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Istituzioni di diritto pubblico AO a.a. 2015-2016– Prof.ssa Silvia Niccolai Capitolo III: Assolutismo e Rivoluzione Sommario del capitolo Capitolo III Parte I – L’Assolutismo A. L’Assolutismo. 1.Monarchia assoluta. Sovranità. Potere amministrativo. Il laboratorio che ha forgiato lo Stato in senso contemporaneo nell’Europa continentale. 2. Il diritto pubblico verso una nuova polarizzazione: strumento del potere o strumento di opposizione al potere? B. Le tappe e le componenti dell’esperienza assolutista. 1. La rottura con la Costituzione antica. 2. La nascita dell’amministrazione. 3. (continua) Svuotamento dei poteri intermedi. 4. (continua) Frenetico attivismo regolamentare 5. (continua) La Police. 6. (continua) Disciplinamento sociale. 7. Interventismo economico. 8. (continua) Mercantilismo. 9. (continua) Utilitarismo. 10 (continua) Nazionalizzazione dei mercati. 11. L’assolutismo e la sua crisi: le sopravvivenza dell’antico ordine. C. L’assolutismo come teatro del conflitto tra il nuovo potere amministrativo e l’antico potere giurisdizionale 1. Il conflitto tra amministrazione e giurisdizione come conflitto tra due forme diverse di razionalità. 2. (continua) L’avvento della ragione strumentale. 3. (continua) Volontarismo. 2. Il conflitto tra amministrazione e giurisdizione come conflitto tra il nuovo apparato burocratico amministrativo e l’antico ceto giudiziario. Capitolo III Parte II – Il tornante rivoluzionario e l’età napoleonica A. Il tornante rivoluzionario e l’età napoleonica 1.La stagione in cui si scrive la grammatica del potere pubblico dell’età contemporanea, e dei problemi che lo accompagnano. 2. Le costituzioni rivoluzionarie: i contenuti. 3. Uguaglianza ‘naturale’ e ‘davanti alla legge’. 3. (continua) L’uguaglianza davanti alla legge e il problema dell’onnipotenza del legislatore. 4. (continua) Conseguenze e implicazioni dell’affermazione dell’eguaglianza giuridica. 6. Razionalismo. 7. La separazione dei poteri. 8. La traiettoria delle forme di governo tra Rivoluzione e Impero. B. La burocratizzazione della giurisdizione 1. La burocratizzazione della giurisdizione. 2. La codificazione. 3. Riflessi sulla ragione giuridica: l’avvento della logica dimostrativa e 38

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Capitolo III: Assolutismo e Rivoluzione

Sommario del capitolo

Capitolo III Parte I – L’Assolutismo

A. L’Assolutismo.

1.Monarchia assoluta. Sovranità. Potere amministrativo. Il laboratorio che ha forgiato lo Stato in senso contemporaneo nell’Europa continentale. 2. Il diritto pubblico verso una nuova polarizzazione: strumento del potere o strumento di opposizione al potere?

B. Le tappe e le componenti dell’esperienza assolutista.

1. La rottura con la Costituzione antica. 2. La nascita dell’amministrazione. 3. (continua) Svuotamento dei poteri intermedi. 4. (continua) Frenetico attivismo regolamentare 5. (continua) La Police. 6. (continua) Disciplinamento sociale. 7. Interventismo economico. 8. (continua) Mercantilismo. 9. (continua) Utilitarismo. 10 (continua) Nazionalizzazione dei mercati. 11. L’assolutismo e la sua crisi: le sopravvivenza dell’antico ordine.

C. L’assolutismo come teatro del conflitto tra il nuovo potere amministrativo e l’antico potere giurisdizionale

1. Il conflitto tra amministrazione e giurisdizione come conflitto tra due forme diverse di razionalità. 2. (continua) L’avvento della ragione strumentale. 3. (continua) Volontarismo. 2. Il conflitto tra amministrazione e giurisdizione come conflitto tra il nuovo apparato burocratico amministrativo e l’antico ceto giudiziario.

Capitolo III Parte II – Il tornante rivoluzionario e l’età napoleonica

A. Il tornante rivoluzionario e l’età napoleonica

1.La stagione in cui si scrive la grammatica del potere pubblico dell’età contemporanea, e dei problemi che lo accompagnano. 2. Le costituzioni rivoluzionarie: i contenuti. 3. Uguaglianza ‘naturale’ e ‘davanti alla legge’. 3. (continua) L’uguaglianza davanti alla legge e il problema dell’onnipotenza del legislatore. 4. (continua) Conseguenze e implicazioni dell’affermazione dell’eguaglianza giuridica. 6. Razionalismo. 7. La separazione dei poteri. 8. La traiettoria delle forme di governo tra Rivoluzione e Impero.

B. La burocratizzazione della giurisdizione

1. La burocratizzazione della giurisdizione. 2. La codificazione. 3. Riflessi sulla ragione giuridica: l’avvento della logica dimostrativa e del sillogismo giudiziale nel ragionamento giuridico. 4. Il positivismo statualista.

C. La consacrazione dell’amministrazione

1. L’acquisto di attività di concreta gestione, oltre a quelle regolamentari e contenziose. 2. La strutturazione in corpo gerarchicamente organizzato. 3. Il consolidamento del principio secondo cui l’amministrazione si giudica da sé e la nascita della giustizia amministrativa. 4. La definitiva conquista dell’esecutorietà. 5. L’autonomia del potere regolamentare dalla legge.

D. Trasformazione senza rivoluzione. Cenno all’Assolutismo illuminato di area germanica.

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CAPITOLO III PARTE I: L’ASSOLUTISMO

A. L’assolutismo

1.Assolutismo. Monarchia assoluta. Sovranità. Potere amministrativo. Il laboratorio che ha forgiato lo Stato in senso contemporaneo nell’Europa continentale

L’assolutismo è la fase di passaggio tra l’ordine antico e quello moderno e contemporaneo, il quale prende forma con la Rivoluzione francese. La Rivoluzione scolpì le caratteristiche di fondo dello stato quale oggi lo intendiamo. Ma molte di esse si erano venute formando durante l’assolutismo.

Lo stato assoluto è una esperienza politica che si regge sulla dottrina secondo cui il sovrano non è soggetto al diritto, ma è, invece, creatore di diritto, non è garante dell’ordine giuridico quale gli preesiste, ma è colui che quell’ordine modifica e nel quale introduce il nuovo. L’assolutismo, così, rompe la concezione medievale del comando come giustizia, e della legittimazione del potere in base al diritto, per sostituirla, da un lato, con l'idea che il sovrano è la fonte del diritto, ne è l'autore, che il diritto nasce dalla volontà del sovrano, e, dall’altro lato, con l’idea che i poteri inerenti la sovranità si legittimano in quanto sono funzionali alla realizzazione dell’interesse dello Stato, o interesse generale. Le prassi e le sperimentazioni istituzionali del periodo assolutistico sono altrettanti tentativi di tradurre in pratica questi nuovi principi. Perciò l’assolutismo è il laboratorio delle idee su cui si fonda l’architettura organizzativa e concettuale dello stato contemporaneo, in cui gli attributi del Sovrano si trasferiscono alla entità impersonale ‘stato’.

La forma di governo dell’assolutismo è la monarchia assoluta, nella quale il sovrano governa, o aspira a governare, senza il rispetto e il concorso di altri poteri, secondo quanto invece stabiliva la concezione del governo misto dell'ordine antico. Gli organismi rappresentativi dei ceti perdono importanza, e il Sovrano tende a governare con l’assistenza di soli organi da esso nominati e che sono sua emanazione, i quali vanno a comporre un potere di nuovo conio, il potere amministrativo, del quale il Sovrano è il capo.

Il modello e le idee dell'esperienza assolutista furono fornite dall’Italia, dove, come vedremo successivamente, per una serie di circostanze, risalenti generalmente ai vuoti di potere lasciati dalla lontananza, in certe aree del paese, del potere imperiale, erano sorte Signorie o principati, svincolati dalle forme politiche dell’ordine antico, e la cui esperienza formò oggetto di influenti teorie politiche. Qui prese forma l'idea del princeps absolutus, cioè sciolto (questo il significato della parola latina ab-solutus) dall'osservanza del diritto antico, e creatore egli stesso del diritto.

Machiavelli, osservando l'esperienza politica dei principati italiani, e per definire la nuova posizione di sovranità in cui si trovavano, pose l’accento sull'indipendenza verso l'esterno, che era l’aspetto di particolare pregnanza in Italia, i cui territori erano tutti soggetti a una autorità superiore, imperiale o papale; Machiavelli, perciò, chiamò Stato quella entità politica che non riconosce superiori e che è 'principio di se stessa", e pertanto vive per la propria conservazione. L’interesse dello stato alla propria conservazione e alla realizzazione dei propri fini, la ragion di stato, nella concezione machiavelliana giustifica qualunque mezzo venga adottato per soddisfarlo. Con l’introduzione dell’idea, assolutistica, per cui lo stato è portatore di propri fini, che sono inerenti alla sua conservazione e alla sua realizzazione, faceva la sua comparsa il principio della subordinazione dell'etica alla politica1. In Francia, Jean Bodin, costruendo una nuova teoria giustificatrice delle 1 ) V. per questa osservazione N. Picardi, La giurisdizione all’alba del terzo millennio, Giuffrè Editore, Milano, 2007, p. 92. L’opera di Machiavelli cui si fa riferimento nel testo sono i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, redatti

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aspirazioni dei sovrani suoi contemporanei che, già indipendenti verso l'esterno erano ora intenti ad affermare la propria supremazia verso l'interno, sostenne che della sovranità faceva parte integrante il potere di creare il diritto, e che quest'ultimo era il frutto della volontà del sovrano, il quale era libero di abrogare il diritto previgente e crearne uno nuovo. Nelle due dottrine sono contenute le caratteristiche d'insieme dell'assolutismo, quali risaltavano di più dal diverso punto di osservazione in cui era collocato chi le osservava: la configurazione di una sovranità intesa da un lato come indipendenza da poteri esterni e superiori, e, dall’altro lato, come supremazia nei confronti di qualunque altro potere che si trovi all'interno dello Stato.

Per le sue fondamentali ripercussioni in ordine alla struttura, all'organizzazione e alle funzioni dei poteri pubblici, dell'assolutismo interessa, al diritto pubblico, soprattutto il processo di formazione della supremazia verso l'interno. Questo processo si realizza attraverso il progressivo svuotamento delle 'libertà politiche', ossia dei poteri dei ceti e delle comunità territoriali dell’ordine antico, nelle cui prerogative, privilegi, usi e consuetudini consisteva la ‘legge del paese’, vale a dire quel 'diritto' a cui il Sovrano assoluto aspira a sostituirne uno nuovo e di suo conio; ai cui apparati, organismi e magistrature, il Sovrano affianca e sovrappone, tende a sostituire, la propria amministrazione.

La traiettoria attraverso la quale la vicenda assolutista si realizza è fatta, dunque, di due fondamentali componenti: da un lato, la creazione di un potere nuovo, l’amministrazione, un corpo burocratico dipendente dal sovrano e che risponde solo a lui. L’amministrazione assorbirà le funzioni di cui le autonomie private vengono progressivamente svuotate e cercherà di sottrarsi sempre di più al controllo dei propri atti da parte dei giudici, in nome del fatto che quegli atti rispondono a una insindacabile ‘ragion di stato’. Dall’altro lato, e parallelamente, l’indebolimento delle prerogative dei corpi giudiziari, interpreti e detentori del diritto antico, mediante il quale indebolimento si esprime il venir meno delle prerogative dei vari corpi intermedi, dei ceti e dei territori.

Come avremo modo di sottolineare nel corso di questo capitolo, la nascita della amministrazione, proprio perché avviene come pretesa di sottrarre certe aree dell’azione statale dal sindacato giudiziario, è anche il venire ad emergere di un modo di concepire i problemi, di pensare, di vedere la società del tutto diverso da quello che era proprio dell’ordine antico (in una parola: l’emersione di una nuova forma di razionalità). L’ordine antico aveva una modalità ‘giurisdizionale’ di concepire l’azione pubblica, l’effettività di ogni comando gli appariva condizionata dalla domanda ‘è esso corrispondente al diritto’? Nell’assolutismo l’effettività del comando sarà fondata sull’affermazione ‘esso corrisponde alla ragion di stato, all’interesse pubblico’ che l’amministrazione del sovrano interpreta. E’ un diverso modo di fondare e giustificare il potere, di concepire le relazioni tra stato e società, che non abbandonerà mai più la scena del diritto pubblico europeo continentale. Anche quando, nello stato ottocentesco, si dirà (riconoscendosi più di quanto non si fosse fino ad allora fatto le esigenze di controllo e di limitazione del potere pubblico), che anche l’amministrazione agisce sulla base del diritto, questa esigenza sarà realizzata affermando anche, però, che quel diritto sulla cui base la amministrazione, il pubblico potere, agisce, è un diritto speciale che ne protegge il compito di valutare ed attuare l’interesse pubblico.

2.Il diritto pubblico verso una nuova polarizzazione. Strumento del potere o strumento di opposizione al potere?

Nel corso dell’assolutismo, cambia l'idea stessa di "diritto" e di ‘potere’, e il rapporto che si istituisce tra questi due termini. Se nell'ordine antico il diritto era dato da un insieme di prescrizioni

intorno al 1515, reperibili in Opere Complete, Milano, 1960. Quella di Jean Bodin sono i Six Livres de la Republique, apparsi del 1583 (edizione italiana Torino, 1988-1987).

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dell'origine più varia (contratti feudali, consuetudini, privilegi cittadini, deliberazioni delle Assemblee degli Stati, ordini e rescritti sovrani, sentenze giudiziarie, statuti delle corporazioni... ), di cui nessuna autorità poteva dirsi la sola fonte, il solo autore, e il diritto era concepito come un fenomeno spontaneo, involontario, di carattere pattizio e tradizionale, dunque radicato nel passato, nell'assolutismo prenderà progressivamente piede l'idea che il diritto è lo strumento attraverso il quale la società viene indirizzata verso quei cambiamenti conformi alla volontà del sovrano (e cioè utili), lo strumento che abbatte concezioni e istituzioni tradizionali e ne crea di nuovi.

Il diritto tende in quest’epoca ad assumere quella caratterizzazione, ancora oggi molto presente nel modo in cui esso viene tematizzato, che vede il diritto come strumento del quale la volontà politica si avvale per guidare e indirizzare la società. In questo contesto matura perciò anche l’idea che la legge, in quanto espressiva della volontà del sovrano, è fonte del diritto superiore a ogni altra, cioè deve trovare applicazione e rispetto anche laddove confligga col diritto preesistente. Corrispondentemente, il potere pubblico prende in questa fase una piegatura, che lo colloca in posizione asimmetrica rispetto alla società, cioè in una posizione di superiorità. Il potere pubblico si definisce, rispetto alla sfera privata, come portatore di propri fini (pubblici, appunto) dotati di prioritaria importanza e destinati per definizione a prevalere sugli interessi privati.

D’altra parte, si genera proprio in quest’epoca, e per reazione opposta alla riduzione del diritto a strumento del potere, anche una immagine contraria, che vede il diritto come antagonista rispetto al potere. Sono gemmazioni di quest’epoca la concezione del ‘diritto naturale’ come insieme di prerogative naturali e imprescrittibili dell’uomo e che il potere non può infrangere, rimodellare, travolgere; o le tesi che affermano il diritto di resistenza (Locke) dei popoli davanti al tiranno2 (Teorie del Secondo Diritto Naturale). Del resto, è proprio in nome del conflitto tra gubernaculum e jurisdictio che l’assolutismo in Francia svolge i suoi ultimi atti, che conducono allo scoppio della Rivoluzione.

Anche sotto questo profilo, l’assolutismo è rottura dell’ordine antico: si rompe con esso l’idea che diritto e potere convivano nello sforzo di realizzazione della giustizia, e il diritto diviene o strumento del potere o suo oppositore. Il diritto pubblico viene teorizzato in quest’epoca sia come insieme delle forme in cui il potere sovrano si manifesta, sia come ambito delle prerogative tradizionali, dei diritti, delle norme comuni e superiori anche al sovrano. Dal primo ambito si genererà il diritto amministrativo, scienza del potere e delle sue forme e manifestazioni; dal secondo il diritto costituzionale, scienza dei limiti del potere. Sono mutazioni che si rifletteranno, e continuano a riflettersi, nello stesso ruolo sociale, e nella composizione antropologica e nelle mentalità del ceto dei giuristi, diviso, ancora oggi, tra ‘consiglieri del principe’ e critici del potere.

B.Le tappe e le componenti dell’esperienza assolutista2 “Le discussioni sul diritto, la loro stessa vivacità, così come l’intenso sviluppo di tutti i problemi e le teorie di quello che potremmo chiamare il diritto pubblico, la ricomparsa dei temi del diritto naturale, del diritto originario, del contratto ecc., già formulati nel Medio Evo in tutt’altro contesto, rappresentano, in un certo senso, il rovescio, la conseguenza e la reazione contro il nuovo modo di governare, che si andava istituendo a partire dalla ragion di stato. Infatti il diritto, le istituzioni giudiziarie che erano state parte integrante dello sviluppo del potere regio, ora diventano improvvisamente esterne, e come esorbitanti rispetto all’esercizio del governo secondo la ragion di stato. Non è sorprendente, che tutti questi problemi di diritto siano sempre formulati, per lo meno in prima istanza, da coloro che si oppongono al nuovo sistema della ragion di stato. In Francia, per esempio, sono piuttosto i parlamentari, i protestanti, i nobili, a riferirsi all’aspetto storico-giuridico. In Inghilterra, sono stati gli esponenti della borghesia in lotta contro la monarchia assoluta degli Stuart e, a partire dall’inizio del sec. XVII, i dissidenti religiosi. In breve, è sempre stata l’opposizione a muovere una obiezione di diritto alla ragion di stato, facendo così funzionare la riflessione giuridica, le regole del diritto, l’istanza del diritto contro la ragion di stato. Per dirla in poche parole, il diritto pubblico, nel corso del XVII e del XVIII secolo, è un diritto di opposizione”: M. Foucault, Nascita della biopolitica (Corso al Collège de France, 1978-1979), trad. it. Feltrinelli, Milano, 2005, p. 21.

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“Vedrete, per pagare i debiti di un giorno, stabilire nuovi poteri che dureranno nei secoli.Scavate fino in fondo, e troverete un espediente finanziario mutato in istituzione.”

(Tocqueville)

1. La rottura della costituzione antica

Secondo Alexis de Tocqueville, il primo atto della storia dell'assolutismo in Francia si compì quando il Re ottenne da nobili ed ecclesiastici l'autorizzazione a imporre tasse senza dover più chiedere il consenso dei ceti, scaricandole sul Terzo Stato. In altri termini, i ceti elevati lasciarono libertà al sovrano di imporre le tasse che voleva, senza più consultarli, purché non le imponesse a loro. Era la rottura della costituzione dell'ordine antico, che si basava sul governo misto, sul potere dovere dei ceti di dare il proprio consenso alle decisioni del Re che implicassero imposte e tasse, e il primo movimento verso una concezione assolutistica. In questa concezione il Re stabilisce ciò che è dovuto in base alla sua volontà o alla ragion di stato e non più nei limiti del diritto previgente e nel rispetto di esso.Questo ruppe l'equilibrio sociale che si era sino ad allora mantenuto, e aprì un processo che avrebbe fatto sì che agli occhi del resto della società le antiche prerogative dei ceti elevati finissero per apparire 'privilegi-favoritismi' insensati perché ad essi non corrispondevano più obblighi di alcun tipo verso la comunità. Per questo, i privilegi della nobiltà a poco a poco apparvero intollerabili, conducendo alla Rivoluzione.

"Oso affermare che il giorno in cui la Nazione, stanca dei lunghi disordini che avevano accompagnato la prigionia di Re Giovanni e la pazzia di Carlo VI, permise ai re di imporre una senza il suo concorso una imposta generale e la nobiltà ebbe la viltà di lasciar tassare il Terzo Stato pur di venirne esentata, quel giorno fu posto il seme di quasi tutti i vizi e di quasi tutti gli abusi che hanno travagliato l'antico regime per il resto della sua esistenza e hanno finito col causarne la fine violenta: e ammiro la singolare sagacia di Comines quando disse: 'Carlo VII, ottenendo di imporre la taglia a piacer suo, senza il consenso degli Stati, gravò molto l'anima sua e quella dei suoi successori, e aprì nel regno una piaga che sanguinerà per molto tempo. "Nel Medio Evo i Re vivevano ordinariamente con le rendite dei loro possessi; e ai bisogni straordinari supplivano i contributi straordinari che gravavano egualmente sul clero, sulla nobiltà e sul popolo. "La maggior parte delle imposte generali votate dai tre ordini durante il quattordicesimo secolo hanno infatti questo carattere. Quasi tutte le tasse stabilite erano indirette, vale a dire pagate da tutti i consumatori indistintamente. Qualche volta l'imposta era diretta: gravava, allora, non già sulla proprietà, ma sul reddito. I nobili, gli ecclesiastici e i borghesi avevano l'obbligo di rilasciare al Re, durante un anno, il decimo, ad esempio, di tutte le loro rendite."È vero che, fin da quel tempo, l'imposta diretta, detta taglia, non pesava mai sul gentiluomo. L'obbligo del servizio militare gratuito lo faceva esentare: ma la taglia, come imposta generale, era allora d'uso circoscritto, piuttosto applicabile nel feudo che nel regno."Quando il re, per la prima volta, mise le tasse di sua propria autorità, capì che bisognava cominciare a sceglierne una che non sembrasse colpire direttamente i nobili, perché costoro, i quali costituivano allora per la monarchia una classe rivale e pericolosa, non avrebbero sopportato una novità per loro pregiudizievole; scelse dunque una imposta dalla quale fossero esenti, e scelse la taglia. "A tutte le differenze particolari che già esistevano, se ne aggiunse una più generica che aggravò e consolidò le altre. Da allora, a mano a mano che i bisogni del potere centrale crescevano con le sue attribuzioni, la taglia si estendeva; in breve fu decuplicata, e tutte le tasse nuove divennero taglie. Ogni anno, la diseguaglianza delle imposte separava dunque le classi e isolava gli uomini più di quanto non avesse fatto sino ad allora. Dal momento che l'imposta tendeva a raggiungere non il più capace di pagare, ma il più incapace di difendersi, si doveva arrivare a questa conseguenza mostruosa: di risparmiarla al ricco e di caricarne il povero. Si dice che Mazzarino, a corto di denaro, pensò di porre

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una tassa sulle principali famiglie di Parigi: ma, avendo incontrato qualche resistenza negli interessati, si limitò ad aggiungere i cinque milioni di cui aveva bisogno alla patente generale della taglia. Voleva tassare i cittadini più ricchi: si trovò invece ad aver tassato quelli più poveri, ma il Tesoro non vi perse nulla. " I prodotti delle tasse mal ripartite avevano un limite, i bisogni dei principi non ne avevano. Tuttavia, essi non volevano né convocare gli Stati per ottenerne sussidi, né, tassandola, costringere la nobiltà a reclamare la convocazione di queste assemblee. "Da ciò ebbe origine quella prodigiosa e malefica fecondità dello spirito finanziario che distingue così particolarmente l'amministrazione del denaro pubblico durante gli ultimi tre secoli della monarchia."Bisogna studiare nei suoi particolari la storia amministrativa e finanziaria dell'Antico regime per capire a quali pratiche violente e disoneste il bisogno di denaro possa ridurre un governo mite, ma senza pubblicità e senza controlli, quando il tempo ha consacrato il suo potere e lo ha liberato dalla paura della rivoluzione, ultima salvaguardia dei popoli."A ogni passo negli annali si trovano beni regi venduti e poi recuperati come invendibili, contratti violati, diritti acquisiti misconosciuti, il creditore dello Stato sacrificato ad ogni crisi, la fede pubblica continuamente ingannata."Città, comunità, ospedali erano costretti a mancare ai loro impegni, per avere la possibilità di prestare al re. Si impediva alle parrocchie di intraprendere lavori utili per paura che, dividendo le loro risorse, pagassero con minore esattezza la taglia”3.

Tocqueville legge in modo penetrante le conseguenze sociali di una decisione politica, e ci mostra in modo esemplare come un avvenimento che in apparenza è solo e squisitamente politico-costituzionale, oppure finanziaria, investa in realtà sempre la qualità dell'intera convivenza. La rottura di una norma fondamentale dell'ordine antico, quella che voleva le tasse imposte col consenso di tutti i ceti, è qualcosa che si riverbera immediatamente nella società, ne corrode i legami e la coesione interna; che genera sfiducia verso il potere, il quale diviene sleale e appare ingiusto. La gente cominciò a odiare i nobili e i loro privilegi, e insieme a diffidare del potere sovrano, che era arbitrario perché non rispettava più l’antico diritto e il precetto di dare ‘a ciascuno il suo’.

Vale la pena di soffermarsi su questa analisi di Tocqueville. Essa mette in luce uno snodo che è centrale e ritornante nella storia giuridica e politica: la società accetta diversità e privilegi, finché essi appaiono sensati, dunque proporzionati, ragionevoli, spiegabili e utili, quando sono collocati in un equilibrio; quando questo non avviene più, quando non si comprende più a quale utilità sociale essi rispondano, i medesimi privilegi un tempo accettati risultano intollerabili. I nobili non avevano mai pagato tasse come gli altri; ma solo da un certo punto in poi si cominciò a odiarli per questo. Dunque non è tanto la posizione più favorita o guarentigiata di qualcuno o di qualcosa che offende il senso di giustizia, ma il fatto che quella posizione più favorita non assolva a una obbligazione sociale che la bilancia e le sia corrispettiva. La riflessione di Tocqueville è di chiara marca aristotelica, laddove riprende il motivo per cui la diversità è benefica alla società in quando generi reciprocità di posizioni e di interessi, e non separazione tra le persone, i gruppi e le classi. Una simile riflessione potrebbe essere probabilmente applicata, per esempio, al rapporto tra opinione pubblica e partiti politici nell’Italia attuale. Il popolo insoddisfatto da come i politici lo rappresentano, comincia a pensare che essi guadagnano troppo. Ogni ‘casta’ è un gruppo sociale che continua a godere di un regime particolare del quale il resto della società, per un motivo o per un altro, non capisce più il senso. Ma le ‘caste’ non nascono solo così, e anche di questo Tocqueville è ben consapevole. Come vedremo proseguendo il nostro discorso, la nobiltà non ottenne, dall’assolutismo, solo i favori di essere dispensata dalle tasse che fioccavano sui poveri. L’assolutismo sentiva la nobiltà come nemica, perché essa era titolare di diritti di autonomia (si pensi ai poteri amministrativi e giudiziari dei feudatari sul loro feudo; al potere, come ceto, di opporsi alla volontà sovrana nelle Assemblee generali; al fatto che la nobiltà esprimeva i giudici, che spesso erano aristocratici). Questi diritti di autonomia cozzavano con le esigenze dell’assolutismo, che aveva bisogno di cancellare ogni potere che potesse essere un freno alle sue ambizioni di dominio. Il filo conduttore dell’opera di Tocqueville, “L’Antico Regime e la Rivoluzione”, è che assolutismo e rivoluzione sono un tutt’uno in cui avviene la affermazione di un potere sovrano monopolistico

3 A. de Tocqueville, L’Antico regime e la Rivoluzione, Cap. II. 43

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e accentratore che sentiva come suoi nemici tutti gli antichi centri di autonomia e di autogoverno. Ciò significa che fare una ‘cattiva stampa’ agli aristocratici andava anche nell’interesse del Sovrano, corrispondeva a un disegno politico. Il fatto che tutti noi conserviamo nel senso comune che la rivoluzione francese è stata il trionfo del popolo contro la nobiltà, mentre, secondo Tocqueville, fu più che altro il trionfo di una concezione assolutistica del potere contro le libertà antiche della Nazione, dimostra che una larga parte di ciò che ha reso ideologicamente vincente l’insieme di pratiche, istituti, modelli organizzativi e ideologie che si consolida nel tornante tra assolutismo e rivoluzione è il fatto che esso è riuscito a imporre una lettura della storia del suo punto di vista. E quando l’assolutismo, come vedremo, si orienterà contro i privilegi di autogoverno della feudalità, che dava vita al corpo dei giudici fieri oppositori dell’assolutismo, sarà esso ad avere interesse a dipingere i nobili come una casta attaccata ai suoi privilegi. C’è infatti, dicevamo, un secondo modo in cui nascono le caste, che insorge quando i diritti di cui un certo gruppo sociale gode, non andando più nell’interesse del potere, non risultando più ‘utili’, vengono dipinti, davanti al resto della società, come ingiustificati privilegi. Per esempio, quando in Italia è stata recentemente abrogata la legge che proteggeva i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato dal licenziamento ‘ingiustificato’, offrendo la garanzia del reintegro nel posto di lavoro, il Governo e molta opinione pubblica hanno sostenuto che quei lavoratori godevano di un ‘ingiustificato privilegio’, erano una casta superprotetta rispetto agli altri la lavoratori. Nessuno peraltro ha spiegato perché, per rimediare a questa ‘ingiustizia’, invece di abbassare le garanzie di cui solo godeva, non si sono aumentate anche quelle degli altri lavoratori.

Tornando a Tocqueville, dunque, la sua interpretazione dei motivi che condussero alla rottura della Costituzione antica mette in evidenza che gli abusi del potere sovrano si traducono in altrettanti attentati alla coesione della società. Val la pena di leggere, a questo scopo, l'analisi che egli fa anche degli effetti di una tassa iniqua, iniqua perché tratta diversamente persone che hanno interessi analoghi (che non dà ‘a ciascuno il suo’):

"Un'imposta particolare, detta di franco feudo, era stata messa in tempo remotissimo sui non nobili che possedevano beni nobiliari. Questa imposta creava tra le terre la stessa divisione che esisteva tra gli uomini e di continuo aumentava l'una con l'altra. Non so se il diritto di franco feudo abbia servito più di tutto il resto a tener divisi il gentiluomo e il non nobile impedendo loro di unirsi in quella cosa che assimila loro meglio di ogni altra, la proprietà fondiaria. Un abisso era così aperto di tanto in tanto tra il proprietario nobile e il proprietario non nobile suo vicino.

"Nel quattordicesimo secolo il diritto di franco feudo è leggero ed è riscosso solo di tanto in tanto; ma nel diciottesimo, quando la feudalità è quasi distrutta, quel diritto si esige con rigore ogni vent'anni e rappresenta un anno intero di rendita. Il figlio la paga succedendo al padre. ‘questa somma’ ha detto un contemporaneo, ‘che prima si pagava una sola volta nella vita, è divenuta in seguito una imposta crudelissima’. La nobiltà stessa avrebbe voluto che fosse abolita, perché impediva ai non nobili di comprare le sue terre; ma il fisco aveva bisogno che fosse mantenuta e la aumentò”. S'intende, continuando ad aggravare tutti i danni sociali che produceva (invidie, rancori, risentimento, disunione nella società e malcontento verso lo Stato).

Osservato dal punto di vista delle prepotenti necessità finanziarie la cui soddisfazione impone l'abbattimento dei diritti antichi, l'assolutismo è un fenomeno di 'monetarizzazione' o di 'mercificazione' dei diritti, degli status, delle prerogative di cui godevano singoli e comunità4. Ad esso non sfuggivano i poteri detenuti dalle città o dalla comunità locali di autoamministrarsi:

"Luigi XI aveva limitato le libertà municipali perché il loro carattere democratico gli faceva paura: Luigi XIV le distrusse senza temerle. Lo prova il fatto che le restituì a tutte le città che potevano ricomprarle. In realtà non voleva tanto abolirle, quanto mercanteggiarle, e, se le abolì davvero, fu per così dire senza pensarvi, per puro espediente finanziario, e, cosa strana, lo stesso gioco continuò a ripetersi per ottant'anni. Sette volte durante questo periodo si è venduto alle città il diritto di eleggere i propri magistrati, e, quando esse ne hanno di nuovo goduto il vantaggio, si toglie loro per

4 Per L. Mannori e B. Sordi, Storia del diritto amministrativo, cit., p. 128, l’assolutismo fu una ‘modernizzazione istituzionale’ ancorata a un unico, vero obiettivo: l’aumento del gettito fiscale.

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rivenderglielo. Il motivo del provvedimento è sempre lo stesso, e sovente è confessato: ‘I bisogni delle nostre finanze' dice il preambolo dell'editto del 1722 , ‘ci obbligano a cercare il mezzo più sicuro per rimediarvi.’ 5

Alla stessa sorte si avviarono i diritti delle maestranze e delle corporazioni. Dalla appartenenza a queste associazioni derivava nel Medio Evo il diritto di esercitare certe professioni arti e mestieri. Le corporazioni erano organismi di autogoverno delle professioni che calmieravano offerta e domanda di lavoro e tenevano sotto controllo il costo del lavoro. Fu solo durante l'assolutismo che esse vennero trasformate in vere e proprie caste chiuse. Chiunque volesse esercitare una professione, arte o mestiere fu obbligato a iscriversi e intanto il sovrano lucrava sul prezzo delle patenti che le corporazioni potevano rilasciare, costringendole periodicamente a rinnovarle, dietro il pagamento di una tassa.

2.La nascita dell'amministrazione

L'affermazione della sovranità verso l'interno significò una lunga e complessa opera di svuotamento dei 'poteri intermedi', cioè delle prerogative signorili e locali che si traducevano in poteri di autogoverno e si esprimevano in una rete di giurisdizioni, organismi e procedure ciascuno dei quali allocava una quota di potere decisionale che poteva frenare la attuazione del disposto sovrano. A questa opera di distruzione dei poteri intermedi fa riferimento la tradizione di pensiero che ha descritto lo Stato come un Leviatano, il mostro biblico divoratore (è la figura che fu adottata da Hobbes). La dinamica assolutista può essere descritta, infatti, come un processo di accentramento e di verticalizzazione del potere, che anticipava la forma che lo Stato avrebbe preso con la Rivoluzione. L’opera di abbattimento dei poteri intermedi e di semplificazione fu in parte il risultato, come abbiamo visto sopra, di una esigenza di 'monetizzare' i privilegi; in parte fu dovuta a una ricerca di maggiore efficienza delle attività volte alla soddisfazione delle volontà sovrane. Per conquistarsi efficienza, cioè “capacità raggiungere il risultato” il potere sovrano dovette rendersi autonomo, cioè immune, dalle pressioni, dagli interessi, dai bisogni espressi dalla società, dalle formazioni sociali e politiche intermedie, che, facendo valere i propri diritti attraverso le forme giurisdizionalistiche dell’antico regime indebolivano, stornavano, modificavano l’azione pubblica rendendola, appunto, meno ‘efficiente’ (e anche meno arbitraria).

La espressione e lo strumento di questa ricerca di efficienza e immunità del pubblico potere fu l’amministrazione, un nuovo apparato dipendente dal sovrano, incaricato di portarne a esecuzione la volontà, e pertanto non soggetto a sindacato giurisdizionale. L’assolutismo infatti segna la nascita, cioè una fase iniziale ma già profondamente innovativa, di un potere, quello amministrativo, che sarà il centro e l’essenza dello stato contemporaneo.

Sappiamo che l'ordine antico aveva una idea 'giurisdizionale' dell'amministrazione. Quella che noi oggi chiameremmo attività amministrativa era un tipo particolare di regolamentazioni, che vertevano sul dover fare o dover dare, che imponevano, cioè, prestazioni materiali (es.: manutenzione delle strade, dei ponti e dei corsi d'acqua, degli edifici e dei boschi), o economiche (tasse). Queste regolamentazioni potevano prendere la forma di ordini, rescritti, editti o ingiunzioni, portare a esecuzione i quali, non esistendo un apparato apposito, era compito dei diretti interessati, vale a dire degli stessi destinatari degli obblighi; se questi ultimi ritenevano di vedersi imposto un dovere cui non erano tenuti, si finiva davanti a un giudice, il quale poteva accertare che quel dovere non esisteva, o non esisteva nel modo e nel quantum che era stato imposto, o poteva riscrivere il

5 L’Antico Regime, cit. p.85.45

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contenuto del dovere adottando, in forma di sentenza, un regolamento amministrativo sostitutivo di quello impugnato.

Non si fa fatica a immaginarsi che questa situazione potesse rallentare di molto o anche porre nel nulla i regolamenti e le decisioni sovrane. Per aggirarla, nella Francia del ‘500 e ‘600 il Sovrano ricorse alla istituzione di nuove figure istituzionali, direttamente da sé dipendenti, non appartenenti al ceto dei giudici, delle quali la principale fu l’ intendente, un funzionario nominato e revocabile dal Re. Gli intendenti venivano inviati nelle province, nelle municipalità; agivano sotto la direzione di due organismi nominati dal Sovrano, uno che aveva sede nella capitale, il Consiglio del Re e uno che aveva uffici territoriali, il Controllore generale. L’intendente è rimasto nella storia come il prototipo del funzionario amministrativo. Una volta che questa figura fu introdotta, i rapporti tra amministrazione e giurisdizione cominciarono a mutare, e furono progressivamente, ma inarrestabilmente, regolati in favore della prima.

Questo percorso iniziò dal campo della fiscalità – e nel corso dell’assolutismo rimase principalmente legato a questo campo. Nel settore della fiscalità, infatti, più spesso che in altri, le magistrature tradizionali spesso si mettevano il sovrano, e venivano perciò accusate, dagli scrittori al sovrano favorevoli, di volerne disattendere e contrastare gli editti, di tollerare i ribelli, di criticare il sovrano6.

Inizialmente l'amministrazione intendentizia si limitò ad affiancarsi alle giurisdizioni e alle magistrature locali, per controllare il modo in cui esse ripartivano le imposte e le riscuotevano, per dare consigli su come risolvere le contestazioni intorno alla distribuzione del carico fiscale; finì per avocarne i compiti, anche per effetto del divieto fatto ai giudici di ingerirsi nelle materie amministrative. In queste materie i giudici poterono adottare regolamenti sempre meno numerosi, di efficacia territoriale sempre più circoscritta e di valore sempre meno rilevante. Si determinò a poco a poco la situazione descritta da Tocqueville: “non esisteva più in Francia città o borgo, villaggio per quanto piccolo, fabbriceria, convento collegio che potessero avere una volontà propria e nel disbrigo dei loro affari e nella gestione dei loro interessi”.L’amministrazione statale nasce svuotando i poteri intermedi, cioè le autonomie sociali e territoriali, che occupavano lo spazio tra i singoli e il potere pubblico. A poco a poco i singoli si trovarono, per così dire, soli davanti al pubblico potere.

3.(continua)Svuotamento dei poteri intermedi

Un primo vistoso effetto della nascita di una amministrazione quale corpo riferentesi al sovrano fu dunque lo svuotamento delle prerogative feudali e dei compiti di autoamministrazione dei territori. Il feudatario che non era più amministratore delle sue terre da esse si allontanò: i nobili vennero del resto obbligati a risiedere a lungo a Corte e diventarono titolari di qualcuno dei numerosissimi uffici e incarichi di cui la Corte del sovrano era composta7. Nelle città, le magistrature un tempo elettive

6 L. Mannori e B. Sordi, op. cit., p. 106.

7 La Corte risiedeva nel Giardino di Versailles, voluto dal Re Sole. La costruzione della Reggia e del giardino non era qualcosa che avesse solo il significato di offrire al sovrano un piacere e un divertimento: fu un grande fatto di simbolismo politico e fu anche un concreto gesto politico. Il giardino era sterminato ed ordinato, ordinato secondo precise regole prospettiche e architettoniche: esso intendeva simbolizzare il potere del sovrano sul territorio. Il giardino era il simbolo dello stato sovrano, che governa senza intralci un territorio immenso e lo ordina secondo regole che esprimono una volontà raziocinante. Nel giardino c’era la reggia, circondata dalle residenze destinate ad ospitare la corte del re; e la corte del re erano i nobili feudatari che il re obbligava a risiedere per lunghi periodi, a rotazione, a Versailles, indebolendo così i loro legami coi loro territori, appannando la dipendenza politica dei territori feudali ai loro titolari, e trasformando a poco a poco i nobili in alti dignitari, funzionari il cui compito era quello di garantire in tutto lo stato il rispetto della volontà del sovrano. Il giardino di Versailles celebra il trionfo dello stato nella distruzione

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divennero cariche che, come visto in un passo di Tocqueville che abbiamo letto poco sopra, potevano essere riassunte dal re e da questi di nuovo vendute alle comunità. In questo intercalare di magistrature locali divenute ormai provvisorie, ad assumere il governo effettivo furono i funzionari dello stato, gli intendenti, che di fatto si sovrapposero gerarchicamente a quel che rimaneva dell'amministrazione municipale.

“Nel diciottesimo secolo dirigevano tutti gli affari locali un certo numero di funzionari che non erano più scelti dal feudatario, ma erano nominati dall’intendente della provincia. Toccava a queste autorità ripartire le imposte, restaurare le chiese, costruire le scuole, radunare e presiedere l’assemblea del villaggio. Vegliavano sui beni comunali, ne regolavano l’uso, e intentavano e sostenevano i processi in nome della comunità. Non soltanto il feudatario non dirigeva più l’amministrazione di questi piccoli interessi, ma non la sorvegliava. Tutti i funzionari erano sotto il governo, o sotto il controllo, del potere centrale. Inoltre, non si vede quasi più il feudatario agire come rappresentante del re e intermediario fra lui e gli abitanti. Egli non solo non è più incaricato di raccogliere le milizie, di imporre le tasse, di rendere noti gli ordini del principe, di distribuire i suoi soccorsi. Il feudatario è ormai solo un abitante che alcune immunità e alcuni privilegi separano e isolano da tutti gli altri. Il feudatario non è che il primo abitante, hanno cura di specificare gli intendenti nelle lettere ai loro sottodelegati”.

4. (continua)Frenetico attivismo regolamentare

È importante tener presente che per tutto il periodo assolutistico, l'attività amministrativa è essenzialmente una attività regolamentare, che disciplina attività e comportamenti, e una attività contenziosa, cioè di decisione sulle controversie nascenti dai propri atti, dagli atti posti in essere dalla amministrazione stessa. Non è attività di concreta gestione, se si eccettua il mantenimento dell'ordine pubblico, crescentemente affidato alla gendarmeria in corrispondenza dell'interesse a 'disarmare' i nobili, le città e le comunità locali e a lasciare solo alle autorità statali e ai loro agenti il legittimo uso delle armi (è il processo per effetto del quale lo Stato sarà definito da Weber 'monopolista della forza').

Per il resto, le attività di concreta gestione, come l'esecuzione di opere quali strade, ospizi, altre infrastrutture, veniva invece data in appalto a società private, o demandata, come in antico, alle comunità locali: quello che cambiava, come detto, è che a dettare i regolamenti amministrativi, a controllarne l’esecuzione, a decidere sulle controversie che ne nascevano era ormai un corpo di funzionari specializzato e direttamente dipendente dal re, i cui atti non potevano più essere impugnati giudizialmente e tanto meno essere sostituiti da sentenze giudiziarie.

Il fatto di agire attraverso regolamenti, cioè ponendo regole, conferì subito all’amministrazione quella intonazione attivistica, dinamica, instabile, impermanente, che ne rappresenta il carattere più tipico e intramontabile:

“[Il Governo centrale] non intraprende affatto, o abbandona spesso, le riforme più necessarie, che per riuscire domandano una perseverante energia: ma cambia continuamente qualche legge o qualche regolamento. Nella sfera dove domina, nulla ha tregua. Le nuove regole si succedono con una rapidità tanto eccezionale che gli agenti, a forza di essere comandati, stentano spesso a capire come devono

dei corpi intermedi: ma era anche una “illusione che compensa i difetti della realtà, e nasconde l’insufficienza delle risorse di un sovrano considerato onnipotente.” Il significato politico di questa, e di altre invenzioni architettoniche che rivaleggiarono con essa, come la reggia borbonica di Caserta, o il viale che collega Torino alla reggia di Rivoli fatto costruire da Vittorio Amedeo II di Savoia nel 1711-1722 e che realizzò “in assoluto il più esteso spettacolo allestito nel mondo coi mezzi della prospettiva”, interpretando “la posizione strategica di Torino, scelta per questo nel 1563 come capitale dello Stato sabaudo, con una abilità figurativa senza pari”, è stato indagato da L. Benevolo, La cattura dell’infinito, Laterza, Bari, 1991, da cui le parole tra virgolette.

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obbedire. Alcuni ufficiali municipali si lagnano col controllore generale in persona per la mobilità estrema dei regolamenti. “La variazione dei soli regolamenti di finanza è tale” essi dicono, “ che non permette a un ufficiale municipale, fosse pure inamovibile, di fare altro che studiare i nuovi regolamenti a mano a mano che escono, fino al punto di dover trascurare i propri interessi”8.

5. (continua) La “Police”.

Il potere di emanare regolamenti particolari per tutti i cittadini di un distretto o di un territorio venne chiamato Police, che significa ‘Polizia’. L’assolutismo è perciò anche conosciuto come ‘stato di polizia’, che significa stato nel quale sorge l’amministrazione come potere di regolamentare la vita sociale in modo autoritativo.

Rispetto allo stato di giustizia, si trattava di un cambiamento enorme. Coi regolamenti di police, il sovrano, e tutto l’apparato amministrativo che in lui si incardinava eludeva i parlamenti giudiziari, e il loro potere di interinazione.

I trattati dell’epoca ci danno l’elenco delle materie riservate alla police del sovrano: annona, mestieri, strade, religione, disciplina dei costumi, sanità, sicurezza e tranquillità pubblica, scienze e le arti liberali, commercio, manifatture, arti meccaniche, servitori domestici, braccianti, poveri9.

6. (continua) Disciplinamento sociale

L’elenco delle materie che erano oggetto dei regolamenti di police rappresenta il nucleo delle competenze dell’amministrazione moderna e contemporanea, e ci fa capire come mai l’azione amministrativa sia stata definita come una azione di disciplinamento della società. Il termine ‘disciplinamento’ è stato adoperato dal filosofo francese Michel Foucault proprio per descrivere la ragion di stato e i metodi di governo che ha generato, imperniati sull’azione amministrativa. Foucault ha parlato anche di biopolitica, per evidenziare che il disciplinamento della società passa attraverso il disciplinamento del corpo umano e delle sue azioni. Intervenire su materie come la religione, i costumi, la sicurezza e la tranquillità, le scienze e le arti, i poveri, significava assegnare al potere pubblico il ruolo, fino ad allora del tutto inedito, di modellare e regolare la vita umana nei suoi aspetti più intimi.

Un passo di Foucault relativo proprio a un regolamento di police in materia sanitaria rende l’idea del profondo cambiamento di atteggiamento, di mentalità che la nascita dell’amministrazione e dei suoi poteri regolamentari ha implicato.

“Prendete il caso della esclusione dei lebbrosi. Per tutto il Medio Evo, questo tipo di esclusione si reggeva essenzialmente su un apparato giuridico e su uno rituale e religioso, il cui scopo era separare il lebbroso da chi non lo era. I regolamenti sulla peste formulati nel XVI e anche nel XVII secolo offrono una impressione del tutto differente; seguono obiettivi differenti e soprattutto si avvalgono di altri strumenti. Essi devono letteralmente suddividere il territorio, di una regione o di una città colpite dalla peste e sottometterlo a una regolamentazione che indichi agli abitanti come e quando possono

8 L’Antico Regime, cit., p. 109. Questo tipo di affermazioni oggi si sentono tal quali sulle bocche di tutti coloro che lavorano nell’amministrazione o hanno con essa ha che fare.

9 L. Mannori e B. Sordi, op. cit., p. 140 citando un trattatista francese del 1640.48

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uscire, i comportamenti da seguire in casa, l’alimentazione da osservare, l’obbligo di presentarsi davanti agli ispettori e di far ispezionare la propria dimora.10”

Codificazione dei comportamenti, classificazione della popolazione, riorganizzazione del territorio sono gli strumenti attraverso i quali la police dello stato assoluto edifica la particolare relazione sovranità-territorio-popolo che identifica la forma politica ‘stato’.

“Si costruivano città dove non esisteva nulla. Il modello era quello dell’accampamento romano, così trasferendosi le regole dell’organizzazione militare a quella cittadina. C’è un asse di simmetria che divide in due il rettangolo della città e altre vie parallele e perpendicolari alla via mediana, cosicché la città è divisa in rettangoli, secondo una scala che va dal più grande al più piccolo. (…) Dove le traverse sono più fitte c’è la zona dei commerci, degli artigiani e dei negozi, oltre che dei mercati: più c’è commercio, più ci deve essere circolazione, più ampia deve essere la superficie delle strade e maggiore la possibilità di percorrerle. In questo semplice schema troviamo proprio il trattamento disciplinare delle molteplicità dello spazio: la costituzione, cioè, di uno spazio vuoto e chiuso, al cui interno si costruiranno le molteplicità artificiali organizzate secondo il triplice principio della gerarchizzazione, della comunicazione esatta dei rapporti di potere e degli effetti funzionali specifici a questa distribuzione, quali, ad esempio, favorire il commercio, rendere sicure le abitazioni, ecc.Funzione di igiene, dunque. In secondo luogo, garantire il commercio interno alla città. Terzo, collegare l’arrivo o la partenza delle merci da o verso l’esterno. Infine, permettere la sorveglianza, dopo che la demolizione delle mura, resa necessaria dallo sviluppo economico, aveva reso impossibile la chiusura serale della città11”.

Il disciplinamento è la tecnologia del potere che nasce con l’assolutismo, e che ci ha accompagnato sino ad oggi, fin quasi a sentirla una normale e naturale espressione del nostro esistere come comunità organizzata in Stato. Foucault la definisce come: “la messa a punto, a partire dal XVI secolo, di tutto un insieme di procedure, per incasellare, controllare, misurare, addestrare12 gli individui, per renderli docili e utili allo stesso tempo. Sorveglianza, esercizio, manovre, annotazioni, file e posti, classificazioni, esami, registrazioni. Tutto un sistema per assoggettare i corpi, per dominare le molteplicità umane e manipolare le loro forze, si era sviluppato nel corso dei secoli classici negli ospedali, nell’esercito, nelle scuole, nei collegi, nelle fabbriche: la disciplina.13”

7. Interventismo economico

Tramite i poteri di police le competenze dell'amministrazione, e cioè dello stato, poterono spingersi in campi nuovi, dove, fino ad allora, si era sempre ritenuto operasse lo spontaneo autogoverno della società. La police interviene per regolamentare i mestieri, i commerci, gli scambi: essa risponde alle nuove esigenze di uno stato sempre più "interventista" quale fu lo stato assolutista, il quale, fortemente interessato all'aumento della produzione della ricchezza (da cui traeva il proprio

10 M. Foucault, Nascita della biopolitica, cit., p. 20.

11 M. Foucault, Sicurezza, Territorio, Popolazione (Corso al Collège de France 1977-1978), trad. it. Feltrinelli, Milano, 2004, p. 26-27.

12 E’ nell’epoca assolutista, infatti, che si forma dal metafora del dressage: la parola, che indica l’arte di addestrare i cavalli e oggi una specifica disciplina equestre, viene trasferita alla educazione della società, a cominciare dallo specifico addestramento di cui devono essere destinatari coloro che della società prenderanno la guida, i ‘ceti dirigenti’.

13 Sono le parole poste sulla quarta di copertina della classica edizione Einaudi, Torino 1976, di Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, la cui prima edizione francese è del 1975.

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sostegno tramite la fiscalità) fu incomparabilmente più attivo nei rapporti economici rispetto alle organizzazioni politiche che lo avevano preceduto.

Con l’assolutismo inizia quella particolare relazione tra lo stato e l’economia, in cui a mediare i due termini sono specifiche dottrine economiche che di epoca in epoca prevalgono14. Anche da questo punto di vista, come da quello che riguarda l’emersione della pubblica amministrazione, lo stato assoluto segna l’avvento nella visione della cosa pubblica di forme di razionalità diverse da quella giurisdizionale, che entrano in competizione con essa e tendono ad avere su di essa il sopravvento. Con la scienza economica fa il suo ingresso un modo razionalista, calcolante, utilitarista di concepire i rapporti sociali e il ruolo che rispetto ad essi ha il potere pubblico.

8. (continua) MercantilismoLa dottrina economica che ha caratterizzato la fase assolutista è il mercantilismo. In esso, anzi, è stata vita la traduzione economica della dottrina della ragion di stato. Il mercantilismo fu lo specifico modo di governare che l’assolutismo prese nel campo dell’economia: “il mercantilismo è molto di più di una dottrina economica: è una particolare organizzazione della produzione e dei circuiti commerciali basata sul principio per cui lo stato deve innanzitutto arricchirsi accumulando moneta, deve inoltre rafforzarsi attraverso l’aumento della popolazione; e deve mettersi e mantenersi in una condizione di concorrenza permanente con le potenze straniere.15”

Il mercantilismo affermava che la ricchezza dello stato (derivando dall’imposizione fiscale sui consumi, sui redditi e sui beni), era tanto maggiore quanto più la società era ricca: questo rese lo stato assoluto interessato a promuovere lo sviluppo delle attività imprenditoriali e commerciali, anche attraverso la realizzazione delle infrastrutture di comunicazione, come le strade e i porti, indispensabili al mercato; d’altro canto, lo portò anche a controllarle e dirigerle, sviluppando un intenso protezionismo, orientato a favorire le esportazioni, ma a contenere le esportazioni. Per questo motivo, una conseguenza delle politiche mercantiliste fu, anche, la competizione militare ed economica con gli altri stati.

“L’internazionalismo, che aveva permeato filosofia e pratica politica nell’età di mezzo, cede alla volontà di potenza, e, tra gli strumenti della nuova visione dello Stato nazionale, assurge a sempre maggior rilievo la politica economica. Un mercante verrà ascoltato quanto un generale e sta per nascere una nuova figura di consigliere politico: l’economista16”.

Il mercantilismo favorì il capitalismo nascente in Europa. Le componenti centrali della visione mercantilista erano: “potere allo stato per difendere il commercio con le armi e le barriere doganali; mercanti arricchiti dall’esportazione di prodotti finiti che fa accumulare metalli preziosi e mantiene sul territorio nazionale la produzione di derrate alimentari”17. Anche l’agricoltura, dunque, aveva 14 Nell’ordine antico, i temi economici (correttezza dei commerci, contratti commerciali) erano affrontati tramite il diritto, e la honestas utilitas che si supponeva spettasse al commerciante teneva in collegamento la razionalità economica con quella giuridica e investiva gli scambi economici di un aspetto etico che sarà successivamente messo da parte. E’ un profilo questo che non possiamo qui approfondire; ad esso è dedicata l’analisi di A. Giuliani, Giustizia e ordine economico, Giuffrè, Milano, 1997.

15 M. Foucault, Nascita della biopolitica, cit., p. 17.

16 A. Maffey, voce Mercantilismo, in Dizionario di politica, p.563.

17 A. Maffey, voce Mercantilismo, cit., p. 563. Appaiono perciò molto ingenui, o forse in mala fede, coloro che si stupiscono di come un paese autoritario, quale la Cina, possa avere il grande sviluppo capitalistico che oggi conosciamo: lo stato assoluto è una eloquente prova di come crescita economica e libertà, democrazia e diritti non siano affatto naturalmente associati. Che poi il “capitalismo di stato” cinese si associ a un regime che fa ancora riferimento al comunismo stupisce ancora meno il lettore di Tocqueville, al quale non era sfuggita la affinità tra il capitalismo autoritario assolutista e le dottrine ‘socialiste’: “Si crede che teorie distruttive conosciute ai nostri giorni col nome di

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la sua centralità, e proprio con riferimento ad essa Tocqueville ci lascia un caratteristico bozzetto dell’interventismo regolamentare, minuziosissimo e capillare, che la police svolgeva nello stato assoluto:

“Il Governo centrale (…) pretendeva di insegnare ai cittadini l’arte di arricchirsi. Perciò, di tanto in tanto, faceva distribuire dai suoi intendenti e sottodelegati opuscoli sull’arte dell’agricoltura, fondava Società di agricoltura, prometteva premi e manteneva, con grandi spese, vivai di cui distribuiva i prodotti. Sembra che sarebbe stato più efficace alleviare il peso e diminuire la disparità degli aggravi che opprimevano allora l’agricoltura: ma si vede che non vi si è mai pensato.“Qualche volta il Consiglio voleva obbligare i privati ad arricchirsi a qualunque costo. Sono innumerevoli i decreti che costringono gli artigiani a seguire certi sistemi, a fabbricare certi prodotti, e poiché gli intendenti non bastavano a sorvegliare l’esecuzione di tutte queste regole, esistevano gli ispettori generali dell’industria che percorrevano le province per coadiuvarli.“Vi sono decreti del Consiglio che proibiscono certe colture nelle terre che il Consiglio dichiara poco adatte. Altri se ne trovano in cui si ordina di strappare viti piantate, secondo il Consiglio, in terreno cattivo. Tanto il Governo era già passato dal ruolo di sovrano a quello di tutore”.18

9. (continua) Utilitarismo

L’intensissima attività nel campo economico volta a promuovere la ricchezza avviene in nome dell’utilitarismo, la (sempre attuale) dottrina politica ed etica enunciata da Jeremy Bentham, secondo la quale nel campo etico, come in quello politico, occorre agire in funzione di massimizzare ‘la felicità dei più’, dove i più non sono intesi come i più di numero, la maggioranza della popolazione, ma quelli che hanno di più, che detengono gli interessi e la ricchezza. La finalità utilitarista spiega il dinamismo instancabile (e instabile) di tutta l’attività dell’amministrazione statale volta a intervenire, per modificarla, sulla realtà. Poiché l’utilità di volta in volta perseguita cambia, l’amministrazione, come Tocqueville ci ha poco sopra raccontato, cambia e ricambia regolamenti, fa e disfa le regole: siccome ciò che è “utile” ai più, viene inteso diversamente nel corso del tempo, tutta l’organizzazione sociale deve essere continuamente modificata in funzione di quell’utile. Così tradizioni, usi, costumi o anche preferenze individuali devono essere “disciplinati”, posti sotto tutela, perdono autonomia, libertà, competenza su di sé. L’utilitarismo, ha scritto recentemente Michael Sandel, che lo riconosce come un potente motore delle concezioni contemporanee del governo, rende i diritti vulnerabili: non li considera valori in sé, ma variabili dipendenti del calcolo utilitarista.

10. (continua) Nazionalizzazione dei mercatiIl suo essere anche una concezione dell’economia o un modo di governare l’economia e con l’economia, spiega come mai lo stato assoluto è legato alla nazionalizzazione dell’economia. Da una parte viene realizzata, mediante barriere e dogane e misure protettive contro l’importazione di prodotti stranieri, la chiusura del mercato nazionale verso l’esterno, e, dall’altra parte, vi è l’unificazione del mercato interno, mediante l’abolizione delle barriere alla circolazione interna delle merci e dei capitali che derivavano dalle antiche strutture territoriali. Lo stato è anche un grande mercato unico da governare in funzione della sua crescita e in competizione con le altre economia.

11. L’assolutismo e la sua crisi: le sopravvivenze dell’antico ordine

socialismo siano di origine recente. E’ un errore: esse sono contemporanee ai primi economisti [Tocqueville qui si riferisce ai fisiocrati, di cui noi parleremo più avanti nel testo]. Mentre questi si servivano del governo onnipotente che sognavano cambiare le forme della società, gli altri si impadronivano dello stesso potere per minarne le basi” (L’Antico Regime, cit., p. 211).

18 L’Antico Regime, cit. p. 82-83.51

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Nonostante la sua enorme carica di innovazione, l'assolutismo rimase anche fortemente avvinto ai residui del vecchio ordine, impigliato in essi che, convivendo col nuovo, resero il quadro sempre meno efficiente e sensato: sopravviveva la divisione in ceti della società, e accanto ad essa sopravvivevano due giganteschi freni allo sviluppo economico: la non commerciabilità della terra e la non libera commerciabilità del lavoro. Per tutto il periodo assolutistico, infatti, le terre feudali ed ecclesiastiche rimasero assoggettate a vincoli, che ne impedivano la recinzione, la divisione e la vendita o che precludevano che su di esse si svolgessero attività economiche, come quelle estrattive o di sfruttamento dei boschi. Il lavoro, dal canto suo, rimase prevalentemente organizzato attraverso il sistema delle corporazioni, che controllavano l’offerta e la richiesta di lavoro. Era molto difficile, in altri termini, e per esempio, per il contadino lasciare la terra e andare in città a vendere il proprio lavoro. Questa situazione imprimeva notevoli contraddizioni all’interno del sistema sociale economico e giuridico, e queste contraddizioni sono le principali tra le cause che hanno spinto verso l’abbandono del modello assolutista. Ciò avvenne, in Francia, traumaticamente, con la Rivoluzione, ma un fenomeno analogo avrà luogo in tutta Europa, nell’Ottocento, sotto il segno della concezione ‘ liberale’.

C.Il periodo assolutista come teatro del conflitto tra il nuovo potere amministrativo e l’antico potere giurisdizionale.

Per tutelare la propria efficacia e la propria autonomia, l’amministrazione si preoccupò di rendersi immune dalla giurisdizione: caratteristica del periodo assolutista è la sottrazione alla giurisdizione di una vasta serie di affari, sui quali non era più riconosciuta competente a pronunciarsi: l'amministrazione stessa, e non più il corpo dei giudici, decideva sugli eventuali ricorsi e opposizioni dei privati contro atti dell’amministrazione.

“Se si vogliono leggere attentamente gli editti e le dichiarazioni del re pubblicati nell’ultimo secolo della monarchia, come pure i decreti del consiglio emanati in quello stesso tempo, se ne troveranno pochi in ci il governo, dopo avere preso un provvedimento, abbia omesso di dire che le contestazioni alle quali poteva dar luogo e i processi che ne potevano nascere, sarebbero stati discussi esclusivamente davanti agli intendenti e davanti al Consiglio. ‘S.M. ordina inoltre che tutte le contestazioni le quali potessero insorgere riguardo all’esecuzione del presente decreto siano portate davanti all’intendente per essere giudicate da lui, salvo appello al Consiglio. Si proibisce alle nostre Corti e ai Tribunali di prenderne conoscenza’. E’ la formula ordinaria. “Nelle materie regolate dalle leggi o dalle usanze antiche, in cui non è stata presa questa precauzione, il consiglio interviene continuamente in via di avocazione: toglie dalle mani dei giudici ordinari la questione in cui è interessata l’amministrazione, e se ne appropria. I registri del consiglio sono pieni di decreti di avocazione di questo genere. A poco a poco l’eccezione si diffonde, il fatto si trasforma in regola. Si stabilisce, come massima, non nelle leggi, ma nello spirito di coloro che le applicano, che tutti i processi nei quali sia mescolato un interesse pubblico e che nascano dall’interpretazione di una atto amministrativo, non rientrano nella giurisdizione dei giudici ordinari, i quali non hanno altro compito che pronunciarsi sulle cose private"19.

1.Il conflitto tra amministrazione e giurisdizione come conflitto tra due forme diverse di razionalità.

Perché l'amministrazione aveva così tanto bisogno di sottrarsi ai giudici? La ragione principale di questa esigenza risiedeva nella diversità dei modi di ragionare dei giudici e di quello dell'amministrazione: il modo di ragionare dei primi era abituato a ricercare la conformità al diritto

19 ) Tocqueville, p. 96.52

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di un certo atto, comportamento, pretesa. Il modo di ragionare della seconda propende a prediligere le soluzioni utili al raggiungimento dei propri scopi (anche se quelle soluzioni non sarebbero praticabili se si intendesse rigorosamente il diritto vigente e i vincoli che ne derivano). "Non potrete mai immaginarvi quanto sarebbe dannoso per gli interessi dell'amministrazione abbandonare i propri appaltatori al giudizio dei tribunali ordinari, i cui principi non potranno mai conciliarsi coi suoi"20.

L'amministrazione nasce, con l’assolutismo, insieme con la coscienza di essere portatrice di una sua diversa, nuova razionalità, che non si concilia con l'andamento valutativo e possibilista, problematizzante e contestualizzante, della ragione giuridica. L’antica regola universale di giustizia ‘a ciascuno il suo’ non poteva più pretendere di essere applicata quando erano in gioco atti dell’amministrazione, che si considerava portatrice di un interesse pubblico orientato dalla ragion di stato, e pertanto per definizione più importante di quello dei privati e destinato a prevalere su di esso. Il modo ‘giurisdizionalista’ di concepire il potere chiede sempre, davanti a una pretesa, a un comando, di vedere se questa è fondata o meno su un diritto; quello ‘amministrativista’ o ‘esecutivo’ si accontenta di affermare che quella pretesa, quel comando, corrisponde all’utile, all’interesse pubblico, alla ragion di stato. Il ‘giusto’ lascia il posto all’ ‘utile’, e l’isonomia, l’eguaglianza tra governanti e governati, presidiata dal suum cuique lascia il posto a un ordine asimmetrico dove l’interesse dei governanti conta di più di quello dei governati.Nella diversità tra una mentalità orientata alla ricerca del ‘giusto’ e una orientata alla ricerca dell’ ‘utile’ risiede la ragione dell’inimicizia tra giurisdizione e amministrazione. Quella diversità spiega la preoccupazione dell’amministrazione di rendersi immune dalla prima riducendone gli spazi di sindacato, onde conquistarsi efficienza, vale a dire garantirsi la capacità di realizzare i propri obiettivi: l’amministrazione sapeva che “l’esercizio giudiziario del potere alimentava fatalmente nei suoi titolari un ethos di indipendenza e di imparzialità che tendeva a scollarli dal vertice politico e farne cattivi conduttori di decisionalità’21.

La separazione tra giurisdizione e amministrazione che si avvia con l’assolutismo è, in altri termini, conseguenza diretta della nuova concezione del potere, del comando, che l’avvento dell’amministrazione rappresenta:

"L’ amministrazione è funzione di una nuova declinazione del potere, non più finalizzata alla instaurazione o al mantenimento dell'ordine giuridico, ma al conseguimento di certi scopi empirici che lo stato considera come propri, e la cui volontà, in quanto espressione dello Stato, è concretizzazione dell'interesse generale22.”

2.(continua) L’avvento della ragione strumentale

Con questa concezione emerge una nuova mentalità, che Weber chiamerà "razionalità rispetto allo scopo", e che potrebbe essere chiamata ragione strumentale, e cioè che guarda alle cose, alle esperienze, ai valori (in una: alla società), come un semplice mezzo per raggiungere certi fini. Fino ad allora ci si chiedeva se un atto era giusto o meno, e tra due esigenze in conflitto si cercava il giusto bilanciamento, come esige un punto di vista giustiziale, o giurisdizionale; ora ci si chiedeva se è utile, conveniente, se corrisponde all'interesse generale, e se sì, a questo interesse si dava la

20 E’ una frase estrapolata da una lettera di un controllore generale, citata da Giorgio Candeloro nella Prefazione a L’Antico Regime e la Rivoluzione nell’edizione BUR 1981 qui adoperata.

21 L. Mannori e B. Sordi, op. cit., p. 77.

22 L. Mannori e B. Sordi, op. cit., p. 288.53

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prevalenza, poco importando con quali mezzi, col sacrificio di quali beni, interessi, soggetti, si raggiungeva il fine.

La razionalità rispetto allo scopo rende dominante colui che individua lo scopo, e rende recessive ogni altra forma di ragione e di razionalità che non siano quelle strumentali: essa permette che un punto di vista, quello del titolare dell'interesse pubblico, lo Stato, il sovrano, prevalga assiomaticamente su ogni altro punto di vista.

3.(continua)VolontarismoUtilitarista e strumentale, la mentalità sottesa all'assolutismo è di tipo volontarista. E’ il riflesso di un’epoca che non pensa più che l'ordine del mondo è dato e risponde a un disegno provvidenziale, ma che esso è frutto della volontà dell'uomo. Volontarista era anche l'idea che il diritto può essere creato da qualcuno, che diventa depositario del corrispondente potere. Qui si apriva un secondo fronte delle lotte dei sovrani assoluti contro l'ordine antico, che fu rappresentato dai tentativi di emancipazione dal potere giudiziario di interinazione, e da quelli volti alla codificazione del diritto.

2. Il conflitto tra amministrazione e giurisdizione come conflitto tra il nuovo apparato burocratico amministrativo e l’antico ceto giudiziario

In verità, da molto tempo i nobili francesi non partecipavano più all’amministrazione pubblica, salvo che in una sola parte: la giustizia.”

(Tocqueville)

Tra il 1614 e il 1789 non vi furono in Francia convocazioni degli stati generali. Le decisioni fiscali ormai potendo essere prese senza il consenso degli stati, e i regolamenti di police venendo presi e attuati al riparo dalla giurisdizione, cui era sottratta la conoscenza del contenzioso che da essi nasceva, restava un solo campo nel quale il sovrano si ancora a doversi misurare con la giurisdizione: il potere di interinazione detenuto dalle grandi corti giudiziarie, i Parlamenti.

Questa prerogativa giurisdizionale, che era anche prerogativa di ceto, e dunque in tutto e per tutto caposaldo ultimo dell’antico ordine, rappresentava ormai una tangibile limitazione del potere sovrano, e apparve perciò sempre meno sopportabile. Il conflitto con la giurisdizione, che accompagna tutto l’assolutismo e diventerà violentissimo nelle sue fasi finali, è oltre che, conflitto con una forma di razionalità ormai divenuta troppo ‘divergente’ da quella, strumentale e utilitaristica, adatta ai fini dell’assolutismo, e che abbiamo illustrato nei paragrafi precedenti, anche un conflitto politico che si indirizza contro un certo un corpo sociale, un gruppo, una classe, quella dei giudici, che era avvertito come un ceto ostile al sovrano assoluto.

L'idea di abolire l'intero ceto ereditario dei giudici si affacciò, durante l’assolutismo, più volte, insieme a quella di istituire nuove regole di diritto al posto di quelle che erano vigenti nel territorio francese per effetto della manifestazione delle varie fonti di diritto allora operanti: la consuetudine, i patti feudali, le antiche norme del diritto romano, gli statuti di questa o quella città, di questa o quella corporazione, il diritto dei mercanti, cui ora si sovrapponeva, ora si intrecciava, ora si sostituiva il diritto nuovo dei regolamenti e delle ordonnances di polizia. Tutto ciò faceva apparire, e di fatto aveva reso (ma non del tutto per sua colpa, posto che il diluvio dei regolamenti che manomettevano il diritto antico veniva dal governo), il sistema giudiziario complicato e imperscrutabile, cosa che favorì l’attecchimento delle polemiche dei filosofi illuministi contro le oscurità e gli arzigoli dei legulei. Già alla metà del 1500, del resto, nelle pagine di Gargantua e Pantagruel, Rabelais aveva concepito la sua indimenticabile, enigmatica, paradossale immagine del

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vecchio giudice di paese, che per tutta la vita ha deciso i suoi casi tirando ai dadi, ma solo dopo avere rigorosamente passato un certo numero di giorni a studiare accuratamente i faldoni. Da questa pagina di grande letteratura si sprigionava una debordante sfiducia sia nei giudici, sia nel loro modo di esercitare la ragione, attento a ponderare le ragioni di questo e di quello, a ricercare la prova, a documentarsi, a cercare il giusto mezzo, dunque un po’ lento, mai del tutto in bianco e nero; e dunque alla fine, specialmente se guardato da un’ottica calcolante, strumentale, utilitarista, destinato a essere condannato come inefficiente, complicato, e incomprensibile (con buona pace dei diritti, che esso protegge).

Il primo tentativo di abbattimento, ad un tempo, del ceto giudiziario e del sindacato giudiziario sull’attività legislativa reale risale al 1667, con il Code Louis. Luigi XIV cercò di ottenere dal Parlamento l’approvazione di una raccolta di leggi, destinata, nell’ambizione del sovrano, a prendere il posto di tutte le “ordinanze, consuetudini, leggi, regolamenti, stili o usi differenti contrari alle disposizioni in esso contenute”. Cercando di introdurre il suo Codice, cioè un insieme di leggi che avrebbero avuto vigenza e obbligatorietà in quanto emanate dal sovrano, Luigi XIV intendeva stabilire che il sovrano era la esclusiva fonte del diritto.

Essere “sovrano” significava ormai porre il diritto (affermando l’equazione per cui il diritto è la voluntas principis) e il principio che si tentava di affermare era che “un principe non ha bisogno dell’antichità per comporre le leggi del suo stato”. Veniva allo scoperto il cuore del disegno assolutista: sciogliersi dai vincoli del passato e dare alla società un ordine (sempre) nuovo, un ordine modificabile a seconda della ragion di stato, dell’interesse pubblico, della convenienza politica. Insieme alla riforma del diritto vigente il Code Louis sanciva anche la soggezione dei giudici alla legge, definendola come dovere di obbedienza al principe sovrano. La nuova concezione della sovranità richiedeva al tempo stesso sia di accentrare nel sovrano (poi nello Stato) la produzione del diritto, sia di “subordinare” i giudici alla legge (del Sovrano).

Il potente ceto dei giudici francesi dell’epoca riuscì a “metabolizzare” questa riforma che attentava alle loro prerogative e nella quale essi vedevano una aggressione dispotica alle tradizioni della “Nazione”, del cui diritto millenario essi si sentivano i rappresentanti e i garanti. Il Code Louis non entrò in vigore ma il segnale di come la nuova concezione della sovranità richiedesse di accentrare nel Sovrano la produzione del diritto era ormai dato. Sarà la Rivoluzione francese, e poi Napoleone, a portare a termine questo processo. L’ultimo atto del conflitto tra amministrazione e giurisdizione che accompagna tutta la vicenda assolutistica, coinciderà infatti con l’avvio della Rivoluzione.

Intorno al 1780 i ministri del re predisposero una riforma, originata a sua volta da esigenze fiscali, che intendeva erodere le immunità fiscali dei nobili e, per farlo, voleva prima togliere ai parlamenti il controllo sugli editti reali (posto che i parlamenti, in quanto espressione del ceto nobiliare, mai avrebbero fatto passare quella riforma: la difesa dei diritti del paese, di cui essi si dicevano orgogliosi tutori, era confusa e incrostata con la difesa dei privilegi di corpo). La riforma, poi ritirata, provocò agitazioni fortissime. Proprio da queste agitazioni sorse la richiesta della convocazione degli stati generali del 1789 "per lottare contro il dispotismo dei ministri e porre fine alle depredazioni finanziarie" e affinché tornassero ad essere gli stati generali a votare le imposte e gli stati provinciali a gestire l'amministrazione locale".

I primi atti di ciò che avrebbe portato alla Rivoluzione iniziarono come un desiderio di restaurazione dell'ordine antico23.23 “Il fenomeno rivoluzione è senza passato, non ha precedenti nella storia moderna. Quando per la prima volta nel secolo diciassettesimo questa parola viene usata in senso politico, essa, ancora con riferimento all’ordine astronomico [dove rivoluzione indica il moto di rotazione degli astri], ha piuttosto il significato di restaurazione, di ritorno alla regola e all’antico (restaurazione della monarchia inglese dopo la dittatura di Cromwell). Nello stesso modo le due rivoluzioni del diciottesimo secolo furono all’inizio intese come restaurazioni ‘dell’antico ordine di cose’ contro il

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dispotismo della monarchia assoluta (in Francia) e i soprusi del governo coloniale (in America). Così in America Franklin poteva dire di non aver ‘mai sentito nessuno affermare il desiderio di separarsi dall’Inghilterra’ e Tocqueville scrivere che in Francia, lungi dall’abbattere, all’inizio si voleva restaurare l’Ancien régime, mentre Tom Paine proponeva addirittura di chiamare sia la francese che l’americana ‘contro-rivoluzioni’” (R. Zorzi, Nota su Hannah Arendt, in H. Arendt, Sulla Rivoluzione, 1963, trad. it. 1983, Edizioni di Comunità, Milano, p. XLIV). Tocqueville formula l’ipotesi che gli eventi che segnano lo scaturire della Rivoluzione, e cioè la difesa dell’ordine antico e delle prorogative dei Parlamenti, segnassero un risveglio dell’”amore dei Francesi per le libertà politiche”. Che però si risvegliava troppo tardi: quando essi “avevano già concepito in materia di governo un certo numero di nozioni che non soltanto non si conciliavano facilmente con l’esistenza di istituzioni libere, ma a queste erano quasi contrarie” (L’Antico Regime, cit., p. 214).

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Capitolo III Parte II

Il tornante rivoluzionario e l'età napoleonica

"Lo stato nuovo facendo della cura degli interessi generali il suo obiettivo essenziale e la sua ragion d'essere,

l'amministrazione vi trova la sua piena legittimazione di funzione primaria".

(L. Mannori e B. Sordi, Storia del diritto amministrativo, p.284)

A.La stagione in cui si scrive la grammatica del potere pubblico nell’età contemporanea, e dei problemi che lo accompagnano.

Con la Rivoluzione francese e l’Impero napoleonico la traiettoria, avviata con l’assolutismo, di annientamento dell’ordine antico raggiunge il suo culmine. Il risultato fu il delinearsi di una visione compiuta dello Stato, della sua organizzazione e delle sue finalità. Questa stagione ha fornito molte idee, categorie e modelli di cui il diritto pubblico attuale fa ancora uso; così come essa ha messo in primo piano problemi e preoccupazioni rimasti costanti tra quelli che il diritto pubblico affronta.

La grande domanda che la Rivoluzione apre potrebbe essere così sintetizzata, sebbene un po’ provocatoriamente: siamo diventati tutti liberi dai privilegi della feudalità, o tutti soggetti a un nuovo sovrano, potente quanto mai prima?

1.Le costituzioni rivoluzionarie: i contenuti

Durante il periodo rivoluzionario si succedettero in Francia più Costituzioni che segnarono, ciascuna, una tappa dei successivi e diversi assetti del potere in quel periodo. Considerando nel loro insieme le Costituzioni rivoluzionarie, alcuni elementi di continuità risaltano con evidenza, e sono essi a comporre la grammatica nuova del potere, cioè gli ingredienti e le caratteristiche che ancora oggi ricorrono nelle concezioni contemporanee dell’organizzazione pubblica:

1. L’abbattimento della società cetuale, con l’affermazione della eguaglianza naturale e eguaglianza giuridica dei cittadini e della titolarità in ogni uomo di alcuni diritti naturali che ne proteggono la sfera privata e che lo tutelano nei rapporti con le autorità pubbliche, con lo Stato. “L’Assemblea Nazionale, volendo stabilire la Costituzione francese sui principi che essa ha riconosciuto e dichiarato, abolisce irrevocabilmente le istituzioni che ferivano la libertà e l’eguaglianza dei diritti. Non vi è più nobiltà, né paria, né distinzioni ereditarie, né distinzione di ordini, né regime feudale, né giustizie patrimoniali. Né alcuno dei titoli, denominazioni o prerogative che ne derivavano, né alcun ordine di cavalierato, né alcuna delle corporazioni o decorazioni, per le quali si esigevano prove di nobiltà, o che presupponevano distinzioni di nascita, né alcuna altra superiorità se non quella dei funzionari pubblici nell’esercizio delle loro funzioni. Non vi è più né venalità, né ereditarietà di alcun ufficio pubblico. Non vi sono più giurande, né corporazioni di professioni, arti e mestieri. La legge non riconosce più né voti religiosi, né alcun altro impegno che sia contrario ai diritti naturali, o alla Costituzione”. (Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del Cittadino, 1789).

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2. L’affermazione che la sovranità spetta non al sovrano né allo stato ma alla Nazione, intesa come universalità dei cittadini, i quali, tramite meccanismi elettivi di tipo rappresentativo, danno vita al potere legislativo: “La sovranità è una, indivisibile, inalienabile, imprescrittibile. Essa appartiene al popolo, nessuna frazione di popolo, né alcun individuo può attribuirsene l’esercizio”. (Cost. del 1791, titolo III, art. 1)

3. La superiorità della legge, intesa come espressione della volontà generale, su ogni altro atto, e dunque come volontà nella quale la sovranità della Nazione si esprime. “La legge è l’espressione libera e solenne della volontà generale. Essa è la stessa per tutti, sia che protegga, sia che punisca.” (Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino).

4. La subordinazione alla legge sia della amministrazione sia della giurisdizione e la contemporanea affermazione del principio di separazione dei poteri. “Gli amministratori non possono né ingerirsi nell’esercizio del potere legislativo, o sospendere l’esecuzione delle leggi, né compiere alcun atto sull’ordine giudiziario, né sulle disposizioni od operazioni militari” (Cost. 1791, art. 3 cap. 4). “I tribunali non possono né ingerirsi nell’esercizio del Potere legislativo, o sospendere l’esecuzione delle leggi, né compiere atti sulle funzioni amministrative, o citare davanti a loro gli amministratori in relazione delle relative funzioni.” (Costituzione del 1791, cap. V, art. 3).

5. La ristrutturazione dei territori secondo una divisione uniforme. “Il Regno è uno e indivisibile; il suo territorio è diviso in ottantatré dipartimenti, ogni dipartimento in distretti, ogni distretto in cantoni. Vi è in ogni dipartimento una amministrazione superiore, e in ogni distretto una amministrazione inferiore.” (Costituzione del 1791, titolo II, art. 1).

6. L’elenco di una serie di diritti imprescrittibili, inalienabili, fondamentali dell’Uomo e del Cittadino. Come torneremo a osservare, questo elenco di diritti serve a limitare la legge, che di essi non può disporre; al tempo stesso, è la legge che è incaricata di porli in essere e regolarli.

Vediamo alcuni di questi diritti (spesso connessi a norme organizzative), per come apparivano nella Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789, documento simbolo della Rivoluzione, e ancora oggi parte del patrimonio costituzionale francese (accanto in neretto la definizione di alcuni di essi).

Articolo 1: Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune.

Articolo 2: Il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione.

Articolo 3: La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri: così l’esercizio dei diritti naturali di ciascun uomo ha come limiti solo quelli che assicurano agli altri membri della società il godimento di questi stessi diritti. Questi limiti possono essere determinati solo dalla Legge.

Articolo 7: Nessun uomo può essere accusato, arrestato o detenuto se non nei casi determinati dalla Legge e secondo le forme da essa prescritte. Quelli che procurano, spediscono, eseguono o fanno eseguire degli ordini arbitrari devono essere puniti; ma ogni cittadino citato o tratto in arresto, in virtù della Legge, deve obbedire immediatamente: opponendo resistenza si rende colpevole. (Libertà personale)

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Articolo 8: Le legge deve stabilire solo le pene strettamente necessarie e nessuno può essere punito se non in virtù di una legge stabilita e promulgata anteriormente al delitto e legalmente applicata. (Principio di legalità delle pene e dei reati e principio di irretroattività della legge penale)

Articolo 9: Presumendosi innocente ogni uomo sino a quando non sia stato dichiarato colpevole, se si ritiene indispensabile arrestarlo, ogni rigore non necessario per assicurarsi della sua persona deve essere severamente represso dalla legge. (Principio di presunzione di innocenza e divieto di pene disumane)

Articolo 10: Nessuno deve essere molestato per le sue opinioni, anche religiose, purché la manifestazione di esse non turbi l’ordine pubblico stabilito dalla legge. (Diritto di libertà di opinione e religiosa)

Articolo 11: La libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell’uomo: ogni cittadino può dunque parlare, scrivere, stampare liberamente, salvo a rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi stabiliti dalla Legge (Diritto di libertà di manifestazione del pensiero)

Articolo 16: Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha Costituzione.

Articolo 17: La proprietà essendo un diritto inviolabile e sacro, nessuno può esserne privato, salvo quando la necessità pubblica, legalmente constatata, lo esiga in maniera evidente, e previa una giusta indennità. (Diritto di proprietà).

Ora esamineremo questi contenuti di fondo delle Costituzioni rivoluzionarie cercando di approfondirne il significato e di cogliere le connessioni tra essi, muovendo dal loro perno: l’eguaglianza.

2.Uguaglianza ‘naturale’ e ‘davanti alla legge’

A costo di inenarrabili e spaventose violenze, che ne fanno una delle pagine più sanguinose della storia del genere umano, la Rivoluzione francese realizza dunque ciò che l’assolutismo non era riuscito a compiere, l’abolizione dei ceti e la affermazione della eguaglianza:

a) come eguaglianza ‘naturale’ degli uomini nei dirittib) come eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge.

Rileggiamo la fondamentale affermazione della Dichiarazione del 1789, che comprende ambedue gli aspetti: eguaglianza naturale e eguaglianza giuridica:

Tutti gli uomini sono eguali per natura e davanti alla legge. La legge è l’espressione libera e solenne della volontà generale. Essa è la stessa per tutti, sia che protegga, sia che punisca.

L’idea di ‘eguaglianza ‘naturale’ rifletteva convinzioni filosofiche che erano state agitate dagli Illuministi con una cosciente e forte intenzione polemica contro l’assetto dell’Ancien Régime. In contrapposizione al quadro offerto dalla realtà storica in cui vivevano, che conosceva la divisione della società in ceti, la differenziazione dei regimi giuridici a seconda dello status, da cui conseguivano pluralità di ordinamenti e trattamenti giuridici differenziati, i filosofi illuministi delinearono l’ordine della società che a loro avviso discendeva pianamente da alcune leggi di pura Ragione. Osservando la Natura, che ci fa nascere tutti eguali e ci sottopone tutti allo stesso destino

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mortale, non si può non desumere, essi sostenevano, che tutti dobbiamo avere uno stesso status davanti alla legge, e che quest’ultima deve valere allo stesso modo per tutti. Le idee dei filosofi illuministi si alimentavano a una corrente di pensiero che chiamiamo del Secondo Diritto Naturale, per distinguerla dalle dottrine, di radice romanistica, del Primo Diritto Naturale. Come sappiamo, il Primo diritto naturale era ispirato dall’idea che la ricerca della giustizia, animata dal principio del suum cuique tribuere, dovesse tener conto della natura delle cose e cercare di attribuire a ciascuno e a ciascun problema un trattamento adeguato alle sue caratteristiche; il suo modo di procedere e di ragionare è dunque circostanziato, attento alle specificità di ogni problema, e restio all’idea che la realtà possa essere tutta organizzata dentro un ordine perenne, certo, universale e immodificabile. Al contrario, il Secondo Diritto Naturale postula proprio che un tale ordine esista, e possa essere identificato, utilizzando la Ragione, nell’osservazione delle eterne leggi naturali, o divine. Secondo i teorici del Secondo Diritto Naturale il diritto umano doveva a sua volta ispirarsi a queste eterne leggi naturali, essere composto da norme generali, chiare, semplici, universali, che non avrebbero richiesto i complessi ragionamenti dei giuristi, il ricorso all’analogia, alla ratio legis, nei quali, a loro giudizio, si annidava l’arbitrio e che comunque apparivano loro consustanziali alla società ‘innaturalmente’ divisa in ceti. Una volta che nel mondo, in ubbidienza alle leggi naturali, si fossero imposte leggi uguali per tutti, ai giuristi non sarebbe rimasto che il compito di stabilire le conseguenze che in ogni caso concreto discendevano automaticamente dalla previsione di legge.

Il principio dell’eguaglianza giuridica, per cui ‘tutti sono uguali davanti alla legge’ apparì dunque come una traduzione necessaria di una legge di natura. Questo ha fatto sì allora, e continua a far sì ancora oggi, che tutti noi, quasi spontaneamente, assegniamo a quel principio una valenza fondamentalissima, sentiamo con certezza che esso è la garanzia più profonda contro trattamenti arbitrari. Tuttavia, non si trattava soltanto di realizzare finalmente la legge di natura, la Giustizia con la G maiuscola. Il principio di eguaglianza davanti alla legge è infatti un principio a due facce. Da una parte, garantisce che ciascun cittadino è soggetto alla stessa legge di un altro, che non ci sono più privilegiati che hanno un loro diritto particolare, o che possono sottrarsi all’applicazione della legge che vale per altri, in nome del ceto cui appartengono. Il principio secondo cui la legge ‘vale per tutti’ significa in altri termini che il legislatore ha il potere di dettare norme alla cui osservanza nessuno si può sottrarre. In nome della Legge di Natura e dell’eguaglianza naturale di tutti gli uomini, la Rivoluzione francese raggiunse l’obiettivo che i sovrani assoluti avevano cercato di conseguire, senza riuscirvi, vale a dire la conquista effettiva della sovranità, cioè del poter di dettare norme senza che alcun potere sociale, alcun soggetto, alcun organo o potere statale possa farvi obiezione o sottrarsene. Questo elemento non sfuggì a Tocqueville, il quale osservò:

“A meno di un anno dall’inizio della Rivoluzione Mirabeau scriveva segretamente al Re: ‘Paragonate il nuovo stato di cose con l’antico regime … Non conta dunque per nulla esser senza parlamenti, senza paesi di Stato, senza corpi di clero, di privilegiati, di nobili? L’idea di formare un’unica classe di cittadini sarebbe piaciuta a Richelieu: tale superficie tutta eguale facilita l’esercizio del potere’24.

3.(continua)L’uguaglianza davanti alla legge e il problema dell’onnipotenza del legislatore

La volontà del sovrano è legge per tutti, in effetti, solo dove c’è il principio di uguaglianza giuridica, davanti alla legge. Considerando le cose da questo punto di vista, può risultare chiaro che essere tutti uguali davanti alla legge significa che nessuno ha il potere di sottrarsi alla osservanza della legge, e cioè anche che tutti sono uniformati nel dovere di obbedienza, nella soggezione, appunto, alla legge. Il principio di uguaglianza giuridica o davanti alla legge esprime perciò non solo una garanzia che noi abbiamo nei confronti della legge, ma anche la

24 L’Antico Regime, cit.60

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consacrazione il potere sconfinato che la legge rivendica su di noi, su tutti gli appartenenti alla società, il fatto che non esiste alcuno schermo che si frapponga tra un membro della società e la volontà che la governa. Abbiamo ottenuta l’eguaglianza per essere tutti egualmente schiavi? Si chiede Tocqueville, e con lui se lo sarebbe chiesto e si chiede una schiera di pensatori che sono venuti dopo.

Molti infatti hanno notato che, per come lo concepì la Rivoluzione francese, l’eguaglianza instaura un grande vuoto tra autorità pubblica e individuo: nella relazione tra potere e cittadino non si frappongono più – almeno nel disegno rivoluzionario – i poteri intermedi che fanno da cuscinetto e da argine. Come impedire che la legge, divenuta onnipotente, contenga prescrizioni che attentano alle libertà individuali o privano le persone dei loro diritti?

Va anche considerato che il principio di eguaglianza davanti alla legge, proprio perché si limita a stabilire che la legge vale per tutti, non affronta il problema delle ingiustizie che possono derivare proprio dall’applicazione di una legge eguale a casi diversi. E’ giusto punire con la stessa pena chi ruba per bisogno e chi ruba solo per arricchirsi ulteriormente?

Le dottrine del Secondo Diritto Naturale pensavano di avere risolto alcuni di questi problemi dal momento che esse prevedevano che tutti sono uguali, e pertanto hanno anche una serie di diritti naturali e ‘imprescrittibili’, cioè tali per cui nessuna legge può violarli, per esempio il diritto alla vita, alla proprietà, alla fede religiosa. Si istituiva in tal modo una strana contrapposizione tra legge ‘positiva’ (quella dettata dalle autorità umane) e legge ‘naturale’. Da una parte, per non contravvenire alle leggi naturali, la legge umana doveva essere onnipotente; ma, per lo stesso motivo, essa non poteva nemmeno disporre in modi contrari alle libertà naturali degli uomini. Si può percepire qui un artificio razionalistico: una volta stabilito che la legge umana è onnipotente perché questo è legge di Natura, solo l’amore per le simmetrie teoriche ed astratte, può far credere che la legge umana si fermi davanti ad altre leggi naturali. Oppure una fede immensa nella virtù, nella moralità, di chi esercita il potere. Di fatto, proprio nelle dichiarazioni rivoluzionarie, la proclamazione dell’eguaglianza giuridica si accompagnava sempre alla affermazione di una serie di diritti ‘naturali e imprescrittibili’ dell’essere umano25, che intendevano valere come limitazioni al potere della legge. Tuttavia come difendere effettivamente questi diritti davanti alla legge diventata onnipotente, fu un interrogativo che la rivoluzione si limitò ad aprire drammaticamente, quando la stessa successione delle costituzioni rivoluzionarie dimostrò in via di fatto che diritti riconosciuti per legge (o per costituzione) sono cancellabili da altra legge o altra costituzione.

La razionalità illuministica era molto ostile alla diversa forma di razionalità che era stata propria dell’ordine antico, e della quale era esempio principale la logica ‘del probabile e del ragionevole’ di cui erano stati portatori i giuristi del diritto comune. Nella logica equitativa che imponeva ‘ragionevolezza’ al legislatore si percepiva la capacità di arginare, limitare, moderare la legge; e questo appariva un disvalore in un’epoca in cui si credeva fortemente nella necessità di riforme, cambiamenti, modernizzazione che per riuscire richiedevano una volontà legislativa che non trovasse ostacoli. Lo sforzo della Rivoluzione, poi dell’età napoleonica e infine dello stato liberale sarà quello di modificare il ruolo della giurisdizione rispetto a quello che le era proprio nell’ordine antico, riducendone la funzione a quella di eseguire la legge senza discutere. Si affermerà l’idea che il diritto è solo quello posto dalla legge, e che solo ciò che la legge stabilisce è diritto (positivismo giuridico). Si affermerà anche la tesi della ‘completezza dell’ordinamento giuridico’: la legge regola tutti i casi possibili, se non vi sono lacune, non c’è bisogno di ricorrere

25 Oltre alle disposizioni riportate in precedenza, possiamo ricordare, in questo senso queste prescrizioni: “Il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione” (Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino). “ Governo è istituito per garantire all’uomo il godimento dei suoi diritti naturali e imprescrittibili.”(Costituzione del 1793)

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all’analogia; o, comunque, si limiteranno con legge le ipotesi in cui il giudice può utilizzare questo e altri strumenti interpretativi.

Tuttavia, nel corso del tempo, l’incapacità del solo principio di eguaglianza davanti alla legge di prevenire esiti ingiusti e arbitrari, da un lato; l’impossibilità che il diritto scritto preveda tutti i possibili casi della vita, dall’altro lato, hanno, come vedremo, mantenuto in vita, e poi riportato pienamente al centro dell’esperienza giuridica, la necessità di fare appello a quelle risorse della logica giuridica che risalgono all’eguaglianza come criterio della valutazione giuridica, dunque alle risorse di un ragionamento equitativo capace di assicurare che ciò che è uguale sia trattato in modo eguale, e ciò che è diverso sia trattato in modo diverso.

4.(continua)Conseguenze e implicazioni dell’affermazione dell’eguaglianza giuridica

Bisogna ora considerare l’insieme enorme di conseguenze socio-economiche derivanti dalla abolizione dei ceti26. La principale conseguenza di essa fu il travolgimento delle due fondamentali assi socio-economiche che i ceti significavano: la non-commerciabilità delle terre nobiliari ed ecclesiastiche, e la non-commerciabilità del lavoro, nonché il travolgimento di tutte quelle strutture pubbliche che, in quanto esercitate sulla base di uffici ereditari, il potere dei ceti riflettevano, e in particolare quelle relative alla giustizia, destinata a tramutarsi in un corpo di funzionari statali.

L’abolizione dei ceti realizza, si può dire, la definitiva creazione dello stato, e ispira di sé tutta la concezione rivoluzionaria degli istituti pubblici. Nel modo in cui le Costituzioni li disegnano, la preoccupazione centrale dell’abbattimento dei ceti si ripropone in ogni momento. L’insistenza sull’indivisibilità e unità della Nazione, sul fatto che nessun corpo e nessun individuo, può ‘arrogarsela’ va in questa direzione27, e in questa direzione va la centralità conquistata dalla cittadinanza: a come la si acquista, a come la si perde, sono dedicate norme che sono costituzionali perché l’idea stessa di cittadinanza è costitutiva della nuova concezione della sovranità che con la Rivoluzione si modella definitivamente. La cittadinanza è lo status che tutti condividono, l’insieme di diritti e obblighi di cui tutti sono titolari in quanto appartenenti allo stato, in un universo dove sono venuti meno gli status particolari. Alla stessa esigenza risponde anche la riorganizzazione del territorio, che ne annulla la storia particolare, e lo ridefinisce secondo strutture amministrative, in grado di ripartirvi la volontà che promana dal centro28.26 Vero primo atto della Rivoluzione, posto che l’Assemblea nazionale costituente, l’organo in cui, inizialmente col nome di Assemblea Nazionale, i deputati del Terzo Stato trasformarono l’Assemblea degli Stati generali, si considerò rappresentativa del popolo e non dei ceti, con ciò realizzando ipso facto la rottura dell’ordine antico. L’abolizione della feudalità e dei privilegi fu poi deliberata, nei disordini violentissimi del periodo della Grande Paura, tra la ribellione della nobiltà in armi e il popolo che dava l’assalto ai castelli feudali, il 4 agosto 1789. La Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino, documento-simbolo della Rivoluzione, e ancora oggi parte del patrimonio costituzionale francese, fu approvata il successivo 26 agosto.

27 Ogni individuo che usurpa la sovranità, sarà all’istante messo a morte dagli uomini liberi (Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino 1791)

28 “Sarà fatta una nuova divisione del Regno in dipartimenti (…); ogni dipartimento sarà diviso in distretti (…) ogni distretto sarà diviso in cantoni” recitava già un decreto del 1789, poi recepito nella costituzione del 1791.Il dipartimento diventava l’unità stereotipa e uniforme di descrizione del territorio, lo strumento per evitare la ricostituzione di potenti istituzioni locali, un’arma contro la risorgenza di poteri signorili e locali. La consacrazione dell’unità amministrativa era consacrazione dell’unità dello stato: “Lo Stato è uno, i dipartimenti non sono che sezioni di un medesimo tutto, un’amministrazione comune deve dunque abbracciarli in un regime comune”, proclamavano le Istruzioni per la formazione delle assemblee rappresentative e dei corpi amministrativi dell’8 gennaio 1790”. Lo stesso decreto prevede che “ci sarà una municipalità in ogni città, borgo, parrocchia o comunità rurale” ma i contenuti dei compiti delle municipalità, delle comunità locali, sono stabiliti dalla legge: “da questo momento, ciò che è locale non dipende più da forme di autonomia corporativa, ma è definito dalla volontà generale: organizzazione, funzioni, compiti dei corpi locali sono integralmente disciplinati dal legislatore nazionale. Cfr. L. Mannori e B. Sordi, op. cit., p. 207.

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5.Razionalismo

Come abbiamo detto poco sopra, l’onnipotenza della legge realizzava uno dei sogni propri di un’epoca abituata a un pensiero estremamente razionalista, convinto che la vita sociale potesse essere regolata a poche e semplici regole di tipo geometrico, che riforme ben congegnate e calate dall’alto potessero cambiare le cose dall’oggi al domani e in meglio. Questa mentalità si radicava nel cartesianesimo, e aveva germinato nel pensiero dei filosofi illuministi, e dei fisiocrati, negli ultimi decenni dell’Antico Regime29. Le traduzioni di queste concezioni in campo economico furono offerte dalla fisiocrazia, una scuola di economisti che cominciò a sostituirsi al mercantilismo nella seconda metà del ‘700. Secondo i fisiocrati, solo un illuminato dispotismo30 capace di organizzare la vita sociale intorno a poche e chiare regole avrebbe favorito il progresso e la ricchezza. Insieme all’illuminismo razionalista, la fisiocrazia fornisce la Rivoluzione francese di quella convinzione, anche ingenua, che gronda dalle Costituzioni rivoluzionarie: la convinzione che tutto l’assetto di una Nazione possa essere cambiato da un giorno all’altro, che una riforma, sol perché in sé logica, poi funzioni quando applicata a qualcosa di così complesso e vivo come la società. Di fatto, lo sconvolgimento sanguinoso che la Rivoluzione significò, e i 25 e più anni di sconquasso che determinò in tutta Europa, dimostrano da soli quanto di inaspettato, di incontrollabile, di imprevedibile può scatenare l’applicazione alla società di una riforma pensata a tavolino.

6.La separazione dei poteri

Il principio rivoluzionario di supremazia della legge nasceva come collegato all’idea democratica di una legittimazione dal basso del potere (la legge come espressione della ‘volontà generale’). Tuttavia, la supremazia della legge non ha bisogno, per instaurarsi, della democrazia, e può funzionare anche contro i presupposti di essa. Una condizione di cui invece la supremazia della legge, per affermarsi, ha sicuramente necessità, è la ‘separazione dei poteri’, che fu affermata con enorme insistenza nella Rivoluzione francese, in polemica stridente con la concezione ‘mista’ dei poteri dell’ordine antico. Il principio di separazione dei poteri concepito dalle costituzioni rivoluzionarie è separazione tutta a garanzia della legge, da un lato, e dell’amministrazione, dall’altro lato. Esso serve ad affermare che i tribunali non si ingeriranno sulla interpretazione e applicazione della legge, né sulla attività dell’amministrazione. La Rivoluzione infatti non solo conserva, ma anzi rafforza, le autonomie e le immunità di cui l’amministrazione già godeva ormai, nei confronti della davanti alla giurisdizione, nell’assolutismo, e al giudice nega il potere di chiedersi se la legge che deve applicare è ‘giusta’ rispetto al caso regolato.

Ha scritto Gino Gorla che con la divisione dei poteri inizia la decadenza del giudiziario. La divisione dei poteri, ha osservato questo grande giurista italiano, “è pensata per garantire

29 Quando “sopra la società vera, con la costituzione ancora tradizionale, confusa e irregolare, con le leggi differenti e contraddittorie, i ranghi separati, le classi immutabili, e i gravami diseguali, si elevava a poco a poco una società immaginaria, nella quale tutto sembrava semplice e coordinato, eguale e giusto, conforme a ragione”: L’Antico Regime, cit., p. 193.

30 “Secondo i fisiocrati, lo Stato non deve solo comandare alla Nazione, ma foggiarla in un dato modo: tocca ad esso formare lo spirito dei cittadini sopra un dato modello che si è proposto in anticipo; è suo dovere penetrarli di certe idee e fornire al loro cuore i sentimenti che giudica necessari. In realtà i suoi diritti non hanno limiti e quanto può fare non ha confini: non soltanto riforma gli uomini, ma li trasforma; forse dipenderebbe soltanto da esso anche farne degli altri! “Lo Stato fa degli uomini tutto ciò che vuole” scrive Bodeau. Questa frase riassume tutte le loro teorie. Questo immenso potere sociale immaginato dagli economisti non è soltanto più grande di tuti quelli che essi hanno sotto gli occhi, ma ne differisce per l’origine e per il carattere. Non deriva direttamente da Dio, non si riallaccia alla tradizione: è impersonale. Non si chiama più ‘il re’, ma ‘lo Stato’. Non è più l’eredità di una famiglia, ma il prodotto e il rappresentante di tutti e deve far piegare il diritto di ognuno sotto la volontà di tutti” (209)

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l’indipendenza del potere esecutivo e specialmente di quello legislativo contro il potere giudiziario”. Quest’ultimo, nell’età di mezzo, era l’unico che di indipendenza già godeva, anzi ‘invadeva’ il campo ‘altrui’ – osservava polemicamente il nuovo Razionalismo - amministrando e facendo leggi. La divisione dei poteri pone al giudiziario un freno, inteso a farlo tramontare dal rango di potere politico che aveva detenuto in passato.

7.La traiettoria delle forme di governo tra Rivoluzione e Impero

Secondo uno schema che sarà tipico di ogni costituzione contemporanea, tutte le Costituzioni rivoluzionarie contengono, oltre alle norme sui diritti e i doveri, e a quelle sulla amministrazione e sulla giurisdizione, sul territorio e la cittadinanza, norme che descrivono la forma di governo: ovvero stabiliscono chi esercita la legislazione, chi detiene il Governo, cioè la guida della amministrazione e della politica generale. Le costituzioni che si succedono nel periodo rivoluzionario segnano in questa materia i grandi cambiamenti politici che portarono alla sostituzione dell’una con un’altra. Gli smottamenti, le crisi, gli assestamenti che si verificarono a questo livello furono infatti la ragione del drammatico susseguirsi di diverse Costituzioni, e di diversi modelli di governo. Dopo che il principio monarchico, ancora parzialmente conservato dalla Costituzione del 1789 – che formula come forma di governo la monarchia limitata, ossia mantiene il Monarca (soggetto alla legge) affiancandogli i Corpi legislativi – viene definitivamente travolto, fu per sempre perduta la certezza che nei secoli aveva indicato, tramite la linea dinastica, il detentore del potere supremo. Noi non ci soffermeremo sul complesso repertorio delle forme di governo di questo periodo, se non per segnalare che, attraverso la successione dalla monarchia limitata al Direttorio e poi al Consolato, che segna la salita al potere di Napoleone Primo Console, poi incoronato Imperatore nel 1801, la vocazione ‘democratica’ della rivoluzione viene inarrestabilmente travolta dall’accentramento nel Capo del Governo del potere di esprimere la volontà generale. E’ interessante ricordare che nella Costituzione del 1799 (che istituisce il Consolato: Napoleone è il Primo Console), il legislativo diventa chiamato solo ad approvare le proposte di legge del Governo (studiate e redatte dal Consiglio di Stato): “Saranno promulgare nuove leggi soltanto nel caso in cui il progetto sarà proposto dal governo e decretato dal Corpo legislativo”. Era la volontà del potere esecutivo che diventava legge, ossia il sogno dei sovrani assoluti che si realizzava

Mentre si svolgeva la serie impressionante di cambiamenti che tra Rivoluzione e Impero investono la forma di governo, due linee andavano consolidandosi, per essere consegnate come patrimonio acquisito allo stato ottocentesco: la burocratizzazione della giurisdizione e la consacrazione della amministrazione come cuore dell’attività dello stato.

B.La burocratizzazione della giurisdizione

1.La burocratizzazione della giurisdizione

Come abbiamo sin qui già osservato più volte, il vero soggetto pubblico che, con la Rivoluzione e il periodo napoleonico, riuscirà effettivamente subordinato a qualcosa, e molto ridimensionato rispetto al passato, è in realtà il giudice, di cui la Rivoluzione ricorda molto bene, e perciò esorcizza e annulla, il potere di valutare il diritto che è chiamato ad applicare, di domandarsene l’adeguatezza al caso regolato. Per chi era preoccupato di assicurare onnipotenza alla legge, la limitazione dei poteri della giurisdizione era essenziale: la legge avrebbe altrimenti troppo facilmente finito per risultare solo una delle tante fonti che il giudice prendeva in considerazione nella sua opera di

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riconoscimento del diritto applicabile e di cui, coi suoi strumenti interpretativi, definiva l’estensione e la portata.

La Rivoluzione per prima cosa sopprime, coi diritti feudali, la giustizia signorile, istituendo il principio per cui la giustizia è demandata “ai soli tribunali istituiti per legge e secondo le forme determinate dalla legge”31.

Poi si impegna a introdurre un ‘codice delle leggi’32, un riordino del diritto vigente che ponendo nel nulla il diritto antico e la storia, le tradizioni, gli usi e le mentalità di cui è espressione, e che stabilisca anche regole sui modi di ragionare consentiti ai giudici (per esempio stabilendo in che limiti si può ricorrere all’analogia, quando è vietata, ecc.).

Per ricondurre i giudici alla ‘soggezione’ e cioè all’”obbedienza” della legge, la Rivoluzione creò, inoltre, due istituti molto importanti e completamente nuovi, e vistosamente orientati a impedire che il giudice, nel decidere una controversia e nell’interpretare la legge, potesse contraddirne la volontà: il referé legislatif, in forza del quale il giudice, in caso di dubbio, doveva rivolgersi al corpo legislativo perché interpretasse esso stesso il proprio testo, e il Tribunale (poi Corte) di Cassazione, incaricato di “annullare le sentenze che contengono una violazione esplicita della legge”, che rimase come modello delle Corti di Cassazione, o Corti supreme di legittimità, adottate in tutti gli Stati europei continentali, e che sono le Corti chiamati verificare se, nel decidere un caso, un altro giudice ha scelto la norma adatta e ne ha dato una corretta interpretazione33. I poteri interpretativi del giudice venivano ridotti; e la giurisdizione veniva organizzata secondo un ordine gerarchico che ricordava quello adottato per la amministrazione, cui in effetti la giurisdizione era ormai equiparata, come potere a sua volta chiamato a dare ‘ applicazione ‘ alla legge e ad esso subordinato.

La legislazione napoleonica proseguì in questo solco con una legge sull’organizzazione giudiziaria (1810) che organizzava la magistratura in gradi analoghi all’esercito; ribadiva l’unicità della giurisdizione (c’è una sola giurisdizione, quella dello stato); attribuiva al governo il controllo sul reclutamento e la carriera dei magistrati.

Anche l’impresa della codificazione, promessa ma non compiuta dalla Rivoluzione, fu realizzata da Napoleone, che nel 1804 fece approvare un codice, passato alla storia come Codice Napoleone, che raccoglieva il diritto privato vigente in Francia, che fornì il modello a tutte le codificazione sui presero mano gli Stati italiani preunitari e poi il Regno d’Italia, e che ha influito in modo determinante sulla concezione del diritto in Europa continentale.

2. La codificazione

La codificazione del diritto risponde all’idea che uno stato nazionale, sovrano nel suo territorio, non potrebbe considerarsi tale se all’interno dei suoi confini e nei rapporti tra i suoi cittadini venisse

31 “Nous les avons enterrés tout vivants!” (Li abbiamo seppelliti ancora vivi!) esclamò un deputato all’uscita della seduta che, rinnovando un editto immediatamente anteriore alla Rivoluzione, del 1788, abolì i Parlamenti. La citazione in N. Picardi, La giurisdizione all’alba del terzo millennio, Giuffrè, Milano, 2005, p. 145.

32 Il codice delle leggi civili e penali è uniforme per tutta la Repubblica (1793).

33 Nella formulazione della Costituzione dell’anno III (1795): “Il tribunale di cassazione non può mai giudicare nel merito delle liti; ma cassa le sentenze pronunziate su procedure nelle quali le forme sono state violate, o che contengono qualche contravvenzione esplicita alla legge, e rinvia il merito del processo al tribunale che deve giudicarlo”. Nel modello del 1795 sedevano nella Corte rappresentanti del Governo (il Direttorio), che potevano denunciare al tribunale di cassazione gli atti nei quali i giudici hanno ecceduto dei loro poteri.

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applicato un diritto che lo stato non ha posto. La codificazione completa la formazione dello stato realizzando la ‘nazionalizzazione’ (o statizzazione) del diritto.

Naturalmente, la codificazione non significò e non poteva significare ricreare tutto il diritto ex novo34. I codici contennero quella che in gran parte non era che una riformulazione, una raccolta e una sistematizzazione del grande corpus del diritto comune per come si era venuto formando nei secoli. La vera novità non stava in ciò che il codice disponeva, ma il principio che la sua esistenza poneva: codificazione significa raccogliere in un unico testo il diritto allo scopo di stabilire che solo ciò che è in quel testo è diritto (proibisce, obbliga) perché solo l’autorità che ha approvato, voluto e promulgato quel testo è capace di porre il diritto.

Se, in molti casi, i redattori dei codici spesso non fecero che riscrivere la definizione di mutuo, di locazione o di matrimonio che nei millenni la giurisprudenza aveva sviluppato, molto, anzi tutto, cambiava comunque. Quello che cambiava, era che da quel momento in poi il giudice che si occupava di mutuo, di locazione o di matrimonio la fonte delle sue decisioni era la legge (il codice) francese, non più il sapere giuridico. Il giudice doveva trarre le corrispondenti definizioni e le corrispondenti conseguenze da quello che era scritto nel codice e non da proprie valutazioni inerenti il caso concreto o risalenti a criteri di equità che la giurisprudenza aveva sviluppato e che potevano mettersi in concorrenza con quello che sembrava giusto al sovrano. Egli doveva applicare il diritto francese, il codice civile di Francia; non il diritto romano comune, risultato della millenaria opera della giurisprudenza. Come ebbe orgogliosamente a dire un giurista francese del tempo:

“Io non conosco il diritto romano; io insegno il Code Napoléon”

che era una chiara dichiarazione di rottura con l’autorità del passato e una orgogliosa rivendicazione del carattere ormai nazionale del diritto.

Le norme di procedura (norme del tutto nuove che disciplinarono il processo, che sino ad allora si svolgeva secondo criteri stabiliti autonomamente dalle diverse giurisdizioni) si preoccuparono di chiarire che le sentenze emesse in stati stranieri non valevano in Francia, ribadendo il carattere statuale del diritto, anche in questo senso non più “comune” ma diverso da stato a stato (perché risalente a diversi ‘sovrani’).

L’idea che la fonte del diritto fosse la legge dello Stato faceva con evidenza del diritto uno strumento di quest’ultimo, dello Stato, appunto: un mezzo per realizzare fini di riforma, di cambiamento, di innovazione, di superamento dei vincoli, delle chiusure, dei privilegi del passato (perché il passato veniva sempre rappresentato come una cosa negativa e brutta, secondo l’atteggiamento che è tipico di ogni stagione riformatrice). Codificando il diritto, molto, infatti, del passato venne conservato, ma molto fu travolto. Istituti millenari ma non più consoni alle esigenze di una borghesia imprenditoriale vennero cancellati, a partire da tutti i limiti che circondavano la circolazione economica della proprietà immobiliare. Idee nuove sulla società e sui modi di vivere si imposero: per esempio una nuova idea di famiglia, e di come trasmettere i patrimoni familiari: il codice Napoleone introdusse il divorzio (ma non nella versione che ne fu stesa per l’Italia).

Il percorso che abbiamo descritto è stato enormemente influente nel nostro Paese, che ne ha ricevuto segni indelebili. La legislazione rivoluzionaria e napoleonica cui abbiamo fatto riferimento, e quella in materia amministrativa cui ci riferiremo avanti, fu recepita nelle Repubbliche giacobine che si 34 In effetti, si trattò, a differenza di molti altri istituti rivoluzionari, di una ‘innovazione nella tradizione, perciò saggia e durevole” (N. Picardi, op. cit., 151): se i codici sono ciò che di quell’epoca più ha durato e più ha avuto influenza, si deve al fatto che essi non furono scritti da quei philósophes iperrazionalisti ed astratti, e del tutto inesperti della cosa pubblica, contro cui Tocqueville indirizza il suo dileggio, ma da esperti giuristi dalla grande esperienza pratica, estremamente consapevoli di quello che facevano e della delicatezza dell’operazione di innestare il codice sul grande corpo del diritto comune. Parla da sé anche il fatto che, nell’adattamento del codice Napoleone per l’Italia, fu coinvolto uno dei più grandi giuristi italiani di tutti i tempi, Gian Domenico Romagnosi.

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costituirono tra il 1776 e il 1779, e in particolare nelle Repubbliche cispadana e cisalpina, napoletana e romana. Durante il periodo di occupazione napoleonica, la legislazione francese venne direttamente applicata in vari stati italiani preunitari, realizzandosi così un travaso di esperienze, di mentalità, di idee e di principi che sarebbe rimasto operante anche dopo la Restaurazione e fino all’unità d’Italia. I primi codici del Regno d’Italia, emanati intorno al 1865, erano ancora ampiamente ispirati al Code Napoléon. Tuttavia, il nostro codice del 1865 manteneva l’equità (come apprezzamento del giudice nel caso concreto) tra le fonti del diritto. Era un segno del fatto che, nel bene e nel male, la nostra esperienza non è mai stata imbevuta sino in fondo dello statualismo che ha impregnato l’esperienza francese.

Ogni ordinamento modellato sul tipo “stato nazionale” avrebbe in seguito adottato codici, e caratteristica di essi sarebbe stata quella di contenere una disposizione che si è assunta il ruolo di indicare quali sono le fonti del diritto, cioè gli atti al cui contenuto il giudice può guardare per risolvere le controversie, e una disposizione che detta ‘norme sull’interpretazione’ cioè stabilisce i criteri che il giudice deve seguire per interpretare la legge. Vincolandolo, in primo luogo, al rispetto della ‘lettera’ della legge (cioè al tenore letterale della disposizione), e vietandogli di ricorrere a fonti ‘culturali’ come i precedenti giudiziari, la dottrina, o l’equità.

In questo modo la legge – manifestazione della volontà del potere politico- diventava l’atto dal quale ogni altra manifestazione normativa ricavava la sua possibilità di esistenza e le sue condizioni di validità: la legge diventava la fonte di riconoscimento del diritto, cioè l’unico atto abilitato a stabilire quali altri atti producono norme obbligatorie, che il giudice deve applicare e le persone osservare, con la conseguenza che nessun atto, fatto o criterio, che la legge non abilitasse a produrre diritto, poteva costituire punto di riferimento per le valutazioni del giudice nella decisione di una controversia.

In questo modo che legge (dunque in linea teorica il sovrano, lo stato) diventava così la principale fonte di riconoscimento del diritto, mentre non lo era più la giurisdizione.

3.Riflessi sulla ragione giuridica: l’avvento della logica dimostrativa e del sillogismo giudiziale nel ragionamento giuridico

Un’altra implicazione della ‘statizzazione’ del diritto realizzatasi nel tornante rivoluzionario e napoleonico, ed esemplata nella codificazione, si è manifestata, e in modo molto durevole, sulla ‘logica giuridica’ sul modo di ragionare che da allora si ritenne appropriato utilizzare in diritto.

Contrariamente a quanto abbiamo visto fosse il modo diffuso di pensare nell’epoca del diritto comune, la codificazione, l’idea che tutto il diritto sia solo quello espresso nella legge o nelle altre fonti che essa autorizza a produrlo, ha permesso di pensare che fosse possibile e doveroso per il giurista fare ricorso a una logica dimostrativa di tipo matematico (in grado, si pensava, di garantire una certezza dello stesso tipo di quella scientifica e perciò di evitare arbitri).

La legge dettata dal sovrano, dallo stato, che si proponeva di essere generalmente valida e per una serie infinita di casi, di offrire la risposta a tutte le ipotesi, venne immaginata come la ‘premessa necessaria’ del ragionamento del giudice, che doveva dedurre dalla legge le conseguenze necessarie, e in tal senso limitarsi ad ‘applicare’ la legge al caso concreto.

Questo tipo di ragionamento si chiama ‘sillogistico’ e serve a far apparire il ragionamento del giudice come neutrale ed avalutativo. Il sillogismo giudiziale consisterebbe in questo tipo di deduzione: Se è vero A (che la legge punisce l’omicidio con una certa pena) ed è vero B (che Tizio ha commesso omicidio) allora ne consegue C (la pena che A fissa). Questa ricostruzione,

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imponendo al giudice di farsi ‘bocca della legge’, vuole impedire al giudice di tener conto di elementi circostanziali e concreti, che differenziano tra loro i casi simili, vuol garantire all’applicazione della legge universalità e oggettività. Il sillogismo giudiziale vuole ottenere la neutralità del giudice; meglio, gli vuole imporre di proteggere gli stessi interessi, gli stessi valori, gli stessi punti di vista che il legislatore (cioè l’organo politico) ha inteso proteggere.

L’attività del giudice diventò così quella di tecnico specializzato nella esatta esegesi (interpretazione) della volontà del legislatore, una volontà che si differenzia da stato a stato. Così anche la formazione del giurista cambiò, il giurista iniziò a formarsi studiando il diritto (le leggi) valide nel suo paese e preoccupandosi specialmente di conoscere bene il diritto (cioè le leggi) del suo paese, e il diritto venne insegnato come un insieme autoreferenziale di precetti che avevano in sé la propria origine e giustificazione. Le ragioni politiche, economiche, storiche, che stavano dietro l’introduzione di questa o quella norma, non dovevano interessare al giurista. Tantomeno egli doveva preoccuparsi del contenuto di ciò che applicava, se fosse giusto, ingiusto, coerente o meno con altre leggi, ragionevole, contradditorio o meno. Era un altro modo per sancire la separazione tra diritto e politica, e tra diritto, società e storia, e, con questo, per negare le idee che circa il diritto, il suo ruolo e le sue espressioni avevano dominato prima della affermazione del nuovo modello organizzativo, lo Stato sovrano.

Si delineava un contesto in cui la legge è la fonte superiore a tutte le altre, e le deve essere data obbedienza da tutti, a partire dai giudici; essi non concorrono più, come un tempo, a creare il diritto, non sono portatori dei valori e delle tradizioni, né del punto di vista nascente da un sapere professionale che si forma autonomamente, e con il quale la legge potrebbe entrare in contraddizione; tanto meno essi sono portatori di un modo di usare la ragione, equitativo, volto alla ricerca di una composizione ragionevole delle controversie, alternativo a quello del legislatore. Trasformare la giurisdizione in una funzione dello Stato ha significato, in una parola, tentare di eliminarne l’autonomia, nel senso di capacità di darsi criteri di giudizio.

Le metafore cambiarono: la magistratura (non si parlava più di ‘giurisdizione’) veniva paragonata normalmente all’esercito e su di esso rimodellata: i giudici-burocrati erano divisi per gradi, organizzati verticisticamente, e immaginati come i fedeli esecutori e difensori della legge dello Stato.

4. Il positivismo statualista

Superiorità della legge, statizzazione del diritto, avalutatività del giudice, sillogismo giudiziale ono i cardini del positivismo statualista che ha informato di sé la concezione della giurisdizione dominante per tutto l’Ottocento, ben rappresentata da questo passo, scritto nel 1894, dall’influentissimo giuspubblicista italiano Vittorio Emanuele Orlando:

“Nel Medio Evo il giudice non di rado doveva trovare il diritto da applicare al caso singolo, onde può dirsi che partecipasse al potere legislativo, nel senso che oggidì vi si dà. Ma il sistema dei codici, in questo secolo prevalso e di cui l’Italia usa, suppone invece una rigorosa separazione della funzione legislativa dalla giudiziaria, e quindi l’obbligo strettissimo di applicare il testo legislativo, senza eluderlo né per ragioni di equità né col pretesto di far prevalere un preteso spirito della legge alla chiara espressione di essa”.

Il positivismo statualista asserisce che è diritto solo quello che viene posto, nelle forme previste dall’ordinamento e dalle autorità ciò preposte. Solo lo Stato (attraverso i suoi organi e con atti tipici) pone il diritto; solo ciò che è posto dallo Stato (attraverso i suoi organi e con atti tipici) è diritto.

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Il positivismo statualista si accompagna alla tesi della completezza dell’ordinamento giuridico: questa tesi afferma che nell’ordinamento, essendo quest’ultimo composto tutto e solo da norme dettate da legge o altri atti normativi, non vi sono lacune che possano essere colmate con l’interpretazione giuridica, con l’analogia, o il ricorso a questi metodi di ragionamento deve avvenire solo nei modi e nei casi che la legge stessa autorizza.

B. La consacrazione dell’amministrazione

1. L’acquisto dei compiti di concreta gestione, oltre a quelli regolamentari e contenziosi

Anche l’amministrazione compie, con la Rivoluzione una trasformazione epocale, ma, a differenza della giurisdizione, nel senso dell’espansione, della crescita e del rafforzamento dei suoi poteri. Intanto, l’attività dell’amministrazione non è più solo attività regolamentare o contenziosa, ma anche attività di concreta gestione degli interessi. Una volta scomparsi i corpi intermedi, ovverosia le comunità di villaggio, le corporazioni e gli ordini professionali, gli ordinamenti feudali, è infatti l’amministrazione ad assumere i compiti che un tempo venivano esercitati attraverso di essi: “Nel 1789 l’amministrazione è già vista sia come titolare di compiti di regolazione (tutela, sicurezza, salubrità) sia di erogazione (beneficienza, educazione, incentivazioni) sia di gestione patrimoniale (proprietà pubbliche, strade, foreste)”35.

2. La strutturazione in corpo burocratico gerarchicamente organizzato

Per tutto il periodo rivoluzionario, l’amministrazione rappresentò, peraltro, un organismo fragile e complicato perché le costituzioni rivoluzionarie ne fecero un corpo elettivo, che agiva collegialmente, ma che non era rappresentativo delle comunità e dei territori rispetto ai quali operava. Questa struttura contraddittoria si rivelò disfunzionale. Con Napoleone l’amministrazione venne trasformata in senso professionale e burocratica, cioè i suoi agenti e ufficiali avevano incarichi permanenti in cui entravano per nomina governativa. Agli organi amministrativi venne data una struttura monocratica, accentrata e gerarchica. Una legge del 1810 introdusse le nuove figure del Prefetto nel Dipartimento, Sottoprefetto nell’Arrondissement, Sindaco nel comune. Si trattava di altrettanti organi monocratici (cioè composti da una sola persona fisica) nominati dal governo e al cui fianco i sopravvissuti organi elettivi conservarono solo funzioni di proposta e di riparto dell’imposta36. Queste figure, lo si noti ora di passaggio, furono tosto imitate dal Piemonte sabaudo, e avrebbero fornito il modello dell’amministrazione italiana dello stato unitario.

Il carattere monocratico assunto dagli organi amministrativi ha una grande importanza: “negando la collegialità si nega la rappresentanza, e con essa quella caratterizzazione sociale che l’amministrazione, pur in forme tanto variegate, aveva sempre mantenuto. Da questo momento il carattere collettivo degli interessi pubblici non sarà più associato all’idea elementare che, proprio per questa loro natura, essi richiedono di essere esercitati in forma parimenti collettiva. Proclamando che ‘soltanto il prefetto sarà incaricato dell’amministrazione nel suo Dipartimento’ la legge napoleonica dichiara in sostanza che la società è divenuta il semplice oggetto di una funzione amministrativa di esclusiva pertinenza statale, che il suo consenso è irrilevante davanti all’azione amministrativa, in quanto si considera già interamente speso nel momento di formazione della

35 ) “La Nazione si è dotata di una amministrazione comune, di una amministrazione generale, di cui è titolare in via esclusiva, e proprio a questa amministrazione ha affidato il compito di colmare il vuoto creato dalla abolizione dei corpi”: Mannori e Sordi, cit., p. 216.

36 Cfr. L. Mannori e B. Sordi, op. cit., p. 219 e 247.69

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legge, e che perciò da quel momento lo Stato è diventato l’unico rappresentante di qualunque interesse pubblico37” .

3.Il consolidamento del principio per cui l’amministrazione si giudica da sé e la nascita della giustizia amministrativa

Anche il processo di immunizzazione della amministrazione dalla giustizia ordinaria che l’assolutismo aveva realizzato viene confermato e perfezionato dalla Rivoluzione, nonostante essa fosse partita dal proposito opposto. Le liti in materia di imposta diretta, sui lavori pubblici, sulla contrattualità amministrativa furono conferite alla conoscenza delle stesse amministrazioni distrettuali e dipartimentali, nel 1789 si ribadì che i ricorsi per incompetenza contro i corpi amministrativi non rientravano in alcun caso nella competenza dei tribunali ma dovevano essere portati al re, come capo dell’amministrazione generale, il che equivaleva a rimettere alla amministrazione il controllo su tutta la sua attività; nel 1795 e nel 1797 si vietò ai tribunali di ‘prendere conoscenza di atti dell’amministrazione, di qualunque specie essi siano “ e di sottoporre a giudizio “qualunque operazione si esegua dietro ordine del Governo, per mezzo dei suoi agenti immediati, e con fondi forniti dal Tesoro pubblico”38 .

Le ragioni della scelta della rivoluzione di affidare alla sola amministrazione il giudizio sui suoi atti sono almeno due. Da una parte vi era la diffidenza dei rivoluzionari verso un potere che, benché fosse ormai un pallido riflesso del suo antenato premoderno, sollevava sempre il ricordo delle turbolente corti di antico regime e della loro scarsa disponibilità a farsi controllare e dirigere. Dall’altra parte vi era la consapevolezza del fatto che, proprio per essere stata la giurisdizione ridotta a una attività di meccanicistica applicazione della legge, essa era tanto più strutturalmente inidonea a statuire su quelle materie, quelle concernenti la cura dell’interesse pubblico, ‘in cui l’amministrazione dispone di una latitudine di apprezzamento che esclude l’esistenza di uno stretto rapporto di conformità alla legge’ 39. In altri termini, il gatto si mordeva la coda: avere ridotto la giurisdizione al sillogismo deduttivo, alla mera ‘esecuzione della legge’ diventava un motivo che giustificava la sottrazione cognizione dei giudici ordinari degli atti amministrativi, che eseguono la legge ma “per loro natura” devono anche integrarla, completarla, adattarla, tramite l’apprezzamento del caso concreto, dando conformazione concreta all’interesse pubblico che l’amministrazione persegue.

La legislazione dell’anno VIII , con Napoleone completa l’itinerario individuando nel Consiglio di Stato, a livello centrale, e nei Consigli di prefettura, a livello dipartimentale, i due organi di giustizia dell’amministrazione. Il giudice speciale per l’amministrazione, che veniva così istituito, era composto a sua volta di funzionari amministrativi nominati dal Governo.

4. La definitiva conquista dell’esecutorietà

Sommata ad una amministrazione che ormai agiva attivamente svolgendo una miriade di compiti che incidevano sui comportamenti e i beni dei privati, la sottrazione degli atti dell’amministrazione al controllo giudiziario generò una caratteristica rimasta da allora distintiva dell’atto amministrativo: l’esecutorietà, cioè la capacità dell’amministrazione di portare a compimento i propri atti, apprendendo i beni o la persona dell’interessato, da sola, senza bisogno, come invece 37 L. Mannori e B. Sordi, op. cit., p. 248.

38 Op. ult.cit., p. 241 e 243.

39 Op.ult.cit., 245. Le parole tra virgolette sono del francese Chevallier.70

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deve fare il privato, di rivolgersi prima al giudice per vedere accertata la legittimità della propria pretesa: “il comando amministrativo divenne così capace di imporre al cittadino una immediata obbedienza solo in virtù di una sua propria e intrinseca forza40”.

Con questo, prendeva forma definitiva quel ‘potere esecutivo’ (l’insieme del Governo e della pubblica amministrazione) che, nel corso del tempo, si è dimostrato così bene capace di violare la libertà e i beni delle persone, che è contro di esso che si rivolgono, in essenza, le fondamentali garanzie costituzionali che proteggono i beni essenziali, come la libertà personale. L’art. 13 della vigente Costituzione italiana ha di mira proprio l’esecutorietà quando richiede, affinché qualcuno possa essere ‘arrestato o altrimenti privato della libertà personale’ che ciò non soltanto avvenga ‘nei casi e modi previsti dalla legge’ ma anche ‘dietro atto motivato dell’autorità giudiziaria’.

Il problema della tutela dei diritti davanti all’amministrazione e alla sua forza esecutoria è uno dei nodi più tormentosi del modello di convivenza realizzato dallo stato contemporaneo. In Francia, quando i cittadini si trovarono messi davanti in modo evidentissimo al fatto che ‘grazie alla loro immunità dal controllo dei tribunali, le statuizioni amministrative si erano aggiudicate la capacità di creare o modificare unilateralmente la posizione giuridica dei loro destinatari, indipendentemente dal consenso di questi ultimi” , in un momento storico in cui vi era però ancora chi ricordava il clima panprocessualistico, la concezione giudiziale del potere, viva nell’antico regime, qualche reazione si fece sentire subito, e si impose almeno nel campo dell’espropriazione.

“Preoccupato del diffuso malcontento che il meccanismo puramente amministrativo dell’esproprio inaugurato nel 1807 aveva suscitato, l’imperatore riconobbe che, in effetti, ‘se si può incidere la proprietà dei cittadini senza (…) che i magistrati nulla possano fare per opporvisi, è chiaro che la proprietà non è garantita nell’ambito dell’Impero’. In una celebre nota indirizzata nell’estate del 1809 al ministro della giustizia egli sottolineava che, tutto sacrificando alla ‘ridicola mania’ della separazione dei poteri, ‘ si era voluto che la giustizia fosse indipendente dal Governo e per renderla indipendente la si era annullato e si erano messi tutti i proprietari alla mercé del Governo stesso”. Conformemente a questi rilievi, la legge 8 marzo 1808 riservò all’autorità giudiziaria la competenza esclusiva di pronunciare l’esproprio su istanza dell’amministrazione. Ciò non significò, ovviamente, un ritorno al ‘governo dei giudici’ di premoderna memoria, dal momento che i tribunali erano ora chiamati soltanto a verificare la correttezza del procedimento seguito dall’amministrazione per addivenire alla dichiarazione di pubblica utilità, e dunque all’esproprio, e non ad assumere decisioni di merito. Resta il fatto che in materia espropriativa l’amministrazione venne privata del suo privilegio formalmente più rilevante, quello di fabbricarsi autonomamente i suoi titoli esecutivi. Le fu anche imposto di seguire una procedura minutamente regolata e aperta alla partecipazione degli espropriandi e dei terzi per addivenire all’individuazione dei beni da espropriare, mentre la delicatissima determinazione dell’indennità espropriativa venne attribuita prima all’autorità giudiziaria, poi dal 1833, sull’esempio inglese, a una giuria di proprietari fondiari. Molti degli elementi propri dell’antica amministrazione giustiziale riemergono dunque in questa disciplina. Di fronte all’enorme valore simbolico della proprietà fondiaria, baluardo e palladio di tutti i diritti borghesi, i privilegi dell’amministrazione si smorzano, la distanza tra lo stato e il cittadino tende a ridursi, e il sindacato giudiziario a riespandersi correlativamente. Naturalmente si trattò di un regime di eccezione mai ritenute estensibile a materie diverse. Ma esso offre una prova di come la grande vittoria riportata dall’esecutivo all’inizio del secolo non avesse cancellato del tutto la memoria di un altro modo di amministrare in cui lo stato non si ponesse come super-soggetto, interprete unico e sovrano del rapporto tra interesse pubblico e privato41.

5. L’autonomia del potere regolamentare dalla legge

40 L. Mannori e B. Sordi, op. cit., p. 261.

41 L. Mannori e B. Sordi, op. cit., p. 264.71

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Oltre alla immunità dalla giurisdizione, l’amministrazione conquista nel periodo considerato anche una autonomia dal potere legislativo. Sebbene configurato dalla Rivoluzione come ‘esecuzione della legge’, il potere regolamentare dell’amministrazione “si libera subito dalla sua subordinazione alla legge, per conquistarsi uno spazio d’azione del tutto autonomo: il Direttorio emanò regolamenti a getto continuo nelle più svariate materie anche senza autorizzazione legislativa e talvolta modificando addirittura le leggi.” Negli anni della dittatura imperiale si arriverà a sostenere che ‘tutto ciò che è di amministrazione è oggetto di solo regolamento’ e che ‘ il legislatore ‘ non deve occuparsi che dell’imposta e delle leggi civili generali’. Furono scelte che si tradussero in concezioni molto durature: tutto l’Ottocento “non avrà dubbi sulla legittimità dei regolamenti autonomi, che appariranno come il naturale riflesso della missione generalista affidata all’amministrazione. Gli amministrativisti ottocenteschi insegneranno infatti che ‘la sorveglianza del potere esecutivo dovendo essere continuativa e il suo dovere essendo di mostrarsi nello stesso momento ovunque lo chiamino i bisogni della società, questo potere deve, anche per mezzo di regolamenti, agire con una attività eguale a quella del corso degli eventi’ e che ‘il potere regolamentare, indispensabile al compimento della missione affidata alla autorità amministrativa, costituisce uno degli elementi essenziali del potere esecutivo’42 “

D. Trasformazione senza rivoluzione: cenno all’“assolutismo illuminato” dell’area germanica

Prima di lasciare il tema dell’assolutismo, e delle sue trasformazioni, occorre gettare un sia pur rapidissimo sguardo all’area in cui la transizione tra ordine antico e moderno si è verificata senza rivoluzione, e cioè, per quanto riguarda l’Europa continentale, all’area germanica (Austria, Germania, paesi scandinavi). In questa area, la formazione dello stato è avvenuta in maggiore continuità con le strutture politiche e giuridiche preesistenti, rispetto alla esperienza francese. Oltre a significare, spesso, una maggiore conservazione delle autonomie politiche dei territori compresi nella sovranità statale, questo processo più graduale significò anche una molto più lenta, e meno traumatica, sostituzione del diritto di fonte statale al diritto tradizionale (romano e consuetudinario), che ha continuato, in Germania per esempio, a essere considerato vigente fino a tutta la metà dell’800 accanto al diritto di fonte statale - legislativa. In queste aree, minore fu anche la contrapposizione tra il potere sovrano e quello giurisdizionale, perché qui i magistrati storicamente non avevano avuto quella posizione di inamovibilità e indipendenza che aveva caratterizzato i giudici francesi, e pertanto “i magistrati non potevano rappresentare un serio ostacolo alla politica di concentrazione del potere perseguita dalla monarchia43”.

Nelle teorie di area germanica dedicate a giustificare la sovranità dello stato, l’insistenza non cade sulla ‘ragion di stato’, ma sull’idea di bene comune. Si insegnava che lo stato serviva a curare il bene comune (Gemeinwhol) della comunità, e si accentuava, nel caratterizzare la funzione sovrana, anziché la volontà, la doverosità. Le “quattro obbligazioni fondamentali del principe”, si teorizzò all’epoca, si distinguevano in due gruppi principali: quelle attinenti alla sicurezza (difesa esterna e ordine pubblico interno) e quelle attinenti al benessere (produzione e circolazione della ricchezza). Il potere pubblico, in quest’area, è messo a tema come ‘dovere’, come ‘servizio’.

Queste teorie insistevano in altri termini sul fatto che il sovrano aveva il dovere di curare il bene comune ed era per questo che aveva i corrispondenti poteri. Per questa via anche nell’area germanica vennero in evidenza e acquistarono speciale importanza le funzioni amministrative. L’obiettivo dello stato in questa area geografica e culturale fu prima formare i “funzionari del principe” (che diverranno i “servitori dello stato”), poi dare vita al “diritto del principe”. Prima

42 L. Mannori e B. Sordi, op. cit., p. 253.

43 N. Picardi, La giurisdizione, cit., p. 136.72

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vennero create numerose ed efficienti burocrazie, ripartite nei diversi rami dell’amministrazione e della giurisdizione, ma ciascuna di esse composte da funzionari nominati dal sovrano e ad esso gerarchicamente subordinati. Poi si provvide alla codificazione, razionalizzazione e unificazione dell’ordinamento normativo relativo all’azione amministrativa .

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