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Stato liberale e rappresentanza dell'economia Le Camere di commercio di Maria Malatesta Uno degli aspetti più interessanti della vicen- da istituzionale delle camere di commercio nel periodo liberale è la legge del 1910 che sancì la loro piena amministrativizzazione, trasformandole in enti pubblici equiparati ai comuni ed alle province. Le ragioni storiche del varo di questa legge ed il significato da essa assunto rispetto alla normativa che ave- va regolato l’assetto delle camere dal 1862 sono state recentemente prese in esame da Cesare Mozzarelli. Nel suo saggio il percorso tra la legge del 1862 e la riforma del 1910 è stato analizzato alla luce del rapporto tra la funzione di rap- presentanza degli interessi e quella di ammi- nistrazione dell’economia attribuite alle ca- mere al momento della loro ‘rifondazione’ unitaria. L’ambiguità connessa alla compre- senza delle due funzioni venne risolta, sep- pure in modo parziale, dalla legge del 1910. In seguito alla trasformazione del loro ruolo rappresentativo le camere si configurarono “come un gruppo di pressione privilegiato e come strumento per incanalare e regolare amministrativamente le esigenze e le propo- ste del mondo economico, piuttosto che a valutarle quali organi per la formazione e rappresentazione del consenso agli organi costituzionali e di consultazione politica del paese da parte del governo”1. Con l’accen- tuazione degli scopi amministrativi vennero così a cadere quei contenuti costituzionali che avevano informato il progetto camerale nei primi decenni unitari. La riforma fu per un verso il prodotto del fallimento degli obiettivi riposti nelle camere, del loro incerto funzionamento e della loro incapacità di sal- dare la rappresentanza reale e l’organizzazio- ne degli interessi economici alla rappresen- tanza simbolica2, sulla quale si sarebbe dovu- to orchestrare il consenso dei ceti commer- ciali e industriali al nuovo stato. Essa costi- tuì, per l’altro verso, anche un terreno favore- vole al dispiegamento della strategia giolittia- na, secondo la quale il riconoscimento e la va- lorizzazione degli interessi diffusi avvenne sul- la base del loro inglobamento all’interno dello stato e dell’accettazione delle sue regole3. Camere di commercio e comizi agrari: un ’a- nalisi comparata. Se il nesso tra politica dello stato, rappresentanza degli interessi e ammi- nistrativizzazione è il nodo problematico at- torno al quale si è sviluppata la ricerca di 1 Cesare Mozzarelli, Stefano Nespor, Amministrazione e mediazione degli interessi: le camere di commercio, “Archi- vio Isap”, n. 3, L'amministrazione nella storia moderna, voi. II, Milano, 1985, p. 1664. “ C. Mozzarelli, S. Nespor, Amministrazione, cit., p. 1659. ’ C. Mozzarelli, S. Nespor, Amministrazione, cit., p. 1669. Sulle strutture amministrative create nel periodo giolittia- no per fronteggiare le nuove realtà economiche e sociali vedi C. Mozzarelli, S. Nespor, Il personale e le strutture am- ministrative, in L 'amministrazionecentrale, a cura di Sabino Cassese, Torino, Utet, 1984, p. 226. "Italia contemporanea", giugno 1988, n. 171

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Stato liberale e rappresentanza dell'economiaLe Camere di commercio

di Maria Malatesta

Uno degli aspetti più interessanti della vicen­da istituzionale delle camere di commercio nel periodo liberale è la legge del 1910 che sancì la loro piena amministrativizzazione, trasformandole in enti pubblici equiparati ai comuni ed alle province. Le ragioni storiche del varo di questa legge ed il significato da essa assunto rispetto alla normativa che ave­va regolato l’assetto delle camere dal 1862 sono state recentemente prese in esame da Cesare Mozzarelli.

Nel suo saggio il percorso tra la legge del 1862 e la riforma del 1910 è stato analizzato alla luce del rapporto tra la funzione di rap­presentanza degli interessi e quella di ammi­nistrazione dell’economia attribuite alle ca­mere al momento della loro ‘rifondazione’ unitaria. L’ambiguità connessa alla compre­senza delle due funzioni venne risolta, sep­pure in modo parziale, dalla legge del 1910. In seguito alla trasformazione del loro ruolo rappresentativo le camere si configurarono “come un gruppo di pressione privilegiato e come strumento per incanalare e regolare amministrativamente le esigenze e le propo­ste del mondo economico, piuttosto che a valutarle quali organi per la formazione e

rappresentazione del consenso agli organi costituzionali e di consultazione politica del paese da parte del governo”1. Con l’accen­tuazione degli scopi amministrativi vennero così a cadere quei contenuti costituzionali che avevano informato il progetto camerale nei primi decenni unitari. La riforma fu per un verso il prodotto del fallimento degli obiettivi riposti nelle camere, del loro incerto funzionamento e della loro incapacità di sal­dare la rappresentanza reale e l’organizzazio­ne degli interessi economici alla rappresen­tanza simbolica2, sulla quale si sarebbe dovu­to orchestrare il consenso dei ceti commer­ciali e industriali al nuovo stato. Essa costi­tuì, per l’altro verso, anche un terreno favore­vole al dispiegamento della strategia giolittia- na, secondo la quale il riconoscimento e la va­lorizzazione degli interessi diffusi avvenne sul­la base del loro inglobamento all’interno dello stato e dell’accettazione delle sue regole3.

Camere di commercio e comizi agrari: un ’a- nalisi comparata. Se il nesso tra politica dello stato, rappresentanza degli interessi e ammi­nistrativizzazione è il nodo problematico at­torno al quale si è sviluppata la ricerca di

1 Cesare Mozzarelli, Stefano Nespor, Amministrazione e mediazione degli interessi: le camere di commercio, “Archi­vio Isap”, n. 3, L'amministrazione nella storia moderna, voi. II, Milano, 1985, p. 1664.“ C. Mozzarelli, S. Nespor, Amministrazione, cit., p. 1659.■’ C. Mozzarelli, S. Nespor, Amministrazione, cit., p. 1669. Sulle strutture amministrative create nel periodo giolittia- no per fronteggiare le nuove realtà economiche e sociali vedi C. Mozzarelli, S. Nespor, Il personale e le strutture am­ministrative, in L 'amministrazionecentrale, a cura di Sabino Cassese, Torino, Utet, 1984, p. 226.

"Italia contemporanea", giugno 1988, n. 171

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Cesare Mozzarella questo saggio intende af­frontare l’oggetto “camere di commercio” utilizzando una prospettiva differente. Ap­plicando un’analisi di tipo comparativo, le camere di commercio saranno inserite nel campo generale del governo delle economie periferiche durante il periodo liberale e raf­frontate ai comizi agrari, gli istituti preposti alla rappresentanza dell’agricoltura. Dall’in­dividuazione degli elementi che accomuna­rono comizi e camere sarà possibile caratte­rizzare con maggior precisione la fisionomia di queste ultime. Dalla peculiarità delle loro funzioni, dalla qualità e quantità dell’attivi­tà svolta, dal rapporto intercorso con la pubblica amministrazione non emergerà tanto una diversa interpretazione della legge del 1910, quanto la sottolineatura di altri ele­menti che contribuirono alla trasformazione delle camere in enti pubblici ed alla accen­tuazione del loro carattere amministrativo.

L’impostazione del discorso ed i suoi risul­tati sono strettamente legati al tipo di fonti analizzate. Esse privilegiano lo sguardo del centro sulla periferia; evidenziano i suoi meccanismi di controllo di fronte alle ‘fughe’ delle categorie economiche locali; sottolinea­no — e questo è il caso delle camere di com­mercio — prevalentemente l’aspetto patri­moniale degli istituti4. Se le fonti archivisti- che ministeriali mettono in luce il comporta­mento dell’amministrazione centrale nei ri­guardi di questi organi periferici, consentono anche di esplorare all’interno dei loro anda­menti, di addentrarsi in quella quotidianità amministrativa le cui regolarità ed irregolari­tà ebbero soprattutto per le camere di com­mercio un peso non marginale nei riguardi del loro destino istituzionale.

II governo locale dell’economia

Tra il 1862 e il 1868 furono creati due tipi di enti periferici, comizi e camere di commer­cio, di natura privata ma saldamente colle­gati all’amministrazione centrale, con fun­zioni di governo delle economie locali5. Più che di una creazione ex novo si trattava di una ridefinizione normativa, dell’inserimen­to di istituti di antica o più recente tradizio­ne a cui il regime napoleonico aveva dato un assetto che confluì, sia pure con alcune va­rianti, nello stato unitario.

La continuità rispetto al periodo napoleo­nico venne garantita sia dal permanere del controllo dell’amministrazione centrale at­traverso la figura del prefetto, che nel nuovo stato ebbe anche la funzione di supervisore locale per conto del ministero di Agricoltu­ra, industria e commercio; sia dai compiti attribuiti a camere e comizi, che dalla forte accentuazione dei loro contenuti politi­co-consultivi. Che le loro funzioni di gover­no venissero intese prevalentemente in ter­mini politici, ossia come organizzazione del consenso delle categorie economiche al nuo­vo stato, lo si ricava dall’analisi delle finali­tà che in egual modo li accomunarono. Esse consistevano in primo luogo in compiti pe- dagogico-culturali. Entrambi gli istituti do­vevano fungere nel settore di loro pertinenza da vettore di acculturazione economica, contribuendo a sostenere l’istruzione tecnica tramite il totale o parziale finanziamento delle scuole di avviamento all’agricoltura e all’industria. I comizi erano incaricati anche di organizzare conferenze, primo nucleo di quell’istruzione itinerante che prenderà for­ma negli anni novanta con l’istituzione delle

4 Sulla “memoria di stato” conservata negli archivi italiani si vedano le osservazioni contenute nel libro di Isabella Zanni Rosiello, Archivi e memoria storica, Bologna, Il Mulino, 1987, p. 32 sgg.5 Per un’analisi dettagliata della legge del 6 luglio 1862 e del RD 23 dicembre 1868 vedi Legge per l ’istituzione e l ’ordinamento delle camere di commercio ed arti (6 luglio 1862, n. 680), annotata dall’avv. Achille Padoa, in Rac­colta delle leggi speciali e convenzioni internazionali del Regno d ’Italia, IV serie, voi. II, Torino, 1881; Ordinamen­to dei comizi agrari del Regno d ’Italia, annotato dal cav. Achille Rabbeno, ivi, voi. III.

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cattedre ambulanti di agricoltura. Attraverso le scuole tecniche doveva essere garantita la diffusione tra le classi popolari e picco­lo-borghesi di un livello di istruzione me­dio-bassa e la formazione e riproduzione di uno strato di operatori agricoli e commerciali con funzioni esclusivamente tecnico-produtti­ve e non dirigenziali. Comizi e camere doveva­no inoltre incentivare la produzione locale uti­lizzando due procedimenti caratteristici del pe­riodo di costituzione della società industriale: la “dimostrazione”, ossia l’organizzazione di esposizioni dei prodotti agricoli ed industriali per mostrare, dispiegare davanti al pubblico i progressi dell’economia e della tecnica; e la “competizione” , vale a dire i concorsi tra produttori agricoli ed industriali per solleci­tare e premiare i migliori risultati.

Venivano in secondo luogo i compiti di informazione. Recependo una funzione che, nel caso delle camere, sorse anch’essa du­rante il periodo napoleonico, i due istituti dovevano essere i trasmettitori di dati dalla periferia al centro. Nel loro ruolo di rileva­tori statistici si trasformarono in sismografi dell’economia e dei rapporti socio-economi­ci locali, dando così il loro contributo alla realizzazione di uno degli obiettivi del nuovo stato: catalogare la nazione, tradurla nume­ricamente e controllarla attraverso la scienza della statistica6. Comizi e camere furono, nella seconda metà dell’Ottocento, assieme ai prefetti le principali fonti statistiche del regno. Fornirono un apporto rilevante all’e­laborazione delle grandi inchieste agrarie e industriali ottocentesche, anche se con solle­

citudine e diligenza assai variabile, caso per caso, soprattutto per quanto riguarda i co­mizi agrari.

I compiti di informazione si intrecciavano con quelli consultivi che occuparono lo spa­zio più rilevante dell’attività politica degli istituti, chiamati periodicamente ad esprime­re il loro parere sulle scelte economiche e do­ganali che il governo intendeva compiere. Camere e comizi avrebbero dovuto essere i vettori in campo economico di quella demo­crazia diretta che ebbe la sua piena realizza­zione nel periodo del suffragio ristretto; ed effettivamente in alcune circostanze il loro intervento si rivelò determinante per imporre al governo la politica degli interessi settoriali da esse rappresentati. L’esempio più signifi­cativo è il varo della tariffa protezionistica applicata nel 1878 all’industria e nel 1887 all’agricoltura7. Agli inizi della “grande de­pressione” le camere di commercio furono la cinghia di trasmissione di quelle tendenze protezionistiche che erano maturate in alcuni ambienti manifatturieri del Nord già alla fine degli anni sessanta8 e che la crisi economica internazionale aveva diffuso in tutto il setto­re industriale. I comizi della Valle padana ebbero nel 1885 una funzione analoga. Per loro tramite venne fatto pervenire in parla­mento il mutamento di posizione della pro­prietà fondiaria settentrionale nei confronti del liberismo; essi esercitarono una pressione formidabile per piegare il governo a favore del­la protezione degli interessi fondiari minacciati dalla crisi agraria che aveva colpito l’Italia all’i­nizio degli anni ottanta9. Nel campo del-

6 Sulla funzione di controllo esercitata dalla statistica nella formazione dell’Italia unita vedi Raffaele Romanelli, La nuova Italia e la misurazione dei fa tti sociali, e Carlo Pazzagli, Statistica in vestigatrice e scienze “positive ” nell ’Italia dei primi decenni unitari, “Quaderni storici” , 1980, n. 45.7 Sul ruolo esercitato dalle camere di commercio nei riguardi della tariffa del 1878 vedi Lucio Villari, Per la storia de! protezionismo in Italia, I, Le prime polemiche sul liberoscambismo, “Studi storici”, 1965, n. 3, pp. 487 sgg.8 Archivio centrale dello Stato; ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio, Sottosegretariato di Stato, Divi­sione industria e commercio, — d’ora in poi Acs, Maic, l e — , b. 37, f. 5, Divisione dei lavoratori consociati per il ri­sorgimento dell’industria nazionale, 29 marzo 1868.9 Maria Malatesta, La grande depressione e l ’organizzazione degli interessi economici: il caso degli agrari padani, “Passato e presente”, 1985, n. 8, pp. 95-98.

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l’azione consultiva, che dalla produzione e dalla distribuzione si allargava al settore dei trasporti ed alla difesa della qualità delle merci, si esaurì grossa parte della funzione di governo dei due istituti. E fu oltretutto un campo di intervento rivelatosi per molti aspetti insoddisfacente, nonostante il meccanismo ar­chitettato attraverso l’inserimento dei comizi e delle camere nei Consigli superiori dell’agri­coltura e dell’industria e del commercio, per dare agli interessi locali maggiore udienza al centro10. Di fatto l’azione consultiva funzio­nava quando era il ministero a chiedere pare­ri; risultava più difficile, se non totalmente vana, nella direzione opposta, quando gli istituti rivolgevano richieste specifiche di modificazione della politica economica e do­ganale. La funzione politico-consultiva tese a ridursi a un dialogo, spesso faticoso, tra le direzioni dei comizi e delle camere ed il mini­stero. I restanti campi di intervento furono trascurati in modo tale da disattendere i compiti di organizzazione e incentivazione delle economie e del commercio locali.

L’intervento nel settore economico dei due istituti era stato previsto con modalità differenti. Il decreto del 1868 attribuiva ai primi uno spazio di manovra suddiviso sulla base dei diversi settori dell’economia rurale e forestale: l’ortofrutticoltura, la praticultu­ra, la viticultura e silvicultura, la sperimen­tazione agraria per l’acquisto e la distribu­zione di macchinari agricoli, di concimi e se­menti. Al di là di quello che fu il loro effetti­vo funzionamento, i comizi rispondevano in misura maggiore all’esigenza di modernizza­re la produzione locale, diffondendo i risul­tati della scienza agronomica ed i progressi dell’industria. Se il comizio si rivelò uno strumento parziale e inadatto a soddisfare

tali obiettivi, la ragione principale di questo fallimento è da ricercarsi nella sua composi­zione, limitata quasi esclusivamente ai pro­prietari fondiari, e nell’assenteismo che ca­ratterizzò il loro rapporto con lo stato in quanto classe economica. Furono tuttavia quelle attività svolte, sia pure in modo im­perfetto, a dare avvio, alla fine della “gran­de depressione”, alla ben più consistente af­fermazione del sindacalismo agricolo11. La forma del consorzio che si impose negli anni novanta in Valle padana non è altro che la specificazione delle prerogative economi- co-commerciali dei comizi ed il loro più de­ciso assestamento sul piano privato, avvenu­to attraverso la trasformazione della funzio­ne di rappresentanza delle agricolture locali presso l’amministrazione centrale nell’orga­nizzazione degli interessi agrari.

Le camere di commercio ebbero nel cam­po industriale attribuzioni più limitate e ri­strette, secondo la tradizione precedente, al­la direzione degli stabilimenti di stagionatu­ra e di saggio della seta. Più vasti furono gli incarichi relativi al commercio, che consiste­vano nell’esercitare un’azione di vigilanza sui vari settori dell’attività commerciale e di amministrazione degli empori pubblici, dei depositi di merci e di altri magazzini. L’im­pegno maggiore nel settore commerciale ri­siedeva nel funzionamento delle borse di commercio che erano alle loro dirette dipen­denze e sulle quali le camere esercitavano una giurisdizione speciale. I compiti che i due istituti erano chiamati a svolgere attra­verso una diretta partecipazione finanziaria costituiscono il terreno quantificabile dello svolgimento della loro attività, il campo di verifica del loro dinamismo e della capacità di trasformare produttivamente i gettiti fi-

10 Maria Malatesta, Stato liberale e rappresentanza dell’economia. Il Consiglio di agricoltura, “Italia contempora­nea”, 1986, n. 162; Giorgio Vecchio, Il Consiglio dell’industria e de! commercio e la rappresentanza degli interessi tra ’800 e ’900, relazione al seminario “Interessi economici e istituzioni politiche nella storia d’Italia - Casi, forme, modelli” , Camera di commercio di Milano, 15-16 dicembre 1986.11 Paola Corti, Fortuna e decadenza dei comizi agrari, “Quaderni storici”, 1977, n. 36, pp. 744 sgg.

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scali e i contributi della pubblica ammini­strazione. La misura dell’efficacia del ruolo di “promotori del progresso economico” svolto da camere e comizi può essere ricava­ta dall’analisi dei loro bilanci relativi alle spese concernenti l’attività culturale e quella economico-commerciale. Al fine di mostrare il trend delle uscite dei due istituti, sono stati scelti alcuni tra i più importanti comizi del Nord — quelli che funzionavano meglio ri­spetto al resto dell’Italia — in modo da ave­re un quadro esemplificativo di attività otti­male; e alcune tra le maggiori camere di commercio, in cui sono comprese quelle di grosse città portuali che, avendo la possibili­tà di imporre tasse sulle assicurazioni marit­time e sui noli, godevano di un gettito fiscale molto elevato.

Dai bilanci consuntivi riportati nelle tabel­le 1 e 2 emerge in primo luogo lo scarto for­tissimo tra le possibilità di spesa dei comizi e delle camere; in secondo luogo che il rap­porto tra spese generali e spese economi- co-culturali era generalmente sperequato. Per entrambi, anche se con livelli diversi, le spese maggiori erano quelle di amministra­zione, a cui si aggiungevano le spese straor­dinarie che — nel caso delle camere — face­vano lievitare considerevolmente il volume delle uscite. Il debole impegno dei comizi nelle attività promozionali fu dovuto princi­palmente allo scarso gettito delle loro entra­te. Quello delle camere, che godevano di grandi disponibilità finanziarie, è spiegabile attraverso i due fattori che più le caratteriz­zarono: il prevalere della funzione fiscale e

la tendenza ad accumulare piuttosto che in­vestire il proprio patrimonio in attività di governo dell’industria e del commercio.

Il paradosso del privilegio fondiario. I comi­zi vennero concepiti come istituti “sponta­nei” che avrebbero dovuto espandersi nella penisola sulla base delle esigenze locali; di essi non venne fissato il numero, come ac­cadde per le camere di commercio, che as­sommavano a settantatre, ed il loro mante­nimento fu affidato al contributo volontario dei soci. Non venne loro applicato il criterio elettivo che era alla base della formazione delle camere perché li si voleva riservare — nei fatti — ai soli proprietari terrieri12, in modo da perpetuare quella logica di selezio­ne a favore del possesso fondiario che im­prontò la costituzione del nuovo stato e re­stò costante all’interno del settore agricolo per tutto il periodo liberale.

Alla selezione del possesso fondiario, che comportò l’esclusione delle categorie subal­terne ed agì soprattutto nel primo ventennio anche nei confronti dei grandi affittuari-im­prenditori del Nord, si accompagnò il privi­legio fiscale, grazie al quale i comizi non po­tevano imporre ai propri soci una tassazione obbligatoria, come accadeva invece per le camere13. Il privilegio fiscale aveva chiari fi­ni di consenso, date le note resistenze della proprietà fondiaria a contribuire alla “co­struzione” del nuovo stato pagando tasse più elevate. Un ulteriore tributo anche se piccolo aggiunto alle imposte erariali avreb­be scollato, anziché rafforzato, il rapporto

12 Sul reiterato rifiuto dei grandi proprietari fondiari ad estendere il criterio elettivo dei comizi vedi la discussione in seno al Consiglio di agricoltura, sessione 1893, tornata del 2 giugno 1893, “Annali di agricoltura”, 1893.13 Tra i vari progetti di riforma dei comizi che escludevano come soluzione delle loro difficoltà finanziarie la tas­sazione obbligatoria vedi A tti parlamentari (A p ), Senato dei Regno, tornata del 10 dicembre 1871, Le camere di agricoltura del Regno d ’Italia, progetto di legge presentato dal ministro di Agricoltura, industria e commercio Ca­stagnola; Memoria presentata da! comizio agrario di Bologna a S.E. Il ministro di agricoltura, industria e com­mercio intorno ad un progetto di riforma dei comizi agrari, definitivamente deliberato nell’adunanza del 15 gen­naio 1875, Bologna, 1875; Consiglio di agricoltura, sessione 1884, tornata del 5 marzo 1885, “Annali di agricoltu­ra”. 1885.

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tra proprietari terrieri e pubblica ammini­strazione. Il risultato della concessione del privilegio fiscale fu però opposto: i comizi non riuscivano a coprire le spese con le quo­te individuali, perché esse erano assai basse ed il numero dei soci insufficiente a compen­sarle. Le quote individuali non riuscivano a colmare, nella maggioranza dei casi, neppu­re le spese di amministrazione dei comizi che sopravvivevano grazie alle sovvenzioni dei comuni e delle province (tab. 3). Il rispetto dell’intangibilità della proprietà terriera rese gli istituti totalmente subordinati alla pub­blica amministrazione e si rivelò la causa principale del loro cattivo funzionamento.

Il potere finanziario delle camere di com­mercio. La legge del 1862 recepì la maggior parte delle attribuzioni delle camere napo­leoniche e riconfermò il loro stretto legame con la giurisdizione commerciale consistente nell’incarico di compilare le liste degli eleg­gibili a giudici dei tribunali di commercio. Le prerogative giurisdizionali le differenzia­rono radicalmente dai comizi stabilendo, al di là delle finalità comuni di rappresentanza e amministrazione degli interessi, una diver­sa qualità tra i loro spazi di intervento e di esercizio di potere. D’altro canto la legge del 1862, riprendendo la tradizione dei tributi imposti ai mercanti, penalizzò il settore in­dustriale e commerciale obbligandolo a con­tribuire al mantenimento delle camere. Ad esse venne concessa la facoltà di tassare con la possibilità di scegliere tra due tipi di im­poste: sulle assicurazioni marittime e l’impo­sta diretta sugli esercenti l’industria e il com­mercio. Quest’ultimo tipo di tassazione era applicato mediante l’imposizione di centesi­mi addizionali sull’imposta di ricchezza mo­bile o tramite una tassa sugli esercenti, in­

dividui o società commerciali, che avessero sede nella circoscrizione territoriale della ca­mera.

Il risultato ottenuto fu esattamente oppo­sto a quello dei comizi. Il privilegio fiscale concesso alla proprietà fondiaria provocò la stasi degli istituti rappresentativi dell’agri­coltura, impedendo loro di svolgere un’atti­vità soddisfacente. L’autofinanziamento delle camere non solo le rese completamente autonome dalla pubblica amministrazione; diede anche loro un potere crescente che fe­ce prevalere, nel corso degli anni, la funzio­ne fiscale e la componente finanziaria tanto sugli obiettivi di organizzazione del consen­so che su quelli di incentivazione della pro­duzione e dello scambio locali. Il confronto tra alcuni comizi e camere di commercio del­la medesima città (tab. 4) fa risaltare il diva­rio delle entrate dei due istituti, tanto più grande se si considera che la fonte principale di quelle dei comizi erano i comuni e le pro­vince.

Il gettito principale delle entrate delle ca­mere era costituito dalle tasse e dalle rendite patrimoniali; la riscossione dei diritti sulle vendite all’incanto e sulla condizionatura della seta incidevano in misura nettamente inferiore. Confrontando il volume totale delle entrate e delle uscite riportato nella ta­bella 5 con le singole voci di alcune camere, si ha un’idea precisa dell’incidenza della ri­scossione fiscale e delle rendite patrimoniali sulle entrate. La camera di Torino riscosse nel 1873 e 1874 L. 211.205 e 122.882 come tassa di ricchezza mobile; L. 23.812 e 19.970 di rendite patrimoniali. Quella di Genova, nel quadriennio 1871-1874 riscosse come tas­sa sui noli L. 108.325, 130.334, 89.320, 66.923; nel biennio 1873-74, L. 44.524 e 38.870 di rendite patrimoniali14.

14 Per il 1875 le spese preventive della camera di Palermo erano di L. 52.934; quelle effettive di L. 30.704. Per il 1876, il preventivo era di L. 56.497; le spese effettive furono di L. 27.142; la camera di Parma aveva preventivato per il 1877 L. 20.822 di spesa; ne effettuò per L. 16.732 (Acs, Maic, le, b. 19).

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I bilanci preventivi e consuntivi offrono ulteriori elementi di riflessione: la tendenza, innanzitutto, delle entrate effettive a supera­re quella preventivate, dovuta principalmen­te alle entrate diverse e straordinarie non contemplate nel bilancio di previsione. Al tempo stesso la riscossione delle imposte è spesso inferiore a quella prevista nel corso dell’anno e compare come arretrato nell’an­no successivo15. Anche le rendite patrimo­niali effettive superano spesso quelle pre­viste.

Complessivamente dall’analisi del quadro consuntivo delle spese dal 1871 al 1880 si ri­cava una tendenza abbastanza generalizzata delle entrata ad eccedere sulle uscite. Il che conferma quanto detto precedentemente cir­ca la debole capacità di spesa delle camere nelle attività promozionali. Le spese di am­ministrazione sono relativamente alte, so­prattutto quelle per gli stipendi degli impie­gati, ma non certo tali da esaurire il gettito delle entrate. Ad esempio nel quadriennio 1871-74 le spese per il personale della came­ra di commercio di Milano furono di L. 15.570, 15.993, 16.901, 16.855; per gli uffici L. 3.773, 3.671, 3.842, 4.314 su un totale di entrate di L. 39.757, 58.661, 53.804, 76.768.

La tendenza a non spendere viene confer­mata anche dall’analisi dei residui attivi nel bilancio di entrata che in alcuni casi sono as­sai elevati: per quella di Messina, nel 1873- 74, di L. 107.309 e 121.227; per quella di Napoli, negli stessi anni, di L. 57.172 e 56.551; per quella di Genova, L. 43.629 e 69.260. L’eccedenza delle spese effettive sul­le entrate effettive che si verificò nel qua­driennio 1881-84 venne coperta con l’ecce­denza della differenza attiva dei residui su quella passiva che si era accumulata negli

anni precedenti. L’inchiesta condotta dal ministero dell’Agricoltura nel 1880 e nel 1884 mostrò l’ottimo stato di salute delle ca­mere, la cui floridezza risultò ancora più marcata dal confronto con l’indagine svolta sui comizi per il triennio 1885-87. Dalle due inchieste emerse l’aumento progressivo delle loro rendite patrimoniali, visibile dall’ecce­denza del movimento di capitali della spesa su quello dell’entrata. Il patrimonio delle ca­mere si era sensibilmente accresciuto dal 1877 al 1883, come si può vedere dalla tabel­la 7.

L’aumento più consistente riguardava i beni immobili, seguito dai fondi pubblici e privati: la maggioranza delle camere investi­va nel consolidato; solo una minima parte nelle obbligazioni comunali e provinciali, nei buoni del tesoro e in azioni. Questi inve­stimenti in fondi pubblici erano a volte assai cospicui, come nel caso delle camere di com­mercio di Bari e di Messina (L. 274.500), di Torino (L. 113.277), di Venezia (L.651.569).

Da questi dati si ricava la propensione delle camere a rafforzare le loro rendite pa­trimoniali attraverso l’investimento del de­naro pubblico derivato dalla riscossione del­le tasse; denaro pubblico che veniva immo­bilizzato piuttosto che speso in attività pro­duttive. Una simile tendenza, unita al fatto che la funzione di rappresentanza delle ca­mere risultò sempre faticosa ed imperfetta a causa della scarsa partecipazione del ceto mercantile e industriale, creò una situazione tale per cui le camere si rafforzarono come enti autonomi a spese dei contribuenti, sen­za adempiere ad alcuna finalità precisa che non fosse quella di accrescere il proprio pa­trimonio.

15 Sulla difficoltosa riscossione delle tasse si possono aggiungere i seguenti esempi: a Palermo, nel 1875, le tasse ri­scosse ammontarono a L. 12.662 contro le 28.000 preventivate; nel 1876 l’introito fu di L. 17.036 contro 23.902 e nel 1877 di L. 22.455 contro 29.930. A Pavia, per il 1876, abbiamo L. 7.735 riscosse su 10.129 preventivate. A Pisa, nel 1875, L. 4.026 su 8.250 e nel 1876 5.792 su 9.183 (Acs, Maic, le, b. 19).

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La partecipazione assente

Lo scollamento tra gli istituti rappresentativi e le categorie economiche fu un dato comu­ne a comizi e camere. Fu la causa del man­cato funzionamento dei primi e contribuì in misura non marginale all’arroccamento del­le seconde su obiettivi di natura esclusiva- mente fiscale e patrimoniale. La funzione di vettori del consenso loro attribuita si scon­trò nei fatti con un assenteismo strutturale che trovava posto nella tendenza generale, registrabile nelle elezioni politiche e ammini­strative, della borghesia produttiva e dei percettori della rendita fondiaria a disatten­dere gli appuntamenti di verifica della go­vernabilità dello stato unitario. Nel caso dei comizi e delle camere la partecipazione as­sente era il segno non solo del disinteresse delle categorie economiche nei confronti dei tentativi di amministrazione pubblica della produzione e del commercio locali, ma an­che della resistenza a contribuire direttamen­te a quelle forme di gestione attraverso il pa­gamento di ulteriori tasse. La partecipazione assente si coniuga così con il problema più vasto della fiscalità che nel caso dei comizi venne risolto in negativo, esentando la pro­prietà fondiaria da una tassazione obbliga­toria.

L’imposizione del tributo camerale provo­cò due differenti reazioni nel ceto industriale e commerciale. La prima, più immediata, consisteva nel ritardo del pagamento della tassa e nella contestazione dell’entità della quota da pagare16. La seconda si tradusse nella mancata partecipazione alle elezioni. A differenza dei comizi, la formazione delle

camere avveniva sulla base del criterio eletti­vo ed in questo senso esse erano state pensa­te come vettori della democrazia economica. Mentre l’assenza di regole precise nella co­stituzione dei comizi aveva favorito al loro interno il monopolio della proprietà fondia­ria, l’elettività delle camere avrebbe dovuto garantire la rappresentatività di tutte le cate­gorie ad esse afferenti; la democrazia rap­presentativa avrebbe così compensato la pe­nalizzazione fiscale.

Il ministero di Agricoltura, industria e commercio usò strategie differenti per ov­viare al fallimento della funzione di rappre­sentanza e di organizzazione del consenso dei due istituti. Nei confronti dei comizi, in armonia con il loro carattere ‘spontaneo’, si limitò a correggere periodicamente la com­posizione dei consigli direttivi in modo da consegnarli esclusivamente nelle mani dei proprietari fondiari residenti nella circoscri­zione, confidando per il resto nell’opera di convincimento dei prefetti per sollecitare i proprietari ad interessarsi maggiormente al governo dell’agricoltura locale17. Tentò in­vece di risolvere il problema dell’assentei­smo del ceto industriale e commerciale cam­biando alcune delle regole che in base alla legge del 1862 sovraintendevano al meccani­smo di formazione delle camere. Fin dai pri­mi anni della loro istituzione, la rigidità del criterio in base al quale spettava al ministero di determinare le sezioni elettorali di ciascu­na camera era stata oggetto di critiche. Il progetto di una nuova legge di riforma degli istituti camerali presentato da Castagnola nel 1870 prevedeva che ognuno di essi fosse libero di stabilire la propria circoscrizione

16 Acs, Maic, le, b. 449, Circolare del ministro Minghetti alle camere di commercio di Regno, Torino, 9 novembre 1863, nella quale viene stabilita la procedura da seguire contro l’opposizione dei contribuenti a pagare la tassa ca­merale, già iniziata dopo un anno dalla promulgazione della legge sulle camere.17 II regolamento emanato l’8 dicembre 1878 dal ministro Pessina imponeva che la composizione del collegio diret­tivo dei comizi fosse limitata ai proprietari fondiari residenti nella provincia. Questa norma fu corretta con il RD 2 febbraio 1879 con il quale il ministro Majorana Catalabiano limitò a tre soli dei membri del consiglio il vincolo del­la formula “soci domiciliati e possidenti”.

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elettorale18. Ancor più discusso era il nume­ro limitato delle sezioni. Esso costituiva uno dei motivi della scarsa affluenza alle urne a causa della distanza che la maggior parte de­gli elettori doveva coprire per andare a vota­re e che riproponeva, all’interno della came­ra, la selezione a favore dei rappresentanti del ceto residente nel capoluogo19. Acco­gliendo i reclami fatti pervenire periodica­mente dalle camere relativi all’inefficienza del criterio elettorale vigente e basandosi so­prattutto sull’inchiesta svolta nel 1874, il mi­nistro Finali emanò l’anno successivo il de­creto che aumentava il numero della sezioni elettorali, creandone una in ogni capo di mandamento.

Il progetto ministeriale aveva ricevuto da parte delle camere un’accoglienza solo par­zialmente positiva. Delle 64 che avevano ri­sposto alla circolare del 1874, solo 20 lo ave­vano totalmente approvato; 22 avevano chiesto un aumento delle sezioni inferiore a quello indicato nel progetto; 8 avevano op­tato per il vecchio regolamento; 15 avevano infine risposto in una maniera “direi quasi sconclusionata”20, senza cioè esprimere un’opzione precisa ma diffondendosi in ana­lisi generali relative al funzionamento degli istituti ed alla questione dell’assenteismo elettorale. Non tanto di sconclusionatezza si trattava, quanto del fatto che dalle risposte vaghe di quelle quindici camere era scaturita una valutazione negativa sulla possibilità che semplici correttivi amministrativi potes­sero ovviare alla loro scarsa penetrazione al­l’interno del ceto industriale e commerciale.

Le sue cause andavano innanzitutto ricerca­te nel fatto che la camera veniva identificata dall’esercente con “una tassa in più alle mol­te e gravose che paga”; e se gli industriali “i quali, appartenendo alla parte ben distinta dei proprietari, sdegnano di appressarsi alla urna elettorale e se sono eletti si apprestano a mandare il loro rifiuto, o per non interven­to decadono dopo due mesi”, i commercian­ti non volevano perdere tempo nell’andare a votare21. L’altra ragione risiedeva nella scar­sa autorevolezza degli istituti. Per garantire una saldatura efficace con gli esercenti non era sufficiente una riforma delle circoscri­zioni elettorali; era necessario piuttosto au­mentare le attribuzioni delle camere22.

A questa valutazione, che anticipava uno dei motivi che saranno alla base della rifor­ma del 1910, se ne aggiungeva un’altra, an­cor più generale. Alcune camere avevano chiaro il fatto che la partecipazione assente era un nodo strutturale dello stato unitario23 e che nel caso delle camere veniva aggravata dalla sovrapposizione tra elettorato politico ed elettorato commerciale. Ciò che veniva messo sotto accusa era il sistema che mette­va in relazione le qualità richieste per eserci­tare il diritto di sovranità popolare e quelle per scegliere i membri di una camera di com­mercio; che faceva cioè coincidere il criterio della rappresentanza politica con quello del­la rappresentanza economica, assottigliando così, nel periodo del suffragio ristretto, la fascia dell’elettorato commerciale.

Il decreto del 1875, il primo di una serie di correzioni delle sezioni elettorali che si con-

18 A p, Camera dei deputati, tornata del 9 dicembre 1870.19 Acs, Maic, le, b. 13, f. 3, Camera di commercio di Caserta, sessione straordinaria del 20 luglio 1872, Sul nuovo metodo a tenersi per le elezioni dei componenti della camera di commercio ed arti', Camera di commercio di Savona e di Cuneo al ministro Castagnola, 3 agosto, 28 luglio 1872.20 Acs, Maic, le, b. 26. Schema delle risposte delle camere alla circolare 24 dicembre 1874.21 Acs, Maic, le, b. 26, Camera di commercio dell’Aquila al ministro Finali, 26 maggio 1875.22 Acs, Maic, le, b. 26, Camera di Modena al ministro Finali, 17 febbraio 1875; camera di Vicenza, seduta del 17 marzo 1875, Osservazioni e proposte dell’ufficio di presidenza per agevolare il concorso dei votanti nelle elezioni camerali.23 Acs, Maic, le, b. 26, Camera di Verona, al ministro Finali, 4 marzo 1875.

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eluse nel 1886, venne preceduto da una revi­sione delle liste degli elettori camerali, che venivano compilate sulla base di quelle poli­tiche, fatta in sede locale attraverso le liste amministrative data la quasi totale coinci­denza tra le due24. I successi delle prime ele­zioni dopo la riforma furono in alcuni casi ottimi (tab. 6). Sulle 39 camere considerate, 14 ebbero un forte aumento dei votanti, 6 un calo e le altre una lieve crescita dell’af­fluenza alle urne. Se si comparano questi ri­sultati con quelli delle elezioni del 1880 e 1882, si vede che il trend della partecipazio­ne non subì una inversione radicale. Nel 1874 la percentuale dei votanti in tutte le cir­coscrizioni camerali era stata del 9,63 per cento; nel 1880 fu del 19,6 per cento e nel 1882 del 21 per cento25. Delle camere che nelle elezioni del 1876 avevano registrato gli aumenti maggiori, solo alcune accrebbero o mantennero le percentuali nelle elezioni suc­cessive. È il caso di Cagliari, che passò dal 27 per cento del 1876 al 40 per cento del 1880 e al 43 per cento del 1882; di Foggia (57 per cento, 47 per cento, 59 per cento); di Napoli (36,8 per cento nel 1876, 49,4 nel 1880, 59,1 nel 1882) e infine di Siracusa (52 per cento, 55 per cento, 56 per cento). Le al­tre dieci ebbero una forte contrazione del­l’affluenza alle urne, assestandosi su livelli non molto superiori a quelli del 1874. I risul­tati ottenuti con la modificazione delle cir­coscrizioni elettorali diedero ragione più allo scetticismo manifestato da alcune delle ca­mere che alla fiducia riposta dal ministero nei correttivi amministrativi. Il debole au­mento della partecipazione elettorale non modificò né ebbe riflessi di qualche rilievo sugli andamenti delle camere stesse.

I comizi agrari e l’azione punitiva del mini­stero. Comizi e camere vennero sottoposti al

controllo del ministero di Agricoltura, indu­stria e commercio a cui facevano capo pur non dipendendo direttamente da esso, se­condo procedure ed obiettivi differenti che si armonizzavano con la struttura e le prero­gative loro appartenenti, comuni per certi aspetti, profondamente diversificate per al­tri. Nonostante la variabilità dei metodi di controllo, la politica del ministero fu carat­terizzata da un elemento comune. La sua azione non fu mai incentrata sulla verifica della razionalità delle camere e dei comizi, della rispondenza tra i mezzi ed i fini loro assegnati, né su quella dei risultati consegui­ti nel campo economico e commerciale. Il controllo venne esercitato esclusivamente sulla correttezza formale del loro funziona­mento, sul modo in cui venivano rispettate le regole dello stato. La regolarità del fun­zionamento prevalse, dal punto di vista del ministero, sugli obiettivi di acculturazione e di incremento della produzione. I comporta­menti lassivi dei due istituti trovarono un ri­scontro puntuale nell’interpretazione della loro attività che si affermò nell’ambito del­l’amministrazione centrale. Dalle numerose fonti archivistiche relative ai comizi agrari si ricava un’ampia casistica delle lamentele del ministero, provocate dal loro cattivo funzio­namento e dalla scarsa partecipazione dei proprietari fondiari alle loro iniziative. Il dato che induce a riflettere è la valutazione assolutamente generica dell’attività di questi istituti che rimase una costante nella succes­sione dei vari ministeri del periodo liberale. Valutazione che non venne mai disaggregata e soggetta a critiche differenziate a seconda dei settori di intervento, ma concepita come una presenza complessiva dei comizi nel cor­so dell’anno, il segno di una “vitalità” che più che essere funzionale allo sviluppo delle agricolture locali, doveva attestare la loro

24 Acs, Maic, le, b. 74, Circolare ministeriale del 25 marzo 1874 ai prefetti.25 Elezioni camerali del 1882 confrontate con quelle del 1880, “Annali dell’Industria e del Commercio” , 1882.

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esistenza e dimostrarne il buon rapporto in­tercorrente tra i gruppi economici locali e lo stato26. Nel caso dei comizi il discorso del controllo del centro rimanda a quello della debole accoglienza che essi ebbero da parte dei proprietari terrieri, intrecciandosi con­temporaneamente con l’analisi relativa al privilegio e all’intangibilità che l’ammini­strazione centrale riconobbe alla proprietà fondiaria. I correttivi periodicamente messi in atto per incentivare la partecipazione non assunsero mai forme di coercizione. Come non vennero mai applicate ai comizi né la tassazione obbligatoria né il criterio elettivo, il controllo sulla loro attività venne esercita­to basandosi su uno standard molto basso, stabilito sull’assenteismo dei membri del consiglio e sulla verifica di un andamento minimale delle spese annue. Era soprattutto il primo fattore a determinare la valutazione di “inattività del comizio” , a favorire la mi­sura della partecipazione assente.

La punizione che scattava nei casi più cla­morosi consisteva nello scioglimento del co­mizio e nella sua ricostituzione seguita, ma non sempre, dal rimpasto del consiglio direttivo27. Questa era la protesta più alta del ministero nei riguardi del comportamen­

to deviarne dei proprietari terrieri dalla qua­le trapelava, al tempo stesso, il tentativo di imporre la presenza dello stato di fronte alle fughe delle classi dominanti periferiche.

L’artefice di questi atti punitivi era il pre­fetto, a cui era stato affidato dopo il 1868 il compito di seguire da vicino i comizi e di usare la propria autorità per correggerne la ‘debolezza’. I compiti che gli erano stati at­tribuiti in campo economico28, tra i quali va annoverata la raccolta di dati statistici29 eb­bero, per quanto concerne i comizi agrari, una forte connotazione politica. Il ministro dell’Agricoltura gli aveva affidato l’incarico di stimolare la collaborazione tra proprietari terrieri e stato; di incentivare in qualche mo­do la funzione pubblica del possesso fondiario30. Era un compito gravoso che non diede risultati brillanti sia per la diffi­coltà di introdurre in breve tempo nuovi modelli di comportamento in un settore la cui privatezza era stata ampiamente protetta dallo stato stesso; sia per la tendenza dei prefetti a sottrarsi a questo tipo di incarico31. II controllo dei funzionari degli interni sulle attività economiche locali si ri­velò totalmente inadeguato e finì per essere eliminato a fine Ottocento.

36 Acs, ministero di Agricoltura, industria e commercio, Direzione dell’agricoltura — d’ora in poi Acs, Maic, Da —, I vers., b. 43, il sottoprefetto di Tortona al ministro, 7 ottobre 1878, 9 agosto 1879; risposta del ministro Majo­rana Catalabiano, 3 ottobre 1879.27 Acs, Maic, Da, I vers., b. 33, il prefetto di Pavia al ministro Miceli, 2 marzo 1881; IV vers., b. 22, il ministro Berti al sottoprefetto di Borgo S. Donnino, 31 maggio 1883; 1 vers., b. 25, il sottoprefetto di Imola al ministro Ma­jorana Catalabiano, 24 agosto 1877.28 L’allargamento delle competenze dei prefetti nel campo delle economie locali, iniziato nel 1860 con Ricasoli, venne definito con il RD 22 agosto 1863, con il quale furono affidate ai prefetti alcune attribuzioni che richiedevano un decreto reale o ministeriale, la nomina dei componenti di alcuni enti economici e l’approvazione dei relativi preventivi e ren­diconti: Claudio Pavone, Amministrazione centrale e amministrazione periferica da Radazzi a Ricasoli (1859-1866), Milano, Giuffrè, 1964, p. 269; Piero Calandra, L ’amministrazione dell’agricoltura, Bologna, II Mulino, 1972, p. 10.29 Acs, Maic, le, b. 37, f. 2, il ministro dell’Interno Lanza al ministro di Agricoltura, industria e commercio Casta­gnola, Firenze 29 luglio 1870; risposta di Castagnola nella quale si sollecita l’impiego dei prefetti come osservatori delle condizioni economiche locali. Sull’attività statistica dei prefetti nel secondo Ottocento vedi Lucio Gambi, Le “statistiche” di un prefetto del regno, “Quaderni storici”, 1980, n. 45.30 Relazione fatta al signor Ministro di agricoltura, industria e commercio dalla Commissione reale per l ’incremen­to dell’agricoltura, creata con decreto reale dell’8 settembre 1866, in Ordinamento dei comizi agrari, cit., p. 476.31 Acs, Maic, Da, V vers., b. 16, Circolare ministeriale ai prefetti del febbraio 1876, nella quale si sollecita la loro indagine sul cattivo funzionamento dei comizi.

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Le camere di commercio e la scalata del con­trollo ministeriale

Le camere di commercio, che godevano del­la piena autonomia finanziaria, usufruirono per circa trent’anni di un’altrettanto totale autonomia per quanto concerneva il loro funzionamento. Fino al 1884 il controllo del ministero a cui erano sottoposte era esclusi­vamente formale e di secondo grado, dal momento che il decreto del 31 dicembre 1862 aveva delegato totalmente al prefetto la verifica annuale del loro andamento finan­ziario. A costui spettava il compito di ap­provare i bilanci delle camere e di trasmet­terli al ministero dopo aver emesso l’ordi­nanza nella quale erano registrati i risultati finali dei conti preventivi e consuntivi32. Il rapporto diretto col ministero era limitato all’approvazione degli stipendi e delle condi­zioni di servizio degli impiegati e dei salaria­ti che lavoravano presso le camere.

Il tipo di controllo esercitato dall’ammini­strazione centrale sulle camere era assai di­verso da quello applicato sui comizi e corri­spondeva alle prerogative che le prime ave­vano ricevuto. Il nodo fondamentale consi­steva infatti nella verifica della loro gestione finanziaria, dato che si basava sull’impiego di denaro pubblico che entrava nelle casse delle camere attraverso la riscossione fiscale. Fondamentale diventava a questo proposito il controllo sui bilanci, per la cui compila­zione venivano usati appositi moduli forniti dal ministero ed applicate le regole di ragio­neria usate per i bilanci comunali e provinciali33. Da questo punto di vista le ca­mere di commercio funzionavano già dal

1862 come enti pubblici ed erano sottoposte ad una verifica amministrativa compieta- mente assente per i comizi. Il peso della fun­zione pubblica delle camere, strettamente le­gato alla loro facoltà di tassare, emerge an­che dalle disposizioni relative alla riscossio­ne dei tributi camerali. Per compiere questo atto, potevano infatti avvalersi degli esattori governativi, oltre che di quelli provinciali, comunali e dei ricevitori demaniali34.

Le camere di commercio avevano ricevuto fin dall’inizio la struttura amministrativa de­gli enti locali, ben diversa dalla ‘struttura as­sente’ dei comizi. A differenza degli enti lo­cali sfuggivano però ad una supervisione ef­fettiva sul loro funzionamento. Il controllo esercitato dai prefetti sulle camere si riduce­va ad un atto puramente simbolico, un rito a cui entrambi si sottoponevano senza curarsi di rispettare le regole formali dei tempi di consegna dei bilanci e della loro trasmissio­ne all’amministrazione centrale. Il ministero di Agricoltura, industria e commercio si af­fidò totalmente all’opera di verifica dei pre­fetti fino al dicembre 1877, data in cui fu sciolto per essere ricostituito nell’ottobre 1878. L’autonomia degli istituti camerali venne così favorita dall’incerto ruolo eserci­tato da questo dicastero nel periodo in cui prevalse l’opzione liberista, che si coniugava con fatica all’ipotesi di una direzione ammi­nistrativa dell’economia. La ricostituzione, pure così contrastata, del ministero35 coinci­se con un mutamento nello stile del suo ope­rato. Nello stesso 1878 vennero ristrutturati i Consigli dell’agricoltura e dell’industria e commercio, al fine di consentire una mag­giore rappresentatività al centro delle came-

32 Acs, Maic, le, Ordinanza del prefetto di Parma del 10 ottobre 1877, relativa al conto consuntivo del 1876 della camera di commercio di Parma.33 RD 31 dicembre 1862; 6 aprile 1864 in Raccolta dette leggi e regolamenti sulle camere di commercio, Bologna, 1889.34 RD 15 ottobre 1863; 23 dicembre 1864, in Raccolta delle leggi, cit.35 Piero Calandra, Parlamento e amministrazione. I. L ’esperienza dello Statuto a/bertino, Milano, Giuffrè, 1971, p. 130 sgg.

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re e dei comizi. Queste prime disposizioni si collocarono all’interno del più vasto movi­mento di controllo sugli organi economici periferici che procedette di pari passo con la rinnovata spinta impressa all’attività della direzione della statistica. I due fenomeni coincisero con il varo della tariffa protezio­nistica a favore dell’industria, prima mani­festazione dell’intervento dello stato per mo­dificare il ciclo economico, riparando l’in­dustria italiana dalla crisi internazionale e ponendo le condizioni per avviare il suo de­collo in un paese second corner.

Il complesso di questi fattori generali ebbe i suoi riflessi anche all’interno del microco­smo costituito dalla rete delle settantatre ca­mere di commercio, divenute più interessan­ti sulla scia di una tendenza che vide accen­tuare l’attenzione del centro nei confronti degli organi connessi ai settori emergenti dell’economia. Questo interesse si espresse — come è già stato sottolineato — attraver­so un linguaggio ed una pratica amministra­tivi finalizzati più ad avocare allo stato il controllo delle finanze delle camere che ad incanalare la loro attività in una direzione maggiormente consona agli obiettivi di svi­luppo del settore.

La nuova linea del ministero nei confronti delle camere si svolse all’insegna della tra­sparenza. Dal 1879 al 1884 l’operato del­l’amministrazione si focalizzò sull’obiettivo di dimostrare ai contribuenti l’impiego dei contributi camerali, facendo luce in partico- lar modo sui punti oscuri che si celavano dietro il capitolo delle spese straordinarie dei bilanci. Una delle preoccupazioni del dica­

stero derivava dal sospetto che le camere ge­stissero il personale impiegatizio sostituen­dosi all’amministrazione centrale, conceden­do aumenti sugli stipendi al di fuori di ogni autorizzazione ed occultandoli appunto al­l’interno delle spese straordinarie, allo scopo di crearsi una rete clientelare36. L’altra preoccupazione, più generale, consisteva nel verificare quale fosse l’effettiva tendenza delle camere nell’impiegare il denaro pubbli­co. Per questi motivi la spinta accelerata alla pubblicazione dei loro bilanci venne accom­pagnata dall’indagine statistica sulla situa­zione patrimoniale. Verifica sui bilanci e in­dagine statistica qualificarono il progetto di razionalizzazione del controllo dell’ammini­strazione centrale sulle camere. Lo strumen­to della statistica agì come rivelatore non so­lo della loro gestione finanziaria, ma anche dei loro comportamenti amministrativi. Fu nella fase di raccolta dei bilanci e dei dati patrimoniali che emerse in modo inequivo­cabile la trascuratezza delle camere e dei prefetti nell’osservare le regole e nel rispetta­re i tempi richiesti. Già dal 1878 si erano no­tate alcune irregolarità nella compilazione dei bilanci37. Altri segni di incuria erano sta­ti registrati a carico dei prefetti, come la loro scarsa tempestività nel trasmettere i bilanci al ministero dopo averli approvati38. Sono microsegnali che affiorano dalla documen­tazione archivistica, la cui importanza sta nel dimostrare la rottura del silenzio e del­l’indifferenza del ministero nei riguardi delle camere.

Il quadro complessivo della gestione con­tabile delle camere al 1884 non presenta

36 Acs, Maic, le, b. 449, Circolare deI ministro Miceli ai prefetti dell’ottobre 1879, nella quale si chiede che esami­nino “attentamente i modi di impiego della somma stanziata al capitolo ‘impensate’ nel bilancio passivo” ed esiga­no dalle camere tutti i chiarimenti su ciascun mandato; che controllino infine “ove si tratti di gratificazioni agli im­piegati” se sono concesse in base ai criteri stabiliti dal ministero. La camera di Siracusa aveva creato, nonostante il parere contrario del ministero, un nuovo posto di commesso che fu soppresso dopo il suo reiterato rifiuto di au­mentare l’organico (Maic alla camera di Siracusa 20 settembre 1884, ibidem).37 Acs, Maic, le, b. 19, il ministro del Tesoro alla camera di Reggio Calabria, 23 novembre 1878.38 Acs, Maic, le, b. 19, i prefetti di Piacenza e di Rimini al mnnistro del Tesoro, 20 maggio 1878, 31 ottobre 1878.

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mancanze di effettivo rilievo; mostra bensì la loro propensione a sottrarsi alle regole mini­steriali che si intreccia con la distrazione e la pigrizia dei prefetti. Questa indifferenza della periferia si assommava alla tendenza delle ca­mere a crearsi un patrimonio personale con i redditi derivati dal gettito fiscale. È a questi due elementi, che torneranno come fattori de­terminanti anche nei confronti della riforma del 1910, che ci si può rifare per spiegare la cir­colare del 18 febbraio 1884 con la quale fu an­ticipata l’avocazione al ministero dell’appro­vazione dei bilanci delle camere.

La revoca della delega al prefetto. La circo­lare del febbraio 1884 segna un passaggio fondamentale nel rapporto tra istituti perife­rici e amministrazione centrale e fa cadere al tempo stesso l’illusione di poter utilizzare il prefetto come strumento di controllo delle economie locali. La causa occasionale della circolare fu l’aggiornamento della pubblica­zione dei bilanci, attraverso cui il ministero intendeva “porre i contribuenti e gli elettori commerciali in stato di conoscere come ven­ga impiegato il prodotto dei tributi che essi pagano per il mantenimento di dette istitu­zioni, la pubblicazione costituendo il sinda­cato più efficace che si possa esercitare”39. I prefetti vennero pregati di inviare sollecita­mente i bilanci preventivi del 1882-83 e quelli consuntivi del 1881-82 senza approvarli. La circolare sottraeva nei fatti, anche se per un periodo circoscritto, la delega loro attribuita dai decreti del 1862 e 1864. Si trattava tutta­via di una circolare, ossia di una disposizione circostanziata che non rivestiva ancora un carattere di generalità. A questo si giunse so­

lo dopo le reazioni suscitate alla periferia dall’intervento diretto del ministero nell’atti­vità delle camere e dei prefetti.

Dalle fonti relative allo spazio di tempo in­tercorso tra il febbraio 1884 e il maggio 1885 è possibile ricavare una casistica fondata sul­l’analisi delle principali camere del regno. La loro reazione di fronte al giro di vite dell’am­ministrazione centrale fu di due tipi: quella consueta, di trascuratezza e indifferenza che interessò il maggior numero di camere e si espresse nel ritardo della consegna dei bilanci in prefettura; l’altra di rifiuto vero e proprio delle nuove disposizioni40. Le camere di Ca­gliari e Caltanissetta si opposero esplicita­mente alla circolare, ritenendo ancora valide le disposizioni precedenti41. Anche i prefetti diedero segni visibili di inerzia e di resisten­za: dieci continuarono a seguire la vecchia procedura42, altri sei inviarono bilanci al mi­nistero con un vistoso ritardo43.

A più di un anno dall’emanazione della circolare il quadro complessivo rivelava una preoccupante tendenza della periferia a sot­trarsi al centro e a difendere lo spazio econo­mico locale con la complicità offerta dall’as­senteismo dei prefetti. Il cumulo dei ritardi nella trasmissione dei bilanci al ministero re­se manifesto che l’anello periferico della ca­tena del controllo era mancante; per questo motivo si inceppava il meccanismo che, at­traverso la pubblicazione dei conti delle ca­mere, doveva garantire la trasparenza del lo­ro operato. La circolare aveva agito da test ed i risultati negativi che ne erano scaturiti indussero il ministro Grimaldi a proporre l’e­manazione del decreto 21 maggio 1885 per revocare totalmente la delega conferita ante-

39 Acs, Maic, le, b. 449, Circolare del 18 febbraio 1884.40 Consegnarono in ritardo al prefetto i propri bilanci le camere di: Arezzo, Pavia, Cuneo, Pesaro, Messina, Belluno, Catanzaro, Rovigo, Foggia, Siracusa, Grosseto, Sassari, Torino, Treviso, Venezia (Acs, Maic, le, b. 449).41 Acs, Maic, le, b. 449, camera di Cagliari e Caltanissetta al ministro Grimaldi, 30 aprile, 1 maggio 1885.42 Prefetti di Siracusa, Siena, Piacenza, Cremona, Caltanissetta, Palermo, Modena, Genova, Savona, Bologna.43 Prefetti di Foggia, Roma, Salerno, Sassari, Trapani, Cagliari.

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cedentemente ai prefetti per l’approvazione dei bilanci alle camere.

La relazione presentata da Grimaldi al re è un testo che chiarisce molti punti sul rap­porto tra il centro, le camere ed i loro super­visori periferici. Questo ultimi avevano com­pletamente fallito il loro mandato in campo economico. “I prefetti, troppo aggravati da cure e da funzioni molteplici e disparate, non sempre e non da per tutto poterono de­dicare all’esame dei bilanci delle camere di commercio la diligenza richiesta per rendere efficace il controllo che la legge affidava al governo sulla gestione finanziaria di tali en­ti; cosicché l’approvazione dei bilanci, più che un controllo, risultava una mera forma­lità” . L’incuria dei prefetti aveva consentito che le camere utilizzassero il denaro pubbli­co per spese ingiustificate “e non sempre per opere d’interesse delle industrie e del com­mercio; [...] alcune camere impegnarono i redditi in grandiose costruzioni o in dispendi continuativi, come il personale senza alcuna autorizzazione e senza alcun controllo; [...] le imposte furono aggravate: [...] parecchie camere usarono le entrate per formare un patrimonio, anziché volgere le eccedenze a riduzione delle tasse, spesso mal tollerate dai contribuenti. Un controllo più diligente — concludeva Grimaldi — apparisce indispen­sabile nell’interesse stesso di queste istituzio­ni, la cui azione, tanto utile al Governo e al­l’economia nazionale, acquisterà maggior prestigio da una rigida amministrazione fi­nanziaria, che permetterà di ridurre le impo­ste ad un più lungo impiego del reddito di esse in opere di non dubbio valore per l’in­cremento della produzione e dei com­merci”44.

Le parole di Grimaldi evidenziavano i problemi che le camere erano arrivate a rap­presentare per il ministero: il loro funziona­mento era improntato ad una logica patri­moniale e forse clientelare; i loro obiettivi di crescita finanziaria avvenivano a discapito dei contribuenti ed aumentavano, attraverso il mantenimento di forti tasse camerali, il di­stacco nei confronti delle categorie economi­che e commerciali. La gestione finanziaria delle camere, non sottoposta ad alcun con­trollo, era uno dei fattori che avevano mina­to le finalità costituzionali loro attribuite nel 1862. Il controllo diretto del ministero signi­ficava dunque ricondurre le camere, attra­verso i canali della contabilità, ai loro com­piti di base; usare la trasparenza finanziaria per restituire loro quella politicità da cui avrebbe dovuto scaturire un più solido lega­me tra interessi industriali e commerciali e stato. Ma erano solo queste le ragioni del decreto del maggio 1885?

Il fantasma della corporazione. Il decreto del 1885 sembra contraddire la linea affer­matasi in quegli anni, volta a sostenere il set­tore industriale e commerciale liberandolo dai vincoli governativi. Una delle novità più rilevanti contenute nel codice di commercio del 1882 consisteva nell’allentamento della tutela dell’esecutivo sulle società per azioni. Era stata infatti revocata l’autorizzazione governativa che il codice precedente impone­va come condizione necessaria per la loro costituzione ed eliminata la facoltà di scio­glierle solo con un atto amministrativo. Questa liberalizzazione venne accompagnata da un maggior rigore nei riguardi delle con­dizioni di garanzia delle società per azioni.

44 Acs, Maic, le, b. 449, Relazione del ministro Grimaldi a S.M. il Re, udienza del 21 maggio 1885. Il fallimento delle funzioni di controllo esercitate dal prefetto nei confronti delle camere e dei comizi pare confermare il giudizio dato sul cattivo funzionamento del suo operato “soprattutto là dove esso è chiamato ad agire — secondo la visione rattazziana — come l’elemento di raccordo politico-amministrativo tra il centro e la periferia, il governo e gli enti autonomi” : Angelo Porro, Il prefetto e l ’amministrazione periferica in Italia. Dall’intendente subalpino al prefetto italiano (1842-1871), Milano, Giuffrè, 1972, p. 177.

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La sottoscrizione del capitale iniziale fu por­tata da quattro quinti all’intero capitale ed il versamento delle azioni da un decimo a tre decimi. Fu vietata contemporaneamente re ­missione di nuove azioni fino al completo pagamento delle prime; in compenso venne eliminata l’autorizzazione governativa anche sull’emissione delle obbligazioni volte ad au­mentare il capitale attraverso pubbliche sot­toscrizioni, con il solo limite del non supera­mento del capitale iniziale45.

Nel periodo di preparazione del decollo industriale il governo favorì l’iniziativa pri­vata, fornendole regole maggiormente ade­guate alla crescita degli scambi ed allo svi­luppo degli affari. Come conciliare questo atteggiamento con l’ispessimento del con­trollo sulle camere di commercio, che di quei settori avrebbero dovuto essere non so­lo gli organi di rappresentanza ma anche i poli di irradiamento locali? Si possono avanzare a questo proposito alcune ipotesi. Il codice di commercio creava una classe speciale di cittadini che, nel momento in cui operavano nel campo degli affari, venivano sottoposti ad una regolarmentazione parti­colare. L’emanazione del nuovo codice di commercio aveva un significato ancora più rilevante per il fatto che avveniva nel perio­do iniziale di calo del ruolo dell’economia agricola e di avvio del legame tra pubblica amministrazione ed industria. Il sostegno pubblico ai settori economici emergenti era stato però accompagnato da alcuni atti che potrebbero essere letti nella chiave di una di­fesa dello stato contro il pericolo che la loro valorizzazione desse luogo al rinascere di

forme corporative. AH’interno di questa ipotesi interpretativa è collocabile la sop­pressione avvenuta nel 1888 dei tribunali di commercio, ai quali il codice del 1865 aveva deferito ogni atto che avesse aspetto com­merciale. Con la loro eliminazione non si completò solo quel processo, iniziato con l’unità, di riconduzione di tutte le giurisdi­zioni speciali a quella ordinaria. In questo modo venne anche ridimensionata la “spe­cialità” della classe degli esercenti l’industria ed il commercio, mentre venne inferto un duro colpo alle stesse camere dal momento che fu sottratto loro uno dei campi d’in­fluenza più autorevoli.

Che il nodo fosse il riconoscimento della “specialità” di quei cittadini e che questo si ripercuotesse direttamente anche sulle came­re lo si desume dalla questione, che restò aperta fino al 1910, inerente la denuncia del­le ditte commerciali presso le camere di commercio. Uno dei primi progetti di rifor­ma presentato nel 1870 dal ministro Casta­gnola prevedeva lo scioglimento del maggior contenzioso tra le camere e lo stato unitario, contemplando la restituzione agli istituti del controllo effettivo sugli esercenti mediante l’istituzione di un registro obbligatorio46. Questo punto cruciale, affrontato periodica­mente dalle camere a partire dal loro primo congresso, non era stato risolto neppure in occasione dell’emanazione del nuovo codice di commercio.

Ercole Vidari era stato uno dei più strenui fautori dell’estensione all’Italia del modello tedesco, secondo il quale era obbligatoria l’iscrizione in un registro di commercio non

45 Su questo punto e sull’evoluzione della legislazione commerciale, vedi Alberto Aquarone, La unificazione legi­slativa e i codici del 1865, Milano, Giuffrè, 1959. Per un’analisi della struttura delle società per azioni ottocente­sche, vedi Francesco Galgano, Storia del diritto commerciale, Bologna, Il Mulino, 1976; Idem, Le istituzioni dell'e­conomia capitalistica. Società per azioni, stato e classi sociali, Bologna, Zanichelli, 1980.46 Molte camere chiesero a Castagnola di ripresentare in Parlamento il progetto sull’iscrizione obbligatoria delle ditte commerciali. 11 ministro affermò di tener conto dei desiderata delle camere tentando una nuova presentazione del progetto, ma il suo incarico nel ministero Lanza terminò prima che potesse mantenere la promessa: Acs, Maic, le, b. 13, Castagnola al presidente della camera di commercio di Firenze, 2 agosto 1872.

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solo delle società commerciali, ma di un nu­mero molto maggiore di atti, nei quali era compresa soprattutto la registrazione delle ditte mercantili47. Fino all’abolizione dei tri­bunali di commercio anche in Italia esisteva presso di essi un registro nel quale erano pe­rò contenuti gli atti inerenti la situazione matrimoniale dei coniugi commercianti in relazione ai loro beni, le autorizzazioni per i minori che intendevano esercitare il com­mercio e gli atti delle società commerciali. Non esisteva invece, a differenza della Ger­mania e della Svizzera, la registrazione ob­bligatoria per chi esercitava singolarmente la mercatura; né i nostri tribunali commerciali avevano, a differenza di quelli d’oltralpe, facoltà di costringere gli interessati all’iscri­zione della propria firma.

Anche Minghetti nel 1869 aveva indivi­duato nella registrazione obbligatoria uno strumento di perequazione fiscale, un siste­ma per compilare correttamente le liste ca­merali ed una possibilità di ottenere un ma­teriale esatto per le indagini statistiche48. Ma la registrazione obbligatoria non era mai passata, sia per opposizione dei commer­cianti che per una presa di posizione costan­te dei vari governi. I timori del significato di una simile registrazione emersero con chia­rezza nel caso del dibattito relativo al nuovo codice di commercio. In quell’occasione emerse la posizione di chi — come il Varè — intendeva formalizzare l’eccezione creata dalla legislazione commerciale ricalcando il codice germanico, secondo cui la qualità di commerciante era resa pubblica attraverso l’iscrizione nel registro delle firme mercanti­

li. Questa proposta si fondeva col progetto della denuncia delle ditte commerciali e co­me quella venne respinta49. Lo stesso Casta­gnola, che dell’ultima era stato strenuo so­stenitore nel 1870, nella mutata congiuntura rappresentata dall’emanazione del nuovo codice, non solo accusò il Varè di proporre “il ritorno alle antiche maestranze, alle anti­che corporazioni privilegiate”, ma ritrattò le sue stesse posizioni precedenti, asserendo che il ruolo dei contribuenti delle camere co­stituiva già di per sé il registro dei commer­cianti50.

L’accrescimento del controllo sulle came­re può essere letto come un mezzo per scac­ciare il “fantasma della corporazione” e mo­tivato rifacendosi alla teoria del conflitto tra gruppi strutturali e stato, secondo la quale lo stato moderno tende costantemente ad in­globare al suo interno i gruppi economi- co-sociali rivendicando il primato sulla poli­ticità di cui anche i secondi intendono essere portatori51. Rispetto ai gruppi di interesse le camere di commercio costituiscono però un caso particolare. Esse rappresentavano inte­ressi categoriali privati in forza di una legge dello stato. Dalla pubblica amministrazione avevano ricevuto determinate attribuzioni, tra cui la facoltà di tassare dalla quale era scaturito il loro potere finanziario. La loro ambiguità era insita anche nel fatto che le loro prerogative, frutto di uno scambio in­crociato di privilegi e penalizzazioni, tende­vano a costituire un sistema autonomo di gestione degli interessi dotato di poteri spe­ciali all’interno dell’amministrazione pub­blica52.

47 Ercole Vidari, Dei principali provvedimenti legislativi chiesti dal commercio italiano e desunti dalle proposte del­le camere di commercio, Milano, 1873, pp. 47 sgg.48 Ap, Camera dei deputati, tornata del 15 giugno 1869.49 Ap, Camera dei deputati, tornata del 21 gennaio 1882.50 Stefano Castagnola, Fonti e motivi. Nuovo codice del commercio italiano, libro 1, Torino, 1883, p. 22.51 Questa teoria è stata sviluppata da Lorenzo Ornaghi, Stato e corporazione, Milano, Giuffrè, 1984.52 Sui timori serpeggianti già nel 1862 che si costituissero centri di potere esterni all’ordine statale si è soffermato Mozzarelli in C. Mozzarelli, S. Nespor, Amministrazione, cit., p. 1656.

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La legge del 20 marzo 1910. Lo scioglimento dell’ambiguità delle camere avvenne nel 1910 con la riforma che le trasformò in enti pubblici. La nuova legge esplicito da un lato la loro struttura amministrativa; rappresen­tò dall’altro la conclusione di quella strate­gia di controllo dall’alto iniziata nel 1884; sancì infine il pieno riconoscimento della lo­ro importanza, scavando un divario ancora maggiore nei riguardi degli istituti rappre­sentativi dell’agricoltura. Nessuna ammini- strativizzazione verrà attuata nei confronti dei comizi. L’intangibilità della proprietà fondiaria si unì all’abbandono del settore agricolo da parte della pubblica amministra­zione nel periodo in cui era impegnata a so­stenere il decollo industriale.

Con l’emanazione della nuova legge il go­verno diede una risposta conclusiva alle ri­chieste avanzate con insistenza crescente da­gli istituti e filtrate attraverso l’Unione delle camere di commercio, volte ad accrescere la propria autorità. Non ci si trovava più di fronte ad uno spettro di proposte che, come era accaduto per tutto l’Ottocento, intende­vano modificare profondamente la struttura delle camere. Fino al 1902 una delle soluzio­ni avanzate era consistita nell’idea di unifi­care le rappresentanze dell’agricoltura e del commercio e di estendere le competenze del­le camere anche al settore agricolo, allo sco­po di ampliare il loro spazio di intervento in campo economico53. Anche all’interno del dibattito in corso da decenni sui comizi agrari era periodicamente emersa la propo­

sta di riunire le rappresentanze economiche in organismi regionali, provinciali o diparti­mentali. La linea unificante, rifiutata co­stantemente dai grandi proprietari fondiari per il timore che attraverso di essa venissero applicate alle rappresentanze agricole la tas­sazione obbligatoria e la composizione elet­tiva54, venne alla fine scartata anche dalle camere. Essa era infatti l’espressione di uno stadio dello sviluppio economico ancora ca­ratterizzato da una scarsa specializzazione dei settori e da una organizzazione degli in­teressi categoriali appena abbozzata, che era stato ampiamente superato nel periodo, gio- littiano. L’obiettivo principale delle camere consisteva nell’accrescere il proprio potere fiscale allargando e rendendo meno fluido lo spazio di applicazione dei tributi. È del pri­mo Novecento lo scoppio del conflitto tra molte camere della Valle padana e i condut­tori agricoli provocato dal fatto che le pri­me, interpretando a loro favore la scarsa chiarezza della legge del 1862, esigevano da questi ultimi il pagamento della tassa came­rale55.

La linea che si impose nel periodo giolit- tiano fu incentrata sul riconoscimento della ormai evidente pubblicità delle camere, che impediva il ricorso ad ipotesi di riforma in­tese nel senso della valorizzazione della loro autonomia nella gestione degli interessi pri­vati. “La camera di commercio è oggi trop­pa parte dell’amministrazione dello stato perché sia concepibile una riforma nel senso della libertà”56. La stessa Unione delle ca-

53 G. Locami, Intorno alla riforma delle camere di commercio ed arti, Vercelli, 1897; V. Capo, Per la riforma delta legge sulle camere di commercio 6 luglio 1862. Riflessioni e proposte, Napoli, 1902.54 Consiglio di agricoltura, sessione 1893, tornate del 29, 30 maggio, 2 giugno 1893; sessione 1905 e 1906, tornata del 26 giugno 1905.55 Negli anni novanta la camera di Milano imponeva il tributo camerale ai conduttori (“Il movimento agricolo”, 22 aprile 1897). Quella di Cremona iniziò nel 1909, suscitando le più vivaci proteste degli affittuari (“L’agricoltore cre­monese”, 8 gennaio 1909). Le altre camere che tassavano i conduttori di fondi erano quelle di: Sassari, Udine, Mo­dena, Macerata, Livorno, Bologna, Pisa, Reggio Calabria, Como, Pavia, Lecco, Forlì, Rimini, Foligno, Ancona, Treviso, Firenze, Verona, Carrara, Girgenti, Padova, Napoli, Parma, Bari, Alessandria, Civitavecchia, Ferrara, Reggio Emilia (“L’agricoltore cremonese”, 3 aprile 1909).56 G. Magri, Sulla riforma delle camere di commercio. A proposito di recenti disegni di legge, Lodi, 1908, p. 11.

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mere di commercio ammetteva implicita­mente, nel 1903, che i giochi erano ormai fatti. Assumendo un atteggiamento realisti­co, basato sul riconoscimento dell’evidenza, si mosse a favore di una riforma che ritoc­casse la legge del 1862 senza alterarla nella sostanza. Le sue linee generali erano buone: “nessun’altra legge in Europa e fuori lascia alle camere di commercio così ampia libertà d’azione”57. Si trattava allora di rafforzare gli istituti restando dentro il sistema esisten­te; non svincolarle dall’amministrazione centrale ma potenziarle al suo interno. Le critiche nei loro confronti provenienti dal settore industriale avevano come origine il rifiuto della fiscalità, del pagamento cioè di una tassa ad istituti che mostravano la loro obsolescenza se raffrontati alle nuove forme di organizzazione categoriale58. Rafforzan­dosi, le camere avrebbero avuto anche l’au­torevolezza necessaria per sopravvivere nel mutato panorama della rappresentanza degli interessi.

Che la loro completa amministrativizza- zione fosse la soluzione più adeguata a risol­vere il duplice problema del loro potenzia­mento e dello scioglimento della loro ambi­guità, era una consapevolezza circolante ne­gli ambienti camerali. Secondo una lucida analisi fatta nel 1905, la nuova riforma do­veva innanzitutto eliminare la doppiezza in­sita nella natura degli istituti. Se li si voleva “enti privati, indipendenti dallo Stato”, si doveva togliere loro il diritto di imporre tri­buti coi privilegi della sovranità. Se si inten­deva mantenere questo privilegio, allora lo stato “avrà diritto di obbligarle a compiere funzioni che implicano una spesa, ed avrà ad un tempo il diritto di controllo e sorve­glianza come pei comuni e province. Questo

è il difetto della legge del 1862, concede alle camere il diritto di imporre e non dà al Go­verno sufficienti poteri per costringere le ca­mere a compiere il loro dovere, quando spontaneamente non mirano a raggiungere i fini loro assegnati dalla legge, quando si chiudono in un completo mutismo di inazio­ne almeno apparente”59. La scelta era obbli­gata: per mantenere il potere fiscale e raf­forzare la propria condizione patrimoniale, le camere dovevano optare per la totale pub­blicità e sottoporsi agli obblighi e controlli ad essa conseguenti.

La risposta governativa venne articolata con estrema coerenza lungo la linea sostenu­ta daH’ammininistrazione a partire dal 1884, incentrata sul controllo del potere finanzia­rio delle camere. La legge del 1910 accolse la proposta su cui si basava nei fatti tutto il programma dell’Unione, ossia la registrazio­ne obbligatoria delle ditte commerciali per combattere l’evasione fiscale. Questa tardi­va vittoria delle camere avvenne però solo al momento in cui la loro trasformazione in enti pubblici vanificava il fantasma della corporazione legandole saldamente all’am­ministrazione centrale. Ma il punto qualifi­cante della riforma fu la razionalizzazione del tributo camerale. Unificando i diversi ti­pi di tassazione che gli istituti potevano ap­plicare, fu limitato il loro potere fiscale. Il tributo camerale venne basato non più sul traffico degli affari bensì sul reddito e circo- scritto a quella parte di reddito che derivava dalle attività industriali e commerciali. In tal modo i conduttori agricoli furono definiti­vamente esclusi dalla lista dei contribuenti.

La legge di riforma, che era stata energi­camente invocata dalle camere, andò ben ol­tre le loro intenzioni. “Non ci risulta che

57 Unione delle camere di commercio italiane, Sulla riforma della legge 6 luglio 1862 per la istituzione e l ’ordina­mento delle camere di commercio, Milano, 1903, p. 5.58 Le camere di commercio sono necessarie?, “Il Progresso” — organo del partito economico italiano — 24 agosto 1913.59 Inchiesta sulle camere di commercio, “Giornale delle camere di commercio”, marzo-aprile 1905.

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queste ultime — osservò Santi Romano — [...] avessero avuto l’intendimento di ottene­re che nella legge si introducesse una sospen­sione che, parlando di ‘ogni forma di attività commerciale e industriale’, invece che di ‘commercianti e industriali’, permettesse una più estesa base di tassazione. Ma certamente la loro intenzione — che forse, del resto, esse non ebbero — di pervenire di straforo e per via obliqua ad una sostanziale modificazione dei loro poteri tributari, non ebbe alcun risul­tato; anzi, se mai, ebbe un risultato in un cer­to senso opposto”60. La maggiore autorità at­tribuita alle camere dalla loro trasformazione

in enti pubblici, fu compensata non solo dal maggior controllo a cui furono sottoposte61 quanto, e soprattutto, dalla riduzione del lo­ro potere fiscale. La riforma, varata in piena età giolittiana, portò di questa l’impronta: l’uso della burocratizzazione come strumento di mediazione e controllo degli interessi62, la valorizzazione del settore industriale e com­merciale rispetto a quello agricolo. Ma la strategia giolittiana si limitò a funzionare, in questo caso, come momento conclusivo di una soluzione i cui termini erano già emersi nel medio periodo.

Maria Malatesta

60 Santi Romano, Le camere di commercio, il tributo camerate e le casse di risparmio, in Scritti minori, voi. II, Mi­lano, Giuffrè, 1950, p. 232.61 Antonio Amorth, Le camere di commercio dall’unità d ’Italia alla riforma: assetto istituzionale e ruolo, in Le ca­mere di commercio tra Stato e regioni, a cura di R. Gianolio, Milano, Giuffrè, 1979.62 Sul progetto burocratico giolittiano si vedano le belle osservazioni contenute nel libro uscito postumo di Alberto Aquarone, Tre capitoli sull’Italia giolittiana, Bologna, Il Mulino, 1987, in particolare p. 63.

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Tabella 1. - Comizi agrari - Bilanci consuntivi 1885-1887 (spese).

Comizio Anno Totale 1 spese

Insegna­mento

Confe­renze

Acquisto Biblio- libri teca

Agri­coltura Concimi Prati-

colturaViti­

culturaOrti-

culturaAltre

industrieSilvi­

culturaConcor- Stazioni si espo- di sizioni monta

Casei­ficio

Mecca­nica

agraria

Miglio­ramento

classiagricole

T orino 1885 126 1.348 330 2.032 170 _ _ _ _ _ _ — 312 __ 585 —1886 — 800 300 2.056 100 — — — — — — — 400 — 800 —1887 423 765 340 2.060 — — — — — — — 293 100 — 418 —

N ovara 1885 4.322 300 767 79 582 — — — — — — — --- — — 910 —1886 4.289 — 400 102 525 — — — — — — — 300 — 1.150 —1887 3.797 100 307 79 514 — — — — — — — 200 — 1.087 —

Pavia 1885 6.563 — — 409 — 1.348 — — — — — — --- --- — — —1886 5.249 — — 1.678 — 1.500 — — — — — — --- --- — — —1887 4.273 — 310 1.162 — 1.500 — — — — — — --- --- — 16 —

M ilano 1885 4.084 — 100 79 480 120 — — — — — 1.093 --- --- — — 2831886 3.058 — — 151 543 170 — 200 — 20 — 132 --- --- — — 1071887 2.693 — — 162 544 188 — — — — — 388 --- --- — — 6

M antova 1885 2.611 — — 66 423 561 — — — — — — 470 545 — — —1886 4.313 — — 120 334 110 — — 96 605 — — 136 861 — — —1887 4.059 1.040 — 90 513 170 — — — — — — 592 972 — — —

Vicenza 1885 7.978 2.096 — 457 255 1.350 —1886 8.121 3.019 173 412 292 — — — — — — — — 2.118 — 178 —1887 8.946 2.891 — 175 209 — — — — — — — — 1.376 — 200 —

Treviso 1885 7.753 353 216 1.540 — 443 164 342 — — — — — 1.485 — 70 121886 8.176 376 432 1.550 — — — 161 — — — — 352 672 — 85 121887 7.076 496 400 1.476 — — — 170 — — — — 40 200 — 15 12

Piacenza 1885 5.952 — 405 244 — — — 500 — — — — 2.280 250 — 393 —1886 17.658 2.143 350 951 — — — — — — — — 9.311 — 474 —1887 8.041 1.087 71 1.350 — — — — 558 — — — 1.197 — — 281 —

Reggio E. 1885 3693 — — 61 591 — — — — — — — — 2.184 — — —1886 4.514 — 101 47 787 — — — — — — — 500 2.458 — — —1887 3.890 — 14 62 685 — — — — — — — 164 2.091 — — —

M odena 1885 2.330 — — — 524 — — — — — — — — 368 — — —1886 3.730 — 194 — 515 — — — — — — — 14 — 3 —1887 4.086 — 183 — 563 — — — — — — — 198 59 — 49 —

Ferrara 1885 3.782 1.060 143 71 1.202 80 — — — — — — — 59 — 171 501886 4.229 1.056 451 65 1.3771887 4.056 988 — 71 1.455 215 — — — — — — 232 — — — —

Fonte: Ministero di Agricoltura industria e commercio, “Bollettino di notizie agrarie”, 1890, n. 23, Bilanci consuntivi dei comizi agrari nel triennio 1885-1887.

Stato liberale e rappresentanza deH’economia

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Tabella 2. - Camere di commercio - Bilanci consuntivi 1878-1880 (spese).

C am era A nno B iblioteca Borse ScuoleS tabilim enti di saggio e co n d i­z io n a tu ra seta

C oncorsiesposizioni T o ta le spese

Ancona 1878 224 1.163 150 _ 1.567 22.2881879 345 1.605 330 — 500 27.8911880 204 1.093 330 — 500 22.811

Bologna 1878 208 271 800 _ 2.000 33.4431879 359 3.000 1.899 — 1.000 30.2621880 219 2.601 1.993 — 296 34.186

Bari 1878 649 2.905 13.722 _ _ 99.7921879 550 2.744 6.110 — 727 108.2041880 504 2.895 15.928 — 3.500 128.365

Civitavecchia 1878 20 _ 1.000 _ _ 13.2991879 84 — 1.000 — — 60.7741880 20 — 1.000 — — 11.962

Genova 1.878 605 7.875 4.000 2.211 500 34.9751879 546 8.053 4.000 2.194 300 23.5941880 669 8.271 4.000 2.100 300 11.446

Firenze 1875 269 1.696 2.951 11.437 4.548 68.2571879 293 1.616 4.995 14.508 3.000 77.0121880 401 2.041 2.936 12.021 2.467 79.359

Livorno 1878 882 3.437 600 _ _ 67.2381879 880 4.132 600 — 2.000 84.2711.880 830 3.201 1.000 — 44 68.772

Messina 1878 170 2.329 3.000 1.855 1.156 111.3051879 300 2.453 5.650 12.231 1.846 116.8801880 178 2.584 7.800 2.900 1.049 127.074

Milano 1878 614 6.851 5.685 _ 4.000 65.7651879 1.235 4.120 5.685 — 700 55.8331880 1.268 3.529 6.335 — 7.500 62.886

Napoli 1878 970 12.088 7.000 _ 5.000 88.3511879 509 12.875 7.500 — — 108.4551880 720 10.466 11.400 — 564 106.008

Roma 1878 480 1.812 2.170 _ _ 522.4461879 473 981 2.670 — — 259.9031880 540 1.483 3.170 — — 264.838

Fonte-, Ministero di Agricoltura industria e commercio, “Annali deH’industria e del commercio”, 1882, Bilanci delle camere di commercio. Consuntivi 1878-79-80 (spese).

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Tabella 3. - Comizi - Bilanci consuntivi 1885-1887.

Regione A nnoTasse pagate dai soci

N um erodeisoci

M ediaq u o taann u a

M edia dei soci per com izio

N um erocom izi

(*) G overno P rovince

E n tra te

C om uni R enditepa trim on .

In tro itivari

Spese di am m in i­straz ione

Piemonte 1885 16.918 3.173 5,3 198 16 6.850 12.700 10.166 3.695 12.372 15.0291886 15.682 3.271 4,7 204 16 8.806 11.500 10.756 3.859 9.634 16.5841887 16.967 3.274 4,8 204 16 10.603 11.000 7.013 3.696 9.201 17.072

Lombardia 1885 7.468 1.696 4,4 94 18 5.743 11.500 13.625 2.264 19.177 18.1531886 7.841 1.731 4,5 96 18 5.436 12.067 14.209 3.643 14.134 20.3521887 8.510 1.732 4,9 96 18 7.029 13.433 13.403 2.395 11.490 21.264

Veneto 1885 7.905 2.349 3,3 90 20 11.225 4.000 7.046 2.845 62.965 • 16.5811886 9.890 2.803 3,5 103 27 13.429 3.566 10.186 2.121 ■85.699 22.8721887 11.179 2.944 3,7 101 28 20.667 6.050 10.441 1.601 82.365 22.872

Emilia-Romagna 1885 12.879 2.190 5,8 146 15 5.187 8.163 5.719 781 24.212 15.0621886 14.756 2.262 6,5 150 15 7.101 8.263 6.344 833 23.668 16.6041887 14.722 2.563 5,7 160 16 4.134 7.163 5.001 826 24.030 16.599

Fonte-, Ministero di Agricoltura industria e commercio, “Bollettino di notizie agrarie”, 1890, n. 23, Bilanci consuntivi dei comizi agrari nel triennio 1885-87.

(*) E il numero dei comizi che hanno fornito dati completi sui quali sono state calcolate le medie sulla base dei totali elencati nella statistica ministeriale.

Stato liberale e rappresentanza dell’economia

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62 Maria Malatesta

Tabella 4. - Confronto fra le entrate dei comizi e delle camere di commercio in alcune città (1878-1879).

C ittà A nno C om izio C am era

Torino 1878 7.304 127.5451879 7.267 119.465

Milano 1878 10.285 53.0151879 12.678 54.123

Genova 1878 12.437 91.6021879 10.320 106.630

Bologna 1878 2.686 29.8901879 3.865 29.090

Pavia 1878 8.735 12.3801879 9.049 17.136

Mantova 1878 5.048 18.2041879 3.220 17.124

Lucca 1878 3.040 7.8201879 3.403 10.591

Fonte-, Ministero di Agricoltura industria e commercio, Notizie intorno alle condizioni dell’agricoltura degli anni 1878-79, Voi. Ili, Roma, 1882; Bilanci consuntivi delle camere di commercio. Entrate e spese durante il de­cennio dal 1871 al 1880, “Annali dell’industria e del commercio”, 1882.

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Stato liberale e rappresentanza dell’economia 63

Tabella 5. - Camere di commercio - Volume totale delle entrate e delle spese in alcune città.

Camera di commercio AnnoEntrate Spese

Preventivo Consuntivo Preventivo Consuntivo

Bologna 1871 27.502 20.5011872 43.918 17.987 43.918 29.0381873 36.217 19.119 36.917 22.2871874 47.818 34.060 47.818 24.814

Firenze 1871 — 67.007 — 70.2901872 64.930 64.984 64.930 64.8511873 67.645 79.473 67.645 78.6171874 88.634 85.586 88.634 86.286

Milano 1871 — 39.757 — 57.9951872 7.700 58.661 7.700 35.5111873 7.750 53.804 7.550 51.2331874 6.850 76.768 6.850 42.085

Napoli 1871 — 43.756 — 82.2071872 36.502 2.422 24.950 28.0961873 40.383 66.923 31.600 33.2771874 43.900 74.632 31.700 53.326

Roma 1871 — 88.096 — 32.0631872 162.940 194.016 162.939 107.5241873 196.667 23.748 196.666 35.2401874 276.728 87.840 276.728 51.538

Torino 1871 — 463.547 — 357.6421872 424.659 387.557 424.659 370.5661873 139.700 184.277 139.700 147.8521874 133.447 217.633 133.447 138.929

Ancona 1871 — 41.935 — 32.6921872 38.373 40.228 38.373 36.4031873 38.373 11.824 38.373 52.2081874 13.373 8.052 38.373 41.137

Bari 1871 — 16.410 — 15.1321872 20.500 49.893 20.500 23.8041873 61.915 60.142 61.915 19.2851874 66.104 63.163 66.103 33.499

Civitavecchia 1871 — 29.764 — 21.7551872 57.509 54.021 57.509 37.5291873 44.200 46.100 44.200 17.7811874 56.529 118.249 56.509 30.958

Genova 1871 — 156.548 — 117.7381872 132.517 174.395 132.517 133.0571873 131.413 209.167 131.413 140.9471874 147.983 203.833 147.982 122.901

Livorno 1871 — 36.686 — 37.7721872 44.010 46.495 44.100 45.8881873 44.010 51.346 44.100 51.2651874 49.510 56.525 49.510 52.396

Messina 1871 — 90.200 — 36.5111872 104.400 112.620 104.100 51.2331873 147.100 178.057 147.100 75.7081874 177.200 191.416 177.200 58.929

Fonte: Bilanci consuntivi delle camere di commercio per gli anni 1871-72', Bilanci preventivi delle camere di commer­cio per gli anni 1872-73-74, “Annali del Ministero di agricoltura, industria e commercio”, 1874; Bilanci con­suntivi delle entrate e delle spese per gli anni 1873-84, “Annali del Ministero di agricoltura, industria e com­mercio”, 1875,

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Tabella 6. - Camere di commercio - Partecipazione alle elezioni camerali.

C am era di com m ercio -1873 1874 1875 1876

I V p I V p I V P 1 V P

Bari 1.938 557 28 2.810 1.280 45

Avellino 1.608 408 25 1.290 617 47

Cosenza 2.385 60 2,5 2.624 415 47

Belluno

Benevento

Brescia

Caltanissetta

Cagliari

Chieti

Como

Cremona

Ferrara

Foggia

Firenze

Foligno

Forlì

Genova

Livorno

Lucca

Macerata

Mantova

640 73 11,4

1.590 42 2,6

2.739 371 13,5

726 199 27

1.023 158 15

777 101 12

1.066 28 2,6

2.191 29 1,3

990 105 10,6

763 172 22,5

4.980 552 10,4

1.314 78 5,9

500 25 5

5.242 260 4,9

1.747 125 7,1

1.106 41 3,7

790 43 5,4

1.660 40 2,4

764 34 4,4

1.703 513 30

3.190 582 18,2

663 270 4

1.054 289 27

809 231 28

1.192 191 16

2.353 36 1,5

1.083 97 8,9

1.234 713 57

5.062 651 12,8

1.369 42 3

531 86 16,1

5.937 780 13,1

1.785 636 35,6

1.779 40 2,2

889 71 7,9

1.772 53 2,9

Maria M

alatesta

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Segue: Tabella 6

1873 1874 1875 1876Camera di commercio

I V P I V P I V p I V P

Milano 5.305 146 2,7 5.684 512 9

Modena 921 33 3,5 1.000 168 16,8

Napoli 3.359 450 13,3 3.246 1.197 36,8

Pesaro 415 25 6 465 74 15,9

Piacenza 1.010 34 3,3 1.098 39 3,5

Padova 1.655 183 11 1.716 309 11

Parma 1.160 28 2,4 1.230 136 11

Ravenna 726 134 18,4 835 150 17,9

Reggio C. 782 385 4,9 945 548 5,7

Reggio E. 848 41 4,8 941 85 9

Roma 2.351 204 8,6 4.787 602 12,5

Rovigo 965 132 13,6 1.035 170 16,4

Sassari 700 100 14,2 677 236 34,8

Siena 1.476 2 2 1,4 1.719 34 1,9

Siracusa 470 100 2 1 ,2 720 375 52

Torino 8.448 259 3 9.314 1.520 16,3

Treviso 1.291 46 3,5 1.378 119 8,6

Venezia 2 .1 2 1 273 12,8 2.216 344 15,5

Fonte'. Acs, Maio, le, b. 27, Elezioni camerali del 1876\ Statistica delle elezioni camerali 1870-1874, “Annali del Ministero di agricoltura, industria e commer­cio”, 1874.

1 = iscritti.V = Votanti.P = Percentuale. CT\un

Stato liberale e rappresentanza dell’economia

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66 Maria Malatesta

Tabella 7. - Camere di commercio - Situazione patrimoniale nel 1877, 1880, 1882.

S ituazione patrim o n ia le al 31 dicem bre

1877 1880 1883

Beni immobili 1.663.327 2.193.514 3.109.524Mobilio e materiali diversi 295.579 337.970 367.149Fondi pubblici e privati 1.381.693 1.904.575 2.151.299Denaro in cassa 384.846 406.489 437.565Crediti diversi 1.241.012 867.087 965.298

Totale attivo 4.966.457 5.709.635 7.030.835Passivo 1.379.331 957.969 991.815

Patrimonio netto 3.587.126 4.751.666 6.039.020

Fonie: Ministero di Agricoltura industria e commercio, Statistica dei bilanci di previsione delle camere di commercio per gli anni 1881, 1882, 1883 e 1884 e loro situazione patrimoniale al31 dicembre 1883, Roma, 1886.