II.5. Lo stato liberale in Italia e il...

49
Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai 123 II.5. Lo stato liberale in Italia e il Fascismo Il secolo che intercorre tra il Congresso di Vienna, che nel 1815 restaurò sui loro troni le monarchie spodestate dal vento napoleonico ( e tornò a restaurarvele dopo il 1848), e la prima guerra mondiale, è ricordato come il secolo ‘borghese’, quello in cui la classe produttiva, imprenditoriale, acquisisce centralità nella direzione della vita pubblica. Per il diritto pubblico, si tratta di un periodo nodale, nel quale si forma una intera ‘dogmatica’, cioè un insieme di concetti, di definizioni, di categorie, ancora oggi in uso, diventate distintive del diritto pubblico e del diritto amministrativo. Queste due discipline giuridiche in quest’epoca conoscono il massimo sviluppo, in parallelo al loro oggetto, che è appunto lo stato. Ormai del tutto consolidato rispetto all’ordine antico, lo stato ottocentesco è infatti uno snodo per quanto riguarda la classificazione delle forme di governo, la definizione delle forme di organizzazione e di azione della pubblica amministrazione, la articolazione della giurisdizione (è il secolo in cui nasce la ‘giustizia nell’amministrazione’), l’organizzazione amministrativa del territorio, il rapporto tra sfera pubblica e sfera privata, tra stato ed economia, e tra questi e la società. L’enormità di apporti che l’esperienza liberale dà alla formazione delle categorie del diritto pubblico è segnalato dalla pluralità di definizioni con cui i giuristi descrivono lo stato in questo periodo, e che ne mettono in luce altrettante componenti: - stato rappresentativo, - stato ‘liberale’ - stato a diritto amministrativo, - stato di diritto. Nel corso di questo capitolo ci accosteremo all’esperienza liberale cercando di precisare il senso di queste definizioni, misurando anche le molte contraddizioni che il modello ha conosciuto, particolarmente nella versione accentuatamente conservatrice che ha assunto nel nostro paese e al cospetto degli innumerevoli problemi, primo tra tutti quello della costruzione della unità nazionale, con cui l’esperienza liberale si è svolta da noi. A. La dottrina liberale dello Stato “Meno società nello stato”: i principi del governo rappresentativo La dottrina liberale dello Stato nasce come riflessione intorno a quelli che vennero individuati come gli errori del periodo rivoluzionario. Questi errori erano principalmente due: primo errore: l’avere scalzato le istituzioni tradizionali (la monarchia), ciò che aveva accusato di aver solo a una terribile instabilità (v. il continuo cambiamento delle forme di governo in Francia durante la rivoluzione, e il quarto di secolo di sconvolgimento portato in Europa dalle guerre napoleoniche), instabilità che era stata sia politica, cioè

Transcript of II.5. Lo stato liberale in Italia e il...

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

123

II.5. Lo stato liberale in Italia e il Fascismo

Il secolo che intercorre tra il Congresso di Vienna, che nel 1815 restaurò sui loro troni le monarchie

spodestate dal vento napoleonico ( e tornò a restaurarvele dopo il 1848), e la prima guerra mondiale, è

ricordato come il secolo ‘borghese’, quello in cui la classe produttiva, imprenditoriale, acquisisce

centralità nella direzione della vita pubblica. Per il diritto pubblico, si tratta di un periodo nodale, nel

quale si forma una intera ‘dogmatica’, cioè un insieme di concetti, di definizioni, di categorie, ancora oggi

in uso, diventate distintive del diritto pubblico e del diritto amministrativo. Queste due discipline

giuridiche in quest’epoca conoscono il massimo sviluppo, in parallelo al loro oggetto, che è appunto lo

stato.

Ormai del tutto consolidato rispetto all’ordine antico, lo stato ottocentesco è infatti uno snodo per quanto

riguarda la classificazione delle forme di governo, la definizione delle forme di organizzazione e di azione

della pubblica amministrazione, la articolazione della giurisdizione (è il secolo in cui nasce la ‘giustizia

nell’amministrazione’), l’organizzazione amministrativa del territorio, il rapporto tra sfera pubblica e sfera

privata, tra stato ed economia, e tra questi e la società.

L’enormità di apporti che l’esperienza liberale dà alla formazione delle categorie del diritto pubblico è

segnalato dalla pluralità di definizioni con cui i giuristi descrivono lo stato in questo periodo, e che ne

mettono in luce altrettante componenti:

- stato rappresentativo,

- stato ‘liberale’

- stato a diritto amministrativo,

- stato di diritto.

Nel corso di questo capitolo ci accosteremo all’esperienza liberale cercando di precisare il senso di queste

definizioni, misurando anche le molte contraddizioni che il modello ha conosciuto, particolarmente nella

versione accentuatamente conservatrice che ha assunto nel nostro paese e al cospetto degli innumerevoli

problemi, primo tra tutti quello della costruzione della unità nazionale, con cui l’esperienza liberale si è

svolta da noi.

A. La dottrina liberale dello Stato

“Meno società nello stato”: i principi del governo rappresentativo

La dottrina liberale dello Stato nasce come riflessione intorno a quelli che vennero individuati come gli

errori del periodo rivoluzionario. Questi errori erano principalmente due: primo errore: l’avere scalzato le

istituzioni tradizionali (la monarchia), ciò che aveva accusato di aver solo a una terribile instabilità (v. il

continuo cambiamento delle forme di governo in Francia durante la rivoluzione, e il quarto di secolo di

sconvolgimento portato in Europa dalle guerre napoleoniche), instabilità che era stata sia politica, cioè

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

124

delle istituzioni, sia sociale, essendo state le società investite da profonde trasformazioni generatrici di

agitazioni, rivolgimenti, crisi e contestazioni; ed essendo esse state rese perciò anche insicure. Secondo

errore: l’avere prospettato l’idea che la sovranità appartiene al popolo, il che aveva generato divisione (e

dunque, di nuovo, instabilità), perché il popolo si divide in fazioni che non sono in grado di trovare

quell’accordo, quell’armonia, che rende possibile l’azione ordinata delle istituzioni.

In reazione a questi errori, o considerati tali, la dottrina liberale dello stato punta a restituire alle istituzioni

il loro fondamento tradizionale onde realizzarne la autonomia dalla società, in modo che esse possano

procedere nella loro azione senza interferenze e condizionamenti. Meno società nello stato è dunque il

primo slogan del pensiero liberale, che sorregge la teoria del governo rappresentativo e giustifica la forma

di governo monarchico costituzionale.

La teoria del governo rappresentativo

Per realizzare e preservare la autonomia delle istituzioni dalla società il pensiero politico liberale sviluppa

la teoria del governo rappresentativo. Il cuore di questa teoria risiede nella affermazione che le istituzioni

rappresentano la Nazione, nel senso che ne sono l’espressione, sono il risultato della sua storia, e ne

curano gli interessi; ma non nel senso che le istituzioni derivano la loro ragion d’essere e legittimazione

dall’essere scelte e orientate dalla nazione stessa. La teoria dello stato rappresentativo traduce in principi

di organizzazione politica le preoccupazioni liberali per la stabilità delle istituzioni e per la ricerca della

armonia. Come spiegava nel 1894 ai suoi studenti il maggiore giuspubblicista italiano dell’epoca:

“Il governo rappresentativo moderno si propone di curare e attuare l’armonia esterna e costante fra i

due elementi essenziali, cioè la coscienza popolare e la tradizione, per mezzo di istituti determinati.

La coscienza popolare è la coscienza collettiva del popolo, un sentimento uniforme che nasce

dall’indole giuridica, dai precedenti storici, dalle attuali influenze dell’ambiente in cui un popolo

versa.

Le istituzioni politiche sono la risultanza di un processo di adattamento storico, ed hanno per sé

quella forza indiscutibile della tradizione, su cui praticamente si forma l’obbedienza politica delle

moltitudini”1.

Nella visione liberale, dunque, “le istituzioni sono frutto della storia e della esperienza di una certa

nazione, non sono illimitatamente modificabili, hanno quei caratteri, e non altri, perché così, e non in altro

modo, sono state strutturate dalla storia della nazione, dal succedersi delle generazioni2”.

La forma di governo tipica della concezione liberale dello stato rappresentativo: la monarchia

costituzionale (o limitata, o pura)

La forma di governo che corrisponde ai principi liberali .dello stato rappresentativo è la monarchia

costituzionale pura, o monarchia costituzionale. Qui al monarca (principio tradizionale) viene affiancato

un parlamento, composto di solito da due camere, delle quali una elettiva e che partecipa col sovrano

1 V.E. Orlando, Principi di diritto costituzionale, Barbera Editore, Firenze, 1894, p. 50 ss.

2 M. Fioravanti, Appunti di storia delle costituzioni moderne, Giappichelli, Torino, p. 109.

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

125

all’esercizio della funzione legislativa. La funzione della elezione della Camera è quella di associare al

sovrano nella cura degli interessi dello stato quella porzione della popolazione in grado di capire quali

sono gli autentici interessi della nazione: vale a dire gli strati elevati.

La monarchia costituzionale pura: uno schema dualista a presidio delle prerogative del Monarca- potere

esecutivo

Va notato che la forma di governo costituzionale pura è dualista perché il Governo (Monarca e potere

esecutivo) non dipende dal Parlamento. Il Sovrano, Capo dello Stato, ha una legittimazione indipendente

da quella, parzialmente elettorale, del Parlamento. Essa intende esprimere una, per quanto modesta,

“limitazione” dei poteri (prima “assoluti”) del sovrano, ma non concede alcuna influenza al Parlamento

sul Governo (che fa capo al Re).

Nella teoria delle forme di governo gli aggettivi monista e dualista si riferiscono alla fonte della

legittimazione degli organi di indirizzo politico, che è la prima condizione che influisce sui possibili

rapporti tra questi organi. La legittimazione di un potere è la fonte di esso, la sua ragione, l’insieme di

motivi che lo giustificano. Quando in una forma di governo c’è un solo organo che ha la legittimazione

più forte (sia essa quella dinastica tradizionale o quella democratica di derivare dal popolo) la forma di

governo è detta monista e la conseguenza è che quest’organo ha poteri condizionanti sulla esistenza e

permanenza in carica e sull’esercizio dei poteri degli altri. Come vedremo, nella forma di governo

parlamentare solo il parlamento è eletto direttamente dal popolo, è l’organo che ha la legittimazione più

forte ed è l’organo che condiziona, con la propria ‘fiducia’ la permanenza in carica del governo. Perciò la

forma di governo parlamentare rientra tra le forme di governo ‘moniste’. Quando invece in una forma di

governo ci sono organi, di solito due, che hanno una fonte di legittimazione pari e diversa, la forma di

governo è dualista e ciò significa che nessuno dei due organi titolari di legittimazione può condizionare

l’esistenza in carica e il modo di esercizio dei poteri dell’altro (esempio nella forma americana

“presidenziale” sia il presidente che il congresso, e cioè sia il capo dell’esecutivo sia il vertice del

legislativo sono eletti dal popolo, hanno la stessa legittimazione sono pari e nessuno dei due può influire

in modo ultimativo sulla esistenza, durata in carica e scelte dell’altro). Le forme di governo dualiste sono

tutte associate all’esigenza di garantire preminenza al potere esecutivo e a al suo organo di vertice

(Monarca, Capo dello Stato) rispetto a quello legislativo. Ciò è particolarmente vero quando la parità tra

esecutivo e legislativo non ricorre nemmeno del tutto, come accadeva nello statuto albertino, dove il re, se

non altro perché compartecipe della funzione legislativa, aveva una posizione particolarmente importante

e condizionante.

La funzione delle elezioni nello stato rappresentativo: associare la ‘pars melior’ della società alla cura

dello stato

Nella forma di governo costituzionale pura la presenza di una Camera elettiva sta a significare che le

istituzioni sono l’espressione della nazione, ma il modo in cui la Camera elettiva è formata ribadisce

anche che la nazione, il popolo, non viene guardato come una pluralità di soggetti che hanno visioni

diverse, e che hanno il ruolo di guidare l’azione delle istituzioni. Il governo rappresentativo si è

generalmente legato a sistemi elettorali non universali (e che infatti vengono detti ‘rappresentativi’), in

cui il diritto politico di voto veniva limitato ai ceti abbienti, colti, cioè alle persone, come si diceva

all’epoca, in grado di rendersi conto dei problemi, di esprimere un voto “consapevole”, o almeno a coloro

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

126

che, pur non benestanti, ma pur sempre percettori di un certo reddito, sapessero leggere e scrivere, o

avessero conseguito almeno l’istruzione elementare.

“La possibilità di dare rappresentanza a una classe sociale è sempre subordinata alla idoneità delle

attitudini politiche di essa (…). Dare la rappresentanza a una classe che non abbia la maturità

politica necessaria non gioverà ad essa, poiché non saprà servirsene, e nocerà alla vita pubblica3”

La svalutazione delle libertà politiche

Il pensiero liberale toglie infatti dal “catalogo dei diritti primari il diritto degli individui di decidere,

insieme con altri, sui caratteri fondamentali delle istituzioni” e sul contenuto della loro azione4. Se lo stato

fosse in mano al popolo, se cioè le istituzioni fossero mosse da rappresentanti delle diverse fazioni e

interessi in cui questo si articola, non si potrebbe curare il bene comune, dicevano i pensatori liberali, non

si potrebbe agire nell’interesse generale, e sarebbe la fine dell’unità statale e della convivenza pacifica.

Così, secondo i suoi sostenitori, il governo rappresentativo, che legava le istituzioni al popolo senza farle

dipendere dai mutevoli indirizzi di esso, cercava di garantire l’ideale del governo per il popolo, ma

intendeva il popolo non come massa numerica di individui, destinata a esprimere ondivaghe maggioranze,

ma come un insieme di elementi, stabilmente inseriti nella società con compiti e ruoli diversi, che

dovevano essere rappresentati non tutti allo stesso modo, ma ciascuno secondo il suo valore e secondo la

funzione che svolge in seno allo stato5.

“Meno stato nella società”: lo stato liberale come stato di diritto amministrativo e ‘non interventista’ sui

rapporti economico sociali

L’altro slogan del periodo liberale è “meno stato nella società”. Come sappiamo, rivoluzione e periodo

napoleonico avevano dato un grande sviluppo all’amministrazione, che era stata la realizzatrice del

disegno assolutista di svuotamento delle autonomie locali, e di ceto. Il pensiero liberale si accorge che la

rivoluzione non aveva affatto distrutto, rispetto allo stato assoluto, ma aveva anzi accresciuto, ‘l’azione

capillare e disciplinante di un potere amministrativo esteso’6. Molto pensiero liberale era preoccupato di

questo, vedendovi il rischio di uno stato dispotico che schiaccia la sfera privata, che indirizza e condiziona

le scelte individuali, che si ingerisce nell’economia. Una delle preoccupazioni tipiche dello stato liberale è

controllare l’azione dell’amministrazione e ridurne le dimensioni e le competenze. Nascono da qui le

insistenze verso l’introduzione di un controllo di tipo giudiziario sull’azione amministrativa; verso la

predeterminazione per legge delle competenze e tipi di atti dell’amministrazione, che sono i due contenuti

propri dello ‘stato di diritto’. Il quale peraltro, come vedremo, non riuscirà mai, nell’Europa continentale,

ad assimilare l’amministrazione a un soggetto privato, e si accontenterà di assicurarle un regime di

controlli giurisdizionali e un diritto speciale (la giustizia amministrativa, il diritto amministrativo),

fortemente derogatorio rispetto al diritto civile.

3 V.E. Orlando, Principi, cit., p. 75-76.

4 M. Fioravanti, Appunti, cit., p. 109

5 V. Miceli, Diritto costituzionale, 2 ed., Società editrice libraria, Milano, 1913, p. 110.

6 M. Fioravanti, Appunti, cit., p. 102.

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

127

Così, la formula meno stato nella società assumerà, nei fatti, spesso, e in modo estremamente accentuato

in Italia, anziché il significato di “meno spazio e potere all’amministrazione”, quello di “minore o nessun

intervento dello stato nei rapporti economici e sociali” onde correggere gli squilibri e le differenze sociali

generate dai rapporti economici; lasciare liberamente dispiegarsi le libertà economiche, a danno della

ricerca di una maggiore giustizia sociale.

Le libertà negative

Le concezioni liberali svalutano dunque, oltre alle libertà di partecipazione politica anche tutte quelle

forme di diritti e libertà che, per essere soddisfatti, richiedono azione pubblica (traducendosi in richieste di

servizi come l’istruzione o la sanità, o in richieste di norme sull’orario e l’organizzazione del lavoro). Esse

privilegiano invece tutte quelle libertà per il cui esercizio il singolo non ha bisogno dell’azione pubblica, e

per esercitare le quali esso ha anzi bisogno che lo stato si astenga dall’intervenire (la proprietà privata, la

libertà personale e di domicilio). Si tratta delle libertà civili individuali, che, appunto perché non

richiedono intervento pubblico ma anzi un non-intervento, sono dette anche libertà negative.

La separazione dei poteri

Caratteristica della concezione liberale è d’altronde la separazione dei poteri in particolare la separazione

(indipendenza) della magistratura dal potere esecutivo. Nelle concezioni liberali, “la funzione

giurisdizionale è concepita come garanzia della giustizia nell’applicazione del diritto nei confronti di

qualunque soggetto e di qualunque azione, sia privata che pubblica, e se pubblica in special modo, visto

che è proprio l’elemento statale, pubblico, che viene configurato e riflettuto nell’esperienza liberale,

mentre che la giustizia operasse tra privati era già acquisito nel periodo assolutista7. (Allegretti, p. 486).

B. Lo stato liberale in Italia

Con un giudizio sintetico ma eloquente, Umberto Allegretti sintetizza il bilancio complessivo

dell’esperienza liberale in Italia come quello della prevalenza dell’autorità sulla libertà e dunque sulle

garanzie. E’ un tratto che, come vedremo, ricorre sia a livello delle concezioni e del funzionamento della

forma di governo, che nella organizzazione e azione amministrativa, che nel funzionamento della

giustizia, nell’atteggiamento nei confronti dei diritti, dell’economia e del lavoro. Esamineremo queste

componenti una per una qui di seguito.

La forma di governo dell’Italia liberale

La particolare piegatura, accentuatamente conservatrice, della teoria del governo rappresentativo in

Italia

7 U. Allegretti, Profilo di storia costituzionale italiana, Individualismo e assolutismo nello stato liberale, Il Mulino, Bologna, 1989, p. 486-

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

128

Nella giuspubblicistica ottocentesca italiana la teoria del governo rappresentativo ebbe importanti

declinazioni aggiuntive8 rispetto a quelle che quella teoria rivestiva nel resto d’Europa. Da noi, la teoria

del governo rappresentativo valse a contrastare, durante il Risorgimento, le tesi che immaginavano per

l’Italia indipendente una forma repubblicana e/o federale9, e diventò così la formula di governo

naturalmente abbinata alla politica di unificazione sotto il Piemonte Sabaudo10

e quella che sembrava

imposta dalla necessità di ‘adeguare’ l’Italia all’Europa11

. Lo Statuto albertino, infatti, adottava la

monarchia costituzionale pura, la forma di governo corrispondente alle teorie del governo rappresentativo.

8 Tra i suoi sostenitori va annoverato il Conte Cesare Balbo, intellettuale e uomo politico piemontese, che alla esaltazione di questa

concezione dello stato, e della relativa forma di governo, la monarchia costituzionale, che erano i fondamenti dello Statuto albertino, le sole

forme politico-istituzionali adatte a suo giudizio all’Italia, dedicò la sua opera Della monarchia rappresentativa in Italia, pubblicata

postuma nel 1857-1860. L’introduzione dei principi del governo rappresentativo nell’Europa della Restaurazione gli appare essere stata

accompagnata da “un’ebbrezza, una beatitudine, un’aspettazione quasi d’una età dell’oro novella, che aveva invaso tutti i popoli, tutte le

condizioni d’uomini, e soprattutto gli scrittori” (p. 113), turbata, ma poi ripristinata, dalla rivoluzione francese del 1848: “L’anno 1848 fu

fatale [ai progressi della libertà ordinata] per colpa dei popoli. La colpa, la spinta a rivoluzione, venne anche questa volta di Francia, da

quel popolo il quale, dopo aver preteso al primato di potenza un mezzo secolo fa, pretende ora il primato di libertà, e non lo sa vedere che

nella libertà quanto più avanzata possibile, ed oltrepassando poi il possibile cade in licenza, e ha di questa sola allora il primato (…) perché

è destino di quella lingua più facile, più scritta, più letta che tutte l’altre, di avere più efficacia, più fecondità di bene e di male, che non le

altre nazioni e le altre lingue compagne. Al principio del 1848 la Francia aveva la monarchia rappresentativa più bene ordinata, più

liberale, e si può dire anche la più democratica dell’Europa continentale; non v’era motivo di rivoluzioni, non di mutazioni costituzionali;

potevasi tutt’al più desiderare un miglior ordinamento amministrativo e un ministero nuovo, più intelligente delle condizioni d’Europa;

niuno poi, salvo alcuni scrittori ed alcuni settari vi desiderava una repubblica. Ebbene! In tre giorni, una disputa parlamentare che si mutò

in moto di piazza, e questo moto di settari che si mutò in moto popolare, diventò rivoluzione universale, parigina, francese, europea. Erano

gli ultimi giorni di febbraio: e prima che finisse marzo, al rimbombo di quella rivoluzione francese, si era sollevata Prussia per conquistare

più pronte e più vere libertà, i vari Stati di Germania per conquistare più unità nazionale, Austria, la rocca dell’assolutismo, per conquistare

finalmente una libertà qualunque; e l’Italia, la più virtuosa allora nei suoi desideri, per la sua indipendenza. Non sono corsi diciotto mesi da

allora in poi, e i desideri scomposti di libertà indeterminate ed eccessive sono bene o male repressi in Prussia, negli Stati Germanici, in

Austria e in Italia; ingannati i desideri indeterminati e eccessivi di unità nazionale, ed ingannato pur troppo il desiderio giusto e non

perituro dell’indipendenza italiana. Ma che resta in ultimo di tali e tante mutazioni e rivoluzioni e controrivoluzioni buone o cattive? Una

grande e vera monarchia rappresentativa nuovamente stabilita in Prussia, una nuova e grande in Austria, non so se una, o due, o tre o

anche quattro in Italia. Fra tante buone o ree speranze ingannate, una sembra non ingannarsi mai: quella del progresso delle istituzioni

rappresentative.” (p. 113-115).

9 “Il sogno delle repubbliche, che accrebbe e accrescerà sempre i moti, le sollevazioni, le rivoluzioni, le piccole e somme illegalità (…) “ è per

Balbo eredità del municipalismo, foriero di divisioni territoriali, di disunioni. “Vero è che i sognatori di repubbliche ci trovano un gran

rimedio. Non negano che l’idea delle repubbliche, quando si ponesse in pratica, abbia a trar seco il pericolo di qualche divisione o

suddivisione territoriale, anche maggiore della presente. Che anzi io crederei che si adattino volentieri sin d’ora a siffatta eventualità; ed ho

ragione di credere ch’ei non ripugnino nemmeno ai municipalismi. Ma a queste divisioni presenti o future, quali che sieno per essere, ci

trovano poi un rimedio, una panacea universale, od anzi due: le costituenti nazionali, e le confederazioni. (…) Superba Italia! Impazzita

all’idea di far da sé, piglia sempre tutto dagli stranieri; ma da parecchi secoli non aveva pigliato dalla Germania se non principi e nessuna

istituzione, quando l’anno scorso si mise a pigliare questa stoltezza dell’unità per mezzo di una confederazione nuova di Stati vecchi” (C.

Balbo, op. cit., p. 211). Da legittimista qual era, e scrivendo intorno al 1850, Balbo, certamente per motivi di opportunità politica, ammetteva

però a parole l’idea dell’Italia unita come federazione di monarchie rappresentative, purché indipendenti” (p. 224) il che valeva a rincarare il

concetto per cui repubblica uguale disunione, anarchia e regresso, monarchia uguale armonia, unità e progresso.

10 “Il Piemonte si terrà stretto ai principi suoi, alla Casa di Savoia; rimarrà il palladio della monarchia rappresentativa; della libertà ordinata

in Italia; salverà l’Italia dalla repubblica, dalla libertà appassionata e disordinata, dall’isolamento repubblicano in mezzo alle monarchie

europee, ed il Piemonte serberà così all’Italia la capacità, la possibilità di riconquistare la sua indipendenza” (C, Balbo, op. cit., p. 218),

11 Nella sua strenua difesa della monarchia rappresentativa come unica forma politica possibile per l’Italia, Balbo si avvale di un argomento

che è anche oggi ricorrentissimo: rispetto alle grandi nazioni (“potenze”) europee l’Italia è ‘indietro’, dunque non può che allinearsi a quello

che esse fanno, in particolare, per quanto interessava a Balbo, adottare la forma di stato e di governo che esse adottano, la monarchia

rappresentativa, appunto. “Senza ambizioni di far meglio e più che l’altre, famiglia di monarchie rappresentative in mezzo alle simili, questo

è il sol modo di posare finalmente dalle rivoluzioni vaganti e senza scopo o con iscopi vari e stolti, questo il solo modo di uscire dal periodo

di transizione ove siamo, questo il solo di confermare la libertà, e il solo di conquistare l’indipendenza” (p. 224). E’ interessante che lo

stimolo a fare come le altre Nazioni, che sono ‘grandi’, venisse formulato, dal Balbo, mediante una accentuazione dei limiti, delle carenze,

della povertà intellettuale, morale e civile d’Italia, a costo di una svalutazione della sua storia, delle sue istituzioni politiche, delle sue capacità

presenti: di questa intonazione retorica che è rimasta ricorrente, e ancora viene usata tutte le volte in cui l’Italia è chiamata, per crescere, per

migliorare, a uniformarsi al modello di altri paesi, l’opera di Balbo ci aiuta a scorgere l’intima e probabilmente connaturata implicazione

conservatrice. Nella prima metà del secolo, del resto, la adozione di una costituzione rappresentativa era, un po’ come oggi il taglio della

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

129

Va detto peraltro che, pur mantenendosi relativamente salda per tutto l’Ottocento nelle opinioni

dominanti, la convinzione di molti sulla opportunità e pregi della monarchia rappresentativa non sarebbe

andata esente dalla consapevolezza che in diversi decenni di esperienza pratica lo stato rappresentativo

aveva dato adito a diversi problemi, consapevolezza che si affaccia in modo forte verso la fine di questa

stagione, ossia nel primo quindicennio del 1900.

Vi fa una tacita ma eloquente allusione un giurista moderato come Vincenzo Miceli quando scrive:

Per funzionare bene [il governo rappresentativo] richiede nel popolo un grado elevato di

educazione politica e un vivo interessamento per la cosa pubblica, e da parte dei pubblici poteri

richiede una piena conoscenza e un forte sentimento dei propri doveri. Qualora queste condizioni

non esistono, essa facilmente degenera, dando luogo ad abusi e corruzioni, ad ingiustizie, che

fanno di questa la peggiore delle forme politiche. Corruptio optimi pessima può essere ripetuto a

proposito di essa 12

Legicentrismo statualista

Il carattere spiccatamente conservatore che le teorie del governo rappresentativo assunsero in Italia è ben

illustrato dalle concezioni della legge che da noi si affermarono. Nel governo rappresentativo la legge è il

frutto della cooperazione tra Monarca e Camere, esprime la volontà dello stato, non quella del popolo. I

giuristi liberali italiani dopo l’unità approfondirono questa visione dedicando grande attenzione alla

dimostrazione della tesi per cui la legge non è espressione della volontà del popolo, ma dello Stato, della

Nazione come unità, non delle maggioranze che governano. Essi volevano impedire che dalla superiorità

della legge fosse ricavata la conseguenza, di stampo volontarista, per cui la legge è uno strumento di

cambiamento della società secondo gli indirizzi politici espressi dal popolo; volevano far convivere la

superiorità della legge con un assetto politico fortemente conservatore.

Per far questo, essi guardarono alla cultura germanica. Questa area fu, nell’Ottocento la culla di

concezioni del diritto antitetiche a quelle volontariste francesi, e che puntavano invece su una concezione

storicista per cui il diritto è l’espressione della comunità, della società e della sua storia. Questo era

sempre un modo sempre per giungere alla conclusione che ogni Nazione ha il suo diritto, cui i Francesi

erano arrivati tramite la affermazione della superiorità della legge, la codificazione e la nazionalizzazione

del diritto, ma mettendo l’accento più sugli aspetti tradizionali e culturali, che non sulla volontà del

legislatore, sulla unificazione del diritto per mezzo dei codici, sull’attivismo dei governanti.

Nella nostra cultura, che era di impianto codicistico alla francese, che aveva uno stato rigidamente

accentrato e governato da pochi, la lezione ‘storicista’ germanica venne ricolata in argomenti che

spesa pubblica e del welfare, diventata una richiesta che le grandi potenze ponevano alle nazioni messe sotto osservazione, perché

preoccupanti in quanto asimmetriche rispetto all’ordine che oggi chiameremmo ‘globale’, e che allora era europeo. Nel suo La fine di un

Regno (1907), dedicato alla minuziosa e penetrante descrizione degli ultimi quattro anni del regno borbonico nelle due Sicilie, Raffaele de

Cesare fa più di una annotazione nella quale il lettore contemporaneo riconosce nella posizione del Regno delle due Sicilie di allora, nella

sua ‘immagine internazionale’, quella di uno ‘stato canaglia’ di oggi: “Francia e Inghilterra chiedevano un trattamento più umano per i

detenuti politici e politica più conforme allo spirito del tempo”; nel 1851 Gladstone pubblica le sue lettere sulle prigioni e i prigionieri politici

del Napoletano, che hanno eco in tutta Europa; la sollecitazione a Ferdinando II di concedere la costituzione rappresentativa viene avanzata

più volte dall’Inghilterra e la Francia, i detenuti politici condannati per il 1848 ed estradati dietro pressione delle potenze straniere, tra i quali

Luigi Settembrini e Silvio Spaventa, sono accolti a Londra e poi a New York tra ovazioni pubbliche.

12 V. Miceli, op.cit., p. 117.

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

130

andavano ulteriormente a giustificare la supremazia della legge, e la sua indiscutibilità. Si sostenne così

nel tardo Ottocento che la legge è l’espressione del diritto, della nazione, della coscienza sociale, onde

sottacere il fatto che essa nasceva tra Sovrano e Parlamento con certi interessi ben in vista da favorire o

ostacolare.

“Nello stato costituzionale moderno e più particolarmente nelle Costituzioni parlamentari, la

dichiarazione di una norma giuridica promana dall’approvazione delle Camere rappresentative

e dalla sanzione del Capo dello Stato. Tuttavia, malgrado al volgo apparisca il contrario, pure

una tale concentrazione di potere non influisce per nulla sull’essenziale portata di esso, la quale

non è di creare, ma di riconoscere il diritto. Postulato fondamentale della scienza odierna è che

il Diritto è manifestazione naturale e necessaria, così nelle sue origini come nel suo sviluppo,

della vita di un popolo, come la lingua, come il pensiero, come l’indole generale di esso. Dalla

coscienza popolare in cui il Diritto immediatamente riposa, esso si trasfonde e si elabora nella

scienza giuridica che riceve la sanzione solenne dell’autorità dello Stato, e diventa legge”1.

Nel nostro assetto conservatore, questi argomenti suonavano nel senso: non pensi il popolo, e il pensiero

andava alle masse popolari, ai ceti meno elevati e colti, che la legge sia strumento per cambiare il diritto in

nome di esigenze di parti della società, e che da noi si introducano novità come il suffragio universale, il

diritto di sciopero o la limitazione dell’orario di lavoro, sol perché vi è chi fa di queste richieste. Tutte

queste cose sono contrarie al nostro spirito nazionale, e il legislatore non può certo andare contro di esso.

Esso ‘organo dello spirito pubblico’, ‘trova, non crea il diritto’.

La forma di governo disegnata dallo Statuto albertino: una monarchia costituzionale pura e fortemente

sbilanciata a favore del potere esecutivo

Lo Statuto albertino fu concesso nel 1848 da Carlo Alberto di Savoia al Regno di Sardegna e con

l’unificazione divenne la legge fondamentale del Regno. Esso adottava, come forma di governo, la

monarchia costituzionale pura, articolandola sui seguenti principi:

- Lo Stato è retto da un governo monarchico rappresentativo.

- Il Re, la cui persona è detta ‘sacra e inviolabile’, detiene in esclusiva il potere esecutivo, che

esercita per potere proprio (prerogativa regia) insieme al proprio gabinetto, ministri e collaboratori

che nomina autonomamente e che rispondono solo a lui (recitava lo Statuto albertino: Al re solo

appartiene il potere esecutivo. Il Re nomina e revoca i suoi ministri. I ministri sono responsabili).

Egli è il Capo Supremo dello Stato, dispone delle forze armate e del potere estero (dichiara la

guerra, fa i trattati di pace, d’alleanza, di commercio ed altri, dandone notizia alle camere ove

l’interesse e la sicurezza dello Stato lo permettano, cioè senza esservi obbligato) e del potere di

scioglimento delle Camere.

- Affiancano il Re due Camere, di cui una nominata dal re (Senato regio, i cui membri sono

nominati a vita) e una (Camera dei deputati) elettiva (da un corpo elettorale inizialmente pari al 2%

della popolazione) e di durata quinquennale.

- Mentre la funzione esecutiva è prerogativa del Monarca, la funzione legislativa spetta insieme al

Re e al Parlamento. Le leggi, deliberate dalle Camere, possono assumere vigore solo se ricevono

la sanzione regia, un atto di approvazione non formale ma sostanziale, nel quale si esprimeva

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

131

appunto la piena con-titolarità da parte del re della funzione legislativa. Affermava lo statuto: Il

potere legislativo sarà esercitato collettivamente dal Re e da due Camere. Il Senato e quella dei

Deputati. La proposizione delle leggi apparterrà al Re e a ciascuna delle due Camere. Ogni

proposta di legge, discussa ed approvata da una Camera, sarà trasmessa all’altra per la

discussione e l’approvazione, e poi presentata alla sanzione del Re. Se un progetto di legge è

rigettato da uno dei tre poteri legislativi non potrà più essere ripresentato nella medesima

sessione.

- Secondo gli auspici della teoria del governo rappresentativo, le Camere non hanno alcun potere di

influire sul governo (Monarca+Ministri), che esiste e segue il proprio progetto politico

indipendentemente dal bisogno della approvazione del Parlamento e indipendentemente dagli

orientamenti di questo rispetto alla sua politica.

- Anche la funzione giurisdizionale ‘emana dal Re’.

Va altresì notato che il Re disponeva di un potere di emanare regolamenti, norme subordinate alla legge e

destinate alla sua applicazione, integrazione, esecuzione. In linea di principio, il potere regolamentare del

Re-Governo era subordinato alla legge. Tuttavia, la subordinazione dei poteri dell’esecutivo e del re al

legislativo non si estendeva però alla sfera di prerogativa regia, nella quale il sovrano poteva prendere

decisioni ed emanare atti senza il consenso delle Camere. Siccome si estendeva a tutto ciò che aveva a che

fare con l’interesse e la sicurezza dello stato, questa sfera era molto ampia e dai confini elastici.

Dati gli ampi poteri riservati al monarca, è d’uso definire la forma di governo disegnata dallo statuto

albertino come una monarchia limitata ‘fortemente sbilanciata a favore del monarca’. Poiché il monarca

era il capo del potere esecutivo, e cioè del governo e dell’amministrazione, si può altrettanto bene dire che

si trattava di una forma di governo fortemente sbilanciata a favore del potere esecutivo.

Le “modificazioni tacite” dello statuto albertino: l’apparente evoluzione verso la forma di governo

parlamentare

Secondo ciò che lo Statuto albertino testualmente prevedeva, le Camere non avevano il potere di influire

sul Governo, di determinarne la vita o di condizionarne le scelte, di influenzarne l’indirizzo politico13

.

Tuttavia, nella prassi ( e cioè senza un cambiamento delle regole formali, delle norme scritte, ma sul

piano dei comportamenti concreti di fatto) questo modello diventò, con l’unità d’Italia e segnatamente

verso la fine dell’ ’800, molto più articolato, e la forma di governo, da monarchico costituzionale che era,

si trasformò, sia pure con un processo discontinuo, in una forma di governo che funzionava secondo

principi diversi.

13 Nel Parlamento Statutario quando si apriva la legislatura il Re rivolgeva un discorso alle Camere, nel quale raffigurava la sua visione

degli obiettivi cui la legislatura si sarebbe dovuta orientare. Le Camere rispondevano con un ‘indirizzo di risposta’ cioè una mozione che

accettava il discorso del Re. Questa è l’origine storica dell’espressione ‘indirizzo politico’, con la quale nel nostro paese si descrive una

attività che è propria del Governo e del Parlamento: dare indirizzi al Paese.

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

132

Per comprendere queste trasformazioni bisogna tener presente che nell’Italia unita la vita politica diventò

ben presto molto più complessa che nel Piemonte sabaudo e anche nella piccola e omogenea (dal punto di

vista degli interessi e delle mentalità che vi erano rappresentati) Camera dei deputati dell’epoca

cominciavano a prospettarsi visioni diverse, a contrapporsi visioni differenti del modo in cui la nazione

avrebbe dovuto essere condotta. Questo consigliò al monarca di distinguersi da coloro che componevano

il governo, dai ministri. Il Monarca cessò di andare nelle Camere fisicamente, perché là il Governo poteva

ricevere critiche, che erano inadatte alla posizione del Monarca, in quanto ne avrebbero sminuito

l’autorità, ma che al Monarca sarebbero inevitabilmente risalite dato che esso era indistinguibile dal

Governo. Pur non perdendo alcuno dei suoi poteri formali, il Re uscì dalle dirette dinamiche politiche e

questo fece sì che cominciò a succedere che il governo (i ministri del re) oltre a organizzarsi intorno a

una figura preminente (il capo del governo) che ne riassumeva le caratteristiche e gli orientamenti,

tendesse a dare le dimissioni quando diventava evidente che non disponeva di un sufficiente consenso

nelle Camere, e in specie in quella elettiva.

Il governo formalmente non era tenuto a far questo, perché secondo lo Statuto esso rispondeva solo al re;

ma nei fatti si affermarono atteggiamenti che corrispondevano all’idea che il governo dovesse rispondere

anche al parlamento, nel senso che se i suoi atti non erano condivisi dal parlamento il governo non poteva

rimanere in carica.

Nasceva così l’idea di un nesso che legava il governo al parlamento, un nesso che noi chiamiamo di

responsabilità politica, per cui il progetto politico che il governo vuole realizzare deve avere una

condivisione anche nelle Camere, e quando quel progetto o non viene perseguito come promesso o si

dimostra sbagliato il governo ne risponde con le sue dimissioni.

Il nesso di responsabilità politica che lega il Governo alle Camere Parlamento prende il nome di rapporto

fiduciario: il governo sta in carica in quanto il parlamento gli dimostra fiducia e fintantoché questa fiducia

rimane.

La forma di governo nella quale il monarca continua a influire sul governo (perché lo nomina) e sulla

legislazione (perché dà la sanzione alle leggi) ma dove comincia ad esistere anche un nesso fiduciario tra

governo e parlamento è quello che viene detta monarchia (o governo) parlamentare.

Il processo che vide il trasformarsi della forma di governo da monarchico pura a monarchico

parlamentare non fu lineare, non segnò un cambiamento da un giorno all’altro definitivo e chiaro.

“Al contrario (…) fino almeno al trasferimento della Capitale a Roma (1871) non mancarono casi

in cui il Re esercitava del tutto autonomamente il proprio potere di revoca delle compagini

ministeriali che non gli fossero gradite, indipendentemente dal rapporto tra queste e le Camere; il re

mantenne sempre inoltre il comando effettivo dell’esercito e la scelta del ministro della guerra.14

Si trattò dunque, sotto l’apparente evoluzione in senso parlamentare, di un sistema parlamentare che si

mantenne ‘dualista’ perché – stando ad analisi importanti, come quella dello studioso di diritto

amministrativo e storico del diritto pubblico Umberto Allegretti - il ruolo sociale e politico della

14 Livio Paladin, Diritto costituzionale, Cedam, Padova, p. 78.

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

133

monarchia non venne mai meno. Il Re continuò a influire sulla politica, da una parte, tramite l’esercizio

delle prerogative regie, cioè dei poteri che il sovrano esercitava senza necessità del consenso, e talvolta

neppure dell’informazione delle Camere: e tra i quali si segnalò in particolare il potere di ingerenza sulla

politica estera e militare; dall’altra parte, il Re influiva sulla politica tramite i contatti diretti che sempre

intrattenne con uomini politici e di governo, i quali componevano un autentico “partito di corte”,

composto di rappresentanti dell’aristocrazia e dell’alta borghesia.

E, a causa di ciò, vi erano molte ragioni che non è difficile individuare.

In primo luogo, per effetto del carattere molto ristretto del suffragio, la classe al potere rimase una

ristretta oligarchia, della quale le Camere erano l’espressione. Il fatto che il Parlamento (e tanto meno il

Governo) non divenne mai l’espressione di interessi sociali diversi o autonomi da quelli dell’oligarchia

dominante, e rimase anzi, per composizione, estrazione e cultura in larga parte assai affine al Monarca,

spiega perché i principi del parlamentarismo non si affermarono mai definitivamente nel senso di

escludere il Monarca da addivenire alla nomina o revoca del governo sulla base di determinazioni proprie,

non nascenti dal rapporto fiduciario tra governo e Camere. Specialmente in situazioni di necessità, quando

ragioni di ordine bellico o di ordine pubblico si facevano avanti, era facilmente accettato il “ministero

regio”. Così la forma di governo rimase ancorata alla sua radice dualistica, e il governo finì per

appoggiarsi sia sulla fiducia parlamentare sia su quella regia, alternativamente, a seconda del contesto

politico del momento.

Il carattere oligarchico, quantomeno ristretto ed elitario, della classe politica statutaria, e le regole,

trasformistiche, che ne caratterizzarono il funzionamento, ci dice anche che l’evoluzione in senso

parlamentare della forma di governo non rispondeva alla intenzione, delle forze politiche presenti in

Parlamento, di dare al Paese una organizzazione istituzionale più rappresentativa della società. In teoria,

infatti, il fatto che il Parlamento condizioni la vita del Governo significa, siccome il Parlamento è, almeno

in parte, elettivo, che gli eletti, ossia i rappresentanti della Nazione, acquistano un peso importante nei

confronti dell’Esecutivo. Dunque, a condizione che la base elettorale da cui il Parlamento è eletto si

allarghi, il maggiore potere acquistato dal Parlamento può significare un maggior potere della società,

degli elettori. In teoria, quindi, evoluzione in senso parlamentare può significare ‘evoluzione in senso

democratico’ della forma di governo. Ma le esigenze dalle quali nasceva il maggior peso acquistato dal

Parlamento non erano queste, o non erano soprattutto queste. In realtà, la parlamentarizzazione della

forma di governo fu una conseguenza del trasformismo cui i due soggetti politici dell’età statutaria, ossia

la Destra e la Sinistra cd. ‘storiche’ improntarono i loro comportamenti in Parlamento. Destra e Sinistra

erano due schieramenti in cui si dividevano in parlamento gli eletti, che, come poco sopra ricordato,

provenivano però tutti dallo stesso ceto ed erano molto omogenei tra loro, pur ispirandosi, nelle grandi

linee, a diverse letture della storia risorgimentale e di quelli che avrebbero dovuto essere i suoi esiti e, in

questo senso, idealmente differenziandosi. Ora divenne subito un tratto caratteristico del funzionamento

della Camera elettiva che deputati che sedevano a Sinistra poi votassero a favore di provvedimenti di un

Governo composto dalla Destra, e viceversa (trasformismo), per effetto di: tensioni interne allo

schieramento; risentimento e inimicizia verso il Primo Ministro di turno; previsioni o calcoli di

convenienza circa chi sarebbe stato al Governo nel periodo immediatamente successivo. In un quadro di

questo genere, in cui cioè gli schieramenti parlamentari, Destra e Sinistra, non erano coesi e stabili, un

Presidente del Consiglio che apparteneva a uno dei due schieramenti sapeva di poter controbilanciare le

lacerazioni interne al suo partito appoggiandosi in parlamento al voto dell’altro. Oppure, i deputati del

partito cui il Presidente del Consiglio apparteneva sapevano che potevano controbilanciarne il potere,

persino farlo cadere, semplicemente votando con l’altro schieramento. In una parola: il peso che la

Camera acquista sul Governo è direttamente proporzionale all’interesse che gli schieramenti politici

avevano di condizionare quest’ultimo; e anche al Governo conveniva che le Camere avessero influenza

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

134

perché, nel quadro trasformistico, poteva trovare ora sull’uno ora sull’altro schieramento appoggio per i

suoi provvedimenti. L’ “evoluzione in senso parlamentare” della forma di governo statutaria risponde

cioè non ad alti obiettivi di democratizzazione della direzione politica del Paese, ma, in larga parte, alla

‘tattica’ delle forze politiche di influenzarsi reciprocamente, tenendosi l’un l’altra sotto scacco15

.

Certamente, d’altronde, a spingere verso modificazioni del funzionamento della forma di governo rispetto

al modo in cui lo statuto la disegnava c’era anche un altro dato. Lo Statuto concesso ai Piemontesi da

Carlo Alberto di Savoia nel 1848 era concepito in tutto e per tutto nella luce delle esperienze istituzionali

del Piemonte Sabaudo. Quest’ultimo, come abbiamo appreso ripercorrendone nel capitolo precedente la

storia, era uno stato precocemente assolutista, dove un Parlamento era sempre esistito, ma aveva ben

presto cessato di essere la espressione vitale degli interessi dei ceti e il luogo in cui, su un piano paritetico,

re e ceti individuavano accordi. Come Marongiu ci ha insegnato, nel XVIII secolo esistevano due

‘Camere’ (chiamate in realtà Senati, di Chambery e Torino) che condividevano col re il potere legislativo

ma l’usanza consolidatissima era che il Sovrano, per rendersi sicuro che i suoi provvedimenti fossero

approvati, prima e fuori dalla riunione dei Senati si incontrava coi loro Presidenti e si metteva d’accordo,

poi i Presidenti provvedevano a garantire che i Senati votassero come voleva il Re, esautorando le

rappresentanze dei ceti. Il modello cui guardava lo Statuto era, insomma, quello di un sovrano legislatore

che non incontrava contrappesi: quando Carlo Alberto approvò lo Statuto non poteva nemmeno

concepire che le Camere potessero esprimere una reale dialettica sulle proposte del Governo, cioè del Re,

perché questo in Piemonte non si era visto né sentito da secoli. Inevitabilmente, come dicevamo all’inizio

di questo paragrafo, quel modello istituzionale, tutto concepito con gli occhi del passato, non poteva

funzionare, come tale, applicato a un paese grande, impegnato nel processo straordinariamente complesso

di riforma economica, sociale, giuridica e istituzionale che l’unità ha rappresentato, dove le Camere, per

quanto omogenee e frutto di un suffragio ristretto, erano comunque la sede di dinamiche politiche ben più

articolate di quanto potesse accadere nei Senati sabaudi. D’altro canto, quel modello non poteva evolversi

fino al punto di accettare la naturale conseguenza della evoluzione in senso parlamentare. Quale è questa

conseguenza? E’ presto detto: se il governo per vivere ha bisogno della fiducia delle Camere, è razionale

che, quando lo si nomina, si cerchi di formare un Governo che avrà la fiducia delle Camere. In una forma

di governo parlamentare, infatti, sebbene le camere non necessariamente nominino il Governo (vi sono

state esperienze in cui ciò è stato, peraltro, tentato), tuttavia ne influenzano la scelta: se nella Camera la

maggioranza è di Destra, è naturale fare un Governo di Destra. L’indirizzo politico si concentra tra

parlamento e il governo e il Monarca o capo dello stato assume un ruolo imparziale di garanzia del

corretto gioco delle parti, ma non di diretta decisione politica. Seguire questa evoluzione non era possibile,

però, senza contraddire il pilastro della forma di governo statutaria, cioè il principio per cui il capo

dell’esecutivo è comunque il re, e il governo è il governo del re. L’’evoluzione’ verso la forma

parlamentare era possibile solo fino a quel certo punto in cui non mettesse in discussione la titolarità nel

solo monarca del potere esecutivo. Una riprova del fatto che, nonostante il delinearsi di una specie di

rapporto fiduciario tra parlamento e governo, la forma di governo rimase sempre sostanzialmente

dualistica, è anche data dal fatto che in quasi nessuna occasione il Governo che era in carica all’atto della

convocazione dei comizi elettorali si sia dimesso davanti alle nuove Camere, quelle risultanti dalla

15 Destra e Sinistra, pur contrapposte, condivisero prassi di (mal)governo e interessi. Allegretti, nel suo Profilo di storia costituzionale

italiana, Il Mulino, Bologna, suggerisce che la Sinistra fece peggio della Destra perché, arrivata finalmente al potere nel 1876, trovò in tutte

le magagne dello stato, dalla magistratura asservita alle finanze, comodi sistemi per regolare i suoi conti e installarsi al potere saldamente.

Osservando anche che le tante critiche alzate da uomini della Destra contro la Sinistra sottacevano ‘quasi sempre le decisive colpe del

proprio periodo di amministrazione’ (p. 494) Allegretti suggerisce che si trattasse, già allora, dell’uso dei principi strumentale alla lotta

politica (si rimprovera ad altri di non rispettare questa o quella regola o criterio, quando a nostra volta non li si è rispettati).

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

135

elezione, benché i risultati elettorali avessero dato origine, in Parlamento, a una maggioranza diversa da

quella precedente.

Il periodo fu dunque segnato da un andamento contraddittorio, che spingeva verso la parlamentarizzazione

ma anche contrastava gli esiti ‘naturali’ di quest’ultima, e lungi dall’essere, come piaceva a Cesare Balbo,

la migliore per l’Italia, la forma di governo adottata dallo Statuto fu un fattore di difficoltà che dette vita a

prassi discontinue e disomogenee; e che non seppe reggere, in particolare, alla più grande sfida che il

presente portava con sé, cioè al sorgere di una forma di partito politico del tutto diversa da quella dei

partiti parlamentari d’epoca risorgimentale.

Il problema dell’estensione del suffragio e la nascita dei partiti politici di massa

La “parlamentarizzazione” della forma di governo si accompagnò anche ad un timido ma continuo

allargamento della base elettorale (fino al riconoscimento del suffragio universale maschile, esercitato

nelle elezioni del 1921) e questo si accompagnò a sua volta alla formazione di partiti politici (il partito

popolare, di ispirazione cattolica, il partito socialista) che si affermavano come rappresentanti dei diversi

interessi di cui le diverse parti della società erano portatrici davanti a un complesso di uomini e di idee

‘liberali’ che, nel bene e nel male, continuarono a identificare se stessi, e ad essere identificati, più con le

istituzioni che con la società.

Secondo i principi del governo rappresentativo, l’esperienza del Regno d’Italia ha contemplato fin

dall’inizio l’elezione dei deputati della Camera elettiva, ma, come anticipavamo nel paragrafo precedente,

questo non significa che esistessero sin dall’inizio partiti politici di massa nel senso contemporaneo, la cui

nascita data in Italia, e in altri paesi europei, tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento. Sino ad

allora, gli eletti alla Camera erano personalità eminenti sul piano locale, nobiluomini, professionisti,

intellettuali, che si candidavano in un collegio, a titolo individuale, e che poi, una volta eletti, si

raggruppavano alla Camera (orientavano cioè le proprie scelte di voto e le proprie iniziative) secondo

accordi che si formavano dentro la Camera medesima. Si parlava perciò di partiti parlamentari, cioè il

partito era un gruppo di deputati che procedevano d’intesa in relazione ai provvedimenti che erano via via

in approvazione o in generale alla politica del Governo di volta in volta attuale. Pertanto erano anche

frequenti i cambi di schieramento.

Il partito politico cambia configurazione quando a richiedere di avere influenza sulla vita pubblica sono

ceti o soggetti diversi dalla nobiltà e alta borghesia economica o intellettuale che avevano seduto in

parlamento sin dall’inizio del Regno, e che per essere portatori di una estrazione sociale, formazione e

visione del mondo assai omogenea si erano attirati sin troppo facilmente l’accusa di concepire l’interesse

generale sullo stampo del proprio punto di vista di élite dominante. Questi nuovi soggetti erano il

proletariato, le classi subalterne dei lavoratori salariati, organizzati nel partito socialista (fondato nel

1892), e i cattolici, che immediatamente dopo la revoca del Non expedit, la bolla papale con cui Pio IX nel

1868 aveva dichiarato la estraneità dei cattolici alla vita pubblica del Regno, dettero vita al partito

popolare (1919). Tuttavia, il ricambio o almeno una piena reciproca legittimazione tra antichi partiti

parlamentari in cui si esprimeva il nucleo di interessi e di poteri fondativi dello stato liberale (la Destra e

la Sinistra Storiche) e i nuovi partiti di massa non avvenne mai, e alla resistenza dei primi, e del blocco di

mentalità, interessi e prassi che ad essi corrispondeva, nei confronti dei secondi, si deve l’avvento del

regime fascista.

Il partito socialista prima (da cui si scisse, nel 1921, il partito comunista), poi quello popolare, nacquero in

parlamento come articolazioni interne a uno stesso blocco di interessi sociali, come era avvenuto per la

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

136

Destra e la Sinistra storiche, ma nella società, come associazioni che si proponevano di rappresentare gli

interessi di gruppi sociali diversi da quello espresso dai partiti tradizionali; essi iniziarono a presentare

alle elezioni propri candidati, cioè candidati che si impegnavano a proteggere, nel loro lavoro in

parlamento, le questioni care al loro elettorato, e a contrastare iniziative che potevano danneggiarlo, a

svolgere propaganda, stampare giornali e libri, organizzare comizi e conferenze.

I partiti di massa premevano naturalmente per un allargamento del suffragio; nel nostro paese, la lentezza

e limitatezza delle estensioni del suffragio elettorale nascevano proprio dal timore che esso avrebbe

portato al ripetersi a potenza di quanto si era visto in Francia dopo la prima elezione a suffragio universale

maschile, e che qui ricordiamo con le parole con cui ne parlò, nel 1862, il liberale italiano Carlo Cattaneo:

“Il 24 febbraio 1848 fu il primo giorno di un’era nuova. Per la prima volta si vide in Francia un

operaio chiamato a sedere tra i governanti, il miglioramento del destino degli operati fu posto tra i

doveri della società e dello stato; e fu riconosciuto, in quanti cittadini avessero anni ventuno, il

diritto di influire al pari sulla cosa pubblica. E così il quarto ordine, che nel 1789 restava confuso in

un comune involucro col terzo stato, cominciò a divenire un principio determinante delle nuove

istituzioni. Operai siamo tutti quanti, se prestiamo util opera all’umanità. E se qualcuno promuove

l’influenza delle classi laboriose nell’ordine legislativo, egli non fa opera di discordia, ma di

giustizia e di benevolenza.16

Le parole di Carlo Cattaneo rivelano da sole come la questione fosse scottante. Da liberale progressista,

Cattaneo sostiene che non si deve avere paura della rappresentanza politica delle classi escluse. Al

contrario, nei suoi scritti volgeva lo sguardo anche oltre gli “operai propriamente detti, che mostrano di

avere acquistato quella chiara coscienza di sé e del loro diritto, cui non si potrebbe senza ingiustizia e

senza temerarietà negare una legale espressione”, guardava a chi rimaneva ancora ben lontano da ciò:

“l’agricoltore, che giace in negletta e barbara condizione” e più oltre ancora: “gli inabili, i mendicanti, i

reietti, tanto più numerosi, in realtà, quanto più le nazioni sono opulente e superbe”. Egli si rendeva conto

che un tasso troppo alto di povertà e di ingiustizia sociale nuoce al benessere e genera disordine: il suo era

l’atteggiamento di un riformista moderato. Ma molti non la pensavano affatto come lui, e provavano

preoccupazione, angoscia e scandalo davanti all’avanzata delle classi subalterne e alla loro pretesa di

condizionare l’azione delle istituzioni. Alcuni sinceramente pensavano che se l’idea democratica avesse

preso piede questo non avrebbe potuto che significare la fine dell’unità dello stato, la fine dello stato

stesso, perché gli interessi competitivi e confliggenti della società non avrebbero mai potuto esprimere

indirizzi unitari, garantire la stabilità e la pace.

In effetti, la nascita dei partiti di massa travolgeva l’idea, che aveva improntato di sé i regimi della

Restaurazione, che gli interessi dello stato, cioè dei gruppi dominanti, potessero valere come interessi

generali; metteva in dubbio la radice stessa dei regimi rappresentativi, che ammettevano la rappresentanza

degli interessi della società, ma solo in presenza del postulato che interessi unitari dello Stato esistessero

come tali, prevalessero sugli altri, e avessero organi specifici, come il Re, a dar loro espressione e tutela.

Con la loro stessa presenza essi ‘attentavano’ al principio-cardine dello stato liberale ‘meno società nello

stato’, perché quello che volevano era che la società contasse nella direzione dello Stato. Perciò i partiti

16 C. Cattaneo, Le più belle pagine scelte da Gaetano Salvemini, nuova ed. Donzelli editore, 1993, p. 111. Liberale, repubblicano,

protagonista delle Cinque giornate di Milano, Cattaneo rifiutò la nomina a Senatore del Regno d’Italia per non dover giurare fedeltà alla

monarchia.

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

137

politici di massa furono visti dallo stato liberale, e specie da uno conservatore, involuto, e con le difficoltà

di funzionamento che abbiamo visto sopra, come una minaccia alla sua stessa esistenza.

Le idee cardine del regime ‘rappresentativo’ iniziarono nel corso dell’800 e ancora più fortemente ai

primi del ‘900 ad essere apertamente contestate. Coloro che erano stati esclusi dalla possibilità di far

valere le proprie esigenze e di influire sulla vita pubblica, la borghesia liberale, e lo stato che ne era

espressione, videro grande timore l‘emergere di una piccola borghesia scontenta, di un proletariato

organizzato, che reclamando il diritto di votare e di dar vita a proprie associazioni politiche (i partiti,

appunto), intendevano arrivare a governare lo stato in un modo più sensibile ai propri interessi; o la

pressione delle forze cattoliche, tradizionalmente tanto ostili allo stato “laico” (il Regno si era pur

unificato con la presa militare dello Stato della Chiesa), per avere ora anch’esse una voce sulla direzione

politica del paese; o le dottrine marxiste, che denunciavano lo Stato come apparato funzionale al dominio

di una classe sull’altra.

Non solo nel nostro Paese, questi timori si tradussero nella “crisi del parlamentarismo”, nel risorgere di

grosse diffidenze verso specialmente quella Camera elettiva che iniziava a rappresentare in qualche

misura il popolo. In Italia:

“Verso la fine del Regno di Umberto I fu rimesso in discussione lo stesso sistema parlamentare già

affermatosi in via di prassi, dal momento che si registrò una notevole spinta verso un ‘ritorno’ alla

monarchia costituzionale. Ma non era tanto lo Statuto che preoccupava: ciò cui i conservatori, la

destra, mirava in quegli anni era un governo ‘forte’, poco importa se guidato dal Re stesso o da un

Primo Ministro che fosse in grado di bloccare il naturale sviluppo del sistema in senso democratico

e sociale, specialmente per mezzo di leggi restrittive delle libertà (come quella di stampa). Sulla

legge limitativa della libertà di stampa che il Governo intendeva introdurre si svolse un enorme

contrasto tra Governo e Parlamento, e il tentativo di scavalcamento del Parlamento in questo caso

fallì: gli schieramenti parlamentari della “sinistra” si opposero con l’ostruzionismo all’approvazione

delle misure restrittive della libertà si stampa; e i decreti legge coi i quali il Governo sperava di

scavalcare l’ostruzionismo parlamentare furono dichiarati inapplicabili dalla Corte di Cassazione.

“Questa prima crisi della forma di governo parlamentare si avviò a una rapida composizione e nelle

elezioni del 1900 la Sinistra si rafforzò, e ne seguirono i governi Zanardelli e Giolitti, accomunati

da una comune politica riformista, con l’adozione di misure di diritto del lavoro e di intervento

statale a sostegno dell’economia. La riforma più notevole fu quella che investì la base elettorale,

con una progressiva estensione del suffragio a tutti i maschi adulti maggiorenni; gli aventi diritto a

partecipare alle elezioni del 1913 furono il 23% dei cittadini residenti del Regno contro il 7,5%

delle elezioni del 1904 e il 6,9% delle elezioni del 1900. Le elezioni del 1913 sembrarono dunque

completare il processo di perfezionamento interno di una evoluzione verso forme più democratiche

dello Stato, ma in realtà segnarono l’inizio della fine dell’ordinamento statutario, le cui strutture non

si dimostrarono idonee ad assorbire le spinte antitetiche e difficilmente componibili dei partiti di

massa che si affacciavano sulla scena politica, profittando del suffragio universale. Se nel 1913 i

conservatori ancora ressero e ottennero la maggioranza dei seggi, nel ’19, anche grazie a un

cambiamento del sistema elettorale (da maggioritario a proporzionale), essi subirono un vero e

proprio tracollo, a vantaggio di partiti relativamente nuovi come i socialisti e i popolari (cattolici).

Gli schieramenti politici tradizionali ne rimasero sconvolti a tal punto che in un breve torno di anni

si determina una nuova crisi, questa volta irreversibile. Per quanto la presidenza del consiglio

continui ad essere affidata ad esponenti della vecchia classe politica (Nitti, Giolitti, Bonomi, Facta)

la Camera e il corpo elettorale sono sempre meno inclini ad appoggiarla. Fra il 1919 e il 1922 si

succedono cinque governi, tutti incapaci di far fronte alla crisi istituzionale e al dissesto

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

138

dell’economia, seguito alla guerra in egual misura per i vinti come per i vincitori e in questo vuoto

di potere si inserisce il fascismo17

”.

La nascita dei partiti, dei sindacati, le lotte popolari ed operaie, cui non erano estranee componenti

insurrezionali, rivoluzionarie, o accusate di essere tali sfociarono nel biennio 1898-99 in una crisi di

particolare gravità (che si ricorda come “crisi di fine secolo”) che ci ha lasciato, tra le tante testimonianze

di un conflitto sociale crescente e drammatico, il ricordo delle cannonate sparate contro i manifestanti

operai a Milano durante le quattro giornate del 1898 su ordine del Generale Bava Beccaris, il quale poi, in

premio di ciò, fu insignito dal Re dei più alti onori militari. Il numero dei morti rimase ignoto, ma fu certo

superiore a cento persone; Milano e la sua provincia furono poste in stato d’assedio, con la sospensione di

tutte le libertà costituzionali e la devoluzione della giustizia ai Tribunali di Guerra, secondo un metodo

che il governo statutario adottava regolarmente durante i ‘disordini’; furono arrestati numerosi esponenti

politici, sciolte le relative organizzazioni.

Nonostante nell’immediato si sia dispiegata in seguito la politica distensiva e conciliatrice di Giolitti,

molte analisi vedono nei fatti del 1898-99 la premessa dell’onda lunga di reazione che avrebbe portato il

paese alla dittatura fascista.

L’ambiguo lascito della ‘parlamentarizzazione’ della forma di governo durante il periodo statutario

Vi è stata allora davvero una trasformazione in senso parlamentare della forma di governo durante il

periodo statutario? E quale è stato il lascito dell’oscillazione tra governi regi e governi parlamentari in

questo lungo periodo? Il Parlamento si rafforzò veramente? E quanto? L’apparato esecutivo Re e

Governo, perse o acquistò poteri?

Per rispondere a queste domande bisogna ripartire dalla considerazione che le trasformazioni che

portarono verso una forma di governo di tipo parlamentare erano avvenute senza modificare formalmente

lo statuto, che rimase come era: esse avvennero cioè in via di prassi, furono modifiche tacite. Queste

modificazioni furono e furono viste come una crescita del potere di influenza del parlamento, che nei fatti

poteva condizionare l’esistenza in carica del governo. A sua volta, la crescita di potere del parlamento

corrispondeva a uno sforzo, sia pure modesto e titubante, di aggiornare il disegno dello statuto alle

esigenze di un paese divenuto più articolato, consapevole di essere composto di soggettività e

appartenenze diverse. La crescita dei poteri del parlamento, in cui le modifiche della forma di governo si

traducevano, veniva associata, e di fatto in parte almeno si associava, all’affermarsi delle tendenze

‘democratiche’ che a giudizio dei conservatori mettevano a rischio l’ordine costituito. Il fatto che le

modifiche dello statuto fossero solo tacite rese allora facile il diffondersi di opinioni che ne

disconoscevano la doverosità, e soprattutto la legittimità. Di queste opinioni fu il simbolo lo scritto di

Sidney Sonnino, uomo politico della Destra storica, apparso nel 1897 e intitolato Torniamo allo Statuto, e

che fu la punta di una letteratura ferocemente antiparlamentare, che fiorì in Italia in quegli anni, rivelando

le ansie che la trasformazione della vita pubblica italiana sollevava nell’opinione conservatrice dominante.

“Torniamo allo Statuto” voleva dire: ricordiamoci che non esiste alcuna norma che imponga al governo di

avere la fiducia delle Camere. Se alle Camere ci sono maggioranze troppo progressiste, troppo

democratiche, non pensino di poter condizionare il Governo. Il Governo lo nomina e lo revoca il Re.

17 Livio Paladin, Diritto Costituzionale, cit., p. 83.

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

139

La critica del parlamento, che prendeva anche le forme di una ridicolizzazione della lunghezza e

dell’inutilità dei dibattiti, di una caricaturizzazione dei comportamenti degli uomini politici, sempre

raffigurati come bassi e meschini affaristi di second’ordine, significava l’affermazione che si dovesse

restaurare il potere del sovrano. L’immagine ripetuta secondo la quale il governo era troppo debole per

colpa delle pretese delle ‘consorterie parlamentari’ in parte rifletteva le verità di un sistema politico

involuto su se stesso e fragile, in altra parte intendeva squalificare l’importanza e la dignità dei nascenti

partiti, e la loro pretesa di influire sulla politica nazionale. La polemica antiparlamentarista e

antipartitica che segna il tardo periodo statutario (e prepara il consenso verso un ‘governo forte’ che il

fascismo offrirà) conteneva dunque una grossa ed esplicita carica polemica anche contro l’altro grande

fenomeno che stava accompagnando la trasformazione del sistema di governo e della forma di stato, le

spinte verso la democratizzazione.

Per questo si deve dire che nell’Italia monarchica una vera e propria conquista di centralità del

parlamento nelle dinamiche della forma di governo, intesa come legittimazione dell’organo in nome della

funzione che esprime, la rappresentanza politica, non si sia instaurata mai con forza. La crescita di ruolo

del parlamento fu un evento assistito da pochissima legittimazione: lo si poteva raffigurare come una

violazione dello Statuto, come una scelta inopportuna, rischiosa per gli interessi dello Stato, e così il

parlamento cresceva di ruolo, ma anche restava debole.

Dall’altro lato, che cosa accadeva al Governo? La formazione di una forma di governo di tipo

parlamentare aveva risposto all’esigenza di rendere il governo un organo autonomo dal Re, il quale non

poteva essere chiamato a rispondere alle Camere. Di fatto, l’esistere del Governo come un collegio

composto da un primo ministro e dai ministri, portò a un sicuro rafforzamento dei poteri dell’esecutivo. Il

“modellino” dello Statuto, pensato per la dimensione proto-ottocentesca del piccolo stato sardo, era

pensato per funzionare su un parlamento che insieme al Re fa le poche leggi che servono al governo dello

stato. Ma l’Italia unitaria dovette affrontare le esigenze di governo di un paese grande, attraversato da

disuguaglianze profonde, sempre sottoposto a enormi sforzi per non “perdere” nella concorrenza

economica, politica, militare e diplomatica con le grandi nazioni, percorso da problemi sociali, economici

e di ordine molto molto grandi. Nei fatti, il ruolo del governo cambiò moltissimo rispetto a quello che lo

Statuto attribuiva al “Gabinetto” del re, ma nel senso che crebbe enormemente, approfondendo quella

posizione di maggior forza rispetto a ogni altro potere, che già lo Statuto attribuiva al potere esecutivo.

Il rafforzamento del governo si tradusse, da una parte, nell’allargarsi delle ipotesi in cui il governo

emanava regolamenti anche senza l’esistenza di una previa norma di legge che lo autorizzasse; dall’altra

parte, nell’acquisto di poteri normativi nuovi. Durante il periodo liberale ebbe infatti inizio una prassi per

cui il Governo, quando aveva necessità urgente di emanare un provvedimento con forza di legge, o

quando voleva evitare la discussione parlamentare per non misurarsi col dissenso e la critica, anziché

ricorrere al procedimento legislativo ordinario adottava un atto d’urgenza (decreto legge) o si faceva dare

una delega, una autorizzazione, dal parlamento, per poi adottare, con ampia libertà di scelta dei contenuti,

un decreto (decreto delegato).

Pertanto, lo sviluppo della “monarchia parlamentare” in Italia vede sì l’affermarsi di un nesso tra

Parlamento e Governo che vede crescere il ruolo del primo, ma testimonia anche:

a) debolezza dell’immagine, del consenso intorno al parlamento;

b) rafforzamento dei poteri dell’esecutivo, specialmente normativi (e in particolare: sviluppo di atti

normativi del Governo capaci di abrogare le leggi);

c) perdurante convinzione che il governo, almeno in caso di necessità, e cioè in mancanza del

consenso del parlamento, o al preciso scopo di evitare di chiedere questo consenso, per non dare

espressione a forze politiche sgradite, potesse sempre contare sulla fiducia del solo Monarca.

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

140

2.La pubblica amministrazione

Lo stato liberale come stato a pubblica amministrazione

Lo stato liberale ottocentesco è definito stato a pubblica amministrazione perché segna il momento in cui

giunge a piena maturazione e consapevolezza il passaggio dalla ‘autoamministrazione’ affidata ai corpi

sociali dell’ordine antico alla cura degli interessi generali assunta dallo stato con un proprio apparato

burocratico. Alla preoccupazione di rendere controllabile questo potere e giustiziabili i suoi atti,

preoccupazione che il pensiero liberale agita in tutta Europa a difesa delle ‘libertà negative’ dei privati, si

reagisce in Italia, e in genere nel continente, con la creazione di forme di giustizia e di regole di diritto

speciali per il potere esecutivo. Da qui anche la definizione stato di diritto, che significa propriamente

stato di diritto amministrativo, e cioè stato nel quale al diritto e alle forme di giustizia ‘comuni’, che

valgono per i privati si affianca un diritto speciale per l’amministrazione, il diritto amministrativo, che

diviene anche, nel periodo, materia di studio e insegnamento universitario.

Questo passaggio ha alcune caratteristiche importanti che si riassumono:

- nella creazione di specifici apparati burocratici gerarchicamente organizzati e centralizzati,

preposti allo svolgimento dei compiti amministrativi e nella sottomissione delle antiche forme di

autoorganizzazione delle comunità territoriali alla unica amministrazione centrale dello stato, in

cui vengono assorbite;

- nella identificazione, da parte della dottrina e della giurisprudenza, di uno specifico tipo di atti (il

provvedimento amministrativo) connotato da caratteristiche proprie (esecutorietà – discrezionalità

– unilateralità – sindacabilità per soli vizi di legittimità);

- nella creazione della giustizia amministrativa, fondata sulla affermazione che siccome

l’amministrazione cura gli interessi generali non può essere sottoposta a giustizia come un

qualunque privato, il che conduce in Italia prima alla sottrazione degli atti amministrativi al

giudice ordinario, poi, dopo un tentativo non convinto di introduzione della ‘giurisdizione unica’,

alla istituzione di un regime di riparto tra la giustizia ordinaria e una nuova ‘giustizia

amministrativa’ quale giustizia speciale per l’amministrazione;

- nel coronamento, attraverso tutto questo, del potere amministrativo quale portatore di proprie

finalità (gli interessi pubblici) di poteri di valutazione e di una forma di razionalità atta a

soddisfarle (poteri discrezionali; razionalità (razionalità rispetto allo scopo), e della distinzione tra

sfera privata e sfera pubblica, secondo una intonazione asimmetrica, del rapporto stato-cittadino

(principio di autorità vs consenso; capacità di diritto pubblico vs capacità di diritto privato; diritto

soggettivo vs interesse legittimo);

- nell’identificazione tra stato e pubblica amministrazione (l’amministrazione è portatrice degli

interessi generali, cioè dello stato, stato e amministrazione si indentificano.

L’amministrazione nel periodo statutario. A) La strutture

Nel periodo statutario, la struttura della pubblica amministrazione è così composta:

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

141

- Amministrazione ministeriale o amministrazione statale diretta.

- Amministrazione locale (Comuni e Province) o amministrazione statale indiretta.

- Alcuni soggetti pubblici, come le Camere di Commercio, i Collegi professionali o le Università,

che preesistevano all’unificazione e vennero considerati ‘‘corpi morali’ legalmente riconosciuti.

- Verso la fine del secolo iniziano a essere create nuove figure: gli enti pubblici, strutture composte

di mezzi, personale, e un bilancio proprio, dotate di personalità giuridica, guidate da un consiglio

di amministrazione presieduto dal Ministro competente per materia, e finalizzate allo svolgimento

di una specifica ‘missione’. Gli enti pubblici sono anche detti amministrazione parastatale.

- Nel 1903 con la legge sulle municipalizzazioni fu consentito anche agli enti locali creare organismi

dedicati allo svolgimento di specifici compiti (aziende municipalizzate).

A livello nazionale, e con competenze riferite a tutto il complesso delle strutture amministrative, e

dell’attività del Governo operano inoltre:

- Il Consiglio di Stato, preso dall’ordinamento sardo e da questo a sua volta preso da quello

francese, con funzioni consultive e tecniche, di decisione di ricorsi amministrativi gerarchici, e

che dal 1889 ha acquisito anche la funzione di organo di vertice della giustizia amministrativa.

- La Corte dei Conti, anch’essa presa dall’ordinamento sardo, organo di controllo preventivo sulle

spese dello stato e giurisdizione contenziosa in materia contabile, e revisione dei conti del

complesso delle pubbliche amministrazioni.

L’amministrazione statale diretta

I ministeri sono nel periodo statutario di numero contenuto, e le loro funzioni sono prevalentemente

attinenti alla soddisfazione degli interessi dello Stato come tale (ordine, sicurezza, tributi). L’elenco dei

ministeri del periodo è

Esteri – Interno – Grazia e Giustizia – Guerra – Marina – Finanze – Tesoro – Pubblica Istruzione – Lavori

Pubblici – Agricoltura Industria e Commercio; nel 1889 si aggiunge il Ministero delle Poste, nel 1912

quello delle Colonie, nel 1916 quello dei Trasporti.

L’amministrazione statale indiretta

Togliamocelo di mente, di speranza: lo spirito di

municipalismo non è sradicabile del tutto dalla terra

italiana, se non sia per essere coll’opera di secoli e secoli,

sotto governi sodi e regolari, sotto l’imperio e quasi io

diceva la tirannia della legalità.

(Cesare Balbo, La monarchia rappresentativa, p. 209)

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

142

La Legge 20 marzo 1865 n. 2248 per l’unificazione amministrativa del Regno d’Italia affrontò il problema

di come impostare l’amministrazione territoriale del novello stato italiano. Era problema spinosissimo e

assai complesso, dato che gli stati preunitari avevano ciascuno propri modelli ed esperienze di

amministrazione locale, e, d’altro canto, le diverse zone del paese presentavano forti diversità di

composizione sociale, economica, geografica. In materia vi erano visioni assai divaricate. Marco

Minghetti presentò nel 1861 un progetto di riordinamento del nuovo Regno d’Italia nel quale introduceva

un elemento nuovo, la Regione18

. Minghetti era persuaso:

che la unificazione amministrativa non doveva farsi affrettatamente, imperocché essa avrebbe

ferito, come ferì, molti interessi, offese molte abitudini, suscitò molte avversioni. E perciò la

regione era principalmente un organo transitorio affinché si operasse lentamente il trapasso da sette

legislazioni ed ordini diversi secondo i diversi stati, a coordinamento ed unità.

Per sottrarre il disegno di legge a discussioni parlamentari in cui risuonavano idee come queste, assai

divergenti da quelle preferite dal Governo, il quale intendeva estendere ai nuovi territori il modello di

amministrazione locale già adottato dal Piemonte, il Governo si fece dare dalle Camere una delega, dalla

quale nacque la legge di unificazione amministrativa. In forza di questa legge il Comune e la Provincia

furono i due enti in cui venne organizzato tutto il territorio, e in ciascuna zona d’Italia ebbero le

medesime caratteristiche, organizzazione, funzioni. Ritoccata e completata nel 1888, la disciplina degli

enti locali li configurava come terminali dell’amministrazione centrale, sottoposti a rigidi controlli e a una

assoluta uniformità organizzativa. Oggi si è unanimi nel ritenere che il modello di amministrazione locale

prescelto dallo stato liberale italiano era dovuto, e del resto nemmeno velatamente, dal timore che

autonomia degli enti locali e differenziazione di funzioni e di dimensioni avrebbero aperto il rischio di

spinte centripete pericolose per l’appena raggiunta unità.

Dal punto di vista organizzativo, il Comune era guidato dal Sindaco, di nomina governativa (per la legge

del 1865 era nominato con Decreto regio tra i Consiglieri comunali, poi, dal 1889, il Sindaco fu eletto dal

Consiglio comunale e quindi nominato dal Governo); il Sindaco è affiancato da un organo deliberativo, il

Consiglio comunale, e da una Giunta di assessori con funzioni esecutive. Il Sindaco era, ed è, un organo

che riunisce due funzioni: quella di capo dell’amministrazione comunale e ufficiale del Governo. La

organizzazione della Provincia prevedeva un organo collegiale, con compiti deliberativi (la Deputazione

provinciale) e uno esecutivo, il Governatore, poi Prefetto: quest’ultimo un organo del Ministero

dell’Interno, incaricato di compiti di rappresentanza del Governo presso le province e di controllo sulla

attività comunale e provinciale.

Tutta l’amministrazione comunale e provinciale era infatti sottoposta al controllo del Prefetto, al quale

erano sottoposte, prima di entrare in vigore, le delibere comunali. Il Prefetto poteva sospenderne

l’esecuzione o annullarle se le trovava viziate di violazione di legge, non approvate in adunanza legale e

con l’osservanza delle forme di legge. Al controllo di regolarità contabile era preposto uno specifico

organo, la Giunta provinciale amministrativa, composta dal prefetto, da due consiglieri di prefettura

designati dal Ministro dell’Interno, e da quattro membri designati dal Consiglio provinciale.

Contro i provvedimenti dei prefetti e delle giunte i consigli comunali potevano ricorrere al Governo del

Re, che provvedeva con decreto reale dietro parere del Consiglio di Stato come giudice del contenzioso.

18 Nuovo, come egli stesso notava, ‘rispetto all’ordinamento amministrativo vigente, che storicamente la Regione aveva antichissime

tradizioni sì nel Medio evo sì presso i Romani”, M. Minghetti, I partiti politici e l’ingerenza loro nella giustizia e nell’amministrazione,

Zanichelli, Bologna, 1884.

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

143

Comune e Provincia avevano un bilancio, composto da spese obbligatorie e facoltative. Le spese

equivalevano ad altrettante competenze dei Comuni e della Provincia. Il fatto che le spese fossero definite

dalla legge e uguali per ogni ente locale, era ciò che funzionare questi ultimi come strumenti, o ‘terminali’

dell’amministrazione centrale.

Vediamo esemplificativamente l’elenco delle spese obbligatorie dei comuni: 1. Per l'ufficio e l'archivio

comunale; 2. Per gli stipendi al segretario e degli altri impiegati ed agenti; 3. Pel servizio delle

riscossioni e dei pagamenti. 4. Per le imposte dovute dal comune. 5. Pel servizio sanitario di medici,

chirurghi e levatrici pei poveri in quanto non sia quello provvisto da istituzioni particolari. 6. Per la

conservazione del patrimonio comunale e per l'adempimento degli obblighi relativi. 7. Pel pagamento dei

debiti esigibili. In caso di liti saranno stanziate nel bilancio le somme relative, da tenersi in deposito fino

alla decisione della causa. 8. Per la sistemazione e manutenzione delle strade comunali, come per la

difesa dell'abitato contro i fiumi ed i torrenti e per le altre opere pubbliche in conformità delle leggi, delle

convenzioni e delle consuetudini. 9. Per la costruzione e mantenimento di porti, fari ed altre opere

marittime in conformità alle leggi. 10. Pel mantenimento e restauro degli edifizi ed acquedotti comunali,

delle vie interne e delle piazze pubbliche, là dove le leggi, i regolamenti e le consuetudini non provvedono

diversamente. 11. Pei cimiteri. 12. Per l'istruzione elementare dei due sessi. 13. Per l'illuminazione dove

sia stabilita. 14. Per la guardia nazionale. 15. Per i registri dello stato civile. 16. Per l'associazione alla

Raccolta ufficiale degli Atti del Governo. 17. Per le elezioni. 18. Per le quote di concorso alle spese

consorziali. 19. Per la sala d'arresto presso la giudicatura del mandamento e la custodia dei detenuti. 20.

Per la polizia locale". A questo elenco si aggiunge nel 1898 il sevizio sanitario a beneficio dei poveri.

Spese facoltative, a cui il Comune poteva procedere solo se in grado di adempiere a quelle obbligatorie:

comodo e ornato pubblico, asili e scuole secondarie, bande musicali, teatri, pubblici divertimenti e feste,

beneficienza, agricoltura, società di storia patria – illuminazione – accalappiacani.

I Comuni e le Province provvedevano alle spese con le loro entrate, ed erano per questo detti enti

autarchici (e cioè “che provvedono a se stessi da sé”). Le entrate erano costituite da sovrimposte, per

esempio sui contributi erariali, o da dazi sui consumi, e soprattutto dal ricorso all’indebitamento. La Cassa

depositi e prestiti, la ‘banca del settore pubblico’ istituita in Piemonte nel 1850 e poi trasferita a Roma,

aveva ed ha il compito di prestare agli enti territoriali e pubblici utilizzando a questo scopo somme ad

essa stornate dal bilancio dello stato.

Far dipendere le spese comunali e provinciali dalle sovrimposte significava far dipendere la capacità di

intervento e di attività di questi enti dalla ricchezza dei loro territori; era cioè un modo per mantenere ed

approfondire le differenze esistenti tra le diverse aree del paese. In generale, peraltro, il paese era povero,

e gli enti locali ancora di più: ne derivò la scarsezza delle opere da essi intraprese, la limitatezza dei

servizi da essi realizzati (il che fu causa di ulteriori limiti allo sviluppo produttivo e sociale del Paese) e,

come conseguenza dell’inevitabile ricorso al credito, il frequente dissesto finanziario. Oltre a indebolire

ulteriormente l’azione di questi organismi, rendendo ancora più ridotta l’esecuzione delle opere pubbliche

e l’espletamento dei servizi più basilari, il dissesto dava occasione al ‘commissariamento’ dell’ente locale

interessato, che significava assunzione diretta da parte del Governo della sua direzione, rincarando il già

notevolissimo accentramento che caratterizzava le amministrazioni locali. Timorosissimo di ampliare il

debito pubblico, e impegnato nello sforzo di pareggio del bilancio, il governo non poteva neppure

concepire l’idea di partecipare alle spese degli enti locali; e semmai li invitava continuamente, alla

contrazione delle spese e alla moderazione nel ricorso all’indebitamento. Non è escluso che, per una parte

almeno della classe dirigente piemontese, educata all’idea che l’Italia fosse per destino una nazione

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

144

povera e secondaria, il destino di sottosviluppo e sperequazione che veniva così impresso alla maggior

parte del paese apparisse naturale.

Le attività amministrative

Quali erano le attività dell’amministrazione nel periodo statutario? Sia che si trattasse di amministrazione

diretta, sia indiretta, si trattava prevalentemente di attività di natura regolamentare, o di autorizzazione-

ispezione-controllo delle attività private. Solo in una fase tarda del periodo liberale l’amministrazione

pubblica, e salvo ciò che riguarda l’istruzione elementare, si assume compiti di servizio (salute,

assicurazioni, pensione, istruzione) e compiti di concreta gestione, cioè di svolgimento con propri mezzi e

risorse di attività economiche (costruzione di infrastrutture)19

. Gli atti della pubblica amministrazione

erano di queste tipologie:

- Contratti e appalti, inizialmente usati anche per la costruzione di opere come le ferrovie o per la

concessione di acque e beni demaniali (fino all’istituzione dell’Ente statale per le Ferrovie, per la

costruzione di un tratto di ferrovia si individuava un contraente privato che si assumeva le spese di

costruzione in cambio dei proventi derivanti dalla gestione della linea);

- autorizzazioni e concessioni : tipicamente utilizzate per concedere a privati lo sfruttamento economico

del demanio (lido del mare, foreste, cave torbiere e miniere); in questo ampio genus rientrava la vasta

gamma delle licenze e delle patenti, necessarie per lo svolgimento di attività commerciali e industriali

come l’apertura di pubblici esercizi, di tipografie, lo svolgimento del commercio ambulante, ecc.);

- controlli sull’attività di impresa, tra cui si annovereranno, verso la fine dell’età liberale, tipicamente i

controlli sugli stabilimenti industriali insalubri e pericolosi;

- tutta l’attività di ordine pubblico (sequestro di stampati, fermo ed arresto di individui sospetti, ecc.)

La nascita della giustizia amministrativa

La pagina che riguarda la nascita del sistema di giustizia amministrativa è sicuramente la più grande

eredità che lo stato liberale ha lasciato: il modello allora impostato è stato accolto senza modificazioni

sostanziali in epoca repubblicana.

Per seguire questa importante vicenda, occorre partire ricordando che, sull’esempio della Francia, il

Piemonte sabaudo e gli stati preunitari avevano scelto, per il controllo sugli atti della pubblica

amministrazione, il sistema c.d. del contenzioso amministrativo: le controversie tra amministrazioni (es.

un Comune che agisce contro l’annullamento di un suo atto, deciso dal Prefetto) o tra cittadini e pubbliche

amministrazioni (ad esempio tra un cittadino e il comune per la definizione dell’importo di una imposta)

era esercitato anche nell’Italia unitaria dai c.d. tribunali del contenzioso, che erano organi

dell’amministrazione stessa (il Consiglio di Stato, la Corte dei conti per il contenzioso patrimoniale, a

livello di vertice, e a livello di base, i Consigli di prefettura, organismi collegiali presieduti dal Prefetto e

presenti in ogni provincia).

19 Con la creazione di alcuni enti pubblici, come la Cassa di Previdenza, nel 1898 (dal 1933 INPS), per l’erogazione delle prestazioni

previdenziali e pensionistiche ai lavoratori; l’Istituto Nazionale assicurazioni, ente pubblico per la gestione e l’erogazione delle assicurazioni

sulla vita. Nel 1903 fu statizzato l’erogazione dei servizi telefonici, nel 190 le ferrovie.

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

145

In origine, tutto le controversie nascenti da atti amministrativi erano esclusi alla cognizione del giudice

ordinario e rimesse ai tribunali del contenzioso, cioè all’amministrazione “giudice in causa propria”. Il

sindacato dei Tribunali del Contenzioso, però, era ridottissimo. Ne erano esclusi:

- gli atti regolamentari, che per il loro carattere normativo, generale, erano sostanzialmente

equiparati alla legge, e pertanto insindacabili;

- gli atti ‘discrezionali’, ossia tutti quegli atti individuali e concreti, rivolti cioè a singoli o

comunque a destinatari individuabili, il cui contenuto incorpora una valutazione, fatta nel caso

concreto dall’amministrazione circa il modo migliore con cui conseguire la soddisfazione

dell’interesse pubblico.

Questo significava considerare insindacabile sostanzialmente tutta l’attività dell’amministrazione.

Beninteso, essa poteva benignamente prendere in considerazione un reclamo dei singoli, e revocare o

modificare un atto in conseguenza di esso, e per questo esistevano i ricorsi gerarchici, con cui si poteva

chiede all’autorità superiore il riesame degli atti di una inferiore. In questi casi l’eventuale revoca o

modifica (riforma) dell’atto che ne derivasse, era frutto di una nuova valutazione discrezionale che

l’amministrazione faceva. I tribunali del contenzioso servivano a far riconoscere che l’amministrazione

doveva compiere, o non poteva compiere, un certo atto, in quelle sole ipotesi in cui il cittadino vantava

davanti ad essa una pretesa nascente dalla legge o da regolamento: (come quando si trattava di iscrivere i

nuovi nati nei registri delle nascite o concedere un avanzamento di carriera regolato dalla legge). In questi

casi, il tribunale del contenzioso accertava che l’amministrazione doveva rendere l’atto o il

provvedimento.

Dunque, il giudice ordinario non poteva in alcun conoscere l’attività amministrativa, e i tribunali del

contenzioso potevano conoscere solo l’attività vincolata. Siccome l’attività vincolata tende a

corrispondere ai casi in cui l’amministrazione agisce in carenza di potere, cioè non esercita un potere

discrezionale ma si limita ad eseguire una previsione di legge, ciò significava che tutta la sfera del potere

amministrativo, che è quella in cui l’amministrazione decide in modo discrezionale in che modo va

meglio soddisfatto, in un dato contesto, il pubblico interesse di cui è titolare, era sottratta a ogni forma di

sindacato.

Quando, all’atto dell’unificazione, si trattò di decidere se mantenere questo sistema ed estenderlo a tutta

l’Italia, o modificarlo, si era ormai oltre la metà del secolo. Nella cultura e nel dibattito istituzionale del

tempo era ormai del tutto esplosa l’insostenibilità di questa situazione. Intellettuali e uomini politici

facevano notare che l’assenza di giustizia nell’amministrazione rischiava di minare la credibilità di una

delle tesi di fondo su cui la legittimazione dello Stato liberale si basava, e cioè che esso aveva accentrato

in sé tutte le funzioni di cura del pubblico interesse, allo scopo di garantire ai singoli una sfera di pace, di

tranquillità, in cui svolgere indisturbati i propri affari. Ma se lo stato poteva agire al di fuori da ogni

controllo, non era fin troppo facile prevedere che esso potesse facilmente mettere a rischio la sfera dei

privati, il godimento dei loro diritti? Poteri amministrativi come l’esproprio per pubblica utilità, la

limitazione della libertà personale o di circolazione dei beni e delle persone avevano una evidente

incidenza su quei diritti, per non parlare delle mille forme in cui, con licenze, autorizzazioni o patenti,

l’amministrazione condizionava la possibilità dei singoli di svolgere le loro attività.

Dopo avere costruito, nel tornante tra assolutismo e rivoluzione, il pubblico potere, e dopo averlo istituito

come potere autonomo grazie alla sottrazione del suo operato alla conoscenza del giudice ordinario, la

prima metà dell’Ottocento aveva fatto i conti con le conseguenze di ciò, e gli intellettuali, i pensatori e i

giuristi elevano una pressante richiesta di controllabilità dell’azione amministrativa. E siccome controllare

un potere significa, in primo luogo e almeno, che le attribuzioni che esso può esercitare devono essere

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

146

previamente definite da qualche parte, l’esigenza di controllabilità era esigenza di legalità: si richiedeva in

primo luogo che i poteri che l’amministrazione poteva esercitare fossero tutti definiti da legge o

regolamento, onde potesse essere verificato se i singoli atti si erano attenuti ai poteri all’amministrazione

conferiti, laddove grazie alle prerogative dell’esecutivo una grande parte di essa non era oggetto di previa

norma. E si richiedeva, poi, che un giudice potesse svolgere questa verifica.

Quanto a quale giudice, le idee principali erano due. Da un lato vi fu chi sostenne (e uno di essi fu

Tocqueville) la tesi del giudice unico: bisognava abolire completamente l’esperienza dei tribunali del

contenzioso e attribuire al giudice ordinario la conoscenza completa sia delle controversie tra privati che

delle controversie tra privati e pubblica amministrazione. Trattare nel processo l’amministrazione come

un privato pareva a Tocqueville, e pareva a quelli che pensavano come lui, insieme a una delimitazione

dei compiti dell’amministrazione che la facesse convivere con un sistema articolato e ricco di autonomie

locali, l’unico sistema efficace per delimitare i compiti, i poteri, l’invadenza dell’amministrazione. Il

modello che Tocqueville, e i sostenitori del giudice unico, tenevano presente, era quello anglosassone. Ma

se l’Inghilterra e gli Stati Unici non conoscevano il giudice speciale per l’amministrazione, né nel modo

più lontano l’idea (dalla quale la Francia e gli stati che ne hanno preso le movenze sono partiti) che gli atti

dell’amministrazione potessero addirittura essere sottratti a qualunque giudice, era perché in quei sistemi

la svolta assolutistica, e la conseguente costruzione dell’amministrazione come titolare del pubblico

interesse e della sua realizzazione, non erano avvenuti. Invece:

“In Europa lo Stato c’era: nel continente, le soluzioni per la giustizia dell’amministrazione andranno

nel senso di mediare le esigenze di libertà del cittadino e indipendenza del giudice con la libertà e

l’indipendenza dell’amministrazione”20

.

Vi era infatti l’altra tesi, che fu quella vincente in Francia e in Italia: l’idea di creare per

l’amministrazione un giudice speciale, che applicasse nei suoi confronti un diritto a sua volta speciale,

capace di tener in considerazione la particolarità della posizione e dei poteri dell’amministrazione stessa.

In altri termini, l’esigenza di legalità “avanzò insieme all’esigenza di specialità” (come scrivono Mannori

e Sordi): nella dottrina dell’epoca si fa ampiamente strada la convinzione che il controllo giurisdizionale

cui l’amministrazione deve essere soggetta non può che essere un controllo che tiene conto della

particolare natura dell’amministrazione, che è il soggetto incaricato di tutelare l’interesse pubblico. Un

soggetto diverso dai singoli cittadini, dai privati, e dunque che non può essere sottoposto alla stessa forma

di giustizia che vale per loro: a quella forma di giustizia, cioè, che presuppone la parità tra le parti, che si

basa sul principio del risarcimento del danno dovuto a inadempimento contrattuale o a comportamento

doloso o colposo che abbia leso il diritto di altri, e sull’obbligo, per chiunque voglia far valere una pretesa

in giudizio, di dimostrare i motivi che pone a fondamento di quella pretesa.

La strada del giudice speciale era stata subito imboccata dalla Francia nel 1814-1830. Quanto a noi, il

tratto singolare della storia della giustizia amministrativa in Italia è che in prima battuta, e tutto sommato

solo apparentemente, fu scelto il sistema del giudice unico.

La grande di unificazione amministrativa, la n. 2248 del 1865, recava nel suo allegato E la abolizione del

contenzioso amministrativo, denunciato nei dibattiti parlamentari come ‘maschera di giustizia’ e

‘istrumento di dispotismo’.

Il nuovo principio introdotto era che

20 Mannori e Sordi, Storia del diritto amministrativo, cit., p. 329.

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

147

Tutte le materie nelle quali si faccia questione di un diritto civile o politico comunque vi possa essere

interessata la pubblica amministrazione e ancorché siano emanati provvedimenti del potere esecutivo e

della autorità amministrativa sono devolute al giudice ordinario

Gli ‘altri affari’ sono affidati a forme di tutela interna all’amministrazione

Apparentemente, si trattava dell’introduzione del giudice unico. In realtà, la legge del 1865 cambiò

pochissimo rispetto al passato. I tribunali civili si limitarono ad assumere quelle che erano le competenze

dei tribunali del contenzioso, perché per ‘materia nelle quale si faccia questione di un diritto civile e

politico’ si intesero le materie nelle quali l’amministrazione agiva in modo vincolato, in assenza di

potere. Tutto il resto, tutti i casi in cui l’amministrazione emette un atto discrezionale, emana un

regolamento, esercita il pubblico potere, ricadevano negli ‘altri affari’ per essere ‘giudicati’ da organi

interni all’amministrazione , e cioè dalla stessa amministrazione ‘giudice in causa propria’21

.

Il fatto era che la tensione verso il giudice unico era impossibile da soddisfare perché l’unificazione del

paese si era affidata a una scelta accentratrice che esaltava la libertà e l’indipendenza

dell’amministrazione22

. Il potere che doveva unificare il paese, addomesticarlo alle leggi e alle autorità

nuove, indirizzarlo ai nuovi costumi, non poteva essere ‘intralciato’ dalla giustizia. E che questo non

dovesse accadere nessuno poteva comprenderlo meglio dei giudici ordinari del Regno, i quali, privi di

indipendenza e soggetti al controllo del Governo, abituati anch’essi a concepirsi come una branca

dell’amministrazione – torneremo a dirlo anche successivamente - non potevano trovare dentro di sé

alcuna spinta, alcuna energia che li guidasse ad ampliare la malcerta sfera di cognizione che l’all. E aveva

loro affidato. L’allegato E può senz’altro essere ascritto alla categoria delle leggi “di facciata”: si

proclamava di avere dato al giudice ordinario la cognizione sugli atti amministrativi, di avere ampliato la

sfera di tutela del cittadino, di essere andati nella direzione della legalità, e in realtà non si cambiava

niente, e si sapeva anche di non correre alcun rischio, ben conoscendo il governo la sua magistratura, e

potendo del resto controllarla a piacimento.

Quello che in realtà l’allegato E istituiva, di duraturo, era il sistema del riparto tra giurisdizioni, del quale

conteneva lo scheletro, e che resterà caratteristico del nostro paese; cioè il metodo di ripartire la sugli atti

amministrativi tra giudice ordinario e giudice amministrativo, anziché affidarla o tutta all’uno o tutta

all’altro giudice. Questo ‘riparto’ si annunciava nell’allegato E laddove esso introduceva il criterio per cui

spettano al giudice ordinario le (poche) ipotesi in cui l’amministrazione ha davanti a sé dei diritti; al

Consiglio di Stato tutto il resto. Infatti, il vertice cui giungevano i ricorsi amministrativi gerarchici sugli

‘altri affari’ era appunto l’organo di consulenza giuridico amministrativa, composto sin da epoca

piemontese dai grandi consiglieri giuridici del re e del suo governo. Si trattava solo di riempire un poco lo

scheletro e dare un nome agli ‘altri affari’, per ottenere la giustizia amministrativa quale la conosciamo in

Italia. Questo passo fu fatto nel 1889, quando il (mai istituito) sistema del giudice unico fu ‘abbandonato’

e le materie prima rimesse al Governo e alla Pubblica amministrazione (e cioè al Consiglio di Stato)

vennero affidate a un nuovo giudice. Questo giudice fu una nuova sezione, la IV, detta giurisdizionale, del

21 Facendo diventare normali le più scandalose ingerenze del governo nella vita amministrativa. “In un Comune, in occasione della

rinnovazione di un quinto dei consiglieri, nacquero contestazioni, davanti al seggio elettorale; questo, secondo che gliene dà facoltà la legge,

decise e proclamò il risultamento dello scrutinio. Fu portato il ricorso al consiglio comunale, e confermò il giudizio del seggio. Fu ricorso in

appello, e la deputazione provinciale fu di avviso conforme. La denunzia fu recata al re in Consiglio di Stato, il quale trovò giusto il

pronunciamento del seggio elettorale, del consiglio comunale, della deputazione provinciale. Nonostante questi quattro opinamenti concordi,

il ministro dell’interno annullò lo scrutinio, introducendo piuttosto uno anziché un altro cittadino nel consiglio comunale.” M. Minghetti, I

partiti politici, cit.

22 ) L. Mannori e B. Sordi, Storia del diritto amministrativo, cit., p. 133.

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

148

Consiglio di Stato, che ancora oggi rappresenta l’organo supremo di giustizia amministrativa in Italia e

che ebbe allora, come organi di giustizia di primo grado, le Giunte provinciali amministrative (mentre ora

ha i Tribunali amministrativi regionali).

Alla IV Sezione, Giurisdizionale, del Consiglio di Stato, vennero con la legge del 1889 affidate tutte le

controversie tra privati e PA (“l’autorità”, come si esprimeva la legge) fino ad allora devolute al giudice

ordinario, vale a dire “I ricorsi per incompetenza, eccesso di potere, violazione di legge contro atti e

provvedimenti che abbiano per oggetto un interesse di individui o di enti morali e giuridici quando i

ricorsi medesimi non siano di competenza dell’Autorità giudiziaria e non si tratti di materia spettante alla

giurisdizione contenziosa”23

.

Veniva così completato il sistema di giustizia amministrativa che sarebbe giunto fino a noi, dove il riparto

di giurisdizioni avviene sulla base delle situazioni soggettive di cui il privato è titolare. Quando, davanti

all’amministrazione, il privato ha un diritto, è competente il giudice ordinario; quando, davanti

all’amministrazione, il privato ha un interesse, è competente il giudice amministrativo.

L’interesse legittimo

Si restava sempre al punto di partenza, ai tribunali del contenzioso, alle concezioni che avevano

accompagnato il sorgere stesso dell’amministrazione con l’assolutismo: l’amministrazione può essere

portata davanti al giudice ordinario solo quando agisce in carenza di potere, quando non esercita i suoi

peculiari poteri. Infatti, questa nuova figura, l’interesse legittimo (che esiste solo nel diritto italiano), che

cosa era? Era, cominciò a insegnare nella sua giurisprudenza il Consiglio di Stato, con l’accordo della

Cassazione e col supporto della dottrina del tempo, la situazione di cui il privato rimane titolare dopo che

un suo diritto è stato degradato, o affievolito, da un atto discrezionale della pubblica amministrazione. In

altri termini, si cominciò ad avere una giustizia amministrativa sul presupposto che, siccome

l’amministrazione gode di potere discrezionale, persegue il pubblico interesse, e per perseguirlo non può

non agire unilateralmente e autoritativamente, stabilendo il modo in cui l’interesse pubblico nei casi

concreti va soddisfatto, ogni situazione giuridica dei privati in linea di principio non può non poter cedere

davanti al potere amministrativo. Se la autorità decide un esproprio, la proprietà privata ‘degrada’ a

interesse, ed ecco che insorge la competenza del giudice amministrativo.

Oppure si usava un’altra definizione: l’interesse legittimo è la situazione in cui il privato si trova davanti

alla pubblica amministrazione quando le chiede un provvedimento che non ha il diritto di ottenere, perché

alla sua emanazione in un senso o in un altro presiede un interesse pubblico, che l’amministrazione valuta

discrezionalmente. E’ la situazione in cui si trova chi chiede una autorizzazione, licenza, patente,

necessaria per svolgere una attività commerciale o professionale o industriale o agricola: non ha diritto a

ottenerla, perché l’amministrazione deve valutare se la sua richiesta corrisponde o meno all’interesse

pubblico; ha solo un interesse legittimo a che la sua richiesta sia presa in considerazione e valutata.

Ecco perché si dice che la giustizia amministrativa in Italia nasce sul presupposto della specialità

dell’amministrazione, e corrobora al rafforzamento di questa specialità, di questa natura derogatoria,

rispetto al diritto che vale per i privati, dei suoi poteri e delle sue responsabilità.

23 Al Consiglio di Stato veniva affidata anche una cognizione detta “esclusiva” in cui, su particolari materie, poteva (e può, sebbene si tratti

di un ambito rimasto recessivo) conoscere anche dei diritti soggettivi. Insomma, sotto sotto il giudice unico c’era, ma era il giudice

amministrativo.

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

149

L’interesse legittimo, inoltre, secondo un principio che si affermò subito per cadere solo nel 1995 grazie a

una importante sentenza della Corte di Cassazione) non è risarcibile: se si accerta che l’atto

amministrativo è viziato, nessun risarcimento è dovuto al privato (per esempio, per non aver potuto

realizzare i guadagni, che avrebbe realizzato se l’autorizzazione ad aprire il suo pubblico esercizio non gli

fosse stata illegittimamente negata).

Ciò a cui la posizione di interesse legittimo abilita il privato è soltanto a sollevare un ricorso, nel quale si

fa valere un vizio dell’atto amministrativo, e tramite il quale si può ottenere l’annullamento dell’atto.

Certo, in alcuni casi l’annullamento dell’atto può essere un risultato utile per il privato, ma in molti casi il

privato si lamenta non tanto perché aveva interesse all’annullamento, ma a un atto di diverso contenuto.

Questa è una esigenza che non è possibile far valere, perché il contenuto degli atti amministrativi

appartiene alla sfera insindacabile dell’amministrazione.

Per spiegare la titolarità in capo al privato di una posizione soggettiva che gli dava azione in giudizio per

ottenere, in molti casi, niente, la dottrina teorizzò che l’interesse legittimo era da concepirsi come un

interesse necessariamente coordinato all’interesse generale. Vi è interesse a che l’amministrazione agisca

secondo la legge, legalmente; bene, il privato può, facendo valere il suo interesse legittimo, azionare i

meccanismi di controllo che sono preposti alla verifica del rispetto di questo interesse. Era l’esplicita

ammissione che, anziché ricevere tutela e riconoscimento come tale, l’interesse privato veniva subordinato

all’interesse pubblico.

Il processo amministrativo

La legge del 1889, venivano anche contornati i caratteri del processo amministrativo:

- come processo di sola legittimità, che ha ad oggetto l’atto emanato dall’amministrazione, non il

rapporto sottostante, cioè non tiene in alcun modo conto di come in concreto si atteggi la posizione

del privato, degli elementi di fatto che possono far apprezzare la portata dell’atto nei suoi specifici

confronti, tanto meno della ragionevolezza dell’apprezzamento discrezionale fatto

dall’amministrazione in rapporto alle concrete circostanze;

- e come processo puramente demolitorio, perché può giungere all’annullamento dell’atto, non alla

sua riforma o modifica.

I vizi dell’atto amministrativo

La natura e l’estensione cognizione del giudice amministrativo sull’atto veniva tratteggiata nella legge del

1889 dai tipi di vizi che l’atto poteva soffrire:

- incompetenza (è il vizio dell’atto emanato da autorità diversa da quella che la legge o il

regolamento autorizzano);

- violazione di legge (è il vizio dell’atto emanato senza rispetto di norme di procedimento inerenti

l’adozione dell’atto, per es., mancata acquisizione di pareri obbligatori);

- eccesso di potere (è il vizio dell’atto che è stato adottato non in vista del fine pubblico che

l’amministrazione è incaricata di curare, ma in vista di altro fine. Poiché il sindacato non può però

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

150

estendersi al merito dell’atto, ossia alla valutazione discrezionale che esso contiene, l’eccesso di

potere è dedotto da elementi sintomatici, esterni al merito, che possono rivelare, segnalare, lo

sviamento di potere. Gli esempi più immediati di ‘sintomo’ di eccesso di potere sono la carenza

contraddittorietà o illogicità della motivazione dell’atto; e poiché l’obbligo generalizzato di

motivazione degli atti amministrativi è stato introdotto solo nel 1990, si può comprendere che

prima di allora l’eccesso di potere abbia avuto una portata piuttosto limitata)24

.

Il provvedimento amministrativo

La giustizia amministrativa, costruita intorno all’atto, è stata anche l’ambito in cui si sono

progressivamente definite le caratteristiche specifiche e distintive dell’atto amministrativo. Attraverso

questo lavoro, l’amministrazione è stata dotata di un suo tipico modo di manifestazione: il legislatore fa la

legge, il giudice la sentenza, l’amministrazione il provvedimento, i cui caratteri sono la unilateralità,

esecutorietà, imperatività e la sindacabilità solo per vizi di legittimità.

- Il provvedimento è un atto unilaterale, perché l’amministrazione lo adotta senza bisogno del

consenso dell’interessato, e qualche volta anche contro la sua volontà (si pensi a una multa, o al

provvedimento di diniego) e questo lo differenzia dal contratto.

- Il provvedimento è un atto esecutorio perché, per portarlo a esecuzione, la pubblica

amministrazione non deve rivolgersi al giudice (come deve fare invece fare il privato25

) ma può

farlo direttamente: la multa inevasa diventa una cartella esattoriale in seguito al cui inadempimento

la pubblica amministrazione può eseguire il pignoramento.

- Il provvedimento è un atto discrezionale, perché nel decidere se adottarlo o meno, e con quale

contenuto, la pubblica amministrazione deve compiere una valutazione inerente al modo migliore

24 Come vedremo a suo tempo il metodo del riparto tra le giurisdizioni basato sulle situazioni giuridiche soggettive, di diritto o interesse, di

cui il privato è portatore ha caratterizzato anche larghissima parte dell’esperienza repubblicana, per essere progressivamente affiancato, e

oggi si può dire sostituito, da un criterio di riparto per blocchi di materie, che cioè individua la competenza del giudice ordinario o del giudice

amministrativo a seconda della materia considerata o della provenienza dell’atto (pubblico impiego, contratti e appalti, atti delle autorità

indipendenti, atti delle amministrazioni pubbliche), all’interno delle quali il giudice conosce i diritti, se è giudice ordinario, gli interessi, se è

giudice amministrativo, e restando sempre il giudizio amministrativo un giudizio di mera legittimità e a carattere demolitorio, ma dove il

criterio per scegliere le materie da affidare alla conoscenza del giudice amministrativo non è più fatto consistere nell’interesse legittimo, ma

nel carattere delle materie (venendo assegnate, almeno in linea di tendenza, al giudice amministrativo quelle in cui la PA esercita poteri

pubblici di tipo autoritativo, e al giudice ordinario quelle in cui essa agisce in moduli contrattuali di tipo privatistico). E’ innegabile peraltro

che la nuova concezione ha sicuramente contribuito al maturare, nel giudice amministrativo, di una maggiore alterità rispetto alla pubblica

amministrazione, non mancando numerosi esempi di decisioni in cui il giudice amministrativo, specialmente di primo grado, si mostra assai

poco deferente verso l’amministrazione. Se il giudice amministrativo ha sicuramente guadagnato una certa indipendenza culturale, di

mentalità e di giudizio, anche grazie all’impegno teorico di una parte, peraltro non maggioritaria, della dottrina amministrativistica, resta il

gravissimo problema della sua insufficiente indipendenza organizzativa e funzionale, particolarmente debole nel caso del Consiglio di Stato

(oltre a essere nominato in parte dal Governo, il Consiglio di Stato può trovarsi a giudicare su atti il cui testo, come avviene per i regolamenti

del governo, ha esso stesso stilato; o su provvedimenti di Ministri, dei quali i consiglieri sono stati consulenti fino al giorno prima). Nel fatto

che nel nostro paese le discussioni sulla indipendenza, correttezza e professionalità della magistratura ordinaria siano quotidiane, mentre la

limitata indipendenza del giudice amministrativo sia un problema denunciato solo da un drappello di esperti, può essere visto un effetto di

lungo periodo della separazione, dell’isolamento che, anche rispetto all’opinione pubblica e ai suoi dibattiti, la ‘specialità’

dell’amministrazione e della sua giustizia hanno significato in Italia.

25 Quando un privato ottiene una sentenza che gli riconosce il diritto di ricevere da altri il pagamento di somme o l’esecuzione di opere, ma

poi questa sentenza resta ineseguita, per ottenere l’adempimento forzoso deve rivolgersi un’altra volta al giudice, far accertare

l’inadempimento, e ottenere una sentenza esecutiva che lo autorizza ad apprendere quelle somme o imporre quelle opere, tramite gli ufficiali

della pubblica amministrazione-

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

151

di soddisfare l’interesse pubblico che, con il potere di rilasciare quel provvedimento, le è stato

affidato.

- Il provvedimento può essere sindacato solo per vizi di legittimità (incompetenza, violazione di

legge, eccesso di potere).

Assicurare alla amministrazione un suo giudice, ad essa molto simile e completamente compreso nel

compito di proteggerne la specialità, ha significato approfondire quella condizione, per cui l’interesse

pubblico ha un soggetto deputato a valutarlo, soggetto che è diverso dalla comunità dei cittadini, segue

regole diverse, ha una responsabilità diversa, è legittimato, per difendere i suoi atti, ad usare argomenti e

modelli di ragionamento del tutto diversi da quelli che si usano tra i comuni cittadini. Questo ha creato un

certo solco tra il senso comune e la razionalità amministrativa (che è quello che rileviamo, per esempio,

tutte le volte in cui ci chiediamo come mai certi lavori pubblici vengono svolti in un certo modo anziché

in uno che sembra più rispondente ai bisogni della gente comune, o ci interroghiamo sui motivi di questa o

quella scelta dell’amministrazione) è il vero elemento di specialità che si mantiene nel tempo, pur nel

cambiare delle sue forme d’azione (oggi l’amministrazione preferisce moduli contrattuali e privatistici a

quelli autoritativi, peraltro sempre esistenti) e delle sue modalità organizzative.

.

La definizione del lessico specialistico del diritto pubblico

Con la costruzione dello stato-pubblica amministrazione l’Ottocento costruisce un lessico di diritto

pubblico, che descrive la macchina statale e le sue componenti essenziali. Poiché questo lessico è ancora

in uso, è bene prendere confidenza con esso, rimettendo qui in ordine una serie di nozioni, alcune delle

quali abbiamo via via incontrato nel nostro percorso.

Centrali sono intanto il concetto di ‘soggetto di diritto’, quello di capacità giuridica e d’agire, e di

personalità giuridica. Come soggetto di diritto si designano:

- Le persone fisiche e le persone giuridiche private nonché le associazioni e altre formazioni sociali

anche prive di personalità giuridica.

- Le persone giuridiche pubbliche territoriali (enti territoriali), altri enti pubblici e forme

organizzative dell’apparato pubblico territoriale.

Le persone fisiche sono gli esseri umani. Ognuno, fin dal momento della nascita, acquista la capacità

giuridica, cioè la capacità di essere titolare di diritti e doveri (diritto alla vita, diritti ereditari) e, a partire

da una certa età (la maggiore età e in casi stabiliti una età inferiore), la capacità d’agire, che è la capacità

di compiere atti aventi conseguenze nel mondo giuridico, atti che, per ciò, sono detti ‘atti giuridici’

(conseguenze nel mondo giuridico sono per esempio: il sorgere di una obbligazione: stipulando il

contratto di acquisto di un immobile le due parti si obbligano l’una a cedere il bene l’altra a corrispondere

il prezzo).

Le persone giuridiche sono complessi di beni, risorse economiche e persone fisiche che, ai fini giuridici,

sono considerati come una sola entità (es. una società per azioni, o una fondazione). Esse si distinguono in

persone giuridiche private sono quelle persone giuridiche che hanno una capacità giuridica e di agire

analoga a quella delle persone fisiche (anche se non identica perché, per esempio, le persone giuridiche

non possono compiere quegli atti che presuppongono l’esistenza fisica, come il matrimonio), e in persone

giuridiche pubbliche- Anche queste ultime sono complessi organizzati di beni, risorse e personale,

unificati intorno a una missione, e si differenziano dalle persone private, perché mentre queste ultime

hanno solo la capacità di agire di diritto privato, che consiste nella capacità di porre in essere atti volontari

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

152

che, se hanno influenza sulla sfera giuridica altrui, richiedono il consenso di quest’ultimo (contratto), le

persone giuridiche pubbliche hanno anche la capacità di diritto pubblico, che consiste nel potere di porre

in essere atti unilaterali, ovverosia che non hanno bisogno del consenso degli interessati per essere

efficaci nei loro confronti, come è il caso delle leggi e altri atti normativi, del provvedimento

amministrativo e della sentenza giudiziaria.

Le persone giuridiche pubbliche si distinguono in

- Territoriali: lo Stato, e gli enti locali. Lo Stato è l’ente pubblico territoriale maggiore e lo si

descrive come il titolare della sovranità su un certo territorio e nei confronti di un popolo.

L’ambito spaziale della sovranità è definito dai confini (terrestri marittimi ed aerei); l’ambito

personale dalla cittadinanza (lo stato ha la sovranità nei confronti di coloro che ne sono cittadini).

Le persone giuridiche pubbliche ‘territoriali’ sono quelle che vedono il campo della loro

competenza definito da certi ambiti territoriali o personali.

- Non territoriali. Per lo svolgimento delle loro attività gli enti pubblici territoriali possono dare vita

a altre organizzazioni, dotate o meno di personalità giuridica. Se hanno personalità giuridica queste

organizzazioni vengono designate come enti pubblici. Gli enti pubblici possono avere poteri

normativi ed esecutivi nei limiti in cui lo Stato o l’ente pubblico territoriale di riferimento (nel caso

di enti pubblici creati da un ente locale) li deleghi loro. L’ente pubblico può essere, e spesso ha

avuto, una missione di tipo economico: ente per la costruzione delle strade e autostrade; ente poste;

ente ferrovie, ente energia elettrica, ente telecomunicazioni. L’ente è una figura autonoma rispetto

al Ministero, ha un bilancio distinto, propri organi, ma è raccordato al Governo in vari modi: dalla

composizione degli organi direttivi, di nomina ministeriale, dai regolamenti e leggi che specificano

finalità e poteri dell’ente; dagli atti di indirizzo ad esso rivolti dal Governo o dal Ministero

competente per materia; dagli stanziamenti di bilancio pubblico che vanno a comporre le risorse

materiali dell’ente. Grazie a questi raccordi, l’ente pubblico, pur godendo di autonomia

organizzativa, è collocato nell’orbita dell’indirizzo politico, e il Ministro è responsabile della sua

azione. Analoghe considerazioni possono valere per la figura dell’ azienda autonoma, utilizzata a

livello locale.

Ente è dunque il termine con cui si indica ogni una persona giuridica (privata o pubblica, territoriale o non

territoriale). Gli enti agiscono per mezzo di organi, ovverosia di persone o apparati che le rappresentano.

Organi di una persona giuridica privata società per azioni sono il consiglio di amministrazione,

l’assemblea degli azionisti, l’amministratore delegato. Organi dello Stato sono il Parlamento, che esprime

la volontà legislativa, il Governo, titolare del potere esecutivo, la Magistratura, che esercita la funzione

giurisdizionale. Il rapporto tra l’organo e l’ente è un rapporto di immedesimazione: l’atto compiuto

dall’organo si imputa all’ente cui appartiene.

3.La magistratura

L’attività giurisdizionale come mera applicazione della legge

Nel periodo liberale la giurisdizione (e ci riferiamo qui alla giurisdizione ordinaria, civile e penale) è

concepita come una forma di esecuzione della legge, cioè una attività analoga a quella amministrativa ma

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

153

dotata di minore discrezionalità, consistendo nell’applicazione della legge ai casi concreti, cioè nella

specificazione, con riferimento a un singolo caso, delle previsioni e delle conseguenze fissate in generale

dalla legge per quel tipo di caso. Accentuare la somiglianza tra amministrazione e giurisdizione è andato

per più profili a discapito della indipendenza della magistratura, che ha visto fortemente ridotta sia la sua

indipendenza o autonomia di giudizio e di valutazione, sia la sua indipendenza organizzativa.

Lo statuto definiva la magistratura un ‘ordine’ e non un potere (come facevano altre costituzioni del

tempo, in particolare quella belga del 1830) a differenza del legislativo e dell’esecutivo, con il che la

magistratura veniva riguardata come consistente nel complesso dei giudici, che compongono una parte

dell’organismo statuale, e non dal punto di vista della funzione autonoma che i giudici adempiono

nell’organismo statuale (Allegretti, Profilo, cit., p. 487). Oltre a dire che la giustizia ‘emana dal re’ ed è

‘amministrata in suo nome dai giudici che egli istituisce’, lo statuto sminuiva l’indipendenza e

l’autonomia del giudiziario come potere, in particolare assegnando al re la nomina dei giudici, e cioè

consegnando al governo l’intero loro status (carriera, promozioni, destinazione, revoca, assegnazioni).

Interpreti liberali come Racioppi e Brunelli si sforzarono invano di dimostrare che la formula ‘la giustizia

è amministrata in nome del re’ non significava che essa poteva essere esercitata per comando o a norma

del re, come le funzioni esecutive; le norme dello statuto recavano una accezione restrittiva della

magistratura, che ne escludeva l’autonomia di giudizio, e come tali vennero intese e applicate.

Lo statuto, e il modo in cui venne applicato, le ferite che furono inferte all’autonomia del potere

giudiziario e alle connesse garanzie dei cittadini, erano

“espressione della tradizione giudiziaria piemontese. Prima nello Statuto non esisteva nel regno sabaudo

una tradizione di indipendenza sia pur formale della magistratura dalla monarchia e dal potere esecutivo:

le nomine avvenivano in base a criteri del tutto arbitrari del governo, non esisteva una progressione di

carriera garantita o prevedibile, i giudici erano sempre revocabili da parte del sovrano, gli stipendi,

bassissimi, potevano essere dai magistrati integrati esercitando l’avvocatura”26

.

In attuazione dello statuto, con la legge Rattazzi, n. 3781 del 1859, lo status della magistratura italiana

venne unificato intorno alla tradizione assolutistica piemontese:

“si lasciarono così cadere quelle maggiori garanzie della funzione giudiziaria che provenivano dalle

legislazioni lombardo-venete, toscana e napoletana (dalle quali molte procedure riguardanti lo status dei

magistrati erano affidate allo stesso ordine giudiziario, e che, particolarmente quella napoletana, erano

più complete ed efficienti) e non mancarono infatti polemiche, in varie regioni, all’atto dell’estensione

degli ordinamenti più arretrati del Piemonte”27

(Allegretti, p. 490).

Secondo Allegretti, ricorre nel caso della magistratura quanto avvenuto nel caso dell’autonomia locale,

dell’amministrazione, delle libertà fondamentali e della disciplina dell’economia: ossia il primato del

governo sulle istituzioni italiane, e questo anche a causa della imperfetta transizione alla forma di governo

parlamentare, per cui il governo non fa che acquistare poteri, anche poteri che sarebbero spettati al re, ma

26 U. Allegretti, cit., p. 489, che riferisce da Tranfaglia, 1978, e D’Addio, 1966.

27 Non a caso, osserva nel 1890 Francesco Saverio Merlino: “i magistrati napoletani conservati nel nuovo ordinamento sono stati di fatto, non

fosse che per reazione, i più indipendenti. La Corte di Cassazione di Napoli ha respinto a lungo le più esorbitanti pretese fiscali, ed è per

aggirare tale difficoltà che è stata istituita a Roma la sezione fiscale, possiamo chiamarla così, della Corte di Cassazione, e che sono state

recentemente soppresse le sezioni di Corte d’Assise di Napoli, Palermo, Firenze e Torino ed è stata concentrata la direzione della giustizia

penale in una Corte unica di Cassazione penale a Roma. Gli uomini del potere sono posseduti dalla mania della centralizzazione: vorrebbero

stringere l’intera nazione in pugno” (F.S. Merlino, L’Italia qual è, p. 142).

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

154

il re non diventa mai organo di garanzia del corretto funzionamento degli altri poteri dello Stato,

controllore del governo nell’uso spesso scorretto delle competenze da esso guadagnate (Allegretti, p. 490).

In sostanza, durante lo Statuto la convinzione di fondo fu sempre che “il magistrato non è che un delegato

del potere esecutivo, il potere giudiziario non è che una funzione del governo, a lui spetta bensì il

mantenimento dell’ordine e della giustizia ma lo spirito che lo informa è o deve essere quello del

governo” (Brunialti, 1870, citato da Allegretti, p. 491, il quale a sua volta afferma che durante lo stato

liberale la magistratura aderì “a un ruolo che può definirsi, anche se non in maniera esclusiva, di custode

dell’autoritarismo dell’ordinamento, autoritarismo del quale, per suo conto, il governo era la massima

espressione sul piano politico e istituzionale” (Allegretti, Profilo, cit., p. 496).

La mancanza di indipendenza organizzativa della magistratura ordinaria

La giurisdizione è preposta all’organica attuazione della sovranità dello Stato, in antitesi alla

suddivisione delle giurisdizioni, che, parallela al frazionamento della sovranità, costituì una delle

caratteristiche dello Stato feudale28

.

Avendo concepito la magistratura come una branca della amministrazione (l’amministrazione della

giustizia), lo stato unitario la organizzò come un corpo gerarchicamente strutturato e dipendente dal

Ministro di Grazia e Giustizia, e tramite esso dal Governo. Non diversamente dagli altri funzionari, i

magistrati erano esposti a valutazioni del potere esecutivo, ossia del potere politico, quando si trattava

degli avanzamenti di carriera; e soprattutto quando si trattava dei trasferimenti, che venivano usati come

premio per magistrati fedeli, o punizione per quelli i cui orientamenti non erano graditi al governo. Nel

1873, un decreto governativo29

cercò di porre ordine nella situazione stabilendo che promozioni, nomine e

trasmutamenti, cioè i cambiamenti di sede, potessero essere fatti dal Ministro solo su proposta di una

commissione scelta dalla magistratura stessa, e che in caso di trasferimento di un magistrato senza il suo

consenso, l’interessato dovesse essere sentito. Ma nel 1878 questa previsione venne abrogata, in quanto

ostacolava il ‘celere e retto andamento dell’amministrazione della giustizia’ e ritardava la unificazione

della magistratura, per affrettare la quale occorreva la ‘balia del ministro’. Così “ad un tratto in sei mesi

furono tramutati 122 magistrati, anzi 211 se si contano quelli che furono promossi” 30

.

Ancora nel 1913, si poteva scrivere:

“Il Governo può agire sui magistrati sia per mezzo delle nomine, sia per mezzo delle promozioni,

sia per mezzo dei trasferimenti, sia con le punizioni vere e proprie. Ma più che con le nomine e i

28 V.E. Orlando, Principi di diritto costituzionale, cit., p. 211.

29 Decreto Vigliani, n. 1515 del 1873, che fu l’unico, temporaneo sbocco di alcuni tentativi di riforma della legge Rattazzi, suscitati da

manifestazioni di sdegno nei suoi confronti sollevate da una parte dell’opinione, che pur non mancarono (secondo Musio, Sul riordinamento

giudiziario, Ancona, 1862, ‘l’attuale legge giudiziaria è fatta … colla necessaria conseguenza di darci magistrati servi’). Allegretti, ci, p. 493,

da cui anche la citazione di Musio, osserva d’altro canto che il decreto Vigliani “con la sua natura regolamentare ribadiva che il governo era

dominus dello status dei magistrati come dei pubblici ufficiali”.

30 M. Minghetti, I partiti politici, cit. p. 134, che poi commenta: “Io non pongo in dubbio le buone intenzioni del Ministro, ma è certo che fu

un momento nel quale la magistratura perse quella sicurezza che è la migliore guarentigia della sua indipendenza. Gli animi anche degli

onesti ne furono commossi, gli uomini fiacchi di carattere irruppero nella servilità. Anche Mirabelli nel suo libro notava che il prestigio

dell’ordine giudiziario era stato mortalmente ferito, ‘né può ritornare al suo stato sano e vigoroso senza togliere di mezzo le cagioni del

male’. Imperocché quando la indebita ingerenza della politica nella giustizia si fa sentire, i magistrati come tutti gli altri impiegati dello

stato van ricercando il loro patrono, del quale diventano satelliti, e lo spirito di clientela soppianta il dovere dell’ufficio”.

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

155

trasferimenti, i magistrati possono essere minacciati nella loro indipendenza dai trasferimenti, che

sono spesso vere e proprie punizioni, e più pericolosi delle punizioni manifestamente inflitte, perché

mentre queste possono trovare una eco nella pubblica opinione, i trasferimenti o possono passare

inosservati, o possono più agevolmente giustificarsi con ragioni di servizio e di opportunità, o

magari anche di promozione”.31

L’inamovibilità della magistratura garantita dallo statuto fu intesa perciò, durante sostanzialmente tutto il

periodo liberale, come limitata al grado e allo stipendio, non alla sede. Soltanto nel 1908, con una riforma

introdotta da V.E. Orlando guardasigilli di Giolitti, il concetto di inamovibilità viene esteso anche alla

sede, ma per i pretori solo nel 1912; venne inoltre istituito, per l’amministrazione delle carriere dei

magistrati, un Consiglio superiore, con funzioni consultive, composto peraltro di soli magistrati di grado

elevato, almeno fino al 1921, in cui il consiglio assunse, per metà, una funzione interamente

rappresentativa di tutta la magistratura (Allegretti p. 495).

La dipendenza dal Governo degli uffici del pubblico ministero

Un altro carattere della organizzazione giudiziaria che incideva negativamente sulla indipendenza dei

magistrati dal Governo era la organizzazione degli uffici del pubblico ministero, a quell’epoca considerati

non una parte della magistratura, ma diretta espressione del governo. Osservava Miceli:

“La disposizione del decreto legislativo n. 2626 del 1865 dichiara che il pubblico ministero ‘è il

rappresentante del potere esecutivo presso l’autorità giudiziaria’. E’ vero che questa espressione può

essere interpretata in un significato liberale, sostenendo che con essa il legislatore non abbia voluto

accennare ad altro che alla principale e fondamentale funzione di quest’organo, che è quella di

promuovere la repressione dei reati, ma in pratica non è stato sempre questo il significato che le si è

attribuito”.

Il pubblico ministero era ed è l’organo che ‘promuove l’azione penale’, cioè, ricevuta notizia di un reato,

svolge insieme alla polizia le prime indagini, e poi, a seconda degli esiti di queste ultime, solleva l’azione,

cioè apre un processo contro qualcuno. A differenza del processo in materia civile (contratti, famiglia,

lavoro) in cui è la persona privata che si ritiene lesa in un suo diritto ad aprire il processo, il processo

penale è sempre iniziato32

da una azione pubblica, perché, in quanto titolare della funzione d’ordine

pubblico, è lo stato la persona offesa da ogni reato, e, in quanto monopolista dell’uso legittimo della forza,

è l’unico titolare della potestà punitiva33

. Così lo stato avvia i processi penali tramite il pubblico

ministero, che poi vi rappresenta la ‘pubblica accusa’.

La dipendenza del pubblico ministero dal Governo aveva per effetto che l’azione penale fosse esercitata, o

non esercitata, secondo le convenienze, e spesso le implicite indicazioni, del Governo; affidava al

pubblico ministero il potere di decidere promozioni e trasferimenti della magistratura giudicante, e di

iniziare l’azione disciplinare (Allegretti, p. 491) con evidenti effetti di condizionamento sul merito delle

31 Diritto costituzionale, cit., p. 924.

32 Ad eccezione delle limitate ipotesi di ‘querela di parte’, in cui l’apertura del processo penale è rimessa alla volontà della persona offesa,

vuoi perché si tratta di processi che riguardano aspetti intimi della vita, che la persona potrebbe non volere rendere pubblici tramite il

processo, vuoi perché si tratta di offese penali di ritenuta lieve gravità, alla cui repressione lo Stato ha minore interesse.

33 Mentre le persone offese dal reato, per esempio i parenti della vittima di un omicidio, si costituiscono come parti private, per

chiedere il ristoro dei danni, morali o economici, loro derivati dal delitto.

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

156

decisioni: Agli aspetti organizzativi e istituzionali, si legavano quelli antropologici o sociali, come il

legame tra politica e magistratura derivante dai numerosi deputati avvocati e deputati magistrati, da cui

una situazione endemica di corruzione della magistratura, anche in considerazione di una situazione in cui,

in larghe aree del paese, gli eletti dovevano alla camorra la propria elezione, ma ogni camorrista elettore

‘è di conseguenza intoccabile”. “Con queste premesse, si capisce come non ci sia nulla che il Governo, per

amore o per forza, non abbia ottenuto dalla Magistratura: condanne, assoluzioni, favoritismi in materia

civile, gli uni più scandalosi degli altri”, osserva Francesco Saverio Merlino, p. 135.

A questo riguardo, una pagina di Minghetti mette molto bene in evidenza come la mancanza di

indipendenza della magistratura sia al tempo stesso un male in sé, e un male in quanto genera nella società

sfiducia e disincanto verso la giustizia:

“Il procuratore del re non procede per azione pubblica con norme costanti, ma ha mestieri di esservi

eccitato dal governo. Laonde si vedono atti e trattamenti disformi, e a sbalzi: e talora tradursi

innanzi ai tribunali associazioni sovversive e comunistiche, talora lasciarle fondare e liberamente e

apertamente dilatarsi; e in simil modo in qualche caso perseguiti i giornali, in altri identici casi non

darsene per inteso. Non di rado ancora sulle stampe si fa spregio dei buoni costumi, senza che le

regie procure vi pongano attenzione. E poi a un tratto ecco una specie di foga per la quale da un

capo all’altro della penisola le regie procure si agitano, denunziano, sequestrano. Di che la opinione

popolare fa questo giudizio, senza pur avvertirne la gravità, che l’azione loro non è spontanea ma

ordinata dal Ministero centrale. La quale differenza nel modo di procedere in circostanze identiche

perturba il senso morale, e non è senza scapito del rispetto dovuto alla legge.34

Carattere inquisitorio del processo penale

Il sentimento della magistratura di essere ‘dalla parte del potere’ e non dei cittadini era alimentato anche

dalle regole che disciplinavano il processo, in particolare quello penale. Si trattava di un processo

‘inquisitorio’ cioè che attribuiva alla parte pubblica, al pubblico ministero, enormi poteri nella raccolta

delle prove e di condizionamento nell’iter del processo, del tutto squilibrati rispetto a quelli attribuiti alla

difesa. Le ricadute culturali di questo tipo di processo35

sono chiaramente percepite da Miceli:

“Esiste una connessione tra i sistemi processuali e le forme di regime politico. La tendenza propria

dei governi dispotici di accentrare il potere in poche mani e di mantenere assai alto il principio di

autorità, porta a considerare le perturbazioni dell’ordine pubblico e le violazioni del diritto, di

qualunque genere esse siano, quali offese apportate ai detentori del potere. Il sentimento di sospetto,

onde allora i governanti sono dominati, induce a riguardare l’imputato come un colpevole, a conferire

34 Minghetti, op. cit., il quale elenca numerosi esempi di ingerenza della politica nella giurisdizione, lamentando anche che il fatto

che tra i deputati vi fossero molti avvocati di grido, dava luogo ad abusi come ‘interpellanze circa l’interpretazione di una legge

sollevate in seguito a una sentenza proferita contro i suoi clienti in primo grado, e mentre pendeva l’appello”. Molte cause ‘vinte da

deputati eminenti in onta all’opinione e all’aspettativa universale’ in prossimità di ‘avanzamenti’ nelle carriere dei magistrati dettero

‘spazio a sospetti, che sempre tornano in detrimento del prestigio onde la magistratura deve sempre essere adorna”. Minghetti

concludeva che “Tutto ciò fa sì che uomini d’età e ragguardevoli temono forte, e taluni osano affermare, che sotto i governi che

dominarono l’Italia dal 1815 al 1860 la giustizia fosse meglio amministrata, e il ceto dei magistrati più rispettabile e più rispettato di

quello che sia oggidì”.

35 In Italia si è adottato un modello ‘accusatorio’ di processo solo nel 1987. Il modello accusatorio mette sullo stesso piano accusa

pubblica e difesa, e risponde al principio per cui la prova si forma nel contraddittorio, cioè ogni prova raggiunta dal p.m. nella fase

preliminare delle indagini, deve essere fatta conoscere alle altre parti, e confermata davanti al giudice.

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

157

al giudice poteri inconciliabili con l’imparzialità del suo ufficio e col suo compito giudicante, come

anche ad escludere il contraddittorio, a ridurre i diritti della difesa, a mantenere segreti non solo gli

atti istruttori ma anche il dibattimento. E’ così che i governi dispotici tendono per la loro psicologica

natura verso il sistema inquisitorio. Si capisce che un ordine di idee di sentimenti del tutto opposto

debba produrre nei governi liberi la tendenza verso l’opposto sistema.36

Caratteristica del processo penale italiano è sempre stata inoltre una notevole squalificazione del ruolo

della giuria popolare, altrimenti da considerarsi il vero e proprio ‘giudice naturale’ del processo penale.

Nel 1874 le categorie dei sorteggiabili vennero ristrette a cittadini dotati di istruzione, particolare

esperienza, e proprietari paganti da 100 a 300 lire di imposta (Allegretti, p. 492) ; ne vennero

“sistematicamente esclusi tutti coloro che sono considerati di idee democratiche, sostituiti con un

ragguardevole numero di agenti di polizia e funzionari” (F.S. Merlino, p. 129).

Le figure di reato vaghe, i reati di opinione che permettevano di perseguire i socialisti con imputazioni

come ‘cospirazione, istigazione alla guerra civile e associazione per delinquere’, il ricorso a misure di

sicurezza come l’ammonizione, il foglio di via o il domicilio coatto inflitti su denuncia segreta della

polizia e senza prove (reati di sospetto) (Merlino, p. 121) aumentavano le possibilità per la magistratura di

porsi al servizio degli interessi del potere politico. Alla polizia venivano lasciati larghissimi poteri; non

era rara la connivenza tra la polizia e la mafia e la camorra, o con il gioco del lotto clandestino; spesso gli

agenti erano reclutati tra i reduci del bagno penale o del domicilio coatto (Merlino, p. 117, che così la

descrive: “l’intangibilità della polizia è divenuta un canone di diritto costituzionale. Protetta nella persona

dei suoi capi, per uno speciale privilegio, da ogni intervento della giustizia, difesa continuamente alla

Camera da ministri pieni di zelo, non a favore della libertà e dell’inviolabilità degli individui, ma a favore

del prestigio dell’autorità, la polizia gode di totale impunità per tutti gli abusi e i crimini che commette

con il pretesto di difendere la vita e la libertà dei cittadini”. I numerosi casi di misure di sicurezza

facevano inoltre sì che il lavoro del magistrato si confondesse spesso con quello di un poliziotto:

“sbrigando ogni giorno i casi di parecchie dozzine di ammonisti, colpevoli soltanto di una infrazione o di

aver dimenticato qualche insignificante formalità, il giudice finisce per confondere il suo compito con

quello del poliziotto. Ne risulta un’evidente decadenza del corpo giudiziario, colpito non più dall’esterno

ma dall’interno, nello stesso criterium che deve reggere l’amministrazione della giustizia” (Merlino, p.

141). Di analogo schiacciamento sulle modalità di coloro che avrebbero dovuto controllare furono

accusati i magistrati di sorveglianza nelle prigioni dove, veniva lasciato dominare l’arbitrio e la violenza:

“Le nostre prigioni, preventive o correzionali, sono forse le peggiori che esistano nei paesi civili. (…) Ed

in queste prigioni, abbandonate al vergognoso affarismo dei direttori, degli appaltatori e dei fornitori,

regna l’arbitrio sfrontato di carcerieri senza cuore e senza intelligenza, arbitrio permesso, voluto, garantito

nelle sue criminali conseguenze non soltanto dai superiori gerarchici degli stessi carcerieri, ma da quei

magistrati, più crudeli degli stessi carcerieri, e più incuranti dei propri doveri, che la legge incarica di

visitare le prigioni e di ascoltare i reclami dei detenuti” (Merlino, p. 130).

La mancanza di indipendenza interna

Oltre che fortemente dipendenti dal Governo, i magistrati erano privi di indipedenza interna, cioè verso gli

altri magistrati. La magistratura era organizzata gerarchicamente, secondo un sistema di progressioni in

carriera decise in base ai pareri dati dai magistrati di grado elevato dei singoli distretti, nei confronti dei

36 V. Miceli, Diritto costituzionale, cit., p. 936-937.

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

158

magistrati di grado inferiore. Inevitabilmente, un giovane magistrato che volesse far carriera era portato a

uniformarsi alle tipologie di giudizio, agli stili interpretativi, e agli orientamenti di merito, di cui erano

portatori i giudizi anziani e di alto grado; inutile dire che se, nelle condizioni di dipendenza verso il

governo appena descritte, un giudice anziano aveva anche un alto grado, era perché si era dimostrato

sufficientemente conformista e docile ai condizionamenti, attitudine che poteva trasmettere ai giovani

mediante i giudizi sul loro operato.

In questo contesto, la funzione di ‘nomofilachia’ affidata alla Corte di cassazione quale supremo giudice

di legittimità37

fungeva anch’essa da motore di condizionamento culturale. La Cassazione inoltre

disponeva del potere di ‘avocazione’ dei processi, che le permetteva di spostare da una sede all’altra i

processi di merito; potere che all’epoca veniva manifestamente esercitato allo scopo di assegnare a certi

collegi determinati processi in funzione del loro contenuto, e per ottenere una decisione considerata

politicamente preferibile.

La mancanza di indipendenza culturale (di giudizio e di valutazione)

Nel senso di educare i magistrati a un accentuato conformismo andava la educazione giuridica dominante

al tempo, improntata di ‘positivismo statualista’, cioè dell’idea che il diritto è solo quello posto dallo stato

con suoi atti normativi, e che il giudice è tenuto, nell’interpretare la legge, a una pretesa “neutralità”,

intesa come astensione da ogni considerazione circa la giustizia, la proporzione, tra la legge e il caso

regolato; così come da ogni considerazione circa la contraddittorietà o meno tra la legge che deve

applicare e altre. I giudici erano abituati al ‘sillogismo deduttivo’: se la legge in generale e in astratto che

nella fattispecie A si applica la conseguenza B, una volta stabilito che il caso in esame corrisponde alla

fattispecie A, si applica la conseguenza B.

I giudici erano educati a una interpretazione molto rispettosa del dato testuale della legge, e assolutamente

scoraggiati a porsi domande sull’adeguatezza della legge al caso regolato, ai principi del diritto, o a norme

fondamentali del diritto come lo stesso Statuto. Lo spiega molto orgogliosamente questo passo da Vittorio

Emanuele Orlando:

“Nel Medio Evo il giudice non di rado doveva trovare il diritto da applicare al caso singolo, onde può

dirsi che partecipasse al potere legislativo, nel senso che oggidì vi si dà. Ma il sistema dei codici, in

questo secolo prevalso e di cui l’Italia usa, suppone invece una rigorosa separazione della funzione

legislativa dalla giudiziaria, e quindi l’obbligo strettissimo di applicare il testo legislativo, senza

eluderlo né per ragioni di equità né col pretesto di far prevalere un preteso spirito della legge alla

chiara espressione di essa”.

Orlando vuole insegnare e quindi convincere che giudici non concorrono più, non devono più concorrere,

come un tempo, a creare il diritto, non sono portatori dei valori e delle tradizioni, né di un sapere

professionale che si forma autonomamente, e con il quale la legge potrebbe entrare in contraddizione;

tanto meno essi sono portatori di un modo di usare la ragione, equitativo, volto alla ricerca di una

composizione ragionevole delle controversie, alternativo a quello del legislatore. Lo spazio interpretativo

37 In questa funzione la Cassazione pronunciala interpretazione corretta della legge con riferimento a singoli casi, potendo ‘cassare’ le

sentenze di merito difformi dal suo orientamento. A titolo di commistioni tra politica e magistratura, che di quest’ultima inquinavano

l’indipendenza, merita menzione il fatto che, a tenore dello Statuto, la carica di primo presidente, presidente e consigliere di Corte di

cassazione, e di primo presidente di corte d’appello apriva le porte alla nomina, vitalizia, a membro del Senato.

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

159

ad essi riconosciuto si limitava a quello necessario per realizzare nel modo migliore la volontà e le

intenzioni della legge.

Questo genere di neutralità ammantata di tecnicismo trasforma in giudice in uno strumento di

rafforzamento degli indirizzi politici. Le conseguenze durevoli di ciò non avrebbero mancato a

manifestarsi. Per esempio, per un giudice così abituato a ‘applicare la legge’ per come è, senza discutere,

ci sarebbe stato poco da obiettare, e poco ci fu, nel 1938, alle leggi fasciste sulla razza, nonostante

astrattamente vigesse ancora l’eguaglianza giuridica dei ‘regnicoli’ sancita dallo Statuto albertino.

Tantomeno, davanti a leggi retroattive, come avvenne durante il fascismo, che sequestravano i patrimoni

degli oppositori politici, o ne impedivano la carriera professionale, il giudice-funzionario poteva opporsi

chiamando in ballo antichi principi del diritto come l’affidamento, il principio antichissimo che assicura a

ciascuno di continuare a godere dei propri diritti acquisiti a meno che un atto generale e valido solo per il

futuro modifichi quei diritti per tutti gli appartenenti a una stessa categoria.

Molto negativo è poi il bilancio della capacità della magistratura ordinaria di sfruttare gli spazi di

sindacato nei confronti della pubblica amministrazione, lasciati dalla legge del 1865. A V.E. Orlando che

vi rifletteva nel 1907 come Ministro della Giustizia, la magistratura italiana appare ‘autoritaria’ e priva di

uno spirito di corpo in grado di renderla autonoma rispetto alla amministrazione, con cui, abituata a

considerarsi un mero corpo di funzionari, si identifica, e dunque più portata alla ‘solidarietà’ che non

all’”antagonismo’ verso l’amministrazione, e priva comunque della sufficiente autorità (cit. in Allegretti,

p. 498).

In particolare, la dottrina giuridica italiana negò sempre la possibilità da parte dei giudici di un controllo

sulla legittimità della legge, cioè sulla sua conformità a principi fondamentali, o alla legge suprema dello

stato (lo Statuto) sul modello di quanto sin dagli inizi del 1800 la Corte suprema americana aveva iniziato

a fare, rivendicandosi il potere di annullare le leggi contrastanti con la Costituzione. Tuttavia va a merito

della giurisprudenza della Corte di Cassazione quello di avere sempre ammesso che un certo sindacato del

giudice fosse possibile con riguardo ai requisiti formali degli atti normativi: l’annullamento, da parte della

Corte di cassazione, di decreti legge per procedimento di approvazione (come l’entrata in vigore prima

dell’apposizione del sigillo dello stato, il difetto della formula di promulgazione) è stato una evenienza

rara ma non estranea alla esperienza statutaria.

Questo, come qualche non rarissimo esempio di autonomia di giudizio dei magistrati giudicanti rispetto

alle politiche del processo portate avanti, per il governo, dai pubblici ministeri38

, potrebbe ascriversi anche

a una irriducibile tendenza del mestiere di giudice, anche se esercitato in condizioni molto sfavorevoli per

l’indipendenza di giudizio, a costruire in chi lo esercita un habitus mentale tale, per cui resiste a diventare

solo un ‘conduttore di decisionalità’, un ‘esecutore’ della volontà del legislatore, perché abitua a tenere in

considerazione le ragioni dell’uno e dell’altro, e la natura dei fatti considerati, la proporzione tra una

regola e il fatto cui va applicata. E’ verosimilmente perché consapevole di ciò che il periodo statutario

mantenne sempre, come visto nei paragrafi precedenti, molto ristretti i limiti del sindacato del giudice

sull’attività dell’amministrazione39

, creò spesso e volentieri giudici speciali (cioè collegi giudicanti non

38 Negli anni ’70 e ’80 si hanno anche delle sentenze ‘isolate e coraggiose: memorabile, tra tutte, l’assoluzione a Venezia dei molti arrestati

per gli scioperi nel mantovano’, Galante Garrone cit. da Allegretti p. 497.

39 Restando eloquente l’esempio di quanto accadde nel 1863 a Pietrarsa, una località vicino Napoli dove gli operai di un opificio, per protesta

contro il padrone, un settentrionale, che imponeva più ore di lavoro senza aumentare i salari, si chiusero dentro la fabbrica sollevando grida

e mugugni. Erano però inermi e disarmati. Il padrone tornò ai cancelli della fabbrica accompagnato dalla polizia; che sparò sugli operai, e

sulla folla che si era accalcata intorno, uccidendo sul colpo 7 persone e causando la morte di altre 20. Nei confronti dell’ufficiale che dirigeva

il plotone fu aperta una inchiesta amministrativa, ritenendo evidentemente che egli, ordinando di sparare, avesse esercitato una insindacabile

discrezionalità.

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

160

formati da giudici ordinari civili e penali) cui deferì la decisione di materie politicamente delicate; tenne

sempre in attività la giustizia militare (devolvendo spesso e volentieri di Tribunali di Guerra la cognizione

di processi, ancorché implicanti civili inerenti fatti accaduti durante la sottoposizione di un territorio allo

stato d’assedio).

Una cultura giuridica ‘scientista’

Le mentalità e le pratiche di cui i giudici e i giuristi si fanno portatori sono profondamente influenzate da

ciò che viene loro insegnato. La ‘dottrina giuridica’, cioè l’insegnamento universitario del diritto, gioca in

questo un ruolo centrale, e soprattutto lo giocò durante il Regno d’Italia. La maggior parte dei giuristi che

si occupavano del diritto pubblico scelsero di conferire allo studio della materia un atteggiamento

‘scientista’, assumendo nel loro insegnamento il tono per cui una certa tesi è ‘falsa’ e un’altra tesi è ‘vera’

in forza di pretese dimostrazioni logico deduttive, che peraltro tiravano spesso in ballo argomenti ben

poco scientifici come la ‘coscienza del popolo’ o il ‘naturale sviluppo delle istituzioni’.

Vittorio Emanuele Orlando fu il principe di questa cultura, la cui influenza in Italia è andata ben oltre il

periodo statutario. Egli insegnava il ‘diritto scientifico’ che gli permetteva generalmente, di dichiarare

‘false’ tutte le tesi progressiste; era una ‘falsa teoria’ la sovranità popolare, era un ‘errore’ pensare che il

giudice potesse interpretare la legge discostandosi pur motivatamente dalla sua lettera, eccetera.

Abituandosi a ragionare in termini di ‘vero’ e ‘falso’ il giurista si disabituava a praticare la ragione

probabilista e problematica, l’attitudine alla ponderazione, la ricerca del bilanciamento e del giusto mezzo,

a cui erano stati educati i giuristi del passato.

Veniva così veicolata nella coscienza del giurista una attitudine autoritaria, che ha portato molti giuristi a

schierarsi dalla parte del potere, delle istituzioni; a intendere il loro lavoro come giustificazione di ciò che

le istituzioni facevano, e a mettersi più al servizio di esse, che della società civile. Le istituzioni, i concetti

e le categorie che le descrivevano, tendevano ad essere rappresentati come necessità naturali che

obbedivano a logiche neutrali e che dovevano durare per sempre. Le teorie dell’epoca, che descrivano la

decisione giudiziaria come un sillogismo in cui la volontà di colui che la pronunzia non ha parte alcuna

(Racioppi e Brunelli) e neutralizzavano l’attività giudiziaria come attività logica, non politica, imparziale,

“non valevano se non a celare la neutralità di una attività gravata da preoccupazioni politiche e che fa (in

parte) politica sotto veste tecnica, cioè con l’uso di procedimenti tecnici o apparentemente tecnicizzati” e

che si muoveva in un continuità con le forze politiche dominanti (Allegretti, p. 499-500).

4.Le libertà civili

Lo statuto albertino conteneva un molto piccolo elenco di libertà e di diritti a favore dei” regnicoli”, che,

in armonia con la ideologia dello stato liberale, riconosceva le sole libertà c.d. civili, o negative. Come

detto in precedenza, nella concezione liberale lo stato deve ingerirsi il meno possibile nella sfera privata, a

cui d’altro canto garantisce la possibilità di pacifico svolgimento con le sue funzioni di ordine. Il risvolto,

era anche la previsione del minimo possibile di influenza dei privati cittadini sulla direzione dello stato.

I diritti o libertà civili sono i diritti e le libertà che proteggono l’individuo e la sfera privata davanti ad

arbitrarie ingerenze del potere pubblico: la libertà personale (o da arresti arbitrari), la proprietà privata, il

domicilio, la libertà di pensiero, di coscienza e di credo religioso, la libertà di comunicazione ne sono le

classiche componenti (libertà civili individuali).

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

161

Oltre a garantire l’individuo, le libertà civili garantiscono anche l’esistenza e il libero svolgimento della

società civile, cioè l’autonomia della società rispetto al potere pubblico. Sotto questo profilo, esse

assumono spesso carattere collettivo, e le si chiama perciò libertà civili collettive, come la libertà di

riunione, di associazione, o di stampa, che è una libertà individuale, se la considera dal punto di vista

materiale, in quanto espressione del pensiero di una persona determinata, o diffusione di notizie e

informazioni da parte di una persona privata; ma è collettiva quanto agli effetti perché, a differenza della

comunicazioni (di cui è esempio la missiva, la lettera indirizzata a un altro) non si dirige a singoli

destinatari ma a destinatari indeterminati. Attraverso l’esercizio delle libertà civili collettive la società

civile esprime i suoi (vari e diversi) orientamenti, e gusti, secondo direzioni che nascono spontaneamente

dentro di essa. Una delle primarie finalità delle libertà civili collettive è evitare che la vita della società sia

assorbita dallo stato, da esso organizzata e indirizzata (che è ciò che avverrà col fascismo e in ogni

esperienza totalitaria, dove le uniche associazioni ammesse sono quelle gestite o approvate dallo stato, e

mediante le quali si dette un tono fascista al modo in cui le persone passavano il tempo libero, compreso

come praticavano lo sport).

Dirette a evitare “l’organamento’ della società nello stato, le libertà civili collettive tendono a che sia

semmai la pubblica opinione a esprimere un orientamento nei confronti delle autorità, potendo essa

esprimere giudizi e valutazioni implicanti anche la volontà di influire sul comportamento delle istituzioni

(ad esempio, quando la stampa critica un orientamento del Governo; quando i singoli, associandosi, danno

vita a un partito o un sindacato).

Coerentemente con la piegatura conservatrice che le concezioni liberali avevano preso da noi, e cioè

coerentemente con la rigorosa ostilità verso l’idea che l’azione dei pubblici poteri potesse essere

condizionata dagli ondivaghi orientamenti dell’opinione pubblica, lo Statuto albertino contemplava

principalmente libertà civili individuali: la libertà personale, la libertà di domicilio, la proprietà privata. La

portata concreta delle garanzie assicurate a queste libertà era d’altronde molto ristretta, perché ciascuna di

queste libertà poteva essere limitata solo nei casi previsti dalla legge, ma non era mai richiesto

l’intervento dell’autorità giudiziaria a circoscrivere la discrezionalità dell’amministrazione nella

attuazione delle previsioni di legge. In altri termini, la pratica estensione delle garanzie delle libertà civili

era rimessa alla valutazione discrezionale dell’amministrazione, chiamata ad attuare le previsioni di legge

nel caso concreto: quando la polizia decideva di arrestare qualcuno, non doveva chiedere al giudice il

mandato, poteva farlo sulla base dei poteri di mantenimento dell’ordine pubblico che la legge le conferiva.

Riporto l’art. 26, sulla libertà personale: “Niuno può essere arrestato, o tradotto in giudizio, se non nei casi

previsti dalla legge e nelle forme che essa prescrive”. L’art. 27, sul domicilio: “Il domicilio è inviolabile.

Niuna visita domiciliare può aver luogo se non in forza della legge, e nelle forme che essa prescrive”. La

stessa proprietà ‘inviolabile’ (art. 29) poteva dover essere ceduta, salvo indennità, ‘quando l’interesse

pubblico legalmente accertato lo esiga”40

.

40 Lo Statuto non si pronunciava in materia di libertà di opinioni religiose (tanto meno di opinioni politiche), ma conteneva la disposizione,

relativa al culto, e cioè alle manifestazioni esteriori e collettive di religiosità, secondo cui “La religione cattolica apostolica romana è la sola

religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi”, disposizione che istituiva una differenza di valore tra

la religione cattolica e i culti ‘ammessi’. Di fatto, dall’unificazione in poi i rapporti con la Chiesa cattolica furono i rapporti tra due nemici, lo

Stato temeva che la Chiesa manovrasse contro la nuova condizione politica dell’Italia, e la Chiesa si sentiva spodestata, situazione che si

accentuò come noto dopo la Presa di Porta Pia. Alla decisione del Papa di imporre ai cattolici di astenersi dal partecipare alla vita pubblica e

politica, che espose le nuove istituzioni ad una gravissima delegittimazione, corrisposero le notevoli limitazioni alla validità civile del diritto

canonico (il matrimonio religioso, per esempio, non valeva civilmente), nonostante alla chiesa fossero state riconosciute cospicue guarentigie

sotto il profilo economico e dello status degli ecclesiastici. La revoca del Non expedit, la bolla che vietava ai cattolici la partecipazione

politica, rese possibile la nascita del partito popolare, di ispirazione cattolica, nel 1919.

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

162

La libertà di stampa era contemplata in questi termini: “La stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli

abusi” (art. 28). Mettendo immediatamente in collegamento il riconoscimento della libertà di stampa con

la possibilità che essa si renda responsabile di abusi, lo statuto dimostrava un approccio molto cauto e

diffidente nei confronti di questa libertà così decisiva nel costruire una opinione pubblica libera,

consapevole, articolata e critica. Nell’esperienza statutaria le attività di stampa (gestione delle tipografie,

affissioni degli stampati) sono sottoposti ad autorizzazione preventiva di polizia; gli stampati sono

sottoponibili a sequestro di polizia per violazione del buon costume, nel quale non si facevano rientrare

solo le offese al pudore sessuale, ma l’indeterminata gamma dei pericoli per l’ordine pubblico; nel 1899

con una iniziativa che sollevò discussioni enormi, e non giunse a termine, il governo voleva introdurre la

censura preventiva dei giornali, e di fatto vi si arrivò nel 1915 quando, col pretesto della guerra, si dette al

prefetto il potere di disporre il sequestro degli stampati per ragioni inerenti la ‘sicurezza nazionale’. Ma le

regolamentazioni e le discipline legislative carenti erano forse il lato meno influente e meno significativo

nel contesto di una repressione sistematica della stampa di opinione41

e di una debolezza strutturale della

libertà di stampa, e dunque della pubblica opinione, che dava motivo di osservare che “il giornalismo

italiano non sussiste al di fuori delle consorterie politiche”

Quanto alle libertà civili collettive, lo statuto annovera la sola libertà di riunione, ma in luogo privato. Le

adunanze in luoghi pubblici o aperti al pubblico (le piazze, le strade, un ristorante, una sala da congressi)

erano ‘interamente soggette alle leggi di polizia” (art. 32). Si ricordi che le riunioni sono gli

assembramenti di persone, spontanei o provocati, che oggi chiamiamo ‘manifestazioni’, sit-in, cortei (che

sono ‘riunioni in movimento’).

Il trattamento dello sciopero.

Lo sciopero era considerato reato dal codice albertino (1859); il codice penale Zanardelli (1889) lo puniva

in quanto realizzato con l’impiego di ‘violenza o minaccia’. La magistratura dell’epoca utilizzò molto

ampiamente questi limiti, rinvenendo esempi di ‘violenza o minaccia’ “nel semplice contegno o sembiante

degli scioperanti, o nel canto dell’Inno dell’Internazionale, o in grida sovversive) sicché divenne

incriminabile pressoché abitualmente lo sciopero in se e per sé” (Allegretti, p. 499); lo sciopero inoltre

veniva considerato inadempimento della prestazione lavorativa e giustificava l’impiego dei mezzi

disciplinari da parte del datore di lavoro (come in primo luogo il licenziamento).

La libertà di associazione non era menzionata, e lo scioglimento delle associazioni poteva essere deciso

dai prefetti o dal governo centrale per motivi di ordine pubblico (come avvenne nel 1898-99 quando

furono sciolti tutti i Sindacati e le Camere del lavoro).

Quanto ai doveri, lo statuto contemplava il dovere di ciascuno di pagare i tributi, “in proporzione agli

averi”. Il sistema tributario di tipo proporzionale incide sui redditi sempre nella stessa proporzione, però

ovviamente con un peso diverso a seconda che il reddito sia basso o alto: una imposizione del 10% lascia

in tasca 90 lire a chi guadagna 100 e 900 lire a chi guadagna 1000. Il sistema tributario di tipo

41 Denunciava Merlino: “numero dopo numero, i giornali socialisti sono stati sequestrati, a volte prima della pubblicazione, e perseguiti nelle

persone dei direttori responsabili, che poi vengono regolarmente gettati in prigione. Il direttore della ‘questione sociale’ di Firenze è ora al

carcere delle murate per otto anni – dico otto anni di prigione. Il suo predecessore, più fortunato di lui, se la cavò con tre anni, e così via. Di

un giornale si proibisce il titolo (“Il Ribelle”, di Milano) di un altro, il sottotitolo (“comunista anarchico”: la Questione sociale di Firenze). E

la mano della legge non è pesante solo con i giornali socialisti, anche alcuni giornali repubblicani, come “L’Emancipazione” o semplicemente

democratici, come “Il Messaggero” ne ricevono spesso le carezze” (p. 1379.

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

163

proporzionale è, in linea con le concezioni liberali, armonico con l’idea che lo stato deve essere

indifferente ai rapporti sociali, non interessato a riequilibrare le differenze sociali ed economiche.

6.La legislazione sociale

Peraltro, lo stato liberale viene ricordato anche per aver introdotto i primi elementi di una legislazione

sociale, con la legge del 1902 che vietò il lavoro dei fanciulli fino a 12 anni e pose tutele a favore delle

donne lavoratrici. Nel 1904 l’obbligo scolastico fu elevato a 12 anni, e le spese relativa addossate allo

stato.

Per legislazione ‘sociale’ si deve intendere una legislazione che protegge la società davanti all’economia,

allo sfruttamento economico, e alle sperequazioni che possono derivare dalle differenze di condizioni

economiche.

Lo Stato italiano rispose con queste leggi alle gravissime tensioni in cui la profonda diseguaglianza

sociale che esisteva nel paese era sfociata, culminando nella grave crisi del 1898-99. Il fatto che gli

spargimenti di sangue del terribile biennio fossero stati atrocemente ‘vendicati’ dal regicidio42

avvertiva

che una concezione puramente repressiva del problema sociale aveva raggiunto un punto di non ritorno.

Nonostante essa rispondesse anche a precise motivazioni interne, con la legislazione sociale degli inizi del

‘900 lo stato italiano intraprendeva una scelta che si era imposta a tutti gli stati industrializzati, e alle quali

paesi con economie capitalistiche più avanzate della nostra erano già arrivati da tempo.

Già nel 1860 in Inghilterra era stata introdotta una legislazione che considerava come reato l’impiego

nelle miniere di ragazzi sotto i 12 anni che non frequentassero le scuole o non fossero in grado di leggere

e scrivere; e introduceva misure volte a impedire la sofferenza e la morte di bambini messi a spazzare

condutture troppo strette; prevedeva forme obbligatorie di vaccinazione; dichiarava illegali le miniere con

un unico pozzo di ventilazione; istituiva ispettori per il controllo della salubrità degli alimenti.

Il doppio movimento

Come mai, e con quali esiti, lo stato liberale intraprende la via della legislazione sociale è un problema su

cui ha scritto cose illuminanti lo studioso di economia Karl Polanyi, nella sua opera “La grande

trasformazione”, pubblicata nel 1944. Secondo Polanyi lo stato liberale è, dal punto di vista del rapporto

con l’economia, il teatro di un doppio movimento.

Primo movimento: lo Stato rende possibile l’economia capitalistica di mercato autoregolato

Da una parte (primo movimento) lo stato, liberando le terre e il lavoro dai vincoli che ne limitavano la

circolazione rende possibile una piena capitalista di mercato basata, su tre principi:

a) tutto è commerciabile, tutto può essere messo sul mercato come merce;

42 Nel 1901 Umberto I fu assassinato dall’anarchico Gaetano Bresci.

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

164

b) sono merci, che si comprano e si vendono, non solo i prodotti, le cose prodotte per essere messe sul

mercato (gli ortaggi, la frutta, i tessuti o le scarpe o le energie) ma anche i fattori della produzione, il

lavoro e la terra, oltre alla moneta;

c) il mercato deve potersi autoregolare, deve poter attingere liberamente ai fattori della produzione

quando la domanda di prodotti è alta, e deve potersi liberare dei fattori della produzione quando la

domanda di prodotti è bassa)43

.

Dopo avere reso possibile il realizzarsi di queste condizioni dell’economia, lo stato, assistette alle sue

conseguenze socialmente distruttive, che furono spesso registrate dall’opinione pubblica borghese,

conservatrice, oltre che dagli osservatori critici come i pensatori marxisti. L’economia di mercato, che

aveva travolto le strutture non contrattuali della convivenza come il villaggio44

, stava ora per travolgere

anche la cellula più elementare ed essenziale della società, la famiglia. Affamato di forza lavoro, il

mercato metteva al lavoro (quando servivano) donne e bambini; le donne assumevano modi di vivere

ritenuti discutibili dalle classi borghesi (uscire di notte, dividere la camera con altre operaie, bere e

fumare), le famiglie non erano in grado di occuparsi dei figli (quando entrambi i genitori inseguono il

lavoro a giornata, e i figli pure, nessuno si cura della vita familiare, l’educazione è trascurata, i costumi,

come si diceva, degenerano); gli uomini non contenuti da una struttura famigliare solida si davano

all’ubriachezza e alla violenza.

Secondo movimento: lo Stato libera la libertà del mercato di attingere ai fattori della produzione

Le conseguenze socialmente distruttive del mercato autoregolato discendono dalla mercificazione della

vita e dell’ambiente naturale45

. Osservandole, lo Stato in Europa ha reagito, secondo Polanyi, nella

seconda metà dell’Ottocento e nel primo Novecento adottando una legislazione sociale, cioè il cui scopo è

proteggere la coesione sociale, attraverso l’esclusione o la limitazione dell’accesso al mercato del lavoro

di alcune categorie (le donne e i bambini) (secondo movimento).

La tesi del “doppio movimento” descrive dunque l’azione dello stato in rapporto al mercato. Da una

parte, lo stato rende possibile l’instaurazione dell’economia di mercato, istituendo quei meccanismi che

43 Scrive Polanyi: “Una volta che macchine e imponenti complessi venivano impiegati per la produzione in una società commerciale, l’idea

di un mercato autoregolato doveva necessariamente prendere forma. (…) Poiché le macchine complesse sono costose esse non rendono a

meno che non vengano prodotte grandi quantità di merci. Esse possono essere fatte funzionare senza che si abbia una perdita soltanto se lo

sbocco delle merci è ragionevolmente assicurato e se la produzione non deve essere interrotta per mancanza delle materie prime necessarie

ad alimentare le macchine. Per il commerciante questo significa che tutti i fattori implicati devono essere in vendita, cioè che essi debbono

essere disponibili nelle quantità necessarie a chiunque sia disposto a pagarle”.

44 “Il mercato capitalista autoregolato fu la liquidazione delle “organizzazioni non contrattuali della parentela, del vicinato, della

professione e del credo”. Esso le travolgeva in due modi: facendo venir meno il senso e l’esistenza stessa di quegli ambiti sociali (il

villaggio, la piccola comunità che si sostiene della terra e della pastorizia) che li rendevano possibili; e spingendo di conseguenza uomini,

donne e bambini verso il lavoro salariato nella città. “Gli effetti sulla vita della gente erano tremendi al di là di ogni descrizione. La società

umana sarebbe stata annientata se non fossero esistite contromisure protettive che attutivano l’azione di questo meccanismo autodistruttivo. “

(K. Polanyi, La grande trasfromazione, trad. it. Einaudi, Torino, 1946, p.98).

45 “Si confrontino ad esempio le attività di vendita del mercante-produttore con le sue attività di acquisto; le sue vendite riguardano soltanto

prodotti elaborati e sia che egli riesca o meno a trovare gli acquirenti il tessuto sociale non ne viene necessariamente influenzato. Ma ciò che

egli compra sono materie prime e lavoro, natura e uomo. La produzione per mezzo della macchina in una società commerciale implica in

realtà una trasformazione che può essere paragonata a quella della sostanza umana e naturale della società, in merci. La conclusione per

quanto macabra è inevitabile: niente di meno potrà bastare allo scopo: ovviamente lo sconvolgimento causato da questi strumenti spezzerà i

rapporti dell’uomo e minaccerà di annientamento il suo ambiente naturale” (K. Polanyi, op. cit., p. 55-56).

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

165

consentono la liberalizzazione del lavoro e della terra, dall’altra parte, in reazione all’azione distruttiva

sui legami sociali che è propria del mercato, lo stato opera in controtendenza rispetto al mercato. Anche,

ma non solo, sotto la spinta delle nuove classi sociali (il proletariato) in cui “gli sradicati urbani” avevano

cercato di ricostituire una propria identità sociale, lo stato sviluppa politiche di intervento sociale che si

rivolgono a rispondere, o ad arginare, le più vistose e perturbanti aberrazioni del mercato.

I sostenitori del libero mercato ne trassero argomenti per accusare lo stato di mettere intralci al libero

mercato; e il fallimento globale dell’economia degli anni ’30 del secolo XX fu spesso attribuito anche al

fatto che il libero mercato non aveva mai potuto funzionare veramente come libero a causa dei lacci

protezionistici.

La tesi del doppio movimento è interessante per vari motivi. Intanto ci fa capire la radice di una

distinzione, in seguito diventata parte cospicua del senso comune, che contrappone le leggi

dell’economia e leggi dello stato, e che, rappresentandole come tra loro antagoniste e alternative, rende

possibile solo uno scontro tra esse. In questa visione dicotomica l’economia ha le sue leggi: perché ci sia

sviluppo si deve produrre di più, l’offerta crea la domanda, il lavoro non deve costare più del profitto ecc.;

queste leggi sono oggettive, razionali. Lo stato pone delle leggi, che rispondono a una opportunità politica

e qualche volta incoraggiano e rafforzano il mercato, qualche volta lo disciplinano e lo vincolano, ma

sono il frutto di orientamenti opinabili e irrazionali. Il costo di queste rappresentazioni è che esse

inscenano una lotta sotterranea e perpetua tra l’economia e lo stato, tra l’economia e il diritto, o

l’economia riesce a imporre le sue leggi allo stato, oppure il contrario, ma, di per sé, l’economia non ha

bisogno del diritto per sapere ciò che deve fare. Queste visuali coltivano concezioni nelle quali le leggi

dell’economia appaiono come necessariamente del tutto separate da valutazioni che non siano quelle

inerenti la razionalità economica e il profitto, e orgogliosamente lo rivendicano, tendendo a rappresentare

vincoli limiti e regole posti dal diritto come ostacoli al dispiegamento della razionalità economica e del

profitto.

La scoperta della rilevanza del ‘patto sociale tra i sessi’ per il governo dell’economia e della

società

L’altro aspetto per cui la tesi del doppio movimento è interessante, è che essa ci fa percepire che, a

partire dalle prime legislazioni sociali, il patto sociale tra i sessi, cioè il modo in cui le attività economiche

e sociali sono distribuite tra uomini e donne, è diventato oggetto di attenzione da parte dei governi,

diventando uno snodo centrale delle politiche in materia sociale (ed economica).

Quando compie il suo movimento di protezione della società, lo stato lo compie proteggendo alcuni

soggetti in modo speciale: i bambini e le donne. La protezione di questi soggetti dal mercato equivale

spesso a una loro esclusione dal mercato, una loro non impiegabilità in certi settori o in certi lavori

(classico per le donne il divieto di lavorare di notte). Bambini e donne vengono identificati come ‘

soggetti deboli’ che devono specialmente essere difesi dal mercato. Questo significava la creazione di un

reticolato di norme che, a ragione o a torto, rendevano per le donne più difficile che per gli uomini

l’accesso al lavoro; rendeva più difficile per la donna che per l’uomo morire schiacciata sotto il torchio

quanto guadagnarsi da vivere in modo indipendente, vale a dire contribuiva a tenere le donne a casa.

Il doppio movimento di cui parla Polanyi (azione del mercato – difesa dello stato, due movimenti che

hanno per teatro la società, i modi di essere, di vivere, di pensarsi, di stare in relazione che le persone

considerano normali) ha avuto così come risultato la codificazione di un patto sociale tra i sessi che

prevede una divisione di genere delle attività produttive (lavoro salariato, attività che producono un

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

166

reddito economicamente valutabile) e delle attività riproduttive (cura della casa e della famiglia), e che,

con ciò stesso, istituisce anche una separazione netta tra le due, in cui vero lavoro è solo quello

‘produttivo’, e, alla fine, quello prioritario, cui l’altro è subordinato. Questo assetto si è rivelato ben

funzionale a quella che di lì a poco sarebbe stata definita l’economia ‘fordista’, basata sul lavoro in

fabbrica o su impieghi stabili, ben distinti dalla sfera domestica e dotati di propri tempi e organizzazione

separati dalla casa.

La lotta dello stato contro la portata distruttiva del mercato fu, così, anche protezione e riaffermazione

della famiglia come legame sociale ultimo, che fu realizzata mediante la tendenziale esclusione delle

donne dal mercato del lavoro; l’equilibrio che la prima legislazione sociale dettò tra vita familiare e vita

lavorativa, che correva su una separazione dei ruoli di genere, tra le attività produttive e quelle

riproduttive, si tradusse in una codificazione di questa separazione come naturale: il nucleo sociale

normale ed essenziale diventava la famiglia fondata sul modello del maschio che porta lo stipendio

(breadwinner) e della donna casalinga.

Una delle eredità che l’Ottocento liberale ci ha lasciato è la costruzione dei ruoli sociali degli uomini e

nelle donne, la costruzione di “stereotipi” che assegnano l’uomo alla vita pubblica e al lavoro e la donna

alla sfera privata della riproduzione e della cura; più ancora, quel periodo ha lasciato la acquisita

consapevolezza dei governi, che disciplinare i ruoli di genere è un modo per governare il rapporto tra

economia e società. Quelli che un tempo furono codificati come modi normali di vivere sono oggi

chiamati ‘stereotipi di genere’, e, nello sforzo di incoraggiare le donne a entrare di più nel mondo del

lavoro, onde aumentare la complessiva produttività dei sistemi economici nazionali, la lotta agli stereotipi

è un ingrediente centrale delle politiche europee e nazionali del lavoro. Ma, per quanto diverse siano o

appaiano le odierne politiche sociali rispetto a quelle del passato, esse nascono dalla stessa radice, cioè

dalla presa d’atto che il modo in cui donne e uomini interpretano la propria vita è una scelta

influentissima per l’economia e dunque di rilevantissimo interesse per il governo.

7. Un bilancio dell’esperienza liberale

Io guardavo a uno stato morboso d’Italia, e ne

facevo la diagnosi. E il morbo è questo, che

abbiamo l’audacia e la violenza dei pochi e

l’indifferenza dei molti, questo è lo spettacolo che

ci danno i popoli nei tempi della decadenza o

della stanchezza. Gli onesti si disgustano. I

patrioti si ritirano. La fede nelle patrie sorti si

indebolisce. E in mezzo all’accasciamento e

all’apatia elettorale assisti al tripudio osceno delle

passioni e degli interessi più volgari (Marco

Minghetti).

Nel 1894, Marco Minghetti, uomo della Destra storica, già presidente del Consiglio, intellettuale

raffinatissimo e cosmopolita, consegnò una analisi lucidissima e sconsolata del male che corrodeva la

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

167

Nazione: l’uso strumentale dello stato da parte dei ‘politici’, dei partiti, che subordinano alla

conservazione del potere la gestione della cosa pubblica.

“Ministri, Senatori, Deputati e uomini politici di ogni sorte” egli osserva, “hanno una tendenza a

insinuarsi nella giustizia e nell’amministrazione e farvi penetrare spiriti partigiani per trarlo a profitto di

sé medesimo o degli aderenti loro o almeno per conservare forte vigoroso il partito, diffonderlo coi

benefici e con le minacce, e mantenere il governo nelle proprie mani”.

Pur ritenendo l’immischiarsi di interessi di parte nella gestione della cosa pubblica un male inevitabile di

ogni governo di partito, Minghetti riconosceva per il nostro paese una gravità del male particolarmente

forte, e dovuta a due cause precise: una magistratura e una amministrazione non indipendenti, perché non

cresciute culturalmente nel senso del rispetto delle proprie funzioni, perciò servili, e corrotte.

“Non è più nell’interesse generale ma in quello del partito o di singoli individui che si fanno

gli atti amministrativi. Il favore e l’avversione, l’indugio e il diniego di provvedere, l’abuso e

il sopruso diventano consuetudine, e quindi poi nasce quella irrequietezza, e quello scontento

che rende ai popoli le istituzioni discare. E’ questo il male sul quale abbiamo invocato le

meditazioni e gli studi degli uomini desiderosi del pubblico bene. E mi sia lecito ancora a

questo proposito di peccare di ripetizione lo insistervi. Perché l’amministrazione sia retta e

ottenga il fine suo che è l’utilità generale è necessario che sia imparziale. Ora poniamo che lo

spirito di parte s’insinui in essa, che i suoi atti siano regolati dall’intento di giovare al partito,

di assicurarne il trionfo, di mantenere la potestà pubblica nelle sua mani, di spegnere e

menomare le forze del partito opposto, di esercitare vendetta contro gli avversari, chi non

vede la lunga serie di guai e la corruzione che da questo stato di cose derivano?”

Per Minghetti, i rimedi erano una giustizia liberata dalla subordinazione al Governo e una

amministrazione decentrata, e soprattutto restituita alla società civile, che avrebbe dovuto essere

incoraggiata, secondo lui, a dare vita a istituzioni autonome formanti enti morali.

“Finché lo stato avrà a che fare con cittadini disgregati, finché gli atomi disciolti si

troveranno contro quel oltrapotente corpo che si chiama lo Stato, ogni conato di resistenza

anche giusta sarà vano. Ed è perciò che le democrazie sgranate (per servirmi di questa

metafora introdotta dal Romagnosi) si acconciano facilmente a un padrone, e, purché egli

rispetti l’eguaglianza, calpesti a suo talento la libertà”.

Ma sfortunatamente fu questa seconda la direzione intrapresa. Senza mai abrogare l’ eguaglianza dei

regnicoli davanti alla legge, il fascismo poté approfondire la fragilizzazione delle loro libertà.

C.Il Fascismo

Secondo il giuspubblicista Allegretti “la monarchia sabauda e una classe dirigente oligarchica dominante

sul piano politico, economico e culturale durarono fino al momento in cui, sotto la paura del socialismo,

passano alla diversa forma dello stato fascista”. In altri termini: l’avvento del fascismo al potere segna in

Italia sì un cambio di regime, ma non un cambio di classe dominante, ed anzi è voluto dalle classi

dominanti per non perdere la loro egemonia.

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

168

Né si deve trascurare l’osservazione che la nomina di Mussolini a capo del Governo, nel 1922, fu un

esempio di ricorso del re alla propria prerogativa di nominare il Governo senza tenere in considerazione

gli orientamenti delle Camere e gli schieramenti in esse presenti46

. L’insediamento del regime fascista

avviene cioè grazie alla debolissima instaurazione in Italia di una forma di governo parlamentare, che

esige che il Governo sia l’espressione della maggioranza delle forze politiche presenti in Parlamento.

In effetti, la piegatura autoritaria di molti regimi europei tra le due guerre si spiega probabilmente proprio

con il timore delle classi che erano state egemoni di condividere il potere, o vederselo portar via, dalle

classi emergenti. Di fatto, e certamente non a caso, la dittatura fascista e quella nazista hanno compiuto

ben presto cosa l’azzeramento delle elezioni e la messa al bando dei partiti politici.

L’identificazione col capo e col partito unico, i bagni di folla, le esibizioni ginniche, le parole d’ordine, il

mito della razza, la sostituzione di appartenenze corporative alle appartenenze ideologiche e partitiche,

furono le pratiche e le teorie “narcotizzanti” che presero piede nel nostro Paese, come nella Germania

nazista. Questi furono i modi con cui le dittature europee della prima metà del Novecento intesero

ricostruire un senso di identificazione tra il popolo e lo Stato, sapendo che le persone non credevano più

nelle ideologie liberali dell’ “armonia” e volendo evitare che, al posto di quelle ideologie, prendessero

piede altri modi di appartenenza, quelli pluralistici che fanno capo al partito, al sindacato, agli interessi

comuni.

Si deve certamente distinguere un fascismo ‘movimento’ da un fascismo ‘regime’. Il fascismo

‘movimento’ fu uno dei molteplici fenomeni di contestazione e di crisi dello stato liberale, della sua

politica di ingiustizia sociale, privilegio e immobilismo, che segnarono gli inizi del Novecento e gli anni

tra le due guerre. Il fascismo fu vicino al sindacalismo rivoluzionario e anarchico, a movimenti artistici

d’avanguardia; espresse una ansia di rinnovamento, di trasformazione e anche una rivendicazione di

originalità nazionale: denunciando i limiti e i fallimenti dello stato liberale, lo contestava anche come

copia modestissima di forme politiche che avevano la loro origine nella storia di altri paesi, da cui le

avevamo importate. Opposto al comunismo, esso aveva però un messaggio sociale analogamente forte,

che si rivolgeva, più che agli operai, ai contadini, agli sradicati, ai reduci della guerra, ai piccoli

imprenditori rovinati dalla speculazione economica: a tutti coloro che soffrivano ingiustizie e non le

razionalizzavano nelle concezioni marxiste del conflitto di classe, ma non per questo le sentivano meno

profondamente e drammaticamente47

. Il fascismo ‘regime’ fu altra cosa, il frutto di un accordo tra un

46 Circa l’avvento del fascismo, occorre tener presente che nel 1919 si erano svolte le elezioni politiche, con metodo proporzionale, che

avevano dato la maggioranza ai popolari (cattolici) e ai socialisti. Tuttavia, nonostante il loro schieramento parlamentare fosse minoritario, il

Re aveva dato l’incarico di nuovo ai liberali (Giolitti). Nel 1920 scoppiò in tutta Italia una serie clamorosa di scioperi, innescati dallo

‘sciopero delle lancette’ con cui gli operai della Fiat di Torino si erano ribellati al rifiuto della direzione della fabbrica di modificare l’orario

di ingresso degli operai dopo l’entrata in vigore dell’ora legale. I socialisti e i maggiori sindacati detterò però agli scioperanti un appoggio

molto debole, temendo altrimenti di perdere le proprie già deboli chances di essere considerati forza politica idonea a esprimere il governo. Di

qui, nel 1921, la scissione all’interno del partito socialista, da cui nacque il Partito comunista (tra i cui fondatori Antonio Gramsci). Tra le

gravi agitazioni del paese e la situazione di paralisi in cui il governo, che era in minoranza, si trovava, vennero sciolte le Camere e indette

nuove elezioni: erano le prime elezioni a suffragio universale maschile, e le prime cui partecipavano i fascisti. Il partito che li esprimeva,

ossia i Blocchi nazionali fascisti, ottenne 105 seggi contro i 123 dei socialisti e i 108 dei popolari. Venne nominato un nuovo governo

liberale (Bonomi). Mussolini decretò la marcia su Roma. Il Ministro dell’Interno, Facta, presentò al Re un decreto per porre Roma in stato

d’assedio, onde isolare e respingere i drappelli fascisti. Il Re rifiutò di firmare e dette l’incarico a Mussolini. Il re ricorrerò alla prerogativa

regia una seconda volta: quando il 25 luglio del 1943 convocherà al Quirinale Mussolini ‘sfiduciato’ dal Gran Consiglio del Fascismo, per

revocarlo (all’uscita dal palazzo Mussolini sarà arrestato), verosimilmente nell’intento di affermare l’autonomia delle sorti della Monarchia da

quelle del Fascismo, in quel momento ormai travolte dal declino, e in vista delle scelte future sull’assetto istituzionale del Paese.

47 Vi fu anche un importante fascismo giuridico, sul quale nel nostro corso non ci soffermeremo, ma che dette vita a una consistentissima

critica alle concezioni liberali ‘positiviste’, della quale qualche frutto interessante è trapassato nelle concezioni adottate dalla Costituzione

repubblicana. Per esempio, il fascismo negava che il diritto si riducesse al diritto positivo dello stato, e affiancò alla legge numerose nuove

fonti, dette ‘corporative’ (come gli accordi sindacali), che dovevano esprimere la capacità creativa di diritto della società. Una importante

creazione giuridica del fascismo, che riformò tutti i codici, fu in particolare il codice civile del 1942, tuttora vigente. La maggiore innovazione

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

169

blocco conservatore decisissimo a evitare la rivoluzione socialista e Mussolini, che si era ben presto

rivelato disponibile a mettere le sue squadre armate a servizio degli interessi conservatori.

I provvedimenti che, in Italia, la dittatura fascista adottò circa la forma di governo sono tutti leggibili

come risposte, in chiave autoritaria, ai problemi che avevano agitato la nostra società tra la fine dell’800 e

l’inizio dell’800. Essi sono altrettante reazioni contrarie sia alla “parlamentarizzazione” del governo sia

alla democratizzazione della vita pubblica che stava seguendo la via della nascita e diffusione dei partiti e

dei sindacati.

Ricorderemo questi interventi per sommi capi.

Accentramento nel Governo, espressione del partito nazionale fascista, dei poteri normativi e di indirizzo

Si deve ricordare in particolar modo la legge n. 100 del 1926, la quale trasformò il Primo Ministro in

“Capo del Governo”, eliminando ogni forma di rapporto fiduciario tra Governo e Parlamento e rafforzò il

potere normativo del governo consentendo a quest’ultimo l’adozione, in sostanza priva di limiti, di atti

normativi con forza di legge (decreti legge e decreti delegati) e di una ampia gamma di poteri

regolamentari che potevano essere adottati in mancanza di previa legge. Il Parlamento veniva così escluso

sostanzialmente dalla funzione normativa.

Come sappiamo, lo Statuto rendeva il Re parte del potere legislativo, ma gli negava il potere di

“dispensare dalle leggi o sospenderne l’osservanza”. Il Monarca, o meglio l’Esecutivo, non aveva il potere

di porre nel nulla, con propri provvedimenti o atti normativi, i deliberati parlamentari. Nella prassi,

specialmente tra la fine dell’Ottocento e i primi due decenni del Novecento, in Italia come altrove, erano

però invalsi i decreti legge, provvedimenti emanati d’urgenza dal Governo e capaci di sospendere

l’efficacia delle leggi, sia pure sottoposti alla conversione in legge come condizione per divenire

definitivi, e altresì era invalsa la prassi che vedeva la Camera delegare al Governo l’esercizio di poteri

legislativi su singole materie. Il fascismo si appropria di questi strumenti, e, avendo eliminato la natura

rappresentativa della Camera e il rapporto fiduciario tra essa e il Governo, fa di quest’ultimo, e dunque di

se stesso, il centro normativo del sistema. La legge n. 100 del 1926 prevede che il Governo possa emanare

decreti con forza di legge destinati a una vigenza provvisoria di due anni e rinnovabili; prevede inoltre

che la Camera possa delegare poteri legislativi al Governo “in bianco” cioè senza bisogno di definire

l’oggetto, i tempi e modi in cui il Governo eserciterà questa prerogativa.

In più, la legge n. 100 del 1926 disciplinò i poteri normativi secondari, o regolamentari, del Governo. La

legge n. 100 autorizzò il Governo a emanare regolamenti, oltre che per dare esecuzione alle leggi (e cioè,

ormai, agli atti normativi che esso stesso emanava: regolamenti esecutivi), per regolare materie per le

quali non esistesse ancora una disciplina legislativa (regolamenti indipendenti), nonché per disciplinare

l’organizzazione amministrativa, quand’anche già regolata con legge, in modo nuovo, cioè difforme dalle

leggi previgenti (regolamenti delegati). Questa tipologia dei regolamenti del Governo, che li distingue in

fu l’introduzione di una parte dedicata al lavoro (il libro V). In questa parte, oggi ampiamente abrogata, il fascismo esponeva la propria

concezione del lavoro, opposta alla concezione marxista. Mentre il marxismo vede datore di lavoro e lavoratore come portatori di interessi in

conflitto, il fascismo teorizzò la loro comune cooperazione nel superiore interesse dell’impresa, al cui sviluppo entrambi, in modi diversi,

cooperano. La particolare responsabilità sociale attribuita dal fascismo all’imprenditore spiega il severissimo regime del fallimento che da

allora, e fino a recenti modifiche, ha rappresentato una specifica caratteristica dell’ordinamento italiano, nel quale l’imprenditore fallito era

fino a poco tempo fa ridotto praticamente a un ‘paria’ la cui stessa corrispondenza privata doveva essere sottoposta all’esame del curatore

fallimentare.

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

170

esecutivi, indipendenti e delegati, sarebbe rimasta vigente in Italia fino al 1988, anno in cui la legge n. 400

ha riordinato le attribuzioni regolamentari del Governo (nei modi che vedremo).

Con una legge del 1925 il fascismo revisionò poi la struttura del Governo. La legge istituì la figura del

Capo del Governo, Duce del Fascismo: se il Governo era stato attirato, durante il periodo statutario,

nell’orbita del Parlamento, ora l’eventualità vuol essere evitata per legge: il Governo ha una sua identità e

un suo capo; la fiducia parlamentare, cui per prassi i governi statutari ogni tanto guardavano, è abolita. Il

Governo è l’espressione di una sola parte, che è poi l’unico partito legittimo. I Ministri sono ancora

nominati dal Re, come vuole lo Statuto, ma la proposta è riservata al Capo del Governo, che sarà anche

Segretario del Partito nazionale fascista: il tratto totalitario del partito unico che occupa lo stato è qui

manifesto.

Con questi interventi il fascismo costruisce il Governo come istituzione forte, ben contornata di poteri

opportuni a garantire l’efficacia e l’effettività della realizzazione del suo disegno, verso il quale può

procedere autonoma. Il problema di un Governo debole e in mano alle consorterie parlamentari, non

abbastanza indipendente dalle pressioni dei partiti, che angustiavano i conservatori all’epoca della ‘crisi

di fine secolo’, fu senz’altro efficacemente risolto.

Trasformazione in senso plebiscitario del sistema elettorale

Nel 1928 il sistema elettorale fu trasformato in senso plebiscitario: la lista dei candidati alle elezioni era

unica, e veniva formata da un organo del Partito nazionale fascista, il Gran Consiglio del Fascismo, che fu

trasformato nel 1928 nell’organo di coordinamento e integrazione di tutte le attività del fascismo. Il Gran

Consiglio, presieduto dal Capo del Governo, sceglieva i candidati sulla base delle indicazioni delle

associazioni fasciste. Al corpo elettorale non restava che suffragare in blocco la lista (elezioni del 1929 e

del 1934).

Trasformazione in senso corporativo della rappresentanza

Nel 1939, con la Camera dei Fasci e delle Corporazioni, venne a cessare ogni parvenza di

rappresentatività del Corpo elettorale nel Parlamento: mentre il Senato rimaneva composto di membri

nominati e non eletti (e nominati sulla base di scelte del regime), la Camera non era più elettiva, ma

veniva composta, oltre che dal Duce del Fascismo, dai componenti dei Consigli nazionali del Partito

nazionale fascista e delle Corporazioni, organismi rappresentativi dei datori di lavoro e dei lavoratori,

controllati dal Governo e dal PNF.

L’amministrazione per enti

L’apparato ministeriale, intanto, sopravvisse abbastanza uguale a sé stesso. Una riforma del 1923 (la

riforma de Stefani), accorpò e riorganizzò i Ministeri, cresciuti per numero e dimensioni nell’ultima fase

dello stato liberale (per l’urgenza di affrontare i compiti legati alla guerra e alla ricostruzione).

Attribuendo ai dipendenti dello stato uno statuto giuridico particolare, incentrato sulla stabilità

dell’impiego, ma anche sulla organizzazione gerarchica delle mansioni e delle responsabilità, la legge De

Stefani volle rafforzare lo spirito di corpo dell’amministrazione, legando allo stato i suoi dipendenti e

funzionari grazie a un regime del lavoro differenziato da quello privato. Tuttavia, il fascismo concentrò il

Istituzioni di diritto pubblico AO – a.a. 2013-2014 Prof.ssa Silvia Niccolai

171

massimo dei suoi sforzi, ed espresse la sua maggiore forza innovativa, fuori dall’ambito

dell’amministrazione ministeriale. Esso preferì sviluppare un nuovo modello organizzativo, l’ente

pubblico, destinato a consentire l’intervento statale nell’economia e nella società, i compiti degli enti

andando dalla ricostruzione e riconversione industriale alla ricerca di idrocarburi, al contingentamento

della produzione agricola all’autarchia, all’organizzazione del tempo libero dei lavoratori (secondo il

carattere ‘totalitario’ del regime, orientato all’assorbimento della società civile nello stato).

Il modello dell’ente pubblico, che sarebbe rimasto caratteristico dell’organizzazione amministrativa

italiana repubblicana e che è del tutto originale della nostra esperienza, si forgia in questa fase come

alternativa alle amministrazioni ministeriali, strumento di attuazione del programma del regime e di

‘infeudamento’ di settori di intervento sotto il controllo di persone fedeli al regime. Politiche come

l’intervento nelle Regioni del Mezzogiorno, la ricostruzione di Messina, la creazione di un sistema

nazionale di assicurazioni erano già state affrontate, negli anni ’910 e ’920, con la creazione di apposite

strutture (Commissariati, Istituti); ora il modello diviene assolutamente preminente, perché l’ente pubblico

offre al fascismo la risorsa di una struttura organizzativa più flessibile del Ministero, più sensibile

all’indirizzo politico, e utile ad allocare il proprio personale politico, parallela a quella ministeriale.

Il significato strutturale che l’amministrazione per enti edificata dal fascismo non deve sfuggire. L’ente

pubblico realizza una modalità di intervento dello stato nell’economia, e di gestione delle politiche sociali,

che sarebbe rimasto tal quale nella esperienza repubblicana, sino alle ‘privatizzazioni’ iniziate negli anni

1992, e che sono state altrettanti interventi su enti pubblici o società da essi partecipate, onde trasferirne la

proprietà in tutto o in parte a società private o a partecipazione pubblica. In particolare, la creazione

dell’Iri (Istituto di riconversione industriale) nel 1933, fu una risposta al rischio di fallimento delle banche

italiane, sull’onda della crisi finanziaria del 1929. Lo Stato acquistò partecipazioni azionarie di

maggioranza nelle banche italiane e ne affidò la gestione all’Iri, la cui missione era utilizzare la liquidità

di cui diventava così titolare per finanziare l’acquisto o il salvataggio di imprese industriali. Attraverso

l’Iri, che è stato liquidato nel 2000, lo stato ha sostenuto in Italia, come proprietario o azionista di

maggioranza, pressoché per intero il settore siderurgico e dell’acciaio, navale, energetico e delle

comunicazioni.

Se Inail, Inps, e Ina, operavano nel campo delle assicurazioni sociali e del lavoro, ossia previdenziale,

costruendo l’ossatura del sistema di protezione sociale ancora oggi operante, l’IRI è stato il motore di una

via italiana al capitalismo che ha visto i maggiori settori industriali italiani svilupparsi grazie al sostegno

statale.