STATO E DIRITTO NELLA DEMOCRAZIA...

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Istituzioni di diritto pubblico AO a.a. 2014-2015 Prof.ssa Silvia Niccolai II Modulo 215 STATO E DIRITTO NELLA DEMOCRAZIA COSTITUZIONALE La legalità costituzionale Nello studiare i caratteri di fondo delle democrazie costituzionali abbiamo raccolto tanti elementi che ci danno conto di come i due grandi assiomi dello stato liberale, meno società nello stato e meno stato nella società sembrino quasi, per certi versi, addirittura rovesciati, negati dallo stato democratico costituzionale che chiama la società a indirizzare l’opera delle istituzioni e le istituzioni a intervenire per riequilibrare le ingiustizie che regnano nei rapporti sociali. Con la costituzione democratica, scrisse con felice sintesi Costantino Mortati “libertà e socialità” diventano i fini dello stato. Non sempre però la traiettoria delle democrazie costituzionali conferma queste aspirazioni. Come abbiamo iniziato a vedere, e come torneremo a dire, globalizzazione e finanziarizzazione delle economie premono sui diritti riconosciuti dalla Costituzione in modo non favorevole alla loro espansione: i diritti ‘a prestazione’, per esempio, come il diritto alla salute, soffrono per la compressione della spesa pubblica dovuta alle politiche di ‘austerità finanziaria’; a decidere le politiche economiche sono sempre più i mercati e sempre meno gli elettori tramite i loro rappresentanti. Tradimenti del modello originario? Approfondimenti di alcune, anziché di altre, tra le molteplici vocazioni che ne compongono la complessa tessitura? Difficile rispondere. Certo non si può mancare di considerare che se, almeno nel momento in cui vengono formulate, scelsero ‘più società nello stato e più stato nella società’, le democrazie costituzionali ciò fecero perché questa modalità sembrava, nell’epoca in cui vennero redatte, la migliore, se si vuole la più efficiente, per realizzare la stabilità delle istituzioni, la pace sociale, un certo grado di ordine, vale a dire finalità del tutto analoghe a quelle che lo stato liberale si era proposto di raggiungere. Che le democrazie costituzionali si aprissero a qualunque esito il pluralismo sociale e politico potesse condurre purché questo esito fosse realizzato nel rispetto delle procedure e della Costituzione, possiamo dubitare, perché appare anche possibile leggere le democrazie costituzionali europee come altrettanti congegni immaginati per convogliare e indirizzare il pluralismo politico spingendolo verso esiti tollerabili con le grandi scelte implicite ma fondanti che ne sono le premesse: le Costituzioni democratiche occidentali nascono infatti dopo la guerra, per sancire l’alleanza, la vicinanza, la comunità di intenti e di destino tra i paesi ‘del blocco occidentale’ e gli Stati Uniti. Se il nostro non è mai stato, forse, un paese a ‘democrazia protetta’ come fu definita la Germania occidentale (la cui costituzione prevedeva i cd. ‘partiti antisistema’, carattere che fu attribuito al partito comunista, rendendolo pertanto vietato), è anche vero che la nostra forma di governo, nella quale il governo deve avere la fiducia delle Camere, e cioè il sostegno della maggioranza delle forze politiche presenti in Parlamento, si è caratterizzata fin da subito per la regola secondo cui, il presidente della repubblica, che dà l’incarico a formare il governo, non lo avrebbe mai dato a un esponente del partito comunista (conventio ad excludendum) neppure nel caso in cui questo partito avesse vinto le elezioni; e d’altra parte lo stesso partito comunista, pur essendo il principale partito di opposizione, ha tipicamente teorizzato che il ruolo del partito fosse quello di ‘guidare’ masse che altrimenti potrebbero agire in modo inconsapevole e controproducente. La scelta della democrazia costituzionale per la democrazia fondata sui partiti e quella dello stato liberale per il governo rappresentativo sono dunque molto distanti, ma possiamo avvertire

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STATO E DIRITTO NELLA DEMOCRAZIA COSTITUZIONALE

La legalità costituzionale

Nello studiare i caratteri di fondo delle democrazie costituzionali abbiamo raccolto tanti

elementi che ci danno conto di come i due grandi assiomi dello stato liberale, meno società

nello stato e meno stato nella società sembrino quasi, per certi versi, addirittura rovesciati,

negati dallo stato democratico costituzionale che chiama la società a indirizzare l’opera delle

istituzioni e le istituzioni a intervenire per riequilibrare le ingiustizie che regnano nei rapporti

sociali. Con la costituzione democratica, scrisse con felice sintesi Costantino Mortati “libertà e

socialità” diventano i fini dello stato. Non sempre però la traiettoria delle democrazie

costituzionali conferma queste aspirazioni. Come abbiamo iniziato a vedere, e come torneremo

a dire, globalizzazione e finanziarizzazione delle economie premono sui diritti riconosciuti

dalla Costituzione in modo non favorevole alla loro espansione: i diritti ‘a prestazione’, per

esempio, come il diritto alla salute, soffrono per la compressione della spesa pubblica dovuta

alle politiche di ‘austerità finanziaria’; a decidere le politiche economiche sono sempre più i

mercati e sempre meno gli elettori tramite i loro rappresentanti.

Tradimenti del modello originario? Approfondimenti di alcune, anziché di altre, tra le

molteplici vocazioni che ne compongono la complessa tessitura? Difficile rispondere. Certo

non si può mancare di considerare che se, almeno nel momento in cui vengono formulate,

scelsero ‘più società nello stato e più stato nella società’, le democrazie costituzionali ciò fecero

perché questa modalità sembrava, nell’epoca in cui vennero redatte, la migliore, se si vuole la

più efficiente, per realizzare la stabilità delle istituzioni, la pace sociale, un certo grado di

ordine, vale a dire finalità del tutto analoghe a quelle che lo stato liberale si era proposto di

raggiungere. Che le democrazie costituzionali si aprissero a qualunque esito il pluralismo

sociale e politico potesse condurre purché questo esito fosse realizzato nel rispetto delle

procedure e della Costituzione, possiamo dubitare, perché appare anche possibile leggere le

democrazie costituzionali europee come altrettanti congegni immaginati per convogliare e

indirizzare il pluralismo politico spingendolo verso esiti tollerabili con le grandi scelte implicite

ma fondanti che ne sono le premesse: le Costituzioni democratiche occidentali nascono infatti

dopo la guerra, per sancire l’alleanza, la vicinanza, la comunità di intenti e di destino tra i paesi

‘del blocco occidentale’ e gli Stati Uniti. Se il nostro non è mai stato, forse, un paese a

‘democrazia protetta’ come fu definita la Germania occidentale (la cui costituzione prevedeva i

cd. ‘partiti antisistema’, carattere che fu attribuito al partito comunista, rendendolo pertanto

vietato), è anche vero che la nostra forma di governo, nella quale il governo deve avere la

fiducia delle Camere, e cioè il sostegno della maggioranza delle forze politiche presenti in

Parlamento, si è caratterizzata fin da subito per la regola secondo cui, il presidente della

repubblica, che dà l’incarico a formare il governo, non lo avrebbe mai dato a un esponente del

partito comunista (conventio ad excludendum) neppure nel caso in cui questo partito avesse

vinto le elezioni; e d’altra parte lo stesso partito comunista, pur essendo il principale partito di

opposizione, ha tipicamente teorizzato che il ruolo del partito fosse quello di ‘guidare’ masse

che altrimenti potrebbero agire in modo inconsapevole e controproducente.

La scelta della democrazia costituzionale per la democrazia fondata sui partiti e quella dello

stato liberale per il governo rappresentativo sono dunque molto distanti, ma possiamo avvertire

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tra esse qualche punto di contatto se le si guarda come due mezzi diversi per raggiungere lo

stesso scopo (la stabilità delle istituzioni, che contengono e guidano gli orientamenti del corpo

elettorale piuttosto che farsene guidare).

Un altre importante versante su cui può essere declinato il problema della continuità e delle

differenze tra le democrazie costituzionali e lo stato liberale è quello che riguarda le concezioni

del ‘diritto’ che hanno accompagnato e consolidato la traiettoria delle democrazie

costituzionali, che è il tema del quale ci occuperemo in questo capitolo. Anche su questo

versante la democrazia costituzionale nasce da una riflessione sui limiti dell’esperienza liberale,

tende al suo superamento, ne ripropone peraltro anche alcuni problemi.

Riguardo alle concezioni del diritto accolte nella democrazia costituzionale, possiamo

subito dire che certamente la democrazia costituzionale raccoglie l’eredità dello stato liberale

perché, come quello, è uno stato di diritto nel quale l’azione dei pubblici poteri deve essere

regolata e limitata, appunto, dal diritto. E’ la grande tradizione della legalità: il potere è

legittimo perché è legale. Però, certamente, lo stato costituzionale ‘corregge’ quella eredità.

Perché? Lo stato liberale si era accontentato di dire che ‘la legge’ regolava i pubblici poteri, ma

‘la legge’ poteva assumere qualunque contenuto, e inoltre bastava cambiare le leggi per

legittimare qualunque comportamento dei pubblici poteri; lo stesso rispetto delle procedure

necessarie ad approvare le leggi era a rischio in questo contesto, dove richiamandosi all’ordine

pubblico, alla sicurezza nazionale, alle esigenze indifferibili ed urgenti del Governo era stato

possibile introdurre atti normativi che sospendevano l’osservanza delle leggi. La riduzione

della legge a voluntas aveva aperto la strada ai totalitarismi, i quali sono un esito estremo

della confusione tra legge e comando, secondo una tentazione, purtroppo, sempre risorgente.

Rifletteva Franz Neumann, che nei suoi studi ha approfondito la dinamica del totalitarismo:

“Se la legge e la volontà del Führer si identificano e se quest’ultimo può far uccidere i propri nemici

politici senza processo legale e poi questo atto viene celebrato come la più alta realizzazione del diritto,

allora non si può più parlare di legge in senso specifico. La legge in questo caso non è che uno

strumento tecnico per l’attuazione di determinati obiettivi politici: non è che il comando del capo.”1

Notare che, in questa frase di Neumann, perché la volontà del Führer non è diritto? Non perché

sia cattiva in sé (benché Neumann ne fosse certamente e a buon diritto convinto) ma perché è

pura decisione espressa e realizzata senza il rispetto di procedure che garantiscano la

parità delle parti, il diritto di difesa, il contraddittorio. Queste sono le componenti con cui

il diritto permette che si dispieghi quella ratio che contiene e modera il potere, la voluntas.

L’introduzione di Costituzioni intese come atti normativi superiori alla legge, che la legge non

può modificare, che possono provocare l’annullamento di leggi a sé contrarie, ha voluto essere

la ‘correzione’ del modello liberale adatta a risolvere i problemi che quello non aveva saputo

affrontare, cioè la degenerazione della legalità in legalismo e formalismo e alla fine in puro

decisionismo2. Così, con le democrazie costituzionali, alla ‘legalità ordinaria’ (la necessità che

il potere pubblico abbia fondamento nella legge che quello stesso potere approva e decide), si

sostituisce la ‘legalità costituzionale’ (la necessità che il potere pubblico abbia fondamento in

una legge superiore anche ad esso). La Costituzione sottopone il potere a limiti contenutistici

(libertà e diritti che non possono essere violati, che devono essere regolati nel rispetto di certe

1 F, Neumann, Lo stato democratico e lo stato autoritario, 1957, trad.it. 1957, p. 290. 2 Prosegue Neumann nel passo citato: “La teoria giuridica dello stato autoritario è quindi il decisionismo, e la legge non è che un

arcanum dominationis (uno strumento di dominio), cioè un mezzo per l’affermazione del potere”.

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condizioni) e procedurali (procedimento per deliberare le leggi, per nominare i governi, per

deliberare i decreti, ecc.). In moltissimi principi costituzionali sentiamo risuonare i principi

generali del diritto: il divieto di decidere inaudita altera pars impronta il processo (retto,

secondo la nostra Costituzione, dal principio del contraddittorio) ma anche la procedura

parlamentare, ispirata alla logica del dibattito dialettico; il divieto di leggi retroattive in materia

penale riprende il principio per cui la legge non dispone che per il futuro; la nozione di

eguaglianza che non è solo ‘soggezione alla legge’ ma anche dovere per la legge di essere

ragionevole, di tenere in conto adeguatamente le situazioni diverse, di regolare le cose secondo

la loro natura ricorda le concezioni ‘qualitative’ predilette dal diritto naturale classico; gli stessi

limiti alla libertà economica privata, come detto, scaturiscono dal principio generale neminem

laedere. Possiamo per ora concludere questo punto dicendo che rispetto alla cultura che ha

ispirato lo stato liberale, la democrazia costituzionale accoglie una nozione più complessa

di legalità, affiancando alla legalità ordinaria, espressione degli indirizzi politici, una

legalità costituzionale che dovrebbe ancorare l’indirizzo politico al rispetto di un insieme

di principi comuni a tutta la comunità. L’aspirazione che riemerge è quella al potere

‘ragionevole’, alla legge come espressione del diritto, al comando come giudizio.

Queste implicazioni della democrazia costituzionale sono state particolarmente colte e

sviluppate in Italia, a causa della nostra tradizione giuridica che affonda nei lunghi secoli del

diritto comune e in cui era rimasta viva, almeno in alcune parti del territorio, l’idea che il

legislatore non crea il diritto dal nulla ma vi è sottoposto a sua volta. Tuttavia, come abbiamo

visto, la nostra è anche una tradizione che in alcuni territori, e per molti secoli, e poi a partire

dall’unità su tutto il territorio nazionale, ha virato verso il formalismo legalistico. Questo si

accompagna alla soggezione alla legge della magistratura burocratizzata, e quest’ultima, a sua

volta, va fatalmente in una con la riconquista da parte della legge di una sua dimensione di

‘comando’ libero dal diritto. La compresenza di queste due diverse tradizioni è uno dei motivi

per cui, nella nostra esperienza costituzionale, abbiamo visto e vediamo convivere la riscoperta

del diritto come insieme di principi generali che vincolano anche il legislatore – e il canone

della ‘ragionevolezza’, di cui parleremo di più tra poco, ne è l’emblema – con la contestazione

pura e semplice del diritto in nome della libertà del potere politico, o economico. Coloro che

accusano la Costituzione di avere troppo concesso a chi voleva limitare la libertà di iniziativa

economica, e ne riaffermano la ‘libertà di far tutto quello che non è vietato’ (come ha fatto, lo

vedremo, il legislatore nel 2011), finiscono infatti per negare che il diritto (il neminem laedere

di cui l’art. 41 è traduzione è un principio generale del diritto) governi la vita della comunità.

Dunque si può dire che una delle aspirazioni caratteristiche della democrazia costituzionale è

riscoprire la legge, cioè la politica, il potere e le sue espressioni, come non solo volte alla

creazione del diritto, alla innovazione e alla riforma della società, ma anche come vincolate dal

diritto. Accanto a queste caratteristiche ha vissuto anche l’altra, quella della legge come atto di

volontà, del diritto come tecnologia che orienta la società secondo i desiderata di chi governa:

che era già la sotterranea aspirazione, pur velata dal principio di legalità, dallo stato liberale.

Sono chiaroscuri che risultano leggibili quando si indaga più da vicino la posizione della

Costituzione nel nostro ordinamento, il disegno e il ruolo della Corte costituzionale e della

giurisdizione, che ci proponiamo di esaminare in questo capitolo.

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La Costituzione come compromesso, o il ritorno di una forma giurisdizionalistica della

ragione

Secondo molti interpreti della nostra democrazia costituzionale, l’introduzione della

Costituzione, con l’ampia ‘tavola di valori’ che essa riconosce, ha voluto essere un richiamo

alla necessità, per la convivenza, del ricorso a un approccio problematico, aperto, ai problemi

della vita sociale: sono molti, diversi, spesso in opposizione tra loro i valori e gli interessi che

la Costituzione riconosce, il suo obiettivo è ricercarne la convivenza, la compossibilità

equilibrata: il modo giuridico di usare la ragione, dialettico e controversiale, può offrire un

metodo. In altri termini questo senso, racchiudendo contenuti diversi, riconoscendo interessi

spesso in conflitto tra loro (la libertà di impresa, ma anche i diritti dei lavoratori), la

Costituzione è un invito a saper pensare per possibilità. In questo senso, l’introduzione della

Costituzione rappresenta un appello alla ‘forma della ragione’ propria del diritto quando lo si

intende come arte di raggiungere una soluzione equa attraverso un confronto paritetico di

interessi diversi.

La grande narrativa che vede nella nostra Costituzione un ‘compromesso’, ed usa questa

espressione in senso positivo, ha voluto sottolineare questo.

“Costruendo il nuovo stato noi edifichiamo una formula di convivenza”.

( Aldo Moro all’Assemblea Costituente, marzo 1947)

I membri dell’Assemblea costituente erano stati eletti tra i candidati presentati alle elezioni dai

ricostituiti partiti politici. Erano dunque uomini schierati, portatori di una propria ideologia, di

proprie convinzioni a favore delle quali militavano pubblicamente e per le quali molti di essi, ma

specialmente coloro che appartenevano ai partiti di sinistra, o a quello azionista, avevano pagato

personalmente soffrendo persecuzioni e limitazioni della loro libertà. Le principali ideologie

rappresentate all’Assemblea costituente furono quella cattolica, quella social-comunista, e quella

liberale. Le prime due corrispondevano a forze politiche che avevano, e avrebbero avuto nel futuro,

un grande seguito elettorale, la terza a forze politiche molto più piccole. I deputati all’Assemblea

Costituente, nel redigere la Costituzione, tenevano conto dunque dei propri rispettivi rapporti di

forza, dello scenario internazionale che si delineava intorno a loro: non operarono, insomma, in un

‘velo di ignoranza’3, ma scrissero la costituzione stando ben calati nelle loro mentalità, tenendo

presente l’interesse dei loro partiti, e rivolgendo una estrema attenzione al quadro politico in cui

erano immersi, dove si giocava a tutto campo e senza esclusione di colpi per la conquista del

governo della fase transitoria, e l’egemonia nella futura repubblica.

Questa situazione poteva anche condurre a un fallimento dell’impresa costituente, per

l’impossibilità di arrivare a punti di accordo: l’ipotesi di un sollevamento rivoluzionario

guidato dai partiti estromessi dal governo non era tra le ultime, in un paese dove, combattuta da

poco la resistenza, c’erano armi in quasi ogni casa. Ma Togliatti, l’allora segretario del Partito

comunista italiano, ordinò la calma.

3 Per il filosofo del diritto John Rawls tutti coloro che prendono decisioni sul futuro di una comunità dovrebbero trovarsi nel ‘velo

d’ignoranza’, altrimenti stabiliranno le regole di quella futura comunità in funzione della posizione e del ruolo che prevedono di

giocarvi (e non nell’interesse generale).

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Vi furono, tra tutte le forze politiche presenti in Assemblea costituente, uomini che compresero

che per dare al paese la pace e un futuro, per riuscire a scrivere il documento che avrebbe

fornito i valori di riferimento e la struttura organizzativa su cui la Repubblica avrebbe

funzionato, occorreva assumere un preciso atteggiamento, consistente nella ricerca di comuni

punti d’accordo, il che implicava rinunciare ciascuno alle “punte” delle proprie ideologie e

sforzarsi di individuare quegli aspetti sui quali si poteva concordare con gli altri. Un lavoro

difficile (per chi era comunista la proprietà privata era una cosa da vietare, invece la

costituzione la riconosce, pur assoggettandola a una “funzione sociale”; diversamente

pensavano i liberali, e i democristiani; i democristiani, in quanto cattolici, erano convinti della

centralità della religione cattolica per il nostro paese, e anche molto vicini alla Chiesa, tuttavia

la costituzione riconosce la libertà religiosa e di culto), un lavoro difficile e di grande

significato etico, che consistette non nel tenere presente solo gli interessi e i punti di vista di

coloro che ogni costituente rappresentava, del partito cui apparteneva, ma anche quello degli

altri, in modo che la nascente Repubblica avesse principi e istituzioni in cui tutti potessero

riconoscersi. Le grandi figure dei ‘Padri costituenti’, come il democristiano Aldo Moro, il

socialista Lelio Basso, il comunista Palmiro Togliatti o il liberale Pietro Calamandrei seppero

farsi portatori di questa visione, e trascinare con sé i loro partiti. Non sempre, ma spesso,

leggere i lavori dell’Assemblea Costituente significa incontrare le testimonianze di un altissimo

impegno umano, politico e morale.

Di questo impegno è il risultato il cd. “compromesso” costituzionale, espressione con la quale

si evoca il fatto che i contenuti della Costituzione sono frutto non di un punto di vista

dominante, che ha prevalso sugli altri, ma di una capacità di punti di vista diversi di fondersi e

di cooperare tra loro. La parola ‘compromesso’ non ha, in questa espressione, alcuna valenza

negativa; al contrario, chi la usa intende dire che noi dovremmo guardare al compromesso

costituzionale come a un grande momento della nostra storia costituzionale, nel quale è filtrato

un modo di vedere che era a sua volta uno dei frutti più alti lasciati dall’esperienza conflittuale

e drammatica vissuta dall’Europa tra le due guerre. Un modo di vedere che si era condensato,

nei primi anni ’20 del ‘900, nell’opera di un grande costituzionalista il cui pensiero ha avuto

influenza in tutta Europa e nel mondo, Hans Kelsen. Praghese, cacciato da Vienna, dove

insegnava, invasa dai tedeschi, Kelsen era stato personalmente testimone dei fallimenti delle

fragili democrazie sorte in Austria e in Germania dopo il primo conflitto mondiale. Le aveva

viste travolte dai conflitti, dalla sfiducia, dall’opposizione di poteri occulti. Profondamente

preoccupato di immaginare vie per un funzionamento possibile della democrazia parlamentare,

Kelsen aveva teorizzato che proprio la capacità di procedere per compromessi, cioè intorno alla

ricerca dei punti di accordo, ne è la condizione, rischiando altrimenti la democrazia di essere

sempre occupata dalla lotta e dallo scontro tra fazioni opposte, e perciò sempre aperta

all’avvento di una ragione dittatoriale. Si può pensare perciò che la cultura del compromesso

fosse la condivisa fonte di ispirazione che guidava l’azione dei più avveduti tra gli uomini del

tempo.

Secondo uno dei maggiori costituzionalisti italiani viventi, Gustavo Zagrebelsky:

“Il significato della costituzione come compromesso significa la rinuncia delle parti costituenti a

riversare nel patto costituzionale tutte le loro aspirazioni e posizioni nella loro integralità. Ciò

significa che le parti, i partiti, che sono entrati nel processo costituente armati delle loro identità

storiche ed ideologiche ne sono usciti trasformati dalla Costituzione: la loro originaria identità è, per

così dire, filtrata dai principi costituzionali cui hanno aderito”.

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Una costituzione, conclude questo Autore, dura nel tempo quando il compromesso che è alla

sua origine si trasforma

“in un ethos, consistente nel riconoscimento generalizzato che ciascuno ha le sue buone ragioni di

fondo con le quali, non solo per evitare tragedie ma anche perché è cosa buona per tutti che sia così,

perché occorre convivere.”4

Il significato di queste parole è che una costituzione democratica funziona quando il punto

di vista compromissorio, e cioè capace di includere il pensiero dell’altro, di cui essa è

frutto, diventa il modo di pensare e di agire di tutti. Il compromesso costituzionale,

nell’interpretazione di un grande giurista, diventa l’immagine della aspirazione della

democrazia costituzionale a essere il ritrovamento e il dispiegamento di una concezione

giurisdizionalistica del potere, che lo esercita all’arte della ragionevolezza.

Non si può non convenire con Zagrebelsky che la mentalità possibilista, aperta al dialogo,

capace di decentrarsi e di accogliere le ragioni dell’altro è il più grande insegnamento che la

Costituzione ci consegna, un profondo insegnamento civico e perciò un vero contributo alla

edificazione di quella ‘convivenza’ che Aldo Moro, l’uomo politico democristiano che sarebbe

stato assassinato nel 1978 dalle Brigate Rosse, aveva in mente quando, appena trentenne, era

transitato dalla aule dell’università, dove insegnava filosofia del diritto ai banchi

dell’Assemblea Costituente. Il ‘diritto costituzionale’ riassume, quando inteso come fanno

queste concezioni, il contributo civico, la funzione sociale propria del diritto, arte di risolvere

in modo equo problemi pratici nascenti da controversie che si originano da interessi e visioni

differenti e anche in conflitto tra loro.

Le democrazie costituzionali, dunque, hanno evocato l’idea del diritto come limite che tempera

il potere imponendogli il rispetto di procedure e affiancando alla razionalità orientata allo scopo

una forma di ragione più ampia e più duttile che tiene in considerazione più punti di vista e si

confronta con ciascuno in maniera paritetica. Nel loro disegno si coglie una vicinanza tra la

forma giurisdizionalistica della ragione, basata sul confronto e sul dibattito, sul rigore degli

argomenti, e il funzionamento e i metodi della democrazia.

Lo fanno pensare molto distintamente queste parole:

“La democrazia dà lo stesso peso alla volontà politica di ogni individuo, così come mette sullo stesso piano

ogni fede politica, ogni opinione politica. Ad ogni convinzione politica essa dà perciò la stessa possibilità di

esprimersi e di concorrere liberamente alla conquista dell’animo umano. E’ questo il motivo per cui il

procedimento dialettico delle assemblee popolari e parlamentari, articolato in discorsi e repliche, è così

specificamente democratico. Ed è pure questo il motivo per cui il dominio della maggioranza, così

caratteristico della democrazia, non è possibile senza una minoranza all’opposizione, e per cui la democrazia,

nella sua essenza più profonda, deve tutelare questa minoranza. La politica della democrazia diviene perciò

necessariamente una politica del compromesso, così come, per la concezione relativistica del mondo, nulla è

più caratteristico della tendenza ad appianare, conciliandoli, i punti di vista contrastanti, nessuno dei quali

può essere adottato in pieno e senza riserve e negando completamente l’altro. La relatività del valore che un

determinato credo politico istituisce, l’ impossibilità per un programma politico, per un ideale politico, di

pretendere, in ogni vocazione soggettiva, in ogni personale convinzione, ad una validità assoluta, conducono

inesorabilmente anche al rifiuto dell’assolutismo politico, si tratti dell’assolutismo di un monarca o di un

4 G. Zagrebelsky, La legge e il suo giudice, Einaudi, Torino, 2008, p. 143.

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dittatore, di una casta di sacerdoti o di guerrieri, di una classe o partito.” (Hans Keksen, La democrazia

(1927), in Id., Il Primato del Parlamento, Giuffré, Milano, 1982, p. 48.)

La Costituzione come atto normativo

Occorre considerare anche che la nostra Costituzione, come le altre adottate nella sua epoca, è

considerata e funziona come un vero e proprio atto normativo, cioè come un documento destinato

ad avere un valore giuridico, a creare diritto, principi e regole di comportamento. Precisamente, la

nostra Costituzione è considerata un atto normativo superiore alla legge. Ciò si traduce in due

conseguenze:

1. La Costituzione non può essere modificata da una legge ordinaria, ma può essere modificata

solo da una legge approvata con un procedimento più lungo, più difficile e più partecipato di

quello sufficiente ad approvare una legge ordinaria. che prende il nome di procedimento

di revisione costituzionale ed è descritto nell’art. 138 della Costituzione.

2. Le leggi che contrastano con la Costituzione non sono in grado di modificarla o abrogarla,

ma sono portatrici, per questo motivo, di un vizio, che può determinarne l’annullamento,

vizio che può essere pronunciato dalla Corte costituzionale, un organo e istituito

appositamente per svolgere la funzione del controllo di costituzionalità sulle leggi . Il

controllo di costituzionalità delle leggi e degli atti aventi forza di legge è istituito e

disciplinato dall’art. 134 della Costituzione.

Il procedimento di revisione della Costituzione. Un procedimento aggravato rispetto al

procedimento ordinario di approvazione della legge.

Una legge che modifica il testo costituzionale richiede numerosi aggravamenti procedurali, cioè il

suo iter di approvazione (procedimento) è pieno di ostacoli che lo rendono più difficile (aggravato)

rispetto a quello sufficiente ad approvare una legge ordinaria. L’intenzione che questi aggravamenti

perseguono è che la costituzione sia protetta da modifiche avventate, non sufficientemente riflettute

e, soprattutto, non sufficientemente condivise. Si vuole con ciò garantire che la costituzione resti

patrimonio di tutti e non diventi lo strumento politico di chi è al governo (come è la legge ordinaria,

sia pure nei limiti costituzionali).

Il procedimento per l’approvazione delle leggi costituzionali e di revisione costituzionale è descritto

nell’art. 138:

Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali sono adottate da ciascuna Camera con

due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi e sono approvate a maggioranza assoluta

dei componenti di ciascuna Camera nella seconda deliberazione.

Le leggi stesse sono sottoposte a referendum quando, entro i tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano

domanda un quinto dei membri di una Camera, o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. La

legge sottoposta a referendum non è promulgata, se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi.

Non si fa luogo a referendum se la legge è stata approvata nella seconda deliberazione a maggioranza dei

due terzi dei suoi componenti.

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222

Questa disposizione va letta nel modo seguente:

mentre per approvare una legge ordinaria è sufficiente che la Camera e il Senato votino lo

stesso testo una sola volta, il testo di una legge di revisione deve essere votato da ciascuna

camera 2 volte.Tra ciascuna delle due deliberazioni delle due Camere devono intercorrere

non meno di tre mesi. Per esempio: oggi il senato approva, per la prima volta, il progetto di

legge di revisione costituzionale nello stesso testo in cui una settimana fa lo aveva approvato

la Camera. Abbiamo la prima deliberazione sullo stesso testo. Non prima di tre mesi da oggi

il Senato, e di tre mesi e una settimana da oggi la Camera, dovranno votare di nuovo su quel

testo. Se lo riapproveranno uguale avremo la seconda deliberazione (aggravamento della

doppia approvazione a intervallo di tre mesi).

Nella seconda deliberazione è necessario che sia raggiunta la maggioranza dei due terzi

degli aventi diritto al voto (aggravamento della maggioranza qualificata).

Se la maggioranza dei due terzi viene raggiunta, la legge è approvata, può essere promulgata

ed entrare in vigore. Se viene raggiunta solo la maggioranza assoluta, invece (metà più uno

degli aventi diritto al voto) la legge non può essere promulgata ed entrare in vigore. Essa

viene pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale ed inizia a decorrere un termine di tre mesi entro il

quale un quinto dei membri di ciascuna camera, cinquecentomila elettori o cinque consigli

regionali possono richiedere che essa sia sottoposta a referendum. Se il referendum non

viene chiesto, la legge entra in vigore allo scadere dei tre mesi. Se il referendum viene

chiesto, lo si farà, e se il corpo elettorale dirà a maggioranza “sì, vogliamo questa legge”

essa entrerà in vigore, se dirà “no, non la vogliamo” essa non entrerà in vigore

(aggravamento della sottoposizione a referendum). Il referendum ‘confermativo’ delle

leggi costituzionali e di revisione costituzionale non richiede, per la sua validità, a differenza

del referendum abrogativo, la partecipazione alle votazioni di almeno la metà del corpo

elettorale.

Gli aggravamenti che caratterizzano questo procedimento rispetto a quello legislativo ordinario

configurano il procedimento di revisione costituzionale e di approvazione delle leggi costituzionali

come uno i cui ingredienti sono il tempo, inteso come requisito di ponderazione (la doppia

deliberazione, l’intervallo non minore di tre mesi) e il consenso (la necessità della maggioranza dei

due terzi o, in mancanza, almeno di quella assoluta e della possibilità per il corpo elettorale di

pronunciarsi direttamente).

Con lo stesso procedimento necessario per l’approvazione di leggi di revisione della costituzione

possono essere approvate le leggi costituzionali. Le leggi costituzionali sono leggi che hanno lo

stesso valore, la stessa importanza della costituzione: si aggiungono ad essa. Gli statuti delle regioni

speciali, per esempio, sono leggi costituzionali.

I limiti alla revisione costituzionale

Non tutta la Costituzione può essere modificata. L’art. 139 dice “la forma repubblicana non può

essere oggetto di revisione costituzionale”.

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La lettera di questa disposizione significa che non si può approvare, neanche col procedimento

aggravato di revisione, una legge che reintroduca la monarchia. Questa disposizione viene peraltro

interpretata nel senso che tutti i principi fondamentali che danno una identità alla nostra esperienza

repubblicana (es. la libertà personale, il pluralismo religioso) sono nella loro essenza

immodificabili. Il nucleo di valore che identifica l’essenza della nostra esperienza costituzionale è

intangibile.

Il controllo di costituzionalità sulle leggi e gli atti aventi forza di legge

La circostanza che la Costituzione non possa essere modificata da una legge ordinaria ha come

conseguenza che le leggi ordinarie non possono, al tempo stesso, contrastare con la

Costituzione ed essere valide. La legge contrastante con la costituzione è invalida, e questo ne

rende possibile l’annullamento, che può essere pronunciato da un organo apposito, unico per tutto il

territorio nazionale, la Corte costituzionale, composta da 15 giudici che durano ciascuno in carica

9 anni, e che ha sede a Roma nel Palazzo della antica Consulta papale (e che perciò è talvolta

chiamata “La Consulta”).

Si noti che la legge invalida (cioè viziata) è peraltro efficace (produce i suoi effetti) sino a che

non venga annullata.

La Corte costituzionale può essere investita di un problema di costituzionalità di una legge o di un

atto equiparato alla legge in vari modi, che danno vita ad altrettanti diversi tipi di processi di

costituzionalità.

Tra questi, noi ci soffermeremo di più sul giudizio in via incidentale, che è quello in cui la Corte

‘dialoga’ più da vicino coi giudici (che le sottopongono le questioni di costituzionalità e sono i

primi destinatari delle sue sentenze) e che perciò è stato il più importante nel rapporto tra giustizia

costituzionale e giurisdizione ordinaria.

Il giudizio in via incidentale

Il giudizio in via incidentale si instaura davanti alla Corte costituzionale secondo questo

procedimento: tutte le volte che un giudice (civile, penale, amministrativo; di merito, di legittimità),

nel corso di un processo (e in uno qualunque dei suoi gradi), abbia il dubbio, non evidentemente

pretestuoso o privo di senso, che una disposizione di una legge, che egli deve applicare per

risolvere la controversia sottoposta al suo esame, contrasti con la costituzione, non può né applicare

né disapplicare la legge della cui costituzionalità dubiti; deve sospendere (interrompere) il

processo e rivolgere alla Corte costituzionale la domanda se quella disposizione non sia

effettivamente incostituzionale.

Il dubbio può essere anche prospettato al giudice da una delle parti del processo, mediante una

‘eccezione di costituzionalità’ con la quale l’avvocato di parte fa notare (eccepisce) che la legge che

dovrebbe essere applicata al caso ha un vizio di costituzionalità.

Il giudice non è tenuto ad accogliere questa eccezione di parte; se non ritiene di farla propria, può

respingerla con ordinanza motivata il cui effetto è che la stessa questione non può essere riproposta

in quello stesso stadio o grado del processo (ma potrebbe essere riproposta nel grado successivo).

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L’atto col quale il giudice interrompe il processo e rimette (trasmette) la questione di

costituzionalità alla Corte costituzionale si chiama ordinanza di rimessione. La domanda,

contenuta nell’ordinanza di rimessione, se una disposizione non sia effettivamente incostituzionale

è la questione di legittimità costituzionale di quella disposizione. La questione deve essere

presentata argomentando, da un lato, la non manifesta infondatezza del dubbio (cioè si dovrà

dimostrare che il dubbio ha una qualche consistenza), e la rilevanza della questione, vale a dire si

dovrà dimostrare che la soluzione del problema di costituzionalità è rilevante per il processo nel

quale la questione è sorta perché esso non può essere deciso senza quella disposizione, della cui

costituzionalità si dubita.

Mentre sospende il processo davanti al giudice “remittente” (il giudice che ha rimesso la questione

alla Corte; che viene talvolta detto anche giudice “a quo”, ovvero “dal quale” viene la questione),

l’ordinanza di rimessione apre il processo davanti alla Corte, funziona cioè da atto di

promuovimento del processo di costituzionalità, cioè da atto che, appunto, promuove, ovverosia

apre il processo di costituzionalità, dà ad esso inizio.

La Corte esamina preliminarmente l’ammissibilità dell’ordinanza di rimessione. Cioè verifica se il

giudice ha fatto bene l’ordinanza di rimessione, ha argomentato correttamente e compiutamente la

non manifesta infondatezza e la rilevanza; se la questione riguarda effettivamente una legge o un

atto avente forza di legge; se non c’è già stata una dichiarazione di incostituzionalità su quella stessa

disposizione, e altri profili analoghi che rendono la questione inammissibile. Se uno di questi profili

ricorre, la Corte, con ordinanza, la dichiara inammissibile e restituisce gli atti al giudice a quo (la

questione potrà essere riproposta solo in uno stadio successivo del processo, o da altri giudici). Se

invece l’ordinanza di rimessione supera l’esame preliminare di ammissibilità la corte “conosce nel

merito”, cioè passa a studiare e a decidere il problema di costituzionalità.

Il processo davanti alla Corte non prevede la costituzione di parti, ad eccezione di una. Le “parti”

del processo a quo (i due che litigano nella causa da cui il problema si origina) o il giudice

remittente non compaiono davanti alla Corte a spiegare ulteriormente le loro ragioni: basta la

ordinanza di rimessione. Le parti possono solo, inviare memorie, per illustrare la questione dal loro

punto di vista, che saranno rappresentate da avvocati del libero foro. Se vuole, può invece costituirsi

come parte il Governo, in rappresentanza dello Stato. Di solito il governo si costituisce se vuole

difendere la legge impugnata, la legge oggetto della questione. Esso è rappresentato nel processo

dall’Avvocatura dello Stato è quell’organo statale che difende lo stato nei processi di cui sia parte.

Siccome il governo può costituirsi, ma anche non, e il processo va avanti lo stesso si dice che il

processo incidentale è un processo “a parti eventuali”: se la parte che si può costituire, il governo,

si costituisce, bene, altrimenti la sua mancata costituzione non influisce sulla prosecuzione del

processo.

La Corte assegna a uno dei suoi membri il compito di studiare l’ordinanza, di farsi una idea

approfondita e completa del problema. Questo giudice (giudice relatore) espone poi agli altri il suo

punto di vista. Poi il collegio (l’insieme dei giudici) discute e alla fine decide.

La decisione della Corte è una sentenza di incostituzionalità se la Corte stabilisce che la legge è

effettivamente incostituzionale. Le sentenze o dichiarazioni di incostituzionalità si chiamano anche

sentenze di accoglimento perché con esse la Corte accoglie, fa proprio, il dubbio del giudice.

L’effetto della sentenza di accoglimento è l’annullamento della legge o della disposizione

impugnata.

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La legge annullata per incostituzionalità non potrà più essere applicata a nessun caso a partire dal

giorno successivo alla dichiarazione di incostituzionalità e inoltre non potrà più essere applicata ai

casi che erano sorti prima della dichiarazione di incostituzionalità e che nel giorno della

dichiarazione di incostituzionalità sono ancora aperti, pendenti, sub judice, il primo dei quali è il

giudizio sospeso davanti al giudice a quo.

Si dice perciò che l’annullamento ha un effetto parzialmente retroattivo: esso si applica a tutti i casi

a cui la legge annullata avrebbe dovuto applicarsi in futuro, e a tutti quelli a cui era già stata

applicata nel passato, purché questi non siano stati decisi con sentenza passata in giudicato o

altrimenti prescritti o decaduti. Soltanto quando la Corte annulla una legge penale, l’annullamento

ha effetto pienamente retroattivo e cioè travolge anche le sentenze passate in giudicato che avessero

dato applicazione a quella legge condannando qualcuno.

Facciamo un esempio: una ipotetica dichiarazione di incostituzionalità di una norma della legge sulla patente

a punti, pubblicata il 18 dicembre 2014, comporta che quella norma non potrà più essere applicata a nessuno

a partire dal 18 dicembre 2014 e che essa non potrà essere applicata nemmeno in alcun processo, che alla

data del 18 dicembre 2014 sia in corso, nel quale sia in questione l’applicazione di quella legge. Dunque se

io avevo fatto ricorso e ho un processo aperto, la dichiarazione di incostituzionalità vale anche per me; se

non avevo fatto ricorso, non mi cambia nulla, se avevo fatto ricorso ma esso è già stato deciso con sentenza

passata in giudicato, cioè definitiva, non mi cambia niente lo stesso. Nota bene: un processo è “aperto” non

solo quando si sta ancora svolgendo il dibattimento, ma anche è venuto a sentenza, purché si tratti di una

sentenza sottoponibile a impugnazione in un grado superiore di giudizio e purché non siano ancora scaduti i

termini per impugnarla. Se i termini sono scaduti, o la sentenza non è impugnabile perché emessa in ultimo

grado di giudizio, la sentenza fa ‘giudicato’ e il rapporto che quella sentenza decide è ‘chiuso’ e non viene

toccato dalla dichiarazione di incostituzionalità.

Dunque, in presenza di una dichiarazione di incostituzionalità, tutti i giudici, a partire dal giudice a

quo, che dovevano applicare la legge che è stata colpita dalla decisione di incostituzionalità, devono

risolvere il processo senza quella disposizione, che è stata per l’appunto annullata.

La Corte peraltro può anche respingere la questione sollevata dal giudice a quo. In questi casi farà

una sentenza di rigetto, o di infondatezza (con cui rigetta, respinge la questione, dice che è

infondata). La sentenza di rigetto lascia le cose come stavano; la legge non è incostituzionale. Si

tenga presente che: una sentenza di rigetto non dice che la legge è costituzionale, è conforme a

costituzione. Dice che essa non è incostituzionale, non lo è nei termini prospettati dal giudice a

quo, non lo è ora come ora. La dichiarazione di rigetto non esclude che una questione su quella

stessa legge possa essere ripresentata e possa essere accolta: se ciò accade, significherà che in

questo nuovo caso il giudice ha trovato argomentazioni più convincenti, che qualcosa è cambiato.

Quando il processo costituzionale si chiude con una sentenza di rigetto il giudice a quo riprenderà il

suo processo e dovrà deciderlo tenendo conto che quella disposizione è sempre vigente.

In molti casi la Corte costituzionale emette sentenze, di accoglimento o di rigetto, con carattere

interpretativo, che mostrano che una certa disposizione può essere interpretata in un modo che la

adegua alla Costituzione (e pertanto non c’è bisogno di annullarla).

Caratteri del controllo di costituzionalità in Italia

Il nostro processo di costituzionalità ha i seguenti caratteri: è accentrato, concreto e successivo.

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E’ accentrato, nel senso che solo un solo organo – la corte costituzionale – può pronunciare

l’incostituzionalità di una legge.

Al modello accentrato di giustizia costituzionale si contrappone il modello “diffuso”. Un modello

diffuso è quello adottato negli Usa. In quel contesto, ciascun giudice può disapplicare la legge che

ritenga incostituzionale. Vale a dire che può non applicare quella legge per decidere il processo, ma

la legge resta in vigore. Quando, per via di impugnazione, si arriva alla Corte suprema, quest’ultima

potrà decidere a sua volta se quella legge era incostituzionale o no. La decisione della corte suprema

annulla la legge e vale per tutti. Bisogna comunque notare che la Corte suprema degli Stati Uniti

svolge allo stesso tempo le funzioni di una corte di cassazione (giudice supremo di impugnazione) e

di corte costituzionale. Nel nostro ordinamento le due funzioni sono assegnate a organi diversi, la

corte di cassazione, che è un organo del potere giurisdizionale, e la corte costituzionale, che del

potere giurisdizionale non fa parte.

Per precisare il carattere ‘accentrato’ del nostro sistema di controllo di costituzionalità delle leggi

occorre ricordare che esso, presenta anche elementi di diffusione, nel senso che, se annullare una

legge per incostituzionalità è potere della sola Corte costituzionale, valutare invece se una legge

presenta o meno un dubbio di costituzionalità è compito del giudice, di tutti i giudici, che dunque

compiono apprezzamenti relativi alla costituzionalità di una legge, sia pure non sino al punto di

poterla annullare o disapplicare. Inoltre, sin dagli inizi della sua giurisprudenza la Corte

costituzionale ha stabilito che i giudici, prima di sottoporle una questione di costituzionalità, devono

verificare se la legge non sia suscettibile di una interpretazione costituzionalmente conforme,

cioè di essere interpretata in modo armonico con la Costituzione, e anche questo porta tutti i giudici

a fare valutazioni relativi alla costituzionalità di una legge.

Il nostro sistema di controllo di costituzionalità, inoltre, è’ concreto, nel senso che le questioni di

costituzionalità devono sorgere durante la vita di una legge, nella sua applicazione a casi concreti,

cioè nei processi. Per questo il processo è anche successivo: esso ha luogo solo dopo

(successivamente) all’entrata in vigore della legge. In Francia invece, sino ad una riforma entrata in

vigore due anni fa, il processo di costituzionalità era tipicamente solo astratto e preventivo. La legge

veniva esaminata dal loro organo di giustizia costituzionale (Conseil constitutionnel) dopo la

approvazione da parte dell’assemblea legislativa e prima dell’entrata in vigore; la sua

costituzionalità veniva valutata confrontando la legge per quel che dispone con la costituzione, e

non potendosi tener conto delle visuali, dei problemi e delle esigenze che sorgono nella

applicazione a casi concreti (il modello francese di controllo di costituzionalità astratto e preventivo

è chiaramente debitore del modello storico dell’”interinazione”, interpretato, peraltro, nei fatti, con

molto rispetto per la discrezionalità del legislatore).

Il carattere concreto del controllo di costituzionalità delle leggi è un chiaro riconoscimento del

fatto che la legge, e la Costituzione, il diritto, vivono nella storia e sono sempre in mutamento. Una legge può rimanere in vigore molti anni senza che alcun dubbio di costituzionalità si ponga; e

poi venire indubbiata di costituzionalità e anche annullata, perché nel tempo cambiano non le parole

della legge o della Costituzione, ma il modo in cui le si interpreta e il modo in cui si valutano le

situazioni cui esse si riferiscono. Le norme che permettono nel nostro sistema solo alle persone

eterosessuali di sposarsi sono in vigore da anni anni e anni; solo da pochi anni si è posto il

problema se esse non siano incostituzionali, perché discriminatorie nei confronti degli omosessuali.

La Corte ha in una prima occasione, nel 2012, rigettato la questione: ma il solo fatto che essa si sia

posta segnala un mutamenti nei valori diffusi e nel senso comune, che sono quel tipo di mutamenti

dei quali vive l’esperienza del controllo di costituzionalità delle leggi, e il diritto in generale.

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Quadro riassuntivo dei diversi giudizi davanti alla Corte costituzionale

E’ bene tener presente che la Corte costituzionale può essere adita (= adire una Corte significa

aprire un processo davanti ad essa) in diversi modi.

I giudizi davanti alla Corte costituzionale sono infatti diversi. Possiamo raggrupparli così:

Giudizi di legittimità costituzionale

Giudizio in via incidentale

Giudizio in via principale

Giudizi per conflitto di attribuzione Conflitto tra poteri dello stato

Conflitto tra Stato e Regione

Giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo

Giudizio sulle accuse al Capo dello Stato

Giudizi di legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge

Si tratta di giudizi che hanno ad oggetto: leggi e atti aventi forza di legge dello stato e delle regioni,

ovvero: leggi ordinarie statali, leggi regionali, decreti legge e decreti delegati statali (questo insieme

di atti sono detti anche atti primari).

Questi giudizi servono a rispondere a questa domanda: è questa legge o atto avente forza di legge

(una sua disposizione, comma, norma ecc.) contrastante con la costituzione?

Possono condurre, in caso affermativo, all’annullamento dell’atto impugnato.

Questi giudizi sono due:

giudizio in via incidentale che abbiamo descritto poco sopra;

giudizio in via principale (o giudizio sulle leggi dello stato e delle regioni). Questo giudizio

è fondato sul fatto che nel nostro sistema lo stato e le regioni possono entrambi emanare

leggi, secondo criteri di ripartizione di competenza fissati in costituzione (art. 117 ss.).

Quando lo stato (o la regione) ritiene che una regione (o lo stato) ha violato le sue

competenze può impugnare la legge davanti alla Corte costituzionale.

Nel giudizio in via incidentale si può denunciare una legge per qualunque contrasto con la

costituzione, mentre nel giudizio in via principale solo per violazione della sfera di competenza

legislativa assegnata dalla costituzione alla regione o allo stato.

Il giudizio in via incidentale si chiama così perché sorge come un “incidente” nel corso di un

processo; quello in via principale si chiama così perché sorge da un ricorso fatto appositamente,

direttamente, esclusivamente per denunciare la legge statale o regionale considerata viziata.

Conduce all’annullamento dell’atto normativo primario ritenuto adottato in violazione delle

competenze legislative statali o regionali.

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Giudizi in via d’azione o per conflitto di attribuzione

Ogni “potere dello stato” (governo, parlamento, potere giudiziario, capo dello stato…. ) ha una

propria “sfera di competenza” stabilita dalla Costituzione; lo stesso vale per Regioni e Stato. Le

regioni, oltre alle competenze legislative, hanno infatti competenze amministrative in varie materie

(istruzione, sanità, trasporti…) e lo stato ne ha altre.

Il giudizio per conflitto di attribuzioni ha ad oggetto: atti o comportamenti espressivi delle

competenze (diverse da quelle legislative) dei poteri dello stato, dello stato e delle regioni.

Risponde alla domanda: è un certo atto o comportamento di un certo potere dello stato o della

regione invasivo di una competenza altrui?

Può condurre all’annullamento dell’atto che sia eventualmente all’origine del conflitto.

I giudizi per conflitto di attribuzione sono due:

Conflitto di attribuzioni tra i poteri dello Stato: un potere dello stato ne denuncia un altro

lamentando che quello ha esorbitato da, o male esercitato, la sua sfera di competenza.

Esempio: un giudice ricorre contro il diniego della Camera o del Senato di autorizzazione a

procedere nei confronti di un parlamentare, ritenendo quella delibera lesiva della sfera di

attribuzioni del potere giudiziario.

Conflitto di attribuzioni tra Stato e Regioni: lo stato ritiene che una regione ha esorbitato

dalle sue competenze, con una delibera giuntale, un atto amministrativo e simili; oppure:

una regione si ritiene lesa, nella proprie competenze amministrative, da un atto,

amministrativo o giurisdizionale, dello Stato.

Il giudizio per conflitto di attribuzioni sorge su ricorso: il potere o l’ente che si ritiene leso solleva

una azione davanti alla Corte. Se ha alla sua base un atto, il conflitto può portare all’annullamento

di esso.

Nel giudizio per conflitto tra poteri dello Stato il passaggio alla decisione del conflitto nel merito è

subordinata al previo esperimento di un giudizio di ammissibilità del conflitto. Nel giudizio di ammissibilità

la Corte valuta se i ricorrenti sono legittimati a sollevare il conflitto, sono cioè ‘poteri dello stato’ (e

precisamente organi autorizzati a esprimere in modo definitivo la volontà del potere cui appartengono) e le

attribuzioni per le quali stanno controvertendo sono costituzionali, previste cioè dalla Costituzione.

Giudizio di ammissibilità del referendum abrogativo

Risponde alla domanda: ha o meno questo referendum abrogativo, che i promotori del referendum

propongono, ad oggetto una legge che la costituzione sottrae a referendum?

Questo giudizio viene condotto alla stregua dell’art. 75 Cost., che enumera le leggi sottratte a

referendum, e degli ulteriori limiti al referendum che la Corte ha dedotto da questa disposizione (e

che richiameremo quando parleremo del referendum abrogativo).

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Giudizio sulle accuse al Capo dello Stato

Risponde alla domanda: è il capo dello stato colpevole o meno di alto tradimento o attentato alla

Costituzione?

L’alto tradimento e l’attentato alla Costituzione sono “reati propri” del capo dello stato, cioè reati

che solo il capo dello stato, in considerazione delle sue funzioni, può compiere. Consistono

“nell’abuso delle suoi poteri o violazione dei suoi doveri al fine di far venir meno la sovranità

nazionale o di alterare radicalmente il sistema costituzionale” (Caretti De Siervo, Istituzioni di

Diritto pubblico, p. 202).

La Corte, che in questi casi opera come giudice penale, decide, con sentenza irrevocabile, in una

composizione integrata da un certo numero di giudici “laici” (non stabili membri della corte)

sorteggiati da un elenco di ‘saggi’ eletti ogni legislatura dal parlamento in seduta comune.

L’ordinamento della giustizia nella Costituzione italiana

La funzione giurisdizionale consiste nella decisione di controversie, con un atto chiamato sentenza.

La giurisdizione è considerata e regolamentata, dalla nostra Costituzione, come una funzione dello

Stato - esercitata da pubblici funzionari selezionati per concorso, che compongono la magistratura.

La Costituzione, cioè, assume la magistratura come un ordine burocratico quale già l’aveva

disegnata lo Statuto albertino, ma, a differenza di questo, ne rafforza notevolmente l’indipendenza,

sia pure puntando, come diremo, più sugli aspetti ‘organizzativi’ che sulle precondizioni culturali di

essa.

Prendiamo però, intanto, dimestichezza con la struttura e l’organizzazione della giurisdizione

ordinaria (civile e penale)

Principi fondamentali in materia di giurisdizione

Il contraddittorio e il processo

Secondo l’art. 111 della Costituzione

La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge.

Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a un giudice terzo ed

imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata. (art. 111 Cost.)

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La funzione giurisdizionale si realizza mediante il processo. Il processo è retto dalla regola del

contraddittorio. Il processo tende ad accertare se un fatto è accaduto o meno e a definirne le

conseguenze, e lo fa mediante la ricerca di prove, l’acquisizione di testimonianze, l’eventuale

ricorso a perizie o pareri di esperti che vengono portati davanti al giudice dalle parti del processo,

rappresentate dai loro avvocati.

Il contraddittorio, che informa il processo, significa che il processo è come una discussione in cui

una parte fa una affermazione e deve provarla e l’altra parte fa una contro-affermazione e deve

provarla; il processo è un disciplinamento dei discorsi. Sono ammesse solo le affermazioni e le

prove rilevanti e tali sono solo le affermazioni, le prove che hanno a che vedere col fatto

controverso; a ogni affermazione deve essere data una base, una prova; se una parte fa una

affermazione, l’altra parte, che intende contestarla, deve contestare quella affermazione, non tirare

in ballo cose generiche o solo vagamente riferibili ad essa, o elementi che non c’entrano niente.

Ciascuna parte deve essere in condizione di conoscere i fatti e gli altri elementi con cui l’altra

intende provare i propri argomenti, onde poterli contestare.

La regola del contraddittorio esprime grandi valenze etiche. La prima è quella che abbiamo appena

visto: se si discute di un problema, del torto e della ragione, non si deve parlare a vanvera: occorre

portare argomenti rilevanti, attinenti, fare repliche e confutazioni congrue, dunque ascoltare quello

che dice l’avversario, perché se non lo si ascolta non si può trovare una buona replica. Il

contraddittorio esprime la norma etica di rispettare l’altro, di parlare e ascoltare seriamente. La

seconda grande valenza etica del contraddittorio è riassunta dal divieto di prendere qualunque

decisione ‘inaudita altera pars’, cioè senza aver sentito l’altra parte. Se Tizio dice di avere

diritto che Caio gli restituisce dei soldi, benissimo, ma prima occorre sentire cosa dice Caio, come

Caio la vede, come le cose stanno secondo Caio. Il contraddittorio esprime una posizione di apertura

verso la possibilità che una cosa, che apparentemente è in un modo, sia invece in un altro; e la

profonda convinzione che soltanto attraverso il dialogo e il confronto si possa arrivare a una

ragionevole certezza su come quella cosa è, su come quel certo fatto è accaduto, su quali sono stati i

comportamenti di uno o di un altro, le loro responsabilità, ecc. In altre parole, il processo, informato

sul contraddittorio, esprime la profonda coscienza del fatto che nessuno possiede la verità, e questa

è una consapevolezza importante, profondamente anti-autoritaria, ed è una premessa necessaria alla

convivenza civile, al rispetto degli altri, e di sé.

Il contraddittorio, che informa il processo, specialmente quello penale, è una espressione di

eguaglianza: le parti sono pari, hanno la stessa capacità e legittimazione a contribuire alla ricerca

della verità. Il giudice, a sua volta, ha il ruolo di garantire che le parti possano svolgere i loro

argomenti, di garantire il rispetto della ‘parità delle armi’ tra loro, e non dovrebbe disporre del

potere di dirigere il processo verso un fine pre-definito, o di influenzarne gli esiti. La sua neutralità e

imparzialità sta proprio a garantire che nel processo, tramite il contraddittorio, si possa formare una

immagine della verità nascente dal processo (e non corrispondente a una verità precostituita).

E’ bene ricordare la differenza tra processo civile e processo penale. Nel processo civile si accerta la

responsabilità ‘civile’ (per inadempimento contrattuale o per danno ingiusto provocato in modo doloso o

colposo ad altri). Nel processo penale si accerta la responsabilità ‘penale’, che è quella conseguente al

compimento di reati, i quali sono tipizzati nelle leggi penali.

La sentenza civile condanna al risarcimento del danno, che viene calcolato in relazione al tipo e alla qualità

della lesione che qualcuno ha provato ai diritti di un altro. La sentenza penale all’esecuzione della sanzione,

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detentiva o pecuniaria, che collegata al reato il cui compimento è stato accertato e la cui entità, tra un minimo

e un massimo, è fissata dalla legge penale in relazione alla gravità che l’ordinamento assegna al

comportamento di volta in volta qualificato come reato.

L’apparato preposto alla giustizia civile e penale è la magistratura ordinaria, ed è questa che noi studiamo

in questo capitolo.

Esistono numerosi altri tipi di processi (amministrativo, tributario, contabile), cui sono preposte magistrature

caratterizzate da norme organizzative, garanzie di indipendenza, modalità di funzionamento differenziate da

quelle che concernono la magistratura ‘ordinaria.

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Sentenze e ordinanze. L’obbligo di motivazione di tutti i provvedimenti giurisdizionali

L’atto che conclude un processo si chiama sentenza. Si chiama invece ordinanza ogni atto interno

al processo, ovverosia adottato dal giudice ai fini dello svolgimento del processo, per compiere atti

necessari alla sua prosecuzione o al suo completamento

Es.: ordinanza con cui si dispone una perizia su richiesta di parte; con cui si dispone la comparizione di

testimoni; è una ordinanza anche l’atto con cui il giudice, che dubiti della costituzionalità della legge che

deve applicare per risolvere il processo, lo sospende mentre invia la questione di costituzionalità alla Corte

costituzionale; del pari, il giudice che, nel corso del processo, abbia bisogno di conoscere, ai fini della

soluzione della controversia, l’esatta interpretazione di norme di diritto dell’Unione europea, deve

sospendere, con ordinanza, il processo, e sottoporre la questione alla Corte di Giustizia).

Tutti i provvedimenti giurisdizionali (sentenze e ordinanze) devono essere motivati (art. 111 comma

6). La motivazione è essenziale per riscontrare le ragioni su cui sono fondati, ed eventualmente

contestarli tramite una impugnazione.

La struttura normale di una sentenza prevede:

- una parte in fatto, in cui viene restituita la vicenda controversa, per come la si è ricostruita

nel processo;

- una parte motiva, o motivazione, in cui si espongono le ragioni su cui è fondato il

- dispositivo, cioè ciò che la sentenza dispone, il modo in cui essa risolve il conflitto di

interessi considerato (Caio deve pagare a Tizio tanto; Mevio deve scontare tot giorni e mesi

di reclusione, ecc.), in cui si individua la o le norme a cui il fatto è ritenuto corrispondere.

Impugnazioni e gradi di giurisdizione

Ogni sentenza può essere impugnata per ottenerne una revisione. Si può impugnare per motivi di

fatto (si contesta che le cose siano andate davvero come la sentenza ritiene, affermando di disporre

di nuovi elementi di prova, o che le prove non sono state ben valutate) o per motivi di diritto (si

contesta la correttezza della scelta della norma che il giudice ha applicato al caso, l’esattezza della

qualificazione che il giudice ha dato al fatto). Ogni fatto controverso può dunque, normalmente,

conoscere due gradi di giudizio, il primo e quello in impugnazione. E’ generalmente possibile

operare un terzo ricorso in impugnazione, ma soltanto per motivi di diritto, davanti alla Corte di

Cassazione. In questo giudizio non si discuterà più del fatto, non si porteranno nuove prove, ma si

discuterà solo della corretta qualificazione di quel fatto secondo il nostro diritto.

I giudici che conoscono in fatto e in diritto sono detti giudici di merito. Essi sono distribuiti nel

territorio nazionale, che è articolato in numerosi distretti giudiziari. Ogni distretto giudiziario è

composto dai vari organi giudiziari contemplati dall’ordinamento (Tribunale Corte d’Assise Corte

d’Appello). Le cause si distribuiscono:

a) per territorio (per esempio, a seconda del luogo in cui si trova la cosa della cui proprietà si

discute, o dove il fatto è stato commesso);

b) per tipo e valore (cause civili di piccolo valore vanno a un certo organo giudiziario, di grande

valore, a un altro; lo stesso per reati gravi e meno gravi).

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La Corte di Cassazione è un giudice che conosce solo il diritto, e un giudice così configurato si

chiama giudice di legittimità. Essa è unica per tutto il territorio nazionale (per curiosità storica,

ricordo che nel Regno d’Italia invece esistevano cinque Corti di Cassazione, a Torino, Napoli,

Firenze, Palermo e, ultima nata, dopo la presa di Porta Pia, a Roma; avere una propria Corte di

Cassazione era un onore che venne lasciato alle antiche capitali pre-unitarie).

La funzione della Corte di Cassazione è detta ‘nomofilattica’, cioè è quella di indicare la retta

interpretazione del diritto, evitando la difformità delle interpretazioni dei giudici di merito. Come

sappiamo, l’istituzione della Corte di cassazione risale al periodo rivoluzionario francese.

Quando una sentenza viene impugnata in Cassazione, essa può essere confermata, oppure cassata.

Se cassa la sentenza di merito, la Corte di cassazione enuncia quella che doveva essere la retta

interpretazione del caso, e rinvia il processo a un giudice di natura analoga e dello stesso luogo di

quello da cui proviene la sentenza impugnata, ma in composizione diversa, che dovrà ri-decidere il

fatto rispettando il ‘punto di diritto’ enunciato dalla Cassazione.

Sentenze definitive e non definitive. Giudicato

La sentenza suscettibile di impugnazione si dice ‘non definitiva’. Una sentenza non più suscettibile

di impugnazione si dice ‘definitiva’ o ‘passata in giudicato’.

La legge definisce il termine entro il quale una sentenza può essere impugnata.

Una sentenza diventa definitiva:

a) se il termine per l’impugnazione è decorso, e non è stata presentata alcuna impugnazione (così

può passare in giudicato anche una sentenza di primo grado).

b) se tutte le possibili impugnazioni sono state esperite. Se si è raggiunto un giudizio di Cassazione

conforme, passa in giudicato la sentenza di merito impugnata davanti alla Cassazione, e che la

Cassazione ha confermato; se la Cassazione ha riformato (cassato) la sentenza di merito davanti ad

essa impugnata, e ha rinviato il processo al giudice per la decisione sulla base del punto di diritto

che la Cassazione ha enunciato, passa in giudicato la sentenza del giudice del rinvio.

Il ‘giudicato’ è la condizione per cui la cosa giudicata non è più rivedibile, non può più essere fatta

oggetto di un processo. Il giudicato ha forza di legge per le parti del processo. Né una legge né un

atto del Governo possono modificare il giudicato (e questa è una espressione del principio di

divisione dei poteri).

L’irrivedibilità del giudicato subisce solo alcune limitatissime eccezioni fissate dalla legge. Tra

queste si può includere la grazia.

Ordinamento giudiziario

Ordinamento giudiziario è l’insieme delle norme che disciplinano lo status dei magistrati civili e

penali (modalità di selezione, carriera, norme disciplinari, ecc.).

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L’ordinamento giudiziario è riservato alla legge (vale a dire è sottratto all’Esecutivo e ai suoi atti

normativi).

Le norme sull’ordinamento giudiziario e su ogni magistratura sono stabilite con legge (art. 108

Cost.).

Magistrati giudicanti e requirenti

I magistrati possono svolgere due tipi di funzioni: giudicanti e requirenti. I magistrati giudicanti

sono quelli che sovrintendono allo svolgimento del processo e redigono la sentenza; i magistrati

requirenti (pubblici ministeri, o Procuratori della Repubblica) hanno invece la funzione di

rappresentare gli interessi dello Stato nel processo: essi sono la cd. ‘parte pubblica’.

La principale funzione del pubblico ministero è il sollevamento dell’azione penale.

Mentre nel processo civile, trattandosi di interessi privati, il sollevamento di un processo è rimesso

all’iniziativa della parte, il processo penale è ‘a istanza pubblica’5: la notizia del compimento di un

reato fa scattare lo svolgimento delle indagini e il sollevamento dell’azione penale, da parte appunto

del pubblico ministero, che rappresenta l’interesse dello Stato alla repressione dei reati (vale a dire

al mantenimento dell’ordine). Il pubblico ministero, peraltro, ha un ruolo anche nei processi civili,

dove rappresenta alcuni interessi fatti propri dall’ordinamento (es., nel diritto di famiglia,

rappresenta gli interessi dei minori).

E’ sbagliato riferire la definizione di ‘giudice’ al pubblico ministero, perché il pubblico

ministero non giudica (semmai accusa, e porta l’accusato davanti al giudice).

D’altro canto, secondo il nostro ordinamento giudiziario, la carriera di pubblici ministeri e giudici è

identica, si entra in magistratura con uno stesso concorso, dopo il quale si può decidere di fare il pm

o il giudicante, e nella sua carriera un magistrato può passare dall’uno all’altro ruolo.

Le garanzie di autonomia e indipendenza dell’ordine giudiziario

La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere (art. 104 Cost.)

L’autonomia dell’ordine giudiziario

La magistratura è definita in Costituzione come un ordine, non un potere, secondo una dizione che

era già presente nello Statuto albertino. A differenza che nello Statuto albertino, però, la

5 Solo per alcuni reati, perché considerati di minore importanza, o perché legati alla sfera intima e privata e tali pertanto che solo la

vittima può valutare se renderne pubblica l’esistenza attraverso il processo (così, un tempo, era per il delitto di violenza sessuale), si

procede penalmente ‘ a querela’, cioè se la parte offesa ne fa richiesta. Anche in questi casi, una volta presentata la querela, l’azione

penale nel processo è svolta dal pubblico ministero.

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magistratura è dotata dalla Costituzione di particolari garanzie di indipendenza che riguardano il

singolo magistrato e l’intero ordine, e che sono orientate soprattutto nei confronti del il potere

esecutivo, del Governo.

La magistratura come corpo burocratico è composta da funzionari scelti per concorso sulla base di

precise competenze tecniche. L’amministrazione della giurisdizione è riservata ad un organo

speciale, che si chiama Consiglio Superiore della Magistratura e ha sede a Roma.

Per amministrazione della giurisdizione si intendono tutte le operazioni che riguardano la

carriera dei magistrati, dallo svolgimento del concorso agli avanzamenti di carriera, ai

trasferimenti, ai procedimenti disciplinari. Nel periodo liberale, come sappiamo, queste funzioni

spettavano al potere esecutivo, e rappresentavano uno strumento molto forte di condizionamento

della magistratura da parte del Governo, e come tali venivano coscientemente utilizzate. Per evitare

gli abusi di un tempo, le funzioni di amministrazione della giurisdizione sono dunque state

attribuite a un organo costituzionale apposito, indipendente rispetto all’Esecutivo.

Spettano al Consiglio Superiore della Magistratura, secondo le norme sull’ordinamento giudiziario, le

assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati (art. 105

Cost.).

Per sottolineare l’importanza del Consiglio Superiore della Magistratura la Costituzione ha stabilito

che esso sia presieduto dal Capo dello Stato (anche se normalmente le funzioni di presidenza sono

svolte da un Vice Presidente, nominato tra i membri del Consiglio). Sono membri di diritto del Csm

il primo presidente e il procuratore generale presso la Corte di Cassazione. Gli altri membri del

CSM sono elettivi, in parte eletti dal Parlamento in seduta comune (membri cd laici, cioè non

magistrati; deve comunque trattarsi di persone che, pur scelte attraverso un canale politico, hanno

competenza in materia giuridica) e gli altri eletti dalla magistratura (membri togati). La Costituzione

non fissa il sistema di elezione né numero dei membri, che sono definiti dalla legge, ma definisce le

proporzioni tra membri laici e ‘togati’, assegnando la preminenza a questi ultimi (i ‘togati’ sono i

2/3).

Il fatto che le funzioni di amministrazione della giurisdizione siano riservate a un organo distinto dal

potere esecutivo costituisce ciò che nel nostro ordinamento qualifica come la autonomia della

magistratura. Quest’ultima viene intesa dal nostro ordinamento come non come consistente nella

cultura, del sapere e nella funzione che la giurisdizione svolge, ma come un fatto organizzativo,

riguardante l’insieme di quel particolare tipo di pubblici funzionari che sono i ‘magistrati’ e

consistente nella facoltà della magistratura di presiedere da sola alla propria amministrazione

(all’interno e sulla base delle leggi che la regolano).

Le competenze del Governo, e per esso del Ministro di Grazia e Giustizia, in ordine alla

magistratura si limitano alla possibilità di promuovere l’azione disciplinare nei confronti di singoli

magistrati (che sarà poi di competenza del CSM esaminare e decidere); il Ministero è inoltre

competente sui servizi della giustizia (per esempio, i cancellieri e altri dipendenti pubblici che

lavorano nei tribunali; la gestione delle carceri). Qualora il Governo intenda procedere a una riforma

dell’ordinamento giudiziario, e dunque avviare una legge in tal senso, è il Ministro della Giustizia

che studia e propone questo provvedimento.

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Ferme le competenze del Consiglio Superiore della Magistratura, spettano al Ministro di Grazia e Giustizia

l’organizzazione e il funzionamento dei servizi relativi alla giustizia (art. 110 Cost.)

Le garanzie di indipendenza dei singoli magistrati

Le garanzie di indipendenza dei singoli magistrati sono date, oltre che dal solenne principio di

‘soggezione alla sola legge’, dalla inamovibilità, e dal fatto che ‘i magistrati si distinguono tra loro

solo per diversità di funzioni’ (art. 107 comma 1 e 3).

L’inamovibilità consiste nel fatto che il trasferimento di un magistrato (cambiamento di funzioni o

di sede) può essere deciso solo dal Consiglio superiore della magistratura, con decisione “adottata o

per i motivi e con le garanzie di difesa stabilite nell’ordinamento giudiziario, o con il consenso”

dell’interessato.

Tradizionale strumento punitivo e di controllo sui magistrati, trasferimenti e tramutamenti

(cambiamenti di sede e di funzioni) non solo sono stati tolti al Governo e assegnati al Csm, ma sono

assistiti dalle garanzie di un vero e processo, che permettono al magistrato (che non vi consenta) di

difendersi e di opporsi.

Il principio secondo cui i magistrati si distinguono tra loro solo per diversità di funzioni esprime

l’abbandono della struttura gerarchica che ha, sino alla Costituzione, sempre caratterizzato la

struttura della magistratura in Italia e che faceva sì che i giudici più anziani e di grado più alto

potessero condizionare la carriera dei più giovani, essendo i giudici più anziani e di grado più alto

quelli che esprimevano i giudizi di merito sull’operato dei giovani; sicché il magistrato giovane e

con vedute non gradite ai magistrati anziani aveva poche speranze di carriera, mentre venivano

premiati i più ortodossi e conformisti. Tutto questo andava, come abbiamo visto a suo tempo, a

danno dell’indipendenza dei singoli magistrati, che, nel giudicare, potevano essere portati a tener

conto del tipo di decisione che sarebbe piaciuta ai giudici di grado superiore, se speravano in un

avanzamento o in una sede migliore.

In particolare: l’indipendenza del pubblico ministero

Il principio secondo cui i magistrati si differenziano solo per diversità di funzioni ha anche il

significato di ribadire che è magistrato anche il pubblico ministero, il quale invece in precedenza

era organizzato e funzionava come un organo del potere esecutivo, cosa che, lo abbiamo visto

studiando il periodo liberale, condizionava enormemente l’esercizio dell’azione penale, che il

pubblico ministero sollevava o non sollevava secondo il ‘gradimento’ e le indicazioni del Governo.

Pur non arrivando a dire che il pubblico ministero (che è pur sempre ‘parte pubblica’ nel processo)

ha le stesse garanzie di indipendenza del magistrato giudicante, la Costituzione afferma, con norma

che fu di portata rivoluzionaria rispetto alla nostra tradizione, che “il pubblico ministero gode delle

garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull’ordinamento giudiziario”.

La sottolineatura dell’indipendenza del PM dal Governo, che viene dalla Costituzione, è un tratto

che è stato molto approfondito nell’esperienza repubblicana, e costituisce, lo ripetiamo, una

differenza rilevantissima rispetto all’esperienza statutaria e poi fascista, che concepiva il pubblico

ministero come un braccio del potere esecutivo.

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Altra norma importantissima ai fini dell’indipendenza del PM (e in genere della funzione

giurisdizionale) è quella che sancisce l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale. Viene in

tal modo ripudiata la possibilità ( cardinale nel Regno d’Italia, per non dire nel Fascismo) che

l’azione penale possa essere esercitata secondo valutazioni inerenti l’opportunità o meno di

sollevarla in considerazione del tipo di reato, della persona imputata, e via discorrendo.

Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale (art. 112)

Altre norme sulla giurisdizione

Oltre che nella parte dedicata all’organizzazione del potere giudiziario, che si trova nella seconda

parte della Costituzione, quella dedicata alla organizzazione della Repubblica, la Costituzione detta

norme importanti sulla giurisdizione nella sua prima parte, che è quella dedicata ai diritti e alle

libertà.

Tra queste vanno qui specialmente ricordate:

o il principio secondo cui tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e

interessi legittimi e quello secondo cui la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado

del procedimento (art. 24);

o il principio di irretroattività della legge penale (nessuno può essere punito se non in forza

di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso: art. 25 comma 2);

o il principio di presunzione di innocenza (l’imputato non è considerato colpevole sino alla

condanna definitiva, art. 27 comma 1);

o il ripudio di pene degradanti e il divieto di pena di morte (le pene non possono consistere

in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del

condannato; non è ammessa la pena di morte: art- 27).

Un altro principio molto importante è quello del giudice naturale.

Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge (art. 25 comma 1).

Il “giudice naturale”, secondo una tradizione che viene dritta dalla medievale Magna Charta (diritto

dell’uomo libero di essere giudicato dai suoi pari), sarebbero, appunto, i nostri ‘pari’, vale a dire le

persone comuni. Il principio del giudice naturale voleva costituzionalizzare il ricorso alla giuria

popolare nel processo penale, istituto tradizionale del processo penale, ma altrettanto

tradizionalmente sottovalutato nel nostro ordinamento (perché è un principio che mal si accorda con

l’idea, come sappiamo centrale nel periodo liberale, per cui la giustizia consiste nell’applicazione

della legge ed è perciò funzione riservata ai pubblici funzionari. Nel nostro ordinamento attuale è

una specie di giuria popolare la Corte d’assise, che giudica in primo grado su alcuni tipi di reati,

dove vi sono anche giudici ‘popolari’). Anche oggi si tende a dire che il principio del giudice

naturale al massimo “giustifica” l’istituzione della giuria popolare, e il significato del principio

viene trovato in altro e cioè nell’esclusione della possibilità che qualcuno possa essere giudicato da

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un organo giudiziario creato ad hoc o scelto tra quelli esistenti in considerazione delle persona

dell’imputato o del delitto di cui è accusato. Il principio risulta così depotenziato in una sorta di

poco comprensibile doppione del divieto di giudizi straordinari. Così inteso, il principio del giudice

naturale si realizza:

a) Mediante le norme sulla giurisdizione che distribuiscono tra i giudici esistenti nel territorio e

tra i diversi gradi di giurisdizione la competenza sulle diverse materie;

b) Mediante il ‘tabellario giudiziale’ che su base annua, mensile e settimanale stabilisce in

anticipo, per ogni ufficio di ogni distretto, quali magistrati-persone fisiche faranno parte dei

diversi organi giudicanti.

Giurisdizione e Costituzione

Dallo stato ‘legicentrico’ alla democrazia costituzionale

Con la redazione della Costituzione si è voluto sancire in un testo che la legge non può modificare

(se non in certe ipotesi e a certe condizioni) i valori della convivenza che non vorremmo mai fossero

abbandonati, pretermessi o violati. D’altro canto, quando si dice che la Costituzione contiene

l’indicazione di diritti, libertà e garanzie fondamentali per la nostra convivenza civile non si deve

intendere che la Costituzione contiene norme che risolvono una volta per tutte le questioni inerenti

le libertà e i diritti, e che richiedono soltanto di essere applicate per quello che dicono. Al contrario,

le norme costituzionali hanno spesso carattere di norme di ‘principio”: hanno un contenuto ampio,

spesso descritto attraverso termini ricchi, evocativi ed imprecisi: risalgono spesso, come detto, ai

principi generali del diritto e li arricchiscono o integrano con l’intonazione di valori nuovi e

altamente valutativi. In questo modo, le norme costituzionali, col loro ricco fraseggio, spesso

comunicano associazioni di idee, evocano immagini ma non sempre descrivono precise fattispecie.

Proprio perciò, esse “eccedono” i contenuti che di volta in volta sono fissati in disposizioni

specifiche e aprono uno spazio in cui è possibile che nuovi valori emergano e nuovi interessi

siano tutelati.

Pensiamo alla immagine dello “svolgimento della personalità”, che troviamo nell’art. 2:

La Repubblica riconosce i diritti inviolabili della persona come singolo e nelle formazioni sociali in

cui si svolge la sua personalità.

Questo testo mette in rilievo sicuramente due cose: che tanto i singoli che le formazioni sociali sono

molto importanti, e che le formazioni sociali in cui i singoli vivono devono essere improntante al

rispetto della personalità dei singoli. E’ una immagine che rivoluziona le concezioni tradizionali di

formazioni sociali come la famiglia, la scuola, il luogo di lavoro, l’esercito, il carcere e che,

mettendo al centro una idea di ‘sviluppo della personalità’ è in grado di offrire riconoscimento e a

tante cose diverse che, a seconda dei tempi e dei luoghi, possono essere associate all’idea di

personalità e di libertà; cose che nessuna norma può enunciare in un elenco esaustivo, perché…

perché si tratta di contenuti sempre in cambiamento: i “valori della convivenza” sono sempre in

trasformazione. Per esempio, i costituenti, o la maggior parte di loro, probabilmente non lo

pensavano, ma oggi noi non fatichiamo a pensare che l’idea di “libero svolgimento della

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personalità” protegga l’orientamento sessuale. La costituzione non contiene una norma a protezione

della libertà di scegliere il proprio orientamento sessuale, ma l’art. 2, col suo riferimento al libero

svolgimento della personalità offre una base per argomentarne il riconoscimento.

Proprio perché la Costituzione è ricca di norme di principio, che riconoscono potenzialmente il

valore di situazioni diverse e tra loro confliggenti, la sua ampiezza di contenuti di valore impegna al

bilanciamento di interessi diversi. Nel 1978, la legge ha riconosciuto l’aborto come una operazione

che può essere compiuta legittimamente entro i 3 mesi di gravidanza. L’argomento col quale la

legge fu giustificata fu il diritto alla salute della madre, perché, quando l’aborto era vietato, esso

veniva praticato clandestinamente in modi che rischiavano di essere dannosi per la donna. D’altra

parte, anche il concepito ha il suo diritto alla vita: di qui il limite dei primi 3 mesi, che intende

proteggere ‘la vita nascente’. E un medico cattolico, può essere costretto a praticare un aborto, che

per lui è in ogni caso un omicidio? La legge riconosce ai medici e al personale sanitario l’obiezione

di coscienza.

La funzione delle norme costituzionali di principio

La presenza di norme costituzionali di principio che riconoscono diritti e libertà non ‘risolve’ i

conflitti che intorno ai diritti e alle libertà possono sorgere: conflitti che nascono dalla richiesta che

un diritto sia riconosciuto, o che nascono per effetto del riconoscimento di un diritto, che può allora

ledere un altro interesse costituzionale. Tutto al contrario che dare i problemi per risolti, la

presenza della Costituzione promuove l’idea che i conflitti, i punti di vista diversi, la diversità

di interessi e di valore siano una ricchezza per una società, e una garanzia di libertà, perché è

attraverso di essi che possono via via emergere modi di vita e di pensare nuovi, che posizioni

un tempo minoritarie o condannate possono venire accettate e consolidarsi, che interessi

prima negati o svalorizzati possano trovare espansione.

Le vie attraverso le quali dai conflitti tra interessi e punti di vista diversi si sviluppa il diritto in una

democrazia costituzionale sono molteplici. Una è sicuramente la via del processo, come ambito

della dialettica e dell’interpretazione giuridica. Infatti, come e più delle singole disposizioni che

garantiscono singoli diritti o regolano determinate fattispecie, i principi sono il grande appiglio

delle argomentazioni su cui si può fondare la domanda di giustizia che dà vita a una concreta

controversia. Queste argomentazioni se riescono ad essere persuasive cambiano a poco a poco,

arricchendolo e trasformandolo, il diritto.

Anche la discussione politica può essere un modo di dare accenti nuovi ai principi costituzionali.

Si può per esempio richiamare a un principio fondamentale il gruppo di deputati che presenta un

progetto di legge per introdurre una nuova legge che garantisce certi diritti a certi soggetti… e in

questo caso sarà la legge a trasformare il diritto con contenuti nuovi.

Il testo costituzionale non protegge un elenco ossificato di diritti; non alza uno steccato a difendere

valori determinati, che sappiamo con certezza quali, che sono puntualmente definiti. Al contrario,

la Costituzione, con le sue norme di principio, identifica una serie di valori molto ampi e spesso

indeterminati, così permettendo che contenuti sempre nuovi siano immessi nella nostra

convivenza, e rimettendo all’opinione pubblica, alla discussione politica, al giudizio

giurisprudenziale di accertarli e comporli. La funzione della Costituzione è in altri termini

quella di tenere aperto lo spazio nel quale identificare i valori della nostra convivenza. Così nel

testo vive un discorso che, anziché aspirare a contenere tutti i possibili casi della vita e regolarli

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dall’altro (come ci si aspettava dalle leggi nell’ottocento statalista) è aperto alle evoluzioni e

trasformazioni, poroso ai percorsi della vita sociale e della storia.

L’introduzione della giustizia costituzionale, cioè di una Corte specializzata (la Corte costituzionale,

che non fa parte dell’ordinamento giudiziario) e dotata del potere di annullare le leggi contrarie a

Costituzione, ha significato così il riaprirsi della dialettica tra legge e diritto che nel corso

dell’Ottocento e nella prima metà del Novecento si era spenta ed era stata negata. Si è tornati a

riconoscere, lo anticipavamo all’inizio di questo capitolo, che la legge partecipa all’attuazione del

diritto, non ne è la creatrice solitaria e sovrana, perciò, anche, la giurisdizione, da ‘subordinata’,

ritrova un ruolo di soggetto dialogante con la legge, perché entrambi, legge e giurisdizione, sono

soggetti agli stessi principi, pur attuandoli nei modi diversi che corrispondono alla diversa funzione

e struttura di questi due poteri.

Benché disegnato dalla Costituzione in un modo molto vicino alla ‘burocrazia’ chiamata alla mera

‘applicazione della legge’ di liberale memoria, la giurisdizione ha nel corso dell’epoca repubblicana

riscoperto una dimensione e un ruolo più ricchi, in cui essa è l’ambito di una ricerca del diritto

applicabile al caso, ricerca che, sia nel caso della Corte costituzionale, sia nel caso dei giudici

ordinari, segue modi di ragionare propri, che non sono dettati cioè dalle leggi e nemmeno dalla

Costituzione, in cui svolgono un ruolo centrale antichi principi del diritto, come quello per cui la

legge non deve essere irragionevole, contraddittoria, rispetto al fatto che regola, alla ‘natura della

cosa’, perché in tal modo è arbitrio e non legge (principio di ragionevolezza).

La ragionevolezza

Il principio di ragionevolezza rappresenta un modo caratteristico in cui la Corte costituzionale

conduce il sindacato di costituzionalità sulle leggi, che contiene tutto un approccio alla legge e alla

sua validità, il quale ha profondamente influenzato anche il modo di ragionare dei giudici ordinari.

Come già sappiamo, il principio nasce dall’art. 3 comma 1 della Costituzione, che esprime in questi

termini il principio di eguaglianza formale (uguaglianza davanti alla legge):

“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge. Non è ammessa distinzione

alcuna per motivi di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni personali e sociali”.

Questo testo è stato interpretato nel senso che il principio di eguaglianza formale non vieta al

legislatore di fare distinzioni. Spesso anzi è proprio la Costituzione che impone di farle, per

esempio per tutelare quelle categorie svantaggiate che essa protegge espressamente (es.,

incoraggiare il diritto allo studio dei capaci e meritevoli privi di mezzi con borse di studio ad essi

riservati è una differenza di trattamento non solo ammissibile, ma costituzionalmente opportuna).

Dunque il principio di eguaglianza formale non vieta tutte le distinzioni, ma solo quelle

irragionevoli, che non hanno una ragione d’essere nelle caratteristiche della situazione regolata, o

nelle finalità costituzionali. Il principio di ragionevolezza è dunque la traduzione pratica del

principio di eguaglianza formale, il quale richiede, per venire soddisfatto, non trattamenti di

necessità ‘uguali’ ma appunto ‘ragionevoli’.

Il principio di ragionevolezza non viene utilizzato solo per apprezzare se una differenza di

trattamento è ragionevole o meno, ma anche per apprezzare se il trattamento che a una certa

categoria, a certi soggetti, a certe situazioni è stato riservato dalla legge è congruo, opportuno,

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proporzionato rispetto alle esigenze di quelle categorie, soggetti o situazioni, per come esse sono

configurabili in base alla Costituzione.

Una scelta che appare ragionevole oggi, può non apparire tale domani: la ragionevolezza è un

canone storico, sensibile, cioè, al mutare degli orientamenti di valore, dei modi di pensare, vale a

dire delle mentalità e degli stili di vita, che incidono sul modo in cui un certo tema è percepito, sulle

interpretazioni stesse della Costituzione, e che possono fare sentire discriminatori comportamenti e

atti un tempo considerati normali. Anche scelte che provengono da altri ordinamenti, o dagli

ordinamenti sovranazionali cui il nostro è collegato, cooperano a fare evolvere il senso di ciò che è

ragionevole o non lo è.

Un esempio classico che si può fare per farsi un’idea della storicità del criterio di ragionevolezza è quello

delle due sentenze che, a distanza di pochi anni l’una dall’altra, hanno riguardato il tema dell’adulterio

femminile in Italia. Secondo il codice penale Rocco (1933), l’adulterio femminile costituiva reato; a questo

corrispondeva l’attenuante “per causa di onore” dei delitti compiuti da un uomo nei confronti della moglie

adultera o del di lei amante. Nel 1961 fu sollevata davanti alla Corte costituzionale questione di legittimità

della norma sull’adulterio femminile, che appariva lesiva del principio di eguaglianza, del divieto di

distinzioni per sesso, e del principio secondo cui “il matrimonio è orientato alla eguaglianza morale e

giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare” (art. 29 comma 2). La

Corte però rigettò la questione, sostenendo che non era irragionevole la previsione per cui l’adulterio

femminile è reato, in quanto “l’offesa che l’adulterio femminile porta alla unità familiare è ben più grave di

quella portata dall’adulterio maschile e pertanto non è irragionevole che il legislatore disciplini in modo

diverso le due situazioni, tra loro diverse”. Il presupposto di questo discorso è l’ancestrale principio ‘mater

semper certa pater numquam”: in altri termini, potendo dall’adulterio femminile nascere figli, che avrebbero

assunto, in quanto nati in costanza di matrimonio, lo status di figli legittimi pur non essendolo, solo

l’adulterio femminile, e non quello maschile, porta minaccia all’unità familiare (rischiando di introdurre

nella famiglia legittima figli altrui). Ciò che permetteva alla Corte di seguire un ragionamento siffatto, era

che nella società ancora dominavano orientamenti molto conservatori sul piano delle condotte sessuali,

ancora patriarcali nella concezione della famiglia. Nel 1969, la stessa questione fu riproposta, e questa volta

la Corte dichiarò la norma sull’adulterio femminile illegittima in quanto inequivocabilmente contrastante con

la piena dignità sociale delle donne.

Per spiegarsi un cambiamento di giurisprudenza di questa portata, non si può non pensare a che cosa è

accaduto negli anni che separano le due decisioni: il ’68, il femminismo, una società in evoluzione il cui

cambiamento era segnalato anche dalla cultura, dalla letteratura, dal cinema, dove un film come “Divorzio

all’Italiana” aveva ridicolizzato i comportamenti sessuali arcaici degli italiani. La valutazione su ciò che è

ragionevole e cosa non lo è, ci dimostrano queste sentenze, è fortemente porosa al mutamento delle culture e

dei modi di pensare.

La ragionevolezza ci mette di fronte alla socialità del diritto nel senso che esiste un nesso tra ciò

che la società, mediamente, considera ‘giusto’ e ciò che il diritto permette, favorisce, tutela,

“riconosce”. Stabilire se siamo o non siamo di fronte a una differenza di trattamento ragionevole o

meno, a una scelta legislativa ragionevole o meno, impegna a confrontarci da una parte col piano

costituzionale e normativo, nazionale e sovranazionale, e dall’altra parte con le mentalità, le culture

e i punti di vista che nella società si fanno valere.

Un esempio di giudizio di ragionevolezza: il diritto dei disabili alle ore di sostegno

In una recente sentenza della nostra Costituzionale, emessa nel 2010, è stata affrontata una questione di

legittimità costituzionale avente ad oggetto le ore di sostegno per gli studenti disabili. Le ore di sostegno sono

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previste nel nostro ordinamento da una legge del 1992 come necessarie alla integrazione scolastica del

disabile, a sua volta ritenuta un dovere della Repubblica volto a garantire l’inserimento sociale della persona

disabile, nello spirito dell’art. 3 secondo comma Cost. (la Repubblica rimuove gli ostacoli che impediscono il

pieno sviluppo della persona umana), delle norme costituzionali sul diritto all’educazione delle persone

disabili (art. 38) e, in una, del diritto alla salute (art. 32)

Secondo la legge finanziaria del 2007, le scuole di ogni ordine e grado, nel caso che i docenti di ruolo non

fossero sufficienti per assegnare agli studenti disabili le ore di sostegno necessarie, non avrebbero più potuto,

come la legge sino a quel momento consentiva, assumere supplenti con un contratto temporaneo. Esse

avrebbero dovuto ripartire tra gli studenti disabili le ore disponibili in misura uguale per tutti e potendo solo,

semmai, aumentare le ore di sostegno ricorrendo a quelle che altri insegnanti nella Provincia avessero libere

(per tali intendendosi, nel monte orario settimanale del docente, le ore normalmente utilizzate per supplenze o

ricevimento dei genitori o per lo svolgimento di servizi interni alla scuola). In sostanza, se nella scuola vi

sono due studenti disabili, e 12 ore di sostegno disponibili, si daranno 6 ore per uno, anche se uno è un

disabile grave e l’altro meno. Se nella scuola vi sono due studenti disabili, ma nessun insegnante che può fare

il sostegno, si deve cercare se nella Provincia vi sono insegnanti di sostegno con ore disponibili. Se vi sono 6

inseganti, ciascuno con una ora disponibile, si possono assegnare 3 ore di sostegno a ciascuno, svolte da

docenti diversi. Se non c’è alcuna ora disponibile, nessun sostegno. Se nella provincia vi sono 33 ore

disponibili, e nella scuola vi è un solo disabile, si può anche dare tutta la copertura oraria di 33 ore (orario

scolastico completo) a quello studente disabile, ricorrendo a 33 insegnanti diversi.

Il giudice remittente, che giudicava in un processo sorto dal ricorso dei genitori di un bambino disabile contro

la scuola che gli aveva assegnato un numero di ore di sostegno inferiori a quelle di cui, secondo certificazione

medica, aveva bisogno, osservò che eliminare la possibilità di assumere insegnanti di sostegno a contratto

offendeva il diritto alla salute del disabile, perché nella salute, intesa come benessere psico-fisico della

persona, rientra anche l’inserimento scolastico.

L’avvocatura dello stato, che difende il Governo nei giudizi di costituzionalità, aveva sostenuto che non c’era

invece alcun problema. Anzi, grazie alla possibilità di vedere se vi erano ore disponibili nella provincia, il

diritto del disabile alle ore di sostegno era perfettamente garantito. Ciò sottaceva che: a) col nuovo sistema

non si garantiva più a nessun disabile la piena copertura delle ore di sostegno secondo il suo bisogno; b) che

anche nel caso che si garantisse la piena copertura, avere un insegnante di sostegno per tutto l’anno dedicato a

un singolo studente disabile, o averne 3, 10, o 33 che cambiano ogni ora, non è, ai fini dell’effettivo

inserimento e sviluppo dello studente disabile, certamente la stessa cosa.

L’avvocatura dello Stato disse anche che il diritto all’istruzione del disabile non c’entra niente con la salute,

la scuola non è altro che un pubblico servizio che viene erogato alle condizioni decise dallo Stato.

La Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità della norma denunciata, così argomentando:

primo, i disabili non costituiscono un gruppo omogeneo, ma sono tante persone con tanti bisogni diversi. La

legge, stabilendo che tutti devono avere lo stesso numero di ore di sostegno, è irragionevole, e pertanto

incostituzionale.

Secondo: la nostra costituzione riconosce il diritto alla salute delle persone disabili, e numerose leggi, alcune

adottate in esecuzione di trattati internazionali, dicono chiaramente che la socializzazione scolastica è un

elemento fondamentale per la salute della persona disabile, principio che la stessa Corte costituzionale aveva

già affermato in altre sentenze. La legge nuova contraddice con la Costituzione e con tutte quelle che fino a

questo momento ne hanno inverato e sviluppato i contenuti. Anche per questo è irragionevole, e pertanto è

incostituzionale.

In questa sentenza opera piuttosto chiaramente la relazione tra diritto e legge, propria di una democrazia

costituzionale, dove il diritto rappresenta un modo di ragionare, di porsi rispetto ai problemi (che non deve

essere arbitrario, falso, abusivo, ma ragionevole) e un insieme di precetti e di regole consolidati

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nell’ordinamento e che offrono precise scelte di valore (l’istruzione non è un servizio pubblico di cui lo stato

decide prezzo e quantità, ma un diritto fondamentale, per i disabili e per tutti), che vincolano anche il

legislatore.

Certo, anche la legge che è stata dichiarata incostituzionale portava un suo modo di ragionare: una

concezione calcolante, quantitativa (le ore di sostegno costano tot, e non si può spendere più di tanto) e

aziendalista dei servizi pubblici (non più risorse che la Repubblica offre per lo sviluppo della vita civile, ma

costi che vanno evitati).

E’ una concezione dove, sul bilancio dello Stato, il sostegno ai disabili va nelle uscite; mentre nella

concezione fatta propria dalla Costituzione, il sostegno ai disabili va nelle voci in attivo del bilancio della

Repubblica, cioè della convivenza sociale. Richiamandosi alla Costituzione la Corte costituzionale ha

‘moderato’ l’abuso che il legislatore stava facendo del suo potere esercitandolo come se fosse ‘sciolto’ dai

limiti rappresentati dai principi costituzionali.

Trasformazioni della giurisdizione derivanti dalla presenza della Costituzione e della giustizia

costituzionale

La presenza della Costituzione e delle sue norme di principio, la presenza del giudizio di

costituzionalità ispirato dalla ‘ragionevolezza’ hanno inciso fortemente sul ruolo e le caratteristiche

della magistratura ordinaria in un modo assai più decisivo e importante che non le norme che, in

Costituzione, delineano, della magistratura, l’organizzazione e le funzioni.

Questo, per effetto di almeno tre grandi elementi, che abbiamo visto sin qui e che ora riassumiamo:

1) Il processo di costituzionalità, che può condurre all’annullamento di una legge per

contrarietà a Costituzione, nasce dai comuni processi civili e penali ( e amministrativi e di

altre giurisdizioni). La regola infatti è che quando un giudice, nel corso di un processo,

dubita (di sua iniziativa o su istanza di parte) della costituzionalità di una legge che è

rilevante nel processo perché per risolverlo deve applicarla, e questo dubbio ha un minimo di

consistenza, il giudice non può né applicare né disapplicare la legge ma deve rimettere la

questione alla Corte. Il nostro giudizio di costituzionalità, pur nascendo come ‘accentrato’, è

diventato perciò in sostanza un sindacato diffuso: sono dunque i giudici ordinari i primi

‘sorveglianti’ della corrispondenza della legge a Costituzione, e si comprende che questo

ruolo abbia risvegliato in essi una attenzione critica al modo in cui le leggi sono formulate, ai

fini cui tendono, agli interessi che proteggono, che prima era ad essi vietata;

2) La Corte costituzionale, nella sua giurisprudenza, ha insegnato e raccomandato ai giudici la

cd. interpretazione costituzionalmente conforme: prima di sollevare una questione, i giudici

devono vedere se è possibile interpretare la legge in un modo che la metta in armonia con la

Costituzione; questo significa che la lettera della legge perde importanza al cospetto dei

principi della Costituzione;

3) Nel giudicare le leggi, la Corte costituzionale ha adottato quel modo caratteristico di

ragionare, di impostare i problemi, che si chiama ragionevolezza, e di cui abbiamo visto un

esempio nella sentenza sulle ore di sostegno. L’incostituzionalità della legge spesso discende

dal fatto che essa dispone in modo irragionevole, vale a dire senza tenere in adeguata

considerazione la natura della cosa su cui dispone, o in modo contraddittorio, o

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sproporzionato, incongruo. Il canone della ragionevolezza, utilizzato dalla Corte

costituzionale, si è diffuso anche nei modi di interpretare dei giudici ordinari.

Il costante problema dello squilibrio tra legislazione e giurisdizione nel nostro ordinamento e

le sue ambigue tendenze attuali

La giurisdizione, dunque, nello stato costituzionale, non è più chiamata alla mera ‘esecuzione della

legge’ come nel periodo liberale, perché la presenza della Costituzione e la possibilità di sollevare

questione di costituzionalità nei confronti delle leggi e degli atti aventi forza di legge rende possibile

che il giudice ‘dubiti’ della legge che dovrebbe applicare, alla luce di principi e criteri che vengono

dalla Costituzione.

Questo ha certamente comportato un cambiamento dell’atteggiamento del giudice verso la legge

(della quale egli non si sente passivo esecutore) e ha fatto rivivere nel nostro ordinamento le antiche

concezioni del ‘comando come giudizio’. Tuttavia – lo avvertivamo all’inizio di questo capitolo –

ciò non ha significato che le concezioni volontaristiche, che fanno del diritto un atto di volontà

orientato al governo della società, siano state del tutto accantonate.

Al contrario, un importante fenomeno che si è verificato in Italia, segnatamente intorno agli anni ’70

dello scorso secolo (ma con conseguenze molto durature nel tempo che ne è seguito) è che una

parte della magistratura ha guardato alla Costituzione come a una legge superiore la cui

volontà i giudici erano chiamati ad attuare, non solo sollevando questioni di costituzionalità

ma anche adottando interpretazioni della legge anche in aperto contrasto con la lettera della

legge, in nome dell’esigenza di ‘attuare’ la Costituzione, e precisamente di attuarne quello che ne

sarebbe il ‘chiaro e indiscutibile’ messaggio di maggiore giustizia sociale e di emancipazione delle

classi lavoratrici o di tutela di certi diritti della persona.

In sostanza, lo schema del giudice ‘esecutore della legge’ si è ripetuto in età repubblicana

spostandosi sulla Costituzione: facendosi forza della superiorità della Costituzione una parte della

magistratura la ha usata per contestare leggi che apparivano, e spesso in effetti erano (è a lungo

sopravvissuta nel nostro ordinamento la legislazione fascista) molto lontane dallo spirito della

Costituzione.

Questo fenomeno è stato controproducente nei confronti della espansività dell’idea che la

Costituzione contiene principi, non ‘regole’. Ha finito per confermare l’idea che legislatore e giudice

non rappresentano due mondi opposti e inconciliabili, inevitabilmente destinati a vedere una

arbitraria sostituzione del primo al secondo (cd. ‘giudice legislatore’) se non si assicura una salda

“separazione dei poteri” che, come sappiamo, dalla Rivoluzione francese in poi ha significato

subordinazione della giurisdizione, ridotta un ruolo ‘esecutivo’ e ‘burocratico’. Il fenomeno

dell’”attuazione giudiziaria della Costituzione” è stato anche controproducente nei confronti delle

possibilità che attraverso la presenza della Costituzione si tornassero a radicare nel nostro

ordinamento concezioni che vedono nel diritto un momento di discussione dialettica, ispirata alla

parità delle parti (e delle opposte ragioni) e alla ricerca di una soluzione che sappia dare un assetto

proporzionato ai diversi interessi in gioco. Al contrario, il diritto, anche il diritto posto dalla

Costituzione, è stato sentito un elemento di un gioco delle parti. La Costituzione ha finito per essere

sentita come il baluardo o l’arma di opinioni ‘di sinistra’, che se ne volevano servire per soppiantare

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il diritto vigente sostituendolo con un altro, e la magistratura è stata accusata di politicizzazione e di

eccesso di ‘creatività’, cioè di voler lei creare il diritto, che è appunto il volontarismo. In tal modo, si

sono rafforzate le opinioni che rivendicano al legislatore libertà, assenza di vincoli rispetto a un

diritto costituzionale sentito come ‘di parte’.

Fenomeni non dissimili a quello che ha visto il giudice usare la Costituzione per contestare e

smantellare la legge vigente tendono, peraltro, a riprodursi anche oggi, assumendo come punto di

riferimento la giurisprudenza delle Corti sovranazionali e gli ormai numerosi documenti

sovranazionali in materia di diritti che valgono anche per il nostro ordinamento, come, in particolare

la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Davanti a un ordinamento che è spesso lentissimo nel

dare riconoscimento a nuovi diritti, a leggi che sono ricche di contraddizioni, il giudice qualche

volta ha deciso di disapplicare la legge in nome di sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo

o di principi della Convenzione. Questo è accaduto più di una volta, per esempio, nella travagliata

materia della fecondazione assistita, dove in più di un caso i giudici, privilegiando gli interessi delle

donne alla salute, e dei genitori alla genitorialità informata, hanno ordinato l’esecuzione della

diagnosi pre-impianto nonostante essa fosse vietata dal diritto interno.

Come mai questa situazione si riproduce?

Ripensiamo agli insegnamenti dei giuristi dell’ordina antico. Per loro, il compito del giudice di

ricercare la soluzione congrua e proporzionata, adatta alla natura della cosa, doveva secondo gli

sempre tenendo conto della legge, cioè con un’opera di adattamento che non scavalcasse mai la

legge. Anche gli antichi giuristi medievali che adattavano il diritto romano alle nuove necessità dei

commerci, sempre dal diritto romano partivano, e si sforzavano di dimostrare che i loro sviluppi

erano in coerenza con esso, con le decisioni di altri autorevoli giuristi che li avevano preceduti, con

sentenze emesse in passato. L’idea del ‘comando come giudizio’ non richiede la separazione tra

giurisdizione e giurisdizione né la soggezione della giurisdizione alla legislazione ma

l’equilibrio tra i due poteri: perché le cose funzionino, occorre che entrambi facciano bene il

loro lavoro. Gli abusi della giurisdizione sono, in altri termini, la controfaccia degli abusi della

legislazione. La nostra storia repubblicana lo ha confermato: se il legislatore repubblicano di ieri –

che ha mantenuto in vita per decine di anni la legislazione fascista – fosse stato più pronto

nell’attuare la Costituzione, i giudici sarebbero stati meno spinti a usare la Costituzione come un

riferimento che permette la contestazione della legge; se il legislatore di oggi fosse meno lento e

pigro nello svolgere una politica dei diritti sensibile alle trasformazioni della società contemporanea,

ci sarebbe meno bisogno che i giudici si appellassero alla ‘forza’ delle sentenze della Corte europea

dei diritti dell’uomo per ‘disapplicare’ la legge nazionale. E il problema sembra destinato a crescere:

nell’ordinamento attuale, che come avremo modo di vedere diventa sempre più complesso non solo

per la presenza delle tante fonti di diritto sovranazionale, ma anche per condizioni di oggettivo

‘caos’ che sono impresse alla normazione dal fatto di essere adottata in condizioni di urgenza, il

rischio è che si perda il filo conduttore che dà coerenza all’operare della giurisdizione, filo

conduttore rappresentato da un operare responsabile, ragionevole della legislazione con cui, affinché

l’equilibrio si produca, la giurisdizione deve rimanere in dialogo perché se la sostituisce è lo

squilibrio e la crisi.

Il rischio è allora che la giurisdizione, abituatasi a decidere ‘secondo lo spirito della Costituzione’,

poi ‘secondo lo spirito della Convenzione europea dei diritti dell’uomo’ possa compiere anche il

passo di decidere ‘secondo lo spirito dei tempi’, cioè orientando le proprie decisioni al senso di cosa

è opportuno o utile alla luce delle necessità che l’ordinamento assume, degli scopi che esso

persegue.

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In una cultura giuridica dove gli elementi volontaristici non si sono mai perduti, il rischio quando il

diritto vigente diventa complesso, stratificato, contraddittorio, o anche semplicemente restio ad

affrontare seriamente i problemi per paura di perdere consenso elettorale, oppure mal fatto per

difetto di competenze e di buona volontà in chi redige le leggi, il rischio è molto chiaro: è che la

decisione del giudice esalti le proprie componenti di creazione del diritto, che la sentenza assomigli

al porre norme in funzione della visione degli interessi in gioco che il giudice fa propria e intende

asseverare.

Riprenderemo questo discorso quando parleremo degli effetti della globalizzazione sul ruolo della

giurisdizione, ma ora dobbiamo rilevare che preoccupazioni analoghe a quelle che ora abbiamo

descritto si possono avanzare anche con riguardo alla giustizia costituzionale. Enucleando il canone

della ragionevolezza e facendone il criterio guida di tutta la sua attività interpretativa, la Corte

costituzionale ha sicuramente attinto, come abbiamo detto, alla grande tradizione di ordine antico

che vede nella giurisdizione l’espressione di una forma di razionalità capace di pensare per

problemi, e orientata alla ricerca di soluzioni equitative che moderano i possibili abusi del

legislatore. Tuttavia, la ragionevolezza è stata anche il metodo che ha permesso alla Corte di evitare

la dichiarazione di incostituzionalità di molte leggi con ragionamenti in cui il perno non è tanto la

Costituzione quanto l’ordinamento per come è, che essa ha così giustificato e preservato, senza

sforzo di armonizzazione coi principi costituzionali. Nel 2010, dichiarando infondata la questione di

legittimità costituzionale relativa alla impossibilità, nel nostro ordinamento, delle coppie

omossessuali di contrarre matrimonio, la Corte ha sostenuto che nel nostro sistema il matrimonio è

solo l’unione di persone di due sessi diversi perché… perché così dice il codice civile. Il quale però

è una legge ordinaria, soggetta al giudizio della Corte.

In un decreto legge del 2011 si è stabilito che “l’attività economica privata è libera ed è permesso

tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge”, è una riformulazione dell’art. 41 della

Costituzione e cioè una revisione ‘occulta’ (in palese violazione del procedimento di revisione

costituzionale) della Costituzione, che, all’art. 41 dice che “L’attività economica privata è libera e

non può svolgersi in contrasto con la libertà, la dignità e la sicurezza umana”. La Corte

costituzionale ha dichiarato incostituzionale la disposizione di quel decreto legge (convertito poi in

legge?). No, al contrario, decidendo un giudizio in via d’azione tra stato e regioni, in cui le regioni si

lamentavano di una legge statale che limitava i loro poteri in materia di orari di apertura e chiusura

degli esercizi commerciali, si è avvalsa di quella disposizione per giudicare infondate le doglianze

delle regioni, cioè ha usato quella disposizione (di decreto legge) esattamente per quello che essa

vuole essere ma non può (secondo la Costituzione) essere, cioè una norma di revisione

costituzionale.

Nella sentenza n. 65 del 2013 si legge:

“Occorre precisare che è stata la stessa legge statale che ha previsto, con l’art. 3 del decreto-legge 13 agosto

2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con

modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, il termine del 30 settembre 2012 per l’adeguamento da

parte di Comuni, Province, Regioni e Stato, dei rispettivi ordinamenti, al principio secondo cui l’iniziativa e

l’attività economica privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla

legge. Successivamente, l’art. 1 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 (Disposizioni urgenti per la

concorrenza, lo sviluppo delle infrastrutture e la competitività), convertito, con modificazioni, dalla legge 24

marzo 2012, n. 27, nell’introdurre norme di liberalizzazione delle attività economiche e di riduzione degli

oneri amministrativi per le imprese, ha disposto che: «I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le

Regioni si adeguano ai principi e alle regole di cui ai commi1, 2 e 3 entro il 31 dicembre 2012, fermi restando

i poteri sostitutivi dello Stato ai sensi dell’articolo 120 della Costituzione».

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Una norma contenuta in un decreto legge, il cui disposto modifica la Costituzione, e una norma che

addirittura contraddice il principio generale del diritto del neminem leadere, che come abbiamo

detto è al fondo dell’art. 41 Cost., diventa in questa decisione un principio di grado costituzionale in

forza del quale giudicare la legittimità delle leggi, la legittimità delle pretese dello Stato e della

Regione in ordine alla estensione e al contenuto delle loro competenze. Questo, come molta dottrina

ha notato, è indubbiamente inquietante. Infatti sfortunatamente alla memoria dei giuristi compaiono

subito ricordi che rappresentano avvertimenti molto severi circa gli esiti cui può condurre lo

scambio tra principi posti dal Governo (pur ‘convertito’ in legge ordinaria il decreto legge è un atto

del Governo specialmente da quando, come vedremo a suo tempo, la prassi va nel senso di garantire

che la legge di conversione non lo modifichi ma si limiti a ‘ratificarlo’ per come il Governo lo ha

voluto), e principi costituzionali, che sono poi principi generali del diritto.

Vengono alla mente, si vuol dire, le rappresentazioni che sono state fatte del modo in cui le dittature

novecentesche si sono instaurate, dissolvendo lo stato di diritto, che richiede al potere il rispetto di

regole, però non di qualunque regola dettata al momento o secondo le contingenze, sibbene di regole

e principi caratterizzati, pur nella naturale evolutività e storicità del diritto, da componenti di

costanza e permanenza. Tra questi principi senz’altro rientrano quelli relativi a chi può porre il

diritto che costituisce ‘Costituzione’ e parametro di legittimità delle leggi. Nel suo “Il doppio stato.

Contributo alla teoria della dittatura” (1974, trad.it. Torino 1983) lo studioso tedesco Ernst Fraenkel

dedica un capitolo alla “Dissoluzione dello Stato di diritto riflessa nell’amministrazione della

giustizia” e cita, tra gli altri, questo episodio, successivo alla interdizione dei testimoni di Jehovah

con decreto 28 febbraio 1933 (insieme agli ebrei, testimoni di Jeovah e altre minoranze religiose e

etniche, come i rom, insieme alle persone omosessuali, furono gli obiettivi dello sterminio nazista):

“Contro l’interdizione, i testimoni di Jehovah si appellarono all’art. 137 della Costituzione di Weimar, che

“garantisce la libertà di aderire ad associazioni religiose” stabilendo inoltre che “la formazione di

associazioni religiose all’interno del territorio del Reich non è sottoposta ad alcuna limitazione”. Queste

norme integrano l’art. 135 della Costituzione di Weimar, il quale stabilisce che “tutti gli abitanti del Reich

godono di piena libertà di fede e di coscienza” e che l’indisturbata libertà di religione è garantita dalla

Costituzione e sta sotto la protezione statale. Una Corte accolse l’obiezione dei Testimoni di Jehovah, ma la

sua sentenza rimase isolata. Altri tribunali riconobbero nella disposizione di polizia che ordinava lo

scioglimento dell’associazione un emendamento costituzionale con il quale veniva liquidato il diritto

fondamentale della libertà di religione. Infatti, secondo questa Corte, il governo ‘può effettuare innovazioni

costituzionali mediante ordinanze amministrative e provvedimenti di ogni genere”. Secondo un’altra Corte, ,

la protezione costituzionale della libertà di religione non contrasta con l’interdizione di una associazione

religiosa qualora questa risulti inconciliabile con l’ordinamento del sistema statale”.”

Altri elementi problematici nel quadro attuale riguardano le applicazioni concrete che la Corte fa

del principio di ragionevolezza. La ragionevolezza, come sappiamo, fa funzionare il meccanismo

dell’analogia, non si possono trattare in modo diverso situazioni che sono eguali, ma nel valutare

che cosa è eguale e che cosa è diverso la Corte sembra sempre più spesso farsi guidare da criteri che

non appaiono deducibili dalla Costituzione, sebbene, per esempio, da grandi trasformazioni

ordinamentali, certo di portata costituzionale, però non formalizzate, che la Corte stessa fa diventare

parte del nostro diritto, fa diventare diritto vigente, anzi diritto costituzionale, quasi che la sua

giurisprudenza stesse al posto del procedimento di revisione costituzionale. Nella sentenza n. 7 del

2014, per esempio, la questione era: come mai non si applicano anche ai dipendenti della Banca

d’Italia quelle disposizioni della spending review che comportano una diminuzione delle retribuzioni

che superano una certa soglia di alti funzionari, che si applicano in tutte le altre branche

dell’amministrazione, ma si adotta invece un diverso meccanismo, che si limita a prevedere che la

Banca attuerà nella sua autonomia le misure che ritiene possibili?

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Istituzioni di diritto pubblico AO a.a. 2014-2015 Prof.ssa Silvia Niccolai II Modulo

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La Corte ha stabilito che la soluzione legislativa è legittima, anzi doverosa, perché:

“La Banca d’Italia è parte integrante del Sistema europeo di banche centrali (SEBC). L’art. 130 del

Trattato sul funzionamento dell’Unione prevede che: «Nell’esercizio dei poteri e nell’assolvimento dei

compiti e dei doveri loro attribuiti dai trattati e dallo statuto del SEBC e della BCE, né la Banca centrale

europea né una banca centrale nazionale né un membro dei rispettivi organi decisionali possono sollecitare

o accettare istruzioni dalle istituzioni, dagli organi o dagli organismi dell’Unione, dai governi degli Stati

membri né da qualsiasi altro organismo. Le istituzioni, gli organi e gli organismi dell’Unione nonché i

governi degli Stati membri si impegnano a rispettare questo principio e a non cercare di influenzare i

membri degli organi decisionali della Banca centrale europea o delle banche centrali nazionali

nell’assolvimento dei loro compiti», principio ribadito ed esplicitato anche dall’art. 7 dello statuto del SEBC

e della BCE”.

In sostanza, le norme sulla ‘spending review’ sarebbero un modo di ‘influenzare’ l’indipendenza

della Banca centrale, valore fondamentale della integrazione comunitaria, per la quale le Banche

centrali devono governare la moneta, il costo del denaro, l’acquisto o la vendita di titoli pubblici

nell’interesse della stabilità della moneta e non in quello dei governi (a, per esempio, aumentare un

poco il debito pubblico per finanziare la spesa per investimenti o diritti sociali). Se la Banca fosse o

apparisse sottoposta a una legge dello stato metterebbe in rischio la sua ‘reputation’ di istituzione

indipendente, che le serve invece per essere credibile davanti agli altri attori del mondo finanziario,

e quel ‘valore’ invece, dice la Corte, deve assolutamente essere salvato. Così la Banca centrale si

vede riconoscere un regime diverso da quello che vale per le altre istituzioni (e per i loro funzionari

e dipendenti).

La ‘ragionevolezza, in casi come questo, serve a far emergere nuovi valori ‘costituzionali’ che

sono stati il frutto, al massimo, di processi decisionali ‘dall’alto’, frutto cioè delle cooperazione

tra i governi che genera e orienta il processo di integrazione comunitaria, e, purtroppo, tende a

ricordare immagini poco confortevoli, quella cioè di un mondo sociale diviso in ‘ceti’ che sono

portatori di uno ‘status’ diverso ma che è al tempo stesso, ben diversamente dall’ “ordine antico”,

regolato da autorità globali alla cui ‘legge’ nessuno può sottrarsi, “legge” che crea status

differenziati in vista della protezione degli scopi privilegiati dalle istituzioni governanti .

In conclusione, l’introduzione della Costituzione ha arricchito la giurisdizione italiana sollecitandola

a riallacciare il legame con concezioni più ricche di quella che la vuole soggetta alla legge,

concezioni che guardano al ruolo equitativo della giurisdizione che corregge il rigore della legge con

un atteggiamento che tiene conto dei diversi interessi, che li bilancia e li riconosce tenendo conto di

come la Costituzione li qualifica. E’ un modello difficile e ambizioso, che richiede tra legislazione e

giurisdizione un equilibrio, il quale riposa sul rigoroso adempimento da parte dei due poteri dei

doveri inerenti il suo ruolo.

Nella perenne situazione di squilibrio tra legislazione e giurisdizione che viceversa ha caratterizzato

il nostro ordinamento, si è dimostrato molto duraturo, forte e persistente, però, anche un

atteggiamento che, scambiando il diritto con un atto di volontà, ha finito per attribuire alla

giurisdizione un ruolo ‘creativo’ che può portarla a riconoscere nuovi principi e valori, e a

sottovalutarne altri, in base a considerazioni ‘politiche’ che risentono di un indeterminato e

incontrollabile ‘spirito dei tempi’.