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1 Trinità: fonte, via e culmine della Chiesa Indice - Bibliografia p. 2 - Cap. 1° Chiesa Mistero di Dio p. 3 - Cap. 2° Chiesa: popolo adunato dalla Trinità p. 7 - Cap. 3° Trinità e Chiesa: conseguenze a partire dall’ontologia trinitaria p. 11 - Cap. 4° L’indole rinnovatrice: la “via” di Paolo VI per un’eredità del Concilio p. 14 4.1 Coscienza comunitaria come catechismo dei tempi nuovi p. 14 4.2 La novità del Concilio: vivere secondo la fede p. 15 4.3 Ripensare la Chiesa alla Luce del Concilio p. 17

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Trinità: fonte, via e culmine della Chiesa

Indice

- Bibliografia p. 2

- Cap. 1° Chiesa Mistero di Dio p. 3

- Cap. 2° Chiesa: popolo adunato dalla Trinità p. 7

- Cap. 3° Trinità e Chiesa: conseguenze a partire dall’ontologia trinitaria p. 11

- Cap. 4° L’indole rinnovatrice: la “via” di Paolo VI per un’eredità del Concilio p. 14

4.1 Coscienza comunitaria come catechismo dei tempi nuovi p. 14

4.2 La novità del Concilio: vivere secondo la fede p. 15

4.3 Ripensare la Chiesa alla Luce del Concilio p. 17

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Bibliografia

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Cap. 1° Chiesa Mistero di Dio

Negli sviluppi più recenti della storia della teologia colpisce il fatto che l’unità del Dio trino e uno non

è più spiegata a partire da un soggetto assoluto che si dispiega, ma sempre più spesso come unità

di relazioni fra soggetti. L’affermazione «Dio è amore» (1 Gv 4,8) può essere intesa dalla teologia

trinitaria come “l’evento” del reciproco dono di sé in Dio. Qui incontriamo il linguaggio della

relazione personale. Dio, infatti, si rivela come «Padre», cioè origine infinita che si dona

liberamente; come «Figlio», ovvero l’amore che prende forma di “parola” (Logòs); come «Spirito

Santo», relazione reciproca che unisce insieme l’amore che dona e riceve e insieme li supera in

quanto “unità”. Credere in Dio Padre, Figlio e Spirito Santo, con questa prospettiva, vuol dire capire

Dio come «amore», in una relazione che si svolge tra un “io”, un “tu” e un “noi” che li unisce.1

Il Concilio Vaticano II ha superato un’immagine della Chiesa fondata solo cristologicamente,

presente per quasi tutto il secondo millennio di cattolicità, tramite un’espressione di Cipriano: «Il

popolo adunato dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo».2 La Chiesa, infatti, non porta

impressa in sé l’unità dell’«uno e buono» divino pensato e formulato dalle tesi neoplatoniche, ma

come l’unità della «comunione di Dio».

Il “secolo della Chiesa”, come è stato più volte definito il XX secolo, si apre segnato da questo

bisogno, di ricomprendere e riformulare il concetto di comunione, alimentato dal movimento

liturgico, dal ritorno alle fonti scritturistiche e patristiche, dalla riscoperta del ruolo attivo del laicato,

dai primi impulsi del movimento ecumenico. All’interno della riflessione ecclesiologica si pone il

problema di ripensare la comunità ecclesiale come realtà storica. Sotto l’impulso di questa “sfida”

andavano emergendo, prima dell’assise conciliare, le idee di Chiesa «sacramento», di «popolo di

Dio» e di Chiesa «comunione». Il Concilio Vaticano II assumerà queste tesi evitando ogni riduzione

della comunità ecclesiale a realtà solo spirituale o visibile, per proporre il mistero di comunione che

sgorga dalla Trinità e tende ad essa, del popolo del già, della prima venuta di Cristo, e del non

ancora, in attesa del suo ritorno.3

Il Vaticano II si caratterizzò sin da subito come un Concilio della Chiesa articolata in due parti: De

Ecclesia ad intra – De Ecclesia ad extra. I due pilastri sono la Costituzione Lumen Gentium e la

Costituzione Gaudium et spes. La prima guarda la Chiesa in se stessa, sforzandosi di esplorarne il

mistero; la seconda considera la Chiesa nel suo porsi al mondo. In questi documenti essa si delinea

come il luogo d’incontro dell’iniziativa divina e dell’opera umana: la presenza della Trinità nel tempo

e del tempo nella Trinità. La comprensione giuridico - visibilista del passato è superata nel recupero

della profondità trinitaria della realtà ecclesiale, senza per questo perdere di vista la corposità

storica di essa.

Infatti, la chiave di comprensione del messaggio ecclesiologico del Concilio risiede nella lettura

trinitaria della Chiesa, la quale viene dalla Trinità, è strutturata a immagine della Trinità e va verso

il compimento trinitario della storia. Nella Lumen Gentium l’origine trinitaria della Chiesa è

presentata descrivendo l’economia della salvezza: il fine del disegno gratuito e arcano di Dio è

l’elevazione degli uomini alla partecipazione alla vita divina della Trinità. Così, l’unità degli uomini

con Dio e fra loro si compie con l’incarnazione del Verbo e si attua storicamente nella Chiesa verso il

glorioso compimento della fine dei secoli. Quindi, si afferma che essa, nella sua forma visibile e

storica, è il sacramento del disegno divino d’unità. La Chiesa è cioè la partecipazione storica all’unità

trinitaria. Tutti gli uomini sono chiamati a questa unione con Cristo, che è la luce del mondo. Come

il Padre per il Figlio viene all’uomo nello Spirito, così l’uomo nello Spirito per il Figlio può accedere al

Padre. La Chiesa voluta dal Padre è dunque la creatura del Figlio sempre vivificata dallo Spirito

Santo. Essa, in questo modo, è veramente l’opera della Santa Trinità. C’è un’epifania di Dio creatore

1 Cfr. M. Kehl, La Chiesa. Trattato sistematico di ecclesiologia cattolica, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo 1995, pp. 57-58. 2 Lumen Gentium, n. 4. 3 Cfr. B. Forte, La chiesa icona della Trinità. Breve ecclesiologia, Queriniana, Brescia 1984, pp. 7-13.

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attraverso l’uomo e c’è un’epifania di Dio Uno e Trino attraverso Cristo e la sua Chiesa. Essa è

l’«Ecclesia De Trinitate».4 La Trinità, così, si concede come la risposta inesauribile non solo alla

domanda «da dove viene la Chiesa?», ma anche quella su che cosa sia la Chiesa e dove essa vada.

La Chiesa è icona della Santa Trinità: ovvero è organizzata nella sua comunione a immagine e

somiglianza della comunione trinitaria. Per tale motivo essa dovrà tenersi lontana tanto

dall’uniformità livellante, quanto da contrapposizioni laceranti. La Trinità è l’origine e la patria, verso

cui è incamminato il popolo dei pellegrini: essa è il «già» e «non ancora» della Chiesa, il passato e il

futuro promesso, l’inizio e la fine. Essa è perciò sempre in divenire, mai arrivata e per questo

«semper reformanda». Tutto quanto il Concilio ha detto della Chiesa è ricapitolato in questa

memoria dell’origine, della forma e della destinazione trinitaria della comunione ecclesiale.

Le origini della Chiesa, dunque, partono da lontano. Dall’amore trinitario che si riversa sulla terra.

Questo è il quadro tracciato da Lumen Gentium 2-4. Dio Padre crea ed eleva gli uomini alla

partecipazione alla vita divina, presta aiuto all’uomo decaduto e lo salva nel disegno universale di

salvezza che si compie in Cristo. Questo dato della rivelazione evita all’ecclesiologia le strettoie di

una concezione societaria esclusivamente orizzontale. Tre nomi scandiscono simbolicamente l’agire

trinitario di Dio Padre: Adamo, Abele, Abramo. Adamo è “individuo”, ma essenzialmente aperto alla

comunione con Dio e con i suoi simili. In fondo è questa la prima forma di alleanza di Dio con

l’uomo. Quella concentrata in Adamo è ancora un’ecclesiologia nascosta ed implicita (Ecclesia ab

Adam). Con il peccato la capacità di comunione dell’uomo è corrotta, ma non scomparsa. Dio deve

in un certo senso “rieducare” l’uomo, rispettandone la maturazione graduale. I Padri hanno così

potuto parlare, a questo proposito, di una Chiesa che riunisce tutti i “giusti” vissuti dall’inizio alla

fine del mondo (Ecclesia ab Abel)5. Con la chiamata di Abramo inizia la storia specifica della

salvezza. La Chiesa di Cristo, infatti, riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elezione si

trovano già nei patriarchi, in Mosè e nei profeti. Le caratteristiche del popolo di Abramo non sono

dunque solo “preparatorie” a quelle della Chiesa, ma ne sono in qualche modo già intrinseche

(Ecclesia ab Abram). Gesù verrà a portare a “compimento”, non a dichiarare sorpassata l’alleanza

con Abramo.6

Dopo la risurrezione di Gesù la Chiesa divenne essa stessa annunciatrice del Regno. Attraverso la

Chiesa, quindi, il Regno continua a compiersi concretamente nel mondo e nella storia. Essa pur non

identificandosi con il Regno ne è già il principio, il sacramento. L’eucarestia, memoriale del sacrificio

del Cristo, sigilla la comunione tra la divinità e l’umanità producendo anche l’unità fra i fedeli, riuniti

senza nessuna barriera etnica, sociale, politica. L’evento pasquale rappresenta il compimento

dell’alleanza tra Dio e l’uomo. Per questo il Vaticano II può affermare che la Chiesa nasce: «dal

sangue e dall’acqua che uscirono dal costato aperto di Gesù crocifisso».7 Anche la resurrezione ha

una valenza ecclesiale, poiché Cristo è glorificato non semplicemente come singolo, ma come

“primizia” e “primogenito di coloro che risuscitano dai morti”.8 In questa prospettiva si può inserire

l’idea della Chiesa come “incarnazione continuata”, come fa Lumen Gentium 8 parlando di una non

debole analogia tra la Chiesa e il Verbo incarnato. Infatti, entrambe le realtà, Cristo e la Chiesa,

sono costituite da un elemento interiore e da uno visibile, ma il legame è diverso: nel Verbo è di

tipo ipostatico, nella Chiesa invece mistico.9

L’opera dello Spirito Santo nella costituzione della Chiesa viene illustrata da Lumen Gentium 4. Con

il dono pentecostale dello Spirito, la Chiesa è finalmente completa dal punto di vista strutturale,

anche se in cammino verso la pienezza escatologica. Il dono dello Spirito la rende in senso totale

4 Ibidem, pp. 14-20. 5 Lumen Gentium, n. 2. 6 E. Castellucci, La famiglia di Dio nel mondo. manuale di ecclesiologia, Cittadella Editrice, Assisi 2008, pp. 363-369. 7 Lumen Gentium, n. 3. 8 1 Cor 15, 20 – Col 1, 18. 9 E. Castellucci, op. cit., pp. 370-378.

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Ecclesia de Trinitate. Così il mistero della Chiesa è caratterizzato dal rapporto genetico con la

Trinità, inteso anche come impronta caratteristica che ciascuna Persona divina vi lascia. La Chiesa si

può definire icona della Trinità, poiché da essa viene, di essa vive, ad essa tende.10

Il Concilio Vaticano II non definisce nuove dottrine, ma si sforza di trovare un nuovo linguaggio per

comprendere sia il mistero della Chiesa, sia la salvezza di Cristo che essa stessa annuncia. Questo

non significa l’assenza della riflessione teologica, ma la traduzione della teologia stessa in un

discorso rivolto non più solamente agli addetti ai lavori, ma a tutti i figli della Chiesa e al mondo

intero. Le linee teologiche fondamentali che dicono l’identità della Chiesa, si trovano concentrate nel

primo capitolo della Lumen Gentium intitolato «Il mistero della Chiesa», ovvero il radicamento

trinitario da cui essa sgorga, che viene collegato alla sua concretezza storica, alla missione che essa

nel tempo svolge. Tutti gli insegnamenti del Concilio sul mistero della Chiesa portano il “sigillo della

Trinità”: la Chiesa viene dalla Trinità e ritorna alla Trinità. Da ciò si è sviluppata con fatica la

cosiddetta ecclesiologia di comunione, da comprendere e nella prospettiva storica di corpo visibile e

delimitato, e nella prospettiva della chiamata alla salvezza per tutta l’umanità ad opera di Dio.

Deriva anche una teologia della comunione con la fatica di ripensare “trinitariamente” l’esistenza

anche materiale dei credenti. Ma la natura misterica della Chiesa, prima ancora che realtà storica, è

l’esito della communio agapico – trinitaria, per cui la Chiesa partecipa del Mistero di Dio stesso, ed

in una certa misura questo stesso mistero prende dimora fra gli uomini. Così la qualità e la quantità

misterica della Chiesa scaturisce e tende verso la Trinità.11

Nel novecento si è parlato molto della Chiesa, molto più che nei peridi storici precedenti, con tante

analisi e raffinatezze. Certamente essa non è una “semplice” realtà di questo mondo che può essere

capita tramite misurazioni ed analisi. Non diversamente da altri misteri, essa supera la capacità e le

vette della nostra intelligenza. La Chiesa è per noi come la sede di tutti i misteri. Mistero che deve

essere creduto nell’oscurità, meditato nel silenzio. Essere consapevoli di questo è molto importante.

La storicità dell’uomo e della stessa Chiesa non è parola vana. Infatti, se nella sua sostanza la fede

non ha la storia, l’eterno non può divenire. Se viviamo nella Chiesa, è alle preoccupazioni della

Chiesa di oggi che noi dobbiamo prendere parte. Questo “progresso” è riuscito a mantenere nella

pienezza la verità affidata alla Chiesa in deposito permanente, contro tutte le spinte avverse che pur

ci sono state. Il mistero cristiano, che forma l’oggetto o il contenuto della fede, è in se stesso uno.

Esso si offre sempre alla nostra adesione come una realtà totale, che le formule non possono

accerchiare e descrivere totalmente. Con il Vaticano II, e tutto il movimento preparatorio, è arrivata

quella fase di sviluppo e riflessione sul mistero della Chiesa come «Corpo di verità», che pone al

centro non questa o quella verità particolare, ma il centro stesso, l’anima della dottrina.12

Certamente nel periodo precedente al Concilio non si era sul livello pre - teologico, e nemmeno

dopo il Vaticano II si può dire di aver concluso la riflessione teologica sulla Chiesa.

Il mistero della Chiesa è già espresso nei nostri simboli della fede: Credo … sanctam Ecclesiam

catholicam. Dicendo “credo la santa Chiesa Cattolica” noi non proclamiamo la nostra fede nella

Chiesa, ma alla Chiesa e cioè alla sua realtà sovrannaturale e storica. Noi professiamo che la Chiesa

è formata dallo Spirito Santo come sua opera propria e che essa esiste, dunque, non per se stessa

ma per Dio. Questa realtà non è affatto banale, ma è l’indice rivelatore di una verità profonda:

credere in Dio solo e nella sua maestà. La Chiesa, infatti, non è Dio, ma è la casa di Dio dove Egli ci

accoglie per la nostra salvezza. Noi crediamo la Chiesa presa come realtà totale che professa e vive

la Trinità. Questa è per eccellenza il nostro Mistero, che ci prende totalmente e ci avvolge da ogni

parte. La Chiesa è il “monte” visibile da lontano di questo Mistero che è la Trinità, è il candelabro

che rischiara tutta la casa.13

10 B. Forte, op. cit., p. 20-22. 11Cfr. M. Naro, Linee teologiche e spirituali della Lumen Gentium. 12 Cfr. H. De Lubac, Meditazioni sulla Chiesa, Opera Omnia vol. 8, Jaca Book, Milano 1993, pp. 5-12. 13 Ibidem, pp. 13-25.

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Il Vaticano II ha significato, dunque, un vantaggio per la teologia trinitaria, soprattutto in ordine a

un’immagine attraverso la quale grazie al Concilio si è meglio interpretato il Mistero della Chiesa: la

comunione. Non come categoria magica, magari calata dall’alto, ma come modello e vissuto per

interpretare questioni importanti come il rapporto località – universalità; istituzione – carisma;

conciliarità – papato; tradizione – rinnovamento. La Chiesa così incarna nella storia l’essere della

Trinità e diventa il criterio perché individui isolati divengano persone. Questo processo di

personalizzazione coincide per la forma stessa dell’essere ecclesiale. Quindi, la Chiesa che viene,

vive e si muove verso il Mistero rappresenta la realizzazione piena dell’uomo. La Chiesa è il luogo in

cui fin da questa vita inizia la riunione di tutti nella Trinità.14

Se le cose stanno così, c’è più Chiesa là dove c’è più fede, amore e speranza, dove c’è maggiore

dinamicità di questi “fattori”. La Chiesa, infatti, si realizza nella misura in cui si realizzano la santità

e l’amore; la piena santità e il pieno amore che costituisce la “forma” della Chiesa, risiedono nel

Mistero di Dio Trinità. L’immagine del mistero della Chiesa come amore dinamico che si estende è

l’Immacolata Maria, la quale senza il peccato originale è membro della Chiesa. Essa nel suo nucleo

rimane immacolata e sposa pura. L’umanità acquisisce una partecipazione alla Chiesa tramite

l’incarnazione del Figlio, il quale è la coscienza e il “titolare” dello spazio Chiesa. Così mediante la

Chiesa s’incontrano Dio e l’uomo. Essa infatti è aperta su due dimensioni: l’umano e il divino. Con il

mistero della Chiesa l’uomo può aderire a Dio, entrando a far parte di quella comunità che Egli ha

voluto da sempre per condividere il suo Mistero d’amore a tutta l’umanità.15

14Cfr. N. Ciola, Teologia trinitaria. Storia – metodo – prospettive, EDB, Bologna 1996, pp. 235-241. 15 Cfr. H. U. Von Balthasar, Sponsa Verbi, in Id., Saggi teologici II, Morcelliana, Brescia 1972, pp. 169-187.

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Cap. 2° Chiesa: popolo adunato dalla Trinità

Secondo le testimonianze neotestamentarie, la Chiesa assume la sua forma storicamente

percepibile di comunità escatologica di salvezza raccolta da Dio attraverso l’invio dello Spirito Santo.

Lo Spirito può essere conosciuto soltanto a partire da Gesù, poiché è dono della sua perenne

presenza. La Chiesa deve essere inserita in questo “spazio” dello Spirito perché solo lo Pneuma

rende possibile la fede personale e insieme comunitaria. Dunque lo Spirito Santo può essere

compreso come l’unità dell’amore di Dio che si dona e si riceve in modo infinito. Questa concezione

risale ad Agostino, espressa nella sua opera De Trinitate: «Lo Spirito Santo è dunque una specie di

ineffabile comunione tra il Padre e il Figlio, e forse è chiamato così proprio per questa stessa

denominazione può convenire al Padre e al Figlio».16 Questa intuizione di fede costituisce il

fondamento della comprensione occidentale di persona, libertà, amore e unità. Il significato pratico

di questa fondazione nello Spirito della Chiesa risiede nell’analogia tra lo stesso Pneuma e gli

uomini. Ciò significa: nella misura in cui la Chiesa si comprende e si realizza come «sacramento» di

questo Spirito che unisce il Padre e il Figlio, garantisce l’unità nella pluralità di vocazioni, carismi,

uffici. Tale principio è stato sviluppato con il Concilio Vaticano II, ripensando al rapporto Chiesa

universale – Chiesa locale; al rapporto tra Primato del Papa - collegialità episcopale; al rapporto

comunità – ministero.

In questa nostra riflessione trinitaria sulla Chiesa, occorre comprendere anche la relazione tra

l’ecclesia e Gesù Cristo. Dal punto di vista dei contenuti, nella Chiesa si attua la continuazione del

lieto annuncio del Maestro (martyrìa); la celebrazione dei sacramenti che rendono presente la

salvezza di Dio (leitourgìa); e la prassi della sequela di Gesù (diakonìa). La costituzione sulla Chiesa

del Vaticano II inizia con un’affermazione sul Cristo: Egli è la luce dei popoli (Lumen Gentium); la

Chiesa non è altro che il riflesso di questa luce, essa è: «in Cristo come sacramento, cioè segno e

strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano».17 La Chiesa è l’evento

del rendersi presente di Cristo e della sua salvezza definitiva per l’umanità. Quando noi, secondo

questo modello comprendiamo la Chiesa come «sacramento di salvezza» ciò significa che la

salvezza che ci è donata da Dio in Gesù Cristo e nello Spirito Santo si dona a noi interamente e in

quanto tale nel segno finito e peccatore della Chiesa. Per esprimere questo concetto, Karl Rahner ha

coniato l’espressione di «simbolo reale»18, con la quale si esprime l’auto-comunicazione di Dio che

giunge agli uomini tramite la Chiesa. Questa caratterizzazione assai formale della Chiesa come

«sacramento di salvezza» può essere ulteriormente concretizzata dal punto di vista teologico e

spirituale, quando la Lumen Gentium tratta della comunità ecclesiale come «corpo di Cristo».19 Solo

in quanto immagine conforme al Figlio la Chiesa acquisisce la sua forma fondamentale. In modo

analogico essa vive l’esperienza della povertà: come il Figlio riceve tutto dal Padre e ridona tutto al

Padre; come il Figlio che da Dio si è fatto uomo, così la Chiesa deve spogliarsi e comprendere la

propria identità di «essere poveri davanti a Dio».20

Per il Concilio Vaticano II la Chiesa ha il suo fondamento ultimo nel mistero trinitario di Dio, poiché

il Padre desidera «elevare gli uomini alla partecipazione della sua vita divina».21 Questo compimento

della creazione si realizza, dunque, come raccolta di tutti gli eletti «presso il Padre nella Chiesa

universale».22 Solo allora, quando sarà realizzata la riunione dell’intera umanità per formare

un’unità con Dio e tra gli uomini, anche la Chiesa avrà raggiunto il suo fine e potrà essere chiamata

in senso pieno «Chiesa universale». Identificandosi con l’intera umanità riconciliata, essa stessa

16 Agostino, De Trinitate V, 11-12. 17 Lumen Gentium, n. 1. 18 Cfr. K. Rahner, Sulla teologia del simbolo, in Id., Saggi sui sacramenti e sull’escatologia, Ed. Paoline, Roma 1969, pp. 51-107. 19 Lumen Gentium, n. 7. 20 Mt 5,3. 21 Lumen Gentium, n. 2. 22 Ibidem.

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trova la sua piena identità. La Chiesa è totalmente a servizio del giungere universale di tutti gli

uomini. Ma solo come “pellegrinante comunità di speranza”, la Chiesa è sacramento del Regno di

Dio e viceversa, poiché essa annuncia già in mezzo alla storia che continua la definitiva vittoria del

dell’amore di Dio. La Chiesa così costituisce una comunità escatologica che «attente la futura

parusia del Signore portandola già attualmente dentro di sé».23 Possiamo riconoscere diverse

conseguenze per l’ecclesiologia, derivate dal venire dal Padre (creazione) e andare verso il Padre

(escatologia). Ne deriva una marcata universalizzazione in realtà alla chiamata di salvezza con la

elaborazione di una ecclesiologia relazionale che non significa in alcun modo che la sua identità

debba dissolversi in una confusione nebulosa con tutte le realtà. Al contrario: in quanto Chiesa può

essere identificata solo in un orizzonte universale di relazione per trovare la propria figura intra -

storica adeguata come “Chiesa cattolica”.24

Le creature devono raffigurare in maniera finita la communio di Dio trinitario e conseguire la

capacità di entrare una volta per tutte nella vita del Dio comunionale. Questa comunione voluta sin

dall’inizio, è realizzata in maniera nuova e definitiva dall’azione del Dio unitrino nella Chiesa. In tal

modo la Chiesa è, nell’ambito della creazione, la più chiara “icona della Trinità”: «Dove vi sono tre,

il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, lì c’è anche la Chiesa che costituisce il corpo dei tre».25 La Chiesa

è immagine, frutto ed ambito dell’agire trinitario di Dio nella misura in cui è popolo di Dio, del

Padre, che mediante Cristo e lo Spirito riunisce gli uomini facendone il suo popolo. Se si dimentica,

infatti, il riferimento al Padre, si perde di vista la comune dignità e missione, che è la base della

communio. Se la Chiesa non viene più intesa come corpo di Cristo, la communio dei fedeli s’infrange

nella realtà dei molti che pretendono l’uno contro l’altro di avere lo Spirito. Se infine ci si dimentica

che la Chiesa è tempio dello Spirito Santo, essa si irrigidisce in una ierocrazia, immagine opposta a

quella della communio. Quindi il principio dell’adunarsi della Chiesa è il Dio trinitario, che concede

parte alla propria attuazione di vita nell’unità e nella molteplicità. La Chiesa può rappresentare la

Trinità solo nella misura in cui condivide con il suo Dio la com – passione verso gli uomini come

pure la povertà del suo amore, la solidarietà e la “volontaria” e “discreta” impotenza. La Kènosis,

insomma, appartiene alla permanente dimensione essenziale della Chiesa, fino al compimento finale

quando «Dio sarà tutto in tutti». In entrambe, nella Chiesa e nella Trinità, il processo di mediazione

non mira a dissolvere l’essenza dell’uno nell’altro, ma a completarle reciprocamente. Questa

raffigurazione giunge al punto che asserzioni strutturali in merito alla Trinità, in maniera analoga

valgono per la Chiesa. Infatti, la Chiesa è «una in molte» membra. Questa concezione ecclesiologica

è dal punto di vista costitutivo un’asserzione sul mistero di Dio. Il destino della Chiesa è la sua

“trinitarizzazione”. In tal modo, in un mondo sfigurato da squilibri sociali, i cristiani realizzano un

nuovo modello di convivenza umana concretizzando oltre che la communio anche la communicatio.

Comprendere la Chiesa come communio significa: vedere coimplicati in maniera pericoretica

l’Istituzione e il Carisma, che come due “poli” devono riconoscersi e completarsi; riconoscere

l’importanza della particolarità (il vissuto concreto delle comunità e dei fedeli) e la dimensione della

generalità; comprendere in un rinnovato rapporto la Tradizione e l’inculturazione; vivere la

complementarietà dei sessi, uomo e donna, come ricchezza da sviluppare; tendere alla secolarità e

alla sacralità, anche nel mondo, tramite il laico e il prete. Insomma la Chiesa come communio si

comprende come immagine del Dio Uni – Trino, che non risiede in se stessa, così come non è sorta

da essa, ma rimane perennemente fondata “extra se esse” (fuori di se stessa).26

L’idea di comunione che troviamo nel Nuovo Testamento si presenta sotto diversi aspetti, su tutti

quello della sua dimensione verticale: la comunione è un particolare rapporto con Dio. La Chiesa in

cui si ritrovano i primi discepoli, e in cui ci ritroviamo noi dopo duemila anni, è infatti una realtà che

riceve una convocazione dall’alto. La comunione che ne scaturisce nella Chiesa è prima di tutto

23 K. Rahner, Chiesa e parusia di Cristo, in Id., Nuovi Saggi, vol. I, Ed. Paoline, Roma 1968, p. 491. 24 Cfr. M. Kehl, op. cit., pp. 61-95. 25 Tertulliano, Il battesimo, Paoline, Roma 1979, p. 137. 26 Cfr. G. Greshake, Il Dio Uni – trino. Teologia trinitaria, Queriniana, Brescia 2000, pp. 430-457.

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grazia, dono di Dio. L’idea che si possa dare una vera e propria comunione con Dio appare come

una novità rispetto alla spiritualità dell’Antico Testamento. Israele, infatti, ha esperienza di un patto,

di un’alleanza con Dio. La comunione è, quindi, la nuova condizione essenziale in cui Dio pone il

credente, per la quale egli vive interiormente unito a Gesù, nell’aura dello Spirito Santo. Il

significato ecclesiologico di comunione non è il suo significato primario, ma deriva da quello di

elezione e di grazia. Molto importante, però, risulta essere per tutta l’ecclesiologia che la comunione

con Dio e di Dio si manifesti in modo visibile nella vicenda umana. Della Chiesa nella sua forma

empirica può parlare anche il giornalista, come il sociologo e lo storico, ma il fattore determinante

del passaggio dalla realtà interiore e nascosta della comunione al configurarsi della comunità

storica, empiricamente osservabile, della Chiesa è il fatto della comunicazione della fede.27

Dio non entra “in gioco” limitandosi a venire verso di noi e ad assumere la nostra vita con il Cristo,

ma Dio vuole “giocare” con noi nel Figlio. Tutto l’umano pensare riguardo a questo mistero

“inconcepibile”, dice fondamentalmente una cosa: si tratta di un mistero unico e indivisibile. Questa

unità non è rigida e morta, ma è evento di unità, è unità che avviene in una continua attuazione. Il

darsi di Dio non è l’orizzonte senza il quale non si riesce ad avere se stessi: il darsi è il centro, la

cosa stessa. Noi siamo solo in quanto ci doniamo. In questo gioco c’è la nostra esistenza, che

rappresenta il pegno, l’essere sempre “in gioco”. Nello Spirito il Figlio si rivolge verso al Padre, nello

Spirito il Verbo è risposta al Padre. La sua vita è un eterno provenire dallo Spirito essendo in

cammino verso il Padre. Ma questo è anche il movimento della nostra vita.28

Sull’articolazione della riflessione su Dio così descritta, si concentrerà l’attenzione, tramite

soprattutto il De Trinitate di Agostino, del pensiero cristiano nel corso dei secoli. Per il vescovo di

Ippona bisogna affermare l’unità dell’essenza e la distinzione dei Tre, perché nonostante la sostanza

sia uguale, il Padre è sempre Padre, Il Figlio è sempre Figlio e lo Spirito Santo è sempre Spirito

Santo, ovvero l’Essere dell’unico vero Dio che, in Gesù, dischiude il mistero della su Uni – Trinità:

«Se si chiede che cosa sono questi Tre, dobbiamo riconoscere l’insufficienza estrema dell’umano

linguaggio. Certo si risponde: “tre persone”, ma più per non restare senza dir nulla, che per

esprimere quella realtà».29 In verità, pur essendo trascendente ed ineffabile, Dio è il Creatore

dell’universo, in cui ha disseminato le “vestigia” del suo essere, e ciò, in particolare, nell’uomo che

ha creato «a sua immagine e somiglianza».30 Ora la realtà più alta che possiamo rinvenire nella

natura umana, la più nobile e perfetta, è senza dubbio l’amore. Esso giunge a compimento in Cristo

ma è anche la relazione vera che noi stessi siamo chiamati a vivere, per la grazia, nei confronti di

Dio. Amando il fratello, avvertiamo di amare con un amore che non viene da noi: perché questo

amore ci fa capaci di trascendere noi stessi per raggiungere gli altri. Dove, dunque, si attua l’amore

reciproco in Cristo, ivi si realizza l’esperienza dello Spirito, amore reciproco del Padre e del Figlio. La

Chiesa, come popolo adunato dalla Trinità, è il “luogo” privilegiato per fare esperienza di questo.31

Nella prospettiva escatologica, la Chiesa giunta al suo compimento, la celeste Gerusalemme, sarà

«sposa dell’Agnello».32 Cristo si è preparato una sposa senza macchia né ruga, lavata nel suo

sangue, ed essa tuttavia, nei suoi membri peccatori, è pur sempre pronta a prestare orecchio con

Eva al serpente. La sposa senza macchia né ruga, non è un’idea pura, ma una realtà in virtù di

Cristo. Nel suo ambito non esistono degli astratti, tutto è fondato sugli atti del Dio tripersonale e

sulle risposte delle persone umane, conseguite in virtù della grazia e aperto mediante l’incontro

d’amore tra Parola di Dio e fede: è la Chiesa quale comunità dei santi. Il corpo diviene, così,

santuario dello Spirito Santo alimentato dalla fecondità della fede. In questo contesto si trova la

27 Cfr. S. Dianich – S. Noceti, Trattato sulla Chiesa, Queriniana, Brescia 2002, pp. 168-189. 28 Cfr. K. Hemmerle, Preludio alla teologia, Città Nuova, Roma 2003, pp. 138-150. 29 Agostino, op. cit., T V 9. 30 Gn, 1,26. 31 Cfr. P. Coda, “Sul luogo della Trinità”. Rileggendo il De Trinitate di Agostino, Città Nuova, Roma 2008. 32 Ap 19, 7-9.

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distribuzione degli uffici, dei carismi e delle vocazioni, poiché anch’essi sono semi di grazia elargiti

da Dio. Ma la Chiesa non è un collettivo, bensì un’unica, irripetibile corporazioni di singoli che sono

in rapporto immediato con Cristo, e non è nemmeno un’assemblea, ma sempre una missione, un

invio, una dispersione in tutto il mondo. Quindi una comunità che sa di essere una cosa sola nella

processione del Figlio dal Padre verso il mondo. Lo Spirito, procedendo dall’intimo dell’amore, è

pronto a ogni confronto, a ogni urto, a ogni provocazione, a ogni rischio e avventura della missione.

Esso assume la guida e la responsabilità del trascendere di Dio nel mondo. Il cristiano nell’Ekklesìa,

vive nel centro di questo evento, che vuole farsi realtà anche in lui e per lui. La sua esistenza deve

essere sempre traduzione creativa, futuro di Dio perennemente nuovo nello Spirito Santo.33

Solo per mezzo del fatto di essere inclusi nell’amore di Dio si può divenire certi di Dio. La certezza di

Dio non è un modo di essere della coscienza umana, bensì un evento che d’altra parte include

anche la coscienza del rinnovamento di tutte le relazioni umane mediante il fuoco dell’amore con cui

Dio ci vuole abbracciare e in cui ogni uomo viene del tutto abbracciato da Dio. Dio, quindi, come

mistero del mondo nella misura in cui Egli viene al mondo, rivendicando questo come appartenente

a Lui, come «sua proprietà».34 Come Padre eterno, nella Chiesa e nell’intera umanità, chiama i suoi

credenti non solo fra i giudei, ma anche fra i pagani, e chiama tutti i popoli della terra come “suo

popolo”. Nell’evento dell’amore, di questa chiamata da e di Dio, l’uomo si rapporta nel modo più

misterioso. E ciò non perché egli amando ed essendo amato è massimamente incomprensibile per

sé, bensì perché egli amando ed essendo amato corrisponde al Dio che si rivela come amore. In

questo evento Dio e uomo condividono lo stesso mistero. Qui è presupposto che l’amore è amore

solo se è da Dio. Ma se l’amore è da Dio, nessuno può amare senza prima esser amato da Dio.

L’amore si basa in Dio poiché Egli solo può provocare, mettere in moto l’evento dell’amore. Egli solo

può cominciare senza motivo ad amare, anzi ha cominciato da sempre ad amare gli uomini, la

Chiesa come popolo adunato dal suo amore gratuito ed eterno.35

33 Cfr. H. U. Von Balthasar, Spiritus Creatus, in Id., Saggi teologici III, Morcelliana, Brescia 1972, pp. 320-328. 34 Gv 1,11. 35 Cfr. E. Jüngel, Dio mistero del mondo, Queriniana, Brescia 1982, pp. 410-513.

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Cap. 3° Trinità e Chiesa: conseguenze a partire dall’ontologia trinitaria

Dobbiamo anzitutto prendere atto di un dato di fatto oggettivo: l’unità della struttura sinodale e

gerarchica, secondo la Tradizione e il Concilio Vaticano II, appartiene come principio strutturale,

tanto dal punto di vista teologico come da quello empirico, all’autorealizzazione costitutiva della

Chiesa cattolica. Dopo che la Lumen Gentium nel capitolo I ha illustrato il mistero sacramentale

della Chiesa, quindi il suo senso teologico più profondo, nel capitolo III tratta della «costituzione

gerarchica della Chiesa e in particolare dell’episcopato». In questo contesto si trova l’espressione di

«comunione gerarchica».36 In tale comprensione e costruzione della Chiesa, tutto deve essere in

armonia con la fondazione trinitaria della stessa. L’unità della Chiesa è operata dallo Spirito Santo

che dà forma alla Chiesa nella quale tutti hanno la medesima dignità di fronte a Dio, e tutti

partecipano alla missione regale, profetica e sacerdotale di Cristo.37 Questa uguaglianza di tutti

nella fede operata dallo Spirito costituisce il fondamento di ogni ordinamento e struttura ecclesiale.

Questa uguaglianza deve determinare tutte le possibili differenziazioni all’interno di tale comunanza,

poiché è il comune essere popolo di Dio che precede tutte le distinzioni di ministeri, carismi e

servizi. Il medesimo Spirito opera una distinzione suscitando «doni gerarchici e carismatici».38 Con il

primo termine s’intendono i ministeri che sono conferiti tramite un atto sacramentale. I ministeri,

cioè, del vescovo, del presbitero e del diacono. Per mezzo di essi Cristo è reso visibile con la sua

autorità come il capo del corpo. La relazione dei credenti con Cristo non si esaurisce nel fatto che

essi sono suoi fratelli e sorelle, o suoi amici, essi rimangono sempre suoi discepoli che con

l’obbedienza alla Chiesa si accostano alla sua volontà. Da qui possiamo comprendere che il

ministero non è solo un carisma fra gli altri, ma si trova in modo vincolante di fronte, ma non al di

sopra, agli altri, per rappresentare in modo sacramentale e simbolico l’azione di Cristo capo nella

Chiesa: «Se mi atterrisce ciò che sono per voi, mi consola ciò che sono con voi. Per voi infatti sono

vescovo, con voi sono cristiano. Quello è il nome di un ufficio, quello di una grazia; quello è il nome

di un pericolo, questo della salvezza».39

Il termine “laico”, invece, deriva solo indirettamente da laòs, che nel greco profano indica il popolo,

mentre nella LXX e poi nel Nuovo Testamento è utilizzato in senso religioso per indicare la comunità

cristiana, per intero, come popolo di Dio. Con il nome di “laici” il Concilio Vaticano II intende: «Tutti

i fedeli a esclusione dei membri dell’ordine sacro e dello stato religioso riconosciuto dalla Chiesa, i

fedeli cioè, che, dopo essere stati incorporati a Cristo col battesimo e costituiti popolo di Dio, e nella

loro misura resi partecipi della funzione sacerdotale, profetica e regale di Cristo, per la loro parte,

compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano».40 Ma in cosa

consiste il loro modo peculiare di essere cristiani? «Il carattere secolare è proprio e particolare dei

laici. Per la loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e

ordinandole secondo Dio».41 Da ciò possiamo affermare che attraverso la teologia della communio

e del popolo di Dio, derivante dalla concezione Ecclesia de Trinitate, l’immagine della Chiesa del

vaticano II è quella di una fondamentale comunanza tra tutti i cristiani e la differenziazione in

“stati” chiaramente distinti viene notevolmente relativizzata se non superata del tutto.

In quanto si comunica all’uomo, la Trinità, non può non suscitare comunione: questa comunità di

uomini raccolta nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo è “icona” della Trinità santa.42 La

Chiesa, infatti, non nasce dal basso, dalla convergenza d’interessi mondani, ma viene dalla Trinità

ed è sempre suscitata da essa. La Chiesa è, quindi, immagine della Trinità. Ne deriverà che la

cattolicità, intesa come pienezza, è presente in ciascuna Chiesa locale in forza dell’unico battesimo,

36 Lumen Gentium, n. 21. 37 Cfr. Idem, n. 9-13. 38 Idem, n. 4. 39 Agostino, Sermo 340, 1, PL 38, 1483. 40 Lumen Gentium, n. 31. 41 Ibidem. 42 Cfr. B. Forte, Trinità come storia. Saggio sul Dio cristiano, Ed. Paoline, Cinisiello Balsamo 1985, p. 192.

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dell’unica eucarestia, dell’unico Spirito. Allora si potrà evidenziare l’istituzione, l’autorità, la

gerarchia, la legge, il primato, la collegialità, il sacerdozio ministeriale e battesimale. Così la Trinità

entra nel tempo e il tempo entra nella Trinità. Nell’eucarestia, poi, la Chiesa si fa voce di tutto il

creato: il pane e il vino presentati al Padre. L’eucarestia è ciò che il mondo deve diventare.

L’originalità della Trinità, inoltre, fonda per la Chiesa l’esigenza della missione. L’intera vita

ecclesiale diviene, in forza dello Spirito, eucarestia nella storia degli uomini, “viatores” nella terra

straniere che con canti di gioia si avviano verso il Regno.43

«Da questo abbiamo conosciuto l’amore. Egli ha dato la sua vita per noi».44 L’amore è il Cristo

stesso come evento dell’auto-comunicazione salvifica del Padre alla storia dell’uomo nella libertà –

unità dello Spirito Santo. Egli è il Dio con gli uomini e invita questi a partecipare al suo amore. Ne

deriva che la Chiesa è la comunità di coloro che sono attirati dal Cristo. In questa prospettiva,

l’amore, non è soltanto la sorgente dell’evento ecclesiale, ma ne diventa la forma di vita. Amore,

anzitutto, come apertura e prossimità nei confronti dell’alterità, poiché nel “tu” che ci interpella

nasce per “l’io” la responsabilità etica. Amore, poi come reciprocità: il rapporto con il volto dell’altro

giunge al suo compimento quando, in risposta al mio riconoscimento, l’altro riconosce anche me

come fratello. L’amore ecclesiale è, ancora, il contrario della chiusura e del ghetto, poiché esso

spinge alla missione, si “politicizza” nel suo rapportarsi con il mondo. Da questi pochi spunti

comprendiamo come l’amore della Chiesa deve alimentarsi alla fontana teologica di Dio agàpe, ma

deve essere anche cosciente che mai può tradurre in pienezza l’amore di Dio stesso. L’agàpe come

forma della Chiesa ne disegna un volto totalmente relazionale, da cui continuamente nasce il suo

servizio nei confronti del mondo. Agàpe che si traduce, ad esempio, a livello istituzionale, nel

rapporto di collegialità e di primato tra il vescovo di Roma, che è colui che presiede all’amore

universale, i singoli vescovi; nel rapporto tra i vescovi e i sacerdoti all’interno del presbiterio

diocesano; nel rapporto tra i laici, i vescovi e i presbiteri. Frutto dell’agàpe è, dunque, la koinonia

sia spirituale che “economica” così come testimoniato dalle prime comunità cristiane. L’agàpe così

deve mostrarsi come la forma di ogni attività della Chiesa, di ogni relazione al suo interno, di ogni

struttura chiamata a rendere organica e disciplinare la Chiesa. Così la testimonianza della Chiesa

(martyria) è trasparenza di Dio. La missione dei discepoli di Cristo, inoltre, deve abbracciare

l’orizzonte planetario: la sfida è quella di saper coniugare l’attenzione al particolare, l’incarnazione

nel territorio, il rispetto delle varie identità etniche, culturali, politiche con l’orizzonte della

mondialità. Ciò è quanto ci ha voluto dire Paolo VI parlando della necessità che dal vangelo di Cristo

si sprigioni, per l’oggi della storia umana, una “civiltà nuova dell’amore”. La sfida etica della

solidarietà, riceve la sua illuminazione e fondazione ultima dall’agàpe per poter costituire un nuovo

modello di unità del genere umano. Ciò vale anche per la dimensione cosmologica ed ecologica.

Dall’amore del Dio uni – trino, che la Chiesa fa suo come origine e fine, deriva anche la sua

«opzione preferenziale per poveri quale forma speciale di primato nell’esercizio della carità cristiana,

testimonianza da tutta la tradizione della Chiesa».45 L’opzione per i poveri è evangelica e non può

essere ridotta ad una presa di posizione socio – politica. La scelta per i poveri possiede, quindi, un

carattere teologico e cristologico e non rappresenta una scelta pastorale opzionabile. La “Chiesa dei

poveri” è il luogo dove essi hanno voce, ritrovando in Cristo la strada della loro liberazione umana e

cristiana. Coerenti alla scelta per i poveri, la Chiesa deve anche denunciare le strutture di peccato

esistente nel sistema economico – politico, dove appare necessario l’individuazione e la

realizzazione di forme concrete di responsabilità in vista del bene comune. L’agàpe è, infatti, anche

la sorgente ispiratrice e l’energia vivificante dell’impegno politico del cristiano, di modo che la

43 Cfr. Ibidem, pp. 192-203. 44 1 Gv, 3, 16. 45 Lumen Gentium, n. 42.

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politica diventi “luogo teologico”. L’agàpe funge anche da continua coscienza critica e profetica, e da

riserva escatologica della politica stessa.46

Il Concilio Vaticano II ha cercato di collocare la riflessione sulla Chiesa in rapporto alla storia della

salvezza e al Dio di Gesù Cristo, cioè alla luce della modalità e della finalità della rivelazione e a

partire dal suo contenuto centrale: la salvezza come partecipazione comunitaria alla comunione

trinitaria di Dio. Questa visione valorizza la sua missione per attuare la comunione con gli altri, con

il cosmo, con Dio. La Chiesa, cioè, non solo si pone compagna di viaggio dell’uomo, ma essa stessa

si propone come spazio esistenziale e teologico dell’esperienza della paternità di Dio. La stessa

Chiesa non può essere compresa nella sua vera realtà senza un salto essenziale della persona,

senza una conversione e un radicale cambiamento di mentalità. Dunque, se la Chiesa non vuole

perdere la sua connotazione caratteristica, il suo ruolo specifico nell’umanità e all’interno del

progetto di Dio, occorre che s’interroghi sulla sua reale azione profetica attraverso la quale compie

la mediazione tra Dio e gli uomini. L’assunzione di uno stile diffuso di cammino comune (synodos)

contribuisce di per sé a costruire e a veicolare un’immagine di Chiesa capace di dinamismo

comunionale, capace di testimoniare l’amore di Dio al mondo. La dimensione della sinodalità è

divenuta, così, nella teologia e nella prassi pastorale, una realtà sempre più presente. L’agire

sinodale ha una forte valenza profetica, un annuncio cioè di un nuovo stile dell’esercizio dell’autorità

e nella dinamica della partecipazione reale e non solo ideale. Il cristianesimo può far crescere, in

virtù dell’annuncio e della testimonianza di amore, la comunione fra gli uomini, la loro mutua

comprensione al linguaggio dell’Amore che è Dio stesso. Altro sviluppo, nella vita ecclesiale, è nella

prospettiva della partecipazione e della responsabilizzazione. Attraverso, infatti, una teologia del

laicato, si può maggiormente valorizzare il rapporto con la società contemporanea e i loro sistemi

democratici. Una Chiesa meno clericale non solo è conforme alla volontà espressa da Cristo nel

vangelo, ma anche incide più pesantemente sull’evoluzione della cultura contemporanea. La stessa

inculturazione della fede deve svilupparsi in questo spirito di condivisione, di comunione, di

partecipazione laicale. Un altro elemento è la valorizzazione del territorio (spazio-tempo) all’interno

della dimensione della cattolicità. La Chiesa particolare e universale non sono comprensibili

all’interno della semplicistica logica geografica, ma all’interno della natura misterica della stessa

comunità. Da questo punto di vista il cammino ecumenico, nel rispetto delle grandi tradizioni

storico-teologiche, non può che essere un utile modello di riferimento per il dialogo tra la fede e la

cultura. E infine, ulteriore conseguenza, la coscienza ecclesiale sensibile alla missionarietà, con la

necessità di una “nuova evangelizzazione”, sempre più un compito e una preoccupazione tipica non

solo della gerarchia, ma anche del laicato in forza dei sacramenti dell’iniziazione cristiana.47

Così l’ontologia trinitaria della Chiesa, non è solo l’oggetto del pensiero, ma è anche la realizzazione

di questo. Pensarla significa entrare nel suo ritmo, con la parola e con l’esistenza stessa. Questa

particolare ontologia per la Chiesa sollecita anche una comunità non totalitaria, e nemmeno basata

sul fondamento sedicente della libertà, ma il modello trinitario fa sì che ognuno sia a suo modo,

origine della Chiesa, che abbia una via unica, comune, e che tuttavia sia la vita del singolo.

Un’ontologia trinitaria ha una spiritualità ad essa coerente che potrebbe essere una sintesi delle

grandi spiritualità della Chiesa, le quali hanno sviluppato simultaneamente la teologia, la filosofia, la

preghiera, la vita e la capacità di dare forma alla comunità e di operare nella società. Alla spiritualità

corrisponde la teologia. Una teologia che per la Chiesa, come abbiamo visto, è comunitaria e non

realizza una federazione sancita in vista di un fine: essa è la vita stessa.48

46 Cfr. P. Coda, L’agàpe come grazia e libertà. Alla radice della teologia e prassi dei cristiani Città Nuova, Roma 1994, pp. 136-167. 47 Cfr. G. Calabrese, Per un’ecclesiologia trinitaria. Il mistero di Dio e il mistero della Chiesa per la salvezza dell’uomo, EDB, Bologna 2000, pp. 25-220. 48 Cfr. K. Hemmerle, Tesi di un’ontologia trinitaria. Per un rinnovamento del pensiero cristiano, Città Nuova, Roma 2006.

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Cap. 4° L’indole rinnovatrice: la “via” di Paolo VI per un’eredità del Concilio

4.1 Coscienza comunitaria come catechismo dei tempi nuovi

Per Paolo VI49, lo spirito del Concilio deve definirsi da un carattere di accresciuto fervore religioso,

morale, sentimentale, comunitario. Per spirito bisogna intendere la mentalità, il principio di pensiero

e di azione, l’attitudine. La Chiesa, a Concilio concluso, porta più viva con sé la coscienza della sua

meravigliosa e misteriosa unità, fusa con la coscienza della sua vocazione universale, cioè della sua

cattolicità. Dunque due note caratteristiche della Chiesa, unità e cattolicità, che il Concilio ha

perfezionato la coscienza. Il risultato della consapevolezza comunitaria non è stato occasionale, ma

è stato uno degli insegnamenti, e quindi degli scopi, ripetuti in tutti i documenti conciliari. La

Costituzione principale del Concilio, quella sulla Chiesa ovvero la Lumen Gentium, afferma:

«Piacque a Dio santificare e salvare gli uomini non a uno a uno, prescindendo da qualsiasi mutua

connessione, ma volle costituirli in un popolo, che Lo conoscesse nella verità e a Lui sentitamente

servisse».50 Quindi la religione cattolica mette in migliore evidenza della personalità di ciascun

uomo, nell’ottica di una comunità umana. Tutto quanto diminuisce o offende il senso comunitario è

fuori dalla linea che il Concilio ha tracciato per il rinnovamento. Questo ci porta a domandarci: di

che vive la Chiesa? Il principio divino che conferisce alla Chiesa la sua mistica personalità è lo

Spirito Santo. La Chiesa vive di Spirito Santo. Egli guida la Chiesa verso la verità intera, la unifica

nella comunione e nel ministero, la istruisce e la dirige con diversi doni carismatici e gerarchici, la

abbellisce dei suoi frutti. È nello Spirito Santo che si perfeziona la duplice unione: della Chiesa con

Cristo e con Dio, e della Chiesa con tutti i suoi membri, cioè i fedeli. La Chiesa già possiede per

sempre lo Spirito Santo, ma la nostra azione è pure richiesta affinché quella dello Spirito sia libera a

piena. La cosa che occorre fare è quella di favorire l’effusione del Paraclito. Tutto questo

sicuramente porta, come ha espresso all’apertura del Concilio Giovanni XXIII, “all’aggiornamento”

della Chiesa e al suo rinnovamento in nome del quale non si possono realizzare interpretazioni

deformate e pericolose del dogma cattolico.

La Chiesa è, quindi, comunione, una società animata da un solo e misterioso principio vitale, la

grazia dello Spirito Santo da dove ne scaturisce fra tutti coloro che la compongono. Per il Concilio,

infatti, la Chiesa è un popolo, il Popolo di Dio. Se la Chiesa è una comunione spirituale e visibile, noi

dobbiamo trarne le conseguenze. Quando si dice che non si contesta nella Chiesa l’autorità come

tale, ma il modo di esercitarla, si dice bene, a condizione che questo sia visto nell’ottica del

perfezionamento che auspica il Concilio. Infatti, nella formazione della nuova mentalità ecclesiale,

post-conciliare, dobbiamo sviluppare il senso della comunione da vivere nella prospettiva della

gerarchia come servizio. Colui che intende accogliere lo spirito e la norma del rinnovamento

conciliare scopre di essere modellato da una pedagogia nuova, che lo obbliga ad esprimere la sua

vita religiosa nella comunità ecclesiale alla quale appartiene. Tutto nel Concilio parla della Chiesa.

Ora la essa è comunione e non è più possibile dimenticare questa realtà esistenziale se si vuole

essere cristiani, essere cattolici, essere fedeli. Lo spirito comunitario è l’atmosfera necessaria del

credente. Il Concilio ha richiamato alla coscienza e alla pratica della vita religiosa e cristiana il

respiro di questa atmosfera. Non è una novità per la Chiesa il tema dello spirito comunitario, ma

piuttosto un ritorno alle origini della spiritualità del cristianesimo. Se la Chiesa è comunione, ella

comporta una base di uguaglianza, la dignità personale.

Il Concilio deve imprimere anche un rinnovamento morale nella nostra vita cristiana, per realizzare

un balzo in avanti verso una penetrazione dottrinale ed una formazione delle coscienze, in

corrispondenza più perfetta alla fedeltà dell’autentica dottrina. Per tale motivo il Concilio ha voluto

assumere il carattere di un magistero prevalentemente pastorale. Se noi vogliamo accogliere

49 Le riflessioni presenti in questo capitolo sono tratte dai discorsi di Paolo VI sul Concilio Vaticano II presenti nel volume: Paolo VI, Nel cono di luce del Concilio. Discorsi e documenti (1965-1978), a cura di M. Vergottini, Edizioni Studium, Roma 2006. 50 Lumen Gentium, n. 9.

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l’influsso del Concilio, dobbiamo chiedere a noi stessi quale sia l’applicazione che ne vogliamo fare.

Non basta sapere, bisogna fare.

I documenti del Concilio sono destinati ad essere guida sicura per l’annuncio della parola di Dio nel

nostro tempo e per l’interiore rinnovamento delle comunità cristiane, affinché la Chiesa acquisti una

più profonda coscienza di se stessa. L’uso della Bibbia diventa sempre più familiare in mezzo al

popolo cristiano, questo deve essere sempre accompagnato dallo sforzo perché la dottrina della

fede conservi la pienezza del suo contenuto e del suo significato, cosicché la teologia, come scienza

della fede, trovi luogo nella comunità dei credenti.

La vita della Chiesa è sotto il segno del Concilio. Esso ha segnato una tappa di grande importanza

nella dottrina, nella organizzazione, nella pastorale. Il rinnovamento liturgico, le responsabilità

collegiali dell’intero Corpo episcopale unito con Pietro, la vita sacerdotale e religiosa, la presa di

coscienza del laicato cattolico hanno ricevuto nuovo slancio dal Concilio. Dobbiamo costruire o

ricostruire, poi, dentro di noi la Chiesa, prima di costruirla fuori. Dobbiamo ripensare la Chiesa

secondo l’ecclesiologia autentica del vangelo. Dobbiamo ritornare a questo amore pensando a quello

che Cristo ebbe per lei. Bisogna che noi ci confermiamo nella nostra concezione dell’amore

dell’umanità, quale Cristo ci ha insegnato. Da qui nasce la nostra Weltanschauung, la nostra visione

del mondo, la nostra sociologia, la nostra “civiltà dell’amore”. Dobbiamo, ancora, rinfrancare nel

nostro spirito un vivo, sicuro, amoroso sensus ecclesiae. Costruire la Chiesa, quindi, è il grande

dovere di noi credenti. Costruirla in due sensi: quello di cui abbiamo ricevuto un’eredità

antichissima, ma tanto bisognosa di purificazione secondo lo spirito del vangelo; e poi secondo il

senso, lo sguardo più che al passato verso l’avvenire. Alla domanda che cos’è la Chiesa, sulla scia

del Vaticano II, possiamo rispondere che essa è il mistero di comunione degli uomini con Dio Padre

e tra loro, per opera di Gesù Cristo, nello Spirito Santo.

4.2 La novità del Concilio: vivere secondo la fede

Lo straordinario evento del Concilio Ecumenico Vaticano II, per Paolo VI, è la via per ottenere quel

rinnovamento spirituale possibile solamente nell’intimo delle nostre coscienze. La Chiesa, così,

conseguirà benefici immensi. Il Concilio è stato definito giustamente della Chiesa, perché ha

studiato la sua missione salvifica di fronte al mondo intero e per accrescere, in tutti i cristiani, il

senso della Chiesa, una “dottrina” mai abbastanza studiata e compresa. Essa ogni giorno genera a

Dio nuovi figli, per virtù dello Spirito Santo. Il mondo tutto è pieno dei suoi tralci. La vita della

Chiesa, quindi, è dominata dal Concilio Ecumenico. Questo è come una sorgente, dalla quale

scaturisce un fiume. Si può dire che il Concilio lascia alla Chiesa, che lo ha celebrato, se stesso. Le

Costituzioni con i Decreti e le Dichiarazioni formano, tutte insieme, un corpo di dottrine e di leggi,

che deve dare alla Chiesa quel rinnovamento per cui il Concilio è stato promosso. Bisogna fare

attenzione: gli insegnamenti del Concilio non costituiscono un sistema organico e completo della

dottrina cattolica. Non possiamo staccare gli insegnamenti del Concilio dal patrimonio dottrinale

della Chiesa, si deve vedere come in esso s’inseriscano, come ad esso siano coerenti. Non sarebbe

perciò nel vero chi pensasse che il Concilio rappresenti un distacco, una rottura, ovvero, come

qualcuno pensa, una liberazione dall’insegnamento tradizionale della Chiesa, oppure autorizzi e

promuova un facile conformismo alla mentalità del nostro tempo. Il Concilio apre molti orizzonti

nuovi agli studi biblici, teologici e umanistici, invita a ricercare e ad approfondire le scienze

religiose. Esso ha evitato di dare definizioni dogmatiche solenni, ha tuttavia munito i suoi

insegnamenti dell’autorità del supremo magistero ordinario.

Come dopo l’inverno la vegetazione naturale sembra rinascere e tutta si rinnova nella fresca e

fiorente esplosione primaverile, così l’età nostra segna una stagione storica di grandi cambiamenti e

di profondo rinnovamento, che toccano ogni forma di vita: il pensiero, il costume, la cultura, le

leggi, il tenore economico e domestico, i rapporti umani, la coscienza individuale e collettiva, la

società intera. A volte, però, si ha l’impressione di essere trascinati e travolti da una corrente

irresistibile, come da un fiume che c’investe e ci porta via. Così si parla sempre di rivoluzione, così

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si solleva in ogni campo la “contestazione”, senza spesso che ne sia giustificato il motivo, né lo

scopo. Novità, novità; tutto è messo in questione, tutto deve essere in crisi. il bisogno di

rinnovamento per tante ragioni e per certe forme è legittimo e doveroso. Certo: una misura

s’impone. La spinta è data, dal recente Concilio, alla coscienza dell’uomo moderno, e specialmente

dell’uomo della Chiesa. Il Concilio ha come fine un rinnovamento di tutta la comunità ecclesiale, ma

«Ogni rinnovamento della Chiesa consiste essenzialmente nell’accresciuta fedeltà alla sua

vocazione».51 Solo in questo modo possiamo avvertire che il Concilio è una vocazione per ciascuno

di noi all’autenticità cristiana. La prima deviazione è quella di credere che il Concilio abbia aperto

un’era talmente nuova da autorizzare una svalutazione, un distacco, un’intolleranza verso la

tradizione della Chiesa. Esiste in molti uno stato d’animo di radicale insofferenza verso “l’ieri” della

Chiesa: uomini, istituzioni, costumi, dottrine, tutto è senz’altro accantonato, se porta l’impronta del

passato. Esso è sostituito da una facile simpatia a tutto ciò che è fuori dalla Chiesa. Se questo

processo non è moderato, appare lecito prospettare l’ipotesi di una Chiesa del tutto diversa da

quella odierna e nostra; una Chiesa inventata. Questa deviazione è purtroppo possibile. Siamo

convinti, nel Signore, che la Chiesa possa conservare i suoi quadri efficienti e compiere la sua

missione alle genti: ma il clero, le comunità, i fedeli lo capiranno? Il Cristiano deve ricomporre la

sua unità spirituale e morale, non basta chiamarsi cristiani, bisogna vivere da cristiani. Il cristiano

autentico, infatti, non vive solo con la fede ma secondo la fede. Questo è il cardine del

rinnovamento voluto dal Concilio.

La Chiesa si trova ancora nel cono di Luce del Concilio e prosegue il suo cammino nel tempo verso

l’estremo avvenire con più chiara coscienza attuale di sé e del mondo. Non possiamo chiudere gli

occhi su certi risultati positivi, anche se ne osserviamo alcuni, non forse dovuti al Concilio, non

sempre univoci e coerenti. Ma chi bene osserva vedrà che la Chiesa ha acquistato una nuova

vitalità, funzionale e spirituale. Le linee maestre del Concilio sono oggi urgentemente

programmatiche, due specialmente: la comunione, cioè la coesione e la pienezza interiore per via

dello Spirito; la missione, cioè l’impegno apostolico verso il mondo contemporaneo. Esse devono

segnare il cammino a noi pellegrini verso il Cristo risorto ed eterno e alimentare il respiro

escatologico. Bisogna ricercare uno sforzo di riforma permanente: la rinnovazione è la vera riforma

che si compie negli animi più che nelle cose. Possiamo dire che il Concilio ha raggiunto i suoi scopi?

In parte sì, certamente; ma troppo ancora resta da fare, affinché le speranze del Concilio siano

avverate e le promesse mantenute. È questa una responsabilità della presente generazione.

Il Concilio per la sua fecondità pratica, per la sua profondità spirituale, per al sua apertura

universale, non può essere classificato fra le cose passate perché per ogni realtà ci segue, ci

stimola, ci illumina, ci impegna. Noi abbiamo un dovere: quello di essere fedeli al Concilio per

comprenderlo e seguirlo. Il Concilio continua la vita della Chiesa, non la interrompe, non la deforma,

non la inventa, ma la conferma, la sviluppa, la perfeziona, la aggiorna. Si cerca di attribuire al

Concilio ogni sorta di novità, specialmente nel modo di concepire la fede e di presentarla al mondo

contemporaneo. Il primo atteggiamento da prendere dinanzi a questo rischio è, per Paolo VI, quello

della vigilanza attenta e serena, che non cede il passo alle consuetudini dell’indifferenza. Un altro

atteggiamento riguarda la decisione interiore che il figlio della Chiesa sente il dovere di prendere di

fronte al rinnovamento che in lei, in quest’ora storica, deve avvenire ed a cui ogni credente deve

partecipare, anzi concorrere. Bisogna distaccarsi da molte e gravi cose, che sono pur sue, della

Chiesa. Oggi in tutta la Chiesa si notano sforzi magnifici di autenticità, di rinnovamento, di vitalità

cristiana, di santità. Oggi la Chiesa, dopo il Concilio, è tutta tesa verso la sua riforma interiore;

preghiera e dogma s’illuminano a vicenda e danno alla vita spirituale della Chiesa il senso di verità e

di pienezza al suo colloquio con Dio, una profondità interiore è scavata nelle singole anime. Oggi

ogni Vescovo, ogni Diocesi, ogni Conferenza episcopale, ogni Famiglia Religiosa è in fase di riforma

e d’intensità autentica di vita cattolica. Questo senso del rinnovamento deve rimanere, deve anzi

51 Unitatis Redintegratio, n. 6.

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essere operante. Naturalmente nessuno può desiderare la novità nella Chiesa, là dove la novità

significhi tradimento della norma della fede; la fede non s’inventa, né si manipola; si riceve, si

custodisce, si vive.

4.3 Ripensare la Chiesa alla Luce del Concilio

Il Concilio, per Paolo VI, è come uno sforzo che la Chiesa ha fatto per rinnovarsi, per ringiovanire,

per capire se stessa e per essere idonea ad esercitare la sua funzione. Tutto questo si può realizzare

andando alle sorgenti. Bisogna andare là dove il cristianesimo scaturisce, dove si manifesta nella

sua primitiva, genuina essenza. Si potrebbe dire che il Concilio ha preso i cristiani, anche i laici, per

un bavero e li ha scossi. In quale senso? Per essere cristiano non si può essere pigri, ignoranti,

indifferenti, passivi, invadenti. Occorre, invece, essere attivi, cooperare. Tutto il popolo deve

fermentare come massa. Un cristiano che non produce nulla, non è il cristiano nuovo che la Chiesa

vuole. Il Concilio, inoltre, ha infuso nel cristiano un senso di simpatia, di amore per ogni creatura di

Dio presente in questo mondo. Il Concilio, così, ha potuto guardare, con senso ecumenico ovvero

universale, in faccia tutta l’umanità e tutto il creato con amore verso tutti e tutto. La Chiesa si è

mostrata nel Concilio come la madre amorosa di tutta l’umanità.

Le strutture nascenti, nella Chiesa, non lasciano ancora intravedere le linee definitive. Il Concilio

consegna alla Chiesa un “tomo” di dottrine e di decreti che possono segnare la sua nuova

primavera. Lo studio, come applicazione del Concilio, deve impegnare da un lato la riflessione

teologica, dall’altro la prassi pastorale, affinché questo nuovo patrimonio s’inserisca nel “deposito

della fede”. Il Concilio sarà il grande catechismo dei tempi nuovi e ci esorta ad approfondire la

nostra meditazione sul mistero di verità, che la Chiesa porta con sé, e ad osare con fiducia lo sforzo

apostolico nuovo perché tale mistero diventi sempre più al luce del mondo. Il Concilio, poi, ha

prodotto, o piuttosto promosso, in seno alla Chiesa una più approfondita coscienza di sé e della sua

missione. La Chiesa è diventata più pensosa e più intenta al suo dovere apostolico. Mai forse come

oggi la Chiesa è stata in eguale tensione di pensiero, di attività pastorale, missionaria, caritativa.

Mai forse come oggi la Chiesa è stata intenzionalmente presente nel mondo con la voce dei suoi

principi, con la dedizione dei suoi servizi, con la dichiarazione del suo amore.

Qual è la dottrina del Concilio Ecumenico Vaticano II sulla fede? Chi si pone questa domanda

s’accorge subito che l’ultimo Concilio non ha lasciato una trattazione vera e propria sulla fede, come

invece altri Concili hanno fatto. È opportuno osservare che il Concilio non tratta espressamente della

fede, ne parla ad ogni pagina, ne riconosce il carattere vitale e soprannaturale, la suppone integra e

forte e costruisce su di essa le sue dottrine. La fede è posta alla base dello “spirito di rinnovamento”

della Chiesa. Essa, infatti, non è vecchia, è antica. Il tempo non la piega, e, se essa è fedele ai

principi della sua misteriosa esistenza, la ringiovanisce. Essa non teme il nuovo, ne vive. Come un

albero dalla sicura e feconda radice, essa trae da sé ad ogni ciclo storico la sua primavera. Qui può

essere legata la questione del “nuovo” nella Chiesa cattolica che è estremamente complessa: il

nuovo, certamente, non può essere nella Chiesa prodotto da una rottura con la tradizione. L’unica

rottura a noi concessa è quella della conversione, la rottura con il peccato, non con il patrimonio di

fede e di vita, di cui siamo eredi responsabili e fortunati. E poi per l’applicazione: non si tratta tanto

d’inventare un cristianesimo nuovo per i tempi nuovi, quanto di dare al cristianesimo autentico i

riferimenti nuovi, di cui esso è capace e di cui noi abbiamo bisogno.

La nostra vocazione, come quella di precursori, è quella di preparare le vie del Signore. Tale

chiamata della Chiesa, di essere presente nel mondo in trasformazione, si è manifestata

splendidamente in tutta l’opera del Concilio Vaticano II, i cui orientamenti sono stati provvidenziali

per il nostro tempo. All’uomo di oggi, così com’è, la Chiesa apporta l’acqua viva. Bisogna gettare un

ponte sul mondo per apportare ad esso il fermento evangelico e per rigenerarlo in profondità,

rivelandogli tutta la grandezza del suo destino, e aiutandolo a realizzarlo, col portare a compimento

il disegno dell’amore creatore e redentore. Tutti i figli della Chiesa, ciascuno al suo posto, e

seguendo la propria vocazione, sono responsabili di questa grande opera. Tutta la Chiesa per mezzo

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dei propri Vescovi, sacerdoti, religiosi, laici deve vivere in stato di missione. Dobbiamo, come popolo

di Dio, aver coscienza della nostra vocazione, della nostra elezione, della nostra responsabilità. Non

possiamo tacere, non dobbiamo smarrire la verità e l’unità della fede. Dobbiamo fare della fede il

principio originale ed operante della vita cristiana delle nostre comunità. Il Vangelo non è forse

sorgente di sviluppo? La Chiesa nel rispetto della competenza della società, degli stati, deve offrire il

suo aiuto per promuovere un “umanesimo plenario”, vale a dire lo sviluppo integrale di tutto l’uomo

e di tutti gli uomini.

Il Concilio costituisce non soltanto una grande lezione sulla verità della fede, ma altresì una grande

lezione sui doveri della carità. La Chiesa è una comunione, cioè una società scompaginata da vincoli

suoi propri, risultante, come un essere vivo, da un elemento esteriore visibile ed organico, che sono

i fedeli, i quali la compongono. È un’assemblea, una compagine umana, fisica e mistica insieme. È la

“comunione dei santi”. E allora ecco che la comunione, non puramente esteriore, disciplinare,

statistica, sociale diventa per ogni fedele e per tutta la moltitudine dei seguaci di Cristo un dovere

fondamentale.

Ripensare la Chiesa questo è stato uno dei temi, il principale forse, del recente Concilio. Nella

prospettiva ecclesiologica si è visto che la Chiesa non è soltanto maestra della fede, ma oggetto

essa stessa di fede. Per avere idee chiare circa la Chiesa occorre riconoscere il mistero, cioè

l’eccedenza del suo essere rispetto alla nostra capacità intellettiva. Essa non è un fatto puramente

naturale. Essa è nel pensiero divino, un disegno di Dio che s’innesta nella vita e nella storia

dell’uomo. E non ci dobbiamo stupire se questo mistero non trova, nel nostro linguaggio, termini

adeguati per definirlo. Dobbiamo in secondo luogo difenderci dalla tentazione di costruire da noi

stessi, col nostro cervello, o con la nostra cultura, un tipo nuovo di Chiesa, uno schema artificiale di

vita religiosa. La riforma degli aspetti umani e caduchi della Chiesa è sempre doverosa e possibile,

ma essa deve concorrere a costruire, non a demolire la Chiesa. Necessita educare la nostra

mentalità religiosa a concepire la Chiesa in conformità a questa definizione che il Concilio ha fatto

propria: Popolo di Dio. Essa è una definizione densa e feconda.