Tecnologie di libertà
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Università degli Studi di Perugia
Facoltà di Lettere e Filosofia - Facoltà di Scienze politiche - Facoltà di Economia
Corso di Laurea interfacoltà in Scienze della Comunicazione di Massa
Elaborato Finale
Tecnologie di libertà
Technologies for freedom
LAUREANDO RELATORE Giovanni Ferretti prof. Michele Mezza [email protected]
Anno accademico 2010-2011
Sentivo una canzone, non era mia, né di nessuna. La trama così sottile che non vedevi la cucitura.
Son brividi di ragnatela sul volto pallido della luna, son brividi lungo la schiena, sotto le reti della calura.
dalla canzone “La fiera della Maddalena” di Max Manfredi
qui dedicata ai ragazzi delle piazze dell’estate 2011 a Carlo, fermato in un’altra piazza, dieci anni fa
ed a Tom Behan, che quei brividi studiava
ENGLISH ABSTRACT ..........................................................................2
PREMESSA......................................................................................................4
I. OBBIETTIVO DELLA TESI .........................................................................................4 II. TECNOLOGIE DI LIBERTÀ.. DA COSA?......................................................................4 III. I L POTERE............................................................................................................5 IV. IL MESSAGGIO E LA BOTTIGLIA .............................................................................6
CAP. 1 - YES, WE CHANGE..........................................................8
1.1 DIGITAL NATIVE ANTHROPOLOGY .........................................................................8 1.2 DISINTERMEDIAZIONE E RICONOSCIMENTO.......................................................... 10 1.3 DISINTERMEDIAZIONE E COMUNICAZIONE........................................................... 13 1.4 DISINTERMEDIAZIONE E MONDO DEL LAVORO..................................................... 14 1.5 MA CHE SUCCEDE IN CITTÀ? ............................................................................... 17 1.6 LONG TAILS VS POP ECONOMY............................................................................ 18
CAP. 2 - IL POTERE NELLO SPAZIO DEI FLUSSI................................................................................................................................... 23
2.1 ARACNOPOTERE................................................................................................. 23 2.2 LA COSTRUZIONE DEL SIGNIFICATO..................................................................... 26 2.3 LE MOLTITUDINI ................................................................................................. 29 2.4 ADHOCRACY E SOCIAL LONG TAIL ..................................................................... 33
CAP. 3 - LE PIAZZE DEL 2011................................................. 36
3.1 IL PANOPTICON ROVESCIATO: DA SEATTLE A GENOVA......................................... 36 3.2 L’INDIGNAZIONE: IL GRADO ZERO DI SPINOZA.................................................... 39 3.3 KIFAYA .............................................................................................................. 41 3.4 LEGAMI DEBOLI. ................................................................................................ 43 3.5 TWEETNADWA. .................................................................................................. 46 3.6 L’OCCIDENTE, TRA ISLANDA E SINGLES............................................................... 50
CAP. 4 - CONCLUSIONI ............................................................... 55
4.1 LE SALE DEI BOTTONI. ........................................................................................ 55 4.2 ORIZZONTALI E DESIDERANTI. ............................................................................ 56 4.3 IL CARRO ED I BUOI............................................................................................. 58 4.4 TECNOLOGIE DI LIBERTÀ. ................................................................................... 61
BIBLIOGRAFIA ........................................................................................ 64
SITOGRAFIA ............................................................................................... 65
CLOUD .............................................................................................................. 67
2
English abstract
"Technologies for Freedom" is a sentence in Manuel Castells’ "Communication
and power"; they are intended as a "material basis and cultural movements in their
struggle against capitalist globalization", and against the consequent displacement of
decision-making places from democratic instances.
In order to confirm the validity of this statement, this thesis initially wanted to
develop a theoretical approach that would allow to compare the thought of some of the
most important experts in the impact of digital technology on our society and, later, to
verify its compliance in political upheaval that characterized the year 2011.
Trying not to be determinist, we have realized that many of the theories of
authors like Bauman, Castells, John Friedmann, Hardt and Negri, Latouche, Mezza,
Rheingold, Sassen, and others, could contribute to the definition of a single theoretical
framework in which the digital, and particularly the Web 2.0, is actually helping to
create a new man: today, as in italian Rinascimento, is no longer sufficient to stand on
the nineteenth-twentieth century giants’ shoulders, but people claim to be an active
participant in social, economic and political choices.
Beyond the obvious effect of "amplification of informations", there was evidence
that three changes are characterizing people who are questioning the current
arrangements of power, and any change has been associated with a precise method in
digital social use:
· Disintermediation: Awareness of the failures of the short century and acquisition of
new sense of responsibility;
· User-generated content: Analysis and construction of a shared alternative; it consists in
the production of new meaning;
· Adhocracy: The action, the tendency to form spontaneous groups in the network, also
chasing minimum goals; fact that in 2011 took a lot more political characteristics.
Even using the parallelism between the movements of the 2001 Social Forum and
those of 2011, steps were taken to see if what is proposed is theoretically then actually
occurred in the Arab Springs protests, in the indignados and Occupy Wall Street
3
movements. To verify this statement has been used the comments that journalists,
writers and bloggers produced for networks and web.
The conclusion of the thesis is that the dynamics that made the 2011’s protesters
occupy the squares of Arab and Western worlds are not detectable in the protests of
previous years, except for the first period of the 2001 Social Forum, characterized by
spirit of Genoa: the horizontality of the decisions taken both at birth and in the
management of movements, refer to the three steps described above.
4
Premessa
Sommario: I. Obbiettivo della tesi. - II. Tecnologie di libertà.. da cosa? - III. Il potere. - IV. Il messaggio e la bottiglia.
I. Obbiettivo della tesi Obbiettivo di questa tesi vuol essere quello di delineare il contesto in cui si sono
mosse e si muovono le tecnologie digitali nell’ultimo ventennio e di come queste lo
abbiano o meno influenzato; una lunga stringa scritta in codice binario che percorre la
nostra storia e cultura contemporanea: crollo del muro di Berlino, il capitalismo come
unica ed ultima frontiera, capitalismo emozionale e finanziario, le influenze digitali nel
radicamento e/o nell’eradicamento del liberismo, nel cambiamento sociale, nel lavoro,
nell’informazione, nella nascita e sviluppo dei movimenti; sarà nella parte conclusiva
dell’elaborato che si proporranno alcune riflessioni su qualche recentissimo evento
politico e sociale.
II. Tecnologie di libertà.. da cosa?
Nella sua opera più importante, Comunicazione e potere, Manuel Castells parla di
“promessa di reti autogestite rese possibili da tecnologie di libertà” (CASTELLS, pag. 440)
quale base materiale e culturale dei movimenti nella loro battaglia contro la
globalizzazione capitalista.
Intendiamoci: la formulazione utilizzata dallo studioso castigliano è di tipo
sociologico, quasi giornalistico: è la presa d’atto di un sentire comune che pervade i
movimenti anti/alter/no global.
Castells non è certo il primo: non c’è articolo di giornale o servizio televisivo che
non accosti internet o, meglio, web a libertà; questo sentire comune, questo
immaginario collettivo, si ferma, di norma, di fronte alla specificazione di questo
sostantivo, sottintendendo con questo termine tutta una serie di predicati di volta in
volta diversi.
Proprio per questo motivo, non solo per onestà intellettuale ma per meglio
definire l’ambito di questa tesi, mi sento in dovere di puntualizzare che ogni qualvolta
parlerò di libertà, lo farò nel senso proprio dei movimenti citati da Castells.
5
Conscio di essere di parte, di gettare sul piatto presupposti ideologici, così
facendo spero di sgombrare il campo da quelle ambiguità che una vaga definizione di
potere potrebbe comportare: libertà dal potere, ma da quale potere? Dare un volto e un
nome alla cappa di piombo che pare attanagli, soprattutto in questi ultimi dieci anni, il
mondo intero, è, a mio avviso, indispensabile per comprendere i meccanismi che
governano sia le reti materiali che virtuali, sia i tentativi di utilizzo social che di
privatizzazione (normalizzazione, censura?) del web.
Si potrebbe anche fare di più, decidere con chi parteggiare nella diatriba tra chi
vede la globalizzazione liberista quale degenerazione del capitalismo e chi, invece,
come una sua ineluttabile conseguenza; la cosa, ovviamente, non è banale né scevra di
conseguenze sull’analisi qui proposta: capitalismo riformabile oppure no, tanto per
cominciare. Rendendomi conto che discorrere di quanto sopra porterebbe ad enucleare
argomentazioni non propriamente attribuibili all’ambito scelto per questa trattazione,
sempre in nome della ricerca della trasparenza e linearità necessarie, mi limiterò ad
indicare il mio modo di vedere, l’oppure no, rimandando alla pungente definizione di
globalizzazione, esposta dall’economista Frédéric Lordon, nell’articolo pubblicato
recentemente su Le Monde diplomatique:
“la concorrenza non falsata tra economie a standard salariali abissalmente differenti.. la delocalizzazione, il vincolo finanziario che esige redditività senza limiti.. tale da comportare una compressione costante dei redditi salariali.. la presa in ostaggio dei poteri pubblici.. l’esproprio imposto ai cittadini di qualsiasi influenza sulla politica economica.. l’affidamento della politica monetaria a una istituzione indipendente fuori da qualsiasi controllo pubblico.. è tutto questo che si potrebbe chiamare globalizzazione”.
LORDON, (2011) La deglobalizzazione e i suoi nemici, in Le Monde diplomatique,
settembre
III. Il potere
Se può bastare offrire un’immagine plumbea per rendere l’idea di un senso di
oppressione, non altrettanto facile, né sufficiente, è dipingere qualche icona per
descrivere i meccanismi che lo causano. Il digitale, le tecnologie che lo utilizzano, si
possono usare per diradare le nebbie che ho descritto? Provare a rispondere a questa
domanda, è il compito di questa tesi.
6
Perché questa affermazione sia corretta, occorre però sovrapporre oppressione e
potere: occorre, in sostanza, andare oltre la definizione di Stato moderno e di potere
legittimo, razionale-legale che fu data da Weber1, per indagare la deriva ademocratica
che ha caratterizzato il mondo occidentale dal 1970 in poi, deriva che ha condotto, per
l’appunto, ai fenomeni sociali descritti da Lordon, fenomeni che stanno attualmente
deflagrando a seguito del costante arretramento della possibilità che le istituzioni
pubbliche hanno di dirigere o, almeno, di influenzare le macro scelte
economico/finanziarie, nazionali e non.
Qualsiasi risposta non può fare a meno di presupporre l’analisi del dove si
formino le scelte e di quali meccanismi vengano creati nelle dinamiche di (del) potere.
Qui tutto si complica ulteriormente, mettendo in gioco una serie di riflessioni: si passa
dal potere-dominio, “che è potere che è insito nelle [o escluso dalle] istituzioni sociali”
al “ciò che è considerato di valore è definito da relazione di potere.. esercitato con
coercizione o con costruzione di significato” (CASTELLS, pag. 1). Dalla “costruzione di
significato” alla biopolitica di Foucault, ed all’incidenza della comunicazione digitale, il
passo è breve: è Pierre Lévy che ci ricorda che “è come se la digitalizzazione creasse
una sorta di immenso piano semantico, accessibile da ogni punto, che ciascuno può
contribuire a produrre.. ormai l’interpretazione, vale a dire la produzione di senso, non
rinvia più in modo esclusivo all’interiorità di una intenzione.. il senso emerge da effetti
di pertinenza locali.. più che essere interessato a cosa abbia pensato un autore
introvabile, chiedo al testo di far pensare me, qui e ora. La virtualità del testo alimenta
la mia intelligenza in atto” (LEVY, pagg. 39-40).
IV. Il messaggio e la bottiglia
A questa premessa manca ancora almeno un tassello: tecnologie.. quali? E’ palese,
dato l’ampio dibattito presente su tutti i media, che ci si riferisca al digitale e,
soprattutto, alla sua massima “rilevanza” in termini di Ugc2: sua maestà il web, con la
sua corte fatta di “autocomunicazione di massa” (CASTELLS, pag. 64 e segg.). Si tratta,
pertanto, di fare una forzatura, riducendo la tecnologia digitale, nel suo complesso, ad
un unico suo aspetto, anche se credo che questi possa essere considerato il più rilevante.
1 in BAGNASCO, BARBAGLI, CAVALLI, Corso di sociologia, Bologna, 1997, pag. 54 e segg. 2 User Generated Content
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Un’ulteriore, ultima, presa di posizione: se vogliamo analizzare quanto e come
alcune applicazioni del digitale possano agire o meno sulle opinioni, abitudini e scelte
delle persone che le utilizzano, non possiamo fare a meno di affrontare la vexata
quaestio propostaci da McLuhan: il medium è il messaggio?
Per rispondere a questa domanda mi affido alle articolazioni offerte da Castells, il
quale afferma che “un mezzo, anche un medium rivoluzionario come questo [internet],
non determina il contenuto e l’effetto del suo messaggio..[anche se] ha la potenzialità di
rendere possibile una illimitata diversificazione e produzione autonoma di gran parte dei
flussi di comunicazione che danno luogo a significato nella mente pubblica” (CASTELLS,
pag. 81), e dalla sociologa Saskia Sassen, che relativizza in modo ancor più marcato il
concetto, sostenendo che la relazione tra digitale e sociale tende ad essere caratterizzata,
di norma, o da determinismo tecnologico [riferendosi alle posizioni vicine a McLuhan]
o da indeterminatezza, con la conseguenza di presentare la tecnologia quale variabile
indipendente che funziona come una specie di scatola nera che non viene mai presa in
esame; occorre pertanto andare oltre: “Utilizzo il termine “embricature” per significare
l’interazione non caratterizzata né da determinismo tecnologico né da indeterminatezza..
digitale e sociale possono modellarsi e condizionarsi a vicenda, rimanendo però
ciascuno specifico e distinto… ciascuno ha effetto sull’altro senza però ibridarsi”
(SASSEN, pag. 228).
Embricatura, quindi, termine ripreso dagli embrici dei tetti: sovrapposti, non
corpo unico. La docente della Columbia University esplicita meglio il suo concetto con
un esempio, là ove afferma che “molti componenti digitali dei mercati finanziari sono
modellati dalle agende che orientano la finanza globale” (SASSEN, pag. 230); il percorso è
biunivoco: reale e virtuale/digitale si influenzano reciprocamente. L’avvistamento in
mare di una bottiglia galleggiante può rappresentare di per sé un messaggio ma epoca
storica e latitudini sono molto importanti per stabilirne, con buona approssimazione, il
contenuto.
8
Cap. 1 - Yes, we change
Sommario: 1. Digital native anthropology. - 2. Disintermediazione e riconoscimento. - 3. Disintermediazione e comunicazione. - 4. Disintermediazione e mondo del lavoro. - 5. Ma che succede in città?. - 6. Long tails vs pop economy.
1.1 Digital native anthropology
Prima di arrivare ad avanzare ipotesi circa l’impatto del digitale sugli attuali
sistemi economico-politici, intesi come potere, credo sia opportuno proporre un rapido
excursus su quanto esso abbia inciso, in questi ultimi venti anni, sugli aspetti
antropologici e sociali.
L’analisi proposta in questo capitolo non può che essere anticipata dalle solite
raccomandazioni: tutto ciò che può essere indicato come effetto delle nuove tecnologie
va inteso come tendenza; guai a dimenticare che metà della popolazione terrestre non ha
mai fatto una telefonata - altro che chattare! - o che tantissimi tra i pensionati
dell’entroterra genovese non possono essere ascritti alla tribù del pollice. Un nettissimo
digital devide, quindi, territoriale, sociale, generazionale, che non deve però far
dimenticare che “ogni persona che muore è un utente dei media tradizionali,
broadcasting, un potenziale couch-potato, mentre ogni bambino che nasce sarà sempre
di più fruitore di una comunicazione asincrona, spesso offline e nomadica e, soprattutto
un prosumer”3.
Cambiamenti antropologici, dicevamo. La letteratura, scientifica e di
intrattenimento, la sociologia, l’economia, il marketing: ogni microgrammo di
inchiostro od ogni byte speso da chi abbia voluto cimentarsi nella descrizione di quanto
ci abbia travolto negli ultimi venti anni, è stato usato per descrivere “cambiamenti”;
volendo cercare differenze, le potremo trovare solo tra chi propende per cambiamenti
limitati e chi per la radicalità del fenomeno, tra chi ne accentua il beneficio e chi,
invece, li descrive come minaccia per un umanesimo in precedenza faticosamente
conquistato.
3 Concetto più volte ripetutomi dal professor Michele Mezza; Il termine prosumer è stato coniato da Alvin Toffler, nell’ormai lontano 1980 e sta a significare la convergenza, in un unico soggetto, di produzione e consumo di contenuti.
9
Glissando sugli adattamenti più psicofisici che culturali alle nuove tecnologie,
quali, per esempio, “un’aumentata tolleranza retinica al fluire delle immagini” (MEZZA,
2011, pag. 61), troviamo unanimità di vedute nella constatazione del cambiamento della
percezione che le giovani generazioni hanno delle dimensioni fondamentali di tempo e
spazio.
Riferendoci allo spazio, possiamo citare il concetto di simultaneità spaziale di
Rheinglod, parente stretto di quello che Castells definisce lo spazio dei flussi “luogo in
cui praticare la simultaneità senza contiguità4” (CASTELLS, pag. 33). Unitamente a quello
che quest’ultimo studioso definisce, con splendido ossimoro, il tempo acrono5, sarà
proprio questa concezione di (non)spazio e di fusione tra le due dimensioni, che negherà
la sequenzialità, cioè l’ineluttabile, infinita catena causa-effetto, di positivista memoria,
intorbidendo con ciò le differenze tra passato, presente e futuro, plasmando quell’essere
[il digital native] che cancella il divenire, cioè il tempo della natura, “la long durée6”
(CASTELLS, pagg. 33-34). Chissà cosa direbbe oggi Heidegger; chissà dove immaginerebbe
il suo dasein7.
Se il sociologo emeritus di Berkeley ci offre alcune potentissime chiavi di lettura,
è il saggista Howard Rheingold che parla di “telefonino come telecomando della vita”
(RHEINGOLD, pag. 309), attore di una propria cultura urbana e di nuovi stili di vita, di un
tempo flessibile che conduce a una vita meno pianificata, pregna dell’ horror vacui verso
una qualsiasi stasi del proprio interfacciarsi col mondo, di una antropormorfizzazione
della tecnologia, che troverà la sua massima espressione in Clark e nella sua
coevoluzione, dimensione nella quale i nostri cervelli, cyborg loro stessi, realizzeranno
una simbiosi uomo-macchina, tale da far dire all’autore che “le tecnologie cognitive
renderanno difficile tracciare una linea di divisione fra strumento ed utente… Mindware
upgrades” (RHEINGOLD, pagg. 329-330): Una sorta di non-so-quanto-desiderabile bio-
ubiquious computing, presumo.
4 Rappresenta una nuova concezione di tempo, da affiancarsi ai tradizionali tempi biologico, sociale/burocratico e disciplinare (natura, istituzioni, lavoro ed economia), quest’ultimo ripreso dalla tradizione foucaultiana , come dichiarato dallo stesso autore. 5 E’ quello della gratificazione immediata: è il tempo dei potenti. 6 E’ Pierre Levy, invece, che afferma che “Ogni nuovo mezzo di comunicazione o di trasporto modifica il
sistema delle prossimità concrete.. ogni macchina tecnosociale aggiunge uno spazio-tempo, una cartografia specifica.. gli spazi si biforcano sotto i nostri piedi, costringendoci all’eterogenesi“: (Levy, pagg. 12-13). 7 HEIDEGGER, Essere e tempo, 1927; termine tradotto con esserCi, nel senso di essere gettato, scagliato nell’esistenza, la consapevolezza del quale provoca in noi un ontologico spaesamento.
10
Che dire poi delle new entry, almeno per i digital immigrant, augmented reality,
magari con proiezione retinica, e dell’app-mania8? Con questi giungiamo finalmente
all’oggi, alla società always on: analizzarne le ripercussioni sposta il nostro sguardo dai
cambiamenti antropologici a quelli sociali, facendoci avvicinare al cuore di questa
trattazione.
1.2 Disintermediazione e riconoscimento Da dove cominciare? Tali e tanti sono i contributi forniti sui cambiamenti indotti
dalle nuove tecnologie, che il problema è quello di individuare cosa salvare dalla falce
dello spazio e del tempo (sociale/burocratico) disponibili.
Va da sé che, se vogliamo parlare di tecnologie di libertà, non possiamo limitarci
a discorrere di aumento dell’estensione della bolla informativa di Goffman, che
circonda ognuno di noi; se “si vive con internet9” (CASTELLS, pag. 72), dobbiamo
analizzare quanto questo normalizzi o scompagini le società reali, anche se, come
vedremo, uno dei principali nodi da dirimere sarà proprio quello relativo alle nuove
forme di comunicazione.
Una prima riflessione riguarda le modifiche che il digitale può aver apportato
alle modalità di interazione tra le persone, soprattutto negli ultimi anni, nel corso dei
quali la posta elettronica, regina della comunicazione digitale degli anni ’90, è stata
soppiantata da chat e social network. Sono molti gli autori che pongono l’accento su
come si sia sviluppato un nuovo individualismo reticolare, spesso ritenuto altro, se non
una vera e propria evoluzione, rispetto alle vecchie culture solidaristiche di stampo
socialista, religioso o new frontiers alla Toqueville, che fossero.
Fondamentale, in quest’ottica, è il concetto secondo il quale la tendenza
massificante, conseguenza dell’organizzazione produttiva necessaria ad un’economia
classica, fordista, atta a produrre ed a porre le condizioni per invogliare la richiesta di
prodotti di massa, aveva plasmato un habitus mentale, divenuto tipico delle classi
subalterne, forma mentis per la quale l’individuo stesso veniva ad essere sacrificato in
nome della classe stessa: in altri termini, secondo questi autori, è solo tramite il 8 sommarie informazioni su questi temi nella mia presentazione su slideshare.net/giovanniferretti/ /fonti-informative-digitali-6771489 9 “ la maggioranza della popolazione delle società avanzate e una percentuale crescente del terzo mondo
vive con internet.. per il lavoro, per i contatti personali.. per l’informazione, l’intrattenimento, per i servizi pubblici, per la politica e la religione”
11
processo di identificazione e annullamento della propria individualità che l’operaio otto-
novecentesco poteva pensare di migliorare la propria condizione sociale o, almeno, le
proprie immediate condizioni di vita materiale.
E’ all’interno di una società di questo tipo (operai massa che producono beni di
massa per un’economia in buona parte nazionale, almeno nei Paesi del primo mondo)
che deflagra il narcisismo dei social network (MEZZA (a cura di) 2009, pag. 105).
Col narcisismo, però, siamo già alle conseguenze del processo che conduce alla
società individualizzata che viene descritta (Bauman citato in MEZZA (a cura di) 2009).
Se vogliamo trovare il processo-motore del cambiamento sociale, ma anche
economico e politico, dobbiamo guardare alla disintermediazione: ad un mondo basato
sulla comunicazione di massa, sui partiti e sui sindacati di massa, si sostituisce un
mondo nel quale le tecnologie digitali consentono di produrre autonomamente
contenuti, di renderli disponibili per l’intero genere umano (digital devide permettendo)
e, ovviamente, di poter scegliere, in piena autonomia, a quale fonte informativa
abbeverarsi.
Si coniano neologismi, quali il già citato prosumer o lo spettautore (MEZZA, 2011,
pag. 62), e saltano le mediazioni: si frantumano gli specchi10, “siamo alla scomposizione
sociale…. è l’individuo che diventa motore e cultura di un intero sistema di sviluppo, di
produzione.. tutto questo ha origine, per Bauman, dalla scomposizione del lavoro
industriale di massa… dalla fine della trimurti concettuale: consumi di massa,
produzioni di massa, comunicazione di massa” (MEZZA, PELLEGRINI 2007, pag. 24).
Zygmunt Bauman, nell’analizzare la “sua” società liquida, frenetica, insicura,
legata al consumo e non alla produzione, non si limita certo ad indicare come le nuove
forme di rapporto interpersonale siano ormai dominate dalla ricerca del minimo sforzo
cognitivo e sociale, se non addirittura emozionale: social network che piegano legami e
impegni sociali, sino a farli sentire come foto istantanee e non come condizioni stabili
[comunque impegnative da gestire]; ricerca di persone con interessi simili, motivata
anche dalla scarsa propensione a frequentare menti dissimili (ricerca di chi ha interessi
10
DE KERCKHOVE, in MEZZA, PELLEGRINI 2007, pag. 9: prendendo spunto da Borges, Michele Mezza narra un mondo dove gli specchi si rifiutano di riflettere le immagini date da altri e fanno di testa loro. Il nuovo specchio è lo schermo, e attraverso lo schermo stiamo trasformando i nostri ruoli.. è l’estensione della coscienza attiva; per l’immaginario (TV), per il pensiero (calcolatore), per la coordinazione corpo-mente-macchina (videogioco) o per la collaborazione (internet) o ancora per la convergenza di tutte le forme di comunicazione umana (smart mobs)
12
sovrapponibili ai propri ed appartenenza a molte comunità, ma “esclusione del dialogo
inter-comunitario)” (BAUMAN , pagg. 183 e segg.).
Non è certo una visione ottimista, come non lo è quella che ne consegue:
Bauman parla di centralità della lotta per il riconoscimento, contrapponendola alla,
perdente e perduta, almeno per lui, lotta di classe (DE KERCKOVE in MEZZA, 2011, pag. XI).
Qui mi permetto di dissentire, almeno parzialmente: la lotta per il
riconoscimento non è certo concetto nuovo: di “esigenza del riconoscimento” si parla
diffusamente già nella hegeliana Fenomenologia dello spirito11: la necessità di essere
riconosciuti in quanto uomini, soggettività riconosciuta, humanitas; individui tra
individui, per l’appunto.
In senso lato, il riconoscimento di Hegel non ha impedito il nascere, e
permanere, della lotta di classe: vero è che non esisteva, al tempo, una estesa rete
mondiale, ma è altrettanto vero che la lotta per il riconoscimento permeava persino le
oligarchie degli Stati a socialismo reale12. Preferisco, anche per questi concetti, tornare a
riferirmi alle embricature della Sassen, forzandone forse un po’ il senso, ma togliendo
quell’alone di determinismo tecno-logico/cratico che mi pare permei l’affermazione di
Bauman.
Può essere che l’autocomunicazione di massa, non solo nelle sue più alte
modalità di fruizione, possa influire sulle forme di solidarietà, rimodellarne le cause, ma
da questo al dichiarare la fine della lotta di classe, il passo è troppo azzardato.
Si dovrà giocoforza tornare su questi argomenti; al momento, è sufficiente
rispondere alla constatazione di chi afferma che le lotte sindacali nel mondo segnano il
passo, citando Tortorella, quando riporta la frase di Buffet, il più ricco miliardario
americano: “ma certo che c’è sempre stata la lotta di classe. E l’abbiamo vinta noi 13”.
11 HEGEL, La fenomenologia dello spirito, 1807 12 prova ne sia che, evaporati quei sistemi, i dirigenti di partito si sono subito trasformati in capitani d’impresa. 13 TORTORELLA, Lavoro e libertà, in Critica marxista, 6-2011, www.criticamarxista.net/articoli/6_2010tortorella.pdf
13
1.3 Disintermediazione e comunicazione Se prendiamo per buona la definizione secondo la quale “l’ordine di interazione di
Goffman è il luogo in cui le azioni individuali possono influenzare le soglie di azione
delle folle” (in RHEINGOLD, pag. 276), se, in altri termini, partiamo dalla sua teoria
sociologica sulle modalità di interazione tra gli individui e visualizziamo la sua bolla
informativa, luogo della presentazione del sé, della vita sociale, sino a pochi decenni fa
caratterizzata quasi esclusivamente da interazioni faccia a faccia e a viva voce,
dobbiamo prendere atto che questa si è enormemente ampliata, sia a causa delle
informazioni che ci possono essere fornite da proximity aware, applicazioni sensibili
alla vicinanza (Ibidem), sia dalla possibilità di lasciare le nostre tracce in rete.
Ovviamente, se è nostra intenzione essere seguiti, riconosciuti, se non in quanto soma,
almeno in quanto seme. E, autistici digitali a parte, altrettanto ovviamente, questa è
l’intenzione dei prosumer.
Siamo all’auranet di Rankin, o alla “noosfera, rete del pensiero attivo e pulsante”
(MEZZA, PELLEGRINI 2007, pag. 90); possiamo usare il sostantivo che più ci aggrada,
scivolare tra le sfumature che differenziano i concetti ma di sicuro c’è che l’esplosione
delle Ugc ha frantumato gli specchi della comunicazione massmediatica. Su questo non
ci piove, lo dicono le statistiche: sempre meno persone comprano giornali e/o si
informano attraverso la televisione broadcasting, sempre più sono quelli che si
informano attraverso media digitali, siano essi di nuovo tipo (newsletter, blog, Tv Ugc,
Tv tematiche), siano essi rivisitazioni di media tradizionali (periodici ondine, siti delle
Tv generaliste).
Se si calcola che “nei primi tre anni del terzo millennio sono circolate nel mondo
più informazioni che nei precedenti tre secoli” (PRATELLESI, pag. 13), che le tirature e gli
ascolti dei media tradizionali sono rimasti, ad essere ottimisti, stabili, ci rendiamo conto
di quanto imponente sia il cambiamento intervenuto nel mondo della comunicazione.
Intendiamoci: i vecchi media stanno facendo di tutto per mantenere la centralità
informativa, la valenza della propria mediazione, e non solo attraverso risposte
tecnologiche quali la reach Tv (e cinema) dell’hight quality e del 3D: “osserviamo il
prolungamento di una fase di transizione, in cui le nuove e le vecchie forme della
comunicazione si intrecciano e si sovrappongono, in un doppio movimento di
adeguamento dei media generalisti ad alcuni stilemi dell’innovazione (la Tv che si apre
14
ad una maggiore offerta di canali, pur rimanendo Tv) e di incorniciamento di alcune
tradizionali strutture di senso nelle nuove piattaforme (ad esempio il recupero di un
formato generalista, come il portale, per gestire la cultura disordinata del web)”
(ABRUZZESE, MANCINI , pagg. 250-251). Ed è anche vero che i nuovi media rimediano i
vecchi, attraverso le strategie indicate da Bolter e Grusin, “definendo il proprio
significato culturale in riferimento a tecnologie già affermate” (BOLTER, GRUSIN, pag. 305).
Ma è anche vero che, nonostante quanto sopra, occorre prendere atto che i nuovi media
digitali hanno la capacità di dilatare a dimensioni planetarie la nostra
bolla/noosfera/auranet, modificando, almeno potenzialmente, “le soglie di
partecipazione all’azione collettiva” (RHEINGOLD, pag. 282).
Azione collettiva = massa? No. Anzi! Quasi tutti gli autori citati in questa tesi
propendono per l’esatto opposto: la rottura degli specchi, la disintermediazione,
colpisce in primo luogo la massificazione, ovunque essa si nasconda, sia essa nel mondo
del lavoro che nei stili di vita e di consumo, sia essa nel gruppo amicale o nell’azione
politica.
Più spostiamo l’attenzione dal digitale “in astratto” alla rete, più incontriamo lo
sguardo di nuovi soggetti: le vespe di Panama di Bauman, l’individualismo reticolare di
Rheingold, gli spettautori di Mezza, le moltitudini di Hardt e Negri, i freelance di
Bologna e Banfi, i comunalisti di Castells. Sono gli abitanti o, meglio, i costruttori di un
nuovo neoumanesimo digitale (MEZZA, 2011 pagg. 21 e segg.), fatto di individualismo
cooperativo, decisivo per di-svelare la vera natura, cooperativistica, del genere umano14.
1.4 Disintermediazione e mondo del lavoro
Almeno in parte, Saskia Sassen si discostata da questa interpretazione, un po’
per l’oggetto della sua opera, per il quale il digitale mi pare risulti più un dato di fatto
che un elemento d’analisi, un po’ perché quando si spinge ad analizzare le forme di
reazione alla globalizzazione, finisce col dar fiato agli abitanti delle sue città globali,
vissute sicuramente da freelance occupati nella new economy e nelle reti finanziarie
14
Rheingold ci parla delle teorie dell’anarchico russo Kropotkin (è il governo a reprimere la nostra naturale tendenza a cooperare - pag. 79) e dei risultati ottenuti dalle ricerche sociologiche attraverso la teoria dei giochi (il dilemma del detenuto ed altri giochi a somma-non-zero, (RHEINGOLD, pag. 87 et al.)
15
sovraistituzionali, extraterritoriali, i cosiddetti no-collar15, ma anche dagli svantaggiati,
dagli “uscieri dominicani di Wall Street” (SASSEN, pag. 108), licenziati in massa
all’esplosione della crisi del 1987: sono loro che sono i più inseriti in un luogo di lavoro
globale “dato che i centri finanziari internazionali, come le sedi delle multinazionali,
dipendono concretamente da un ampio ventaglio di lavoratori e imprese più di quanto
non si creda normalmente.. un capitalismo avanzato che produce un evidente
collegamento alla località delle nuove classi professionali globali e l’evidente globalità
della nuova forza lavoro svantaggiata… e quindi più indicativi del futuro che non di un
passato arretrato” (SASSEN, pagg. 182-183).
Visto che elemento centrale di questa tesi è quello di mettere in relazione digitale
e potere, niente male ri-trovare Cipputi nel cuore dell’Impero16.
Ma è lo stesso Cipputi di fordista memoria? E’ l’operaio-massa? O il digitale ha
cambiato anche lui?
Non conosco risultati di ricerche volte a stabilire i gusti ed i comportamenti degli
internauti, suddivisi per classe sociale e per scolarizzazione. Certo sarebbe davvero
interessante controllare l’esistenza o meno di un maggior uso sociale del digitale.
Azzardando un’ipotesi, posso asserire che francamente ne dubito: a maggior livello
culturale, maggior consapevolezza delle potenzialità del mezzo. Ma forse qui si
nasconde una vena pessimistica che mi trascina verso una, indesiderata, deriva
avanguardista, di gramsciana memoria.
Comunque, anche un esito diverso della ricerca non basterebbe a certificare che
gli svantaggiati abbiano preso armi e bagagli e che si siano trasferiti nella web class,
“luogo in cui nascono socialmente le class action e la cooperazione tra intelligenze”
(BOLOGNA, BANFI, pag. 42).
Meglio partire dall’evidenza della cronaca: è questa a parlarci di delocalizzazione,
soprattutto di quei lavori richiedenti bassa professionalità, in un panorama mondiale di
crescita numerica di quella che era definita classe operaia. E’ sempre la cronaca,
soprattutto quella locale, territoriale, da TG3 Regione, che periodicamente fa emergere
la difficoltà di chi, ai margini della catena produttiva, prova a difendere il proprio posto
di lavoro e la dignità del proprio ruolo.
15 BOLOGNA e BANFI, pag. 105: altra cosa rispetto ai tradizionali white o blue collar; indica i freelance. 16 HARDT, NEGRI, Impero, (2003)
16
E’ un lavoratore disintermediato, che non si riconosce nel sindacato? Ha
atteggiamenti culturali diversi da quelli dei suoi nonni? Anche i minatori inglesi del
1800 erano individui che cooperavano per i loro singoli interessi (MEZZA, 2011, pag. 12);
anche i braccianti agricoli inglesi difendevano i beni comuni. Senza rispolverare la
differenza marxista tra classe in sé e classe per sé, richiamando la già citata
affermazione del miliardario americano Buffet, si può concordare con chi afferma che,
digitale a parte, “è la stessa incertezza sul lavoro che è un potente fattore di
individualizzazione” (BAUMAN in MEZZA, 2011, pag. 138). Se a questo aggiungiamo che
“l’individualismo è diverso da egoismo, è un arcipelago e non un’isola” (in MEZZA,
2011), se, in definitiva, sommiamo le disillusioni da sconfitta alla perdurante, anche se
declinata diversamente, solidarietà, potremo trovare che le ricadute della società in rete
potrebbero limitarsi, in questo ambito, ad una fiducia data oggi solo pro tempore , una
fiducia non ideologica, che gli svantaggiati offrono ai propri mediatori (politici e/o
sindacali).
Il Cipputi del XXI secolo è, almeno nel cosiddetto mondo industrializzato, un
lavoratore che ha progressivamente perso di vista la classe per sé e che, dati gli
oggettivi rapporti di forza, ha seri problemi nel chiedere il riconoscimento dei diritti sul
lavoro goduti dai propri padri: un proletario molto meno ideologizzato e, in questo
anche aiutato dalla net culture, poco propenso ad offrire certificati in bianco verso
qualsivoglia mediatore. Per questo aspetto, sì: siamo abbastanza lontani dall’operaio-
massa; siamo, all’opposto, in un benthamiano panopticon rovesciato, all’interno del
quale la parola fiducia assume un rilievo del tutto nuovo.
Se sul net trovo tutte le interpretazioni che voglio, relative a qualsiasi evento o
situazione, se, consciamente o meno, mi rendo conto del ruolo dei mediatori, sono
sicuramente più portato a verificarne le affermazioni ed a misurare i risultati. In questo
senso, ciò che il mondo del lavoro ci ricorda è che la filosofia dei social network è
basata sulla creazione delle webs of trust (RHEINGOLD, pag. 191), sulle reti di fiducia e sulla
loro misurazione: eBay docet.
17
1.5 Ma che succede in città?
Non si può parlare di relazioni di potere senza guardare a cosa succede nel mondo
del lavoro, non si può parlare del lavoro senza parlare di economia. Urge, quindi,
almeno accennare a tre concetti, all’interno dei quali le nuove tecnologie in esame
hanno giocato (e giocano) un ruolo di primaria importanza, per di più foriero di
(potenziali?) pesanti ripercussioni in quella che potremo definire la sfera del potere: la
globalizzazione, la teoria della lunga coda e la recente tendenza a trasformare beni in
servizi.
Cosa c’entra il digitale con la globalizzazione? Lapalissiano: senza le reti digitali,
la globalizzazione sarebbe molto più difficile, se non addirittura impossibile, da gestire.
Con ciò, siamo entrati nel campo dell’uso privato della rete, in un mondo fatto di
software proprietari, finanziari e no, crittografia e password, magari con l’aggiunta di
una spolverata di marketing tipo web 1.0.
La globalizzazione, risultante della dematerializzazione digitale, ha riconfigurato
la geografia politica ed economica planetaria ed ha inciso, conseguentemente, sui
metodi di gestione e di equilibrio del potere previsti dagli ordinamenti democratici.
Lasciamo al prossimo capitolo questa trattazione; occupiamoci, per ora, alla guisa di
premessa, di quanto affermato da Sassen, sicuramente una delle più grandi analiste della
globalizzazione, soprattutto per quel che concerne il misconosciuto, permanente
rapporto tra globalizzazione e luogo.
Sassen afferma che la dematerializzazione (digitale) è fondamentale
nell’incremento della mobilità del capitale e, di conseguenza, nel cambio della relazione
tra imprese e Stato-nazione; questo è considerato un mero effetto della tecnologia,
anche se, per avere mobilità e digitalizzazione occorrono molteplici condizioni, quali un
certo tipo di infrastrutture e di leggi. La globalizzazione, pertanto, non è solo una
risultante della tecnologia. Senza contare, poi, che “occorre cogliere il concetto di logica
sociale che organizza l’embricazione: molti componenti digitali dei mercati finanziari
sono modellati dalle agende che orientano la finanza globale, agende di per sé non
tecnologiche” (SASSEN, pagg. 228 e segg.).
Perché tornare a una delle embricature della Sassen? Perché afferma che la
globalizzazione ha radici nel territorio; perché dice che “quanto più l’impresa si
18
globalizza tanto più crescono le sue funzioni centrali” (SASSEN, pag. 59), ridando peso
contrattuale e voce agli svantaggiati “che sono più globali e più indicativi del futuro che
non di un passato arretrato” (SASSEN, pag. 181), creando le reti di città globali; e,
soprattutto, perché afferma che le nuove ICT17, “ soprattutto l’accesso pubblico ad
internet, hanno rafforzato la politica dei luoghi ed hanno ampliato la geografia dei
membri attivi della società civile, includendo anche le località periferiche” (SASSEN, pag.
186).
Riassumendo: digitale come uno dei fattori che hanno permesso la globalizzazione
ma, per caratteristiche sia intrinseche (aumento funzioni centralizzate) che estrinseche
(ruolo nuovamente accresciuto delle periferie geografiche e sociali), economia globale
ancora collegata-al e contrastabile-dal territorio; anche grazie alle ICT.
1.6 Long tails vs pop economy
Analizzare la caratteristica globale dell’economia non significa solo studiare le
ripercussioni derivanti dall’aver a che fare con competitors soggetti a discipline
legislative, sociali, culturali e sindacali diverse dalle proprie, significa, prendere atto che
la globalizzazione stessa ha cambiato la natura stessa della merce, del prodotto.
Anche il concetto-cuore dell’economia ha subito la sua bella frantumazione degli
specchi: da un mercato di massa, a una massa di mercati. E’ Chris Anderson a coniare il
termine lunga coda, long tail18, utilizzandolo per descrivere la linea dei vari grafici
prodotto/fatturato, tendente a infinito, e la successiva constatazione che, a livello
globale, i mercati di nicchia valgono, nel loro insieme, tanto quanto il fatturato dei
brands.
Tra chi analizza il concetto di lunga coda, troviamo tantissimi pensatori che lo
interpretano come segno di liberazione: non più McDonald’s quale letto di Procuste del
gusto planetario, non più foresta amazzonica tagliata per far pascolare le McVacche,
non più McJobs, e via dicendo. Come non essere d’accordo?
Qualsiasi cosa serva a decretare l’inutilità di quegli strateghi del marketing che ci
informano su cosa dobbiamo desiderare (ed acquistare), sia la benvenuta; come ben
17 Information and communication technologies 18
ANDERSON, The long tail, in Wired magazin, oct 2004
19
accetta è qualsiasi linea di resistenza sulla quale attestarsi a difesa delle culture
(pratiche, saperi, sapori) locali: sia il multiculturalismo che il più amalgamante
meticciato culturale vivono delle/nelle differenze.
Ciononostante, non si può fare a meno di pensare che, pur nella comprensione del
suo aspetto liberatorio, l’economia disegnata dalla teoria della lunga coda sia ancora
confacente al sistema (al potere?), sia ancora figlia del web 1.0.
Più nel dettaglio: soprattutto da italiani, da cultori del gusto e dei prodotti di
nicchia, dovremo essere contentissimi del fatto che il mercato della prescinsêua19 possa
estendersi al Nepal?
Oggi, i requisiti perché ciò avvenga ci sono tutti: un sito che spiega cosa sia la
prescinsêua20, la possibilità di ordinarla e di averla a Kathmandu.
Magari un po’ stantia, ma si può far arrivare. La rete fa miracoli. Ma è questa la
liberazione che vogliamo21?
Il digitale, nella sua versione vetrina, propria del web 1.0, ha fatto certamente
compiere una piroetta all’economia uscita dal secolo breve; una piroetta che può
definirsi salutare, per molti versi, ma che presenta due grossi limiti: se ridefinisce,
ampliandola, la titolarità del gusto (in senso estetico: il bello, il desiderabile), e se in
parte intacca i rapporti di produzione e, di conseguenza, il potere, favorendo le piccole
produzioni a scapito delle multinazionali, non mette al centro del (nuovo) modello di
consumo la sostenibilità e non scuote il concetto di merce.
Per quel che concerne il primo aspetto, l’accento va posto su un tasto, spesso
relegato all’analisi dei massimi sistemi e dimenticato allorquando si tratti di
pensare/programmare una qualsivoglia attività economica, soprattutto in tempi di crisi:
la sostenibilità.
Confessando a capo chino la propensione per le ricette proposte dalle varie Teorie
della decrescita22, soprattutto nella loro declinazione Felice23, ammetto che proprio non
19 Tipico formaggio del genovesato 20 www.agriligurianet.it/ 21 “Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito è un pazzo. Oppure un economista” BOULDING, citato in BERTORELLO, CORRADI, pag. 130. 22 termine coniato dall’economista contemporaneo Nicholas Georgescu-Roegen. 23
in PALLANTE , 2005; da considerarsi nell’accezione proposta da BERTORELLO, CORRADI, pag. 139: “ l’idea di una decrescita felice che non metta in discussione la struttura capitalistica dell’accumulazione ci sembra trovi una clamorosa smentita nell’attuale decrescita evidentemente infelice per milioni di persone e neanche particolarmente allegra per l’ambiente”.
20
riesco a trovare auspicabile un mondo in cui container zeppi di focacce col formaggio
(che dovrebbero essere prescinsêua-farcite) dirette in Cina, si incrocino, al largo di
Gibuti, con navi cisterna traboccanti di acqua minerale naturale proveniente da una
sorgente di Pyongyang, ricca di argento solubile, dirette a New York.
Questo, dando per scontato che le emissioni delle rispettive ciminiere non
contribuiscano, per quel tanto che serva, a far sgelare l’artico e ad aprire il famoso
passaggio a Nord Ovest, cosa che renderebbe superfluo (e povero) Gibuti, oltre che
l’intero mediterraneo.
No. Credo che il contributo del digitale alla trasformazione del concetto di merce,
di roba, verrebbe da dire, citando Verga, venga maggiormente da quello che è definito
essere il web 2.0, ovverosia, il regno dei prosumer.
Maurizio Pallante offre una bella immagine dell’economia, disegnata come una
figura composta da tre cerchi concentrici: il più interno, piccolino, è quello della
autoproduzione dei beni, quello intermedio rappresentante l’area degli scambi non
mercantili24, il terzo, quelli mercantili. Se l’economia capitalistica cerca di fare in modo
che il cerchio esterno, quello dell’economia mercantile, fagociti quelli più interni, la
Teoria della decrescita si struttura quale spinta centrifuga, tendente a far gonfiare gli
anelli interni a discapito di quello esterno (che, di suo, più di tanto non può espandersi).
Bell’immagine. E il digitale? Il digitale o, meglio, i social network, entrano in
gioco con la lettura degli articoli, pubblicati su Wired.it, “L’economia del mutuo
soccorso25” e “Pop economy: la nuova economia è partecipativa26”. Se l’articolo di
Loretta Napoleoni vaglia le basi teoriche, i mutamenti reali indotti dalla rete, è Alessio
Lana che, sintetizza, e rilancia la visione: “Come nello shopping sta prendendo piede lo
swapping (una sorta di baratto su Internet), così nell’attuale panorama sociale
crescono sempre più comunità virtuali come eBay o Swaptree, in cui la gente scambia e
vende di tutto. Fenomeni che l’individualismo degli anni ’80 non avrebbe neanche
saputo spiegare27”.
24 Amicali; in senso lato, rifacentesi alla Teoria del dono di Mauss 25 NAPOLEONI L., L’economia del mutuo soccorso, in Wired.it, dic. 2010 26 LANA, Pop economy: la nuova economia è partecipativa, in Wired.it, Ibidem 27 Ibidem, http://mag.wired.it/news/storie/pop-economy-la-nuova-economia-e-partecipata.html
21
Swap, baratto: è il cerchio di mezzo che toglie aria a quello esterno. E’ il core
dell’economia informale, ben disegnata da Serge Latouche28.
Ma “..se swap è una parola chiave, share è sua sorella. Bike, car, house, file, tante
le parole che si sono avvicinate al verbo share, condividere. Un accostamento frutto
della rivoluzione dal basso nata dai millennium, i figli dei super-egoisti baby boomers,
scrive l’economista [Napoleoni], una generazione nata a cavallo tra gli anni Settanta-
Ottanta che all’indomani della crisi del credito ha voltato le spalle all’individualismo
neo-liberista”29.
Scrive Loretta Napoleoni:
“Si tratta di una vera rivoluzione sociale, la prima che dal dopoguerra ridisegna i comportamenti economici e sociali occidentali. Un solo esempio: il bike sharing è diventato il mezzo di trasporto globale che si espande di più.. e tutto ciò avviene senza che ad ispirarla sia stata una teoria economica, al contrario questo cambiamento proviene dal basso e si sviluppa nel quotidiano… Lo scambio e la condivisione rimpiazzano il consumismo sfrenato degli ultimi vent’anni scardinando così un’economia per la quale si è solo e sempre un soggetto passivo: un consumatore… l’economia partecipativa aiuta a rimpinguare gli scarsi redditi. E quando ci si sa organizzare e autoregolarsi le comunità funzionano meglio dello Stato. È quello che ci ha insegnato Elinor Ostrom,vincitrice nel 2009 del premio Nobel per l’economia… «Condividere è pulito, postmoderno, urbano e progressivo», scrive Mark Levine sul New York Times. «Il possesso è noioso, egoista, timido e arretrato»… Potenzialmente la condivisione dei beni è un concetto rivoluzionario tanto quanto lo è stato due secoli fa la nascita del sindacato… Come quella capitalista e marxista, anche l’economia partecipativa è essenzialmente a scopo di lucro: nel 2009 Netflix ha fatturato ben 116 milioni di dollari di profitti, e naturalmente tutte e tre ruotano intorno al controllo dei mezzi di produzione. Se oggi Carlo Marx fosse vivo scriverebbe il Manifesto del Partito Partecipativo, dove parlerebbe della coscienza della Rete quale primo passo verso il controllo dei mezzi di produzione... dai carpool fino all’affitto degli orti, la comunità si riappropria della dimensione economica che le corporation le hanno scippato negli ultimi vent’anni30” .
NAPOLEONI L., L’economia del mutuo soccorso, in Wired.it, dic. 2010
Citazione lunghissima, me ne scuso, ma altrimenti era oltremodo difficile
sintetizzare in modo efficace quei concetti che, a mio avviso, descrivono se non un
ribaltamento, almeno la tendenza al superamento dell’economia quale noi la
conosciamo. Non si rompe solo lo specchio, i frantumi riflettono altro, e la merce
28 LATOUCHE, La scommessa della decrescita, Milano, 2007 29 LANA, art. cit. 30 dello stesso tenore, BUND K. (2012) Avere o usare , Die Zielt, in Internazionale n, 931
22
assomiglia sempre di più al quadro di Dorian Gray! Io non possiedo: affitto, condivido!
Si salta a piè pari dalla merce al bene, dalla Proprietà al Servizio: stiamo parlando, a
seconda del tipo di bene e di chi lo gestisce o gestirà, del trionfo del terziario, del
pubblico; ci si avvicina al comune, per dirla alla Hardt e Negri31.
Cosa c’è di diverso rispetto alla nuova forma di lotta di classe descritta da questi
due autori, al loro esodo, “che è sottrazione dal rapporto di capitale..riappropriazione
del Comune non corrotto”? (HARDT, NEGRI, pagg. 155 e segg.).
Non siamo più nel campo della Lunga coda, non cambia solo chi detiene la
produzione: qui si parla di mettere in discussione il cuore del consumo32, degli stili di
vita occidentali. Si ridisegnano mappe cognitive e sentimenti: la Roba forse esisterà in
eterno, accompagnata dal suo codazzo di vizi capitali, ma è fuori discussione che più
ampie saranno le aree delle economie non mercantili disegnate da Pallante, maggiore
sarà la capacità della società nel suo complesso di gestire criticità. Di più: se questo sarà
un processo cosciente, avremo messo un piede dentro l’empowerment di John
Friedmann, saremo alla presa di coscienza collettiva, comunità che "sente di avere
potere, che sente di essere in grado di praticare uno sviluppo orientato principalmente
al soddisfacimento dei bisogni umani fondamentali, per tutti, per permettere
successivamente la crescita (flourishing) delle capacità individuali, per permettere cioè
che ogni essere umano raggiunga il proprio potenziale, qualunque esso sia... Le istanze
per uno sviluppo alternativo sono universali, sono le istanze dei poveri senza potere
(disempowered). La loro realizzazione dipende da una continua lotta nonviolenta, a
livello locale e globale, contro gli attuali poteri costituiti del mondo33”.
Disempowered(ers). Svantaggiati. Proletari. Invisibili. Consumatori difettosi
(BAUMAN , pag. 66). Chiamateli come volete, purché, se è vero quel che afferma Castells,
cioè che “sia i micro che i macro poteri sono basati sul controllo della comunicazione”
(CASTELLS, pag. XIX), li si immaginino muti; si tratta allora di vedere se resteranno tali a
lungo o, in altri termini, se gli Ugc, rovesciando il concetto di maggioranza silenziosa,
possano diventare o meno “la protesi intelligente dell’opinione pubblica” (MEZZA (a cura
di), 2009, pag. 40).
31 HARDT, NEGRI, Comune, oltre il privato e il pubblico, Milano, 2010 32 termine infelice! Etimo che contiene tutta la violenza della parola “fine”: fine dell’oggetto e fine di chi non può e non potrà mai possederlo, se non altro, per la limitatezza delle risorse del pianeta. 33 FRIEDMANN J., Rivisitando empowerment; principi per uno sviluppo umano, appunti per le conferenze di Firenze, 2005
23
Cap. 2 - Il potere nello spazio dei flussi
Sommario: 1. Aracnopotere. - 2. La costruzione del significato. - 3. Le moltitudini. - 4. Adhocracy e Social Long Tail.
2.1 Aracnopotere Come facilmente intuibile, il titolo del capitolo precedente voleva richiamare il
“Yes, we can” di un candidato Presidente statunitense che si stava giocando un’elezione
puntando molto sull’identificazione-con più che sull’uso-della rete, ma guardava anche
al “Yes, we camp” di chi, parafrasando il primo, all’Aquila come a Madrid,
rappresentava la ricerca di nuove forme di manifestazione della propria indignazione. In
tutti e due i sensi, la citazione poteva sembrare un po’ forzata, visto che il “Yes, we
change” presuppone una consapevolezza e ricerca di cambiamento che, nella realtà dei
fatti, è spesso sottotraccia.
All’opposto, “Aracnopotere”, titolo di questo paragrafo, pare termine consono a
rappresentare l’analisi del macro-potere nell’era del digitale, almeno così come proposta
da Castells: un potere che può essere scomposto a seconda che ci si soffermi sui
frequentatori della rete e sulle loro forme di interazione, oppure, in generale, su internet.
Uso social della rete e uso proprietario; ma non solo: le dinamiche del potere
permeano il mondo virtuale al pari di quello reale.
Estremizziamo i concetti: potere della rete nel mondo reale e potere della rete nel
mondo virtuale. Il primo potere è il potere dei ragni, il secondo, quello dei nodi e dei
fili: della rete, appunto. Sempre usando iperboli, immaginiamo un potere biologico,
quello del ragno tessitore, che deve fare i conti con la propria creatura, impalpabile,
onirica, ma detentrice di un potenziale contropotere.
E’ vero: c’è molto determinismo tecnologico, in questa immagine! Forse è meglio
tornare rapidamente coi piedi per terra e ricordare che non esistono reti mutanti e che
rete e contenuti sono il frutto di soggetti individuabili ed individuati, di ben determinate
strategie e di dinamiche in costante evoluzione.
Lasciamo per un attimo da parte Tim Berners Lee, l’open source, il web 2.0 e le
“reti di individui che diventano comunità [di pratica] insorgenti” (CASTELLS, pag. 461) e
concentriamo l’attenzione sui ragni e sull’analisi proposta da Castells. E’ il professore
24
della University of Southern California che propone una quadruplice articolazione di
distinte forme di potere nella rete (CASTELLS, pag. 42 e segg.):
• networking power, potere retificante: esercitato da chi è membro di
una rete, verso chi ne è escluso;
• network power, potere in rete: di chi impone gli standard interni ad
una rete, le regole di inclusione;
• networked power, potere reticolare: di chi ha il potere nelle reti
dominanti, cioè di chi ha “la capacità relazionale di imporre la volontà di un
attore sulla volontà di un altro attore, grazie alla capacità strutturale di
dominio insita nelle istituzioni della società” (CASTELLS, pag. 44);
• network-making power, potere di creazione delle reti: detenuto dai
programmatori (coloro che hanno la capacità di costruire reti e di
(ri)programmare reti alla luce di obiettivi assegnati nella rete) e commutatori
(che hanno la capacità di connettere ed assicurare la cooperazione di diverse
reti, condividendo obiettivi comuni e combinando risorse) (CASTELLS, pag. 44)
Il pensatore castigliano conclude questa sua riflessione, affermando che questi
soggetti “sono esseri umani organizzati intorno a progetti ed interessi... ma non singoli
attori (individui, gruppi, classi, leader), dal momento che l’esercizio del potere nella
società in rete richiede un complesso insieme di azioni congiunte, che vanno oltre
semplici alleanze, dando vita ad una nuova forma di soggetto, affine a quello che Bruno
Latour (2005) ha brillantemente teorizzato come <<attore-rete>>” (CASTELLS, pag. 44).
Soggetti, strategie, dinamiche. Non necessariamente identificanti un potere
opprimente: networking power può essere esercitato dal singolo appartenente alla rete,
network power può essere il frutto di decisioni botton-up, e il network-making power,
può essere realizzato tramite open source. Più difficile separare il networked power
dalle strategie del macro potere.
E’ nel network-making power che Castells pone, oltre alle ovvie figure dei
programmatori (chi fa la rete) le figure, più importanti, dei commutatori, gli “switchers”
(CASTELLS, pag. 48): coloro che creano e detengono il controllo dei punti di connessione
tra le varie reti strategiche; reti non più soltanto digitali o tecnico-scientifiche in senso
lato, ma anche militari, economiche, mediatiche, religiose, politiche.
25
Se il ruolo dei switchers è quello di creare reti ad hoc, necessarie alla gestione del
potere, con la già citata capacità relazionale di imporre la volontà di un attore sulla
volontà di un altro attore, grazie alla capacità strutturale di dominio insita nelle
istituzioni della società, potrebbero essere proprio loro gli attori fondamentali del
networked power. Sono loro che progettano senso e consenso? A leggere la storia
contemporanea della nostra Repubblica, parrebbe proprio di sì: la constatazione
dell’incrementarsi del valore numerico che segue le P di Propaganda, di gelliana
memoria, confermerebbe, se non altro, l’anelito reticolare degli eversivi commutatori
caserecci.
E’ la società delle reti, non necessariamente digitali che, grazie al digitale,
diventano sempre più interconnesse.
Lo spazio dei ragni, si diceva: difficile immaginare a questo livello il potere
deflagrante delle tecnologie di libertà. Siamo nello spazio globale dei flussi,
irraggiungibile per le istituzioni; Bauman, citando Castells, lo dipinge come uno spazio
“dove il potere si è ormai emancipato dalla politica” , contrapposto allo spazio locale,
dei luoghi, come lo definirebbe Castells, “dove [oggi] la politica è priva di potere”
(BAUMAN , pag. 53).
Anche la più ottimista Sassen, proietta il contropotere, di cui dota i suoi
svantaggiati, in un mondo estraneo al digitale.
E’ sempre Manuel Castells che pare ci venga in aiuto, traendoci fuori da un
principio di scoramento, proponendo tre tesi che aprono la strada ad un vero e proprio
switch analitico (CASTELLS, pag. 544):
• le reti finanziarie e multimediali globali sono strettamente intrecciate, ma non
hanno tutto il potere, dipendendo questo anche da altre reti (politiche, militari,
criminali…), reti che si intrecciano, ma non si fondono; a volte cooperano,
formando reti ad hoc, altre volte si contrappongono;
• a differenza di Bauman, Castells assegna un ruolo ancora importante agli Stati,
non fosse altro perché garantiscono il funzionamento stabile del sistema, cosa
che si potrebbe tradurre con garanzia della socializzazione delle perdite e della
gestione dell’ordine pubblico;
e, soprattutto, la seguente tesi, presentata per prima dallo studioso castigliano:
26
• tutte le reti di potere lo esercitano influenzando la mente umana
prevalentemente (ma non esclusivamente) tramite reti multimediali di
comunicazione di massa; così, le reti di comunicazione sono le reti fondamentali
di costituzione di potere (power making) nella società.
Così fosse, si aprirebbero nuovi scenari: se il potere è quello dei programmatori e
dei commutatori di reti, per dare gambe al contropotere occorre “riprogrammare le reti
attorno ad interessi e valori alternativi, facendo saltare i commutatori dominanti,
collegando reti di resistenza e cambiamento sociale” (CASTELLS, pag. 549). Cosa non è
questo, se non la ricerca dei meccanismi condivisi della costruzione dei significati? E,
parafrasando Castells, cosa non è questo, se non un esplicito invito ad occupare il
medium con i propri contenuti?
Siamo all’inno alla comunicazione orizzontale, e il citato switch analitico sta nel
passaggio dall’analisi del macropotere all’analisi dei meccanismi di costruzione del
significato (a base del potere): se possiamo trasporre l’uguaglianza Galileo sta a
Macropotere come Bohr sta a Costruzione-di-significato, possiamo ragionevolmente
pensare che quest’ultimo possa incidere sulle dinamiche di potere sinora esposte;
possiamo allora volgere uno sguardo meno disperato alle nostre Tecnologie di libertà.
2.2 La costruzione del significato Se la legittimazione del potere la si ha solo con il con-senso, fondamentale sarà
allora possedere le leve culturali e massmediatiche, che permettano di costruire e
proporre significati. Non è un caso che Castells affermi categoricamente che il potere è
basato sul controllo della comunicazione e dell’informazione: dalla presa d’atto che la
coercizione da sola non basta a stabilizzare il dominio, può derivare che “ la forma
fondamentale di potere consista nella capacità di plasmare la mente umana” (CASTELLS,
pagg. XIX e segg.).
L’importanza della costruzione del significato rifulge nel momento in cui
iniziamo a condividere l’analisi secondo la quale gli ultimi decenni abbiano visto un
progressivo cambiamento della natura stessa del sistema economico, da mero
sfruttamento del lavoro dipendente a sfruttamento dei desideri dei consumatori, cioè da
società dei produttori a società dei consumatori (BAUMAN , pag. 8).
27
Esaurita, almeno ad occidente, la possibilità di trovare nuovi mercati, atti a
garantirne la crescita, il capitalismo ha compreso che “se ci sono poche necessità della
vita reale da trasformare in prodotti, nell’iperrealtà ci sono un’infinità di simboli e una
popolazione pacificata di consumatori di simboli” (RHEINGOLD, pag. 313).
In queste frasi si sente odore di biopotere e biopolitica, capitalismo emozionale34
e interpretazioni aberranti: da una parte una produzione sempre più invasiva, sempre più
basata sui desideri dei consumatori che sulle merci tradizionali, la costruzione di un
(bio)potere che tenda a permeare tutti gli aspetti della vita dei singoli, con il
conseguente pericolo, esplicitato da Foucault, “che la gente inscriva in sé il principio del
proprio assoggettamento, [permeata com’è da un potere] che raggiunge le molecole
degli individui, tocca i loro corpi e s’insinua nelle loro azioni e nei loro atteggiamenti”
(RHEINGOLD, pagg. 302 e segg.), dall’altra la resistenza, la biopolitica, “che è la parole che
sovverte la langue, che è produzione di eventi di libertà.. pulviscolo di strategie
intessute di eventi e resistenze” (HARDT, NEGRI, pag. 69).
Parole che sovverte la langue: esplicito il richiamo a de Saussurre: parole che è
atto individuale, mero segno linguistico, mentre “la langue è l’aspetto condiviso del
linguaggio e, quindi, collettivo, sociale” (TRAINI , pag. 25).
Molto più sottesa, se non addirittura rovesciata, è la teoria delle decodifiche
aberranti di Eco: qui non siamo in presenza di sistemi culturali che permettano al
destinatario di sviluppare decodifiche (interpretazioni) non conformi al messaggio che
l’emittente voleva trasmettere; qui esploriamo il ruolo decisivo del singolo individuo
nella stessa costruzione del significato: stiamo passando da una forma di resistenza
all’ipotesi di un reale contropotere.
Ci stiamo avvicinando al regno dei prosumer: se è vero che “è nelle specifiche
forme di connessione tra reti di comunicazione e di significato nel nostro mondo e reti
di comunicazione e significato nel nostro cervello che è possibile, in ultima analisi
identificare i meccanismi di formazione del potere” (CASTELLS, pag. XXI), allora è forse
partendo da qui che si può ingabbiare quello che sino ad ora ho definito macropotere.
34 Il nuovo capitalismo intellettuale, infatti, non è più fondato esclusivamente sullo scambio di merci, ma si sviluppa e cresce prevalentemente sulla riproduzione di esperienze e di emozioni, sul valore economico dell’immateriale e dell’intangibile, sulla creatività. In AZZARITI , MASSARO, Il Capitalismo delle Emozioni, www.ferdinandoazzariti.com/files/media/IndiceIntroduzione.pdf
28
Non è certo un caso che molti autori sin qui citati esplorino i sentieri della
semiotica35, alla ricerca del nesso tra digitale e nuove forme di contropotere.
Rheingold cita la Scuola di Francoforte e la sua feroce critica alla comunicazione
di massa, vista quale mezzo di manipolazione necessario allo sviluppo dell’industria
culturale e della società dei consumi, e si spinge sino ai media iperrealistici di
Baudrillard, “ultimo distillato del capitalismo, che vendono alla gente convinzioni,
speranze e distrazioni.. generando profitti e, al contempo, neutralizzando le possibili
resistenze dei consumatori” (in RHEINGOLD, pag. 313). Tinte fosche che richiamano la
Megamacchina di Mumford, priva di qualsiasi riferimento etico, essenzialmente
progettata per soddisfare le esigenze del sistema. Immagine alla Matrix, che a sua volta
proietta nelle nostre menti gli algoritmi che sono ormai utilizzati da tutti gli agenti di
borsa, aridi nel senso che sono progettati con l’unico scopo di massimizzare profitti e
limitare perdite. ∆t = 0: esiste solo un mero presente. Megamacchine: automi estranei
alla morale ed a qualsiasi politica, cioè ciechi a qualsivoglia progetto di società36.
Ancora più deciso, sul terreno della ricerca di nuovi meccanismi di produzione di
significato, è Castells: individui quali veri e propri taccagni cognitivi, che tendono a
credere a ciò che vogliono credere, abituati a ragionare per “frame e narrazioni”, che
giungono all’opinione pubblica per mezzo dei media di massa37 (CASTELLS, pagg. 169 e
segg.).
Sino a questo punto siamo ancora dentro all’analisi francofortese di Adorno e
Horkheimer; siamo ancora davanti alla Megamacchina, anche se l’abbiamo ora dotata di
fucile e delle silver bulletts dell’umana accidia.
Qui si possono però inserire due considerazioni, sufficienti a far riprendere
colorito alla nostra scossa autodeterminazione; la prima è, per così dire, psicologica:
come detto, per Castells gli individui tendono a selezionare le informazioni che
confermano le opinioni già acquisite; scelgono, cioè, tra quelle che favoriscono le
decisioni che sono già inclini a prendere ma, per far ciò, si muovono sempre utilizzando 35 da esplorare la somiglianza tra lo schema proposto da Castells in Tab 2.1 di pag. 146, riguardante la tipologia dei modelli culturali, basati sui due opposti Individualismo/Comunalismo e Globalizzazione/Identificazione e il quadrato semiotico di Greimas, esplicitazione grafica della teoria per la quale un significato può darsi soltanto su basi oppositive. 36 Molto bella la provocazione di BERTORELLO e CORRADI (pag.78) per i quali gli algoritmi alla base dei titoli derivati complessi potrebbero essere pubblicati ed essere sottoposti al controllo di una folla digitale: una sorta di Linux della modellizzazione finanziaria. 37 Per frame, intendiamo una parte della sceneggiatura (quale “litigio violento, richiamato da due persone che iniziano a strattonarsi), una struttura di dati che serve a rappresentare una situazione stereotipata: in TRAINI , 2006, pag. 269
29
il ragionamento e l’emozione. E più sono forti le emozioni e sviluppata l’ansia, più
acquisisce importanza il ragionamento. Più si è tranquilli e sicuri, più si è maggioranza
silenziosa. Più si percepisce il pericolo che qualcosa possa turbare la nostra vita, più si è
attenti al contesto in cui ci muoviamo e più siamo disposti a porger ascolto a quelle voci
che prima sembravano solo rumore di fondo.
La seconda considerazione parte proprio da questo punto, dall’attenzione alle
voci, ed è collegata allo sviluppo dei social network: è indubbio che questi ultimi
amplifichino la possibilità di diffusione di qualsiasi messaggio, sia da un punto di vista
geografico-quantitativo38 che da un punto di vista del confronto e del conseguente
affinamento dei propri frame e narrazioni39.
Riprendendo Eco, Manuel Castells afferma che la possibilità di riprogrammare
significati (non più solo reinterpretando i messaggi ma anche producendone di nuovi)
richiama la maggior autonomia dell'individuo, la possibilità di immaginarsi e praticare
stili di vita diversi e, in ultima istanza, prospettare e produrre forme diverse di potere40.
Siamo ad un potere diverso, dalla faccia buona, creativa, siamo al potere
dell’empowerment, siamo al posse della triade dell’umanesimo rinascimentale, esse,
nosse, posse, al quale recentemente hanno fatto riferimento anche Negri ed Hardt per
descrivere il “potere delle moltitudini”41.
2.3 Le moltitudini
• Irrompe il digitale, trascinando seco la possibilità di globalizzare finanza ed
economia;
• si afferma la credenza del neoliberismo quale capolinea della storia;
38 E’ di grande importanza che un immaginario globale consenta, persino a chi è geograficamente immobile, di essere coinvolto nella politica globale .. avere visibilità in platee internazionali in quanto individui e collettività. (CASTELLS, pag. 185). 39Agendo sui codici culturali che costruiscono i frame mentali, i movimenti sociali creano la possibilità di produrre un altro mondo.. si riprogrammano le reti di comunicazione che costituiscono l’ambiente simbolico per la manipolazione delle immagini e informazioni, determinanti ultime delle pratiche individuali e collettive. (CASTELLS, pag. 526). 40 Ibidem, pag. 527 41 in FANARI , Segnali dal basso: partecipazione ed empowerment nel dilemma dello sviluppo, tesi UniFi, AA. 2000-2001.
30
• ma il digitale porta con sé anche la possibilità di disintermediare la nostra cultura,
le nostre scelte e, radicalizzando il concetto, anche la nostra vita;
• può essere quindi messa in discussione la struttura del potere come da noi
conosciuta negli ultimi due secoli.
Fascino e rischio dell’estrema sintesi: un tweet e mille obiezioni! Diamo per
buona questa piccola ricostruzione, in parte avvallata da quanto detto sinora. Il passo
successivo, la domanda spontanea, diventa: esiste una qualche forma/forza sociale in
grado di dare concretezza a questa disintermediazione, incidendo, conseguentemente, su
organizzazione economica e distribuzione del potere? Se esiste una Tecnologia di
libertà, chi ha l’onóre e l’ónere di estrarre quella spada da quella roccia?
Non sono in pochi ad affermare che, se lo spazio dei flussi è quello di un mercato
globalizzato, che anela alla consunzione di uno stato sociale che limita i profitti privati,
mercato per il quale esistono solo consumatori e dove tutte le altre unità-carbonio sono
oggetto di ostracismo, siamo allora di fronte ad un mondo in cui lo stesso termine classe
è rimosso, dove tutti sono sussunti nel mare magnum del consumo. Chi ne sta fuori, tutti
quelli che non consumano, i clandestini, gli emarginati, i consumatori difettosi, non
sono più nulla: sono un qualcosa di ben diverso dal sottoproletariato pasoliniano,
comunque (sotto)classe, soggetto di diritti suo malgrado. Qui l’unica attenzione ad essi
destinata è solamente quella legata alla gestione dell’ordine pubblico42.
Chi fa vivere il many2many? Sono i consumatori che trasmettono il loro
pensiero? L’hanno ancora, ubriacati, come sono, dai loro brand? Sviluppano
contropotere o solo un suo simulacro?
Eppur si move, direbbe qualcuno. Eppure il panorama sociale e politico non è da
calma piatta. Anzi: uno, due decenni di disinfotainment43 (RHEINGOLD, pagg. 313-314) non
hanno obnubilato del tutto le coscienze critiche. Non solo il web è permeato da
contenuti antagonisti del pensiero unico, ma anche le piazze del pianeta, se pur
discontinuamente, con modalità talvolta carsiche, si riempiono di corpi in aperta sfida
all’ordine costituito.
42 Il consumismo è di per sé un mezzo significativo per mantenere l’ordine sociale, lasciando le vecchie forme di sorveglianza e di controllo ad occuparsi dei non consumatori: In RHEINGOLD, 2003, p. 299. Sempre questo autore cita Baudrillard: vendere convinzioni, speranze, distrazione genera profitti e pacifica e neutralizza possibili resistenze da parte dei consumatori. 43 “Ho imparato ad usare questa parola per descrivere la combinazione tra media sempre più spettacolari e la progressiva appropriazione e trasformazione del giornalismo da parte degli interessi legati all’industria dell’intrattenimento”.
31
Se la definizione dei movimenti alterglobali, data dal New York Times nel 2003,
prima dell’inizio della seconda guerra del Golfo, definiti “seconda potenza mondiale”
poteva sembrare allora un tantino forzata, la prima pagina del numero di dicembre 2011
di Time che elegge the protesters44 a personaggio dell’anno, pare, invece, riassumere
molto bene un dato di fatto incontestabile. Alla domanda che ritorna chi sono? se ne
aggiunge un'altra: esiste una differenza tra il 2003 e l'oggi?
Il terzo capitolo di questa tesi proverà ad indagare, brevemente, sui protagonisti
reali di queste primavere. Qui, invece, si vuole provare a fornirne un ritratto teorico. E,
per farlo, cerchiamo aiuto nelle moltitudini di Negri e Hardt.
Ad onor del vero, gli autori non descrivono una genesi della moltitudine: offrono
ampia descrizione delle basi economiche, politiche e filosofiche della necessità della
rivalutazione e riappropriazione del Comune, contrapposto sia alla proprietà privata che
alla res-pubblica, si appoggiano alle definizioni di Foucault di biopotere e biopolitica,
inserendoli, armoniosamente, all'interno della loro laica teleologia, descrivono il
soggetto politico in grado di compiere la scalata al cielo.. ma non ne definiscono la
genesi. Le caratteristiche ci sono tutte, ben spiegate, ma queste sembrano essere la
logica conseguenza dell'umano essere, piuttosto che una reazione agli accadimenti degli
ultimi decenni: un'evoluzione delle forme di antagonismo, necessaria a seguito dei
fallimenti del secolo breve e/o indotta dai cambiamenti intercorsi a seguito della
ipercitata frantumazione degli specchi, avvenuta ad opera degli user generated contents.
Negri e Hardt si appoggiano alle ricerche socio/filosofiche di un giovane Kant, di
un giovane ed umanista Marx e di Spinoza, per definire un attore sociale che non sia
corpo politico, comunque ridotto ad un'unica volontà, (popolo, definendolo come
Hobbes, classe, si direbbe oggi) ma corpo inclusivo, aperto agli altri corpi45 (HARDT,
NEGRI, pag. 63).
La cosa che appare strana è che il testo, pubblicato nel 2010, attinga scarsamente
dalle analisi dei mutamenti sociopolitici indotti dall'avvento del digitale.
A prescindere dalla sua genesi, il soggetto-moltitudine pare descrivere in modo
soddisfacente la risultante dei processi di disintermediazione: “coloro che stanno
44 www.time.com/time/person-of-the-year/2011/; da rimarcare che the protesters vengono dopo Mark Zuckeberg person of the year 2010. 45
Ed anche: moltitudine non è soggetto politico fatto, ne è un programma, è un'orchestra in grado di produrre biopolitica, pur non avendo [né volendo] un direttore.
32
all’interno della produzione sociale indipendentemente dall’ordine della proprietà..
unico possibile soggetto della democrazia” (HARDT, NEGRI, pagg. 51 e segg.). Monadi aperte
al mondo, tanto da essere definite altro rispetto alle identità, destinate, al massimo, a
poter essere emancipate, bensì singolarità, costruite con i mattoni delle diversità, unico
soggetto che possa autoliberarsi (HARDT, NEGRI, pagg. 335 e segg.).
Autoliberarsi. Riappropriazione del Comune. Le tre caratteristiche del lavoro
biopolitico: cooperazione, autonomia e organizzazione in rete. Esodo = sottrazione del
lavoro dal rapporto di capitale = moderna lotta di classe. La tentazione di operare una
sorta di sincretismo con altri pensieri qui presentati è fortissima.
C’è incompatibilità tra l’esodo di Hardt/Negri con l’autoproduzione dei beni e
l’area degli scambi non mercantili di Pallante e, in generale, con le ricette presentate da
Latouche e dai propugnatori della Decrescita Felice? C’è contrasto tra i soggetti che
possono autoliberarsi e l’Empowerment di Friedmann?
Indubbiamente, qualche differenza la si può certo trovare: Friedmann, per
esempio, reputa indispensabile un intervento della res-pubblica là ove le condizioni di
precarietà economica e culturale impediscano agli “attori” di prendere meramente
coscienza della possibilità di cambiare, cosa che mi pare assente dalle analisi di
Hardt/Negri ed addirittura contestata nei testi di Latouche. Ma questi ragionamenti
porterebbero altrove rispetto agli obiettivi della tesi.
Da quanto esposto, pare invece emergere una convergenza tra pensatori di
diversissima estrazione culturale e storia personale, pensatori che pongono al centro
della loro analisi un soggetto estremamente somigliante: un soggetto che abbandona
completamente lo stereotipo del popolo-bue (dell’operaio-massa, della maggioranza-
silenziosa) e che vive di interazioni dirette con il prossimo e, così facendo, aumenta
esponenzialmente la sua capacità di analisi.. e di indignazione.
Latouche e Friedmann non propongono certo di rifondare il comunismo (quello
non più totalizzante, massificante, proposto dagli autori di Comune) ma le ricette
economiche proposte sono molto simili a quelle offerte dai due intellettuali
francoitaliani46 e, come sostenevano i classici, cambiare la struttura è indispensabile per
poter cambiare la sovrastruttura.
46 “oggi politici ed economisti vedono il comune fuori dai rapporti economici.. con il comune dentro l’economia, la crescita economica è crescita sociale”: HARDT, NEGRI, pag. 284
33
Un’altra cosa accomuna questi pensatori: tutti e quattro glissano alquanto sul
contributo che la tecnologia digitale può e potrà offrire nel cambiamento dei paradigmi
socioculturali (e politici). Anche qui, la tentazione di usare i testi dei sociologi-del-
digitale, è forte: quando parliamo (e ne parleremo alquanto) di indignazione, quando
parliamo di globalizzazione delle rivendicazioni sociali, parliamo solo della possibilità
che le attuali generazioni hanno di poter usare un new global media? Il Web è solo un
nuovo, enorme, potentissimo megafono?
2.4 Adhocracy e Social Long Tail
In precedenza si è parlato di quanto il digitale abbia modificato alcuni aspetti del
nostro modo di interagire col prossimo e, conseguentemente, con il mondo. Limitiamo
ora il campo di indagine: se, alla pari degli spettatori di una partita di ping-pong,
cercassimo di focalizzare l’attenzione, alternativamente, dapprima sui social-network e
poi sulle manifestazioni sociali e politiche, potremo osservare che ad una indiscutibile
perdita di appeal del pensiero forte e, significativamente, della forza di analisi, di
proposizione e di mobilitazione sociale, legata alle ideologie otto-novecentesche, si sta
via via sostituendo quella modalità di condivisione di idee47, progetti, semplici gusti,
denominata Ad-Hocracy.
Il provare a descrivere cosa questa sia dà già il senso, di per sé, di quanto questo
termine (questo nuovo modo di condividere?) sia mutato, nel corso degli ultimissimi
anni.
Punto fermo è la definizione di Ad-hocracy quale tendenza a formare gruppi
spontanei; ma, mentre in Rheingold, nel 2002, questa cooperazione è riferita a naviganti
che utilizzano in questo modo la rete al fine di condividere il surplus della potenza di
calcolo dei propri processori e focalizza l’attenzione, pertanto, sulla elaborazione
distribuita, sul p2p (peer-to-peer) usato a fini quasi esclusivamente scientifici
(RHEINGOLD, pagg. 135 e segg.), per Mezza e Pellegrini, nel 2007, solo cinque anni più tardi,
la stessa locuzione si fa carico di un etimo socialmente e politicamente molto più denso:
47 “alimentando corrispondenze on line.. il testo contemporaneo ricostruisce, anche se in modo diverso e su scala infinitamente più vasta, la compresenza del linguaggio e del suo contesto vivente, caratteristica della comunicazione orale. Ancora una volta sono i criteri che cambiano. Si fanno simili a quelli del dialogo e della conversazione..” (LEVY, pag. 29)
34
“il modello per il quale, in base al contenuto che mi serve in quel momento, mi faccio
autore o consumatore, singolo o platea, individuo o comunità” (MEZZA, PELLEGRINI 2007,
pag. 80).
Il farsi comunità del 2007 è un qualcosa che è ormai uscito dai laboratori
universitari della west coast. Le comunità del 2007 sono quelle che si avviano ad essere
tanto mature e consapevoli di sé da ri-mettere in discussione la contemporanea
distribuzione del potere? Sono comunità che, radicate sul territorio o attorno ad una
mission, o su entrambi questi fronti, possono riempire di contenuti pesanti
l’insostenibile leggerezza del postmoderno? Sono loro l’antidoto al biopotere? Possibile
che Marx e Vangelo siano sostituiti dall’I like di Facebook? Forse no, se intendiamo la
ragione profonda, il Pensiero, che spinge giovani e meno giovani ad aderire alle varie
cause; molto probabilmente sì, se intendiamo un nuovo modo di aggregarsi attorno a
questi coaguli di senso, modo che, sempre più spesso, induce ad uscire dalle piazze
virtuali per incontrarsi (e farsi contare) nelle piazze reali.
Due possono essere le peculiarità da rimarcare:
• la forma: un digitale che, disintermediando, crea un nuovo modo di stare
assieme;
• la sostanza: un digitale che permette di aggregare moltitudini anche attorno
a micro problemi; una Social Long Tail che consente ad una pletora di
timidissimi millennium-attori, figli orfani di genitori smarriti nelle nebbie
delle sconfitte del novecento, di fare contropotere.
Per quel che riguarda il primo punto, occorre precisare che se è vero che digitale e
social network non eliminano la figura del leader dalla faccia della terra, di sicuro ne
cambiano ruolo e legittimazione: per spiegare le modalità di decisione dei ragazzi di
Zuccotti Park occorre andare oltre, forse occorre rispolverare alcune ricerche
antropologiche, “il Big Man melanesiano, capo condannato a non essere obbedito ed
ascoltato, il potere impotente delle chefferies delle società acefale, società
politicamente strutturate pur in assenza di forme di potere riconducibili a un apparato
istituzionale... ma, soprattutto, l’immagine di un potere buono, in cui i capi hanno
l’obbligo di dimostrare sempre l’innocenza della loro funzione.. dove il potere deve
sempre giustificarsi e richiedere il consenso e permettere una notevole dose di
reciprocità” (in FANARI, pag. 71). E’, per questa via, tornando al Mi piace del web 2.0, che
35
ci si rende conto di quanto oggi possa stare stretta la tripartizione di Weber del
potere/herrschaft, potere legittimo, istituzionale48.
Se, giocando con il significato datone da Bologna e Banfi nella loro Vita da
freelance, difficilmente i no-collar si faranno rimettere il collare, tutto da vedere, da
stabilire, è se la Social Long Tail riuscirà a trasformarsi in un qualcosa di diverso: se
rimarrà sempre tale, cioè una collezione di pezzi di stoffa oppure se queste andranno a
comporre un patchwork di microazioni di contropotere, sufficienti a modificare la
distribuzione del Potere; o, ancor più rilevante, se il dispiegarsi delle moltitudini riuscirà
a tessere una trama così sottile da non vedersi la cucitura49 , rielaborando, per questa
via, vecchi ideali o tessendone di nuovi.
L’unica cosa che pare assodata è che, per il momento, ammesso che esistano
vecchi maestri, non esiste un uditorio disposto a riconoscersi in una classe. Più in là nel
tempo, forse. Non oggi.
Il fallimento delle ricette novecentesche pensate per porre un argine al potere del
capitale ha lasciato dietro di sé macerie sociali e fantasmi in cerca di (nuova?) identità.
C’è bisogno di rielaborazione, di analizzare mutate strutture ed evanescenti
sovrastrutture. E di un soggetto sociale in grado di gestire il potere di cambiamento che
dovrà giocoforza essere al centro di queste nuove elaborazioni.
A ben guardare, questo nuovo soggetto politico forse c’è già ed è già abbastanza
accreditato, tanto da meritarsi il già citato titolo di personaggio dell’anno 2011.
Occorre allora scendere nella piazze, nelle ksabi e nelle banlieues, per provare a
dare la risposta all’ultimo quesito posto: c'è differenza tra “voi G8, noi 6 miliardi” e
“siamo il 99%”50? Cosa diversifica il movimento di oggi da quello del 2001? Siamo in
presenza di un diverso uso delle tecnologie digitali? Abbiamo oggi un impatto diverso
sulle strutture di potere?
48 Tradizionale, carismatico e razionale-legale; è soprattutto quest'ultima accezione che deve essere ampliata e modernizzata: basti pensare al concetto di governance. 49 dal testo della canzone di Max Manfredi, citata in dedica. 50 I due slogan caratterizzanti, rispettivamente, le manifestazioni di Genova 2001 e New York 2011
36
Cap. 3 - Le piazze del 2011
Sommario: 1. Il panopticon rovesciato: da Seattle a Genova. - 2. L’indignazione: il grado zero di Spinoza. - 3. Kifaya. - 4. Legami deboli. - 5. Tweetnadwa. - 6. L’occidente, tra Islanda e singles.
3.1 Il panopticon rovesciato: da Seattle a Genova.
Come il 2011 non è paragonabile ad un fungo sbucato nel Sahara, così anche il
movimento che ha avuto il suo culmine negli anni 2001-2003, non è stato evento a sè
stante, isolato. La seconda potenza mondiale indicata dal NYT aveva già, alle sue spalle
un’enormità di ore di estenuanti riunioni e di mobilitazioni di piazza.
In Italia, l’Umbria delle marce della/per la pace di Capitini, ma, soprattutto,
Genova con le sue mobilitazioni contro la mostra navale bellica (1982), quelle contro
un’acritica ricorrenza dei 500 anni della scoperta dell’America (1992) e la
manifestazione contro l’esposizione Tebio del maggio 2000, pro-OGM, avevano già
disegnato la base di una serie di rivendicazioni socio-economiche che, mentre saldavano
rivendicazioni pacifiste e ambientaliste alle prime riflessioni no-global, avevano al loro
centro non più la storica classe operaia, ma un inedito potpourrì di partiti, associazioni,
intellettuali e gente comune, ideologicamente variegati, accomunati dalla convinzione
che le politiche planetarie liberiste avrebbero portato alla fine della democrazia, se non
del pianeta stesso. Non cattocomunisti, nel senso di sia-cattolici-che-comunisti, ma
soggetti uniti dall'importanza data a termini quali solidarietà, cooperazione, ambiente,
giustizia, diritti umani e sociali, se pur declinati in modo diverso.
Sono gli ultimi anni del ’90 che obbligano questi soggetti a cercare un vocabolario
comune, un minimo comun denominatore tattico e, col passare del tempo, anche
strategico. Se escludiamo il suo mero iniziale utilizzo, qui il digitale non è ancora
entrato: forse le mail; forse le mailing list; siamo alla sola possibilità di amplificare la
notizia, di espandere geograficamente il bacino di utenza delle affinità elettive. Seattle e
la sua protesta contro il WTO, 1999, è forse l’ultima figlia di questa era e le modalità
con le quali essa è assurta agli onori della storia, son lì a dimostrarlo: le persone, le
associazioni, i sindacati che cingevano d’assedio lo Sheraton hotel, non erano un
37
unicum ma un insieme estremamente eterogeneo di rivendicazioni, talvolta in aperta
contraddizione tra loro.
Sarà l’osannato “Spirito di Genova” a rappresentare lo spartiacque culturale
dell’opposizione alle politiche liberiste, a dividere il secolo breve dal 2000, a far uscire
le rivendicazioni sociali dal monopolio sindacale: non è un caso che siano stati
solamente FIOM e sindacalismo di base ad aderire alla metaorganizzazione Social
Forum.
Lo Spirito di Genova nasce nel dicembre 1999, ad opera di una piccola
organizzazione pacifista che lancia (anche via mail) un appello, al quale rispondono
alcune singole persone variamente occupate nel sociale, in partiti ed organizzazioni
della sinistra genovese51. Sarà la Rete Contro G8: madre di quello che, dopo la ricerca di
consensi internazionali avvenuta in seno al primo Forum Social Mundial di Porto
Alegre 2000, diverrà il Social Forum, organizzatore delle iniziative dell’estate 2001.
Non è compito di queste pagine ripercorrere la genesi di questo movimento. E’
però pertinente agli obiettivi assegnatici il vedere quanto questo movimento sia frutto
della digital anthropology e delle analisi teoriche degli autori qui proposti.
E’ in questo senso che possiamo affermare con sicurezza che questo movimento
nasce certamente con il contributo delle libertà di coscienza, liberate, attualizzate, dalla
disintermediazione digitale, dalla rottura degli specchi, per intenderci, visto che è farcito
di soggetti attivatisi anche in contrasto con le posizioni ufficiali delle loro
organizzazioni di provenienza. Sarà solo in seguito, dopo che l’iniziativa assurgerà alle
cronache cittadine e nazionali, diventando vetrina mediatica, che alcune di queste
organizzazioni recupereranno l’adesione al Forum.
Possiamo pure dire, con altrettanta sicurezza, che il Social Forum, alla pari dei
movimenti del 2011, non sembra essere l’espressione di quella che Hardt e Negri
definiscono e descrivono come moltitudine, almeno se intesa nel suo senso compiuto:
qui non siamo alla riproposizione delle forme di resistenza al franchismo propugnate dal
movimento anarchico degli anni ‘30, non siamo all’orchestra senza direttori d’orchestra;
nel Social Forum, anche nella sua prima fase, quella della sua nascita, della sua
composizione quasi esclusivamente genovese, senza nazionali, esistevano direttori
d’orchestra; solo che questi riconoscevano la necessità di giungere a soluzioni
51 sostanzialmente, Centro di DocumentAzione per la pace, i centri sociali aderenti alla linea delle tute bianche, Lilliput, Prc, Arci
38
condivise, accettate anche dalle persone che, in quel consesso, rappresentavano
unicamente loro stesse. Forse è per questo che per redigere il primo appello della Rete
Contro G8, appello di una paginetta scarsa, sono occorsi alcuni mesi: minimo comun
denominatore e linguaggio comune, son cose ben complesse da realizzarsi!
E’ con Porto Alegre, organizzato principalmente da Attac France e Sem Terra
brasiliani, e con Genova che l’Adhocracy matura, si fa cluster, comprende che
tantissime rivendicazioni hanno un unico obiettivo: il contenimento della libera faina in
libero pollaio, il mettere la museruola al liberismo.
Con Genova 2001 si ha poi la certezza che la tecnologia digitale assumerà un
ruolo diverso a quello di moderna cassa di risonanza: saranno migliaia di fotocamere
digitali che riprenderanno e metteranno in rete la dinamica degli scontri di piazza del 20
e 21 luglio, spesso smentendo clamorosamente le versioni ufficiali fornite da Governo e
Forze dell’Ordine52.
Il mondo vi guarda: è il grido dei ragazzi di radio Gap e di Indymedia che, dalla
scuola posta di fronte alla Diaz, riprendevano con le loro videocamere quella che è
stata successivamente definita la macelleria messicana. E’ la consacrazione del
panopticon ma, questa volta, di un panopticon rovesciato: non è più (solo) il potere che
utilizza l’idea finesettecentesca di Bentham di un controllo diffuso, invisibile, tanto
pervasivo da funzionare, per la sua sola presunta esistenza, da dissuasore, da calmante
sociale. Dal 2001, anche il potere sa che le proprie aberrazioni possono essere (ri)viste e
che filmati, fotografie, registrazioni sonore possono immediatamente essere trasformate
in DVD, in film o, più semplicemente, in post multimediali da inviare al social network
di turno. Immediatamente.
Le ricadute sociali della tecnologia digitale hanno fatto un ulteriore salto di
qualità: le denunce sociali escono dai circuiti mediatici popolati da sparute minoranze.
Tutti hanno a disposizione tutto: non occorre uscire per andare a comprare un giornale
compromettente e magari introvabile.
52 Un esempio per tutti: la versione ufficiale fornita dalle Forze dell’Ordine sulla presenza di bombe molotov all’interno della scuola Diaz, presa a pretesto per giustificare l’irruzione in un locale legalmente assegnato al Social Forum, smentita immediatamente da quanto filmato dai manifestanti e riconosciuta quale prova dai giudici della Corte d’Appello del capoluogo ligure, nel processo a carico delle stesse Forze dell’Ordine. Le stesse riprese filmate degli scontri di piazza sono poi riuscite a mettere in discussione le ricostruzioni ufficiali offerte ai media accreditati al G8.
39
Si tratta ora di vedere se 32 miliardi di mail e, soprattutto, i due miliardi di
abitanti del pianeta53 che giornalmente sul web leggono o producono contenuti,
riempiendo di byte la nostra esistenza e donandoci una quinta dimensione54, possano
scardinare la taccagneria cognitiva descritta da Castells.
3.2 L’indignazione: il grado zero di Spinoza.
Quel movimento visse un profondo riflusso, non tanto dovuto all’11 settembre ed
alla conseguente radicalizzazione dello scontro sfociato nella cosiddetta guerra al
terrore, quanto nella constatazione che mobilitazioni planetarie non erano riuscite a
fermare conflitti ritenuti, nel migliore dei casi, inutili.
Senso di impotenza, ma non solo: il tentativo fu quello di territorializzare le
parole d’ordine dei diversi Social Forum che si susseguivano. Il risultato fu quello di
mettere in discussione programmi ed eletti nelle giunte e nei governi, con conseguente
allontanamento delle organizzazioni e partiti che ne erano parte più o meno integrante,
sordi o incapaci di attualizzare quelle proposte.
Restò, e resta, il tavolo di coordinamento nazionale, un vero e proprio simulacro
del Social Forum; sicuramente qualcosa di molto diverso dallo Spirito di Genova e
dall’orizzontalità del 2011.
Sono seguiti cinque, sei anni di vetrine internazionali; per il resto, silenzio o, nel
migliore dei casi, qualche iniziativa locale. Poi, ad un tratto, the protesters. Cosa è
successo?
A livello teorico, oltre a quanto già evidenziato in precedenza, possiamo proporre
almeno altre due considerazioni.
La prima si rifà a Pierre Lévy ed al trivio antropologico: se i processi sottostanti
grammatica, dialettica e retorica sono fondamentali per spiegare ogni processo di
53 Fonte http://royal.pingdom.com/2011/01/12/internet-2010-in-numbers/; a questo numero occorrerebbe aggiungere 262 miliardi di mail di spam al giorno. 54 Siamo abituati a valutare la pienezza di una vita in base alla libertà di poter fruire delle canoniche quattro dimensioni spazio-temporali; lo facciamo con più difficoltà se prendiamo in considerazione cultura, accesso al dato ed all’informazione: in questo senso, i byte a disposizione e la velocità della loro fruizione (banda larga) materializzano questo vettore di libertà, avvicinandolo ai precedenti.
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virtualizzazione55, invenzione compresa, che “apre possibilità radicalmente nuove il cui
sviluppo finisce per far crescere un mondo autonomo, creazione rigogliosa di cui nessun
criterio statico di utilità può più rendere conto.. la produzione di artefatti [anche il
digitale] raggiunge il suo stadio retorico quando partecipa alla creazione di nuovi
scopi.. ancora una volta la questione della utilità, della funzionalità e della referenzialità
cede il passo al potere di costruire senso o piuttosto di far mutare il senso, di creare
degli universi di significato radicalmente nuovi” (LEVY, pagg. 77 e segg.).
Si può quasi dire che Lévy comprenda, nel senso del tenere dentro, come caso
particolare, il medium-messaggio di McLuhan: che ogni frutto della nostra vita, sia esso
relazionale o tecnico, modifichi l’ambiente, diamolo per scontato. Lévy aggiunge una
vita propria a questo mutamento, nel senso che questo può produrre conseguenze non
volute, non programmate e forse neppure immaginabili: i byte alla guisa di mescolanza
di semi, la rete come vento che li disperde, i social network come terreno di coltura.
Ci eravamo fermati al panopticon rovesciato del primi anni del nuovo millennio.
Ci ritroviamo nel 2011 con molti popoli arabi in rivolta e con un nord del mondo
indignato. C’è un legame di causa-effetto? Gli obiettivi sono gli stessi? Ed i soggetti
coinvolti?
Se il primo riferimento ci offriva la sponda per dare una risposta positiva almeno
alla prima domanda, la seconda considerazione ci permette di prospettarne la portata: il
2011 si lascia alle spalle movimenti organizzativamente acefali, nel senso che, come
agli albori del Social Forum, a lanciare le iniziative, a chiamare alla mobilitazione, sono
singoli, tutt’al più riviste o associazioni del tutto minoritarie. Il rimando alla
“Genealogia della ribellione” di Hardt e Negri è, pertanto, dovuto: se il secolo breve ci
ha lasciato in eredità il fallimento dei partiti e dei sindacati nella loro lotta contro
l’ Impero, occorre ripartire da quello che Spinosa ha definito
“…il Grado Zero, il materiale da costruzione con cui si edificano i movimenti della rivolta e della ribellione: l’Indignazione. E’ con l’indignazione che scopriamo il potere di agire contro l’oppressione e dunque la forza di sfidare le cause della sofferenza…. Il nostro compito sarà quello di esaminare le strutture organizzative delle soggettività antagonistiche che sorgono dal basso, fondate sull’indignazione manifestata dai soggetti di fronte alla mancanza di libertà e alle ingiustizie del potere.”
(HARDT, NEGRI, pagg. 237-239).
55 Scomposizione della funzione in atomi indistinti, come per i fonemi, confronto con gli altri, come nel discorso, oggettivazione tramite il tentativo di incidere sul mondo, come nella retorica.
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Gli autori hanno utilizzato un termine profetico: solo un anno dopo, la parola
indignados ha travalicato i Pirenei ed ha pervaso le cronache socio-politiche del pianeta.
Un motto di spirito, un sentimento, una passione che nasce individuale ma che ha
bisogno, a monte, di una sensibilità sociale, stimolata dalla rete, e la convinzione che
possa essere con-diviso con altri. Ritornano concetti quali Adhocracy56 coniugati,
magari, con i sistemi/comportamenti a sciame di Kevin Kelly, “dove non c’è nessun
controllo centrale: una versione autocosciente di comportamento di massa”57 (in
RHEINGOLD, pag. 284).
Non c’è, dunque, nessuna Twitter-ape-regina? Per rispondere a questa domanda
occorre precisare: da una parte, la decisione di aderire ad un appello, dall’altra la
costruzione e la decisione di manifestare la propria indignazione. Nel primo caso, si può
affermare che no, non esistono api regine; nel secondo, fondamentale è stato il ruolo dei
social network e della società digitale: è l’avvenuta consegna dell’uomo disintermediato
che ha fatto sì che questi, poi, aderisse alle iniziative di sua sponte, senza attendere le
tardive adesioni dei Fratelli Mussulmani o di esponenti del Partito Socialista Spagnolo.
E la presenza della rete la si intravede anche nel gesto più individuale e tragico
possibile, miccia della prima rivolta arabo-africana: il darsi la morte di Mohamed
Bouazizi.
3.3 Kifaya 58.
Tunisia. Sidi Bouzid, una cittadina di 40.000 anime. Un laureato disoccupato,
ambulante per sopravvivere. Due poliziotti, un sequestro di ortaggi. Uno schiaffo. Uno
sputo. Una dignità offesa. Un suicidio che va oltre il contesto in cui avviene. Perché è
suicidio, rigidamente vietato dall’islam. Per il modo: le fiamme, assolutamente estranee
56 Su questo concetto, anche “..le persone non si conoscono per via del nome o della collocazione geografica o sociale, ma in base a dei fulcri di interesse in uno scenario comune di senso e di sapere.. che permette di negoziare sui significati in un processo di reciproco riconoscimento.” (Levy, pag. 105) 57 Ed anche: “In una società di moderna liquidità, lo sciame tende a sostituire il gruppo, con i suoi leader, la sua gerarchia di comando e il suo ordine di beccata…Gli sciami si assemblano, si disperdono e si ricompongono a seconda dei casi, guidati ogni volta da priorità differenti…e attirati da obiettivi che cambiano in continuazione…non ha un centro; è solo la direzione contingente del suo volo che colloca alcune delle unità di questo sciame a propulsione autonoma nella posizione di leader, da seguire per la durata di un determinato volo o per una parte di esso, ma difficilmente più a lungo di così” in: http://culturemetropolitane.ilcannocchiale.it/post/1637374.html 58 “..in arabo significa “è abbastanza, basta”, ed è la parola che migliaia di manifestanti egiziani hanno scandito lo scorso febbraio per reclamare vera democrazia nel loro Paese.” In BEN JELLOUN, pag. 121
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al mondo arabo. Per la sua ostentazione, il luogo, la pubblica piazza: “in Maghreb e in
Machrek l’individuo non è riconosciuto come tale.. tutto è organizzato in modo che
l’emergere dell’individuo in quanto entità singolare ed unica sia impedito.. ciò che
viene riconosciuto è il clan, la tribù, la famiglia, non la singola persona” (BEN JELLOUN,
pag. 13).
Mohamed Bouazizi, 26 anni, aveva una laurea in informatica. Si può presumere
che il suo kifaya possa essere stato urlato dopo aver visto che in alcune parti del mondo
le persone vivevano nel rispetto della loro dignità. Si può presumere che la
disintermediazione abbia raggiunto anche lui.
La Rivoluzione dei gelsomini, come è stata definita la rivolta tunisina, è stata solo
una, anche se forse la principale59, delle sommosse che hanno messo in discussione gli
assetti del potere del mondo intero. Egitto, Libia, Yemen, Siria; in precedenza Iran. In
generale, l’intero mondo arabo sta vivendo una primavera fatta di rivendicazione di
diritti civili, sociali, sindacali. Cos’è questo, se non un mettere in discussione l’attuale
distribuzione del Potere, da parte di un movimento spontaneo, che mescola le
generazioni e le classi, non ha leader, non corrisponde a nulla di ciò che abbiamo visto
nel XX secolo? (BEN JELLOUN, pag. 140)
Ma a gridare kifaya non c’è solo la sponda sud-orientale del Mediterraneo. La fine
del 2010 e l’intero 2011 hanno visto l’emergere degli indignados, dei protesters, che
dalla madrileña Puerta del Sol hanno acquisito popolarità e consensi in tutta Europa e
nel nord america: la culla del capitalismo è scossa da rivendicazioni che, pur non
riprendendo tutte le parole d’ordine del 2001, chiedono di riportare l’economia sotto la
politica. No bulls, no bears, just pigs: Occupy Wall Street60 conia slogan crudi ma
efficaci nell’indicare le cause di una crisi economica che attanaglia il mondo intero e
dalla quale gli attuali assetti di potere vogliono uscire comprimendo ulteriormente diritti
e stato sociale. Per altri versi, la stessa Mosca sta vivendo una sua primavera, con
migliaia di cittadini che mettono in discussione i risultati elettorali. L’america latina ha
già da qualche anno espresso dei cambiamenti, tali da portare nativi o ex sindacalisti
alle più alte cariche istituzionali. La Cina.. è lì: forse ancora troppo distante per poter
osservare i micro-cambiamenti che ci sono, almeno nelle città; sicuramente alle prese
59 in quanto prima, almeno tra le vincenti. 60 Occupy Wall Street è il nome del movimento che a New York sta riproponendo le modalità di protesta degli indignados spagnoli; bulls e bears, tori ed orsi, sono i termini coi quali si descrivono gli andamenti di borsa.
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con una generazione di internauti decisamente insofferente alle rigide regole del Partito-
Stato.
Un mondo in subbuglio, insomma, da oltre un anno sotto i riflettori di tutti gli
analisti sociopolitici. Quali i loro commenti, relativamente all’incidenza del digitale
nello svilupparsi di quelle che alcuni hanno chiamato wikirivoluzioni61? Come spesso
accade, è possibile dividere i contributi in due gruppi: quelli che provengono da chi
tende a minimizzare l'importanza del web e quelli che, all'opposto, sono stati prodotti da
chi ritiene che senza di esso poco si sarebbe fatto.
3.4 Legami deboli.
Occorre per prima cosa distinguere tra chi guarda con disincanto alle piazze del
2011, basando la propria analisi sui risultati ottenuti od ottenibili e chi, invece,
propende per una sopravvalutazione della rete nell’organizzazione e gestione degli
stessi. Questi secondi, occorre dirlo, paiono essere una sparuta minoranza e, in estrema
sintesi, propongono due teorie, la prima delle quali mette in discussione molte delle
opinioni sino a qui descritte.
E’ Malcom Gladwell, famoso scrittore e giornalista del New Yorker62 che, in un
articolo dal titolo esplicativo “Twitter non fa la rivoluzione63”, prova a smitizzare due
assiomi: riprendendo il blogger Evgeny Morozov, afferma che il social network Twitter
è stato caricato di attenzioni non sempre meritate, dal momento in cui molto spesso i
suoi microblog non provengono dalle zone calde del pianeta, bensì dai Paesi a maggiore
democrazia ed a maggiore accesso ai social network stessi; gli esempi principali sono
quelli iraniano e moldavo, nazioni recentemente al centro di grandi manifestazioni di
piazza, durante le quali l’utilizzo di Twitter e degli altri social network è stato, almeno
per l’autore, molto limitato (se non quasi del tutto assente, come nel caso della
Moldavia, Paese nel quale “nessuno ha un account”).
61 Sono in molti a sostenere che i dossier segreti, pubblicati da WikiLeaks, nei qual si confermava l’intollerabile livello di corruzione dei governi arabi, siano stati uno dei detonatori delle rivolte sociali. 62 Nel 2005 è citato dal Time tra i 100 personaggi più influenti e nel 2007 gli è stato assegnato l'American Sociological Association's Award for Excellence in the Reporting of Social Issues. Fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/Malcolm_Gladwell 63 GALDWELL M., (2011) Twitter non fa la rivoluzione, in Internazionale, n. 883
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Ma è soprattutto nella sua affermazione, secondo la quale “le piattaforme dei
social media sono costruite intorno a legami deboli”, che opera una vera e propria
cesura con quello che, a questo punto, parafrasando, potremo definire il pensiero forte.
L’articolo prosegue con altri spunti di notevole interesse quali “la militanza
politica ad alto rischio è fenomeno che implica legami forti.. I social network sono
efficaci nel creare la partecipazione e la favoriscono abbassando [però] il livello di
motivazione che la partecipazione richiede: non motiva a fare veri sacrifici”, per
concludersi con un vero e proprio de profundis per chi crede in un ruolo attivo della rete
nei fatti del 2011: “favoriscono una forma di impegno sociale che sposta le nostre
energie da organizzazioni che incoraggiano attività strategiche a quelle che
incoraggiano elasticità e adattabilità.. sono adatti a rendere più efficiente un ordine
sociale che c'è già”.
Sillogismo in Cesare64: premessa maggiore, tutti i social network rifuggono dalle
gerarchie; premessa minore, quando si rischia, occorre una gerarchia [catena di
comando?]; conclusione, quando si rischia, nessuno si appoggia ai social network.
Tutt’al più, dice l’autore del New Yorker, i social network “sono adatti a rendere
più efficiente un ordine sociale che c'è già”65.
Al cuore della critica c’è proprio la caratteristica che, all’opposto, assume
rilevanza positiva in molti altri autori: è il ruolo del temine medio “gerarchia”, che viene
ad essere posto in discussione. Perché il sillogismo proposto da Gladwell fosse vero,
occorrerebbe che non fossero mai esistiti, e non esistano oggi, assalti al cielo che
abbiano fatto a meno di un centro organizzativo, decisionale. Ed è proprio quello che, al
contrario, assume rilevanza e testimonianza storico-sociologica per Ben Jelloun e per gli
altri autori fin qui citati.
Quella dell’organizzazione non è, comunque, una riflessione che investa il solo
campo dei social-scettici: “Il problema è gestire il dopo jacquerie.. la stabilizzazione
dell’antagonismo”, ammettono Hardt e Negri (pag. 242), quasi a significare che da una
parte esista la jacquerie fine a se stessa, il moto di indignazione popolare che, oltre che
ad essere acefalo, è anche privo di qualsiasi obiettivo di costruzione di un futuro
64 Nessun P è M; tutti gli S sono M; allora nessun S è P. 65 “Ricerca del Guardian contesta il ruolo di twitter nei disordini in UK.. da un’analisi di più di 2,5 milioni di tweet postati, risulta evidente come Twitter sia stato usato massicciamente per ristabilire l’ordine.. più di 206.000 tweet (8%) sono stati utilizzati per coordinare la polizia delle strade”. In Agoravox 26/08 - http://www.agoravox.it/Ricerca-del-Guardian-contesta-il.html
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alternativo rispetto a quello combattuto, mentre da un’altra parte esista la piazza buona,
piena di gente che, capi o meno, abbia comunque la necessità di darsi una qualsivoglia
organizzazione. Gli esempi vengono spontanei: le piazze cattive sono le banlieues
francesi del 2005 e, soprattutto, i riots inglesi dell’agosto 2011, nei quali, a seguito di
proteste seguite alle morti di ragazzi appartenenti a minoranze etniche, la rabbia
popolare è sfociata in una rivolta che ha subito lasciato il posto a saccheggi di stampo
consumistico66.
La gestione del dopo: mai come oggi, per gli autori orizzontali, la democrazia è
più un problema di metodo che di merito; di percorso, più che di programma: oggi, a
differenza che nel 2001, sarebbe impossibile organizzare assemblee di mattino, in pieno
orario lavorativo, “perché così i nazionali, professionisti della politica, quindi liberi da
orari di lavoro, possano poi prendere il treno”.
Nella sua parte teorica, l’osservazione di Gladwell cade nel vuoto: la gente di cui
parla è su tutt’altra lunghezza d’onda. E Tunisia ed Egitto sono lì a smentirlo nella
verifica empirica.
Prima di avvicinarci al susseguirsi degli eventi, vale la pena riportare un’ultima
voce critica, quella di Nicola Nosengo, per il quale Twitter (e social media in generale)
potrebbero addirittura “aiutare i dittatori”, non tanto per la possibilità di risalire agli
attivisti più impegnati nelle contestazioni, quanto per l’effetto couch potato che
indurrebbe:
“I nuovi media talvolta distraggono dallo scendere in piazza, come rivela uno studio dell’Università di Yale .. Navid Hassanpour, origini iraniane, ha studiato il ruolo dei new media nella rivoluzione egiziana.. è stata la decisione di Mubarak di imporre un blackout totale di internet e cellulari a dare la spinta decisiva alla rivoluzione.. bloccò internet e reti cellulari la mattina del 28 gennaio, dopo giorni di occupazione di piazza Tahrir.. anziché fermarsi, le proteste si diffusero al Cairo e in altre città… se vengono meno improvvisamente i canali di comunicazione regolari, a distanza, la gente dovrà uscire di casa e ricorrere alla comunicazione faccia a faccia per sapere cosa sta succedendo”.
NOSENGO N., E se twitter aiutasse i dittatori? in Wired (it), ottobre 2011, pag. 31 e segg.
66 Ha fatto il giro del mondo il video contenente lo sfogo dell’anziana pensionata che rimproverava ai saccheggiatori di mettere a soqquadro una città in nome di un paio di scarpe firmate e non per una causa. Notizia su http://www.dailymail.co.uk/news/article-2024087/LONDON-RIOTS-2011-Fearless-West-Indian-pensioner-stands-Hackney-mob.html
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Più che un’unica tesi, questa affermazione sembra scomponibile in due assiomi
distinti, artificiosamente collegati: la gente che si ribella ad una ulteriore stretta sulla
libertà di opinione e di pensiero, cosa comprensibile e molto probabilmente verificatasi,
e la teoria per la quale se si fossero mantenuti attivi i social network, le persone se ne
sarebbero rimaste a casa, implicazione del tutto non verificata e falsata, se non altro,
dalla sovrapposizione arbitraria tra metodi di fruizione dei new e broadcasting media.
3.5 Tweetnadwa.
Al di là delle disquisizioni teoriche, per vedere quanto possa essere importante
l’uso dei social media all’interno degli stessi confini della politica tradizionale italiana,
basta andare agli inaspettati risultati del referendum sull’acqua, del 12 e 13 giugno
2011: quasi il 55% degli italiani sono andati a votare e, quasi all’unanimità, hanno
ribadito, tra l’altro, di volere considerare l’acqua un bene, se non comune alla Hardt e
Negri, almeno pubblico. In queste pagine c’è solo da rimarcare non tanto il fatto che più
di 27.600.000 elettori ed elettrici si siano mossi nonostante buona parte dell’arco
parlamentare fosse palesemente ostile ai referendum e che la restante parte fosse
costellata da mille distinguo, quanto che la mobilitazione sia stata ottenuta anche
tramite un uso massiccio del digitale. Messaggini, mail e newsletter, siti, flash mobs
organizzati su Twitter e su Facebook, video postati su You Tube: l’autocomunicazione
di massa ha contribuito notevolmente al successo dei referendari.
Non solo. Se andiamo a vedere la pagina “Chi siamo” del sito del Comitato
organizzatore dei referendum leggiamo: “Siamo cittadini, donne e uomini liberi che da
anni si battono per una gestione dell'acqua pubblica, partecipata e democratica…. Nei
territori, in tutti i territori, sono nati comitati locali, fino a formare una rete viva e attiva
in tutto il Paese. Questo è il popolo dell'acqua, inclusivo, vivace, propositivo67”.
Sicuramente c’erano delle organizzazioni, all’interno di quel comitato, anche di
notevole importanza, ma l’azione politica, soprattutto sul territorio, era altra cosa
rispetto al modo di muoversi dei partiti o delle organizzazioni di massa, loro
emanazione, del secolo scorso.
67 In http://www.referendumacqua.it/chi-siamo.html
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Se il referendum sull’acqua ha vissuto solo di fugaci apparizioni nei mainstream
media68, anche per quel che concerne le implicanze digitali della sua comunicazione, di
tutt’altro tenore è stata l’analisi che ha accompagnato la primavera araba e gli
indignados dell’opulento nord del mondo, in crisi.
“L’intreccio tra rivolta, media, social media non è mai stato così stringente. E
codici dello spettacolo e rete fanno parte dell’alfabeto fondamentale di ogni flash-mob e
smart-mob”, scrive Marco Mancassola su Wired Italia69.
“La manifestazione di massa del 25 gennaio era stata organizzata da due
settimane su internet.. gli osservatori avevano sminuito il tutto parlando dell’ennesimo
caso di attivismo virtuale.. in passato, poche centinaia di persone in piazza.. le cose
stavolta erano diverse. I social media avevano dato alla gente un mezzo di
comunicazione e propaganda indipendente, quello che mancava. Centinaia di migliaia
di egiziani guardavano i video delle manifestazioni su You Tube pochi minuti dopo. Per
una generazione apolitica che non si era mai interessata a certi argomenti, la protesta era
senza precedenti”: lo scrive Sam Tadros, per American Thinkers, come riproposto ai
lettori italiani da Limes70. In un editoriale di Der Spiegel, tradotto da Internazionale, si
afferma che “Il partito di facebook, come lo scrittore Ala al Aswani definisce la
generazione tra i venti ed i trent’anni, è riuscita a fare quello che l’opposizione
tradizionale (islamismi, sinistra, nasseriani, liberali) non ha saputo fare.. Il movimento 6
Aprile, gruppo su Facebook, ha raccolto settantamila adesioni..”71.
Si può concludere questa prima carrellata di citazioni riprendendo alcuni passi di
un articolo che Castells scrive per il numero 883 di Internazionale, numero che è una
vera e propria grotta del tesoro per chi è alla ricerca di notizie e commenti sul ruolo del
digitale nella primavera araba:
“In Tunisia, come in molti paesi musulmani, la metà della popolazione ha meno di 25 anni. Ecco perché possiamo parlare di wikirivoluzione.. [se è] Wikileaks che rivela la corruzione del regime… Al Jazeera ritrasmette filmati pubblicati dai dimostranti su You Tube e su altri siti.. si attivano i messaggi su Twitter e Facebook.. fino a costruire un sistema di comunicazione e organizzazione privo di centro e di leader che funziona in modo efficace, travolgendo censura e repressione.. Al Jazeera, BBC in arabo, France 24, Al
68 Forse un modo per limitarne l’importanza. Altro metodo utilizzato per controllare il fenomeno, è stato quello di intervistare i leader dei partiti e non i componenti del Comitato organizzatore. 69 MANCASSOLA M., (2011) Chi ha paura della rabbia giovane? In Wired (it), Ottobre 70 TADROS S. La vera storia della rivoluzione egiziana in http://temi.repubblica.it/limes/la-vera-storia-della-rivoluzione-egiziana/19653 71 editoriale di DER SPIEGEL, (2011) Tempo scaduto per il faraone, in Internazionale, n. 883
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Hiwar.. è un nuovo sistema di comunicazione di massa .. mix interattivo tra TV internet radio e smartmobs. La comunicazione del futuro è già usata per le rivoluzioni del presente.. senza questa, la rivoluzione tunisina non avrebbe avuto le stesse caratteristiche: spontaneità, assenza di leader, protagonismo di studenti e professionisti.. sindacati e opposizione hanno dato sostegno ad un processo già avviato.. questa libertà di comunicazione rende difficile per i politici manipolare la transizione”
CASTELLS M., (2011) I gelsomini tunisini viaggiano in rete, in Internazionale, n. 883
Metà della popolazione ha meno di 25 anni: ecco una prima, grossa, differenza tra
movimento (pan)arabo, indignados/protesters e Social Forum 2001. Le condizioni di
disperazione economica e democratica in cui versavano Paesi quali la Tunisia e
l’Egitto72, sono state sicuramente il combustibile delle rivolte contro il potere costituito,
ma l’età delle persone scese in piazza, il loro essere digital native, è stato probabilmente
il comburente che ha permesso di guardare oltre la repressione del momento, di
accorgersi che il mondo intero stava osservando attentamente gli sviluppi delle loro
azioni, di comprenderne l’importanza.
In questa azione di sensibilizzazione dentro la rivolta e, contemporaneamente, di
informazione verso il resto del mondo, un ruolo decisivo è stato ricoperto dai bloggers
arabi, recentemente riunitisi proprio a Tunisi, nel loro terzo raduno (il primo svolto in
un clima non più semiclandestino). Sulla home page del loro sito si può leggere
l’orgoglio e la consapevolezza per il ruolo avuto in questi ultimi anni:
“L'attivismo digitale, ha svolto un ruolo cruciale nella recenti rivolte in tutto il mondo arabo. Attivisti di internet nei paesi arabi oggi sono più consapevoli della loro influenza e del loro potere, e stanno sempre più cercando il modo di impegnarsi in strategie di transizione verso la democrazia, la trasparenza e la governance.
Con le rivoluzioni arabe che continuano in Tunisia ed Egitto, e con le proteste e ribellioni che stanno continuando in tutta la regione, cittadini-giornalisti sono diventati tra le poche voci credibili per chi vuole mantenere il passo con tale evoluzione e coordinare gli sforzi sul terreno… Ora speriamo di costruire su questo successo, affrontando le sfide significative che ancora esistono per la libertà di parola e contro la censura, elevando il livello di ambizione su ciò che i cittadini digitali possono raggiungere lavorando insieme in questa epoca di transizione verso la democrazia.”
http://arabloggers.com/blog/the-third-arab-bloggers-meeting-ab11-3-%E2%80%93-6-october-2011-tunis-
%E2%80%93/
72 La rivolta libica ha sicuramente origini peculiari, principalmente dovute alla distribuzione disomogenea del potere tribale ed al ruolo internazionale che questo Paese ricopre.
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Quanto sia stato importante il ruolo dei blogger e dei social networks lo si
capisce dal numero di blogger e siti occidentali che riprendono le notizie provenienti dal
cyberspazio arabo e dal fatto che Twitter abbia confermato che, nel 2011 e nell’intero
pianeta, l’hashtag più usato sia stato #Egypt73.
Ruolo tanto importante, quello dei blogger arabi, da far sì che Nawaat, “un blog
collettivo e indipendente gestito da giovani tunisini, piattaforma di scambio di idee per
tutti i cittadini impegnati, che ha svolto un ruolo determinante nella copertura
giornalistica della rivolta popolare in Tunisia cominciata il 17 dicembre 201074”, abbia
vinto il Netizen Prize 201175, premio finanziato da Google.
Andando a guardare i filmati caricati su AB11, si scopre, con piacere, che, se è
bassa l’età anagrafica, alta è la percentuale delle donne. Una rapida indagine in rete fa si
che la sorpresa si mitighi nella constatazione dell’importanza del ruolo avuto dalle
donne, non solo nelle piazze del 2011 ma, anche in precedenza, nell’opposizione ai
regimi nordafricani. “Sorelle d’Egitto” titola un pezzo di Der Spiegel76 e sicuramente il
riferimento è indirizzato ai Fratelli Musulmani, anch’essi con una presenza attiva
femminile che si aggira intorno al 50% del totale degli affiliati.
“Non deve quindi stupire il dato che le donne arabe in Medio Oriente siano molto attive sui social network, con una partecipazione del 71% delle donne e un 34% che si connette almeno 10 ore alla settimana nel tempo libero, e che sia in aumento il desiderio di queste donne di conversare, condividere informazioni e contenuti, raccontarsi sul web. Le donne hanno avuto un ruolo fondamentale nella protesta pro-democrazia avvenuta in Egitto: studentesse universitarie, madri con i figli, donne che hanno alzato la loro voce e hanno manifestato..”77.
PACETTI E. (2011) Donne, relazioni e social network - Università di Bologna - rpd.cib.unibo.it/article/download/2239/1617
73 in Cinguettare islamico, 09/12/2011, su http://mir.it/servizi/radiopopolare/blogs/alaska/ dove si legge anche: “mentre siamo abituati da gennaio ad associare l’utilizzo dei social media con l’avanguardia laica e liberale della rivoluzione, durante il primo turno delle elezioni egiziane è diventato obbligatorio seguire le comunicazioni via Twitter di @Ikhwanweb, account ufficiale dei Fratelli Musulmani”. 74 in http://www.pinobruno.it/2011/03/tunisia-i-blogger-di-nawaat-vincono-il-netizen-prize-2011/. L’URL del loro sito è http://nawaat.org/portail/ 75 http://en.rsf.org/netizen-prize-2011-14-03-2011,39791.html “On the eve of the World Day Against Cyber-Censorship, Reporters Without Borders Friday awarded its 2011 Netizen Prize to the founders of a Tunisian blogging group named Nawaat. The Netizen Prize goes to a Netizen - a blogger, online journalist or cyber-dissident - who has helped to promote freedom of expression on the Internet..” 76 KRAHE D. (2011) Sorelle d’Egitto, Der Spiegel, in Internazionale n. 895 77 Elena Pacetti cita un articolo del quotidiano Khaleej Times online, ove si legge “Arab women are highly involved in the social networking space, with Facebook ranking as the leading social networking site among Arab women: 91% in Lebanon, followed by 80% in Egypt, 78% in the UAE, 70% in Jordan, 68% in Kuwait and Qatar each, 66% in Bahrain, 64% in Saudi Arabia, 55% in Oman, and 45% in Syria”: http://www.khaleejtimes.com/DisplayArticle08.asp?xfile=data/middleeast/2010/June/middleeast_June452.xml§ion=middleeast.
50
Social Network con un ruolo indiscutibilmente importante, quindi. Tanto da dare
una rilevanza precedentemente neppure ipotizzabile al mondo femminile arabo. Tanto
da organizzare, suo tramite, manifestazioni che hanno visto la partecipazione di decine
di migliaia di persone, come nel caso della Seconda rivoluzione della rabbia, dell’ 8
Luglio, con un hashtag78 #july8, tutt’oggi pulsante. Tanto da materializzarsi nei
Tweetnadwa, dove i 140 caratteri di Twitter diventano secondi e sono posti come limite
a chi vuole parlare nel corso dei sit-in di protesta e di informazione organizzati nelle
strade del Cairo79. Tanto da far sì che il principe saudita Al-Waleed ben Talal investa
300 milioni di dollari su Twitter80.
3.6 L’occidente, tra Islanda e singles.
Come già accennato, mentre il 2011 arabo ha visto il sollevamento di intere
popolazioni, soprattutto in Tunisia, Egitto, Yemen, Libia, Siria81, il nord del mondo ha
visto acuirsi una profonda crisi economico-finanziaria, con conseguenti profonde
ricadute sullo stato sociale di interi continenti. Ad una realtà, già pesante, che
precarizzava la vita di intere coorti, si è venuto ad aggiungere il progressivo
smantellamento dei diritti sindacali e sociali che, pur tra mille contraddizioni, i governi
europei avevano garantito negli ultimi quarant’anni.
Anche in Europa e nel nord America, la protesta contro le risposte liberiste alla
crisi sono passate attraverso il digitale. Queste proteste, per meglio dire, si sono
affiancate ai tradizionali metodi di lotta sindacali, e sono andate a colmare il vuoto
lasciato da un’ormai inconsistente opposizione parlamentare. Due reazioni che, almeno
78 “Parole o frasi precedute dal simbolo cancelletto (#) con più parole concatenate… In questo modo una persona può cercare un termine e la parola etichettata apparirà nei risultati di ricerca. Questi hashtag appaiono anche in un certo numero di siti web di termini più trattati (trending topics), tra cui la homepage di Twitter” in http://it.wikipedia.org/wiki/Twitter#Hashtag 79 “Politica a colpi di tweet, insomma.. che da virtuale si trasforma nella carne di centinaia di persone, in genere giovani, che si vedono, si incontrano – alcuni per la prima volta – e continuano a far politica. Stavolta, in 140 secondi a intervento. Un modo, questo, per far capire che la rapidità e la concisione non sono solo dettagli… E’ un esperimento politico guidato da Alaa Abdel Fattah” in http://invisiblearabs.com/?p=3327 80 “Questo significherà che l’arbitro dei destini del Golfo potrà controllare in futuro quello che nell’ultimo anno e mezzo è stato uno spazio straordinariamente libero ed efficace per chi chiede riforme democratiche?” in al Twittah?, http://mir.it/servizi/radiopopolare/blogs/alaska/?p=5569 21 dic 2011 81 Vere e proprie rivoluzioni, la maggior parte delle quali ancora in corso. Alcune descrivibili come guerre civili a forti tinte interetniche, altre come lotte per la democrazia e la dignità.
51
inizialmente, contraddistinguevano giovani, da una parte, e mondo del lavoro
(ex)garantito, dall’altra. Due reazioni che, pur distinte e non sovrapponibili, in ogni caso
avevano e hanno un solo obiettivo: democratizzare il potere.
C’è un’unica eccezione: l’Islanda. In questo Paese il potere politico stesso ha
ripreso in mano le leve della democrazia e, al di là delle ricette economico-finanziarie
avanzate, giocoforza non analizzabili in questa sede, sta riscrivendo la sua Carta
Costituzionale utilizzando massicciamente gli Ugc.
Basterebbe questo esempio per dare una risposta alla domanda posta alla base di
questa tesi: esistono tecnologie di libertà? Certo! Al massimo, volendo essere cauti,
potremo limitarci a dire che esiste la possibilità di usare le tecnologie digitali quali
amplificatori di democrazia.
Si potrà obiettare che per la Terra dei ghiacci è facile usare in questo modo le
tecnologie digitali: 320.000 abitanti, il 90% dei quali su internet; dati che hanno favorito
“3.600 commenti alla bozza di Costituzione, 370 suggerimenti, tutti presi in
considerazione dai redigenti, alcuni dei quali finiti nella bozza82”. Ma è proprio la rete
che ci ha già insegnato che per lei non esistono limiti geografici o quantitativi:
riprendendo Friedmann, si potrebbe dire che per fare empowerment devono già esistere
dei requisiti sociali e culturali minimi, requisiti magari presenti in Islanda e non altrove.
Ciò non toglie che le stesse condizioni si possano ricreare ovunque lo si desideri,
investendo in banda larga e formazione piuttosto che in armi o mega-ponti, per esempio.
Stiamo parlando di digitale e potere: la piccola Islanda è lì a dimostrarci che il
potere stesso può utilizzare il digitale per implementare gli spazi della propria
democrazia e legittimare se stesso. Attenzione: non stiamo parlando di apertura verso
nuove forme di partecipazione, qui si parla della Costituzione di una nazione, cioè di
come viene distribuito concretamente il potere reale83.
L'Islanda, purtroppo, è isola; e non solo in senso meramente geografico. Altrove
le democrazie rappresentative hanno affrontato la crisi accentrando ulteriormente i
82 SENSI F. (2011) Riscrivi la Costituzione con la rete (come ha fatto l’Islanda), in Wired (it), Novembre 83 “La partecipazioni si limita alla richiesta di contribuire alla definizione delle scelte locali senza mettere in discussione le relazioni di potere” FRIEDMANN in FANARI , Segnali dal basso: partecipazione ed empowerment nel dilemma dello sviluppo, tesi UniFi, AA. 2000-2001.
52
propri spazi decisionali. La reazione internazionale alla sola proposta di referendum
popolare sulle ricette per affrontare la crisi, avanzata in Grecia, è lì a dimostrarlo84.
Il digitale ha comunque trovato altri soggetti sociali in grado di sfruttarne le
potenzialità: sono le generazioni perdute che, a partire dalla Spagna, hanno iniziato ad
esprimere il proprio dissenso occupando sia luoghi fisici che cyberspazio.
Nel nord America, sono la rivista canadese Adbusters e il collettivo di hacker
Anonymus che nel settembre 2011 lanciano l'appello di Occupy Wall Street; solo
successivamente si unisce il sindacato dei siderurgici United Steelworkers.
Decollano le vendite della maschera di Guy Fawkes: “La Rubies Costume
Company vende oltre 100.000 pezzi all’anno della maschera di Guy, famosa sia per il
film V come vendetta che per essere usata da quelli di Anonymous, la rete hacker,
quando si mostrano in pubblico85”. Note di colore a parte, la protesta diventa globale,
caratterizzata da alcuni elementi comuni: “le tende, l'uso dei social network, il
microfono umano e le jazz hands86”.
E' un movimento acefalo e positivamente spaesato, maturo nei modi e nei
percorsi: non c'è solo l'Oxi, gridato nella piazza Syntagma di Atene, un No che
comunque non è sola espressione di diniego, dato che riprende la protesta contro
l'occupazione fascista italiana della seconda guerra mondiale: “siamo una bella massa di
gente.. siamo in comunicazione gli uni con gli altri…. è l’ora della democrazia..
avanziamo la semplice richiesta di separare il denaro dalla politica87”. Traduzione:
vogliamo mettere in discussione la distribuzione del potere.
“Il movimento non ha precedenti perché viviamo in una era senza precedenti..
Occupy è la prima reazione popolare di massa in grado di cambiare le dinamiche
attuali.. si impara partecipando.. abbiamo tutti bisogno di capire.. Occupy potrà davvero
84 “Quando il premier greco Giorgos Papandreou ha indetto un referendum, è stato criticato e costretto a lasciare l’incarico. Non è il momento di consultare il popolo, gli è stato detto, perché la sua libertà di decidere potrebbe portarci tutti al collasso. I poteri economici e le agenzie di rating hanno rafforzato la loro logica intrinseca: non è questo il momento di consultare il popolo. È come se in tempi di crisi le regole della democrazia dovessero essere sospese, con i cittadini che rimangono a guardare.” TARIQ
RAMADAN (2011) Contro tutti i nemici della democrazia in Gulf News tradotto in Internazionale n. 925 85
MANCASSOLA M., (2011) Chi ha paura della rabbia giovane? In Wired (it), Ottobre 86
ADDLEY E. (2011) La protesta diventa globale, the Guardian in Internazionale n. 920. Per Microfono umano si intende il passaparola resosi necessario nelle assemblee di Ows per sopperire al divieto di usare megafoni o altoparlanti; per Jazz hands si intende il modo di agitare le mani, usato nelle assemblee per esprimere il proprio apprezzamento. 87 Dal Manifesto di Ows pubblicato da Adbusters in Wired (it) Nov 2011
53
portare la società moderna su un cammino più umano”: A sperarlo, ed a scriverlo, è
Noam Chomsky88.
Stabilita la volontà di mettere in discussione gli assetti di potere, occorre
indagare il contributo che il digitale ha dato al nascere ed al maturare anche di questo
movimento: non tanto per ribadire il ruolo di amplificatore mediatico, di megafono, che
il digitale ha indiscutibilmente avuto, quanto per trovare quei parallelismi per i quali i
giovani del 2011 possano discostarsi dai protagonisti di altri movimenti di protesta e di
vedere se e in che modo il digitale possa aver svolto un suo ruolo. Come per i ragazzi
arabi, occorre andare anche in Spagna, negli USA e negli altri epicentri della protesta,
per vedere chi c'è dietro il movimento. E chi, meglio di David Graeber, uno degli
ispiratori dell'appello di Occupy Wall Street, può dircelo?: “La rivista [Adbusters] si è
limitata a fissare una data e a pubblicizzarla, un collettivo di militanti e studenti di New
York ha pensato agli aspetti pratici.. e a gestire l’assemblea sono stati gli orizzontali”,
dato che nessuno ha aderito al tentativo di organizzare un comizio ed una
manifestazione su programmi e parole d’ordine stilati in precedenza in una qualche sede
di una qualche organizzazione89” .
A Zuccotti Park ci sono gli orizzontali e nessuno riesce ad egemonizzare le
iniziative: quel piccolo parco, privato, sembra riflettere la luce di migliaia di cocci di
specchio. Qui, come a Puerta del Sol e a piazza Tahrir, la danza la menano i singles.
Essere singles non significa non avere una storia alle proprie spalle: si può già essere
stati sposati, o fidanzati con un'ideale; addirittura con un partito. Ma quei luoghi sono
sale da ballo per singles: chi ci va sa come deve comportarsi. Chi non accetta le regole,
fa tappezzeria.
Massima tolleranza, massima apertura: se tutti possono parlare, tutti possono
portare il loro contributo, anche se rappresentanti sindacali o leader di partito. Ma
valgono uno. A contare è la proposta, il logos, il contenuto.
Se proprio vogliamo trovare la diversità tra movimenti arabi ed occidentali,
possiamo forse banalmente trovarla nei risultati concreti che questi sono riusciti ad
ottenere, riassumibili nei due ruoli che la figura di Guy Fawkes ricopre nel citato film:
una, la versione araba, maggiormente rispondente al personaggio storico al quale si
88
CHOMSKY N. Occupiamo il futuro, Alternet USA, in Internazionale n. 922 89 Intervista di BENNET D. (2011) Chi c’è dietro al movimento, Bloomberg Businessweek in Internazionale, n. 922
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ispira, di sovvertitore dell'ordine costituito; l'altra, la versione occidentale, al Guy
personaggio che non si ferma alle verità sancite dal potere e che piega i media
disponibili per fare controinformazione, come si sarebbe detto una volta. Diversità che,
come è evidente, non dipende dall'apporto che il digitale ha fornito ai due movimenti.
Non occorre nasconderci che anche nei Paesi arabi la situazione è tutt’altro che
definita; i risultati elettorali in Tunisia ed in Egitto possono lasciare qualche perplessità
sull'effettiva possibilità di arrivare ad una concreata redistribuzione del potere e ad un
radicamento istituzionale dei diritti civili e sociali, rivendicati dai ragazzi e dalle
ragazze delle Primavere arabe.
Non occorre, d’altro canto, sottacere che da Zuccotti Park è recentemente uscito
il documento di proposte definito “Un nuovo statuto economico del Popolo
Americano”. Diciannove punti, settanta pagine dense di contenuti molto spesso ripresi
dalle proposte avanzate nei diversi Social Forum: Tobin tax, democratizzazione delle
istituzioni economico-finanziarie internazionali, energie alternative, sanità pubblica
(all’europea), acqua bene comune, istruzione pubblica, ecc..
Troppe variabili in gioco per poter fare previsioni. Troppo presto per dare
giudizi complessivi. Non resta che aspettare gli eventi. O, nel proprio piccolo,
contribuire a costruirli.
55
Cap. 4 - Conclusioni
Sommario: 1. Le sale dei bottoni. - 2. Orizzontali e desideranti. - 3. Il carro ed i buoi. - 4. Tecnologie di libertà.
4.1 Le sale dei bottoni.
In premessa si indicava la necessità di indagare su quale e dove fosse la sala dei
bottoni, il luogo deputato all’assunzione delle decisioni, e su quali meccanismi vengano
sollecitati nelle dinamiche di (del) potere. Lo svolgimento del discorso ha portato a
considerare necessario che il potere, ovunque sia collocato, abbia bisogno di
autolegittimarsi e che, per farlo, ritenga indispensabile egemonizzare i luoghi deputati
alla costruzione del significato. Le affermazioni categoriche di Castells, lasciano poco
spazio ai fraintendimenti: il potere è basato sul controllo della comunicazione e
dell’informazione [perché] la forma fondamentale di potere consiste nella capacità di
plasmare la mente umana90.
Come dice Barthes, “il racconto è una delle categorie fondamentali della
conoscenza umana, che ci consente di capire e ordinare il mondo” (MEZZA (a cura di) 2009,
pag. 164). Siamo nella “società informazionale.. epoca in cui il controllo delle unità
essenziali della informazione, attraverso il digitale e le biotecnologie, diventa il core
della produzione economica ed anche della produzione di senso” (Castells citato in
ABRUZZESE, MANCINI , pag. 257).
Ferme restando le osservazioni di Foucault sulla pervasività e capillarità del
potere e delle sue relazioni91, non si può non convenire che gli ultimi 30-40 anni
abbiano visto un continuo travaso di sovranità dalle assemblee elettive a centri
decisionali sempre più distanti dai cittadini: FMI, World Bank, WTO, per finire alle
attuali agenzie di rating. Questo, ovviamente, avveniva e avviene non certo per
bramosia di potere fine a se stessa, quanto come presupposto necessario per comprimere
diritti sociali e civili, e per trasformare beni comuni o pubblici in merci; vale a dire, per
trasferire notevoli quote di reddito dal lavoro dipendente alla rendita finanziaria.
90 citati in cap. 2.2 91 “Il potere è divenuto qualcosa di più funzionale, riproduttivo e pervasivo. Ecco allora che Foucault arriva a elaborare l'attualissimo concetto di biopotere, potere cioè che costruisce corpi, desideri, i modi fondamentali della stessa vita” in http://it.wikipedia.org/wiki/Michel_Foucault
56
Se nel sud del mondo, Paesi arabi compresi, retaggi coloniali hanno permesso di
favorire queste dinamiche basandosi sul mero sostegno a governi compiacenti,
autoperpetuatisi con meccanismi tipici delle dittature novecentesche, in occidente si è
agito, come minimo, su due fronti distinti: la creazione dell’immaginario collettivo
necessario alla produzione e al mantenimento della società dei consumi e la svendita
costante e progressiva con la quale “i politici cedono a dei privati la ricchezza pubblica
in cambio del loro sostegno92”.
Se questo è lo scenario, l’irruzione del Web 2.0 non può far altro che mettere in
discussione i significati. Possiamo immaginare gli User generated contents come il
microfono umano di Zuccotti Park: qualche volta simile alle aberrazioni involontarie
del telefono senza fili, di fanciullesca memoria, il più delle volte, invece, corda di
Alfieri, che obbliga a riflettere sul reale significato di una affermazione, che costringe a
concordarne il senso.
Allora è la rete la sala dei bottoni? Riprendendo Castells, non la rete, quanto le
reti93, anche se, indubbiamente, la rete-Web acquisisce, in seno ad esse, sempre
maggiore importanza. Non per nulla, sono sempre più pressanti i tentativi di porre Web
2.0 e Social Network sotto tutela: dal casereccio Decreto di Legge sulle intercettazioni,
definito ddl ammazza blog, alla minaccia di oscuramento, là ove qualcuno decida che un
social network possa essere di aiuto ai rivoltosi. E si sa che, molto spesso, le rivolte
vengono giudicate in modo diverso a seconda che avvengano al di qua o al di là di una
frontiera: le lotte per l’autodeterminazione e la difesa del proprio territorio vanno bene
se sono fatte da qualche popolo indio, meno bene se sono sostenute dagli abitanti della
Val di Susa.
4.2 Orizzontali e desideranti.
La costruzione di significati condivisi va giocoforza a braccetto con la
disintermediazione: l’una presuppone l’altra. Quando si parla di costruzione di 92 “Una conseguenza positiva dell’impossibilità di regolare la finanza internazionale, anche dopo il suo catastrofico collasso, è che il modello economico dominante si è rivelato per quello che è: non un “libero mercato”, ma un “capitalismo clientelare”, in cui i politici cedono a dei privati la ricchezza pubblica in cambio del loro sostegno. Quello che prima era tenuto discretamente nascosto è venuto alla luce. Di conseguenza la rabbia dell’opinione pubblica per l’avidità delle aziende ha raggiunto livelli altissimi” KLEIN N. (2011) No Logo 10 anni dopo, in Internazionale n. 906 93 citate in cap. 2.1
57
significato, infatti, non ci riferiamo unicamente all’analisi critica dei frame, dei racconti
che ci possono giungere, né, esclusivamente, della condivisione di frame e racconti
alternativi: la storia è piena di ideali condivisi, di letture univoche degli umani
accadimenti. La diversità dei movimenti del 2011, rispetto a quelli precedenti, forse sta
proprio qui: dal resettare i propri vissuti e dal provare a crearne di nuovi. Alla fine si
potrà forse scoprire che quanto convenuto assomigli a quanto richiesto in precedenza, in
altre occasioni, ma fondamentale sarà stato il percorso, l’empowerment, sia del singolo
che del gruppo, o collettivo, classe, moltitudine che sia.
E’ Castells ad estremizzarne il concetto, nel momento in cui afferma che “la
nuova cultura non è fatta di valori ma di processi.. come la cultura democratica
costituzionale è fondata su procedure e non su programmi concreti” (CASTELLS, pag. 37).
Disintermediazione, quindi: il fideismo lascia il posto al confronto. Lo scambio
attenzione per partecipazione, indicato in Obama.net da Michele Mezza, forse è già
stato superato. Occupy, anche a causa delle delusioni patite sotto la presidenza Obama,
costruisce il proprio programma e su quello chiama a raccolta chi ci sta, creando un
rapporto paritetico.
Difficile non vedere il ruolo che il digitale ha giocato nella sua diffusione virale
di questo fenomeno. Difficile non vedere le aspettative che, tra mille forse, se e però,
accomunano gli autori citati in questo lavoro. Ancor più difficile resistere alla
tentazione di operare una sorta di sincretismo tra le loro teorie, magari tirandole un po’
per la giacchetta, nella convinzione che tutti, pur nelle proprie peculiarità, abbiano
evidenziato sia i rischi derivanti dagli attuali assetti di potere che le potenzialità insite
nei cambiamenti indotti dalle tecnologie digitali, soprattutto, ovviamente, per quelle che
riguardano la comunicazione.
Gli autori sono però risoluti nel rifiutare ogni sorta di positivismo: non esistono
scorciatoie, men che meno sensi unici che ci conducano verso le dorate sorti
progressive della storia: “esistono forze dell’antimodernità che non hanno nulla di
liberatorio.. i mostri possiedono la chiave di nuovi poteri creativi ..” (HARDT, NEGRI, pag.
106).
Lo vediamo, per fortuna in piccolo, anche oggi: la piattaforma di Ows, oltre a
contenere le rivendicazioni già evidenziate, pone l’accento sulla necessità di mettere
dazi e maggiori tasse per evitare che le imprese a stelle e a strisce vadano all’estero a
sfruttare un costo del lavoro nettamente più basso: un protezionismo che parrebbe
58
svincolato da qualsiasi idea di equa redistribuzione delle risorse planetarie.
Contemporaneamente, la decisione se essere pro o contro gli OGM non è stata ancora
presa: due bei passi indietro rispetto a dieci anni fa.
Potenzialità. Le ICT94 sviluppano potenzialità. Da difendere: “Tanto è più grande
la diversità delle culture e dei gruppi, tanto più ampio è il potenziale civile e politico di
internet.. e tanto è più solida la difesa dal rischio che il mondo delle corporations
imponga i suoi standard“ (SASSEN, pag. 192). Lo stesso modo in cui si utilizza la rete è
determinante per mantenere vive queste potenzialità.
Se “fare empowerment significa prima di tutto sostenere l’individuo a far
emergere la sua funzione desiderante, per consentirgli di passare alla costruzione di una
realistica possibilità di scelta in direzione del cambiamento desiderato” (BRUSCAGLIONI et
al. (1996) in FANARI, pag. 88), possiamo dire che il Web 2.0, disintermediando il
cyberspazio, costringe una moltitudine di orfani a crescere da soli e assieme. Sarà poi la
situazione internazionale a bisbigliare loro le parole “e fatelo in fretta!”95.
4.3 Il carro ed i buoi.
Dopo disintermediazione (assunzione di responsabilità) e Ugc (analisi e
costruzione condivisa di una alternativa), l’adhocracy: l’azione. Questo è il terzo
concetto che si vuole ascrivere all’avvento dell’utilizzo sociale della rete: la tendenza,
tutta digital native, a formare gruppi spontanei in rete, su obiettivi anche minimi. La
social long tail.
L’entusiasmo con il quale Rheingold analizza il fenomeno lo porta a dire che
questa incarnazione del P2P96 riproduca la sinergia dei giochi a somma non zero:
nessuno deve perdere, perché qualcuno vinca. Siamo alle “pecore che evacuano erba”
(RHEINGOLD, 2003, pag. 241): si è passati dal lasciare utilizzare ad altri la potenza di calcolo
94 Information communication technologies 95 Visto che siamo entrati nel mondo dei desideri, può far piacere sapere che anche qui non siamo abbandonati a noi stessi: “Esiste un Inconscio digitale, che non quello di Freud, infatti il data-mining lo studia un hacker, non uno psicologo.” Dalla lectio magistralis di DE KERCKHOVE al convegno “Dalle pagine alla rete; nuove forme di comunicazione sperimentate sulla rete”, Genova 24/10/2011. 96 peer to peer: rete paritaria, rete di computer o qualsiasi rete informatica che non possiede nodi gerarchizzati ma un numero di nodi equivalenti (in inglese: peer). In http://it.wikipedia.org/wiki/Peer-to-peer
59
non utilizzata del nostro PC, alla messa a disposizione del nostro tempo libero e delle
nostre intelligenze per fini scientifici e culturali97, alla costruzione di reti sociali che
“caratterizzate da forte etica della condivisione e spiccata avversione alla censura” e
basate su reti di fiducia (web of trust), “sono la nuova forma di organizzazione sociale”
(RHEINGOLD, 2003, p. 265).
Non è escluso che le obiezioni di Malcom Gladwell, lo scrittore e giornalista del
New Yorker, possano avere un qualche fondamento: almeno inizialmente, in rete si
costruiscono legami deboli. Le persone che erano già propense alla realizzazione di
iniziative pubbliche, di norma non si accontentano dell’I like o del retweet. Ma è anche
vero che il digitale, con i suoi Ugc, con l’autocomunicazione di massa, ha aperto la
strada all’adhocracy ed ai comportamenti a sciame, sino a sfondare quei muri che la
bloger siriano-spagnola Leila Nachawati ha definito della paura, per il mondo arabo, e
dell’apatia e del silenzio, per il mondo occidentale98.
Le obiezioni di Gladwell si infrangono contro la cronaca di questi ultimi mesi.
Gli I Like-qualcosa si sono strasformati in movimenti reali, in corpi in piazza, in
persone che coscientemente infrangono regole ritenute non giuste; persone che si
espongono ad arresti e molto spesso a percosse; che rischiano la propria vita; che la
perdono. Ancora minoranze rumorose, in occidente, ampie fette di popolazione, nel
mondo arabo, si sono mobilitate senza essere spronate da una qualche autorità
tradizionale. Stretti da terribili contingenze, lo hanno fatto nonostante non avessero
condiviso un progetto alternativo.
“L’Argentina del 2001 sembra fare scuola: rivolte capaci di spazzare via governi
ma ancora incapaci di proporre un’alternativa politica, di trasformarsi in rivoluzione”
(BERTORELLO, CORRADI, pag. 166).
Bisognerà vedere se “le comunità di pratica insorgenti, istantanee, effimere ma
intense, perseveranno nel loro fine” (CASTELLS, pag. 518); solo così potranno realizzare
cambiamenti. Stesso concetto in Hardt e Negri: “le rivolte diventano potenti e durature
solo quando sono in grado di inventare e istituzionalizzare una nuova gamma di costumi
e pratiche collettive (HARDT, NEGRI, pag. 254).
Nuove pratiche collettive? Se nel mondo arabo da istituzionalizzare sono
addirittura molti diritti della persona, in occidente l’appello è ad “auto-organizzare
97 COOK G. (2011) Siamo tutti scienziati, The Boston Globe, in Internazionale n. 929 98 http://www.aljazeera.com/news/africa/2011/10/201110322155284271.html
60
crescenti pezzi di società, sottomessi ai meccanismi di valorizzazione del capitale..
recuperare pratiche collettive che consentono di sovvertire gli attuali equilibri
economici, politici e sociali (BERTORELLO, CORRADI, pag. 144).
Comunque ci si giri, si sente odore di esodo, di decrescita, di empowerment
Le parole d’ordine non mancano. Manca il percorso che porti alla loro
realizzazione. Si è messo il carro davanti ai buoi? Lo sfregio di diritti, la crisi
economica, la perdita di speranza di intere generazioni hanno dettato i tempi.
Il problema reale, almeno per chi soffre del male dovuto ad una nascita pre-
digitale, è che, differentemente dal secolo passato, oggi mancano i buoi.. e nessuno li
desidera!: manca chi, nel bene e nel male, quel carro lo tirava, decidendone però, da
solo, carico e direzione. In attesa di un nuovo Rinascimento 2.0, che renda superflua la
ricerca dei giganti sulle cui spalle salire, si corre il rischio di veder andare al potere
partiti e leader che poco hanno a che fare con le piazze del 2011, e che difficilmente
cercheranno soluzioni inedite atte a porre fine allo sfregio dei diritti, alla crisi
economica... e via discorrendo.
Sembra un paradosso: esiste il soggetto sociale ma non il programma. Il soggetto
sociale non è ancora diventato politico. Si potrebbe quasi azzardare che la socialità di
questo soggetto sia quasi esclusivamente tessuta di digital anthropology, di
disintermediazione. E’ la moltitudine più volte descritta? “Moltitudine non è soggetto
politico fatto.. né è un programma; è diverso da popolo, non ha un’egemonia.. non vuole
demiurghi alla guida.. è sul terreno dell’organizzazione che si vedrà se la moltitudine
sarà in grado di fare la rivoluzione” (HARDT, NEGRI, pag. 176).
Indignados come Popper? Cento proposte e poi vediamo quale sopravvive alla
prova dei fatti? (bio)Politica come cimitero delle scalate al cielo?
Popper o meno, tutti gli autori presentati in questo lavoro fanno i conti con
l’attuale inadeguatezza della proposta politica: “Rete soggetto sociale orfano”, afferma
Mezza in Obama.net; “Il programma del cambiamento paradossalmente non esiste,
mentre possono esistere i soggetti del cambiamento e da loro si tratta di ripartire.. non
sarà quindi un processo lineare…” sembrano rispondergli Bertorello e Corradi.
Castells pare riproporre una soluzione che può essere letta come già tentata, e
fallita: “in una società incerta, gli individui cercano protezione in comunità di affini.. i
61
movimenti sociali nascono dall’incrocio tra individui e comunità reticolari.. formando
reti di individui che reagiscono all’oppressione” (CASTELLS, pag. 461).
Per comunità reticolari, cioè di per loro già unite intorno ad un obbiettivo, credo
che si possano intendere anche le organizzazioni ed i partiti che componevano i primi
Social Forum, quelli dello Spirit of Genoa, Adhocracy di secondo livello, meta-
Adhocracy, almeno nel loro modo di rapportarsi con gli altri interlocutori. Dieci anni fa,
nel 2001 e negli anni immediatamente successivi, i verticali non avevano voluto, o non
erano riusciti, a rimanere orizzontali, gettando così alle ortiche la possibilità di
condizionare pesantemente la storia di questo inizio secolo. Le dinamiche di partito o di
organizzazione hanno avuto il sopravvento sulla costruzione di una piattaforma
condivisa che andasse al di là di slogan, per quanto efficaci e corretti questi potessero
essere. C’è da augurarsi che, una volta tanto, si possa far tesoro degli errori del passato.
4.4 Tecnologie di libertà.
Fotografia di gruppo. Il potere c’è: è lì, occupa gran parte della scena. Ci sono
anche i soggetti che ne contestano le decisioni e ne chiedono il decentramento,
sparpagliati qua e là. E le tecnologie digitali? Non si vedono. Non si vedono perché
sono la carta della fotografia. Fanno da substrato; anche al potere: non solo controllo e
censura, anche flussi di dati indispensabili alle transazioni globalizzate, tecnologia
militare, marketing basato su data meaning, e via discorrendo.
Come quasi sempre accade, le tecnologie possono essere utilizzate per fini
diametralmente opposti e, come tutte le tecnologie, il digitale subisce l’attacco di chi
vuole ridurlo agli interessi del potere: “Internet può continuare ad essere uno spazio per
lotte democratiche.. ma in parte lo resterà come forma di resistenza ai sovrastanti poteri
dell’economia e al potere gerarchico più che come lo spazio di libertà illimitata,
immaginato ai suoi albori” (SASSEN, pag. 206). Non è certo un inno alla gioia, subito
mitigato, però, da “Il cyberspazio al pari delle città può essere uno spazio di lotta sociale
più concreto di quanto sia quello del sistema politico nazionale..” (SASSEN, pag. 207).
Continuiamo a nutrirci di speranza: “C’è potenziale sinergia tra
autocomunicazione di massa e la capacità autonoma della società civile di dare forma ad
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un processo di cambiamento sociale” (CASTELLS, pag. 384). E Rheingold titola uno dei
capitoli del suo Smart mobs “il potere delle moltitudini mobili”.
Tra scettici ed entusiasti, è Lévy che tira le somme:
“o il cyberspazio riprodurrà le dinamiche mediatiche, la spettacolarità, il consumo commerciale e l’esclusione su scala ancora più vasta di quella attuale.. oppure sapremo assecondare le tendenze più positive dell’evoluzione in corso dandoci un processo di civilizzazione incentrato sui collettivi intelligenti: la ricreazione del vincolo sociale attraverso gli scambi di saperi, il riconoscimento, ascolto e valorizzazione delle particolarità, la democrazia più diretta, più partecipata…”
(LÉVY, pag. 109)
Pare non sbilanciarsi, anche se lascia nel testo la traccia di un suo vaticinio: “il
cyberspazio che si sta formando permette una comunicazione non mediatica su larga
scala che ritengo costituisca un progresso decisivo verso forme nuove e più evolute di
intelligenza collettiva..” (LÉVY, pag. 105).
Sì: forse possiamo parlare a ragione di Tecnologie di libertà, ma possiamo farlo
soltanto nel senso indicatoci dalle embricature della Sassen: digitale, rete, social
network, plasmano nuova umanità, ma sono reciprocamente influenzati, e non solo da
quella piccola parte di umanità che li pensa, progetta e produce ma dalla moltitudine dei
suoi utilizzatori: ricordiamoci che Twitter era stato ideato e pubblicizzato per dar notizia
agli amici delle proprie insignificanti quotidiane microattività ed è oggi diventato lo
strumento che “ha cambiato il rapporto di potere tra persone e governi99”.
Piace poter pensare che lo stesso possa valere, in generale, per tutti gli User
generated contents, embricatura tra Web 2.0 e l’evolversi delle forme di protesta, nel
loro percorso che le ha portate a divenire orizzontali.
Ugc: tassello fondamentale nella creazione di nuove forme di significato. Puro
psichismo? No, assolutamente! È Castells che le avvicina alla natura: “la costruzione
autonoma di significato può avvenire soltanto difendendo i beni comuni nelle reti di
comunicazione di internet.. e non sarà cosa facile” (CASTELLS, pag. 549).
Internet e beni comuni: Cappella Sistina, dove immateriale e materiale si toccano,
si contaminano, generano economia e senso; ed un altro senso dell’economia.
99 Dalla lectio magistralis di DE KERCKHOVE al convegno “Dalle pagine alla rete; nuove forme di comunicazione sperimentate sulla rete”, Genova 24/10/2011.
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Ambedue, al contempo, materiali ed immateriali: energia, byte e contenuti; aria,
acqua e la cultura e la storia che li plasmano. E la cultura è anche consapevolezza. E la
consapevolezza è pure consapevolezza della propria dignità.
Internet e beni comuni ridanno motivazione e forza alla capacità di indignarsi.
Indignazione: termine-ombrello100 che ben rappresenta il 2011. Sarà forse figlia di
sensibilità diverse, ma senz’altro è anche epifania di una nuova positiva intolleranza
verso i soprusi, lievitata nella consapevolezza di quanto sia possibile costruire, almeno
in rete, un futuro migliore: “Il risveglio politico globale è una grave minaccia per chi
difende il potere politico costituito, ma è al tempo stesso una grande opportunità di
liberazione101”, dato che “per spezzare il dispositivo cardine del post-fordismo, lo
sfruttamento dei saperi, conoscenza e relazioni, non c’è altro modo che ribaltarlo in
produzione del Comune..102”.
E cosa sono gli User generated contents, se non la quintessenza del Comune?
100 Termine che coprono fenomeni assai diversi quanto alla loro natura semiotica [in questo caso, politica]. In ECO, (1979) Lector in fabula, pag. 24. 101 PINCHBECK D., Da bruco a…?, in Wired (it) gennaio 2012 102 MARAZZI C., La fabbrica neo-lib dell’uomo indebitato, in Wired (it) gennaio 2012
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Cloud
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Ci sono persone che hanno il dono di passare su questa terra
regalando logica a chi vede casualità, offrendo memoria a chi pensa novità.
Ciao Tom. Grazie