valide).

c) Ci sono però anche i casi in cui il referendum esprime più direttamente quella che in fondo

dovrebbe essere la sua funzione più autentica, vale a dire i casi di referendum come strumento

che consente a una minoranza di costringere la maggioranza parlamentare a tenere conto,

nella propria agenda, “di argomenti, materie che altrimenti non otterrebbero alcuna

attenzione o spazio nel dibattito politico. Oppure ancora per costringere gli sviluppi della

legislazione futura nel quadro di opzioni politiche determinate”, come è stato il caso dei referendum

del 2010 su energia nucleare, servizi pubblici locali e legittimo impedimento, che non solo hanno

abrogato leggi vigenti ma hanno valso a indicare una volontà piuttosto netta del corpo elettorale

verso scelte, come l’esclusione del ricorso all’energia nucleare, che vincolano anche il legislatore

futuro.

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I tipi di referendum a) e b) sono quelli in cui esso è, in verità, strumento di riorganizzazione del

sistema dei partiti e proseguimento di lotte ad esso interne; il caso c) quello in cui esso dà voce

all’opinione pubblica aprendo varchi in un dibattito politico qualche volta autoreferenziale.