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STATO E MERCATO / n. 75, dicembre 2005 FORTUNATA PISELLI Capitale sociale e società civile nei nuovi modelli di governance locale Negli ultimi quindici anni numerosi contributi di ricerca hanno messo in evidenza come i processi di globalizzazione abbiano messo in crisi lo stato nazionale come epicentro della politica e dell’ordine sociale. Nuovi attori globali sono emersi (NAFTA, OMT, Unione Europea ecc.) che hanno assunto un’importanza sempre maggiore e hanno acquisito nuovi statuti e mezzi per condizionare il potere dei diversi stati nazione. Strutture e approcci come government e pluralismo, che avevano dominato il dibattito politico, sono stati sostituiti dal concetto di governance, un termine che sembra catturare i significativi cambiamenti che, in concomitanza coi processi di globalizzazio- ne e integrazione europea, sono avvenuti negli obiettivi, funzioni e procedure del governare 1 . Governance si riferisce a forme di governo che enfatizzano la diffusione e dispersione dell’autorità politica lungo una pluralità di percorsi verticali e orizzontali che non hanno più lo stato come epicentro politico; riflette la realtà di un ordine complesso formato da relazioni e interconnessioni che si strutturano attraverso e all’interno di diversi livelli di government: locale, regionale, nazionale e sovranazionale. Coin- volge una pluralità di attori, individuali e collettivi, esterni ai luoghi della politica formale. Questi fenomeni, ben noti, e dunque appena accennati, tendono a dare particolare rilievo alla dimensione locale e al ruolo della società civile nei processi di sviluppo e di parteci- 1 Sui diversi significati di governance e sul dibattito relativo esiste un’ampia letteratura. Si vedano, tra gli altri, Hollingsworth, Schmitter, Streeck 1994; Stoker 1998; Trigilia 1998; Hirst 2000; Crouch et al. 2001, 2004. Per una sintesi, vedi Burroni 2004, Della Sala 2005.

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STATO E MERCATO / n. 75, dicembre 2005

FORTUNATA PISELLI

Capitale sociale e società civile nei nuovi modellidi governance locale

Negli ultimi quindici anni numerosi contributi di ricercahanno messo in evidenza come i processi di globalizzazioneabbiano messo in crisi lo stato nazionale come epicentro dellapolitica e dell’ordine sociale. Nuovi attori globali sono emersi(NAFTA, OMT, Unione Europea ecc.) che hanno assuntoun’importanza sempre maggiore e hanno acquisito nuovi statutie mezzi per condizionare il potere dei diversi stati nazione.Strutture e approcci come government e pluralismo, che avevanodominato il dibattito politico, sono stati sostituiti dal concettodi governance, un termine che sembra catturare i significativicambiamenti che, in concomitanza coi processi di globalizzazio-ne e integrazione europea, sono avvenuti negli obiettivi, funzionie procedure del governare1. Governance si riferisce a forme digoverno che enfatizzano la diffusione e dispersione dell’autoritàpolitica lungo una pluralità di percorsi verticali e orizzontali chenon hanno più lo stato come epicentro politico; riflette la realtàdi un ordine complesso formato da relazioni e interconnessioniche si strutturano attraverso e all’interno di diversi livelli digovernment: locale, regionale, nazionale e sovranazionale. Coin-volge una pluralità di attori, individuali e collettivi, esterni ailuoghi della politica formale.

Questi fenomeni, ben noti, e dunque appena accennati,tendono a dare particolare rilievo alla dimensione locale e alruolo della società civile nei processi di sviluppo e di parteci-

1 Sui diversi significati di governance e sul dibattito relativo esiste un’ampialetteratura. Si vedano, tra gli altri, Hollingsworth, Schmitter, Streeck 1994; Stoker 1998;Trigilia 1998; Hirst 2000; Crouch et al. 2001, 2004. Per una sintesi, vedi Burroni 2004,Della Sala 2005.

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pazione democratica. Se è vero, infatti, che la politica globaleha ridotto le possibilità regolative degli stati nazionali e hacomportato l’emergere di un sistema di governance formato damolteplici organizzazioni di ambito internazionale e transnazio-nale, è anche vero che, dello stesso passo, ha spinto in direzionedi una maggiore decentralizzazione e regionalizzazione e ha datonuovo vigore, senso e significato alla dimensione locale, comecontesto regolativo capace di dar vita a processi di sviluppoeconomico e sociale e di competere nelle nuove condizioni delmercato globale. Allo stesso tempo governance si riferisce aforme di governo che sottolineano l’influenza e il ruolo dellasocietà civile nel processo decisionale. Le strategie flessibili einformali, che sono caratteristiche della governance, comportanonon solo una ristrutturazione che aumenta i processi di auto-nomia delle strutture interne, ma soprattutto – sia a livellotransnazionale che locale – comporta una maggiore aperturaverso le collaborazioni esterne, tutte quelle organizzazioni chefanno da ponte tra l’ambito politico istituzionale e l’ambitosociale; la società civile, appunto, come terzo livello di parte-cipazione politica tra i cittadini e lo stato (Ruzza 2004).

In questi processi che la letteratura definisce di localizzazioneglobale (Beck 1999) sia i problemi dello sviluppo locale che ilruolo della società civile sono strettamente associati, sia dalpunto di vista teorico che empirico, con un altro concetto, quellodi capitale sociale2. La letteratura ha messo in evidenza come,nell’economia post-fordista (dai «distretti industriali» ai «nuovispazi industriali», dalle «learning regions» ai «milieux innova-teurs»), la dotazione di capitale sociale ha un’importanza crucialeper le politiche di sviluppo a livello locale, per favorire, inparticolare, la produzione di quelli che vengono chiamati benicollettivi locali per la competitività (Crouch et al. 2001). Si sonoaffermati nuovi paradigmi interpretativi che puntano sulla va-lorizzazione delle risorse endogene, sia istituzionali che sociali,e quindi sul capitale sociale come elemento cruciale delleconvenienze localizzative all’interno di un’area.

La letteratura ha messo in evidenza, altresì, che la dotazionedi capitale sociale è alla base dei processi di auto-organizzazionedella società civile in imprese, reti, associazioni, scuole, club,

2 Tale nesso, ampiamente esaminato dalla letteratura scientifica, ricorre anche neidocumenti ufficiali delle istituzioni sovranazionali e internazionali (OECD 2001;Commission, Preston et al. 2001; United Nations 2001).

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chiese, sindacati e così via3. È infatti il capitale sociale, cioè ladisponibilità delle persone ad associarsi ed agire per il benecomune, che promuove le capacità spontanee di autogovernoe di autodisciplina a livello della organizzazione sociale. È ancorail concetto di capitale sociale che permette di esplorare la naturae il ruolo della società civile nel governare e quindi le possibilitàdegli attori (individuali e collettivi) di incidere sulle politichedi sviluppo di un territorio.

L’obiettivo di questo articolo è duplice: da una parte,analizzare il concetto di capitale sociale e le risorse offerte daquesto approccio per capire la natura e il ruolo della societàcivile nei processi decisionali; dall’altra parte, esaminare alcunerecenti esperienze di governance a livello locale per mettere inevidenza il nuovo rilievo della società civile nelle politiche disviluppo territoriale. Come abbiamo detto, le funzioni di governosono cambiate in modo significativo nel contesto di un inde-bolimento politico degli stati nazionali. Ma governare oltre lostato non riguarda solo le forme transnazionali di governo comel’Unione Europea, ma in modo altrettanto significativo anchele forme di governo locale. E, infatti, proprio l’analisi dellaproduzione di politiche pubbliche a livello locale ci consentedi individuare le nuove vie della legittimazione democraticaattraverso la diffusione dell’autorità politica; in particolare, ilruolo dei gruppi di interesse e delle associazioni nel processodecisionale e, in generale, il contributo che la società civile puòoffrire a un’autorità politica decentralizzata. Insomma, avvicinarela lente di ingrandimento ci consente di studiare processi einterdipendenze che sarebbe più difficile cogliere in contesti piùampi. Consente di confrontare principi astratti e affermazionigeneralizzanti con l’agire concreto degli attori, in situazionispecifiche.

1. Il concetto di capitale sociale. Concezione relazionale eculturalista

Per quanto riguarda il nostro discorso, che mira a individuarela relazione tra capitale sociale e società civile, è opportuno

3 Sul concetto di «società civile» e i suoi cambiamenti di significato nel tempo enelle diverse teorie esiste una vasta letteratura. Si vedano, tra gli altri, Gellner 1994;Alexander 1995; Cohen e Arato 1999; Giner 2000.

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considerare brevemente quelle che sono emerse come le dueprincipali linee interpretative del capitale sociale. La prima lineainterpretativa, che considera il concetto dal punto di vistarelazionale, è stata introdotta da Bourdieu (1980) e successiva-mente perfezionata e sistematizzata da Coleman (1990). Ilconcetto di capitale sociale, secondo Coleman, inerisce allastruttura delle relazioni sociali, tra due o più persone; è costituitodall’insieme delle risorse relazionali che l’individuo eredita e inlarga parte costruisce da solo, all’interno della famiglia e in altrecerchie sociali. Come altre forme di capitale, il capitale socialeè produttivo: è una risorsa per l’azione che rende possibileall’attore (individuale o collettivo) il conseguimento di fini nonaltrimenti (o con costi molto alti) raggiungibili. Il capitale socialeè il risultato di strategie di investimento, intenzionale o inin-tenzionale, orientate alla costituzione e riproduzione di relazionisociali durevoli, capaci nel tempo di procurare profitti materialie simbolici. Il capitale sociale può essere una risorsa individualeo una risorsa collettiva (per la sua caratteristica di benepubblico), ma anche in quest’ultimo caso è considerato dalpunto di vista relazionale e dei benefici che può procurare agliindividui. Il capitale sociale è un concetto situazionale, perchépuò assumere le forme più diverse, ciascuna delle quali èproduttiva rispetto a uno specifico scopo; implica costi e beneficidiversi nelle diverse situazioni. Una forma di capitale sociale chefavorisce un tipo di azione può rivelarsi un vincolo rispetto aun’altra azione; in un contesto può facilitare l’innovazione, inun altro può impedirla; può offrire risorse utili a uno scopo,ma inutili o dannose per altri. Il capitale sociale non è solosituazionale, ma anche un concetto dinamico, processuale.Questo è particolarmente evidente nel fatto che il capitale socialeè spesso un sottoprodotto (by-product) di attività iniziate per altriscopi. Cioè, può essere finalizzato a obiettivi diversi rispetto aquelli per cui si è formato. È dunque il risultato di un processodi interazione dinamica: si crea, si mantiene e si distrugge. Puòessere creato, intenzionalmente o inintenzionalmente, ma puòessere distrutto attraverso comportamenti individuali (individuiche escono da un’organizzazione e pertanto la indeboliscono),o per il sopravvenire di fattori esterni che rendono le personemeno dipendenti le une dalle altre. Richiede, dunque, investi-menti continui, come qualsiasi altra forma di capitale. In sintesi,come dice Coleman, «il capitale sociale si crea quando lerelazioni tra le persone cambiano in modi che facilitano l’azione»

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(1900:304). Quando gli attori, cioè, intrecciano nuove relazionio combinano quelle esistenti in modo diverso, producendo cosìsempre nuove forme di capitale sociale. Secondo questa pro-spettiva, il capitale sociale è un concetto da usarsi in analisi cheriguardano il cambiamento: il potenziale di azione cooperativadelle reti sociali, gli effetti emergenti dell’interazione.

Ben diversa, dalla prospettiva relazionale di Coleman, è laprospettiva culturalista di quegli autori, come Putnam (1993)e Fukuyama (1995) che, con una forzatura del concetto, hannoconsiderato il capitale sociale una proprietà dell’intero sistemasociale che favorisce la democrazia e lo sviluppo economico.Limiterò l’attenzione a Putnam, che è stato il pioniere di questoapproccio, anche se molte delle osservazioni che seguonovalgono anche per Fukuyama.

Putnam (1993), come è noto, ha studiato il rendimento delleistituzioni nelle regioni italiane, e ha ricondotto i loro diversirendimenti istituzionali alla diversa dotazione di capitale socialedi cui dispongono. Per Putnam il capitale sociale (spesso inmaniera riduttiva equiparato al senso civico) consiste in carat-teristiche dell’organizzazione sociale, quali la fiducia, le normedi reciprocità, e le reti di associazionismo civico che promuovonola cooperazione e l’azione collettiva e aumentano quindi l’effi-cienza della società. Sono soprattutto le reti sociali di tipoorizzontale e le norme di reciprocità generalizzata che generanola fiducia, tengono sotto controllo i comportamenti opportuni-stici e favoriscono l’azione collettiva. L’accumulazione di capitalesociale è un processo culturale lungo e complesso che dipendedalle capacità spontanee di autodisciplina e autogoverno a livellodell’organizzazione sociale, in altre parole dalla capacità diassociarsi spontaneamente. L’idea prevalente, infatti, è che lavitalità delle istituzioni politiche ed economiche dipende da unasana e vitale società civile. Questa si basa sui valori condivisi,norme e disposizioni morali delle persone che alimentano lafiducia reciproca e quindi la capacità di associarsi e cooperare.Putnam individua un «nesso strettissimo» tra capitale sociale erendimento delle istituzioni. Il ruolo di variabile indipendentespetta al capitale sociale. Il contesto e la storia determinano ladotazione di capitale sociale di una determinata società e questo,a sua volta, ha una profonda influenza sul funzionamento delleistituzioni: quanto più elevato è il capitale sociale, tanto megliofunzionano le istituzioni e, per estensione, il sistema economico.Per questo motivo le regioni del nord Italia, con una forte

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tradizione civica e ampia dotazione di capitale sociale, hannoconosciuto lo sviluppo economico e ottenuto le migliori presta-zioni dalle istituzioni pubbliche. Le regioni del Mezzogiorno,invece, dove la tradizione civica è debole, carente o inesistentela dotazione di capitale sociale – e dunque caratterizzate dafamilismo amorale, clientelismo, illegalità – hanno avuto governiinefficaci e stagnazione economica. Tale impostazione, a diffe-renza di quella relazionale di Coleman, guarda alla dotazioneesistente di capitale sociale e ai processi attraverso cui si èformato nei tempi lunghi della storia.

2. Capitale sociale e società civile: qualche precisazione

Varie posizioni critiche, stimolate da Portes (1996, 1998),hanno messo in evidenza i rischi connessi alla impostazione dicapitale sociale di Putnam che ne rileva solo gli effetti positivie finisce per cadere in spiegazioni tautologiche o produrre veritàovvie. Infatti, il successo economico o fallimento di una comu-nità o nazione vengono spiegati a posteriori con la presenza oassenza di capitale sociale, con una spiegazione circolare cheindividua nel capitale sociale, allo stesso tempo, sia la causa chel’effetto di un fenomeno. Lo stesso avviene con il concetto disocietà civile. Per Putnam la nozione di capitale sociale è stret-tamente connessa a quella di società civile: solo un’ampiadotazione di capitale sociale rende una società civile sana edinamica. Se non c’è una società civile sana e dinamica, nonc’è capitale sociale, di conseguenza non c’è sviluppo economiconé democrazia.

Possiamo subito obiettare che capitale sociale e società civilesono due concetti da tenersi, sia teoricamente che empiricamen-te, distinti. Se, nonostante l’evoluzione del concetto nel tempo,c’è un consenso generale a considerare la società civile comequel complesso di istituzioni intermedie tra i cittadini e lo statoche comprendono ogni sorta di gruppi e associazioni (formalie non formali), il concetto di capitale sociale è molto più ampio,ambiguo e complesso di quanto emerge dal paradigma diPutnam.

Prima di tutto, non si può considerare automaticamente ladisponibilità di capitale sociale come una risorsa per lo sviluppoe la partecipazione democratica. Dobbiamo distinguere tra effettipositivi del capitale sociale per lo sviluppo locale ed effetti

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positivi per particolari detentori di capitale ma negativi per losviluppo; cioè dobbiamo prendere in considerazione anche i «latioscuri» del capitale sociale, ovvero i suoi effetti negativi eindesiderati. Le reti particolaristiche e la fiducia interna a ungruppo (capitale sociale) possono sostenere gruppi criminali divario tipo, quali la mafia o la camorra, che agiscono al di fuoridella legge e sono sicuramente di ostacolo alla vita democraticae allo sviluppo (Trigilia 2001, 2005)4.

In secondo luogo, il concetto di capitale sociale abbraccia unavarietà di significati che si definiscono in modo diverso nellediverse situazioni e possono avere effetti positivi sul benesseredelle persone anche in presenza di quella che si può definire unasocietà civile debole e frammentata. Putnam, al di là delle variedefinizioni che utilizza, privilegia una dimensione di capitalesociale: le reti di impegno civico, cioè l’associazionismo. Conce-zione che riafferma anche nella sua monumentale opera suldeclino del capitale sociale negli Stati Uniti (Putnam 2000).Ebbene, la connessione positiva tra capitale sociale e partecipa-zione associativa (ovvero società civile) non è meccanica. Con-sideriamo il caso del Mezzogiorno d’Italia che in questo sensoè emblematico. È stato ampiamente documentato che comunitàlocali caratterizzate da diffusi e pervasivi vincoli particolaristici (equindi da una società civile fiacca e scarsamente dinamica) hannoampie dotazioni di capitale sociale che hanno prodotto beneficicongruenti con le finalità che gli attori si proponevano e con ilcontesto in cui agivano: in alcune aree, hanno indotto misureredistributive, da parte dello stato centrale, che hanno miglioratoconsiderevolmente le condizioni di vita degli abitanti (Arrighi ePiselli 1987); in altre aree, hanno stimolato processi di coope-razione orizzontale e verticale positivamente orientati verso unosviluppo capace di autosostenersi, e quindi, anziché ostacoloinsormontabile, sono divenute risorse per la modernizzazioneeconomica e politica (Mutti 1994, 1998; Piattoni 1999).

In terzo luogo, sia per Putnam che per Fukuyama, il capitalesociale è espressione della propensione all’azione collettiva diattori della società civile, viene misurato dal loro livello di

4 Di recente, anche Putnam (2000) e Fukuyama (2001) hanno preso in considerazionele possibili conseguenze negative del capitale sociale, esaminando, rispettivamente, legang criminali delle metropoli e le lobbies orientate al self-interest. Tuttavia, perentrambi, il nesso tra fiducia e impegno civico (ovvero capitale sociale) e democrazianon ha perso nulla della sua validità.

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associazionismo e comportamento cooperativo, che affonda leradici lontano nel tempo, fa riferimento alla persistenza di codiciculturali che si sarebbero riprodotti, più o meno inalterati, neiprocessi di socializzazione. I due autori trascurano l’azioneintenzionale e creativa degli attori, in particolare degli attoriistituzionali, e quindi il ruolo della politica, nel riprodurre eorientare il capitale sociale. Come dice esplicitamente Fukuyama,le politiche dei governi hanno semmai avuto l’effetto di con-sumare ed esaurire il capitale sociale, senza trovare misureadeguate per ricostituirlo. Di recente, invece, si sono affermatealcune posizioni critiche che, riprendendo il paradigma dell’azio-ne di Coleman, sottolineano l’importanza dell’azione strategica,il ruolo attivo degli attori, sia individuali che collettivi, soprat-tutto istituzionali, nella produzione di risorse di integrazione,quali il capitale sociale (Bagnasco 2001, 2003; Trigilia 2001). Inconclusione, alla luce di queste considerazioni si vede che nonpossiamo definire a priori la coincidenza fra capitale sociale esocietà civile e i loro effetti sullo sviluppo economico e lademocrazia. Queste connessioni vanno analizzate in ogni par-ticolare situazione, nella loro evoluzione dinamica. È in questaprospettiva che analizzeremo il concetto di capitale sociale e ilsuo rapporto con la società civile in quelli che sono gliesperimenti più nuovi e significativi di governance a livellolocale: i patti territoriali e i piani strategici urbani.

3. Patti territoriali

I patti territoriali (strategie negoziate di sviluppo locale) sonoun particolare tipo di politiche pubbliche volte a potenziare losviluppo endogeno di area attraverso un coinvolgimento attivodi soggetti, individuali e collettivi, istituzionali e sociali, operantia livello locale. Avviati in Italia negli anni ’90 sono diffusi intutta Europa. Possono essere finanziati dai singoli paesi o dallaUnione Europea.

I patti territoriali, attraverso una normativa complessa, miranosia a raggiungere obiettivi concreti di sviluppo locale, quantoa promuovere delle specifiche procedure decisionali. In altreparole, mirano non solo al raggiungimento di obiettivi e finalitàeconomiche valutabili in base ad indicatori di efficienza edefficacia, quanto a promuovere, attraverso specifiche proceduredecisionali, la propensione degli attori all’azione collettiva, la

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fiducia reciproca, la collaborazione tra attori pubblici e privati.I sottoscrittori del patto sono chiamati a coordinare la loroazione, a mettere insieme le loro capacità e risorse. Devono,dunque, interagire secondo nuove modalità e prospettive dicomportamento, superare l’interesse egoistico e campanilistico,fare proprie logiche di comportamento cooperativo, esseredisponibili ad assumersi anche i costi dell’operazione (materialie non materiali) in vista del conseguimento di un interessecollettivo. La scommessa dei patti è che le politiche pubblichepossono incidere sul contesto sociale e istituzionale di un’area,valorizzare, promuovere e mobilitare i suoi potenziali di risorsenascoste e indirizzarle verso nuovi obiettivi di sviluppo territo-riale.

Ma vediamo i risultati. Anche se un gran numero di pattinon sono ancora terminati e quindi non ci sono possibilità divalutare con precisione i risultati ottenuti, disponiamo di unabuona documentazione in proposito (Cersosimo 2000; SviluppoItalia-Iter 2000; Di Gioacchino 2001; Barbera 2001; Cersosimoe Wolleb 2001; Mirabelli 2001; AA.VV. 2003; De Vivo 2004;Magnatti et al. 2005; Cerase 2005). Le ricerche compiute e incorso mettono in evidenza che i patti hanno prodotto effettivimiglioramenti rispetto alle condizioni di partenza. È vero chei risultati dei patti nei vari contesti sono molto variabili, che inalcune situazioni – sia per le caratteristiche sociali ed economiche,l’isolamento geografico, caratteristiche della cultura e dellaleadership locale, debolezza delle aggregazioni degli interessi,ecc. – hanno prevalso condotte di tipo opportunistico, coalizionicollusive finalizzate solo a drenare risorse pubbliche. È vero chein alcuni casi ci sono stati errori nelle strategie organizzative delpatto e che talvolta disfunzioni burocratiche e ritardi nell’ero-gazione dei fondi hanno scoraggiato o demotivato alcuni degliattori coinvolti. Ma in complesso i patti hanno avuto esitipositivi. E si sono rivelati uno strumento essenziale per lagovernance locale. Con la maggiore propensione a cooperare efiducia nella collaborazione, hanno dato agli attori una perce-zione nuova della loro realtà territoriale e la consapevolezza chela concertazione è indispensabile per promuovere lo sviluppolocale.

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Esperienze di patti a confronto

Seguiamo ora più in dettaglio alcune situazioni specifiche ele dinamiche che si sono attivate nei vari casi per avanzarequalche considerazione sia sulla performance dei patti nei diversicontesti presi in esame sia, soprattutto, sull’argomento che piùci preme indagare: cioè la dotazione di capitale sociale e il ruolodella società civile nei nuovi processi di governance locale.

Consideriamo due patti del Mezzogiorno d’Italia: il Patto dellaLocride (Calabria) e il Patto di Simeto Etna (Sicilia). Entrambele aree sono caratterizzate da estrema debolezza del contestoeconomico e sociale, livelli di disoccupazione fra i più altid’Italia, disgregazione del tessuto sociale, mancanza di unacultura della cooperazione tra attori istituzionali (in particolarei Comuni), debole tradizione associativa, diffusione della crimi-nalità organizzata. Dunque società civile fragile e poco dinamica.Scarsa o nulla dotazione di capitale sociale di segno positivo,e presenza, invece, di forme di capitale sociale di segno negativo,come le reti e la fiducia interni ai gruppi criminali che, anzichéfavorire, ostacola i processi di sviluppo. Ebbene, partendo dacondizioni simili, gli esiti sono stati diversi. Il Patto dellaLocride, un caso di vero successo, ha conseguito i risultatimigliori, inducendo notevoli mutamenti positivi sia a livelloeconomico che socio-istituzionale, e un notevole salto di qualitànella governance locale. Nell’altro caso, che pure ha registratoqualche successo, i risultati sono stati decisamente inferiori.

Patto territoriale della Locride (Perri 2003). L’attività di promozione delpatto (che abbraccia 41 comuni) è stata portata avanti, fin dal 1994, condeterminazione da due sindacalisti, che hanno coinvolto il responsabiledell’associazione di giovani imprenditori e in seguito sono riusciti ad aggregareintorno ad una strategia di sviluppo comune e condiviso sia gli attori politiciistituzionali (politici regionali e sindaci) che privati (imprese individuali,cooperative, consorzi, ecc.). Un ruolo decisivo hanno svolto gli attori politiciche sono riusciti a mettere da parte le differenti posizioni partitiche e a unirele forze in un progetto condiviso. Il grado di adesione degli attori istituzionalied economici è stato elevato. Il processo di concertazione formale che si èavviato con la costituzione del Soggetto responsabile «Locride Sviluppo S.p.A.»(di cui è stato presidente uno dei due sindacalisti sopra citati) è riuscito adaggregare 63 soggetti: comuni, comunità montane, associazioni sindacali edatoriali, due associazioni culturali, banche e consorzi, singole imprese. Si èinstaurato fin dall’inizio un rapporto di fiducia e collaborazione tra il soggettoresponsabile Locride Sviluppo (che si è proposto come Agenzia per lo Sviluppolocale) e la società di assistenza tecnica Nomisma S.p.A. C’è stata quindi pienasintonia e integrazione tra momento politico-concertativo e tecnico-gestionale.

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La presenza di una leadership forte e stabile, accettata e riconosciuta da tutti,e la sua capacità di avviare processi di cooperazione con regole chiare etrasparenti, è stato il fattore determinante del successo del patto della Locride.Significativa, al proposito, è stata la sottoscrizione del Protocollo sulla Legalità,per impedire l’infiltrazione mafiosa. Sia la fase di avvio che di attuazione delpatto ha promosso modelli di azione fondati sul partenariato e la concertazione.Il patto ha messo in relazione soggetti (in particolare imprese) che operavanodivisi, creando e rafforzando i legami tra loro. Ha indotto cambiamenti positivianche nel funzionamento delle pubbliche amministrazioni e nei rapporti tradi loro: ha creato una rete di relazioni orizzontali fra attori istituzionali, i sindaciin particolare, che hanno iniziato a promuovere attività in modo congiunto.Il patto ha prodotto molte esternalità positive. Ha promosso varie iniziativee attività complementari, come il Patto per l’ambiente; ha favorito la nascitadi due consorzi (Consorzio del Turismo verde; Arredi Artigiani); ha creatole basi per l’attuazione di un PIT; ha attirato investimenti esterni.

Patto territoriale di Simeto Etna (Cersosimo 2003). Promotore e leaderistituzionale del patto è, fin dal 1994, una donna, sindaco di Paternò, elettanella lista de «La Rete», alla guida di una giunta civica di centro sinistra.La fase di concertazione, grazie al suo impegno, è caratterizzata da grandeentusiasmo e riesce a coinvolgere, superando la loro radicata logica campa-nilistica, tutti i comuni dell’area e tutti i soggetti locali rilevanti. Accanto alsindaco, animatore e figura tecnica chiave dell’intera vicenda, è un giovaneprofessionista, consulente del comune di Paternò. Il patto, che comprende14 comuni della Sicilia orientale in provincia di Catania, viene approvato dalMinistero del Tesoro nel 1999. Il patto ha avuto sicuramente una funzionedi stimolo e ha prodotto alcuni risultati positivi, sia a livello istituzionale cheimprenditoriale. È riuscito a rompere l’isolamento delle amministrazioni localie ha posto le basi per altre iniziative che le amministrazioni hanno in seguitoavviato congiuntamente. Ha favorito l’incontro e l’aggregazione tra impren-ditori, stimolando alcune forme di cooperazione tra loro, che si sonoconcretizzate nella creazione di due consorzi. Come nel patto della Locride,è stato sottoscritto un Protocollo sulla Legalità per contrastare le infiltrazionimafiose. Nonostante ciò, prevalgono alcuni aspetti negativi che hanno pesan-temente penalizzato gli esiti del patto. Possono riassumersi in un punto. C’èstata forte discontinuità, scollamento, tra la fase di avvio e di attuazione. Inaltre parole, non c’è stata integrazione e contiguità tra momento politico-istituzionale e tecnico. Un primo errore ha contribuito a ciò: i promotori, invecedi costituire una società ad hoc, come era avvenuto nel caso della Locride,si sono affidati a una società preesistente (GAL Simeto Etna) che ha cambiatosolo nome (Agenzia Sviluppo Simeto Etna). Della società di gestione, con sedea Paternò, sono entrati a far parte solo due comuni (Paternò e Belpasso); tuttigli altri comuni, che avevano partecipato alla concertazione, si sono eclissati.Lo stesso si dica degli altri attori coinvolti. Un altro errore è stato quello diaffidare il controllo completo della gestione tecnica e procedurale nelle manidi un unico personaggio (il professionista, consulente del comune di Paternò,sopra citato), invece di costituire uno staff tecnico in grado di consolidarecompetenze per lo sviluppo locale. Il rapporto tra soggetto responsabile dellagestione e partenariato istituzionale e sociale si è indebolito progressivamente

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fin quasi ad annullarsi. Il patto si è ridotto a un processo tecnico proceduralenelle mani di un attore per finanziare singole imprese tra loro slegate. Quandoil responsabile della società di gestione, per motivi più che legittimi, haabbandonato l’agenzia, il patto ha subito una grave battuta d’arresto epraticamente ha smesso di funzionare. Tutto ciò non ci deve indurre adesprimere un giudizio pessimista sugli effetti del patto, perché questi devonoessere valutati anche sul lungo periodo. In primo luogo, alcuni risultati positivisono stati conseguiti a livello di iniziative economiche e occupazionali; e insecondo luogo, l’esperienza maturata attraverso il patto ha contribuito a creareun clima più consapevole e favorevole a nuove iniziative di programmazionenegoziata (patto agricolo e PRUSST). Ovviamente, la performance del pattodi Simeto Etna, nonostante questi risultati, risulta di gran lunga al di sottodi quella del patto della Locride.

Come si vede, partendo da condizioni simili abbiamo esitidiversi. Ciò è confermato dall’esperienza di due patti del nordItalia: il Patto del Canavese (Piemonte) e il Patto di Ferrara(Emilia-Romagna). Entrambe le aree registrano alcuni segnali diritardo o declino rispetto alle regioni in cui sono collocate, lequali vantano comunque i tassi di sviluppo più elevati del paese.Sono caratterizzate dalla presenza pregressa di relazioni ed eventidi cooperazione tra attori locali ed istituzioni, hanno un tessutoassociativo relativamente dinamico e quindi una discreta dota-zione di capitale sociale (soprattutto nella zona di Ivrea, perl’eredità della Olivetti). Ma anche in questo caso, pur partendoda situazioni simili, il patto ha prodotto risultati diversi. Nell’areadel Canavese, il patto ha prodotto un rafforzamento dellerelazioni istituzionali, che si sono proposte come effettivostrumento di governance del territorio, e l’azione collettiva haprodotto beni pubblici all’interno e all’esterno del patto. Nel-l’area ferrarese, il quadro degli esiti concreti del patto, purregistrando dei successi, è stato più deludente.

Patto territoriale del Canavese (Barbera 2001, 2003). Nel caso del Canavese,la mobilitazione è stata promossa dal Comune di Ivrea che, nel 1997, ha riunitointorno al tavolo di concertazione gli attori istituzionali e collettivi più importanti,per promuovere un’azione comune volta a contrastare il declino industrialedell’area. Sottoscrittori del patto sono stati 122 comuni, 5 comunità montane,la Provincia di Torino, i tre sindacati confederali (CGIL, CISL, UIL), 16associazioni di rappresentanza (imprese, terzo settore, ecc.), 8 centri diformazione professionale e 25 tra enti, istituzioni ed associazioni economico-sociali. Il patto è riuscito a mettere in comunicazioni parti diverse del territoriodel Canavese, prima per nulla o scarsamente connesse tra loro. La concer-tazione ha visto il costituirsi di un forte partenariato non solo politico-istituzionale ma anche sociale, con l’attivazione di relazioni cooperative traattori privati. E questo malgrado un quarto dei sottoscrittori abbiano rinunciato

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al contributo per i tempi lunghi delle procedure e la maturazione di altrefonti di finanziamento pubblico (in particolare la 488). La leadership delsindaco di Ivrea, legittimata dal consenso degli altri attori locali, è stata fortee stabile, in grado di recepire le esigenze e richieste degli altri comuni e diottimizzare l’uso delle risorse tecniche. Il ruolo dell’attore pubblico (oltre alComune di Ivrea, della Provincia di Torino), pur rivelandosi cruciale, nonha tuttavia egemonizzato il processo decisionale, di cui si sono rivelatiprotagonisti importanti anche un attore privato (l’Associazione Industriali delCanavese), la Segreteria Tecnica del Patto, che ha mediato tra gli interessidegli attori locali, inoltre l’API, la CGIL e il Consorzio per il DistrettoTecnologico. C’è stata continuità tra la fase di avvio e di attuazione del patto.C’è stata integrazione tra la dimensione politico-concertativa e quella tecnica.Il Tavolo di concertazione, che ha funzionato regolarmente anche dopo la firmadel protocollo d’intesa, è diventato strumento di governance locale che hapianificato azioni coordinate di sviluppo del territorio e stimolato numeroseiniziative collaterali.

Patto territoriale di Ferrara (Rossetti 2003). Il patto, promosso per iniziativadell’amministrazione provinciale nel 1997, ha coinvolto 14 comuni dellaprovincia. Dopo una intensa fase di concertazione, che ha coinvolto i principaliattori istituzionali e collettivi del territorio, il patto è stato approvato dalMinistero del Tesoro nel 1998. Principali sottoscrittori del patto sono stati,oltre alla Provincia, i comuni, alcuni enti pubblici, le associazioni dell’industria,dell’artigianato, dell’agricoltura e del turismo, le organizzazioni sindacali(CGIL, CISL, UIL), gli istituti di credito ed i consorzi di garanzia. Soggettoresponsabile, per la fase di attuazione del patto, a seguito di un lungoconfronto, è stato nominato Sipro una società fondata nel 1975, di cui Provinciae Comune di Ferrara detenevano la maggior quota di capitale sociale. Il pattopresenta chiari e scuri. Dal punto di vista istituzionale, ha registrato deisuccessi: la comunicazione, i contatti e le collaborazioni fra gli enti di governolocale e le associazioni degli interessi sono stati intensi. L’esperienza del pattoha inciso in particolare sull’avvio di nuove iniziative (Consulta Economica,patto agricolo, piano provinciale di sviluppo, ecc.) per il proseguimento diun’azione integrata di sviluppo del territorio. Tuttavia, la società di gestione,Sipro, nonostante l’impegno dei singoli e l’attività di sensibilizzazione e diconsulenza svolta tra gli operatori economici, ha incontrato non pochedifficoltà nella gestione del patto. In sintesi, non c’è stata continuità tra lafase di avvio e quella di attuazione del patto che, dopo la fase di concertazione,ha finito per diventare uno strumento prevalentemente tecnico-finanziario. E,soprattutto, dal punto di vista degli attori individuali, gli imprenditori, il pattosi è rivelato fallimentare. Dei 58 progetti presentati, solo 34 sono stati giudicatiammissibili e, di questi, solo 18 sono stati realizzati (in seguito a rinunce,revoche, utilizzazione di altri fondi di incentivazione come la 488, ecc.). Inconclusione, se il patto ha conseguito alcuni risultati significativi a livello digovernance locale (istituzionalizzando, del resto, processi collaborativi giàdiffusi), non ha registrato alcun successo in direzione di quello che era il suoobiettivo iniziale: attuare una strategia complessiva di sviluppo del territorio,produrre innovazione e attrarre investimenti dall’esterno.

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Cerchiamo ora di individuare i fattori causali che possonoavere inciso sul diverso rendimento dei patti, con particolareriferimento all’influenza che su questo può aver assunto ilcapitale sociale.

Alcuni fattori critici che hanno penalizzato la performance deipatti sono di natura esterna: come emerge dai nostri casi sonoriconducibili alle disfunzioni burocratiche e ritardi nella eroga-zione dei fondi, che hanno scoraggiato o demotivato alcuni degliattori coinvolti, oppure alle leggi d’incentivazione concorrenzialia quelle del patto (come la 488) che hanno spinto gli impren-ditori verso altre forme di sostegno.

I fattori che invece paiono avere avuto un ruolo decisivo neldeterminare il successo dei patti, risultano, per così dire, internialla stesso contesto sperimentale di questi. In primo luogo, lapresenza di una leadership forte e stabile (come nei casi delCanavese e della Locride), capace di motivare e aggregare gliattori sociali e convincerli dei vantaggi della mutua cooperazione,capace di integrare istanze politiche e tecnico-amministrative, dicoordinare e monitorare i diversi interventi settoriali e soprat-tutto di stimolare e mantenere vivo l’interesse dei sottoscrittoridel patto e di promuovere la comunicazione e l’integrazione traloro. In secondo luogo, la forza del partenariato, ovvero il gradodi coinvolgimento degli attori, la continuità della loro parteci-pazione e le iniziative che hanno avviato congiuntamente (benevidenti nel Patto della Locride e del Canavese e più debolinegli altri due casi)5.

Da un altro punto di vista, possiamo notare che un primofattore importante è stata la continuità tra la fase di avvio e diattuazione del patto, e l’interazione e il sostegno reciproco trail decisore politico e la società di gestione, cioè tra momentopolitico e tecnico (come nel Patto della Locride e del Canavese).Un secondo fattore, infine, è stata la capacità degli attori

5 Gli estensori del Rapporto del Ministero hanno misurato la «intensità dellaleadership» in base ai seguenti indicatori: presenza di una o più istituzioni che svolgonouna funzione di stimolo e coordinamento della coalizione che sostiene il patto; e inoltreil peso della leadership personale, cioè presenza di leader forti che hanno svolto,indipendentemente dalle istituzioni di appartenenza, un ruolo centrale. La «intensitàdel partenariato» è stata misurata in base ai seguenti indicatori: diffusione e qualitàdella concertazione, presenza di un nucleo ristretto e stabile di attori che hanno svoltouna funzione di stimolo e coordinamento degli attori locali aderenti al patto, e infinenumero dei protocolli sottoscritti (AA.VV. 2003, p. 27, Si veda anche Magnatti et al.2005, p. 93).

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istituzionali di assumersi in prima persona la responsabilitàpolitica del processo, di includerlo in un disegno politico (comenel Patto della Locride e del Canavese), invece di trattarloprevalentemente da un punto di vista tecnico-finanziario, svuo-tandolo in tal modo di quelli che sono alcuni dei suoi connotatipiù qualificanti (come nel Patto di Simeto Etna e di Ferrara).

Consideriamo ora le forme in cui partecipa e si manifesta lasocietà civile. Sono forme diverse, ma tutte e quattro le nostreesperienze testimoniano il suo ruolo cruciale nella costruzionedella rete di cooperazione che il patto produce. In un caso(Locride) è dalla società civile che parte l’iniziativa del patto,rispettivamente da due sindacalisti; in un altro caso (Simeto Etna)da un attore istituzionale efficacemente coadiuvato e sostenutoda un attore della società civile (rispettivamente il sindaco e ilprofessionista consulente del comune). Anche nel caso in cui ipromotori sono attori istituzionali (comune, provincia) le associa-zioni, in particolare sindacali e datoriali, risultano essere sempregli assi portanti del progetto. Il patto stimola potenzialità sopite,coinvolge la società civile e ne favorisce nuove forme di parte-cipazione, promuove nuove aggregazioni e coalizioni fra gli attorilocali.

Quale nozione di capitale sociale è più adatta a interpretarequesti nuovi legami, che creano una coesione, una solidarietà,delle abitudini, un orgoglio comune?

Come possiamo vedere dai casi riportati, non emerge alcunarelazione sistematica fra livello di performance del patto e gradodi sviluppo dell’area, che nelle analisi di Putnam viene associatodirettamente alla dotazione più o meno consistente di capitalesociale. Infatti, i patti hanno funzionato altrettanto bene (oaltrettanto mediocremente) in aree depresse del sud e in areepiù avanzate economicamente del nord.

Una lettura à la Putnam che identifica il capitale sociale conla presenza di una società civile sana e dinamica (che può esseremisurata dalla diffusione del tessuto associativo), e con lapropensione all’azione collettiva riconducibile a un sistema divalori radicato nella cultura locale (che può essere misurato dalleesperienze pregresse di partenariato), anche se può essere utile,non ci aiuta a interpretare le nuove forme di partecipazione dellasocietà civile al processo decisionale. Vediamo che una buonadotazione di capitale sociale iniziale è associata positivamentecon la qualità della governance e i risultati complessivi del patto(come appare nel Canavese), ma emerge anche che, dal punto

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di vista dei risultati economici, sono le aree a minore dotazionedi capitale sociale quelle che hanno prodotto i risultati migliori(come è evidente nel caso della Locride). In aree del nord,caratterizzate da un tessuto associativo relativamente dinamicoed esperienze cooperative preesistenti, i patti non hanno datoi risultati sperati (Ferrara), mentre al sud (il caso della Locrideè emblematico) anche in contesti in cui le condizioni di partenzapaiono disperate, grazie a una leadership forte e combattiva, èstato possibile dare segnali forti di rottura con il passato eregistrare successi significativi.

Questo non vuol dire che il capitale sociale pregresso nonabbia la sua influenza. La scarsa dotazione di capitale socialeall’avvio del patto (o la presenza di suoi effetti negativi eindesiderati) può infatti rivelarsi un ostacolo per invertire i trendnegativi che per anni hanno caratterizzato lo sviluppo di certearee. E quindi anche una lettura à la Putnam può avere la suaragione d’essere. Ma non possiamo fermarci qui. Il capitalesociale va esplorato in prospettiva dinamica nella interazionepromossa dal patto. Va considerato (à la Coleman) come ilprodotto intenzionale degli attori in vista di un obiettivo preciso.Il capitale sociale, dunque, va individuato nelle nuove forme diinterazione che i patti hanno promosso, all’interno delle orga-nizzazioni e delle associazioni, e tra organizzazioni e associazioni.È costituito dalle nuove relazioni e forme di collaborazione chesi sono instaurate tra attori privati (imprenditori), ma anche traattori privati e attori collettivi (organizzazioni, istituzioni); dairapporti orizzontali tra attori collettivi, in particolare tra istitu-zioni pubbliche e organizzazioni degli interessi, che si sonorivelate cruciali nel promuovere forme integrate e innovative disviluppo del territorio.

Il capitale sociale, come ci insegna Coleman, è spesso unsottoprodotto di attività iniziate per altri scopi, può esserefinalizzato a obiettivi diversi rispetto a quelli per cui si è formato,rivelarsi utile per scopi successivi. Nei nostri casi, infatti, risultache le «buone pratiche» apprese nel corso del patto si sonotradotte in azioni concrete nella fase successiva, con la produ-zione di beni pubblici, e con la capacità di elaborare in manieracongiunta nuovi progetti per lo sviluppo locale: per esempio,PIT, PRUSST, patti verdi, patti per il turismo, ecc. Attenzione,però. Si deve sempre tenere presente che le coalizioni indottedalla concertazione possono indebolirsi, l’entusiasmo della primafase può sopirsi, soggetti sociali rilevanti possono uscire di scena,

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svuotando il patto dei suoi aspetti più qualificanti rappresentatidalla interazione e collaborazione continua tra gli attori locali.Insomma, come emerge, parzialmente, in due dei nostri casi(Simeto Etna e Ferrara) dopo fasi di grande slancio ed entu-siasmo organizzativo, il capitale sociale e la fiducia possonoesaurirsi e consumarsi, per riprodursi magari in una fasesuccessiva.

4. Piani strategici urbani

Se i patti territoriali riguardano i territori e possono coinvolgereun numero variabile di comuni, la pianificazione strategica hacome protagoniste le città e le aree metropolitane. Nel nuovoscenario della globalizzazione, con l’aumento della competizionea livello internazionale e il progressivo trasferimento di compe-tenze dal livello centrale a quello locale, le città hanno acquisitoun nuovo ruolo, sono divenute protagoniste attive, attori propo-sitivi di sviluppo, di identità culturali. Non solo le città globali(Londra, Parigi, Francoforte, ecc.) che sono nodi di relazionistrategiche che attraversano i confini di regioni e nazioni (Perulli2000; Bagnasco 2003) e si propongono come interlocutori del-l’Europa, ma anche le città medie e piccole.

Come i patti territoriali, i piani strategici non sono un semplicestrumento di sviluppo locale da valutarsi in base alla sua efficaciaed efficienza, ma sono essi stessi, cioè le modalità attraverso cuisi realizzano, un fine della politica. Non sono importanti sologli obiettivi economici da raggiungere, ma anche le modalitàattraverso cui questi obiettivi vengono raggiunti. I piani strategicimirano, infatti, a promuovere, attraverso specifiche proceduredecisionali, una interazione continua tra attori pubblici e privatie quindi a stimolare la partecipazione, il confronto, l’azionecollettiva. Come i patti territoriali, non sono interventi pianificatidall’alto o dall’esterno, riserva esclusiva di tecnici e burocrati,ma sono processi politici che riconoscono e valorizzano tuttele competenze e le risorse individuali e collettive della città,coinvolgono la società civile, promuovono nuove forme dipartecipazione democratica.

Ma ci sono alcune differenze. I piani strategici, infatti, rispettoai patti territoriali, comportano una più ampia coalizione diattori, composta da amministratori locali, rappresentanti dellostato, esperti, tecnici, rappresentanti degli interessi organizzati

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e delle associazioni, del mondo finanziario e imprenditoriale;coinvolgono, inoltre, attori tradizionalmente esclusi o marginalinei processi di negoziazione sullo sviluppo locale: e cioèrappresentanti dei movimenti ambientalisti e di altri movimentisociali, rappresentanti dei nuovi settori dell’economia, delleistituzioni culturali, dei centri di studio, dell’Università, e viadi seguito. Un’ultima caratteristica, infine, dei piani strategici.Diversamente dal patto territoriale che, una volta definito, deveessere portato a termine secondo i progetti iniziali, il pianostrategico urbano, che è più complesso, è anche più flessibile,può essere ridefinito e migliorato in corso d’opera, anche grazieall’apporto di attori specifici; è, dunque, incrementale, negoziale,aperto a nuove soluzioni; dà vita a processi di apprendimentocollettivo continuo che favoriscono dinamiche di innovazionenella governance locale.

A questi principi si sono ispirate molte città europee. Possiamocitare come esempi i piani strategici di Glasgow, di Lione, Lille,Manchester, Francoforte, Bilbao, Lisbona, Barcellona, Monaco. Sitratta di città che hanno affrontato «grandi eventi» (sportivi oculturali), o grandi sfide come la ristrutturazione radicale dellapropria identità, da poli di sviluppo industriale a città della culturao delle nuove tecnologie. In Italia, il caso più significativo è ilprogetto «Torino internazionale» elaborato dalla primavera del1998, sottoscritto dai sindaci dell’area metropolitana, e da oltrecento rappresentanti di istituzioni pubbliche, del mondo finanziarioe imprenditoriale, dei sindacati, associazioni, istituzioni culturali,università (Bagnasco 2003). Di recente, altre città italiane, anchemedie e piccole (Firenze, Pesaro, La Spezia, Trento), hannoorientato i loro percorsi di sviluppo in modo simile. Ma consi-deriamo un caso specifico che possa mettere in risalto le poten-zialità e i successi di un piano strategico, ma anche le sue battuted’arresto, i suoi possibili arretramenti.

Il caso di Barcellona

Il problema più importante all’interno dei progetti di piani-ficazione urbana volti a promuovere la crescita economica e lacompetitività della città è quello di coniugarle con forme diequità e giustizia sociale. È stato dimostrato, infatti, che iprocessi di trasformazione urbana, volti a promuovere lo svi-luppo economico locale, hanno spesso avuto come conseguenza

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un aumento delle diseguaglianze e della esclusione sociale(Bagnasco e Le Galès 2000). I piani strategici, invece, hannocome obiettivo specifico un modello di azione comune asostegno di un percorso di sviluppo che sappia coniugarecompetitività economica e coesione sociale, attraverso adeguatiprogetti di welfare. Alcune esperienze mostrano come crescitaeconomica ed equità sociale non sono incompatibili ma possonorafforzarsi a vicenda. Emblematico è il caso di Barcellona(Marshall 1996; Balibrea 2003; McNeill 2003; Borja 2004; Guzzo2004). L’esito positivo del processo di trasformazione urbanadella città, che durante gli ultimi quindici anni ha assunto unruolo di riferimento centrale per l’intera regione metropolitana,è dipeso da specifici processi di governance che hanno promossol’azione collettiva degli attori locali. Fin dai primi anni ’80, laleadership del processo è stata assunta dal governo municipale,in particolare dai sindaci, a capo di coalizioni di sinistra guidatedal Partito Socialista Catalano. Si è trattato di un processostrategico che ha visto l’azione combinata di tutti gli attori,individuali e collettivi, più rappresentativi della città e haincanalato tutte le loro energie e competenze verso un progettodi sviluppo condiviso; un processo, dunque, che ha radicato unacultura partecipativa e ha promosso il rafforzamento dell’identitàcomune. Sono stati coinvolti come protagonisti dell’intero pro-cesso i sindacati, le chiese, tutte le associazioni di categoria, leassociazioni culturali e di volontariato, gli istituti di credito, iprofessionisti e gli esponenti più rappresentativi della cultura,in breve tutte le forze ed espressioni della società civile. Si sonorealizzati rapporti di cooperazione tra il mondo accademico equello produttivo (con la creazione di parchi tecnologici e unparco per la ricerca bio-medica), tra il settore turistico e quelloculturale. Si sono create numerose piattaforme settoriali chehanno contribuito a potenziare diversi settori dell’economialocale con l’istituzione di consorzi fra gli operatori del settore(ad esempio il Consorcio Turismo Barcelona che ha intercettatoflussi sempre più consistenti di visitatori). La città, così, fin daigiochi Olimpici del 1992, è diventata una delle principali meteturistiche d’Europa e, per la presenza di un settore terziario etecnologico avanzato, non solo ha visto un consistente processodi crescita auto-sostenuta, ma è diventata polo di attrazione perimprese straniere, in particolare le multinazionali.

Accanto agli obiettivi di crescita economica e competitivitàsono stati perseguiti anche obiettivi di equità e coesione sociale

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attraverso: riqualificazione di tutti i quartieri della città, crea-zione di spazi pubblici, istituzione di centri civici, decentraliz-zazione dell’offerta di servizi sociali e culturali, riqualificazionedelle aree periferiche, ammodernamento e potenziamento dellevie di comunicazione, ecc.

Come abbiamo detto, sono stati protagonisti del processo tuttigli attori della società civile. L’azione politica non solo hariscoperto l’importanza della società civile, ma l’ha stimolata dicontinuo, anche in funzione critica. Questo è stato particolar-mente evidente quando le politiche di riqualificazione urbanao la creazione di nuovi complessi residenziali per classi alte (adopera, soprattutto, di imprese straniere) hanno fatto emergere,di recente, alcuni effetti indesiderati: inflazione e caro vita,espulsione di cittadini poveri dalle aree riqualificate, mancatarealizzazione di opere di edilizia pubblica, ecc. Questi effettihanno suscitato l’immediata risposta e reazione di cittadini,intellettuali, professionisti, movimenti sociali. I comitati di quartie-re si sono mobilitati, hanno stretto o riattivato i legami con altreassociazioni (ambientaliste, di consumatori, ecc.) in vista di unobiettivo condiviso. Come vediamo, dunque, la partecipazionee il consenso della società civile è essenziale per questo tipo dipolitiche; facilita e orienta l’azione dell’autorità pubblica, maquest’ultima deve sapere dialogare di continuo e mantenere ilconsenso della società civile.

Quale lettura di capitale sociale, anche in questo caso, puòaiutarci a meglio interpretare il ruolo della società civile? Inprimo luogo, il capitale sociale pregresso, ovvero la dotazionedi capitale sociale di un’area prima dell’avvio del piano, misurato(à la Putnam) nei termini di livello di civismo, dotazioneculturale sedimentata, diffusione delle associazioni, esperienze dipartenariato, può essere un fattore importante per il successodei piani strategici, perché, come nel caso di Barcellona, puòinfluenzare significativamente l’interazione successiva. La cittàpartiva, infatti, con una buona dotazione di capitale sociale:presenza di un fitto tessuto produttivo, esperienze di coopera-zione, forte identità locale, tessuto associativo relativamenteconsistente. Ma se possiamo dire che una buona dotazione dicapitale sociale pregresso è necessaria (e non abbiamo elementiper dirlo) certo non è sufficiente. Politiche pubbliche innovativedi incentivazione allo sviluppo locale, come sono i piani stra-tegici, possono rivelarsi un potente stimolo per comportamenticooperativi e produzione di capitale sociale organizzativo anche

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là dove le condizioni di partenza non sono favorevoli. Il capitalesociale va dunque analizzato nello stesso contesto sperimentaledel piano che è finalizzato a modificare i rapporti fra le istituzionie a promuovere l’azione collettiva degli attori. L’analisi si deveconcentrare (à la Coleman) sui processi di interazione indottidalla fase di mobilitazione socio-istituzionale del piano strate-gico. Il capitale sociale va individuato nelle relazioni che unaleadership forte sa stimolare in vista di un obiettivo condiviso,nelle coalizioni stabili tra attori individuali, nelle reti di coope-razione orizzontale che si instaurano tra le istituzioni locali, leorganizzazioni degli interessi, le organizzazioni associative e divolontariato. In sintesi, nella presenza e combinazione di capitalesociale interazionale (tra attori) e organizzativo (tra organizza-zioni).

5. Configurazioni situazionali e dinamiche

In base a quanto abbiamo fin qui esposto, vediamo che i pattiterritoriali e i piani strategici urbani riflettono molti degliargomenti portati a sostegno e spiegazione della governance.

In primo luogo, costituiscono un tipo di politiche pubblicheche strutturano l’azione collettiva attraverso la cooperazione, ilmutuo impegno e l’adattamento reciproco tra attori pubblici eprivati. Mettono in primo piano il ruolo della società civile edi attori non statali (Della Sala 2005). Le decisioni che vengonoprese non sono più prerogativa esclusiva delle istituzioni digoverno formale, ma sono il risultato di un processo che vedecoinvolti, allo stesso titolo, una molteplicità di attori che sonocollocati al di fuori delle istituzioni politiche formali.

In secondo luogo, i patti territoriali e i piani strategici urbanisono interventi per lo sviluppo locale che mutano le tradizionaliconcezioni del territorio e della sua popolazione I patti territorialipossono coinvolgere un numero variabile di comuni, della stessaprovincia o di province diverse, comuni contigui o non contigui,in base ai vari progetti approvati. I piani strategici urbani possonoriguardare città grandi o piccole, oppure aree metropolitane chepossono articolarsi in vari modi, e che comunque non sono piùvincolate da limiti territoriali e possono attraversare i confiniamministrativi di molti comuni e province, alla scoperta di nuoveidentità, nuovi obiettivi strategici. Sono i problemi da affrontare,le singole issues che definiscono, di volta in volta, i confini di

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riferimento. Il territorio e le popolazioni coinvolte cambianocostantemente e gli individui non sono costretti entro una solaappartenenza. In tal modo viene definitivamente superato ilconcetto di comunità permanente definita da un territorio.

In terzo luogo, l’autorità decisionale coinvolge una moltepli-cità di siti: comuni, province, regioni, ministeri, società digestione, stati nazionali, Europa. Si è andato configurando unnuovo rapporto tra centro e periferia per quanto riguarda lepolitiche per lo sviluppo. Larga parte della regolazione può oraessere portata avanti da una vasta gamma di nuovi attori indiversi siti, che non coincidono con la gerarchia organizzativadel potere politico. Si possono certo identificare importantistrutture coinvolte nel decision making, ma l’enfasi è sullerelazioni, i processi, e l’organizzazione dell’azione collettiva(Hooghe e Marks 2001; Della Sala 2005).

Naturalmente in ogni percorso politico di innovazione avviatodai patti e dai piani strategici urbani, questi elementi sicombinano in modi diversi in relazione alle variabili in gioco:contesto, capitale sociale preesistente, carattere del sistemapolitico locale, forza della leadership, variabili idiosincratiche,ambiente culturale. In base alle diverse combinazioni, avremopratiche, arrangiamenti, meccanismi cooptativi e partecipatividiversi, e quindi diversi modelli di governance. Avremo, cioè,procedure più o meno istituzionalizzate, ambiti territoriali piùo meno ampi (dai 14 comuni del Patto di Simeto Etna agli oltre100 del Patto del Canavese), più o meno contigui, livellidecisionali più concentrati o dispersi, coinvolgimento più omeno ampio della società civile. Avremo configurazioni diversedi amministratori, associazioni, attori individuali e collettivi,ciascuno dei quali con le sue percezioni e domande, ciascunodei quali con la sua prospettiva specifica e non necessariamentecoerente. Abbiamo visto come in alcuni casi l’iniziativa parteda attori della società civile, in altri da attori istituzionali; inalcuni casi l’attore promotore aggrega prevalentemente soggettiistituzionali, in altri casi aggrega, insieme a questi, una gammapiù o meno vasta di interessi organizzati.

Quello che è importante rilevare è che si tratta, in ogni caso,di processi, di configurazioni dinamiche che si definiscono emodificano nel tempo. Non abbiamo rapporti causali, mainterazioni. Non abbiamo strutture compatte, ma discorsi epratiche. Non abbiamo processi di costruzione lineare ma esitiche sono il prodotto, sempre mutevole e mai stabile (si consideri

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il caso di Barcellona), dell’interazione e combinazione di diverselogiche sociali e amministrative. E del resto la storia recente dellepolitiche di sviluppo urbano dimostra che nel giro di pochi annisi può passare da un modello di governance a un altro, e giàsi profilano nuovi progetti di sviluppo locale in parte diversida quelli fin qui analizzati. In base alle diverse configurazioniavremo modelli di governance diversi (dati dalle diverse com-binazioni delle forme di governance) e avremo un diverso ruolodella società civile. Ogni modello di governance include, sia purecon gradi e intensità diversi, alcune forme di government. Inquelli più tradizionali, caratterizzati da un forte ruolo dell’au-torità pubblica e burocratica, la presenza della società civile èdebole e trascurabile. Ma anche i nostri due casi, che purerappresentano i modelli più innovativi della politica, ci consen-tono di cogliere alcune differenze. Nel patto territoriale lacoalizione dominante è costituita dal governo locale e dalleorganizzazioni di rappresentanza degli interessi; associazioniindustriali e sindacati sono gli assi portanti, ma è consistenteanche la partecipazione di altri interessi organizzati (CNA,Camere di Commercio, Consorzi di sviluppo industriale, ecc.)e, soprattutto nei patti misti e agro-turistici, delle Sovrintendenzeai Beni culturali e delle associazioni ambientaliste. Il meccanismosu cui si basa il confronto di tale coalizione è prevalentementequello della concertazione locale. I piani strategici, invece,vedono una maggiore apertura ad organizzazioni e attori dellasocietà civile: in particolare associazioni di quartiere, movimenticulturali e ambientalisti, professionisti e intellettuali; prestanomaggiore attenzione alla dimensione pubblica di questa espe-rienza e, più che alla concertazione, si ispirano a modelli di«democrazia deliberativa», con procedure simili a quelle delleesperienze di «democrazia partecipativa» brasiliana (de SousaSantos 2002).

6. Il nuovo ruolo delle istituzioni politiche

Come si vede da quanto abbiamo sopra esposto, assistiamoa un cambiamento radicale nella formazione delle politichepubbliche: tali politiche non derivano da atti di governo formalima sono il frutto di processi di governance che coinvolgonoattori istituzionali e privati, interessi organizzati e associazioni,in breve tutte le risorse e competenze della società civile. Questo

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significa che l’autorità politica ha visto declinare le sue funzioni?Che la regolazione politica ha perso di importanza? Assoluta-mente no. Per varie ragioni. Le logiche di concorrenza tra lecittà e i territori attivate dalla globalizzazione e dal declino dellaregolazione statale, come abbiamo detto, hanno dato nuovovigore e forza al ruolo dei governi locali, ne hanno indicatonuove modalità di intervento e sfere di azione.

In primo luogo, tutti i recenti cambiamenti istituzionali sonoandati in questa direzione. Ovviamente i percorsi e le scansionitemporali sono stati diversi nelle diverse realtà europee. In alcunipaesi, in Francia ad esempio, i processi di decentramento edevoluzione di competenze dalle burocrazie centrali a quellelocali si sono avviati con anticipo rispetto ad altri. Ma anchein Italia, dopo la riforma del 1993, che ha introdotto l’elezionediretta del sindaco, i governi municipali sono divenuti il soggettopolitico istituzionale più rilevante e più vicino ai cittadini,offrono risorse di identità culturale e partecipazione politica,sono protagonisti attivi e propositivi per lo sviluppo locale(Catanzaro et al. 2002).

In secondo luogo, le istituzioni politiche, anche là dove eranorinnegate o messe nell’angolo, ritornano ad essere importanti.Ci si è resi conto che il capitale sociale e la società civile nonbastano. Emblematico è il caso dei distretti industriali del nord-est, la cui diffusione è stata considerata un fenomeno in certoqual modo «spontaneo», partito dal basso e (anche se l’azionepolitica ha avuto la sua parte) senza, comunque, un progettospecifico di pianificazione e sviluppo territoriale promosso daqualche attore istituzionale. Da qualche tempo, il modello socialeed economico dei distretti incontra delle difficoltà, e rendenecessari riconversioni e adattamenti più innovativi. Infatti, sealcune forme di capitale sociale, come le relazioni a basefamiliare e parentale, hanno funzionato bene in una fase dellosviluppo, possono introdurre soffocanti rigidità in una fasesuccessiva e richiedono quindi un cambiamento. Il capitalesociale è una risorsa dinamica, non è un «dato naturale», definitoe acquisito una volta per tutte, ma il prodotto di strategie diinnovazione e di investimento continuo come avviene per ognialtra forma di capitale. Le piccole e medie imprese dei distretti,basate largamente sul capitale sociale informale, devono evol-versi, devono essere integrate da reti più estese e formali dicooperazione, che coinvolgano anche gli attori collettivi istitu-zionali. Sono necessarie nuove forme organizzative del territorio

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per le quali il ruolo delle istituzioni pubbliche diviene cruciale.Il piccolo imprenditore liberista, in passato, voleva rendersiautonomo dai «lacci e laccioli» della politica. Adesso, invece,come mostrano i patti territoriali, comincia ad avere una nuovavisione dello sviluppo locale e delle modalità per attuarlo. Sirende conto che occorre interagire con diversi livelli di gover-nance: comuni, province, regioni, Europa, ecc. e torna in talmodo a riscoprire il ruolo e l’importanza dell’autorità pubblica.

In terzo luogo, in tutti i piani di «programmazione negoziata»(come i patti territoriali e i piani strategici urbani) le istituzionipolitiche e amministrative hanno compiti espliciti e cruciali diorganizzazione e integrazione, che gli argomenti della governan-ce di solito sottovalutano. Le autorità politiche, infatti, devonostimolare e coordinare un insieme composito di progetti infra-strutturali e imprenditoriali, talvolta non congruenti o in con-correnza tra loro, e adattarli e indirizzarli verso un obiettivo disviluppo condiviso e sostenibile. Devono trovare un equilibriotra efficienza economica e giustizia sociale. Da una parte, quindi,devono potenziare tutte le risorse endogene che possono favorirela produzione dei cosiddetti beni collettivi per la competitivitànelle nuove condizioni del mercato globale. Dall’altra parte,devono contrastare deviazioni, elaborare politiche inclusive dellevarie unità territoriali coinvolte nei processi di innovazione (neipiani strategici metropolitani, ad esempio, che coinvolgono molticomuni, rispettare le identità locali delle piccole città) e inoltre,attraverso adeguate politiche di welfare, combattere il disagio,la povertà, l’emarginazione.

Infine, le istituzioni pubbliche, ai vari livelli, devono assicuraretrasparenza, correttezza, il rispetto delle regole (infliggere san-zioni nel caso di infrazioni). Devono trovare un equilibrio traefficienza e flessibilità. Da una parte, devono essere capaci diprendere decisioni e di attuarle, e hanno la legittimità per farlo.Dall’altra parte, devono garantire livelli sempre più ampi dipartecipazione e rappresentatività nel processo decisionale equindi assicurarne l’accesso a settori sempre più ampi dellasocietà civile. In breve, le amministrazioni locali restano semprecentri identificabili di autorità e potere decisionale, i promotoridelle «buone pratiche» che assicurano buona governance (DellaSala 2005).

Determinante, in questo quadro, è il ruolo della leadership.Dove è emersa una leadership istituzionale forte, spesso rappre-sentata dai sindaci eletti direttamente dai cittadini (ma anche

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da altri attori istituzionali), è stato più facile creare consensoe sollecitare azioni congruenti per raggiungere un determinatorisultato, sollecitare la presenza di attori non statali e assicurareforme di governance partecipativa. Gli esiti differenti dei pattiterritoriali, come abbiamo visto, non risultano condizionati inmaniera significativa dal quadro di sviluppo locale e nemmenodalla dotazione di capitale sociale pregresso. In alcuni casi incui la società civile risultava particolarmente debole e frammen-tata (vedi il Patto territoriale della Locride) è stato proprio ilforte ruolo della leadership istituzionale a promuovere «giochicooperativi» tra gli attori, a creare cioè nuove forme di capitalesociale e a liberare, in tal modo, potenziali di innovazione nellosviluppo territoriale. La centralità dell’attore politico istituzio-nale, inoltre, è particolarmente evidente, anzi imprescindibile,nel caso dei piani strategici urbani.

Dunque, politics matters. Contrariamente a quanto sostenutoda certe versioni più «radicali» della governance, l’autoritàpolitica ha un ruolo strategico nell’orientare le prassi e lemodalità di interazione tra attori statali e non, nel mediare ecreare relazioni fra attori diversi, nell’instaurare rapporti conautorità di governo superiori, nel creare e utilizzare legamitrasversali che attraversano i partiti, le burocrazie, gli interessiorganizzati, i gruppi della società civile; e quindi nel far crescereil capitale sociale come strumento per avviare e sostenere losviluppo locale. Certo, non si tratta più dell’attore istituzionaleinterventista, che impone dall’alto in maniera rigida e definitale sue deliberazioni, ma di atti di governance, di discorsi epratiche flessibili che favoriscono la comunicazione pubblicasulle politics e producono in tal modo effetti di democratizza-zione.

7. Per concludere

Come abbiamo visto, i patti territoriali e i piani strategiciurbani sono politiche pubbliche innovative volte a promuoverela cooperazione sistematica fra i soggetti pubblici e privati diun dato territorio affinché realizzino progetti di miglioramentodel contesto locale. Sono espressione di un nuovo protagonismodegli enti locali e della loro capacità di muoversi sul terrenodello sviluppo attraverso la creazione di nuove forme di parte-nariato istituzionale e sociale. Sono espressione di nuovi modelli

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di governance che si basano su nuovi rapporti intergovernativitra centro e periferia, su nuovi rapporti tra gli enti locali chesuperano il loro isolamento, ridefiniscono la loro identità,promuovono varie attività in modo congiunto.

In queste nuove forme di governance la società civile èchiamata a svolgere un ruolo cruciale. Abbiamo visto una grandevarietà di situazioni, che segnalano, in vario modo, la presenzadi associazioni di pubblico interesse, istituzionalizzate e non, diimprese e settori professionali. Ma, pur nella varietà dellesituazioni, è sempre la partecipazione attiva della società civileche dà spessore e caratterizza questi nuovi modelli di governan-ce. In alcuni casi, come abbiamo visto, sono soggetti della societàcivile i promotori e protagonisti principali di tutte le fasi delpatto, in altri casi sono gli attori istituzionali. Gli uni e gli altrisono gli attori strategici che formano nuove reti di relazioni eproducono, quindi, nuove forme di capitale sociale.

Come procedere dunque nell’analisi empirica? Possiamo indi-care alcune linee di ricerca e alcuni criteri per controllareempiricamente le forme di partecipazione della società civile eil suo ruolo nella formazione di capitale sociale. Limiteremol’esame ai patti territoriali, anche se quello che esporremo siadatta anche ai piani strategici urbani, che pure sono processipiù lunghi e complicati.

L’analisi del capitale sociale pregresso (à la Putnam) puòessere un utile punto di partenza. Gli strumenti di interventoche abbiamo analizzato non si calano nel vuoto, ma in contestiche possono essere più o meno permeabili al cambiamento. Etuttavia il suo approccio non rende conto delle diverse com-binazioni ed esiti dei processi sotto osservazione. Come abbiamovisto, infatti, fiducia e relazioni cooperative si possono svilupparenel contesto stesso del patto. Occorre, quindi, concentrarsisoprattutto su queste e (à la Coleman) sulla loro evoluzionedinamica.

Potremo individuare almeno quattro tempi: un T0, primadell’avvio del patto, per misurare il capitale sociale pregresso;un T1, relativo alla fase di avvio del patto (mobilitazione econcertazione), un T2 relativo alla fase di attuazione del pattoe infine un T3 relativo alla fase dopo-patto.

Per ciascuno di questi tempi, occorre individuare gli attorisociali (individuali e collettivi, istituzionali e non istituzionali) chehanno partecipato e i rapporti di cooperazione che hanno stabilitotra loro, sia di tipo orizzontale (tra enti locali, tra organizzazioni,

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tra imprese), sia di tipo verticale (tra imprese o attori della societàcivile e leadership). Il capitale sociale non è dato semplicementedal numero e ampiezza delle associazioni presenti in un datomomento, ma dalle relazioni che esse intenzionalmente instauranotra loro; da tutti i legami e alleanze tra i diversi tipi di attoridella società civile (individuali e collettivi) coinvolti nel processodecisionale. Il capitale sociale è dato anche dalle risorse chetransitano nelle relazioni: risorse materiali (monetarie e finanzia-rie), risorse normative, come la fiducia, risorse cognitive, comele informazioni, risorse esperenziali, apprese attraverso la condi-visione di esperienze, la collaborazione e il confronto continuo.In sintesi, il capitale sociale è costituito da tutti i legamiinterazionali e organizzativi (tra attori individuali e organizzazioni)che facilitano la comunicazione, la circolazione di competenze egli scambi economici.

In secondo luogo, dobbiamo sviluppare l’analisi anche inprospettiva dinamica: individuare, quindi, quali modificazionisono sopravvenute nel network di relazioni da una fase all’altra,quali attori della società civile o istituzionali sono entrati nellacoalizione e quali sono usciti, quali legami si sono spezzati operduti, quali si sono rafforzati, quali nuovi rapporti si sonoinstaurati. Dobbiamo, inoltre, tenere sempre presente che, cosìcome possono svilupparsi nel contesto stesso dei patti, il capitalesociale e la fiducia possono anche esaurirsi e consumarsi.

Infine, dopo aver predisposto appropriati indicatori e proce-dure di formalizzazione (quantitativa e qualitativa) del capitalesociale, si possono analizzare i suoi effetti sui rendimentidifferenziali delle diverse politiche di «programmazione nego-ziata», lungo almeno tre dimensioni: della performance econo-mica, della performance sociale e della governance.

In questo modo, il concetto di capitale sociale può risultarecentrale per esplorare il ruolo della società civile nella confi-gurazione dei nuovi modelli di governance locale e quindi perindagare i diversi livelli, percorsi e dinamiche di legittimazionee partecipazione democratica.

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Summary: This essay analyzes the concept of social capital and the insights offeredby this approach for studying the nature and role of civil society in decision-makingprocesses. To this end it examines some recent experiences of governance at the locallevel in order to highlight the new relevance of civil society for local developmentpolicies. The essay is organized into five parts. It starts from an analysis of the twomain interpretative approaches to the concept of social capital: the relational and culturalapproaches. It then moves on to describing some recent instances of local levelgovernance – the so-called «territorial pacts» (patti territoriali) and «strategic urbanplans» (piani strategici urbani) – in which civil society’s role is particularly prominent.It highlights how, depending on the particular situation, different configurations (ofrelations) between public and private actors emerge and how different modes ofdemocratic participation are thus enacted. It then puts into due relief the crucial roleplayed by institutional actors in these innovative governance patterns, which differ fromtraditional modes of political participation. Lastly, it concludes by providing somemethodological suggestions on the most appropriate way for utilizing the concept ofsocial capital in empirical analyses on the role of civil society in the new models ofgovernance.

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