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unità 10 La guerra fredda 1 F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 Nel riquadro la costruzione del muro di Berlino, che dal 1961 divise la città in due parti, una sotto il controllo sovietico e una sotto la sfera d’a- zione della Germania Ovest, alleata con gli Stati Uniti. Riferimenti storiografici Sommario Gli spostamenti di popolazione nel dopoguerra La politica americana di contenimento del comunismo L’economia internazionale nel dopoguerra Modello europeo e modello americano nel secondo dopoguerra 1916-1968: giovani in rivolta Modalità e tappe della riunificazione tedesca Stato e partito nella Repubblica democratica tedesca Tito, il Cominform e i lavoratori comunisti italiani La riconciliazione fra Mosca e Belgrado La protesta studentesca nel 1968 Il regime dei khmer rossi in Cambogia: somiglianze e differenze rispetto al comunismo cinese Il programma riformista di Michail Gorbacëv La rivoluzione del costume alla fine del XX secolo Il Cile di Unidad Popular Lo sfruttamento economico dell’America Latina 13 12 11 10 9 8 7 1 2 3 4 5 6 14 15

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La guerra fredda

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F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012

Nel riquadro la costruzione del muro di Berlino, che dal 1961 divise lacittà in due parti, una sotto il controllo sovietico e una sotto la sfera d’a-zione della Germania Ovest, alleata con gli Stati Uniti.

R i fe r i me n t i s t o r i o g r af i c i

SommarioGli spostamenti di popolazionenel dopoguerraLa politica americana di contenimentodel comunismoL’economia internazionale nel dopoguerraModello europeo e modello americanonel secondo dopoguerra1916-1968: giovani in rivoltaModalità e tappe della riunificazionetedescaStato e partito nella Repubblicademocratica tedescaTito, il Cominform e i lavoratori comunistiitaliani

La riconciliazione fra Mosca e BelgradoLa protesta studentesca nel 1968Il regime dei khmer rossi in Cambogia:somiglianze e differenze rispetto al comunismo cineseIl programma riformista di MichailGorbacëvLa rivoluzione del costume alla fine del XX secoloIl Cile di Unidad PopularLo sfruttamento economico dell’AmericaLatina

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Nell’immediato dopoguerra, l’Europa intera è stata caratterizzatada imponenti spostamenti di popolazione, che hanno posto fine apresenze storiche secolari. Numerose città e nazioni, che fino al1939 ospitavano molteplici popoli, furono artificialmente trasfor-mate in entità omogenee, sotto il profilo etnico: le minoranze (chea volte erano già state liquidate durante la guerra) furono espul-se o costrette a scegliere volontariamente (per modo di dire) tral’oppressione discriminante e la partenza verso uno stato nazio-nale (la Germania, per i tedeschi espulsi dalla Polonia; l’Italia, pergli istriani e i giuliani; Israele per gli ebrei ecc.).

Il continente era un tempo un intricato arazzo di lin-guaggi, religioni, comunità e nazioni. Molte città – so-prattutto quelle più piccole, all’intersezione dei vecchi enuovi confini imperiali, come Trieste, Sarajevo, Salo-nicco, Czernowitz, Odessa o Vilnius – erano autentichesocietà multiculturali avant le mot [possono essere de-finite così, anche se il termine è più recente, n.d.r.],dove cattolici, ortodossi, musulmani, ebrei e altri ancoravivevano armoniosamente gli uni accanto agli altri. Nonsi deve però idealizzare. Quello che lo scrittore polaccoTadeusz Borowski definì «l’incredibile e quasi comicocrogiuolo di popoli e nazionalità pericolosamente bruli-canti nel cuore stesso dell’Europa» era periodicamentelacerato da rivolte, massacri e pogrom: ma era reale edè sopravvissuto nella memoria. Tra il 1914 e il 1945, tut-tavia, quel mondo era stato frantumato e ridotto in pol-vere. La più compatta Europa formatasi, procedendo abalzi irregolari, nella seconda metà del ventesimo secoloaveva un minor numero di enclave labili. Grazie al con-flitto, all’occupazione, al riaggiustarsi dei confini, alleespulsioni di massa e al genocidio, ora quasi tutti vive-vano nel proprio paese, in mezzo alla propria gente. […]

Ciò che stava accadendo nel 1945, e che era incorso già da almeno un anno, era dunque un’immensaoperazione di pulizia etnica e trasferimento di popola-zioni. Si trattava, in parte, dell’effetto di una separazionevolontaria [di una fuga di fatto inevitabile, e non di unaespulsione vera e propria, n.d.r.]: gli ebrei che si sentivanoinsicuri e indesiderati, per esempio; o gli italiani che pre-ferivano lasciare l’Istria piuttosto che finire sotto la Iugo-slavia. Molte minoranze etniche che avevano collaboratocon le forze di occupazione (italiani in Iugoslavia, un-gheresi in Transilvania, già occupata e ora restituita allaRomania, ucraini nell’URSS occidentale, e altri ancora) fug-girono insieme alle armate della Wehrmacht in ritirata perevitare la vendetta delle maggioranze locali o l’avanzatadell’Armata rossa, e non tornarono più nel loro paese.Anche se le autorità locali non avevano ordinato e im-posto per legge la partenza, a queste minoranze non erarimasta praticamente altra scelta.

Altrove, comunque, la politica si era già messa al la-voro ben prima che la guerra terminasse. Erano stati i na-zisti, naturalmente, a dare l’esempio, con la deportazionee il genocidio degli ebrei e le espulsioni di massa di polac-chi e altre popolazioni slave. Tra il 1939 e il 1943, sotto l’e-gida [protezione, n.d.r.] tedesca, ungheresi e rumeni si

scontrarono per il confine della disputata Transilvania. Leautorità sovietiche, a propria volta, organizzarono una se-rie di trasferimenti forzati tra Ucraina e Polonia: tra l’otto-bre 1944 e il giugno 1946, un milione di polacchi fuggì ofu cacciato dalle proprie case in quella che divenne l’U-craina occidentale, mentre 500 000 ucraini lasciarono laPolonia, trasferendosi in URSS. Nel giro di pochi mesi, quellache era stata una regione composita, nella quale avevanoconvissuto fedi, lingue e comunità estremamente diverse,venne trasformata in due territori separati e monoetnici. […]

Analoghi trasferimenti si ebbero tra Polonia e Litua-nia e tra Cecoslovacchia e URSS; 400 000 abitanti dellaIugoslavia meridionale furono fatti trasferire a nord perprendere il posto dei 600 000 tedeschi e italiani che ave-vano abbandonato il territorio. Qui, come altrove, le po-polazioni interessate non furono consultate; furono peròi tedeschi a subire i maggiori contraccolpi. Quelli del-l’Europa orientale sarebbero probabilmente fuggiti a oc-cidente in ogni caso: nel 1945 non erano più bene ac-cetti nei paesi in cui le famiglie avevano abitato persecoli. Schiacciate tra un autentico desiderio popolare divendetta per le devastazioni della guerra e dell’occupa-zione e lo sfruttamento di questo sentimento da parte deigoverni postbellici, le comunità germaniche di Iugoslavia,Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia, della regione balticae dell’URSS avevano il destino segnato e lo sapevano per-fettamente.

All’atto pratico, non fu lasciata loro alcuna possibilitàdi scelta. Già nel 1942 gli inglesi avevano privatamenteaccolto le richieste cecoslovacche per la loro rimozionedalla regione dei Sudeti, e un anno dopo anche ameri-cani e russi si erano dichiarati d’accordo. Il 19 maggio1945, il presidente della Cecoslovacchia Edvard Benesproclamò: «Abbiamo deciso di risolvere una volta pertutte il problema tedesco della nostra Repubblica». Leloro proprietà (esattamente come quelle degli ungheresie di altri traditori) sarebbero state poste sotto il controllodello stato. Nel giugno 1945 vennero loro tolte le terre e,il 2 agosto dello stesso anno, anche la cittadinanza ce-coslovacca. Nel corso dei successivi diciotto mesi furonorispediti in Germania quasi 3 milioni di profughi la mag-gior parte provenienti dalla regione dei Sudeti. Nel tra-sferimento morirono circa 267 000 persone [stima moltoelevata, non accettata da tutti gli storici; molti studiosiavanzano cifre molto inferiori, n.d.r.]. Mentre negli annitrenta i tedeschi avevano costituito il 29 per cento dellapopolazione della Boemia e della Moravia, nel 1950 sierano ridotti ad appena l’1,8 per cento.

T. JUDT, Dopoguerra. Com’è cambiata l’Europa dal 1945 a oggi,Mondadori, Milano 2007, pp. 13, 34-36, trad. it A. PICCATO

Quali fenomeni resero l’Europa del dopoguerra piùcompatta, sotto il profilo etnico?

In quali circostanze i tedeschi avevano occupato la regionedei Sudeti?

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Il contrasto tra USA e URSS fu globale, cioè investiva tutti gliambiti: la sfera militare, l’economia e l’ideologia. Sia il libera-lismo che il comunismo si presentarono come le dottrine del fu-turo, capaci di aprire all’umanità intera una nuova era di pro-sperità. Le ambizioni del comunismo, dunque, erano poten-zialmente universali: di qui lo sforzo politico americano di con-tenerlo e di impedirne l’espansione.

Diversamente da quanto auspicato da Roosevelt, l’U-nione Sovietica non intraprese un processo di graduale,ancorché inesorabile, liberalizzazione. Un processo, que-sto, che secondo il presidente statunitense avrebbe de-terminato una progressiva evoluzione del sistema sovie-tico, una conseguente convergenza, di interessi maanche di politiche e di modelli, tra le due superpotenze ela inevitabile estensione di un ordine globale a leadershipstatunitense. Non solo non vi fu l’attesa convergenza el’evoluzione dell’URSS staliniana immaginata da Roosevelt,ma quest’ultima si adoperò per proiettare un universali-smo alternativo a quello liberale. […]

Alla trasformazione dell’URSS attraverso la collabo-razione e la convergenza – la via auspicata da Roose-velt – si sostituì la trasformazione dell’URSS attraversoil confronto, il rifiuto e l’esercizio di una costante pres-sione che avrebbe dovuto sfiancare il regime sovietico.Dal dialogo e dall’interazione si passava a un rigettonon dialettico della controparte: a un modello binarioe non dialogico di politica estera. Questo approccio fusintetizzato e compendiato nella metafora del conte-nimento, che da allora in poi avrebbe rappresentato iltermine con cui riassumere la strategia postbellica de-gli Stati Uniti; termine, questo, popolarizzato dallo sto-rico e diplomatico George Kennan, una delle figure chenei primi anni della guerra fredda concorsero mag-giormente a definire l’approccio di politica estera delpaese e la sua cornice teorica e concettuale. Nel ce-lebre lungo telegramma, inviato dall’ambasciata di Mo-sca nel febbraio 1946, e ancor più in un articolo sullarivista Foreign Affaire del luglio 1947, Kennan rigettò l’i-dea che fosse possibile il dialogo e la collaborazionecon l’URSS. Intrinsecamente aggressiva, opportunista espregiudicata, l’URSS poteva solo essere contenuta inattesa che le sue tante contraddizioni interne defla-grassero, portando alla sua necessaria e inevitabiletrasformazione. Per questo, sostenne Kennan, gli USAavrebbero dovuto promuovere «un fermo e vigile con-tenimento» dell’Unione Sovietica e delle sue tendenzeespansionistiche, fermandole sul nascere ovunqueesse si fossero manifestate. […]

La strategia del contenimento subì inizialmente duetipi di critiche, politicamente e culturalmente trasversali:quelle di chi auspicava il mantenimento di un dialogo con

Mosca e quelle, opposte, di chi chiedeva un atteggia-mento più deciso e risoluto, che mirava in particolare aliberare l’Europa centro-orientale caduta sotto il dominiodell’URSS e del comunismo. La prima critica fu maggior-mente incisiva nei primi anni della guerra fredda e fu pre-sentata in modo tagliente dal celebre opinionista WalterLippmann in una serie di articoli, poi raccolti in un volumeche popolarizzò l’altra celebre metafora dell’epoca:quella di guerra fredda. Lippmann denunciò in partico-lare la natura paradossalmente apolitica della logica delcontenimento e la rinuncia alla diplomazia che essacomportava: «La storia della diplomazia – affermò Lipp-mann – è la storia di relazioni tra potenze rivali, che nonbeneficiano di una intimità politica… Credere che po-tenze rivali e non amiche non possano giungere a un ac-cordo significa dimenticare che cosa sia la diplomazia».

La seconda critica riscontrò un certo successo po-litico a cavallo tra la fine degli anni ’40 e l’inizio deglianni ’50. La vittoria comunista in Cina, l’esplosionedella prima atomica sovietica e lo scoppio della guerradi Corea parvero mettere in discussione la capacità de-gli USA e dei loro alleati di fronteggiare la sfida del co-munismo internazionale e, con essa, la bontà e la pra-ticabilità del contenimento kennaniano. Ad esseremessa sotto accusa fu la supposta passività della dot-trina del contenimento, in virtù della quale gli Stati Unitisi limitavano a difendere lo status quo minacciato dal-l’attivismo sovietico. Da più parti s’invitò ad abbando-nare un approccio presentato come strategicamenteperdente e moralmente reprensibile [criticabile, n.d.r.]in favore di un atteggiamento più dinamico, mirante adestabilizzare l’ordine di cose esistente, alterandolo afavore degli USA e dei loro alleati. Il contenimento – siargomentava – doveva lasciare spazio a una strategiadi roll-back avente come primo obiettivo la liberazionedei popoli tenuti in cattività dall’Unione Sovietica nel-l’Europa centro-orientale. […] Che il roll-back fossenull’altro che una formula retorica ad uso primaria-mente elettorale, fu evidente nella prima occasione incui si manifestò la possibilità di liberare almeno unpezzo del blocco comunista: in Ungheria nel 1956. Adispetto degli appelli e delle richieste di aiuto prove-nienti da Budapest, gli USA si guardarono bene dall’in-tervenire e dal mettere in discussione il diritto sovieticodi zittire brutalmente qualsiasi dissenso fosse emersonella sua sfera d’influenza.

M. DEL PERO, Henry Kissinger e l’ascesa dei neoconservatori. Alle origini della politica estera americana,

Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 3-7

La politica americana di contenimentodel comunismo

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Quale critica di fondo mosse Walter Lippmann al concetto di contenimento elaborato da George Kennan?Che cos’era la strategia denominata roll-back? Per quale ragione si rivelò subito impraticabile?

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Nel 1947, il segretario di Stato americano George Marshalllanciò l’idea di aiutare i Paesi europei devastati dalla guerra mon-diale, per mezzo di un vasto piano di aiuti economici. L’obiet-tivo degli Stati Uniti era quello di creare con il maggior nume-ro possibile di Paesi legami sempre più stretti, in funzione an-ticomunista. Sull’altro fronte, intanto, l’URSS riuscì a compiere ungigantesco sforzo per adeguare (almeno temporaneamente) lasua economia al nuovo ruolo di superpotenza che la situazio-ne politica le chiedeva di svolgere.

Pur disponendo del più potente esercito del mondo,l’URSS aveva una capacità industriale assolutamente ina-deguata a sostenere una politica di grande potenza. Seessa voleva mantenere le posizioni acquisite a livello in-ternazionale con la vittoria, doveva impegnarsi in unosforzo diretto non solo a reintegrare le perdite subite inconseguenza del conflitto, ma anche a porre le pre-messe per un grande sviluppo economico e tecnologico.I dirigenti sovietici erano coscienti dell’urgenza dell’operadi ricostruzione e di sviluppo e della necessità di impe-gnare il popolo sovietico in un nuovo sforzo produttivopari a quello sostenuto negli anni trenta, con il primo e ilsecondo piano quinquennale. […] Dopo il 1947 ognipossibilità di ottenere prestiti e finanziamenti dall’Occi-dente veniva definitivamente preclusa. Pertanto i sovie-tici si sforzarono di ricavare dai paesi sotto il loro controlloil massimo delle risorse economiche possibili. Questospiega la politica seguita nei confronti della Germaniaorientale, che continuerà a pagare milioni di dollari di ri-parazioni sotto forma di impianti industriali e di beni pro-dotti fino al 1953, e più in generale il tipo di accordi dicommercio e di collaborazione economica stipulati coni paesi satelliti. Almeno in una prima fase, tali accordi fu-rono nettamente favorevoli all’URSS e ponevano la con-troparte in una condizione di inferiorità che si traducevain un vero e proprio rapporto di sfruttamento. I vantaggiconseguiti dai sovietici furono particolarmente evidenti nelsettore delle materie prime, che l’URSS riuscì a importaredai paesi del blocco a prezzi fissati da Mosca ben al disotto di quelli di mercato. Grazie a questa politica, chepermise ai sovietici di tradurre in benefici economici l’in-fluenza politica e ideologica detenuta nel mondo comu-nista, e grazie ai grandi sacrifici richiesti al popolo, i pro-grammi di ricostruzione e quelli di sviluppo previsti dalquarto piano quinquennale del 1946 raggiunsero e su-perarono le mete previste. Entro la fine del 1947 eranostati ristabiliti i livelli di produzione del 1940 e nel 1950 gliobiettivi del piano erano già stati realizzati con un annodi anticipo. Essi registravano una produzione superioredel 40% a quella prebellica. Ma il prezzo che verrà pa-gato per quello sforzo fu altissimo in termini di privazionie di rinunce materiali – nel 1945 ben 18 milioni di russivivevano in baraccamenti precari e improvvisati e il ra-zionamento venne mantenuto fino a tutto il 1947 – masoprattutto in termini di libertà sia per il popolo sovieticoche per quelli dei paesi satelliti. […]

Nel corso del 1947 le condizioni finanziarie dei maggioripaesi d’Europa continuavano a essere così precarie da far

temere un collasso generale. […] All’inizio dell’autunno, ipartiti comunisti, estromessi dal governo, erano passati alcontrattacco, in parte in obbedienza alle direttive del Co-minform e in parte sotto la spinta delle masse esasperatedalle condizioni economiche sempre più difficili. Davanti aquesta situazione, gli americani riconobbero l’urgenza di in-terventi immediati e nel novembre il Congresso, convocatoin sessione straordinaria, votava un aiuto provvisorio di 540milioni di dollari a favore della Francia e dell’Italia, oltre chedell’Austria e della Cina, anch’esse bisognose di urgentiaiuti. Era un contributo indispensabile per arrivare al mo-mento in cui sarebbero stati disponibili i mezzi messi a di-sposizione dal piano Marshall.

Il piano, la cui denominazione ufficiale era EuropeanRecovery Program (ERP), veniva presentato al Congressonell’inverno 1947-1948. Il suo esame si svolse non senzacontrasto e con qualche ridimensionamento delle cifre ori-ginali. Fu deciso che gli stanziamenti sarebbero stati an-nuali e che il programma sarebbe stato sospeso in casodi inadempienze e di scarsa collaborazione da parte deipaesi partecipanti. Subito dopo la definitiva approvazionenel marzo 1948, venivano costituiti gli organi per la suaamministrazione e il suo funzionamento: l’ECA (EconomicCooperation Administration), con sede a Washington esotto la direzione di Paul Hoffman [...], e l’OECE (Organiza-tion for European Economic Cooperation) con sede aParigi. L’OECE, più che un organo dell’ERP, fu concepitacome un’istituzione permanente per la cooperazione eco-nomica dei paesi europei. Essa non si limiterà, secondogli obiettivi originari, alla raccolta e alla distribuzione di infor-mazioni relative all’andamento del piano tra i paesi aderentie tra di essi nel loro complesso e l’ECA, ma, nonostante lamancanza di poteri esecutivi e i contrasti che nascerannosulle sue funzioni tra i paesi membri, si sforzò fin dall’ini-zio di diventare un vero e proprio organo di coordinamentoper le politiche economiche dei vari paesi europei e di dareimpulso a quegli obiettivi di integrazione che, già propo-sti dal Piano Marshall, verranno ripresi e sviluppati dallaCECA e dal Mercato Comune.

L’ERP cominciò a funzionare il 1o luglio 1948. Il primoanno furono erogati 5 miliardi e 300 milioni di dollari, chevennero spesi in larga parte in beni alimentari e attrez-zature industriali. Il meccanismo del piano prevedeva lastipulazione di accordi bilaterali tra il governo ameri-cano e quello europeo interessato. Fissatone l’ammon-tare, l’aiuto veniva erogato attraverso consegne gratuitedi materie prime, prodotti alimentari o industriali, se-condo le richieste del governo interessato che li cedevaagli operatori economici nazionali dietro pagamento inmoneta nazionale. Essa andava a costituire un fondoche veniva utilizzato, per il 95%, in investimenti decisi dalgoverno nazionale dopo consultazione con la missioneamericana ERP creata in ogni singolo paese, e per il re-stante 5% per le spese della missione. Il meccanismoera abbastanza semplice e offriva un duplice vantaggio:la disponibilità immediata dei beni da parte degli ope-ratori privati e la possibilità, da parte dei governi, dioperare investimenti pubblici che verranno effettuati so-

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prattutto nel settore delle infrastrutture: trasporti, impiantidi pubblica utilità, edilizia pubblica ecc. [...]

In coerenza con i programmi messi a punto da Wa-shington già nel ’43-’44, la politica economica del pianoMarshall mirava a riattivare le correnti di scambio com-merciale tra Europa e Stati Uniti. Ciò richiedeva per primacosa l’eliminazione dei deficit delle bilance commerciali,il risanamento delle monete europee e la ristrutturazionedel commercio estero, in modo da creare correnti e si-tuazioni favorevoli all’importazione dei prodotti americani.Il raggiungimento di questo obiettivo era a sua volta col-legato alla creazione di un certo grado di complementa-

rietà fra le economie europee e quella d’oltre Atlantico. Mal’obiettivo della complementarietà fra le due economiepresupponeva che, nel processo di ricostruzione di quelleeuropee, si riuscisse a realizzare un grado soddisfacentedi integrazione fra di esse, smobilitando le strutture createnel periodo fra le due guerre dalle politiche autarchicheche, con scarso rispetto delle leggi di mercato e per ra-gioni politiche e militari, avevano costruito sistemi eco-nomici autosufficienti e isolati l’uno dall’altro.

G. MAMMARELLA, Storia d’Europa dal 1945 a oggi, Laterza,Roma-Bari 1988, pp. 141-148

Che ruolo svolsero i Paesi satelliti nel processo di rilancio dell’economia sovietica nel periodo 1945-1953?Quale fu il principale prezzo pagato dal rilancio economico sovietico? Su chi ricaddero le conseguenze negative?Quale giudizio davano gli Stati Uniti sulle politiche di autarchia che vari Paesi europei avevano adottato prima della guerra?

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Fin dagli anni Venti, lo sviluppo economico americano pog-giava sul principio dell’espansione illimitata del mercato, rite-nuto autosufficiente. La crisi degli anni Trenta, però, mostrò al-l’Europa l’importanza dell’intervento statale, al fine di sostenerela capacità di consumo dei cittadini. Pertanto, nel secondo do-poguerra, l’Inghilterra adottò un modello diverso da quello ame-ricano: si trattava del cosiddetto Welfare State, secondo il qua-le le autorità si sforzavano di fornire gratuitamente numerosi ser-vizi essenziali permettendo ai cittadini di indirizzare il propriodenaro all’acquisto di generi di consumo.

[Dopo il 1945], il riformismo sociale, che aveva ormaitrionfato nell’Europa occidentale a scapito sia della destrareazionaria sia di un liberalismo ottuso, continuava a ope-rare in base a un’eredità diversa da quella americana. L’im-pulso solidaristico, dopo aver mostrato il proprio lato piùbieco sotto il dominio del Nuovo ordine nazista, rivelavaora le sue tendenze ampiamente progressiste. L’esten-sione e la profondità del mercato rappresentavano ancoraun problema di primo piano e, poiché nessuna nazione nél’Europa nel suo complesso erano riuscite a creare unmercato interno della stessa portata di quello americano,la maggior parte dei capi di governo decise di affrontareil problema nei modi suggeriti da John Maynard Keynes.In altri termini, avrebbero sfruttato le risorse statali per sti-molare la ripresa economica all’interno del proprio mercatonazionale, anche allo scopo di promuovere la piena oc-cupazione. Era poi necessario confrontarsi anche con ilproblema della profonda diseguaglianza sociale, cui sidecise di far fronte abbracciando la nuova ortodossia so-ciale, secondo la quale non era al mercato che ci si do-veva affidare per promuovere l’uguaglianza: toccava al go-verno rendere più paritario il potere d’acquisto dei cittadini.Per questa via, le società europee giunsero ad abbracciareil diritto di cittadinanza sociale, in assenza del quale lamaggioranza dei cittadini non aveva potuto esercitare i di-ritti politici e sfruttare le opportunità di sviluppo individualepromesse dal liberalismo.

Lungi dall’essere un’imposizione americana, la rivo-luzione dei consumi che nei primi anni cinquantaavrebbe prodotto tali cambiamenti sorprendentementerapidi nello standard di vita va intesa come il risultatodello scontro tra la nuova visione europea del cittadinosociale e la concezione americana del consumatore so-vrano. Ciascuno dei due modelli basava infatti su moti-vazioni profondamente diverse sia la spinta verso un te-nore di vita più elevato, sia la scelta dei beni e dei servizida privilegiare per ottenerlo. Il modello europeo ritenevache tenori di vita più elevati fossero un diritto sociale, siappoggiava all’intervento statale per ridurre le disugua-glianze nell’accesso ai consumi ed era fortemente con-dizionato dai valori solidaristici insiti nelle sottoculture po-litiche, religiose e locali. Il modello americano, invece,

sull’onda del boom economico degli anni cinquanta esessanta, gli anni del miracolo, confidava che fosse ilmercato a espandere i consumi e ben accoglieva la pro-liferazione di nuove identità legate agli stili di vita che siidentificavano con il consumo di massa statunitense. Iconsumatori-cittadini europei che nacquero da questoconflitto erano quindi ibridi. «I figli di Marx e della Coca-Cola» (per usare le belle parole di Jean-Luc Godard) lacui prima generazione, nata nel decennio dopo laguerra, raggiunse la maggiore età negli anni sessanta.

Al contempo scossi e gratificati dall’esplosione di no-vità, questi giovani erano combattuti tra le lotte socialiper l’aumento dei salari e dei beni pubblici e il desideriodi soddisfazioni private; contesi dalla sinistra e dalla de-stra, erano pertanto incerti se stare dalla parte dellostato o del mercato, se preferire la sicurezza dello Statosociale europeo o le libertà individuali promesse dallacultura americana dei consumi.

Questo sviluppo conflittuale assume un valore più si-gnificativo qualora lo si consideri come un’ulteriore fase delrinnovato confronto tra la cultura americana dei consumie la civiltà europea del mercato, benché ora tale fase si gio-casse su un piano molto diverso e in presenza di nuovefrontiere. Da una parte, il modello americano era uscitodalla guerra più risoluto, disinvolto e combattivo che mai,grazie alla lungimiranza politica di Washington, certo, maanche in virtù della migliore sintonia fra gli obiettivi di poli-tica estera, l’operato delle aziende multinazionali e il con-senso del grande pubblico. Esso promuoveva la sovranitàdel consumatore e quella prosperità dei cittadini e dell’e-conomia in generale che risultava dal libero gioco delleforze di mercato, dall’aumento della produzione e dalla cre-scita della domanda. Funzionando a dovere i mercati, i cit-tadini sarebbero riusciti a realizzare i propri legittimi desideridi salute fisica e di realizzazione personale. Pertanto, nonoccorreva che lo Stato intervenisse per garantire una piùequa distribuzione di beni e servizi. Nel migliore dei mondipossibili, la libertà del consumatore era la più fondamen-tale di tutte le forme di libertà. […] Al contrario, secondo ilmodello europeo, gli individui dovevano essere quantomeno all’altezza di un parametro minimo per rientrare nelconcetto di cittadinanza sociale. Questo minimo era un di-ritto non sindacabile, non una legittima aspirazione o unarivendicazione, come poteva accadere nella realtà ameri-cana. In assenza di tale requisito, occorreva introdurre i ser-vizi collettivi, ovvero il consumo sociale. Non era dunque ilmercato, bensì il processo politico nato dagli ideali di ugua-glianza e giustizia e culminante nella scelta elettorale a de-terminare il tipo di intervento.

V. DE GRAZIA, L’impero irresistibile. La società dei consumiamericana alla conquista del mondo, Einaudi, Torino 2006,

pp. 367-370, trad. it. A. MAZZA, L. LAMBERTI

Modello europeo e modello americanonel secondo dopoguerra

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Spiega la differenza tra la «visione europea del cittadino sociale» e «la concezione americana del consumatore sovrano».Spiega l’espressione «figli di Marx e della Coca-Cola».

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Lo storico italiano Emilio Gentile ricorda giustamente chela contestazione studentesca del 1968 non fu il primo episodiodi rivolta giovanile. Anche i ragazzi di classe sociale medio-alta, nel primo decennio del Novecento, cercarono di oppor-si al mondo degli adulti, di avanzare nuove prospettive poli-tiche e di prospettare nuove modalità – meno repressive – divivere la sessualità. Tuttavia, mentre i giovani borghesi, nel1914, subirono fortemente il richiamo del nazionalismo e del-la guerra, quelli del Sessantotto si schierarono per la mag-gior parte a sinistra.

«Mi rivolto, dunque siamo». Due generazioni di gio-vani nel Novecento europeo avrebbero potuto far pro-prie le parole di Albert Camus: i giovani del 1918, cheparteciparono alla Grande Guerra e i giovani del 1968che parteciparono alla Grande Contestazione. Due ge-nerazioni, separate da un periodo di cinquanta anni du-rante i quali l’Europa e la condizione dei giovani euro-pei cambiarono radicalmente. Le differenze fra i dueeventi e fra le due generazioni sono enormi, tanto daapparire incomparabili. Eppure, un confronto può es-sere utile. È stata già proposta una riflessione sulleanalogie fra il 1968 e il 1848. Altrettanto interessantepotrebbe risultare una riflessione sulle analogie fra la ge-nerazione della Grande Guerra e la generazione dellaGrande Contestazione. Senza scambiare l’analogia perla genealogia.

Sia i giovani della Grande Guerra sia i giovani dellaGrande Contestazione irruppero nella storia al culminedi un periodo di benessere, quando però cominciavanogià a manifestarsi i segni di una crisi, che inquietaronosoprattutto i giovani per l’incertezza del loro futuro. Cre-sciute in un’epoca di benessere, la generazione del ’18e la generazione del ’68 rifiutavano di identificare il sensodella vita con la conquista del benessere, perché ciò perloro degradava l’uomo a mero produttore e consuma-tore di beni. Gli uni e gli altri erano figli istruiti della bor-ghesia ma si ribellarono contro i loro padri per affermarela propria originalità. Le due generazioni credevano diessere un’avanguardia che agiva per rigenerare la so-cietà in ogni suo aspetto, con un’intransigenza moraleche rifiutava qualsiasi compromesso. Come l’uomo in ri-volta di Camus, erano giovani che dicevano no, ma di-cevano anche sì. Negavano ma non rinunciavano. Vo-levano fare la storia e cambiare il mondo in cui vivevanoper renderlo migliore.

Nelle due generazioni vi era un rifiuto radicale dellacultura accademica, alla quale opponevano la ricerca diuna nuova cultura creativa, più immersa nella vita e nel-l’esperienza che nelle università e nelle biblioteche. Esal-tavano l’autonomia della propria personalità, ma senti-vano fortemente un’esigenza di comunità, dovel’individualità sarebbe stata fusa nella collettività attra-

verso ideali e valori sinceramente vissuti in un coinvol-gimento totale.

Nell’aspirazione alla rigenerazione totale, fu inevita-bile per i giovani del ’18 come per i giovani del ’68 in-vestire la politica con la loro vocazione palingenetica [de-siderio di radicale rinnovamento della vita umana, intutti i suoi aspetti, n.d.r.]. Disprezzavano la democraziagiudicandola falsa e corrotta; osteggiavano i partiti, con-siderandoli organizzazioni di politicanti professionisti.Preferivano i movimenti senza regole e senza gerar-chia. Alla politica parlamentare, opponevano la politicadell’azione diretta. Gli uni e gli altri avevano il mito dellarivoluzione per dar vita a una nuova società, a un uomonuovo. In Italia, le due generazioni condivisero il mitodella rivoluzione tradita, che i giovani dovevano riscattaree continuare: per i giovani della Grande Guerra, la rivo-luzione tradita era il Risorgimento; per i giovani dellaGrande Contestazione, la rivoluzione tradita era la Re-sistenza. I giovani del ’18 andarono in guerra per com-piere la rivoluzione dei patrioti del Risorgimento. I giovanidella Grande Contestazione immaginavano di riprenderela lotta contro il fascismo per compiere la rivoluzione ini-ziata dai partigiani con la Resistenza.

Il mito della violenza virtuosa, necessaria per di-struggere il potere dei vecchi uomini e delle vecchie isti-tuzioni, fu un altro motivo che accomuna i giovani del ’18ai giovani del ’68. Anche se all’inizio la maggior parte deigiovani delle due generazioni non era disposta a usarela violenza per compiere la rigenerazione, tanto dalla ge-nerazione della Grande Guerra come dalla generazionedella Grande Contestazione sortirono gruppi estremisti,che militarizzarono la politica e praticarono la violenzaterroristica contro gli avversari, fino all’omicidio, perchéli consideravano nemici da annientare per aprire lastrada all’avvento dell’uomo nuovo.

La ricerca di analogie fra le due generazioni può fer-marsi qui. Ma non senza un accenno agli aspetti che invece marcano una differenza netta fra le due genera-zioni. La generazione della Grande Guerra fu prevalen-temente nazionalista e agiva per creare uno Stato nuovo,la generazione della Grande Contestazione era marxistae internazionalista, e voleva abbattere ogni forma di po-tere statale. La prima esaltava la guerra come un dovereetico, la seconda era pacifista, pur accettando la guer-riglia rivoluzionaria. I giovani del ’18 erano cresciuti nel-l’Europa imperiale, dominatrice del mondo. I giovani del’68 erano cresciuti in un’Europa senza impero, un con-tinente di periferia, all’ombra delle due superpotenze,sotto l’incubo di un annientamento atomico.

E. GENTILE, 1918-1968: giovani in rivolta, in “Il Sole 24 ore -Domenica”, 23 novembre 2008, n. 324, p. 47

1916-1968: giovani in rivolta5

Spiega l’espressione «Senza scambiare l’analogia per la genealogia».Che giudizio davano i giovani sulla democrazia, sul sistema parlamentare e sui partiti politici?Che cosa significa l’affermazione secondo cui i gruppi estremisti militarizzarono la politica? Applica questo concetto di

militarizzazione della politica alla realtà sociale degli anni Settanta, sia in Italia che nel resto d’Europa.

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Il processo di riunificazione della Germania fu condotto conuna procedura tale da permettere, di fatto, l’annessione dellaRepubblica democratica alla Repubblica federale. La costituzionedi quest’ultima non dovette subire sostanziali modifiche, e tan-to meno dovette subire influenze dall’esperienza politica e so-ciale dell’ex Germania Est.

Il 1o marzo [1990], sorprendendo insieme i propri col-laboratori e gli avversari politici, [il cancelliere Helmuth Kohl]annunciò l’intenzione di procedere sulla via dell’unifica-zione attraverso l’art. 23 del Grundgesetz [Legge fonda-mentale della Repubblica federale, n.d.r.]. La disputa sullemodalità attraverso le quali realizzare l’unificazione nonera di poco conto, né meramente tecnica. Le alternative indiscussione erano il ricorso all’art. 23 o quello all’art. 146della Legge fondamentale di Bonn. L’art. 23 prescriveva:«La presente legge fondamentale vale innanzitutto nel ter-ritorio dei Länder [Stati regionali, n.d.r.] del Baden, Baviera,Brema, Grande Berlino, Amburgo, Assia, Bassa Sassonia,Renania settentrionale-Westfalia, Renania-Palatinato, Sch-leswig-Holstein, Württemberg-Baden e Württemberg-Hohenzollern. In altre parti della Germania entra in vigoredopo la loro adesione». L’art. 146 prescriveva: «Questalegge fondamentale perde vigore il giorno in cui entrerà invigore una Costituzione che sia stata deliberata con liberadecisione del popolo tedesco».

Le due formulazioni implicavano due procedure tec-niche diverse, ma soprattutto due diverse impostazionie conclusioni politiche. L’adozione dell’art. 23 avrebbeconsentito l’adesione di altre parti a un corpo statuale giàesistente senza bisogno di modificare la Legge fonda-mentale; era tecnicamente più semplice e più rapida, unavolta che si fosse ripristinata nella DDR [la Repubblica de-mocratica tedesca, n.d.r.] la struttura dei Länder che erastata abolita nel 1952 nel corso del processo di centra-lizzazione. Politicamente, una simile procedura non met-teva in discussione l’esistenza della Bundesrepublik [Re-pubblica Federale, n.d.r.], così com’era, e si presentavacome una semplice accessione [adesione alla Repub-blica Federale, n.d.r.] della DDR, che si annullava in unarealtà statuale già esistente. Lo si volesse o no, e al di làdelle apparenze pratiche, era una soluzione di tipo An-schluss [annessione, con una procedura analoga a quellain base alla quale l’Austria, nel 1938, era stata incorpo-rata nel Terzo Reich, n.d.r.] [...] La soluzione dell’art.146, inizialmente caldeggiata dalla socialdemocrazia,implicava invece la formulazione di una nuova Costitu-zione ad opera di due stati che, unificandosi, davano vitaa una terza e nuova entità statuale risultante dalla loro fu-sione. Proprio per le procedure necessarie alla convo-cazione di un nuovo organismo costituente, era questauna via che anche tecnicamente implicava tempi menorapidi. Ma soprattutto la soluzione dell’art. 146 compor-tava sul piano politico esiti che il cancelliere Kohl volevaevitare: significava il riconoscimento della necessità dicambiare il Grundgesetz, integrandolo con esperienze

provenienti dalla DDR; significava accettare almeno tran-sitoriamente l’autonomia e la qualità di interlocutore supiede di parità della DDR e riconoscere il suo diritto a par-tecipare alla configurazione della nuova struttura sta-tale. Kohl e la CDU-CSU [la Democrazia cristiana tedesca,il partito di Helmuth Kohl, n.d.r.] erano viceversa ben lon-tani da qualsiasi concessione in questo senso. La volontàdi presentarsi come vincitori nella competizione tra duesistemi, dettata non solo dai risultati di un’esperienza cheaveva condannato il «socialismo reale» ma da un vero eproprio orrore antisocialista, dal timore – al limite – cheuna ridiscussione complessiva della Costituzione po-tesse contaminare la Bundesrepublik con elementi diesperienze compiute nella DDR, fu alla base della intran-sigenza politica e programmatica del cancelliere Kohl. Difronte a una presa di posizione di questa natura, la DDR

era privata di ogni possibilità di scelta. [...]Il 24 aprile [1990] De Mazière [capo del governo della

DDR, n.d.r.] e Kohl concordarono di addivenire all’unifica-zione economica e monetaria a decorrere dalla data del2 luglio 1990. [...] Il nucleo centrale del trattato sull’u-nione monetaria, economica e sociale era rappresentatodall’estensione all’est del sistema economico-sociale vi-gente all’ovest, vale a dire l’introduzione del sistema ca-pitalistico (economia di mercato) con lo scardinamento de-gli ultimi residui del sistema pubblicistico [socialista, per cuil’economia era gestita interamente dallo stato, n.d.r.] sinoa poco tempo prima vigente. «Fondamento dell’unioneeconomica – si legge nel trattato – è l’economia sociale dimercato quale ordinamento economico comune delledue parti contraenti. Esso è determinato dalla proprietàprivata, dalla concorrenza produttiva, dalla libera forma-zione dei prezzi e dalla piena libertà di circolazione in lineadi massima, di lavoro, capitale, beni e servizi; ciò nonesclude che la legge possa consentire particolari forme diproprietà per la partecipazione della mano pubblica o dialtri titolari giuridici ai rapporti economici, sempre che nonne risultino discriminati titolari di diritti privati. Essa tieneconto delle esigenze della protezione dell’ambiente». [...]

I due parlamenti ratificarono lo Einigungsvertrag [Trat-tato di stato sull’unificazione, n.d.r.] il 20 settembre: essosarebbe entrato in vigore il 3 ottobre 1990. Il trattato con-stava di 45 articoli, 3 allegati e un promemoria riassun-tivo per un complesso di più di un migliaio di fogli datti-loscritti. Com’è facilmente comprensibile, si trattava di uncomplesso assai elaborato di norme come si convenivaall’obiettivo di unificare due ordinamenti statali così diversiquali quelli dei due stati tedeschi. L’operazione consi-steva nell’estensione all’intero territorio della futura Ger-mania unificata dell’ordinamento giuridico ed econo-mico-sociale (in buona parte già esteso in base al trattatodell’unione economica, sociale e monetaria) della Re-pubblica federale tedesca, con la graduale espulsionedella legislazione della DDR incompatibile con il nuovo or-dinamento, che sarebbe diventato pienamente operante

Modalità e tappe della riunificazionetedesca

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entro il 1995. [...] L’art. 3 riguardava le modifiche nella let-tera (più che nella sostanza) della Legge fondamentaleche si erano rese necessarie con l’unificazione. Impor-tante era comunque che l’art. 23, lo stesso che avevareso possibile dal punto di vista formale l’unificazione, ve-niva ora a cadere; non solo era venuto meno l’oggettodella sua operatività, ma con la sua cancellazione si era

voluto eliminare il dubbio che potessero sussistere resi-due rivendicazioni territoriali, legittimando l’adesione allaRepubblica federale di altri territori, con allusione alle areecedute alla Polonia.

E. COLLOTTI, Dalle due Germanie alla Germania unita, Einaudi,Torino 1992, pp. 270-272, 274-275, 290-291

Per quale motivo fu ignorato l’art. 146 della Legge fondamentale della Repubblica federale tedesca?Quale ordinamento economico e sociale fu introdotto nella Germania orientale, dopo l’unificazione?Per quale motivo, dopo l’unificazione, l’art. 23 fu cancellato dalla Legge fondamentale della nuova Germania?

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La Germania Orientale, sotto il controllo politico e militaredei russi, divenne una Repubblica democratica-popolare, cioè,in pratica, adottò il principio leninista della dittatura del prole-tariato. Inoltre, per tutto il periodo in cui visse Stalin, il Partitocomunista della Germania Est cercò in ogni modo di restare le-gato alla linea politica del dittatore sovietico.

«La Repubblica democratica tedesca è uno Stato de-mocratico-popolare, nel quale sono già sostanzialmenteposte le basi del socialismo... Lo Stato come strumentoprincipale del popolo lavoratore nell’edificazione del so-cialismo ha ora il compito di completare la trasformazionesocialista dell’intera vita sociale... Questi princìpi fonda-mentali della politica della Repubblica democratica tede-sca, che è rivolta alla realizzazione degli interessi vitali e dellavolontà dei lavoratori, sono espressione della natura del po-tere statale democratico-popolare. Sono espressione delfatto che nella Repubblica democratica tedesca la classeoperaia esercita il potere politico in alleanza con i contadinilavoratori e altri strati lavoratori, che essa realizza la ditta-tura del proletariato e che perciò la volontà e gli interessi delpopolo determinano la politica».

Questa definizione ufficiale dell’ideologia, della filo-sofia politica che ispira l’esistenza della Repubblica de-mocratica tedesca contiene un elemento storico e unelemento programmatico. Dal punto di vista storico fa ilpunto dello stadio di trasformazione socialista raggiuntodalla società tedesco-orientale; dal punto di vista pro-grammatico rappresenta gli elementi per l’individuazionedei princìpi fondamentali che informano tutti gli organi,politici e amministrativi dello Stato, e della posizione chespetta nella società alle sue diverse componenti. LoStato della Repubblica democratica tedesca si qualificaanzitutto come «democrazia popolare», come versionetedesco-orientale della «dittatura del proletariato», unconcetto che ha largamente compenetrato tutto il pro-cesso di articolazione del potere [...].

Nel sistema politico della Repubblica democratica te-desca, la forza propulsiva è rappresentata, a tutti i livelli,dal partito socialista unitario, in quanto rappresentanzapolitica della classe operaia. La posizione che la SED [=il Partito Socialista Unitario; derivava il suo nome dalfatto di essere il frutto della fusione di vari movimenti disinistra, ma era egemonizzato dai comunisti – n.d.r.]occupa nelle strutture politiche economiche e sociali delpaese fa sì che la storia della sua evoluzione e del suosviluppo come partito si identifichi in maniera sempre piùcompleta con la storia e con l’evoluzione delle trasfor-mazioni politico-economico-sociali della Repubblica de-mocratica tedesca. [...] Il 1948 è un anno fondamentalenella storia della SED: la progressiva frattura delle due Ger-manie dopo la riforma monetaria nelle zone occidentali

da una parte, la crescente tensione tra est e ovest dal-l’altra, infine le polemiche all’interno del Blocco socialistacon la condanna della Jugoslavia provocano su tutti ipiani un complesso problema di risistemazione dellebasi ideologiche, politiche e organizzative del partito.Non ultima delle scadenze che impongono lo sviluppodella SED verso un «partito di tipo nuovo», come siesprime appunto il linguaggio ufficiale del partito, è il pas-saggio alla pianificazione economica a lungo termine, cheimplica un nuovo tipo di presenza della SED presso tuttii settori produttivi e presso tutti i ceti sociali. [...] Che cosaera dunque, che cosa doveva essere il «partito di tiponuovo»? La sistemazione della nuova concezione sa-rebbe stata opera della I Parteikonferenz [= Conferenzadi Partito – n.d.r.] che si svolse all’inizio del 1949 (neigiorni 25-27 gennaio) e nella quale, accanto alla riaffer-mazione del ruolo di avanguardia e di egemonia dellaclasse operaia, era enunciata la definizione del «partito ditipo nuovo» come «partito operante sulla base del marxi-smo-leninismo e della politica bolscevica e modellato sul-l’esempio del partito comunista dell’Unione Sovietica».Ma che cosa significava concretamente tutto ciò? Chia-rimenti importanti erano venuti già prima della Par-teikonferenz dalle deliberazioni degli organi dirigenti dellaSED. Se già alla undicesima sessione della direzione delpartito del giugno 1948 Wilhelm Pieck aveva coniato laparola d’ordine «Imparare dall’Unione Sovietica significaimparare a vincere!», nei mesi successivi si intensificò ul-teriormente la campagna per l’assimilazione nella Ger-mania orientale del modello sovietico, attraverso anzituttol’acquisizione dell’esperienza storica della rivoluzioned’ottobre e lo studio delle opere e della biografia di Sta-lin e del «breve corso» della storia del PCUS. [...]

Il «partito di tipo nuovo» era soprattutto l’espres-sione del riconoscimento della funzione di guida dell’U-nione Sovietica. [...] Base di tutta l’istruzione politico-ideologica era la ripetizione monotona di formule diquesto genere: «Compito di tutte le forze progressiste èimparare come si costruisce il socialismo dalle espe-rienze della lotta del PCUS (bolscevico) e del grande Sta-lin... Bisogna compiere in modo ancora più approfonditolo studio della storia del PCUS, che costituisce la base ditutto l’insegnamento delle nostre scuole di partito, e lostudio delle opere del compagno Stalin». L’esaltazione diStalin continuò con la raccomandazione di rifarsi al «ge-niale lavoro» di Stalin sui Problemi economici del socia-lismo nell’URSS. «Gloria e onore a Stalin, colui che ha ge-nialmente completato le idee di Marx, Engels e Lenin!».

E. COLLOTTI, Storia delle due Germanie 1945-1968, Einaudi,Torino 1968, pp. 780-781 e 816-823

Stato e partito nella Repubblicademocratica tedesca

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Spiega il significato delle seguenti espressioni, tipiche del linguaggio ufficiale utilizzato alla fine degli anni Quaranta nellaGermania Orientale:a) democrazia popolare;b) partito di tipo nuovo.

Che giudizio veniva dato sulla figura di Stalin da parte dei dirigenti comunisti tedeschi?

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L’andamento delle relazioni tra Iugoslavia e Unione So-vietica ebbe drammatici risvolti per un gruppo di operai ita-liani che, nel dopoguerra, scelsero di trasferirsi a Fiume percostruire il socialismo. Dopo la rottura fra Tito e Stalin, mol-ti di loro restarono legati al Cominform, assunsero posizionicritiche nei confronti del Partito iugoslavo e quindi furono di-scriminati o incarcerati. Dopo anni di isolamento o dura re-clusione, furono rimandati in Italia, ma non poterono pubbli-camente descrivere le loro sofferenze perché Mosca, nel frat-tempo, si era riconciliata con Belgrado: quindi, anche il pcinon aveva più interesse a offrire un’immagine negativa del-la situazione iugoslava.

[Nel 1947] a Fiume si trasferirono fra i 2000 e i2500 operai isontini [= provenienti da Monfalcone e daaltri centri della valle dell’Isonzo, n.d.r.], che occupa-rono i posti di maggior responsabilità nelle officine delsiluruficio, della Torpedo e della raffineria abbandonatidai lavoratori locali [= italiani fuggiti dall’Istria, n.d.r.], manon furono i soli italiani a giungere in città: nel mede-simo periodo fece infatti il suo arrivo anche un buon nu-mero di intellettuali regnicoli [= originari del Regno (omeglio ex Regno, nel 1947) d’Italia, n.d.r.], provenienticioè da varie parti d’Italia, con una forte percentuale dimeridionali. Erano insegnanti, giornalisti, attori e artistid’ogni genere, tanto che nel 1948 a Fiume l’intera or-chestra dell’Opera, buona parte dei cantanti, attori eregisti del Teatro del Popolo, quasi tutti i giornalisti delquotidiano “la Voce del Popolo” e delle altre pubblica-zioni in lingua italiana, molti maestri e insegnanti discuola media erano immigrati non giuliani. Per qualchemomento insomma, a Fiume si costituì una nuova,singolare comunità italiana, non autoctona, giustap-posta a quel che restava di una società locale in via dirapida sparizione, le cui logiche e passioni risultavanoincomprensibili per i nuovi arrivati, al di là del disagiodovuto alle sempre più serrate partenze che dall’oggial domani troncavano rapporti appena allacciati e mu-tavano il volto della città. Quasi accampata in unaFiume ormai largamente jugoslavizzata e terribilmenteimmiserita, questa nuova comunità italiana era assaivariegata per composizione, ma unita nell’entusiasmodi chi voleva costruirsi una vita nuova in un mondo cheavrebbe dovuto consentire la realizzazione degli idealisocialisti e internazionalisti. In questo senso, anche sesolo per pochi mesi, Fiume rappresentò per quel grap-polo di italiani respinti dalla storia del loro paese, unasorta di luogo dell’utopia, o meglio dell’illusione. La du-rezza della politica del dopoguerra, l’intollerante rigiditàdei rapporti gerarchici nel mondo comunista dominatodall’Unione Sovietica e l’altrettanto intollerante fer-mezza del regime stalinista jugoslavo stroncarono ra-pidamente quella breve stagione.

Quando la risoluzione del Cominform del 28 giugno1948 scomunicò il partito comunista jugoslavo invi-tando gli «elementi sani» a destituire i propri dirigenti,

i monfalconesi vennero a trovarsi in una situazione im-possibile. I comunisti italiani si riconobbero immedia-tamente nelle critiche contenute nella risoluzione: pre-valenza degli elementi nazionalisti, scarsa democraziainterna, metodi militari di direzione, incapacità di rifor-nire di generi alimentari la popolazione urbana ecce-tera. Erano rilievi che esprimevano al meglio le per-plessità che gli operai isontini avevano già maturato neimesi trascorsi a contatto con la dirigenza croata […].Ma se anche così non fosse stato, la fedeltà dei co-munisti giuliani a Stalin era indiscussa ed essi, con in-credibile ingenuità, la manifestarono in maniera espli-cita e clamorosa. A centinaia, i monfalconesiparteciparono a riunioni e comizi pro Cominform e,quando la dirigenza comunista jugoslava convocòun’assemblea in un teatro cittadino, per spiegare le ra-gioni di Tito, accadde l’irreparabile: i relatori ufficiali fu-rono sommersi dai fischi, mentre i monfalconesi pren-devano la parola attaccando la politica del partito aFiume. Alla fine, il loro leader, Ferdinando Marea, intonòl’Internazionale e tutti i presenti si unirono al canto, ab-bandonarono la riunione e formarono un corteo chesfilò per le vie della città.

A dire il vero la repressione non fu immediata. La di-rigenza jugoslava organizzò con gli esponenti monfal-conesi una serie di riunioni che misero però maggior-mente in luce l’abisso politico che si stava aprendo: alleaccuse di deviazionismo rivolte al partito jugoslavo, imonfalconesi si sentirono rispondere che «la patria siama anche quando non è socialista». Ma quella patrianon era la loro, non era riuscita a diventarlo, e l’Italia delresto non lo era più perché era stata rifiutata. La por-tata del dramma perciò fu ben più ampia di quanto nonlasci intendere il numero di quanti furono colpiti dai piùgravi provvedimenti di polizia: solo una quarantina dimonfalconesi subirono la deportazione nel campo dirieducazione di Goli Otok – l’inferno attraverso il qualeil regime cercava di piegare i cominformisti –, cui vannoaggiunti i membri di una cellula clandestina di militantiitaliani, costituitasi a Fiume indipendentemente dalle vi-cende dei monfalconesi al fine specifico di contribuireal rovesciamento di Tito, ma ben presto individuata dal-l’UDBA, la polizia politica. Al di là però della sorte terri-bile di una cinquantina di elementi più esposti, l’interaesperienza delle migliaia di lavoratori italiani emigrati inJugoslavia perse di colpo ogni senso. Il clima era cam-biato, l’esistenza stessa del socialismo nel Paese dielezione era messa radicalmente in dubbio, i comuni-sti italiani erano divenuti complessivamente sospetti esottoposti a licenziamenti, angherie, isolamento. Allaspicciolata quindi, piegati dalla delusione, comincia-rono a tornare in un’Italia che li accolse tutt’altro chevolentieri, ritrovandosi senza lavoro e spesso senzacasa. «Quel marchio della Jugoslavia ce lo portiamoancora sulle spalle, perché siamo tornati con la codafra le gambe, ce la siamo cavata solo grazie alla tena-

Tito, il Cominform e i lavoratoricomunisti italiani

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cia», ha raccontato un testimone, ma la tenacia nonbastò per tutti, e molti, senza patria e senza risorse,dovettero emigrare nuovamente, in Francia, in Svizzera,in Svezia. Ancor peggio, se possibile, andò agli oppo-sitori più convinti del regime di Tito: liberati alla metàdegli anni cinquanta dopo una durissima detenzione,tornarono in Italia quando ormai si era avviato il pro-cesso di destalinizzazione e i rapporti fra Tito e il PCUSstavano migliorando. Il ricordo perciò della loro lotta e

della loro sofferenza divenne scomodo e fu cacciatoanch’esso nel grande armadio delle memorie dimenti-cate del Novecento, colmo di spezzoni di vite bru-ciate, di drammi ignorati, di terre perdute e di ideali in-franti, che solo negli anni novanta ha cominciato aschiudere le sue ante.

R. PUPO, Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio,Rizzoli, Milano 2005, pp. 132-134

Spiega l’espressione secondo cui Fiume, per alcuni mesi del 1947-1948, rappresentò «una sorta di luogo dell’utopia, omeglio dell’illusione».

Come reagirono gli operai italiani alle delibere del Cominform? Spiega l’espressione: «grande armadio delle memorie dimenticate del Novecento». Che cosa significa l’affermazione

secondo cui solo «negli anni Novanta» quell’armadio «ha cominciato a schiudere le sue ante»?

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La riconciliazione fra Mosca e Belgrado9

Il primo segnale del nuovo corso messo in opera da Krusciovin Unione Sovietica fu la riconciliazione con la Iugoslavia di Tito.A Belgrado, Krusciov riconobbe che esistevano vie per il so-cialismo diverse da quella russa e ammise per la prima voltache il partito poteva compiere degli errori politici.

(Il 26 maggio 1955) non appena l’aereo della dele-gazione sovietica atterrò all’aeroporto di Semlin, neidintorni di Bel grado, Krusciov, disceso dall’aereo, lesseimmediatamente un testo che avrebbe scatenato, al-l’interno del blocco comunista, tutto un insieme di av-venimenti le cui conseguenze non si sono ancora spente[l’autore scriveva nel 1967-68 – n.d.r.]. «Siamo profon-damente addolorati di quanto è accaduto» queste fu-rono le prime parole di Nikita Sergeevic. «Noi spaz-ziamo via risolutamente» proseguì «ogni amarezzaderivante da questo periodo [...]. Abbiamo esaminato at-tentamente i documenti sui quali si fondavano le graviaccuse e le ingiurie [...]. Quei documenti erano fabbricatidai nemici del popolo, miserabili agenti dell’imperialismo,che erano riusciti a infiltrarsi nel nostro partito». Una si-mile autocritica andava al di là di quanto si riteneva ne-cessario per una semplice riconciliazione».

Krusciov era risoluto ad andare ancora più lontano.Affermò che la Lega dei comunisti jugoslavi era semprestata un partito marxista-leninista; e così gettò le basi diun riavvicinamento non solo tra gli stati ma anche i par-titi fratelli. [...] Durante i negoziati, terminati con il co-municato finale del 2 giugno 1955, i sovietici feceroun’altra importante concessione, riconoscendo che «iproblemi dell’organizzazione interna dei diversi sistemisociali e delle diverse forme di sviluppo del socialismo ri-guardano esclusivamente la politica interna dei paesi inquestione». Krusciov, naturalmente, non aveva am-

messo [...] che la famigerata risoluzione del Kominformdel 1948 era ideologicamente scorretta, limitandosi a ri-conoscerne le conseguenze. Attribuiva comunque aessa l’intera responsabilità dell’avvelenamento dei rap-porti tra i due paesi. Questo era già molto.

Non si deve dimenticare, per comprendere meglioil senso delle tre affermazioni dell’ospite sovietico, chenell’URSS e nelle democrazie popolari il potere venivaesercitato da un partito infallibile: per prima cosa (Kru-sciov disse invece) che non esiste una totale identità divedute all’interno del PCUS, non solo, ma vi penetranoaddirittura gli agenti dell’imperialismo dettandovi la loropolitica; poi, che il Partito comunista jugoslavo, nono-stante la sua «eresia», resta un partito marxista-lenini-sta che sta costruendo il socialismo; infine, che Tito eil suo paese hanno il diritto di costruire il loro sistemacome meglio credono. Esiste dunque una via nazionaleal socialismo. La maggior parte dei capi comunisti ri-conobbero che Tito e Krusciov, nel loro reciproco inte-resse, mettendo fine al conflitto jugo-sovietico, ave-vano tutto da guadagnare. Ma nessuno di loro pensavadi doversi recare a Canossa per una riconciliazione, eammettere la fondatezza dell’indipendenza titoista.Questo significava concedere pubblicamente a Titouno statuto speciale; significava farne un modello invi-diabile per gli altri paesi del campo socialista, un clichéche alcuni di loro prima o poi avrebbero cercato di imi-tare. Come osserva André Fontaine: «Krusciov mettevaveramente una bomba nell’edificio così a lungo mono-litico del blocco sovietico».

L. NAGY, Democrazie popolari 1945-1968, trad. di A. AGRIESTI,R. BUCCIANTI, D. CHIOATTO, R. PRINZHOFER, Il Saggiatore,

Milano 1969, pp. 178-179

In che cosa l’immagine del Partito comunista russo, offerta da Krusciov a Belgrado, nel 1955, si distingue nettamente da quella tradizionale, di matrice leninista e stalinista?

Per quale motivo le parole pronunciate da Krusciov a Belgrado, nel 1955, possono essere condiderate una bomba a orologeria, capace di far esplodere il blocco dei paesi comunisti controllati dall’Unione Sovietica?

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Nel dopoguerra, in Europa e negli Stati Uniti il numero de-gli studenti universitari crebbe enormemente, trovando le uni-versità impreparate a sostenere un afflusso così massiccio. Apartire dalle prime forme di protesta, la contestazione giunsea mettere in discussione ogni forma tradizionale di autorità.

Se mai ci fu un solo momento negli anni d’oro dopoil 1945 corrispondente al sogno dell’insurrezione mon-diale simultanea coltivato dai rivoluzionari dopo il 1917,quello fu certamente il 1968, quando gli studenti si ri-bellarono dagli Stati Uniti e dal Messico a Occidente finoalla Polonia, alla Cecoslovacchia e alla Jugoslavia neipaesi dell’Est, stimolati per lo più dalla straordinariaesplosione del maggio parigino del 1968, epicentro diuna sollevazione studentesca diffusa in tutto il Conti-nente. [...] La ragione per cui il 1968 (con il suo prolun-gamento nel 1969 e nel 1970) non fu una rivoluzione enon ne ebbe mai né poteva averne le caratteristiche fuche gli studenti, per quanto numerosi e pronti alla mo-bilitazione, non potevano fare la rivoluzione da soli. Laloro efficacia politica consisteva nel fungere da detona-tori e da segnali per strati sociali più ampi, ma meno fa-cilmente infiammabili. Dagli anni ’60 in poi gli studenti as-solsero talvolta questa funzione con successo. Essiinnescarono enormi ondate di scioperi operai in Franciae in Italia nel 1968, ma, dopo vent’anni di migliora-mento senza precedenti delle paghe salariali in econo-mie di piena occupazione, la rivoluzione era l’ultimopensiero che avevano in mente le masse proletarie. [...]

Nei paesi sviluppati un livello così alto di radicalizza-zione a sinistra era un fatto nuovo, mentre non lo era neipaesi arretrati e dipendenti. Prima della seconda guerramondiale, la grande maggioranza degli studenti nel-l’Europa centrale e occidentale e nel Nordamerica eraapolitica o di destra. La crescita smisurata del numerodegli studenti suggerisce una possibile risposta. Allafine della seconda guerra mondiale, gli studenti in Fran-cia erano meno di centomila. Nel 1960 erano più di due-centomila e nei dieci anni successivi triplicarono, diven-tando 651000. (Du ran te questi dieci anni il numero deglistudenti nelle facoltà umanistiche si moltiplicò di quasitre volte e mezzo; il numero di studenti nelle facoltà discienze sociali di quattro volte.) La conseguenza più di-retta e immediata fu il sorgere di una tensione inevitabilefra queste masse studentesche (per lo più studenti diprima generazione) che si riversavano nell’università, ele istituzioni che non erano pronte a ricevere una tale af-fluenza né materialmente, né organizzativamente né in-tellettualmente. Inoltre, poiché una crescente porzionedi giovani aveva la possibilità di studiare – in Francia il4% nel 1950, il 15% nel 1970 –, andare all’università

cessò di essere un privilegio eccezionale tale da ripagareda sé solo lo studente, e pertanto vennero avvertitimolto di più i sacrifici che la condizione studentesca im-poneva a giovani adulti in genere con pochi soldi. Ilrancore verso un particolare tipo di autorità, quella uni-versitaria, si allargò facilmente nel rifiuto di ogni altra au-torità, e perciò (nell’Occidente) spinse gli studenti versosinistra. [...]

I giovani estremisti erano guidati – nella misura in cuiaccettavano dei capi – da loro coetanei. Questo era veroper i movimenti studenteschi che si diffusero in tutto ilmondo, ma dove quei movimenti innescarono protesteoperaie, come in Francia e in Italia nel 1968-69, l’inizia-tiva venne presa anche da giovani operai. Nessuno cheavesse un’esperienza sia pur minima dei limiti della vitareale, ossia nessuno che fosse autenticamente unadulto, avrebbe potuto escogitare slogan fiduciosi mapalesemente assurdi come quelli scanditi nel maggioparigino del 1968 o nell’autunno caldo italiano del 1969:«Tutto e subito». [...] Il carattere essenzialmente antino-miano (= avverso a ogni tipo di regola, soprattutto in me-rito alla condotta personale – n.d.r.) della nuova culturagiovanile si manifestò con maggior chiarezza quandotrovò espressione intellettuale, come accadde nei ma-nifesti del maggio parigino del 1968, che divennero su-bito famosi: si pensi allo slogan «È vietato vietare» [...].Contra riamente all’apparenza, queste non erano affer-mazioni politiche nel senso tradizionale, neppure nelsenso più ristretto di espressioni miranti ad abolire leggirepressive. Non era questo il loro obiettivo. Erano invecepubbliche proclamazioni di desideri e sentimenti privati.

Come diceva uno slogan del maggio 1968: «Prendoi miei desideri per la realtà, perché credo nella realtà deimiei desideri». Anche quando i desideri dei singoli siespressero congiuntamente in manifestazioni, in gruppie in movimenti di carattere pubblico; anche in ciò chesembrò una ribellione di massa e talvolta ne ebbe gli ef-fetti, la soggettività restò il nucleo essenziale. [...]

Per i giovani contestatori parigini la cosa importantenon era certo ciò che i rivoluzionari speravano di otte-nere con la propria azione, ma ciò che facevano e comesi sentivano mentre lo facevano. Fare l’amore e fare larivoluzione non potevano essere disgiunti con chiarezza.La liberazione personale e la liberazione sociale proce-dettero così di pari passo; infatti il modo più ovvio per in-frangere i legami imposti dal potere, dalla legge e dalleconvenzioni dello stato, dei genitori e dell’ambiente so-ciale erano il sesso e le droghe.

E.J. HOBSBAWM, Il secolo breve, trad. di B. LOTTI, Rizzoli,Milano 1995, pp. 351-354; 381; 391

La protesta studentesca nel 196810

Per quali ragioni i giovani che si ribellarono nel 1968 si erano collocati su posizioni di sinistra, mentre gli studenti dei decenni precedenti (in grande maggioranza) erano stati apolitici o di destra?

Spiegate il significato di questa frase utilizzata da E. J. Hobsbawm: «Anche in ciò che sembrò una ribellione di massa e talvolta ne ebbe gli effetti, la soggettività restò il nucleo essenziale».

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Quale atteggiamento assunsero i khmer rossi nei confronti della cultura occidentale?Quali elementi distinguono la prassi effettiva dei comunisti cambogiani da quella della Cina maoista?

Pur presentando alcuni aspetti simili all’esperienza maoi-sta, il comunismo cambogiano si caratterizzò per un radicalerifiuto della tecnica e della cultura occidentale, che non ha equi-valenti in Cina.

I rivoluzionari della Cambogia prendevano più sul se-rio degli stessi cinesi il famoso detto di Mao: «È sulla pa-gina bianca che si scrive la poesia più bella». Bisognavaper prima cosa spogliarsi di tutti quei beni che non fa-cevano parte della vita di un contadino povero: i cam-bogiani tornati in patria dovettero rinunciare a quasi tuttii loro bagagli, compresi i libri. Quelli scritti in una «linguaimperialista», cioè in francese o in inglese, ma anchequelli in khmer, «reliquie della cultura feudale», furono de-stinati alla distruzione. Haing Ngor si sentì dire da alcunisoldati khmer rossi di una decina d’anni: «Basta con i li-bri capitalisti! I libri stranieri sono strumenti dell’Ancienrégime che ha tradito il paese. Perché hai dei libri, seidella CIA? Non ci saranno più libri stranieri sottol’Angkar». Bisognava anche bruciare i diplomi e le carted’identità, persino gli album di fotografie: la rivoluzionesignificava ripartire da zero. [...]

L’esperienza cinese appariva esemplare soprattuttoper la riorganizzazione del paese sulla base di una cam-pagna collettivizzata. La comune popolare, vasta strut-tura dalle attività diversificate, autarchica [= autosuffi-ciente – n.d.r.] ai limiti del possibile e responsabile dellagestione del lavoro e della popolazione, è stata inconte-stabilmente il prototipo delle cooperative cambogiane. Inesse sono individuabili fin nei particolari certe innovazionidella Cina del 1958: le mense obbligatorie, la gestionecomune dei bambini; la collettivizzazione persino deglioggetti d’uso; la presenza di grandi cantieri idraulici cheassorbivano una gran parte della manodopera; la con-centrazione (in fondo contraddittoria con il progettostesso) su una o due produzioni quasi esclusive; le cifreposte come obiettivi assolutamente irraggiungibili; l’insi-stenza sulla rapidità di realizzazione, sulle possibilità illi-mitate di una manodopera correttamente utilizzata. Maoaveva detto: «Con il grano e l’acciaio tutto diventa pos-sibile»; i khmer rossi replicavano: «Se abbiamo il riso, ab-biamo tutto». Si sarà notata l’assenza dell’acciaio nellaversione cambogiana: l’irrealismo non si spingeva fino ainventare giacimenti di ferro o di carbone, inesistenti inCambogia. Per contro, evidentemente nessuno ha dettoa Pol Pot come era andato a finire il Grande balzo cinese,o forse la cosa non lo interessava. Il concetto in sé oc-cupa un posto chiave nella dottrina dei khmer rossi.L’inno nazionale, per esempio, si conclude con questeparole: «Costruiamo la patria perché compia un Grande

balzo in avanti! Un immenso, un glorioso, un prodigiosobalzo in avanti!» La Kampuchea democratica è stata fe-dele al Grande balzo cinese al di là di ogni aspettativa:al pari di questo ha avuto come risultato un’immensa emicidiale carestia. Per contro la Rivoluzione culturale haavuto in Cambogia soltanto pochi echi diretti. Come glialtri poteri comunisti, quello di Phnom Penh aveva con-statato fino a che punto fosse rischioso mobilitare lemasse, per quanto inquadrate e sotto controllo, controquesto o quel clan del Partito. [...]

A giudicare dal loro operato, si direbbe che i khmerrossi si siano ispirati in prevalenza alla teoria, o ancormeglio agli slogan maoisti, piuttosto che alle pratiche ef-fettive della Repubblica popolare cinese. Le campagnecinesi, focolai di rivoluzione, furono sicuramente il luogodi esilio di milioni di intellettuali cittadini, soprattutto al-l’indomani della Rivoluzione culturale (ancora oggi il re-gime ricorre a misure drastiche per contenere l’esodorurale), ma le grandi città continuarono a svolgere unruolo chiave anche dopo il 1949 e gli operai furono i fi-gli prediletti del regime. Il Partito comunista cinese nonprese mai neanche in considerazione l’idea di far eva-cuare completamente le città, di deportare la popola-zione di intere regioni, di abolire la moneta o il sistemascolastico e di perseguitare la categoria degli intellettuali.Mao, pur non perdendo mai l’occasione di mostrare loroil proprio disprezzo, in fondo non riusciva a far a menodi loro. E le Guardie rosse provenivano spesso dalle uni-versità dell’élite. Khieu Samphan [un dirigente khmer –n.d.r.] è ricorso a una retorica nettamente maoistaquando, nel 1976, ha accolto gli intellettuali rientrati inCambogia per dimostrare la loro fedeltà al regime conqueste parole: «Ve lo diciamo chiaramente: non ab-biamo bisogno di voi, abbiamo bisogno di gente chesappia lavorare la terra, punto e basta. [...] Non abbiamobisogno di ingegneri per coltivare il riso, piantare il maiso allevare maiali». Ma in Cina una siffatta negazione diqualsiasi abilità tecnica non diventò mai una politica di-chiarata. Inoltre, ad ogni svolta verso l’estremismo uto-pista, a ogni ondata repressiva in questo paese si al-ternava assai rapidamente un ritorno a metodi e principipiù normali, e l’iniziativa di questa inversione di marciaproveniva dall’interno stesso del Partito comunista: fusenza dubbio questa strategia a garantire durata al re-gime, mentre il Partito comunista della Kampuchea sisvuotò da solo della propria sostanza.

J.-L. MARGOLIN, Cambogia: nel paese del crimine sconcertante, inAA. VV., Il libro nero del comunismo, trad. di M. Parizzi,

Mondadori, Milano 1998, pp. 581-582 e 587-589

Il regime dei khmer rossi in Cambogia:somiglianze e differenze rispetto al comunismo cinese

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Il programma riformistadi Michail Gorbacëv

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Gorbacev voleva coniugare socialismo e libertà, ponendo fineal principio leninista secondo cui ogni critica al partito era daconsiderare un grave pericolo per la rivoluzione. Secondo Gor-bacev, la glasnost (= trasparenza, ovvero libertà di critica) do-veva essere il presupposto della perestrojka (= ristrutturazio-ne economica).

Con Gorbacev si affacciarono al potere coloro che sidefinivano «figli del XX congresso», perché da giovanierano stati influenzati per sempre dal famoso congressokruscioviano e anti-staliniano del 1956. Lo stesso Gor-bacev poteva annoverarsi nelle loro file: la sua era la «ge-nerazione» dei comunisti riformisti. Veni vano chiamati,anche in politica, i sestidesjatniki, gli uomini degli «anniSessanta», che ormai si avvicinavano ai sessant’annipure per l’età. Furono i primi e più convinti sostenitori diGorbacev con l’ambizione di fornire «quadri» e consiglieriper la sua politica. [...] Per formazione e inclinazione(Gorbacev) era un riformista, non un eversore. Voleva in-novare la società da cui usciva, non certo capovolgerla.Credeva nei valori e nelle idee del socialismo: intendevafarlo funzionare. Non disprezzava la storia sovietica delproprio paese, pur conoscendone le tragedie. Al premier(= primo ministro – n.d.r.) inglese, signora Thatcher,disse un giorno: «Non si può partire dall’idea che la Ri-voluzione d’ottobre sia stata un “equivoco” e il sociali-smo, la Russia sovietica, un “errore” della storia». «Nonpossiamo rinnegare – affermava spesso – ciò che hannocostruito i nostri padri e i nostri nonni». Venne, non atorto, paragonato al cecoslovacco Dubˇcek: come lui,voleva un «socialismo dal volto umano», non una diversasocietà, magari «disumana» a sua volta. [...]

Il pubblico manifesto dei suoi propositi riformatori fureso pubblico da Gorbacev nel rapporto al XXVII con-gresso del PCUS, aperto il 25 febbraio 1986. Era passatomeno di un anno dalla sua ascesa al potere. La data del-l’evento era predeterminata. Il nuovo segretario colsel’occasione per esporre le sue intenzioni. Quadro con-gressuale e impianto del discorso erano ancora tradizio-nali. Per contrasto risultava tanto più palese la profondanovità delle tesi esposte. Il rapporto si aprì e si conclusecon l’indicazione della necessità di un cambiamento: lastessa parola scelta dall’oratore, perelom, ha un signifi-cato di «rottura» (col passato) prima ancora che di sem-plice «svolta». Il quadro della situazione interna era sobrio,ma severo: con gli anni, sul cammino del paese si eranoaccumulati più problemi di quanti non se ne fossero risolti.La causa non stava nei «fattori esterni», che c’erano stati,ma non erano stati decisivi: stava nei difetti di direzione.Fu a proposito dell’economia e del suo «meccanismo» difunzionamento che Gorbacev utilizzò per la prima volta iltermine programmatico di perestrojka, che significa «ri c-o struzione» o «ristrutturazione». Specificò che dovevatrattarsi di una «riforma radicale». [...]

Perché fosse chiaro che questa volta non potevatrattarsi di mezze misure, Gorba cev evocò anche un «ri-

corso originale» alle concezioni fondamentali della NEP,la politica economica che negli anni Venti aveva lasciatospazio all’autonomia delle imprese, al libero commercio,ai meccanismi di mercato e aveva provocato il primo svi-luppo dell’economia sovietica; quella stessa NEP che erastata brutalmente accantonata da Stalin all’inizio deglianni Trenta. La sostanza della riforma consisteva proprionel ridurre il ruolo della direzione centrale dell’economia,che doveva concentrarsi sulla scelta dei grandi indirizzidi sviluppo e sulla determinazione degli equilibri fonda-mentali (macro economici) per lasciare maggiore spazioall’iniziativa delle singole unità produttive. Ciò non signi-ficava rinunciare al governo dell’economia, il quale an-dava però esercitato non con disposizioni amministra-tive, ma mediante «leve economiche» (norme, leggi,crediti, incentivi). Anche ai prezzi occorreva lasciare unpiù ampio margine di libertà.

Mediante un ricorso ai termini più classici del lin-guaggio marxista, Gorbacev precisava che doveva trat-tarsi ormai di un cambiamento nei «rapporti di produ-zione», quindi nella struttura stessa della societàsovietica: rapporti che la dottrina ufficiale, consideran-doli già socialisti, aveva ritenuto sino a quel momento in-toccabili. Gorbacev non intendeva peraltro rinunciare alsocialismo: cercava semmai un socialismo migliore.Dava però una diversa lettura di questi concetti, pole-mizzando con chi riteneva che già vi fosse in URSS un«socialismo sviluppato» e che quindi qualsiasi corre-zione equivalesse a un «abbandono del socialismo».Arrivava a ipotizzare anche un’evoluzione degli assetti diproprietà o, per lo meno, dell’uso e del controllo dellastessa proprietà statale, caldeggiando un ampio ricorsoad autentiche aziende cooperative e anche a forme diattività privata o di conduzione familiare, specie nell’a-gricoltura e nella sfera dei servizi. Delineava così unprogetto di economia mista al posto di quell’economiainteramente «statalizzata», che Stalin aveva voluto eaveva chiamato «socialismo».

A differenza di tutti i suoi predecessori, Gorbacevnon considerava la riforma dell’economia come qual-cosa che potesse essere avulso (= slegato, privo dicollegamenti – n.d.r.) dal resto. Secondo una linea dipensiero, che continuerà a sviluppare negli anni suc-cessivi, avvertiva che non vi sarebbero stati cambiamentireali nella vita economica, se tutta la società nel suocomplesso non vi fosse stata coinvolta. La crisi per luinon riguardava soltanto l’economia. Per la prima voltadagli anni Trenta un dirigente sovietico ammoniva che la«giustizia sociale» non era un traguardo già raggiunto,ma un obiettivo da perseguire con una politica più at-tenta che per il passato, quando alle sue esigenze si erafinito col destinare solo «ciò che restava» dopo aver sod-disfatto le priorità della grande industria. Avvertiva inol-tre la necessità di un rinnovamento morale, chiamandotutti, in primo luogo i comunisti, a ripristinare gli ideali ori-

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ginari: stava qui la nota più insistente delle parole da luirivolte al partito, dove ricorreva un appassionato appelloall’onestà.

Soprattutto Gorbacev riteneva indispensabile – quiera l’altra novità rilevante del discorso – una vasta «de-mocratizzazione» del paese: «la democrazia – diceva –è quell’aria sana e pura dove solo può fiorire l’organi-smo della società socialista». Sen za di essa, uno svi-luppo dell’URSS sareb be stato «impensabile e impossi-bile». Di chiarava arrivato il momento di correggere la«prassi elettorale» vigente. Puntava su un’estensionedella «democrazia diretta» anche nella sfera econo-mica. Non riteneva più possibile trascurare i diritti umanie civili, indispensabile complemento dei doveri del cit-

tadino. Infine lanciava l’altra parola destinata a diventaresimbolo del suo governo: glasnost, la trasparenza delledecisioni e delle informazioni elevata a «sistema». An-che questo punto riguardava in primo luogo il partito, in-vitato a sbarazzarsi del «complesso di infallibilità» eammonito a non contare su un «ruolo di avanguardia»garantito una volta per tutte. Neppure all’epoca di Kru-sciov si era mai ascoltato in un congresso sovieticoqualcosa di paragonabile a ciò che Gorbacev andavadicendo su questi temi.

G. BOFFA, Dall’URSS alla Russia. Storia di una crisi non finita(1964-1994), Laterza, Bari 1995, pp. 177, 180, 186-189

Spiega il significato dell’espressione «i figli del XX Congresso», alla cui generazione apparteneva anche Gorbacev.Gorbacev non intendeva rinunciare al socialismo, anche se voleva garantire maggiori libertà all’individuo e più spazio

alle imprese. Quale precedente della storia comunista russa assunse come riferimento?

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La rivoluzione del costume alla fine del XX secolo

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La scoperta della pillola anticoncezionale, che ha permes-so a milioni di donne di controllare la propria fertilità, può es-sere considerata una delle cause principali della rivoluzione ses-suale che ha caratterizzato i decenni conclusivi del XX secolo.

Se vogliamo capire qualcosa delle trasformazioniantropologiche, cioè del diverso modo di essere uominidi epoca in epoca, [...] oggi dobbiamo rivolgerci alla bio-chimica. Dobbiamo rivolgerci a quei laboratori scientificidi ricerca dove si pongono le premesse per un cambia-mento, nel modo di essere uomini, così profondo, chenessuna religione, nessuna filosofia, nessuna guerra,nessuna pace, nessun afflusso o deflusso di ricchezza,lento o repentino, avevano mai così radicalmente de-terminato. [...] Basta pensare alla pillola anticoncezionaleche, sciogliendo l’atavico nesso che lega il piacere ses-suale alla riproduzione, è stata l’unico vero fondamentodella liberazione femminile. Solo dopo giunse il femmi-nismo come istanza ideologica a promuovere l’emanci-pazione della coscienza femminile che la biochimicaaveva già emancipato nel solido e irreversibile registrodella materia. Le donne sono uscite dalle mura di casa,dove erano corpi di servizio e corpi di riproduzione, percamminare lungo le vie della città di giorno e di nottecome corpo di seduzione e corpi di bellezza.

Lo schema della relazione maschio-femmina si tra-sformò radicalmente. Il maschio, che conosceva soloil proprio corpo come corpo libero dalla catena della ri-produzione, si trovò di fronte un altro corpo liberato(biochimicamente liberato), e il suo schema di vita subìun contraccolpo che lo obbligò ad una trasformazionee a una rivisualizzazione di sé a cui nessuna idea, nes-suna guerra, nessuna rivoluzione, nessuna trasforma-

zione culturale o epocale l’aveva costretto in terminicosì radicali. L’ingresso nella storia della pillola anti-concezionale, almeno in Occidente, liberò le donnedalla vita domestica, creò l’esercito delle baby sitter equello delle domestiche extraeuropee, riempì i posti dilavoro di fascino femminile, procrastinò il desiderio diun figlio ai limiti estremi dell’età fisiologica costrin-gendo a scelte ansiogene, drammatiche e precipitate,liberò la sessualità rendendola meno poetica e piùpratica, spostò i limiti del comune senso del pudore,costrinse le morali a fare delle contorsioni su se stesseper rendere tollerabile quello che un tempo era depre-cabile [...].

Con la pillola anticoncezionale, un evento biochi-mico modificò il modo di essere uomini e donne e diedeun volto nuovo alla società. L’apparire del corpo fem-minile, liberato dalla catena della riproduzione, esasperòla bellezza nelle forme del narcisismo più sfrenato, su cuiil sistema della moda si gettò come un leone sulla suapreda. E al seguito del sistema della moda, quello del-l’alimentazione, dal supermercato di città all’ultimo or-tolano di paese, per non parlare delle farmacie, vere eproprie drogherie dove si smerciano illusioni di bellezzae di psichico benessere. Questi nuovi valori da venderecontaminarono anche la tribù ma schi le che prese a imi-tare il narcisismo femminile ingentilendosi fino al limitedell’imprecisione sessuale. Scopo unico dell’esistenzadivenne la bellezza e il protrarsi della giovinezza in quellamessa in scena dell’apparire che ogni giorno di più ero-deva il terreno alla scena dell’essere.

U. GALIMBERTI, Il mondo cambiato dalle pillole, in “La Repubblica”, 17 maggio, 1998

Che cosa significa l’espressione corpo liberato?Spiega la seguente affermazione secondo cui la pillola anticoncezionale «diede un volto nuovo alla società».

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Alle elezioni presidenziali del 1970, le sinistre cilene si pre-sentarono unite in una forte coalizione – Unidad Popular – chevinse di stretta misura. Il presidente eletto Salvador Allende,però, si trovò ad affrontare un’opposizione dura mentre ten-tava di introdurre nel Paese radicali riforme sociali.

Il programma di Unidad Popular, per esplicita di-chiarazione, si proponeva di realizzare la fase di transi-zione al socialismo, trasformando radicalmente struttureeconomiche e sociali. Su questi due piani e su quellopolitico si giocò la sua sorte. Per la natura della coali-zione, elementi essenziali risultavano il miglioramentodelle condizioni di vita delle classi lavoratrici, l’elimina-zione di latifondi e monopoli, la crescita dell’economiastatale, l’allargamento delle imprese a capitale misto –pubblico e privato – e il mantenimento di un’iniziativaprivata che obbedisse agli indirizzi tracciati dal go-verno, con conseguente difesa della piccola e media in-dustria. Tali obiettivi andavano perseguiti mantenendorigorosamente la legalità istituzionale.

Così, l’incorporazione iniziale di oltre 200 aziende sirealizzò facendo ricorso alla legislazione vigente – checonsentiva di assumere il controllo delle imprese inef-ficienti o che avessero infranto la normativa in vigore –oppure attraverso il rastrellamento di azioni in borsa,come avvenne nel caso delle banche. La stessa riformaagraria fu portata avanti utilizzando la legge emanatadalla precedente amministrazione democristiana, ma inpoco più di due anni Allende espropriò circa il doppiodelle terre rispetto al periodo di Frei [Eduardo FreiMontalva, precedente presidente della repubblica,n.d.r.]. La nazionalizzazione delle miniere di rame ap-partenenti a compagnie statunitensi fu addirittura vo-tata all’unanimità dal parlamento anche se la deci-sione di non concedere indennizzi – per gli eccessiviprofitti realizzati in passato e per il pessimo stato in cuivennero consegnati gli impianti – fu presa esclusiva-mente dal governo.

Nell’immediato, grazie soprattutto alla maggioreutilizzazione di risorse materiali ed umane presenti, siregistrarono apprezzabili progressi economici. Parti-colare successo ebbe la politica redistributiva a favoredei salariati, la cui partecipazione al reddito nazionalesalì dal 55 al 66% fra il 1970 e il 1972. All’aumento deisalari e dei servizi sociali e al blocco dei prezzi si ac-compagnò un forte incremento delle opere pubbliche,che consentì un riassorbimento della disoccupazione.La scelta della legalità e la conseguente lentezza delletrasformazioni, tuttavia, impedirono l’elaborazione dipiani organici, dando al capitale nazionale ed estero iltempo di ostacolare il processo, soprattutto attraversola drastica contrazione degli investimenti. Mentre ilprezzo del rame cadeva di un terzo sul mercato inter-nazionale, gli Stati Uniti – preoccupati dall’esempiopericoloso rappresentato dal Cile non solo per l’Ame-rica Latina ma anche per l’Europa – boicottarono le sueesportazioni, rifiutarono di rinegoziare il debito estero,bloccarono i prestiti e finanziarono generosamente gliavversari di Unidad Popular.

La situazione si deteriorò a partire dal 1972. L’incre-mento della domanda interna non fu accompagnato dauna crescita dell’offerta, anche a causa della conflittua-lità sociale perenne nelle campagne, e questo si tradussein penuria di beni, accaparramento e mercato nero, checostrinsero a dar fondo alle riserve valutarie per impor-tare ciò che mancava. Allende tentò di far fronte alle dif-ficoltà puntando su un allargamento del consenso emantenendo alti i salari attraverso l’espansione dellaspesa pubblica, con il risultato di scatenare una pesanteinflazione, il cui tasso superò il 300% nell’agosto del1973. La crisi economica, assecondata con tenaciadalle classi dominanti, modificò il quadro politico inizialeed aprì nuovi spazi al Partido Nacional e al gruppo fa-scista Patria y Libertad. In una situazione in cui UnidadPopular non aveva il controllo del’apparato giudiziario nédella pubblica amministrazione, le sue sorti vennero co-munque decise dalla Democrazia Cristiana (PDC) che, apartire dalla fine del 1971, emarginò Tomc a favore di Freie stipulò una ferrea alleanza con la destra. Essendo talecoalizione maggioritaria in parlamento, essa poté boi-cottare ogni iniziativa legislativa e mettere ripetutamentesotto accusa singoli ministri. […]

Nell’ottobre del 1972, l’opposizione si sentì suffi-cientemente salda per tentare la prova di forza, consciopero degli autotrasportatori, serrata padronale eastensione dal lavoro di fasce consistenti di impiegatie liberi professionisti. Il proletariato rispose con l’oc-cupazione delle fabbriche, una cinquantina delle qualifurono in seguito requisite dal governo. L’agitazionedeterminò penuria di beni alimentari e di generi diprima necessità, ma soprattutto una crisi politica di di-mensioni mai raggiunte, cui Allende fece fronte chia-mando a incarichi ministeriali alcuni militari. Il mini-stero degli interni fu affidato al generale Carlos Prats,comandante in capo delle Forze Armate. […] Per co-stringere i vertici delle Forze Armate a scoprirsi, il PDC

fece approvare in parlamento una dichiarazione di in-costituzionalità del governo e il generale Prats si di-mise, dietro pressione dei colleghi, per non mettere inpericolo l’unità del corpo militare. Altri generali assun-sero incarichi ministeriali, ma erano ormai vincolati alfronte del colpo di Stato. L’11 settembre [1973] l’e-sercito attaccò il palazzo presidenziale dove Allendemorì con le armi in pugno.

Il rispetto dell’ordine costituzionale risultò fatale pro-prio a chi veniva continuamente accusato di volerlo cal-pestare, mentre le forze politiche che apparentementelo difendevano non ebbero esitazioni ad infrangerlo.

M. PLANA, A. TRENTO, L’America Latina nel XX secolo. Economiae società, Istituzioni e politica, Ponte alle Grazie, Città di Castello

1992, pp. 284-287

Quali strumenti usarono gli avversari interni ed esternidel governo cileno, per ostacolarne l’operato?

Si può affermare che il governo di Allende avevainstaurato un regime autoritario e dittatoriale?

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F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012

Spiega il significato dell’espressione: «divisione internazionale del lavoro».Spiega l’espressione secondo cui le classi dominanti latinoamericane sono «dominanti all’interno e dominate dall’estero».Spiega il significato delle espressioni «capitalismo centrale» e «capitalismo periferico».

A partire dal momento della conquista spagnola, l’Ameri-ca Latina svolse sempre il ruolo di periferia delle regioni capi-talistiche di volta in volta più avanzate. Nel Novecento, dopo laprima guerra mondiale, al controllo inglese si è sostituito quel-lo statunitense.

Paesi specializzati nel guadagnare e paesi specia-lizzati nel rimetterci: ecco il significato della divisione in-ternazionale del lavoro. La nostra regione del mondo,quella che chiamiamo America Latina, è stata precoce:si è specializzata nel rimetterci fin dai lontani tempi in cuigli europei del Rinascimento si sono lanciati attraversoi mari per azzannarle la gola. Sono passati i secoli e l’A-merica Latina ha perfezionato il suo ruolo. Questo nonè ormai più il paese delle meraviglie in cui la realtà scon-figgeva la favola e la fantasia veniva umiliata dai trofeidella conquista, dai giacimenti d’oro e dalle montagned’argento. Ma la regione continua a fare da serva. Con-tinua a vivere al servizio delle necessità altrui, comefonte e riserva di petrolio e di ferro, di rame e di carne,di frutta e caffè: materie prime e alimentari destinate aipaesi ricchi che guadagnano, consumandole, molto dipiù di quanto l’America Latina guadagni producendole.[...] L’America Latina è la regione dalle vene aperte.Dalla scoperta ai giorni nostri, tutto si è trasformatosempre in capitale europeo o, più tardi, nordamericano.E, come tale, si è accumulato e si accumula in lontanicentri di potere. Tutto: la terra, i suoi frutti e le sue viscerericche di minerali, gli uomini e le loro capacità di lavoroe di consumo, le risorse naturali e le risorse umane. Ilmodo di produzione e la struttura delle classi di ogni no-stra regione sono state via via determinate dall’esterno,in base al loro inserimento nell’ingranaggio universale delcapitalismo. Si è assegnato a ognuno una funzione,sempre a vantaggio dello sviluppo della metropoli stra-niera di turno; e si è resa infinita la catena di dipendenzesuccessive, catena che ha molto più di due anelli e checomprende anche – all’interno dell’America Latina –l’oppressione esercitata sui piccoli paesi dai loro vicinipiù grandi e – frontiere all’interno di ciascun paese – losfruttamento esercitato dalle grandi città e dai porti sulleloro fonti interne di viveri e di manodopera (Quattro se-coli fa erano già sorte diciassette delle venti città lati-noamericane oggi più popolate).

Per quanti concepiscono la storia come una com-petizione, l’arretratezza e la miseria dell’America Latinasono soltanto il risultato di un fallimento. Abbiamo perso:altri hanno vinto. Ma sta di fatto che chi ha vinto, ha vinto

perché noi abbiamo perso: la storia del sottosviluppodell’America Latina è parte integrante, come abbiamogià detto, della storia dello sviluppo del capitalismomondiale. La nostra sconfitta è stata sempre implicitanella vittoria degli altri; la nostra ricchezza ha sempre ge-nerato la nostra povertà per accrescere la prosperità de-gli altri: gli imperi e i loro caporali locali. [...] La pioggiache irriga i centri del potere imperialistico affoga le va-ste periferie del sistema. Nello stesso modo, e paralle-lamente, il benessere delle nostre classi dominanti – do-minanti all’interno e dominate dall’estero – è lamaledizione delle nostre masse condannate a viverecome bestie da soma. [...]

La forza del sistema imperialistico nel suo com-plesso si basa sulla necessaria disuguaglianza delleparti che lo formano, e questa disuguaglianza assumeuna dimensione sempre più drammatica. I paesi op-pressori si fanno sempre più ricchi in termini assoluti; maanche, e ancor di più, in termini relativi, in virtù della di-namica della disuguaglianza crescente. Il capitalismocentrale può concedersi il lusso di costruire propri mitidi opulenza, e di crederci: ma i miti non si mangiano,come sanno fin troppo bene i paesi poveri che costitui-scono il vasto capitalismo periferico. Il reddito medio diun cittadino nordamericano è [l’autore scrive nel 1970,n.d.r.] sette volte maggiore di quello di un cittadino lati-noamericano, e aumenta a un ritmo dieci volte più in-tenso. E le medie ingannano, per gli inesplorati abissiche si spalancano, al sud del Rio Bravo [= il fiume chesegna il confine fra gli USA e il Messico; è chiamato an-che Rio Grande, n.d.r.] tra i moltissimi poveri e i pochiricchi della regione. Infatti, sei milioni di latinoamericanialla sommità della piramide sociale accaparrano – se-condo le Nazioni Unite – lo stesso reddito di centoqua-ranta milioni di persone che ne sono alla base. [...]

La popolazione dell’America Latina aumenta più diogni altra: in mezzo secolo è abbondantemente tripli-cata. Ogni minuto muore un bambino di malaria o difame; ma nel 2000 ci saranno 650 milioni di latinoame-ricani, la metà dei quali avrà meno di quindici anni: unabomba a orologeria. [...] Ostinatamente i bambini lati-noamericani continuano a nascere, rivendicando il lorodiritto naturale a un posto al sole in queste terre splen-dide che potrebbero offrire a tutti ciò che negano quasia tutti.

E. GALEANO, Il saccheggio dell’America Latina ieri e oggi,Einaudi, Torino 1976, pp. 3-7

Lo sfruttamento economicodell’America Latina

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