Storia Del Diritto

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13 Le collezioni canoniche Queste nuove posizioni ecclesiastiche si poterono cogliere con chiarezza all’interno di Collezioni Canoniche, appositamente scritte che però solo nel basso medioevo assunsero una maggiore e particolare importanza, come appunto vedremo a partire da Graziano. Nel frattempo da ricordare furono le collezioni del Vescovo Ivo, che ne scrisse ben 3, tutte di larga diffusione, con le quali individuò una serie i criteri per superare i contrasti tra canoni discordanti e allo stesso tempo conservare e valorizzare l’intera tradizione del diritto canonico. Insomma il valore della riforma della Chiesa dell’11° sec. fu di portata storica non solo sul piano religioso ma anche su quello del diritto che segnò una grandiosa vittoria sulla consuetudine. Basso medioevo: L’età del diritto comune (sec. 12° - 15°) La seconda fase storica che si estende per circa 3 secoli, segna il passaggio dall’alto medioevo al basso medioevo, e si caratterizza per tutta una serie di trasformazioni della società, della cultura, delle istituzioni, del diritto che assunsero tratti nuovi ed originali. In particolare si ebbero le seguenti innovazioni: 1. la riforma della chiesa; 2. lo sviluppo demografico; 3. l’estensione delle terre coltivate e l’introduzione di nuove tecniche agrarie; 4. la rifioritura del commercio e dell’artigianato; 5. la rinascita delle città e la genesi dei comuni cittadini e rurali; 6. la trasformazione dei rapporti feudali; 7. la formazione di regni; 8. infine la nascita di una nuova scienza del diritto attraverso l’università. La fase delle consuetudini altomedievali si era esaurito e la nuova società esigeva metodi diversi per disciplinare e regolare i nuovi rapporti giuridici sia pubblici che privati; solo una formazione superiore e adeguata avrebbe potuto soddisfare tale esigenza: quella universitaria con i cosiddetti giuristi di professione.. La nuova scienza del diritto ebbe origine in Italia, in particolare nella città di Bologna, e fu la matrice di un insieme di norme e dottrine che assunsero la denominazione di “diritto comune”: - diritto comune civile, che assunse come sua base normativa fondamentale la compilazione giustinianea e dunque il grande lascito del diritto romano classico e postclassico; - diritto comune canonico, relativo alla Chiesa; entrambi universali e comuni perché costituiti da norme generali e superiori rispetto a quelle dei tanti diritti particolari e speciali. Dall’esempio o modello bolognese nacquero numerose altre università italiane ed europee. 7. I GLOSSATORI E LA NUOVA SCIENZA DEL DIRITTO

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Le collezioni canoniche

Queste nuove posizioni ecclesiastiche si poterono cogliere con chiarezza all’interno di Collezioni Canoniche, appositamente scritte che però solo nel basso medioevo assunsero una maggiore e particolare importanza, come appunto vedremo a partire da Graziano. Nel frattempo da ricordare furono le collezioni del Vescovo Ivo, che ne scrisse ben 3, tutte di larga diffusione, con le quali individuò una serie i criteri per superare i contrasti tra canoni discordanti e allo stesso tempo conservare e valorizzare l’intera tradizione del diritto canonico. Insomma il valore della riforma della Chiesa dell’11° sec. fu di portata storica non solo sul piano religioso ma anche su quello del diritto che segnò una grandiosa vittoria sulla consuetudine.

Basso medioevo: L’età del diritto comune (sec. 12° - 15°)

La seconda fase storica che si estende per circa 3 secoli, segna il passaggio dall’alto medioevo al basso medioevo, e si caratterizza per tutta una serie di trasformazioni della società, della cultura, delle istituzioni, del diritto che assunsero tratti nuovi ed originali. In particolare si ebbero le seguenti innovazioni:

1. la riforma della chiesa; 2. lo sviluppo demografico; 3. l’estensione delle terre coltivate e l’introduzione di nuove tecniche agrarie; 4. la rifioritura del commercio e dell’artigianato; 5. la rinascita delle città e la genesi dei comuni cittadini e rurali; 6. la trasformazione dei rapporti feudali; 7. la formazione di regni; 8. infine la nascita di una nuova scienza del diritto attraverso l’università.

La fase delle consuetudini altomedievali si era esaurito e la nuova società esigeva metodi diversi per disciplinare e regolare i nuovi rapporti giuridici sia pubblici che privati; solo una formazione superiore e adeguata avrebbe potuto soddisfare tale esigenza: quella universitaria con i cosiddetti giuristi di professione.. La nuova scienza del diritto ebbe origine in Italia, in particolare nella città di Bologna, e fu la matrice di un insieme di norme e dottrine che assunsero la denominazione di “diritto comune”:

- diritto comune civile, che assunse come sua base normativa fondamentale la compilazione giustinianea e dunque il grande lascito del diritto romano classico e postclassico;

- diritto comune canonico, relativo alla Chiesa; entrambi universali e comuni perché costituiti da norme generali e superiori rispetto a quelle dei tanti diritti particolari e speciali. Dall’esempio o modello bolognese nacquero numerose altre università italiane ed europee. 7. I GLOSSATORI E LA NUOVA SCIENZA DEL DIRITTO

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Origini della nuova cultura giuridica

Aspetto fondamentale della nuova cultura giuridica fu la rinascita del corpus iuris civilis, quale unica risposta alle esigenze della nuova società e alla necessità di un nuovo e più adeguato tessuto normativo, rispetto alle leggi alto medievali prettamente consuetudinarie. La citazione, il richiamo dei testi di legge del codice giustinianeo e l’utilizzo di relative argomentazioni dotte, non costituirono mero sfoggio di dottrina ma al contrario strumenti molto funzionali per il conseguimento di negozi giuridici maggiormente garantiti e sentenze più favorevoli. Risultava infatti con chiarezza che spesso la parte in grado di avvalersi di tali strumenti guadagnava sull’avversario un vantaggio decisivo. L’unica condizione essenziale era però quella che i testi della compilazione giustinianea venissero ben interpretati e quindi applicati ed accettati in giudizio, e in ogni altra sede, come diritto positivo vigente. E in effetti molto presto la compilazione nelle sue quattro parti divenne automaticamente diritto positivo, senza che fondamentalmente alcuna legge specifica lo avesse imposto; furono le stesse circostanze del momento a volerlo (lo sviluppo demografico improvviso, la rinascita delle città e del commercio, la formazione dei primi comuni attraverso una vera rivoluzione delle autonomie, ecc..) che misero in crisi il sistema delle consuetudini e determinarono un nuovo apparato normativo fondato proprio sul corpus iuris civilis. All’ardua sfida di rendere il corpus giustinianeo comprensibile e utilizzabile in maniera corretta, seppero rispondere alcuni giuristi operanti a Bologna e futuri capostipiti della prima scuola di diritto soprannominata dei Glossatori; nasceva così nei primi anni del 12° sec. la più antica università europea. I maestri bolognesi: da Irnerio ad Accurso

La scuola che nacque a Bologna ha origini piuttosto incerte, sappiamo che il fondatore fu Irnerio, un giudice proveniente dall’ordine ecclesiastico la cui fama è legata all’attività di interpretazione della compilazione giustinianea, dove il Digesto, il Codice, le Istituzioni e le Novelle vennero studiati nel testo originale e analizzati con la sola capacità critica senza alcuno strumento particolare preesistente, ma solo con la sua intelligenza; le glosse (note esplicative per meglio comprendere il significato di alcuni passi e frammenti) chiarivano il significato del testo, lo ponevano in relazione con altri passi paralleli, e talora ne discutevano anche l’applicabilità a fattispecie simili ma non identiche; da qui il nome Glossatori.

- La prima generazione di glossatori fu rappresentata dagli allievi di Irnerio - Bulgaro, Martino, Iacopo e Ugo - dove a spiccare più degli altri fu Bulgaro che lasciò la traccia più duratura con due generi letterali destinati ad avere grande fortuna: gli ordines iudiciorum e le questiones disputatae.

- Bulgaro divenne poi maestro della seconda generazione di glossatori con i suoi numerosi allievi tra i quali: - Rogerio, autore di una delle prime Somme al Codice (esposizione sistematica del diritto civile secondo l’ordine del Codice e delle Istituzioni, considerate le parti più adeguate del corpus per svolgere questo lavoro); e

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- Bassiano, giurista particolarmente sensibile alle nuove realtà del suo tempo, che a volte risultavano estranee rispetto alla disciplina del corpus iuris civilis, e che per questo chiamava “consuetudini dei moderni”.

• La terza generazione di glossatori vide invece in primo piano: - Pillio da Medicina, scrittore originale di opere processuali e didattiche ma anche di un’importante raccolta di questioni legali; - Piacentino, autore di un elegante Summa al Codice e professore celebre non solo a Bologna ma anche in Francia. Così la nuova scienza giuridica metteva radici anche nel territorio francese; - Alberico, che operò in merito alle distinctio (vedi paragrafo sulle distinzioni).

- La quarta generazione di maestri bolognesi ebbe come esponente di maggiore spicco il glossatore Azzone, allievo di Giovanni Bassiano e autore di una Summa Codicis esemplare per completezza e chiarezza e che nessuno più si cimentò a superare divenendo così la guida per eccellenza dei successivi maestri del diritto.

Il susseguirsi delle attività interpretative dei vari maestri rappresentò presto una sorta di eredità per i successori ma allo stesso tempo determinò l’esigenza di predisporre i manoscritti, che man mano venivano integrati, modificati e riempiti di proprie glosse, in maniera più leggibile e ordinata e ad occuparsi di ciò fu il professore bolognese Accursio, il quale riuscì ad incorporare nella sua importantissima opera le interpretazioni di ben quattro generazioni di glossatori: la Glossa Ordinaria. La completezza, la chiarezza e dunque l’utilità del testo accursiano furono tali da essere stampato e ristampato e utilizzato da chiunque avesse voluto conoscere e applicare il corpus iuris nel proprio lavoro. Per via dello straordinario successo del metodo bolognese nascevano sullo stesso modello altri centri di studio universitari in numerose città italiane ed europee come Padova, Napoli, Milano, Roma, Pisa, ecc. Il metodo didattico

La Compilazione di Giustiniano fu dunque per i maestri bolognesi legge vigente. Compito dell’interprete era quello di chiarirne e spiegarne il significato mediante gli strumenti concettuali propri del giurista; i maestri bolognesi infatti, chiarivano dapprima il significato del testo a se stessi e poi lo esponevano e spiegavano agli studenti desiderosi di imparare. Nasceva così:

- l’attività scientifica, - l’attività didattica e - l’attività letteraria dei glossatori.

Il metodo didattico si sviluppava in alcune specifiche fasi: • il maestro iniziava la lectio, ovvero la lezione, leggendo dalla cattedra il testo di un

frammento, cui seguiva una prima spiegazione generale del significato della norma nel frammento contenuta tramite un esempio concreto: il casus. Seguiva poi la vera e propria spiegazione dettagliata delle singole parole e delle singole proposizioni;

• si rapportava il frammento in esame con altri passi paralleli contenuti in altre parti della compilazione perché spesso era possibile riscontrare delle discordanze tra le varie parti del corpus sulla disciplina di uno stesso istituto. Nasceva così l’esigenza di

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risolvere il contrasto tra le fonti: la solutio contrario rum tramite le cosiddette distinctio, ovvero distinzioni che permettevano di dimostrare come due o più regole apparentemente contrastanti su uno stesso punto, riguardassero in realtà fattispecie differenti tali da superare la contraddizione. Esempi ne erano i brocarda, cioè coppie di principi tra loro contrastanti utilizzati per argomentare la propria tesi davanti ai giudici citandone le fonti relative e le dissensiones domino rum, cioè i punti di diritto sui quali i maestri bolognesi erano in dissenso tra loro;

• il maestro poteva inoltre mettere in evidenza altre proposizioni di portata generale; • il frammento in esame veniva infine preso come spunto per proporre una o più

questioni ipotetiche o concrete: le questiones de Facto, la cui soluzione richiedeva il ricorso a tecniche di interpretazione della legge. Il maestro proponeva dunque la quaestio a lezione, ne illustrava le eventuali alternative e ne offriva dalla cattedra la solutio.

Successivamente si affermò anche la prassi di affidare direttamente agli scolari l’esame e la soluzione delle questioni di fatto ipotizzate, i quali suddividendosi in due gruppi discutevano e proponevano le proprie tesi risolutive al maestro che doveva così stabilire quale delle soluzioni proposte fosse stata la più adeguata, oppure indicarne una completamente diversa. Quindi da un lato le lezioni permettevano la conoscenza e l’interpretazione dei testi, dall’altro le esercitazioni preparavano alla risoluzione pratica dei casi. La stretta correlazione tra attività didattica e scienza del diritto fu essenzialmente legata a due ragioni:

• il carattere tipico dell’università, ovvero la connessione tra insegnamento e ricerca (..motto di Irnerio..);

• la corrispondenza delle nuove regole e teorie elaborate con le nuove esigenze della realtà sociale, diversa da quella dell’alto medioevo e per questo esigente metodi e discipline giuridiche nuovi/e.

Il metodo scientifico

Particolare attenzione è opportuno prestare agli strumenti di lavoro a disposizione della nuova scienza giuridica. I Glossatori possedevano una mente ben predisposta al ragionamento perché avevano assimilato a fondo la cultura delle Arti Liberali che includeva lo studio della retorica (arte del parlare e dello scrivere secondo precise regole) e della dialettica (arte del ragionare ed argomentare), rami essenziali della Logica di Aristotele. L’aspetto più rilevante del metodo giuridico adottato dai Glossatori non risiedeva però solo nel ricorso alla retorica e alla dialettica ma anche e soprattutto nelle tecniche di interpretazione e combinazione delle fonti romanistiche, costituite essenzialmente da tre operazioni:

• interpretazione estensiva, con cui la legge oggetto d’esame poteva assumere un significato più ampio rispetto a quello originale. Casi del genere erano assai frequenti nella Glossa, uno tra tanti fu quello riguardante la materia d’appello penale, e il codice di Giustiniano sanciva in merito l’inappellabilità delle sentenze relative a cinque gravi reati( omicidio, adulterio, avvelenamento, violenza manifestata, incantesimo) purché il reo fosse stato condannato in primo grado sulla base di prove certe avvalorate dalla

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confessione. A partire da Azzone si affermò invece la tesi che il divieto d’appello dovesse estendersi a tutti i reati e ciò sulla base di due importanti principi: quello dell’equità e quello secondo cui per fondamento razionale uguale corrisponde disciplina giuridica uguale..

• interpretazione restrittiva, con cui invece la legge oggetto d’esame poteva assumere un significato più ristretto rispetto a quello originale. Era determinata adottando una distinzione/distinctio che permetteva di far valere e applicare una specifica norma ad una certa fattispecie, negando l’applicazione della stessa ad altre fattispecie.

• interpretazione travisata, con cui la legge oggetto d’esame poteva assumere un significato alterato rispetto a quello originario. Casi del genere furono altrettanto frequenti perché l’ipotesi che un glossatore potesse fraintendere un testo della compilazione era più che naturale; interpretare correttamente una norma non sempre era facile sia per l’assenza di strumenti adeguati sia perché poteva capitare che la norma antica venisse letta dal glossatore con una visione più moderna, emergendo così interpretazioni travisate e quindi vulnerabili/soggetti a cambiamenti.

5. Le distinzioni

Un aspetto fondamentale dell’attività dei Glossatori fu dunque quello di conciliare tesi contrastanti - solutio contrario rum - attraverso il procedimento logico della distinctio. Che all’interno del corpus vi fossero delle contraddizioni era del tutto normale se si considera che in esso coesistevano sia la disciplina del diritto romano classico, contenuta principalmente nel Digesto, che la disciplina del diritto postclassico e giustinianeo contenute nel Codice e nelle Novelle. Per i Glossatori però le contraddizioni non potevano essere ammesse in virtù di un’accettazione incondizionata del Corpus iuris civilis; per cui di fronte ad un eventuale contrasto presente nelle fonti, la reazione abituale era quella di dimostrare che esso fosse solo apparente, spettando all’interprete il compito di trovare le vie per superarlo. Facciamo l’esempio della delega della giurisdizione, ovvero l’attribuzione della potestà giurisdizionale del giudice ad un delegato, per capire meglio. Così come la sentenza del giudice-delegato era chiaramente appellabile, altrettanto appellabile doveva essere la sentenza del giudice-delegante, ma a chi si doveva rivolgere l’appello?

- Secondo la tesi di Ulpiano, accolta nel Digesto, l’appello o l’impugnazione della sentenza doveva essere rivolto/a al giudice superiore del delegante, come se la delega non fosse avvenuta, quindi come se ad emettere la sentenza poi impugnata fosse stato lo stesso giudice delegante e non il delegato, e di conseguenza destinatario dell’appello doveva essere il giudice di 1° grado superiore al giudice-delegante;

- Secondo invece una costituzione postclassica contenuta nel Codice l’appello doveva essere rivolto direttamente al giudice-delegante, quale giudice superiore del delegato.

- Alberico, un glossatore della terza generazione, distinse invece 2 ipotesi: se la delega riguardava una sola causa, valeva la tesi presente nel codice; se la delega riguardava invece l’intera giurisdizione, valeva la tesi di Ulpiano

presente nel Digesto. Ma fu poi Bassiano e ancora dopo Azzone a risolvere la questione;

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- Bassiano ne invertì le conclusioni stabilendo che: se la delega riguardava una sola causa, valeva la tesi di Ulpiano presente nel

Digesto; se la delega riguardava l’intera giurisdizione, valeva la tesi presente nel codice.

- Alla fine Azzone confermando questa inversione dichiarò il contrasto tra Codice e Digesto solamente apparente, perché in realtà attraverso la distinzione/distinctio delle due ipotesi si poteva capire che si trattava di due norme applicabili a due fattispecie differenti.

Spesso però vi erano istituti per i quali il compito dell’interprete diveniva ancora più arduo, come nel caso della contumacia nel processo e le relative conseguenze; al riguardo:

- mentre il processo dell’età classica esigeva la presenza in giudizio di entrambe le parti, determinando l’automatica perdita della lite a danno del contumace (parte assente),

- nell’età postclassica una serie di interventi imperiali resero meno drastica la posizione della parte assente potendo anche pervenire ad una decisione favorevole per esso (contumace).

Fu alla fine Irnerio, con un’apposita glossa, a trovare la giusta soluzione distinguendo l’assenza in due momenti:

• l’assenza dal giudizio prima della contestazione della lite; • l’assenza dal giudizio dopo la contestazione della lite, e per questa seconda eventualità

distinse poi tra: o l’assenza dell’attore, o l’assenza del convenuto; anche per quest’ultimo caso elencò altre tre diverse

distinzioni: assenza per necessità, assenza per negligenza, assenza per contumacia, facendone corrispondere tre diverse conseguenze e la

possibilità o meno di impugnare l’eventuale sentenza da parte del contumace soccombente;

il risultato a cui si pervenne fu la distinzione tra: • contumacia vera, con divieto d’appello, • contumacia finta, senza divieto d’appello.

Il meccanismo della distinzione – distinctio - permise dunque ai glossatori di dare alle fonti un certo ordine con un ruolo e un significato specifico; partendo dalla lettera il glossatore poteva infatti giungere al di là della lettera stessa del testo sia nell’interpretazione che nella risoluzione di questioni controverse. Ogni passo della legge veniva insomma letto e interpretato tenendo conto della presenza e del significato dei passi paralleli. 8. IL DIRITTO CANONICO Il “Decreto” di Graziano

Nell’età in cui ha avuto origine la nuova scienza giuridica anche il diritto della Chiesa si trasformò radicalmente. Fondamentale fu la collezione canonica di Graziano, soprannominata

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“Decretum di Graziano”, con cui il monaco Graziano riunì in un’unica compilazione circa 4000 testi riguardanti:

- le fonti del diritto della Chiesa, - le nomine e i poteri del clero, - i reati e le sanzioni di natura religiosa, - la disciplina giuridica dei sacramenti come il matrimonio, ecc. - ma anche molti testi di origine pontificia, in particolare quelli di Gregorio Magno, - molti passi tratti dagli scritti dei grandi Padri della Chiesa latina, come quelli di

Sant’Agostino e infine - testi di diritto romano;

in esso convivevano dunque diritto e teologia, regole giuridiche e regole morali – religiose. Graziano accompagnò i testi con una serie di brevi commenti di chiarificazione: dicta allo scopo di superare le contraddizioni che su tanti temi le fonti canonistiche presentavano, si comprende perciò la ragione del titolo dell’opera denominata Concordia Discordantium Canonum. Ma è soprattutto il criterio della Disitnctio a venire utilizzato da Graziano, in quanto come sappiamo individuando un’appropriata distinzione si poteva dimostrare che due o più regole apparentemente discordanti concernano in realtà fattispecie differenti, così valorizzare l’intera tradizione del diritto canonico occidentale senza doverne sacrificare una parte in nome della coerenza. I decretisti

I Decretisti furono coloro che svolsero un’attività di critica e di interpretazione dell’opera di Graziano: il Decretum appunto. Nonostante il Decretum non ebbe un riconoscimento ufficiale da parte della Chiesa, l’influenza che esercitò fu grandissima, sia a livello pratico-di applicazione del diritto canonico che a livello teorico-dottrinale. Ciò fu possibile grazie all’impiego dello stesso metodo di studio e di analisi usato dalla scuola irneriana, tanto che in poco tempo si sviluppò un fenomeno analogo a quello dei glossatori, con i decretisti; tra quest’ultimi a spiccare fu Uguccione con la sua Somma al Decretum (vedi nella parte speciale una delle 3 tesi individuate da Bernardo da Pavia, quella rigorista di rifiuto assoluto del duello), ma i centri di studio e di produzione in cui operano i decretisti furono molti e non solo italiani, oltre che a Bologna anche a Parigi, in Normandia, nei Paesi Bassi, in Inghilterra, ecc. Le decretali e lo “ius novum”

Un altro importante filone del diritto canonico venne a determinarsi grazie all’elezione di alcuni pontefici di formazione giuridica e dunque alla formazione di norme canonistiche provenienti dalla curia romana (insieme di organi e di autorità che costituiscono l’apparato amministrativo della Santa Sede, in sostanza il governo della Chiesa), ma anche con l’introduzione del ricorso in appello al Papa. Tale appello poteva essere presentato non solo contro la sentenza definitiva emessa dai vescovi, quali giudici ordinari delle singole diocesi, ma anche contro le loro decisioni provvisorie, permettendo così che tale ricorso potesse essere presentato direttamente al papa senza necessariamente prima rivolgersi al vescovo della

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diocesi competente per territorio – omissio medio; tutto ciò generò un conseguente flusso di ricorsi alla sede pontificia, che alcuni esponenti della Chiesa criticarono perché distoglievano il pontefice dai suoi compiti pastorali. Per queste ragioni, presto si cercò di ovviare al problema con l’introduzione delle cosiddette “decretali pontefice o lettere decretali” ovvero deleghe del pontefice con le quali incaricava i vescovi di decidere su un determinato caso e sulla base di una determinata regola di diritto esplicitamente indicata nella decretale stessa. L’analogia con il procedimento per rescritto dell’età imperiale era evidente tanto che come i rescritti, presto le decretali pontificie dall’essere risolutive per uno specifico caso, lo divennero anche per i casi simili; dunque da sola e semplice decisone giudiziaria che era, la decretale pontificia si elevava a norma generale: gran parte del diritto classico canonico è nato così. Le decretali vennero poi trascritte in numerose collezioni, tra cui:

- la Complitatio Prima di Bernardo da Pavia, - il Liber Extra di Gregorio IX, - il Liber Sextus di Bonifacio VIII, - le Clementine di Clemente V,

che accanto al Decretum di Graziano, costituirono il Corpus Iuris Canonici. E’ importante sottolineare come spesso l’essere incluse in delle collezioni giuridiche, mutava la loro natura e la loro portata giuridica, e ciò perché la compresenza di più decretali in un’unica raccolta imponeva un’interpretazione che ne assicurasse la compatibilità e ne chiarisse il rapporto reciproco. I decretalisti

Anche sulle decretali pontificie si sviluppò un’intensa attività dottrinale di interpretazione e di elaborazione, che collegata con il Decretum di Graziano costituì il cosiddetto Ius Novum. Fu così che i decretalisti, ovvero coloro che svolsero un’attività interpretativa e creativa delle decretali pontefice e delle varie compilazioni che ne derivarono, al fine di coniugare il diritto canonico con il diritto romano diedero vita a quello che venne denominato “Processo romano-canonico” (vedi il processo romano-canonico nello specifico, pag. 28). Tra i decretalisti di indiscussa importanza è necessario menzionare:

- Goffredo da Trani, autore di una fortunata Summa alle decretali contenute nel Liber Extra di Gregorio IX;

- Enrico da Susa, autore della sua Summa Decretalium che per la sua chiarezza e precisione riuscì ad avere un ruolo analogo sul terreno del diritto canonico a quello della Summa di Azzone per il diritto civile.

Ma ci furono molti altri Decretalisti che si succedettero dando ognuno un valido contributo all’interpretazione delle fonti di diritto canonico e quindi allo sviluppo dello ius novum. Principi canonistici

Il diritto canonico classico presenta caratteri assai specifici che lo contraddistinguono da altri modelli giuridici del passato:

• il diritto canonico classico ebbe una considerevole componente di diritto nuovo: ius novum;

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• la struttura gerarchica delle sue fonti pone al vertice la rivelazione delle Scritture dell’antico e del nuovo Testamento, al di sotto vi sono i concili ecumenici, le decretali pontificie, i sinodi locali e infine le stesse fonti dottrinali;

• vi era anche una compresenza di regole rigide e inderogabili da un lato e di un atteggiamento di flessibilità rispetto alle stesse dall’altro, che permetteva di superare ostacoli altrimenti insormontabili. Tale flessibilità trovava fondamento nel concetto di equità canonica: aequitas canonica, come ad esempio il ricorso al metodo della metafora per giustificare il contenuto di un principio o di una regola di condotta imposta ai fedeli;

• molto rilevante fu anche la dottrina canonistica sul cosiddetto patto nudo, ovvero la semplice promessa, che per il diritto romano non aveva alcuna importanza, mentre per i decretisti o per la dottrina canonistica si, poiché davanti a Dio la promessa era vincolante indipendentemente da ogni cosa.

Il periodo più intenso di produzione normativa della Chiesa, fu quello tra il 12° e 13° secolo, denominato anche età classica del diritto canonico. Diritto naturale

Ulteriore elemento di fondamentale importanza nell’analisi del diritto canonico fu il concetto di diritto naturale, quale diritto fondamentale dell’uomo comprendente la libertà, la proprietà, l’autodifesa e l’insieme di tutti gli altri diritti inalienabili e non sottoponibili ad abrogazione da parte del legislatore. Nella concezione antica il diritto naturale è concepito come un insieme di regole dettate dalla natura alle quali l’uomo deve obbedienza, si tratta dunque di un diritto superiore e oggettivo; in particolare è un diritto che preesiste al diritto positivo e superiore al diritto positivo, perché lo si identifica con il diritto divino. La natura e le sue leggi avevano dunque per fonte la divinità. Il diritto naturale non era quindi una categoria nuova in quanto conosciuto già nel pensiero dei Greci. Ulpiano aveva però una differente visione di esso affermando che il diritto naturale è il diritto che la natura ha dato in comune a tutti gli esseri animati, non solo uomini ma anche animali, mentre il diritto delle genti è comune solo agli uomini. Importanti furono poi 2 diverse correnti di pensiero:

- quella di Tommaso d’Aquino che sosteneva la nozione classica di diritto naturale oggettivo, quale diritto che è insito nelle cose per natura;

- quella dei maestri della Scuola Francescana che sostenevano invece la nozione di diritto naturale soggettivo, quale diritto che diventa razionale e soggettivo perché fatto proprio dal soggetto umano.

Guglielmo da Ockham sviluppò infine una tesi distinguendo il diritto naturale dal diritto umano positivo (ovvero il diritto dello Stato che mai può entrare in contrasto con il diritto naturale negandone i diritti fondamentali dell’uomo), il primo valido in via di principio ma non esigibile in concreto, il secondo suscettibile di venir attuato anche col ricorso alla forza. 9. DIRITTO E ISTITUZIONI Comuni e impero

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La formazione dei comuni cittadini nell’Italia del 12° sec. rappresentò una rottura netta con il passato. Quando talune città iniziarono ad eleggere propri consoli e quando a questi vennero affidati compiti tipicamente pubblicistici, sdoppiando le competenze civili dei conti, dei vescovi e dei giudici di nomina imperiale, questa rivoluzione determinò grandi cambiamenti. I consoli operarono all’inizio in veste di semplici arbitri piuttosto che di veri giudici, ma solo con la pace di Costanza si riconobbe ai comuni una vera e propria autonomia e la facoltà di vivere in base alle proprie consuetudini; rimanendo comunque subordinati all’impero in quanto, l’esigenza di un potere imperiale superiore a quello delle città e dei regni, necessitava per risolvere eventuali controversie ed evitare che queste nuove entità politiche ricorressero alla guerra. Sostanzialmente il Comune nacque per volontà dei nuovi ceti urbani, al fine di liberarsi dai rigidi vincoli feudali e in parte anche dall'autorità imperiale, creando una nuova e più autonoma realtà politica, il Comune appunto. Il governo del Comune era affidato al Consiglio generale cittadino che eleggeva dei magistrati, detti Consoli, incaricati di svolgere funzioni tipicamente pubblicistiche. All'interno di questo organo collegiale le deliberazioni adottate erano considerate valide solo se prese nel rispetto di una specifica procedura, ovvero in presenza di un numero minimo di cittadini e con la verbalizzazione delle decisioni. Inizialmente i Comuni si posero come delle magistrature provvisorie nate per risolvere problemi di un dato momento, successivamente invece divennero delle istituzioni stabili e durature; la gran parte delle regole circa l’organizzazione, il funzionamento, i poteri, le nomine ecc. venivano adottate con decisioni collettive; nella presa dell’incarico i consoli prestavano giuramento di fedeltà davanti a tutta la cittadinanza elencando i propri obblighi e i propri impegni nell’interesse del comune andando in contro a sanzioni nel caso in cui avessero commesso illeciti nell’esercizio delle loro funzioni; tutti gli altri cittadini che godevano di determinati diritti urbani poterono riunirsi nel Parlamento, altro organo fondamentale nella vita di un comune, e più precisamente per poter partecipare dovevano essere: maggiorenni, maschi, pagare una tassa di ammissione, possedere una casa, ne erano quindi esclusi le donne, i poveri, i servi, ecc. Con il tempo tutti i comuni acquisirono un certo controllo anche sulle campagne circostanti, legate alle città da alcuni vincoli politici ed economici dando vita al cosiddetto Contado (cioè il territorio sul quale ogni città dell'Italia medievale esercitava il proprio controllo e la cui massima estensione corrispondeva solitamente con i confini della relativa circoscrizione ecclesiastica, la diocesi) e che comprendeva il Districtus (campagne annesse) e il Comitatus (campagne che già in origine facevano capo al comune); anche le campagne precocemente imitarono le città istituendo il Comune rurale. Dinamica e innovativa fu anche la struttura dell’economia cittadina con la formazione delle Corporazioni di mestiere, che riunivano secondo il mestiere svolto artigiani, mercanti e professionisti. Altro carattere particolare dell’appartenenza alle città fu lo Status di Libero di chi ci viveva o andava a viverci, tanto che anche i sevi e i coloni provenienti dalle campagne una volta stanziatisi entro le cerchia delle mura automaticamente divenivano liberi e valeva il detto che “..l’aria della città rendeva liberi..”. Infine da ricordare è la figura politica del Podestà che in parte affiancò e in parte sostituì quella del console; veniva eletto dal Consiglio Generale, durava in carica da 6 mesi ad un anno e al contrario del console la persona che doveva ricoprire tale carica non doveva essere appartenere alla città da governare, così da evitare

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coinvolgimenti personali nelle vicende cittadine e garantire l’adeguata imparzialità nell’applicazione delle leggi. L'istituzione comunale entrò in crisi verso la fine del ‘300, le cui cause furono inizialmente legate ai continui contrasti sociali tra le grandi famiglie aristocratiche, ma la causa principale della scomparsa dell'istituzione comunale fu la nascita delle Signorie cittadine. La giustizia

Per quanto riguardava la giustizia nei comuni, i poteri dei giudici/consoli apparivano abbastanza ampi potendo decidere con parecchia libertà e discrezione sulle prove, dal cui esito dipendeva l’esito della causa. Ad esempio in tema di ammissibilità dei testimoni essi avevano mano libera potendo facilmente respingere coloro che non erano ritenuti affidabili, così come avevano mano libera nel decidere a quale delle due parti imporre il giuramento decisorio, determinante per l’esito della causa; il giuramento della parte era infatti di regola richiesto dai consoli non solo in assenza di prove ma anche in aggiunta a prove che da sole bastavano a decretarne la vittoria in giudizio. I giudici dell’età comunale esercitavano una funzione decisoria efficace:

• efficace nei tempi, perché le cause cittadine venivano per lo più decise nello spazio di settimane o di mesi;

• efficace nel merito,perché i consoli spesso operavano con criteri più vicini alla giustizia arbitrale che alla giurisdizione ordinaria ove gli interessi contrapposti delle parti venivano spesso conciliati dai giudici.

La giurisprudenza dei consoli e del podestà non rappresentavano però fonte di diritto. Nei regni invece la giustizia del re e dei suoi funzionari operava in modo assai diverso rispetto alle giustizie cittadine; vennero appositamente istituite le Corti superiori di ultima istanza che, oltre ad esercitare il controllo sulle giurisdizioni inferiori, avevano il potere di emanare regole e procedure nuove destinate ad affermarsi all’interno del regno. Il re aveva invece il potere di intervenire anche di persona nelle decisioni delle cause giudiziarie, svolgendo direttamente il ruolo di giudice. Regni

Un’altra ossatura politica destinata a durare fino all’età moderna fu quella dei Regni. In Italia ricordiamo il Regno di Sicilia, in Europa invece il Regno di Germania, il Regno della Penisola Iberica, il Regno della Scandinavia, ecc.. dove rilevanti furono i loro diritti particolari (vedi i diritti particolari nello specifico, pag. 32) ma più importante il Regno di Francia, nel quale nacquero:

- il Parlamento di Parigi, come Corte di ultima istanza, dalle cui sentenze emanate non poteva appellarsi neppure il re,

- la Corte dei Conti, con lo scopo di controllare la contabilità dello Stato, - due distinte Magistrature, cui era affidato il contenzioso fiscale.

Su tutto il territorio il sovrano incaricò e inviò personaggi da lui personalmente scelti, come i balivi (ufficiali di nomina regia con poteri amministrativi e giudiziari esercitati su una determinata circoscrizione loro affidata) per decidere in suo nome su materie amministrative, giudiziarie e di ordine interno, riservando alla giustizia regia specifiche cause. La monarchia francese si avvalse inoltre di vari strumenti di governo e di tecniche giuridiche come:

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- la concorrenza istituzionale, consistente nell’affiancare ai poteri tradizionali (giustizie signorili, autorità ecclesiastiche..) degli ufficiali del re, dotati di mezzi di intervento privilegiati;

- il principio gerarchico, operante soprattutto con lo strumento dell’appello con il quale il re e le sue magistrature potevano intervenire nei casi più delicati e rilevanti, dando così ai sudditi la possibilità di ricorrere contro sentenze ritenute ingiuste e allo stesso tempo dando al potere centrale la possibilità di esercitare un certo controllo sulle decisioni locali;

- la specializzazione, necessaria con il moltiplicarsi delle competenze regie e consistente nella ramificazione e ripartizione delle attività giudiziarie, amministrative, fiscali, militari sia a livello locale che centrale.

La complessità sempre crescente delle funzioni e la nascita di nuove magistrature specializzate richiesero la presenza di un personale amministrativo dotato di specifiche competenze tecniche: i giuristi di professione che si affermarono quali altrettanti strumenti di governo, di promozione sociale, di accesso privilegiato all’elite di governo. 10. UNIVERSITA’: STUDENTI E PROFESSORI Origine e organizzazione: il modello bolognese

La formazione della classe sociale dei giuristi di professione fu strettamente connessa allo sviluppo dell’istituzione e istruzione universitaria. I giuristi di professione furono coloro che studiarono all’università secondo i metodi e le procedure del modello bolognese e che per le loro capacità e competenze giuridiche divennero sempre più presenti in ogni ambito della vita sociale. Per seguire il loro esempio un numero sempre più crescente di studenti, volenterosi di apprendere e provenienti da tutta Italia, si riunirono in raggruppamenti che presero il nome di Nationes studentesche, la cui struttura giuridica fu proprio quella delle Universitas: centri di formazione superiore. Ciascun ateneo al suo interno eleggeva un proprio rettore, scelto tra gli studenti stessi e dotato di funzioni e di poteri sempre più crescenti. L’autorità dei rettori, a cui tutti gli studenti dovevano obbedienza, era giustificata dalla necessità di garantire un certo ordine all’interno delle comunità studentesche sempre più numerose e turbolente; stabilirono a tal proposito delle regole attraverso degli appositi statuti, al fine di disciplinare gli aspetti organizzativi e didattici nel miglior modo possibile. La presenza di centinai di giovani poneva infatti alle città parecchi problemi di ordine pubblico, anche se da un altro punto di vista comportava un flusso ingente di risorse in denaro (si pensi agli alloggi, le mense, i libri, ecc.). Si ebbero così i primi interventi regolatori del comune, talvolta per disciplinare la popolazione studentesca, talvolta per incentivarla a stabilirsi nelle città per tutti gli anni di studio universitario. Il corso degli studi giuridici

Inizialmente a Bologna tra allievi e professori vi era solo un rapporto di natura privata, in quanto concordavano con il maestro i tempi e i costi delle lezioni impegnandosi a versargli una somma pattuita denominata Collecta. Più tardi, nelle sede universitarie diverse da

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Bologna fu il comune ad assicurare ai professori uno stipendio, mentre nell’alma mater il sistema delle collectae durò ancora per un po’. L’insegnamento e le lezioni iniziavano normalmente i primi di ottobre e si prolungavano fino alla metà di agosto, con un orario piuttosto pesante che impegnava gli studenti sia la mattina che il pomeriggio. Erano poi previsti due corsi ordinari, rivolti allo studio del Codice e del Digesto; e dei corsi straordinari dedicati alle altre parti del Digesto, alle Istituzioni, alle Novelle e ai Libri feudorum. La preoccupazione di non potere svolgere interamente il programma nei tempi stabiliti senza ritardi ne omissioni indusse ben presto a fissare i testi specifici che dovevano essere illustrati a lezione, chiamati puncta (plurale), nonché il numero di ore e di giorni necessari da dedicare. Nonostante ciò il corso degli studi giuridici non aveva una durata prefissata, ma soleva protrarsi per molti anni, poi si stabilì invece che il curriculum completo fino all’esame finale aveva la durata di sette o otto anni per la laurea civilistica mentre di sei per quella canonistica; in effetti lo studente che mirava d assimilare la difficile materia del Corpus non poteva certo limitarsi ad ascoltare un solo corso, dovendo invece ritornare ad ascoltare più volte le parti della compilazione negli anni successivi. Molti spesso abbandonavano dopo pochi anni, ma la formazione incompleta non andava persa ed era comunque utile per ricoprire uffici minori. Solo alla fine del ciclo di studi e delle lezioni si apriva la stagione degli esami, lo studente infatti si presentava ad un professore di sua scelta per chiedergli l’autorizzazione a sostenere le prove finali; in caso affermativo lo studente si considerava ammesso alla prova a porte chiuse davanti al Collegio dei dottori giuristi – l’attuale Consiglio di Facoltà – per discutere uno specifico testo della Compilazione estratto a sorte e dal quale doveva ottenere il voto favorevole della maggioranza dei professori per la promozione. Per concludere definitivamente il corso di studi doveva essere poi sostenuto l’esame pubblico, detto Conventus, che si svolgeva nella cattedrale e che richiedeva un notevole esborso economico per doni ai professori, pranzi e cortei; seguiva la festosa proclamazione al titolo di doctor iuris che lo abilitava ad insegnare nelle università. Tali studi erano la sola via per conseguire non solo un titolo ma anche le qualificazioni professionali necessarie per l’esercizio delle funzioni giuridiche di livello superiore. Questo sistema di formazione ebbe vita secolare sino all’età moderna e ai nostri giorni. Si trattava di un metodo scientifico-didattico internazionale e uniforme che nacque a Bologna ma che si trasmise in tutto il resto dell’Italia e in Europa, il cui oggetto di studio fu sempre lo stesso: il Corpus iuris per la formazioni civilistica mentre i testi di Graziano e delle Decretali per la formazione canonistica. In conclusione uno degli aspetti più significativi dell’università come sede di formazione dei giuristi fu proprio quello di aver costituito il canale privilegiato per emergere rapidamente, trovare lavoro, guadagnare soldi e potere; così anche un giovane di estrazione sociale non alta ma intelligente poteva fare molta strada nelle vesti di avvocato, o di giudice, o di esperto di problemi legali. Questo spiega l’enorme successo delle scuole universitarie. 11. PROFESSIONI LEGALI E GIUSTIZIA Il notariato

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Quanto alla validità e all’efficacia dei documenti privati delle città, non furono più le dichiarazioni dei testimoni o la testimonianza del notaio rogatario a dare all’atto notarile valore probatorio, ma ciò che semplicemente necessitava, a differenza del passato, era la presenza di determinate formalità previste per l’atto, detto instrumentum, e la sottoscrizione autografa del notaio rogatario. Dunque l’atto del notaio, quale atto pubblico redatto da un pubblico ufficiale, da solo e formalmente composto e sottoscritto faceva piena prova; soltanto l’impugnazione per falso poteva rimetterne in discussione il contenuto. L’atto notarile ebbe un’incalcolabile importanza pratica perché:

• riuscì a dare maggiore certezza ai rapporti giuridici redatti e sottoscritti dal notaio, al procedimento probatorio e alla semplice scrittura privata;

• il suo valore probatorio si prolungava nel tempo al di là della vita dei testimoni e dello stesso notaio;

• poteva essere direttamente presentato al giudice, da una delle parti, per ottenere l’immediata esecuzione di quanto ivi promesso; questo suo valore esecutivo attribuiva infatti una maggiore efficacia evitando le lungaggini del processo normale.

Il notaio annotava su un registro in ordine cronologico ogni negozio redatto per poi stilare l’atto in bella copia su pergamena, da consegnare alle parti richiedenti. Tale registro, che in forma abbreviata riportava tutti gli estremi dell’atto, prese il nome di imbreviatura e l’utilità fu quella di potere controllare in qualsiasi momento la corrispondenza di un singolo atto con i testi originali oltre che potere trarre nuove copie autenticate qualora se ne fosse perduta la documentazione originale. Si affermò allora la prassi che l’imbreviatura potesse avere di per sé un valore di prova. Artes notaries

Ben poco sappiamo invece della formazione notarile nell’età di transizione dalla charta all’instrumentum, ma è verosimile che il mestiere si apprendesse essenzialmente con la pratica condotta per alcuni anni presso un notaio. Importanti da ricordare sono comunque i formulari di cui si avvalsero i notai per l’esercizio della loro attività. Il primo formulario di atti notarili fu quello di Irnerio, che purtroppo è andato perduto; quindi il primo a noi pervenuto fu quello di un notaio perugino Raineri, da cui fu possibile notare come i notai sapessero con chiarezza coordinare le norme di diritto romano, di diritto canonico, le consuetudini locali e gli statuti cittadini. Notai, società e poteri

Ma importante fu anche il ruolo svolto dai notai nei comuni. Essi assicuravano la certezza dei rapporti privati mediante l’instrumentum ed a loro viene attribuito il merito di avere ideato e consolidato nella prassi nuovi istituti giuridici come la genesi del diritto commerciale. Basta pensare all’importanza del documento gaurentigiato: un atto stipulato davanti al notaio, che per questo acquistava automaticamente valore di titolo esecutivo. Anche nell’attività giudiziaria dei comuni, il ruolo dei notai divenne presto indispensabile, perché solo la firma notarile autenticava le sentenze e ne attribuiva valore di piena prova. Da ciò era dunque possibile delineare l’onnipresenza del notariato nelle società comunali italiane.

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In Francia invece, così come in altri regni (Sicilia, Inghilterra..) il notariato dovette fare i conti con il potere monarchico, che ne condizionò le funzioni in varie forme e vari modo: attraverso limitazioni alla validità delle sottoscrizioni degli atti, richiedendo per considerarli pubblici la presenza di un giudice regio. Indipendentemente da ciò il documento pubblico del notaio ebbe ugualmente riconoscimento e larga diffusione. I collegi dei giudici e avvocati

Le corporazioni di mestieri si estesero anche alle professioni legali. Fu così che nei principali comuni italiani nacque il Collegio dei giudici, composto da giuristi o esperti del diritto, scelti fra coloro che erano ritenuti più idonei ad operare nelle città; il loro ingresso seguiva infatti delle regole ben precise stabilite nello statuto del collegio il cui scopo era appunto l’accertamento delle loro competenze e conoscenze tecniche di diritto, considerate indispensabili per l’esercizio delle professioni legali. Altro requisito fondamentale per l’ammissione al Collegio dei Giudici fu poi quello della cittadinanza, in base al quale erano a priori esclusi i forestieri e accolti solamente i cittadini. Il Collegio dei Dottori, che ricordiamo essere l’organo principale delle università per la concessione del titolo accademico, non ritenne invece tale requisito altrettanto fondamentale per l’ammissione, accogliendo sia docenti forestieri che cittadini. Dobbiamo inoltre sottolineare che il Collegio dei Giudici, in molte città, non fu soltanto composto da giurisperiti che applicavano la giustizia - i giudici - ma anche e soprattutto da avvocati. Come mai? La motivazione di ciò risiedeva nella formazione di un nuovo istituto: il Consilium Sapientis Iudiciale, che vedremo meglio in seguito, che consisteva nella tendenza dei giudici ad affidare a giurisperiti, ovvero avvocati che normalmente operavano in veste di difensori, l’istruzione dell’intera causa (ovvero la raccolta di atti e di elementi necessari per preparare e avviare un processo/giudizio) e la formulazione della sentenza in forma di parere legale. I re di Francia, per difendere le ragioni della corona, istituirono i procuratori del re con funzioni di rappresentanza e successivamente gli avvocati del re con funzione difensive. La differenza stava nel fatto che il procuratore re nell’esposizione delle sue memorie scritte, doveva necessariamente adeguarsi alle istruzioni del re, mentre l’avvocato del re poteva esprimere con libertà le sue convinzioni sulla causa in esame. Da queste due categorie di ufficiali ne derivò la moderna bipartizione tra Procura della Repubblica e l’Avvocatura dello Stato. Il processo romano-canonico, civile e penale

Tale procedura giudiziaria si caratterizzò per essere regolato contemporaneamente da istituti giuridici di diritto romano e di diritto canonico, per questo la formula: processo romano-canonico.

- Nel processo civile le cause civili iniziavano con la proposizione di un breve scritto, il libello, nel quale l’attore indicava: la controparte; l’oggetto della lite, il petitum; la ragione della sua pretesa, la causa petendi.

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A questo punto il giudice fissava il termine di comparizione di entrambe le parti, e nel giorno stabilito avveniva la contestazione della lite - litis contestatio, dove attore e convenuto esprimevano le rispettive ragioni e prestavano il giuramento di calunnia come conferma della loro buona fede nell’affrontare la causa. Seguiva la formulazione delle cosiddette positiones: ovvero domande scritte che ciascuna parte rivolgeva all’avversario, e che l’avvocato provvedeva ad allegare ai fatti. Udite tali positiones o allegazioni, il tribunale pronunciava la sentenza, che una volta divenuta definitiva, in primo grado o in appello, il soccombente era tenuto ad eseguire. Nel caso di inottemperanza/non ubbidienza l’esecuzione della sentenza diveniva coattiva mediante la stima e la vendita forzata di beni corrispondenti al valore della condanna; invece nel caso di contumacia del convenuto, il giudice emetteva a favore dell’attore un decreto di immissione nel possesso dei beni contestati, e solo se il convenuto si fosse presentato in giudizio entro un anno il decreto poteva essere revocato, altrimenti un secondo decreto rendeva intangibile il possesso che l’attore acquistava, dando così inizio al decorrere del termine dell’usucapione che ancora una volta solo il convenuto poteva interrompere con la prova del corrispondente titolo di proprietà. Dalla fine del Duecento in Italia si adottò un procedimento più snello: il procedimento sommario.

- Nel processo penale invece la fase iniziale del processo fu caratterizzata: dal principio accusatorio, in base al quale la vittima di un reato o i suoi familiari

poteva presentare al giudice l’accusa ma doveva provarne il fondamento, per lo più attraverso i testimoni. Se la prova non veniva infatti fornita, l’accusatore rischiava la medesima pena gravante sull’autore del reato o quanto meno una forte pena pecuniaria; fu anche per evitare ciò che presto si aggiunse lo strumento della denuncia – denuntiatio - che autorizzava il giudice a prendere iniziative per la raccolta di prove, anche senza la prova del denunciante, comportando per quest’ultimo conseguenze meno aspre;

dal principio accusatorio, secondo cui l’iniziativa di procedere alla raccolta di prove spettava d’ufficio al giudice, sulla base di una qualsiasi notizia di reato pervenutagli, che di lì a poco divenne la regola per i reati di sangue, per i reati politici e di eresia.

Anche il sistema delle pene subì profonde trasformazioni, ovvero per i reati più gravi come l’omicidio, fu inizialmente prevista la pena del bando, cioè la pena che espelleva il reo dalla città e autorizzava chiunque lo incontrasse ad ucciderlo, successivamente fu invece prevista la pena capitale modificando così il regime della pace privata. La pace privata permetteva la revoca o la diminuzione della pena se l’offensore avesse concluso un accordo di pace – concordia - con l’offeso o i suoi familiari, e ciò valeva anche per l’omicidio. Per cui quando venne introdotta la pena capitale la pace privata venne sempre meno usata per i reati d’omicidio e applicata solo per i reati di minore gravità, e ciò perché un illecito che causava la morte di una persona non feriva soltanto la vittima e la sua famiglia, ma offendeva anche l’intera comunità.

Il processo romano-canonico si reggeva dunque sulla base di molteplici fonti, ordinate gerarchicamente ed era per questo un processo formalizzato e scritto, fondato su regole probatorie precise.

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Il Consilium Sapientis Iudiciale Consilium Pro Veritate

Durante l’età comunale era divenuta piuttosto frequente la tendenza dei giudici di affidare, a uno o più giuristi di professione/avvocati, il compito di predisporre un parere legale per una causa in discussione davanti al tribunale. Il parere così commissionato: Consilium sapientis iudiciale veniva assunto come sentenza risolutiva del caso. Se originariamente la richiesta del parere poteva essere motivata da un insufficiente livello di cultura giuridica dei consoli, dopo il ricorso al consilium da parte di podestà, assessori e consoli di giustizia, certamente esperti di diritto, ebbe motivazioni ben diverse e il consilium sapientis divenne una vera e propria regola generale: e da quel momento non vi fu più processo civile senza che uno o più giurisperiti venisse incaricato non solo di redigere il consilium ma anche di interrogare le parti, raccogliere le prove e valutare le allegazioni, cioè di istruire e condurre al suo esito l’intero processo; il magistrato non doveva fare altro che trasformare letteralmente in sentenza il consilium, assicurandone quindi l’esecuzione. La giustizia era ormai nelle mani dei giuristi locali/giurisperiti/avvocati ma in fatto giudici. Solo con l’avvento delle signorie, alla giustizia cittadina si affiancherà quella signorile esercitata da giudici direttamente scelti dal signore da cui nasceranno le Corti sovrene dell’età moderna. Un ulteriore forma di parere legale fu quello chiesto dalle parti in causa: il Consilium pro veritate. La scopo di allegare alla propria difesa il parere di un giurisperito di una certa fama, era quello di indurre la Corte a riconoscere le proprie ragioni. E la speranza era in effetti ben riposta in quanto chi li sottoscriveva automaticamente dichiarava che, nel caso fosse stato il giudice di quella causa, la sua decisione sarebbe stata esattamente quella contenuta nel parere legale. La differenza tra giurisperito e avvocato stava dunque nella diversa modalità di difendere il cliente, visto che il primo aveva l’obbligo di coerenza rispetto alle tesi sostenute in altri processi, mentre il secondo era libero di usare qualunque mezzo di difesa. Infine i consilia richiesti dalle parti si distinsero anche dai consilia richiesti dai giudici perché in questi ultimi, la motivazione in diritto non era necessaria ai fini dell’emanazione della sentenza, che poteva essere emanata anche senza parere legale; invece la motivazione in diritto nei primi era essenziale perché il parere legale permetteva di convincere il giudice verso una decisione piuttosto che verso un’altra. Furono comunque gli esponenti di spicco della Scuola del Commento a raccogliere e diffondere maggiormente i propri consilia, soprattutto da Baldo in poi. 12. I COMMENTATORI I postaccursiani

Con Accursio, maestro bolognese della famosa Glossa Oridinaria, si era ormai esaurita la funzione della “glossa”e iniziava a delinearsi un’ulteriore nonché diverso e più pratico filone del diritto, rappresentato appunto dalla Scuola del Commento. I Commentatori furono dunque i giuristi che operarono successivamente ad Accursio, e per questo denominati anche Postaccursiani, la cui attività consisteva nella redazione di opere giuridiche pratiche - le procedure - destinate a coloro che concretamente volevano e dovevano applicare il diritto. Infatti accanto all’insegnamento teorico delle università si affermò una

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nuova tipologia di opere rivolte direttamente ai pratici del diritto, quindi opere di procedura civile e canonica che costituivano il filone delle Ordines Iudiciorum. Jacopo Baldovini fu uno dei più importanti autori che per la prima volta con estrema chiarezza, distinse le norme ordinatorie dalle norme decisorie, separando così il piano della disciplina processuale dal piano del diritto sostanziale. La scuola di Orleans

Tra i vari centri di studio un ruolo importante venne rivestito dalla piccola Università d’Orleans dove alcuni maestri, tra cui Jacques de Revigny, affrontarono lo studio dei testi romani con metodo nuovo e lontano dalla glossa accursiana. La particolarità risiedeva innanzitutto nella profondità e nella sistematicità dell’analisi testuale, in quanto gli orleanesi commentavano a fondo ogni passo con analisi chiarificatrici più esaustive di quelle dei glossatori, e non di rado capitava che le loro interpretazioni potevano essere valutate e considerate errate e per questo modificate senza esitazione. Inoltre nel metodo del commento viene con precisione ricercata la ratio della norma, ovvero il principio che sta alla base di essa, così da rendere possibile la sua corretta applicazione anche a casi simili non direttamente esplicitati. Il Revigny al riguardo prospettò un’ipotesi sulla quale ragionare, ovvero l’ipotesi in cui una determinata situazione non è regolata né dalla legge né dalla consuetudine ma trova analogia sia nell’una che nell’altra; Quale fonte applicare? La legge o la consuetudine? Non disponendo nulla la legge romana il maestro affermò che la preferenza doveva andare alla fonte che con la propria disciplina si avvicinasse maggiormente al caso concreto. Dunque l’attenzione rigorosa e minuziosa ai casi concreti e al mondo delle consuetudini (diritto orleanese e diritto consuetudinario) rappresentavano i due aspetti complementari di tale indirizzo, pensiero orleanese. Da Cino a Bartolo di Sassoferrato

In Italia, il nuovo metodo orleanese ebbe come maggiore esponente il giurista e poeta Cino da Pistoia. La sua Lectura Codicis segnò infatti l’introduzione definitiva di tale metodo la cui scuola prese il nome di Scuola del Commento. Con tale importante opera l’intenzione dell’autore era quella di assoggettare ogni passo del Codice alle seguenti operazioni:

1. la lettura - lectio, 2. l’interpretazione testuale - expositio, 3. la formulazione di esempi - casus, 4. l’indicazione dei punti rilevanti - notabilia, 5. la discussione dei possibili contrasti tra passi paralleli - oppositiones, 6. la proposizione e la soluzione delle questioni – quaestiones.

Fondamentalmente nessuna di queste operazione era nuova in quanto già tutte praticate dai glossatori, ciò che mutava era essenzialmente il metodo di approccio al testo e il rapporto tra le predette fasi. Dando uno sguardo all’opera di Cino è infatti possibile notare quanto ristretto fosse lo spazio dedicato alle prime cinque operazioni e quanto invece fosse dilatata la sesta. Difatti la quantità di questioni teoriche, di casi tratti dalla prassi o dagli statuti cittadini, e proposti poi dalla cattedra agli allievi era piuttosto notevole.

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Allievo di Cino fu colui che è da considerare il massimo giurista della Scuola del Commento, Bartolo da Sassoferrato. Dopo avere ricoperto alcune cariche pubbliche venne chiamato all’insegnamento universitario dove avviò un’intensissima attività didattica e scientifica. L’opera che di lui resta fu imponente e dedicata al commento/racconto del Digesto, al Codice, al Volumen, alla raccolta dei suoi Consilia, delle Questiones e dei Trattati. Ma vediamo come egli affrontò in delle repetitio celebri dapprima la tematica riguardante gli statuti cittadini e poi quella riguardante il conflitto fra leggi.

1. In merito alla prima, innanzitutto Bartolo impostò il suo ragionamento distinguendo fra tre categorie di comunità locali, assegnando ad ognuna di esse una certa capacità a legiferare : le comunità dotate di piena giurisdizione, la cui potestà legislativa è ammessa in

modo pressoché totale senza necessaria autorizzazione superiore; le comunità con giurisdizione limitata, la cui potestà è ristretta ai soli settori di cui

godono di autonomia giurisdizionale; le comunità prive di poteri giurisdizionali, la cui potestà legislativa è realizzabile

solo in seguito all’autorizzazione del superiore. Alla luce di queste distinzioni egli ritenne opportuno: sottolineare il concetto di popolo, identificandolo con ogni singola collettività

cittadina, rurale e professionale; procedere con un metodo che andava dal certo all’incerto chiarendo i confini della

potestà legislativa con quelli della potestà giurisdizionale; riconoscere ampia autonomia legislativa alle comunità cittadine e rurali; anche se al

di sopra dei regni e delle città rimaneva pur sempre il primato giuridico del potere imperiale, che da solo offriva l’unica garanzia di tutela del valore supremo della pace.

Fu così che Bartolo risolse una serie di questione relative a statuti la cui validità era stata messa in discussione.

2. il conflitto tra leggi fu una delle materie più complesse e controverse nell’età dei comuni, allorché la presenza di tante leggi statuarie creava continui problemi nei rapporti intercittadini. A questo proposito Bartolo formulò un insieme di principi che combinati tra loro consentivano di dare un certo ordine e soprattutto delle risposte a dubbi che si ponevano continuamente. La questione era: quali norme statutarie dovevano applicarsi ai forestieri presenti nel territorio del comune? E quali norme dovevano invece applicarsi ai cittadini che si trovavano fuori dal loro territorio e sul territorio di un’altra città? A tal proposito Bartolo distinse tra:

- contratti, testamenti, delitti, - statuti permissori e proibitori, - norme processuali e norme sostanziali, - statuti rivolti alle persone e statuti rivolti ai beni;

e ne individuò un’idonea soluzione per ogni tipo di conflitto tra statuti di diverse città, e tra statuti e diritto comune. Da queste trattazioni è dunque possibile cogliere i caratteri propri del pensiero della Scuola del Commento, le cui dottrine/studi furono frutto di teorie libere e autonome del giurista, alle prese con questioni nascenti dai mille casi della vita quotidiana del suo tempo. Il metodo

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di distinguere e suddistinguere permetteva infatti di ripartire in sottocategorie una materia complessa, inserendo le svariate questioni nascenti dalla pratica. Innumerevoli furono gli autori che si ispirarono al grande giurista tanto da essersi affermato l’obbligo di attenersi all’opinione di Bartolo in caso di discordanza tra giuristi. Baldo e i Commentatori fra Tre e Quattrocento

Tra gli allievi di Bartolo a spiccare fu Baldo degli Ubaldi, noto semplicemente come Baldo, che insegnò in diverse università e divenne il professore di diritto civile più celebre d’Italia. Dalla cattedra si dedicò ad illustrare non solo il Corpus Iuris ma anche il diritto canonico e il diritto feudale, con particolare attenzione ai rapporti e agli istituti giuridici del diritto commerciale che si stava formando proprio in quel periodo per via consuetudinaria, ma si distinse anche per la sua feconda attività di consilia. La sua fama di professore gli procurò infatti innumerevoli richieste di pareri legali da parte di privati ed anche da parte di giudici. Dagli inizi del ‘300 ai primi del ‘500, la Scuola del Commento mantenne in Italia un ruolo dominate nella scienza giuridica, nell’università e nella stessa pratica del diritto; dimostrato anche dal fatto che gli studenti erano parecchio attratti dalla fama dei docenti (che permetteva loro una certa fonte di ricchezza e di prestigio) e disposti a seguire le loro lezioni. La speciale forma letteraria fu quella della Repetitio che consentiva di dedicare ad una legge del Codice o del Digesto una trattazione approfondita e dettagliata, e che contemporaneamente rappresentava un mezzo di affermazione e di concorrenza con cui veniva misurata la capacità di un professore, in un ambiente universitario nel quale le sedi lottavano per accaparrarsi i docenti migliori. Più tardi si ebbero raccolte stampate di ripetitiones civilistiche e canoniche. I commentari e le raccolte di consilia dei maggiori Commentatori vennero a lungo utilizzate e poi trasmesse tramite pubblicazioni a stampa: svolta cruciale per la cultura giuridica europea. Tra i massimi giuristi ebbero parecchia anche Paolo di Castro, Filippo Decio, Giasone del Majno i cui pareri vennero richiesti con insistenza anche dai sovrani, dai pontefici.. e tanti altri grandi nomi della Scuola del Commento. 13. I DIRITTI PARTICOLARI

Non possiamo non richiamare, oltre il diritto romano, altri complessi normativi esistenti in Italia e in Europa da secoli; non possiamo ovvero non parlare dei diritti particolari:

- il diritto longobardo, - il diritto feudale, - il diritto agrario, - il diritto commerciale e del mare.

Il diritto longobardo

Il diritto longobardo, più precisamente longobardo–franco, aveva trovato nella compilazione detta Lombarda, una sistemazione certa e duratura, tanto che il diritto longobardo fu considerato un vero e proprio diritto comune, integrabile dal diritto romano comune solo in caso di lacuna. Alcuni giuristi esperti che si dedicarono allo studio del diritto longobardo affermarono infatti che, in alcuni casi pratici presentati davanti ai giudici, l’applicazione di

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tale diritto potesse anche prevalere su quello romano. Fu così che i giuristi accompagnarono l’interpretazione dei testi di diritto longobardo con continui richiami e collegamenti al diritto romano comune così da delineare un sistema normativo integrato, composto sia da norme longobarde-franche che da norme romane. Le differenze tra i due diritti rimasero comunque ben delineate, ad esempio:

- per il diritto longobardo la maggiore età si raggiungeva a 18 anni anziché a 25; - il diritto longobardo privilegiava per la successione legittima la linea degli agnati

(discendenza o parentela da uno stesso capostipite maschio: padre, figlio, nipote, pronipote..) piuttosto che quella dei cognati (discendenza o parentela femminile: madre, figlia, nipote femmina, pronipote femmina.. La differenza tra adgnatio e cognatio e la preferenza dell’adgnatio sulla cognatio, era essenzialmente rivolta a preservare il patrimonio delle famiglie che con la successione legittima poteva essere ereditato da altre famiglie. Infatti, se si seguiva la linea maschile-adgnatio il patrimonio della famiglia era assicurato perché tramandandosi il cognome si tramandava anche il patrimonio, se invece si seguiva la linea femminile-cognatio il patrimonio automaticamente passava sotto il nome della famiglia in cui entrava a far parte la figlia sposandosi con un suo componente);

- la pena prevista per il reato di furto era maggiore del doppio. Il diritto feudale

Il diritto feudale di formazione prevalentemente consuetudinaria ebbe un assetto ben definito solo nel 12° secolo. Sulla base del fondamentale Edictum de beneficiis: ereditarietà del beneficio feudale (editto voluto da Corrado II allo scopo di attenuare le ribellioni dei vassalli italiani e regolare il diritto di successione per i feudi minori, con cui si sancì da un lato che il diritto del vassallo sul feudo concessogli dovesse configurarsi come un vero e proprio diritto reale, stabile e non revocabile da parte del signore se non per colpa; e dall’altro che l’ereditarietà del feudo fosse esteso anche ai vassalli minori con tutti i benefici di cui godevano i grandi feudatari del sovrano ed essere così giudicati alla pari) venne composto un testo che per la prima volta indicava in modo chiaro e preciso le principali consuetudini feudali vigenti, realizzato con la collaborazione di un giurista esperto di diritto romano e di diritto feudale: Oberto de Orto. Da quel momento in poi le consuetudini feudali assunsero la denominazione di Libri Feudorum ma soprattutto assunsero il carattere di un vero e proprio testo normativo. Sui libri feudorum molti giuristi bolognesi elaborarono summe, commentari e trattazioni il cui elemento comune era il legame tra norme feudali e testi romanistici, e il cui risultato era un impasto tra due diritti profondamente lontani tra loro sia nelle origini che nella disciplina. I diritti rurali

Occorre sottolineare che un carattere comune ai vari sistemi giuridici europei era proprio quello della molteplicità della discipline previste, diverse a seconda del ceto di appartenenza. Qualsiasi aspetto della vita quotidiana, quale la capacità d’agire, il regime patrimoniale e matrimoniale, le successioni, le sanzioni, ecc.. era infatti disciplinato in maniera diversa in base al ceto cui si faceva parte ma anche in base all’essere uomo, piuttosto che donna o

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chierico, ecc.. ad esempio per gli uomini vi erano ben otto classi diverse la cui appartenenza prevedeva discipline totalmente diverse, come nel caso della pena prevista per l’omicidio che variava in modo smisurato tra la prima e l’ultima di queste otto classi. Tale varietà di status era possibile riscontrarla anche nel diritto rurale dove vigeva la principale distinzione tra coloni - vincolati al padrone/dominus - e ascriptcii – vincolati ad una specifica terra, ma anche la presenza di altre categorie giuridiche disciplinate in modo diverso e specifico da luogo a luogo. E’ dunque chiaro come nonostante la rinascita delle città gran parte della popolazione europea fosse comunque formata da contadini. La concessione di diritti sulla terra avveniva in varie forme da parte del sovrano o signore e particolare rilievo presentava la tipologia variegata dei contratti agrari che disciplinavano diritti e obblighi dei coloni – ovvero lavoratori di terre di cui non erano proprietari a pieno titolo e che rappresentavano la categoria maggiormente prevalente nel mondo rurale. Tra le varie figure contrattuali vi era:

- il contratto di livello, concluso tra le parti per iscritto con prestazione di un canone annuo in prodotti o in danaro, per una durata in genere di 29 anni;

- i contratti d’affitto di terre cedute al colono, assai più cospicui e spesso quinquennali; - il contratto di mezzadria nel quale la metà dei prodotti spettava al proprietario, l’altra

metà al fattore; - il contratto di enfiteusi, di uso frequente per le proprietà ecclesiastiche, dove la

concessione delle terre era compiuta per tre generazioni dietro versamento di una somma iniziale mentre il canone era soltanto simbolico

Ma le forme contrattuali tipiche del mondo rurale erano ben più numerose come ad esempio la cessione a tempo di capi di bestiame, con obbligo di restituzione alla scadenza, a un colono incaricato di nutrirli e trarne lana o latte; oppure i diritti e gli obblighi sulle terre comuni: i diritti di pascolo degli abitanti del villaggio sui prati e nei boschi circostanti, i diritti della raccolta del legname delle foreste, ecc. La misura e, i tempi e i modi di esercizio di questi diritti erano determinati tramite consuetudini e potevano per questo variare da luogo a luogo. L’insieme di tali consuetudini diede appunto vita al diritto rurale. Il diritto commerciale marittimo

Il diritto commerciale nacque e si diffuse in Europa per rispondere alle esigenze dei commercianti e degli artigiani attivi nell’economia urbana. Nati dalla cooperazione attiva del mercante e dell’onnipresente notaio, questo ed altri diritti si affermarono per consuetudine all’interno delle corporazioni gestiste dagli stessi mercanti. La prassi era infatti quella di affidare ad un mercante merci o capitali da trafficare oltremare dividendosi al ritorno i guadagni ottenuti; ben presto questo sistema fece però sorgere l’esigenza di garanzie contro eventuali rischi di naufragio o di deterioramento o di furto delle merci o capitali determinando la formazione di apposite assicurazioni sulle merci o capitali che ripartivano il rischio tra i soggetti interessati: il documento guarantigiato, ovvero una dichiarazione di debito compiuta davanti ad un notaio (di cui ricordiamo l’importanza del ruolo svolot nei comuni) con atto pubblico, con valore di titolo esecutivo risparmiando così al legittimo possessore le lungaggini di un processo formale per recuperare il credito perduto. Tali istituti di diritto commerciale presto si estero anche ai rapporti legati alla navigazione marittima

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delineandosi così un complesso di regole per la disciplina della vita a bordo della nave, dei poteri del capitano nei confronti dei marinai, della procedura in caso di controversie, dell’eventuale ipotesi di naufragio o avaria, ecc. Con il tempo le norme di diritto commerciale e marittimo vennero elaborate in forma scritta e diedero vita a vari testi normativi, tra cui il Consolato del Mare, diffuso in tutta Europa. 14. I DIRITTI LOCALI

L’Europa medievale conobbe accanto ai diritti particolari una fioritura di diritti locali che costituirono la prosecuzione storica delle consuetudini altomedievali: alle consuetudini si aggiunsero infatti sia consuetudini nuove sia norme stabilite per legge. Italia comunale: gli statuti

Con la nascita dei comuni italiani e con la libera elezione dei consoli dotati di piena giurisdizione civile e penale, quest’ultimi e altre magistrature giuravano all’atto dell’assunzione in carica l’osservanza di specifiche obbligazioni relative alle proprie competenze e ai modi di esercizio del potere; appositi documenti notarili in forma di brevia precisavano analiticamente queste funzioni (ovvero la durata della carica dei consoli, i loro poteri giudiziari, diplomatici, amministrativi, militari, ecc.) stabilite dall’assemblea cittadina. Quando poi si avvertì l’esigenza che una consuetudine locale venisse garantita nella sua applicazione da parte dei giudici, si optò per la sua redazione scritta e la si fece approvare formalmente dall’assemblea trasformandola così in legge della città. I brevia dei consoli, le consuetudini scritte, le leggi approvate dal comune vennero allora trascritti e formarono la base del diritto scritto cittadino o locale - che assunse il nome di Statuto. Si costituì allora il Liber statutorum della città, un testo diviso in più libri, che racchiudeva i principi cardini della normazione locale; le consuetudini assunsero così il carattere proprio della legge perché generali ed astratte. L’evoluzione dello statuto cittadino si stabilizzò con il diffondersi del regime della Signoria, la quale impose la superiorità delle leggi e delle normative elaborate dal signore rispetto alla legislazione cittadina, senza però abolire gli statuti, che si mantennero in vita sino alla fine del ‘700. Una legislazione territoriale specifica si ritrovò anche nei comuni rurali, ma qui l’autonomia normativa fu ben più ridotta a causa del controllo esercitato sul contado dalla città dominante, che imponeva ad esempio di ricorrere in ogni caso ai giudici cittadini per eventuali controversie tra contadini e abitanti della città. Gli statuti rurali ebbero comunque il merito di essere fonti di informazione per la conoscenza della gestione delle terre, dei boschi, dei pascoli, ma anche per lo studio dei rapporti interni al villaggio e di altri aspetti tipici della vita delle campagne. Il Regno di Sicilia

Il Regno di Sicilia conobbe la fioritura di consuetudini scritte già con Ruggero II ma la fase culminante si ebbe con Federico II che promulgò il Liber costitutionum, un testo contenente disposizioni che imponevano ai giudici del regno di osservare in primis le prescrizioni in esso contenute, poi le consuetudini locali, in seguito il diritto longobardo ed infine il diritto

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romano comune; affermava inoltre l’uguaglianza dei sudditi rispetto alla legge del re, senza alcuna differenza in merito all’etnia o al rango sociale di appartenenza. Il Regno di Germania

Nel Regno di Germania l’opera sicuramente più importante fu lo Specchio sassone contenente disposizioni specifiche in merito al processo, regolato attraverso prove ordaliche e prove testimoniali, imponeva anche il giuramento e rendeva possibile il rifiuto della sentenza con la richiesta di un nuovo giudizio. Il Regno di Francia

In Francia la sopravvivenza del diritto romano era sempre ben radicata, tuttavia esistevano consuetudini altrettanto radicate non coincidenti con le regole del diritto romano; divenne allora frequente la prassi di indicare negli atti e nei contratti conclusi davanti al notaio la rinuncia ad avvalersi delle normative romane per far prevalere quelle non romane, cosa che indusse il re Filippo il Bello a stabilire con un’apposita ordinanza che il diritto romano fosse ammesso ma a titolo di consuetudine locale e non come diritto imperiale. La Penisola Iberica

I diritti locali costituirono in Spagna la fonte di diritto maggiormente prevalente. Essi si manifestarono in varie forme, tra cui:

1. le carte di popolazione nelle quali un signore locale stabiliva diritti ed obblighi per gruppi di coloni cui erano assegnate terre incolte per coltivarle; i coloni quindi restavano alle dipendenze del signore adottando le regole stabilite nelle carte.

2. i Fueros, una fonte scritta che indicava una concessione di privilegi da parte di un re ad una comunità locale, in genere una città o un borgo, che accesero frequentemente contrasti con i signori locali, i quali miravano a mantenere sulla popolazione del borgo il loro controllo tradizionale. Con il tempo si formarono tipologie di fueros con contenuto sempre più esteso.

Infine il testo forse più celebre della legislazione ispanica fu il Libro delle Sette Parti di Alfonso X di Castiglia, ripartito in sette libri, ognuno riguardante rispettivamente: - l’organizzazione ecclesiastica, - i poteri del re, - il processo, - il matrimonio, - i contratti e i feudi, - le successioni, - il diritto penale.

Il suo contenuto normativo è quasi interamente tratto dalle fonti romano-canoniche medievali, dal Corpus iuris alle Decretali. Scandinavia

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Anche nei tre regni di Danimarca, Svezia e Norvegia, le consuetudine locali delle diverse provincie cominciarono ad essere redatte per iscritto. Carattere significativo ebbero i patti giurati, con i quali i sudditi e il re promettevano attraverso un giuramento collettivo la conservazione della pace pubblica, cosa che consentì un maggior controllo e un ruolo di garanzia nel rapporto tra i ceti. 15. IL SISTEMA DEL DIRITTO COMUNE

..Diritto romano e diritto canonico, diritti locali, diritti particolari, statuti e consuetudini.. la compresenza in uno stesso ordinamento giuridico di fonti giuridiche tanto lontane tra loro per poneva una serie di problemi legati al coordinamento e all’interazione tra tutte queste fonti. Alla soluzione di questo problema di dedicarono i maggiori giuristi del tempo. I due temi principali furono:

1. il binomio rigore-equità, 2. il rapporto tra legge e consuetudini

esaminati con riferimento alla scuola dei Glossatori. Equità e rigore

Il 1. dibattito concerneva il ruolo dell’equità nell’interpretazione e nell’applicazione delle norme di legge. L’equità per i Glossatori in quanto se perseguita dall’uomo con costanza si traduceva nella giustizia, se redatta in norme dà vita al diritto. I Glossatori qualificarono l’equità trasposta in norme di legge come constituta, ovvero stretto diritto, mentre l’equità non ancora divenuta legge fu detta rudis ovvero grezza. Dunque il dibattito nacque dal contrasto tra due testi di Costantino, entrambi accolti nel codice di Giustiniano, dove una costituzione decretava doversi preferire sempre l’equità rispetto al rigore dello stretto diritto o ius, l’altra costituzione invece attribuiva al solo imperatore la potestà di risolvere eventuali contrasti tra aequitas e ius; sulla questione sorse un netto dissenso tra due grandi allievi di Irnerio: Bulgaro e Martino.

- Bulgaro individuò due accezioni del termine aequitas: quella scritta e quella non scritta, dando la priorità alla prima e vietando al giudice ogni scostamento dal diritto scritto in nome dell’equità non scritta.

- Martino ritenne invece ammissibile, che il giudice, laddove fosse stato possibile o meglio ancora necessario, potesse anteporre l’equità rude anche in contrasto con lo stretto diritto o ius. La sua tesi e quella dei suoi seguaci era infatti quella che l’imperatore aveva sì il compito di dettare l’interpretazione autentica e generale della legge ma non vietava al giudice di anteporre l’equità non scritta al rigore del diritto scritto, potendo inoltre, sempre in nome dell’equità, concedere uno strumento processuale polivalente per provvedere a situazione alle quali lo stretto diritto del Corpus iuris negava ogni tutela. Questa tesi così esposta fu aspramente criticata tanto che Rogerio la definì stolta.

Tra le due fu dunque la tesi di Bulgaro a prevalere e le specifiche soluzioni equitative suggerite da Martino vennero quasi sempre respinte. Ciò perché l’indirizzo dominante

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tendeva sì ad ampliare i margini della potestà dei giudici ma scegliendo una strada in parte diversa da quella di Martino, facendo cioè leva su due principi:

- il criterio interpretativo che consentiva di argomentare in base alla ratio legis; - il criterio di considerare regola lo ius strictum ed eccezione lo ius aequum, e pertanto

prevalente il secondo sul primo in virtù del principio per il quale l’eccezione prevale sulla regola, a sua volta basato sul criterio che la specie deroga sul genere.

Là dove si poteva argomentare che il legislatore avesse fatto ricorso a parole – verba - che esprimevano qualcosa di più o qualcosa di meno rispetto alle proprie intenzioni – voluntas - o alla motivazione oggettiva – ratio -della legge stessa, si riconosceva dunque la possibilità di fare appello all’equità anche contro le parole della legge. Inoltre in merito al rapporto tra equità e diritto canonico sorsero altrettanti dibattiti e tesi contrastanti, in quanto il tema dell’equità e dei suoi rapporti con la legge canonica assume un’importanza particolare perché toccava il rapporto tra diritto, giustizia e carità. Il ricorso all’equità era legittimo qualora la norma scritta mancasse, per altri canonisti invece l’equità costituiva un criterio operante in ogni caso. Per tali vie si affermò nel tempo un concetto peculiare di equità: l’aequitas canonica, accolta anche nel Codice Canonico del 1983. Legge e consuetudine

Il 2. dibattito concerneva invece il rapporto tra legge e consuetudine e lo spunto alla riflessione prese appunto l’avvio da un conflitto tra leggi.

- La tesi classica, tramandata dal Digesto, considerava la volontà popolare il fondamento comune sia della legge sia della consuetudine con l’unica differenza riguardante il modo espresso o tacito con cui il consenso popolare si manifestava; entrambe avevano dunque lo stesso livello di legittimazione e di vincolatività.

- La tesi postclassica, derivante da una celebre costituzione di Costantino, sanciva invece la priorità della legge sulla consuetudine.

Il ruolo della consuetudine nel suo rapporto con la legge, costituiva un problema enorme perché in un sistema giuridico stracolmo di consuetudini locali era necessariamente essenziale chiarire se e fino a che punto la legge potesse imporre il suo primato. Al riguardo vi fu un dibattito per il quale:

• una tesi rigidamente restrittiva, optava per la posizione costantiniana, ovvero che la facoltà di legiferare sarebbe stata sottratta al popolo e la consuetudine avrebbe perduto il suo livello di parità con la legge imperiale;

• una tesi diversa di Bulgaro, operò una fondamentale distinzione: le consuetudini generali, le consuetudini speciali o locali, in base alle quali distinse poi:

a) l’ipotesi di un loro contrasto, non volontario, con la legge indotto per semplice errore, b) l’ipotesi di un contrasto consapevole, dove la legge non è abrogata ma è la consuetudine a prevalere sulla legge;

• un’altra tesi, stavolta del Piacentino, criticò con asprezza la teoria per la quale le consuetudini consapevolmente contrarie alla legge avrebbero goduto di migliore sorte rispetto alle consuetudini inconsapevolmente “contra legem”. Pillio riprendendo la

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tesi di quest’ultimo distingueva tra consuetudini buone o razionali e consuetudini cattive o irrazionali;

• ultima tesi operata da Alberico, stabiliva che le consuetudini prevalevano rispetto alle norme di legge derogabili, ma non rispetto alle norme imperative e inderogabili. Questa teoria come quella di Bulgaro apriva uno spazio assai considerevole alle consuetudini, ma a differenza di quella di Bulgaro fissava altresì un confine preciso laddove il legislatore avesse vietato deroghe specifiche alla regola legale.

In conclusione la tesi che prevalse su tutte fu quella di Bulgaro, ovvero che una consuetudine generale ed efficacie ovunque, poteva abrogare la legge, invece una consuetudine locale o speciale non possedeva efficacia abrogativa della legge ma era valida ed applicabile nel luogo in cui si era affermata. Anche il dibattito sul rapporto tra legge e consuetudine non si concluse con la scuola dei glossatori ma venne ripreso anche nella scuola dei commentatori e nelle altre scuole con esiti differenti. “Ius commune” e “ius proprium”

Il diritto comune civile fondato sui testi della Compilazione giustinianea e sull’opera dei Glossatori e dei Commentatori conobbe un successo straordinario. La formazione universitaria ebbe l’effetto di diffondere non solo le tecniche di interpretazione e di argomentazione ma anche i contenuti del diritto comune, precisamente l’affermazione dello Ius commune civile. La questione del rapporto tra diritto comune e diritti particolari e locali fu ampiamente considerata sia nelle opere di dottrina che nei consilia. Per l’Italia dei comuni la regola fu la compresenza e la doppia vigenza dei diritti locali e del diritto comune: il giudice doveva anzitutto applicare lo statuto, integrandone però le lacune con il ricorso al diritto comune. Da ciò era desumibile che la normativa locale, detta Ius proprium, doveva avere la priorità su quella del diritto comune garantendo così che le norme consuetudinarie o quelle ex novo in sede locale venissero effettivamente applicate anche se fossero state contrarie rispetto a quanto disposto da diritto comune. Anche i diritti particolari prevalevano sul diritto comune in quanto relativi a presone e a rapporti speciali: ad es. per il diritto feudale. Potrebbe sembrare con ciò che il peso specifico del diritto comune venisse drasticamente sminuito rispetto allo ius proprium locale ed anche rispetto ai diritti particolari, che su di esso avevano la precedenza. Ma sarebbe stata una conclusione errata per diverse ragioni:

- in primo luogo si deve considerare che una larga parte degli istituti dell’ordinamento, in particolare quelli di diritto civile riguardanti i diritti della persona, i diritt di proprietà, di successione.. era assente dalla normativa statuaria perché la disciplina romanistica, integrata dalla dottrina, veniva accettata senza variazioni quale valida base normativa; sicché in tutti questi settori era direttamente il diritto comune ad essere applicato in assenza di una norma locale.

- In secondo luogo, l’interpretazione di molti termini e di molti istituti, pur menzionati nello statuto, veniva elaborata facendo ricorso alle categorie e alle disposizioni del diritto comune.

- In terzo luogo, la tesi dominante fu di considerare la normativa dello ius proprium come normativa di eccezione rispetto a quella dello ius commune e come tale, non estendibile

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per analogia. A questo proposito sui modi e sui limiti dell’interpretazione dello statuto, taluni giuristi ebbero opinioni spesso contrastanti; alcuni negarono l’interpretazione analogica dello statuto nelle ipotesi di un caso non prevedibile; altri invece consideravano estendibile per analogia lo statuto se la sua ratio sussisteva nel caso in esame.

Dalla somma di questi criteri il risultato fu quello che il diritto comune conservava uno spazio davvero molto ampio di applicazione anche in presenza di un’abbondante normazione locale in continua evoluzione. I due diritti universali: “utrumque ius”

Non dobbiamo dimenticare che il diritto comune, nato dalla nuova scienza del diritto bolognese, oltre a comprendere ed essere costituito dal diritto civile romano, comprendeva ed era costituito anche da un altro grande sistema normativo universale, il diritto canonico. La questione dei conflitti tra diritto comune civile e diritto comune canonico fondamentalmente non esisteva, in quanto il primo regolava la sfera dei rapporti secolari, il secondo la sfera spirituale. La Glossa accursiana scolpì tale rapporto con una doppia negazione incrociata:” né il papa nelle questioni secolari, né l’imperatore nelle questioni spirituali”. Se da un lato però la distinzione tra le due sfere era piuttosto netta, dall’altro qualora l’applicazione delle leggi civili, sia nel campo temporale che a maggior ragione nel campo spirituale, avesse indotto al peccato esse dovevano essere derogate preferendo l’applicazione delle leggi canoniche e permettere così la salvezza del’anima. Ad esempio in merito alla competenza giurisdizionale, se temporale (dello Stato) o spirituale (della Chiesa) secondo alcuni giuristi, tra cui Cino da Pistoia, solo i reati direttamente legati alla religione dovevano rientrare nella giurisdizione del giudice canonico, non invece altri reati anche se frutto di un peccato. Ad ogni modo i destinatari di questi due ordinamenti universali, il civile e il canonico, erano le stesse persone, il che rendeva ancora più arduo il loro rapporto e discusso il loro sottile confine, tra ciò che era di Cesare e ciò che era di Dio. 16.LA FORMAZIONE DEL COMMON LAW L’avvento dei Normanni in Inghilterra con Guglielmo il Conquistatore, aprì una nuova era che ne caratterizzò la storia per sempre: diede origine al Common Law. Un imponente sistema di diritto comune, “comune” perché:

- di applicazione generale, cioè di più ampia portata rispetto alle norme imperiali e speciali;

- perché gestito dalle Corti secolari e non dalle Corti ecclesiastiche - perché distinto dal sistema dell’equity.

Il sistema del common law si differenziava inoltre dal civil law per tutta una serie di diverse caratteristiche, ovvero:

- la non codificazione del diritto né costituzione scritta; - la non distinzione tra diritto pubblico e privato;

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- la non separazione tra diritto sostanziale e diritto processuale; - il ruolo autorevole dei giudici; - il ruolo marginale della dottrina e dei professori di diritto; - il sistema penale accusatorio e non inquisitorio;

Il diritto inglese è frutto della creatività dei giudici regi e della giurisprudenza inglese che attraverso una serie di decisioni su casi specifici hanno costruito un vasto e complesso insieme di regole e principi. Allo sviluppo del Common law la tradizione romanistica del Corpus iuris rimase sostanzialmente estranea, così come la dottrina giuridica, cioè l’attività creativa di analisi, di approfondimento svolta dai giuristi dotti di estrazione universitaria, e la formazione dei giuristi con le conseguenti professioni legali ebbero un ruolo molto più circoscritto, gli avvocati e i giudici si formarono infatti nella pratica non nell’università. Un sistema dunque diverso e originale, adottato al di fuori dell’Italia e dell’Europa, come negli Stati Uniti, in India, in Canada, in Australia, ecc. Nonostante ciò il sistema del Civil law (diritto romano, diritto canonico, consuetuidini, dottrina universitaria..) ha direttamente interagito e ispirato tutta una serie di istituti entrati a far parte del diritto inglese; a sua volta il diritto inglese ha restituito il favore come per esempio con l’introduzione in Europa della separazione dei poteri. Il Regno normanno

Il Regno Normanno nacque ad opera di Guglielmo il Conquistatore, sostenitore del principio che l’intero territorio del regno apparteneva al re, sicché ogni diritto altrui su terre e immobili era ritenuto “derivato” tramite una concessione sovrana. Molto importante fu la distinzione che il re volle introdurre tra giurisdizione regia e giurisdizione ecclesiastica, anche qui confuse e mescolate per secoli, il cui scopo fu quello di rivendicare la sovranità del monarca e la sua autonomia dalla Chiesa. Lo strumento principale e fondamentale della monarchia inglese per acquisire tale effettiva supremazia sull’intero territorio del regno fu la progressiva estensione della giurisdizione regia; il regno era diviso in conte: shires, ciascuna delle quali aveva al vertice un conte, anche se era in concreto gestita dallo sceriffo: sheriff, in nome del re, nominato dal re e dipendente diretto del re, in qualsiasi momento revocabile. La giustizia tradizionale era amministrata dalla Corti di Contea: Country Courts, mentre il Consiglio del re: Curia Regis, si occupava anche di affari giudiziari, tanto che sempre più spesso i sudditi inglesi presero a rivolgersi alla giustizia del re per cause che la giustizia ordinaria di contea non aveva affrontato o non aveva risolto in modo soddisfacente: così alcuni membri della curia regia furono incaricati di decidere le cause in nome del re in procedimenti che presero il nome di Assise. I “writs”

Dunque l’affermazione della giurisdizione regia, ovvero la funzione giudiziaria del re, rappresentò uno dei capitoli più interessanti della storia del diritto inglese. I re Normanni d’Inghilterra fecero infatti leva su 3 elementi:

- sul loro compito di tutela dell’ordine, - sul potere di comando affidato agli sceriffi delle contee,

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- sulla possibilità di concedere strumenti procedurali più efficaci rispetto al duello o all’ordalia,

ma fu con Enrico II che un primo caso di giurisdizione regia si manifestò quando il re assicurò al litigante (nella controversia con il suo signore che gli negava il suo diritto sulla terra, datagli in concessione proprio dal signore) la facoltà di ricorrere alla Corte di Contea, amministrata dallo sceriffo di nomina regia, qualora dal suo signore avesse ottenuto un ulteriore rifiuto di giustizia anche dopo la sollecitazione del re. Il breve scritto della Cancelleria regia rivolto al signore prese proprio il nome di writ of right. Per le terre che un signore aveva invece ricevuto direttamente dal re, il writ veniva inviato dal cancelliere del re direttamente allo sceriffo del luogo, nella forma di un ordine da impartire al convenuto (signore) perché accogliesse la richiesta dell’attore (contadino che si era rivolto al re per appunto richiedere il writ) e gli restituisse la terra contestata. Se il convenuto non l’avesse fatto lo sceriffo avrebbe dovuto imporgli di presentarsi ai giudici del re. Era così che veniva limitata la giurisdizione del signore del luogo in favore di quella regia. Contemporaneamente, nelle controversie relative ai diritti su una terra il convenuto (in questo caso il signore chiamato in causa dal contadino) fu abilitato dal re Enrico II a far valere le proprie ragioni, anziché attraverso il mezzo di prova del duello giudiziario, attraverso il ricorso alla testimonianza giurata di dodici vicini; un’anticipazione questa di quello che sarebbe diventato uno dei più importanti istituti del Common law: la Giuria nel Processo. Dunque questi writs, affini in parte agli interdicta (ovvero gli strumenti del diritto romano utilizzati dal pretore per porre fine ad una controversia), realizzarono una tutela del possesso immobiliare distinta ed autonoma rispetto alla tutela del diritto di proprietà. Insomma fu grazie a questi formidabili strumenti – i writs e la testimonianza di vicini – che la giurisdizione regia riuscì a guadagnare sempre più terreno, sebbene essa comportasse per il litigante esborsi consistenti, visto che i writs venivano rilasciati dalla Cancelleria esigendo il pagamento di forti somme prestabilite. Sempre con Enrico II si determinò un ulteriore affermazione di giurisdizione regia in merito a determinati reati e comportamenti considerati eccessivamente lesivi e offensivi, sanzionabili con particolare rigore perché si riteneva infrangessero la pace del re e fossero perciò perseguibile davanti ai giudici del re; in questo modo tutti i crimini divenivano cause della corona. A tal proposito i giudici regi furono incaricati di recarsi periodicamente nelle varie parti del regno, sulla base di testimonianze e accuse presentate da giurie locali, al fine di indagare sui reati commessi e perseguire così il reo non solo come offensore della vittima ma anche come reo di fellonia: violatore del rapporto di fiducia e di pace con il re (ricordiamo il signore e il vassallo nell’età feudale). A tal proposito una delle azioni di tutela più importanti - writ of trespass - che gradualmente divenne lo strumento principale per ottenere soddisfazione da chi avesse commesso un illecito civile, sviluppandosi poi nel tempo una forma ancora più generale di azione per illecito civile che prese il nome di trepass on the case e che, a differenza del trepass vero e proprio (writ of trepass), non comportava l’arresto del convenuto. Il trespass presupponeva un atto di violenza contro la persona o contro cose mobili o immobili e permetteva, sulla base di prove, di ottenere un risarcimento dei danni subiti. Vi fu anche il writ of debt per la tutela processuale del contratto davanti alle corti regie.

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Nel tempo si vennero comunque a creare altri nuovi writs applicabili ormai non solo ai casi usuali e correnti ma anche ai casi simili, mediante il ricorso ad un procedimento per analogia. Tuttavia la procedura era piuttosto rigida e formale, le misure di sanzione erano specifiche per ogni diverso writs, e quindi al di fuori dei writs riconosciuti e ammessi non si poteva comunque andare. Questa rigidità ricorda il sistema formulare del diritto romano classico. In conclusione il sistema dei writs è stato fondamentale per la genesi del Common Law. Le Corti regie e le decisioni giudiziarie

L’infittirsi dei casi sottoposti al re, lo indussero infatti ad inviare periodicamente nelle provincie del regno alcuni giudici viaggianti per amministrare in suo nome i processi civili e penali. Ciò determinò 13° secolo una suddivisione dell’unica Corte del re in tre diverse Corti centrali:

- la Corte dei processi comuni, che giudicava i casi tra privati; - la Corte dello scacchiere, che si occupava della giustizia fiscale, amministrativa e

finanziaria; - la Corte del banco del re, che si occupava invece dei casi criminali, civili e feudali e in

cui il re soleva essere presente in prima persona. L’insieme di queste decisioni, adottate dai giudici del re sulla base ovviamente dei writs concessi dalla cancelleria regia, divenne un vero e proprio sistema normativo, tanto da essere in seguito trascritte in appositi registri in lingua latina dando vita ai cosiddetti Reports, la cui redazione si deve probabilmente a giovani aspiranti avvocati che assistevano ai dibattimenti per istruirsi nelle tecniche del Common law. Glanvill e Bracton

Due opere importanti, scritte da Glanvill e Bracton, permisero di osservare quelle che furono le fasi formative del Commow law. Quella di Glanvill descriveva il sistema dei writs ancora in via di formazione, quella di Bracton invece esponeva con limpidezza le principali regole di un Common law ormai maturo. Le professioni legali

Ai litiganti che facevano ricorso alla giurisdizione regia, si impose con il tempo la necessità di individuare ed incaricare chi gestisse in loro nome la causa - gli attorneys - che avevano il potere di rappresentanza processuale della parte da cui erano stati scelti. Ben distinta fu invece un’altra figura con un’altra funzione - i narratores - cui spettava il compito di esporre in giudizio il caso controverso, che aveva indotto l’attore a rivolgersi al giudice, e che dopo assunsero la qualifica di serjeants, per indicare un rapporto di servizio con il re. Nacquero così due rami della professione legale:

- gli attorneys, rappresentanti della parte (avvocati), - i narratores-serjeants, difensori della parte.

Il narrator dell’attore aveva il compito di esporre il caso con tutti i particolari considerati rilevanti ai fini del giudizio. Il convenuto dal canto suo poteva:

- o negare il fatto esposto dal narrator,

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- o negarne solo una parte, - o confermarlo aggiungendo però un ulteriore fatto che ne modificava lo svolgimento, - o confermarlo in toto sostenendo però di avere agito in modo conforme alla legge.

Solo per quest’ultima ipotesi il giudice poteva direttamente sciogliere il nodo della questione e mettere fine al contrasto, mentre per le prime tre ipotesi il contrasto tra la versione dell’attore e quella del convenuto costituiva l’oggetto specifico della pronuncia della giuria. Circa la formazione superiore dei giuristi nel Regno d’Inghilterra si affermò un diverso indirizzo: i giuristi del Common law si formavano presso le corti centrali di giustizia dove giovani giuristi erano incaricati di simulare processi e argomentazioni per imparare le tecniche del diritto, e di annotare le discussioni svolte nei processi (che come abbiamo detto hanno permesso lo sviluppo dei reports). La giuria sia nelle cause civili che penali

Come accennato un fondamentale elemento nella storia del diritto inglese è l’istituto della Giuria popolare, cioè l’affidamento a cittadini non giuristi di un ruolo centrale nella decisione delle cause giudiziarie. Alla luce di ciò, la giustizia del re permise infatti al convenuto, in una controversia immobiliare, di potere opporsi alla pretesa dell’attore non con la prova del duello giudiziario ma ottenendo le “grandi assise”, ovvero di sottoporre la questione ai 12 cavalieri appartenenti all’esercito del re; precisiamo che i giurati svolgevano il ruolo di testimoni e non quello di giudici. Nel capo penale la giuria ebbe una inizio differente; innanzitutto per portare davanti al giudice l’autore di un crimine vi erano due modi diversi:

- con l’accusa avanzata dalla vittima del reato o dai suoi familiari; - con la procedura per indictment, cioè attraverso l’interrogazione di un gruppo di

uomini del luogo ai quali i giudici viaggianti della corte regia chiedevano di informarli sui reati che erano stati commessi nel territorio.

Chi fosse stato accusato con l’indictment doveva difendersi mediante il ricorso al duello giudiziario, ma sempre con Enrico II l’accusato poteva chiedere e ottenere la possibilità di difendersi dal suo accusatore ricorrendo alla testimonianza di dodici vicini anziché al duello. Dunque alla fine del ‘200 la giuria era ormai divenuta il modo più diffuso di procedere sia nelle cause civili sia nelle cause penali e anche se il ruolo dei giurati nel processo ribadiamo era un ruolo di testimoni qualificati e non ancora di giudici, assunsero comunque una veste essenziale nel sistema del Common low. La Magna Carta

In un momento di crisi dell’autorità regia, i baroni colsero l’occasione per ottennere il riconoscimento di una vasta serie di diritti e di poteri che trovò espressione nella Magna Carta. Questo celebre testo oltre a ribadire le libertà della Chiesa e della città di Londra, riconosceva le prerogative dei Lords nei confronti dei loro sottoposti, liberi e coloni, e in particolare i loro poteri giudiziari. Una parallela evoluzione si verificò nella rappresentanza politica, nel senso che se inizialmente l’Assemblea Generale del regno aveva ancora i caratteri di un’assemblea feudale, composta dai rappresentanti delle contee e ai feudatari diretti del re si aggiunsero i rappresentati

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delle città e dei borghi e queste tre categorie vennero a far parte del Parlamento attraverso una procedura elettiva e non più per scelta discrezionale dello sheriff. Gli eletti non solo deliberavano congiuntamente nel Parlamento, ma la loro delibera vincolava tutti. Le disposizioni approvate dal Parlamento si chiamavano Statuti, mentre quelle che il re approvava nel suo Consiglio ristretto si chiamavano Ordinanze. 17. IL DIRITTO INGLESE (SEC. 16°- 18°) Come abbiamo detto alla fine del medioevo il Common law formava un nuovo e articolato sistema di diritto. La giustizia

Un'evoluzione molto significativa si ebbe poi nelle funzioni della giuria civile e penale, da testimoni che erano, i giurati divennero veri e propri giudici, autori di un verdetto, sulla base di prove e documenti, che riguardava però la sola questione di fatto portata in giudizio, mentre l’applicazione delle regole di diritto al verdetto spettavano al giudice togato. Quest’ultimo poteva però anche mettere in discussione il verdetto eventualmente ritenuto ingiusto e chiedere la nomina di una seconda giuria. Sempre di questo periodo è anche l'istituzione di una speciale corte di giustizia penale, la Star Chamber, costituita dal Consiglio del re (a sua volta costituito dal cancelliere, dal tesoriere, da ministri, giudici e un vescovo) che perseguiva una vasta serie di crimini con un procedimento piuttosto sommario, rapido ed efficace senza l'intervento della giuria, senza il potere di condanna capitale, ma con ricorso alla tortura giudiziaria, che invece le altre corti di giustizia inglesi non praticavano. Il ridimensionamento del potere sovrano e il riequilibrio delle funzioni di governo, che segnarono la fine della’assolutismo in Inghilterra, portarono all'abolizione della Star Chamber. Equity

Un elemento essenziale del diritto inglese era costituito dalla giurisdizione della Corte di cancelleria, il cancelliere infatti era titolare di poteri giudiziari, poiché a lui spettava l'emissione dei nuovi writs che costituivano la base della giurisdizione del re; per i ricorsi dei sudditi al sovrano, era sempre il cancelliere a pronunciarsi in nome del re accogliendo o respingendo le richieste presentate. Il criterio generale adottato dal cancelliere fu di giudicare “secondo coscienza”, con un esame connesso del fatto e del diritto e con un notevole margine di discrezionalità, e uno dei campi in cui la Cancelleria opero più creativamente fu quello dei rapporti fiduciari. A tal proposito poteva accadere che un soggetto A, per proprie ragioni, dovesse spogliarsi dei beni di sua proprietà e cederli ad un altro soggetto B, con l’accordo che però B li gestisse fiduciariamente nel suo interesse; questo negozio fiduciario per il common law non era possibile perché così facendo A trasferiva a B il pieno diritto di disporre e di godere dei beni come propri, senza alcun obbligo nei confronti di nessuno né nell’interesse di nessuno. Secondo invece la corte di cancelleria ciò fu possibile in nome dell’equità. Il re favorì la giurisdizione della Corte di cancelleria, che divenne così una giurisdizione complementare rispetto a quella delle corti di common law e che prese il nome di Equity,

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dotata di una procedura del tutto distinta da quella delle altre corti regie. Il cancelliere poté ampliare notevolmente i suoi interventi giurisdizionali attraverso lo strumento dell'intimazione, se convinto che il giudizio di una Corte di Common law portasse ad esiti contro la coscienza, ovvero contro l’equità, potendo così intimare alle parti di presentarsi al suo giudizio per ottenere giustizia. Importante cancelliere e sostenitore dell’equity fu Tommaso Moro, allievo di Erasmo da Rotterdam, umanista e giurista di common law. Con il tempo però la giurisdizione della corte di cancelleria divenne più lenta, anche perché responsabile di ogni decisione era solo il cancelliere. Tuttavia il ruolo e l’importanza di questa corte non è da sottovalutare , perché proprio ad essa e alla giurisdizione di Equity si deve l'affermazione di importanti istituti e di regole innovative, come la disciplina dell'errore, della frode, della rescissione del contratto. Edward Coke

Il contrasto tra Common law ed Equity sfociò in una crisi piuttosto acuta dove un ruolo di protagonista lo ebbe Edward Coke, famoso ed esemplare conoscitore del common law, noto per le sue due opere:

- i Reports in 13 volumi, che ricostruivano il sistema di common law attraverso il richiamo a migliaia di casi decisi dal medioevo fino agli inizi del ‘600;

- gli Institutes, ovvero una ricostruzione del diritto immobiliare, del diritto criminale, del sistema delle Corti di giustizia, ecc..

attraverso le quali mostrò la sua personale concezione sul Common law quale legge fondamentale del regno, in grado di imporsi e di prevalere nei confronti della corona e dello stesso Parlamento; per questo sosteneva la sovranità delle Corti di Common Law, quali garanti delle libertà dei cittadini, e criticava invece le interferenze della legislazione regia, considerandole addirittura illecite. Ma questo suo forte accanimento a favore del common law e a sfavore della legge regia lo condusse ad un contrasto con la Corte di cancelleria, nel momento in cui negò che una commissione speciale di nomina regia potesse decretare la pena del carcere per un determinato caso concreto. Cancelliere in carica della Corte era Lord Ellesmere (normalmente abituato ad interferire e con le Corti di common law tramite ingiunzioni ed a riaprire casi già giudicati) il quale si oppose nettamente a Coke grazie anche ad un provvedimento del re Giacomo I, che legittimava la prevalenza della decisione d'Equity su quella del common law, ovvero che il cancelliere poteva legittimamente intervenire con un proprio giudizio in un caso già deciso in base al common law. Fu così che Coke venne sconfitto, se così possiamo dire, e poco dopo fu costretto a fuggire. Il Bill of Rights

Il Bill of Rights fu uno strumento formale per impedire arresti illegali da parte del potere esecutivo, attribuendo per questo a ciascun suddito un writ al fine di potere essere sottoposto ad un regolare processo con giurati. Con esso inoltre si considerava e dichiarava “illegale”:

- ogni ordine del re che sospendesse, senza autorizzazione del Parlamento, l'applicazione di una legge;

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- ogni imposizione di tributi non votata dal Parlamento; - il mantenimento di un esercito in tempo di pace senza l'autorizzazione del Parlamento.

disposizioni che da un lato riducevano sostanzialmente le prerogative del re e del governo e dall’altro rafforzavano il ruolo del Parlamento e l'indipendenza del potere giudiziario; in particolare con il Bill of rights si stabiliva:

- la libera elezione dei membri del Parlamento, - la loro libertà di parola, - la convocazione regolare delle assemblee parlamentari.

Venivano così posti i fondamenti del moderno stato costituzionale europeo basato sull'equilibrio dei tre poteri. II contratto:”Assumpsit”

Sul terreno del diritto privato è da segnalare l'evoluzione della disciplina del contratto. In particolare si stabiliva che un contratto che imponesse prestazioni imposse un cosiddetto Assumpsit: chi si accorda di pagare una somma di denaro o consegnare una cosa, automaticamente si assume l’impegno di pagare o consegnare; quindi se si provava l’esistenza dell’accordo, non era necessario provare l’assumpsit, in quanto consequenziale. I “Reports”

La trascrizione dei dibattimenti processuali, chiamati Reports, con l'avvento della stampa raggiunsero larga diffusione. Lord Mansfield

Un settore che nell'età moderna conobbe sviluppi importanti è quello del diritto commerciale, dove decisiva fu l'opera di William Murray/Lord Mansfield. Fondamentali furono inoltre le sentenze che configurarono il diritto commerciale, in particolare in tema di contratti, navigazione, assicurazione, società, cambiali, ecc.. con l'accento posto sul valore dei patti e sulla buona fede. Era sua abitudine poi, sottoporre i casi controversi in materia di commercio a giurati scelti tra i migliori mercanti e di ascoltare con attenzione le loro valutazioni prima di affrontare le questioni di diritto legate al caso in esame. Inoltre soleva prendere appunti durante le udienze per poi istruire la giuria. Anche su altri temi cruciali le sue decisione ebbero grande peso. “Stare decisis”: il precedente giudiziario

Uno dei cardini del diritto inglese fu il principio della vincolatività del precedente giudiziario, per il quale si usò la formula di Stare decisis. Inizialmente il richiamo dei precedenti giudiziari da parte degli avvocati, durante il giudizio, o dei giudici nelle loro sentenze aveva un peso non vincolante, basato non sul precedente in sé ma piuttosto sulla consuetudine, e il richiamo di più giudicati conformi ad essa serviva solo a dimostrare che proprio alla consuetudine era bene adeguarsi per il nuovo processo. Non vi era invece la regola secondo la quale una sola decisione costituiva un precedente

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vincolante, in quanto si riteneva addirittura irrazionale rimettere la risoluzione di un caso ad un precedente giudiziario magari erroneo. Solo tra ‘500 e ‘600 si fece strada il criterio di ritenere vincolanti per il futuro quelle decisioni che fossero state assunte dalla Exchequer Chamber: una Corte Suprema che per casi giudiziari di particolare rilievo riuniva i giudici regi delle tre corti centrali:

- la Corte dello Scachiere, - il Banco del re, - la corte delle/sentenze/opinioni comuni,

la cui vincolatività delle loro decisioni alla fine del ‘600 era ormai considerata pacifica. Solo più tardi, nell’800, si affermerà la regola per la quale anche un solo precedente giudiziario di livello superiore ha valore vincolante inderogabile per il giudice di livello inferiore, come un precedente della Corte d’appello lo era per la Corte di giustizia, o un precedente della Camera dei Lords lo era per la Corte d’appello e della Corte di giustizia, ecc. William Blackstone

Insieme a Coke, William Blackstone fu uno degli autori più letto e conosciuto nella storia del diritto inglese. La sua fama si deve ad un commentario sulle leggi inglesi, ovvero un trattato in quattro volumi concepito quale testo da adottare per l'insegnamento universitario. Il quadro che emerge dalle pagine di Blackstone, scritte sia per essere apprezzate dai giuristi più qualificati sia per essere comprese da non giuristi di professione spiega il successo e la fortuna dell’opera. Il diritto della Scozia

Una storia ben distinta da quella del diritto inglese, fu quella del diritto scozzese. La Scozia, parte settentrionale dell'Isola britannica, sin dall’alto medioevo fu invasa ed occupata da Celti, Angli e Normanni, i quali poco per volta formarono un regno che elaborò un proprio diritto con proprie norme consuetudinarie. Nella formazione del diritto scozzese anche la Chiesa ebbe un certo peso, la quale oltre che inserire in tali consuetudini locali il diritto canonico, fece in modo di inserire anche il diritto romano a complemento delle stesse, acquisendo così un notevole spazio. E anche al diritto scozzese si dedicarono molti; nonostante con il Trattato di Unione, la Scozia venne inclusa nel regno d’ Inghilterra e la sua autonomia costituzionale venne meno, il diritto scozzese mantenne comunque la propria fisionomia distinta dal common law. Il Trattato infatti riconosceva che nessuna decisione giudiziaria assunta dalle Corti locali scozzesi e quindi sulla base delle consuetudini, potesse essere riesaminata dai giudici di common law.

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L’età moderna ( sec. 16° – 18°) La transizione dal medioevo all’età moderna non incise in maniera significativa sull’ambito del diritto. L’articolazione dell’ordinamento giuridico su più livelli con il binomio tra diritto comune e diritti particolari e locali, si mantenne ancora saldo così come il vasto patrimonio di dottrine elaborate dai Glossatori e Commentatoti. Una profonda rottura si avrà in Europa solo alla fine del ‘700, con le riforme illuministiche e con le prime moderne codificazioni che segneranno il definitivo tramonto del diritto comune. Tuttavia nei primi anni dell’età moderna si presentarono degli elementi che finirono per designare quest’epoca storica come età dell’assolutismo. Con tale termine si soleva indicare il potere assoluto del principe e quindi:

- da un lato lo svincolo dei poteri sovrani del principe da ogni subordinazione esterna, sia dalla Chiesa che dalle grandi magistrature, che dal patriziato, ecc..

- dall’altro la titolarità piena dei poteri di giurisdizione, legislazione e di governo nelle mani del sovrano;

nonostante ciò a tale nozione giuridica non corrispose mai un assolutismo effettivo del potere sovrano, perché i contrappesi istituzionali, costituiti appunto dalle grandi magistrature, dal patriziato, dalla Chiesa e dalle residue autonomie di origine medievale, temperarono sostanzialmente l’assolutismo monarchico, anche se l’incidenza di tale potere non può certo essere sottovalutata. In tal contesto infatti ad accentuarsi sempre più fu proprio l’aristocrazia che in breve tempo assunse il monopolio su molte cariche pubbliche e magistrature, divenendo così la protagonista di questa fase storica d’Europa, grazie ai privilegi di ceto riconosciuti. In merito invece al sistema delle fonti del diritto, nell’età moderna divenne molto più complesso, in quanto ai diritti locali di origine medievale e alle dottrine dei dottori di diritto comune si aggiunsero le normazioni dei sovrani e le decisioni della grandi Corti di giustizia. 17. CHIESE E STATI ASSOLUTI Riforma protestante e diritto

La Riforma protestante (movimento religioso che ha interessato la Chiesa cattolica nel 16° secolo e che ha portato alla nascita del protestantesimo; l'origine del movimento è da attribuire a Martin Lutero ma anche ad altri protagonisti importanti come Giovanni Calvino. Lutero criticava fortemente sia l'organizzazione ecclesiastica perché piuttosto impegnata in obiettivi economici e di potere che spirituali e morali, che il disinteresse dei vescovi e abati dei monasteri verso l'aspetto religioso dell'amministrazione delle diocesi) e la Controriforma (movimento religioso, conseguito alla riforma protestante, all'interno della Chiesa cattolica il cui fine fu quello di ricomporre e migliorare sé stessa riconducendo gli ordini e le cariche ecclesiastici alle loro origini spirituali) del ‘500 ebbero innumerevoli ricadute sul mondo del diritto. Il tema fu comunque sempre riferito ai contrasti che si venivano a creare tra l’elemento temporale e quello spirituale, tra politica e religione, tra diritto e teologia, che risultava essere spesso incerto sia nella teoria che nella prassi, e presentava caratteristiche nuove e importanti rispetto all’età medievale.

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La Riforma protestante diede infatti vita a diverse posizioni teologiche, politiche e giuridiche dalle quali nacquero diverse teorie, come quella della doppia persona del principe, considerato contemporaneamente signore temporale e religioso per concessione imperiale secondo alcuni, per concessione divina secondo altri. La Chiesa e gli Stati cattolici

La risposta più forte della Chiesa di Roma alla crisi esplosa con la Riforma venne data con il Concilio di Trento (una commissione di cardinali provenienti da tutto il mondo il compito ripudiò molto chiaramente le posizioni protestanti e altrettanto chiaramente riaffermò i principi del Cattolicesimo medioevale) il quale riunitosi ben 3 volte giunse a definire una serie di questioni religiose che sancirono il distacco della Chiesa dalle posizioni dei protestanti, e stabilì inoltre che le decisioni adottate da quel momento potevano acquistare valore normativo per la Chiesa solo con l’approvazione del Papa. Un capitolo di particolare rilevanza per la storia dei rapporti tra stato e chiesa è ambientato in Spagna e rappresentato dall’Inquisizione spagnola. Con la caduta del regno di Granada, la monarchia spagnola accentuò la politica di unificazione religiosa del regno tramite il mezzo giudiziario dell’inquisizione, infatti allo scopo di eliminare i residui di eresia furono identificati e condannati tutti quei sudditi che pur dichiarandosi ufficialmente cristiani, di nascosto continuavano ad essere fedeli alla religione islamica o alla religione ebraica. Ma se da un lato l’inquisizione Ssagnola costituì uno strumento religioso di conversione dei musulmani e degli ebrei al cristianesimo, dall’altro fu ancor prima uno strumento politico al servizio del re con il quale intervenire sull’intero territorio soggetto alla corona. E’ infatti certo che il ricorso alla procedura dell’inquisizione fu in alcuni casi per il re solo un pretesto per interventi di repressione giudiziaria, motivata da ragioni politiche. Alla luce di ciò le procedure inquisitorie spagnole indussero il Papa a ristrutturare l’Inquisizione Romana (l'istituzione ecclesiastica fondata dalla Chiesa cattolica per indagare e punire, i sostenitori di teorie contrarie all'ortodossia cattolica) con la costituzione del Santo Uffizio, che divenne strumento principale per la tutela dell’ortodossia cattolica (insieme degli insegnamenti ufficiali della Chiesa cattolica romana). Chiaramente la spinta riformatrice della Chiesa del Concilio di Trento si scontrò inevitabilmente con l’espansione dei poteri delle monarchie assolute, in una fase storica nella quale gli stati miravano ad acquistare il controllo del territorio, delle funzioni pubbliche, della giustizia, ecc. In Francia invece il rapporto tra Stato e Chiesa assunse connotati particolari. Il re Carlo VII con la Prammatica Sanzione aveva limitato i diritti del Papa sulla Chiesa di Francia affermando la superiorità del concilio ecumenico rispetto all’autorità pontificia. Anche con Luigi XIV nacquero ulteriori contrasti, in particolare quando egli confermò l’assoluta sovranità del re di Francia (quindi la sua), l’inesistenza di ogni diritto papale e la piena fedeltà del clero alla monarchia. Solo la ferma opposizione di Papa Innocenzo XI, che si rifiutò di nominare i vescovi proposti dal re lasciando temporaneamente vacanti molte diocesi, indusse Luigi XIV a ricercare un accordo con Roma e ad apportare delle modifiche alle sue convinzioni.

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Teorie della sovranità

La scelta di una forma istituzionale (come la monarchia o la repubblica) va valutata per la sua stabilità e non in base a criteri di giustizia. Tutte le istituzioni, secondo Machiavelli, seguono un ritmo ciclico tipico degli esseri umani in cui nascita, gioventù, maturità, decadenza e morte si susseguono inesorabili. Niccolò Machiavelli nella sua opera: Il Principe del 1516 (è un complesso di considerazioni su come debba essere la figura di colui che gestisce e difende uno Stato; il principe ideale doveva essere un uomo nobile, onesto, intelligente, ecc. ma anche pronto a rinnegare tutti questi principi di onestà, moralità e nobiltà, senza paura di sporcarsi le mani, di macchiarsi di atrocità e scorrettezze, affinché i programmi e gli scopi politici vengano seguiti e realizzati), sostenne che la politica fosse fondata sulle nozioni di:

- virtù, ovvero la capacità di intuire le opportunità del momento, attraverso qualità come la razionalità, il coraggio, la prontezza, ecc. In politica chi è insicuro e indeciso finisce travolto dagli eventi, mentre chi ha qualità e pregi (virtù appunto) sa prendere decisioni tempestive, mutando gli atteggiamenti non appena le circostanze lo richiedano; occorreranno a tale scopo astuzia, agilità, prudenza e giustizia. Al principe perciò, converrà essere temuto per conservare il potere più che essere amato e giusto;

- fortuna, ovvero l'insieme degli eventi non prevedibili e non determinabili dalla nostra volontà;

- necessità, ovvero i condizionamenti imposti dalle situazioni e circostanze reali che vanno portate a proprio favore.

Secondo Machiavelli il titolo per la legittimazione del potere era il possesso di fatto dello stesso, sostenendo inoltre che qualora un sovrano avesse deciso di attenersi solamente ai supremi principi del bene, evitando ogni guerra e ogni spargimento di sangue presto la conseguenza sarebbe stata la caduta in rovina, mentre più abile era quel sovrano che avrebbe imparato a considerare vizi e virtù come semplici mezzi per perseguire uno scopo: quello di mantenere il potere più saldamente possibile anche se ciò comportava scelte crudeli, ma necessarie. Da qui l’origine del concetto di ragion di stato, ovvero il criterio per l’individuazione delle linee d’azione necessarie o vantaggiose per il mantenimento o l’accrescimento del potere dello stato nel contesto dei rapporti interni ed internazionali. Jean Bodin definì la sovranità come un potere assoluto, nel senso che il sovrano non obbedisce ad alcuna autorità e può liberamente legiferare e abrogar le leggi, e indivisibile, nel senso che spetta solamente ad una sola persona: il principe. Nonostante tale fermezza e convinzione anche le teorie ispirate all’idea dell’assolutismo contemplavano una serie di limiti al potere del sovrano, potendone distinguere tre tipologie cui si richiamarono le diverse teorie:

- limiti derivanti dai precetti etici e religiosi; - limiti derivanti dalla presenza di altre funzioni e altri organi all’interno dello stato,

(teoria della separazione e dell’equilibrio dei poteri che sarà teorizzata da Locke e più tardi da Montesquieu);

- limiti derivanti dai principi democratici.

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I poteri del re

Nonostante tali limiti, i poteri del re risultavano essere comunque parecchi: - il re svolgeva la funzione di legislatore emanando norme generali, spesso senza previa

consultazione; - il re concedeva privilegi anche in deroga alle leggi e alle consuetudini; - il re nominava e revocava liberamente ministri, funzionari centrali e locali; - il re aveva il comando assoluto dell’esercito e delle operazioni militari; - il re era libero di dichiarare la guerra e concludere i trattati internazionali; - il re determinava l’entità dei prelievi fiscali; - il re avocava a sé qualsiasi decisione giudiziaria; - il re assumeva provvedimenti in tema di libertà personale, esercitava il potere di grazia

o di commutazione delle pene; - il re designava i candidati alle sedi episcopali vacanti.

Nel Regno di Germania la figura e i poteri del re avevano invece caratteri assai diversi; egli una volta scelto ed eletto se da un lato acquisiva il titolo regio e il diritto alla carica di imperatore, dall’altro doveva seriamente impegnarsi ad osservare una serie di regole e di limiti che erano il frutto di trattative con il collegio che lo nominava e con gli altri prìncipi del regno; in questo modo i poteri che il sovrano poteva effettivamente esercitare in modo autonomo si ridussero considerevolmente. Le differenze erano dunque nette rispetto al regno di Francia e il lungo regno di Luigi XIV segnò indubbiamente l’apogeo della potenza regia in Europa. Assemblee rappresentative

La tradizione medievale aveva trasmesso alla Spagna la creazione di assemblee chiamate Cortes, composte da esponenti della nobiltà, del clero, delle città e a cui spettavano le funzioni di approvare le leggi, proporre risoluzioni su questioni aperte, ecc.. Anche in Germania vi furono queste assemblee, composte da ceti, ovvero dai rappresentanti della nobiltà maggiore e minore, dei prelati, delle città.. a cui spettava il compito di cooperare con il proprio voto all’approvazione e all’interpretazione delle leggi imperiali, di deliberare sui nuovi tributi, di decidere sulla guerra, sulle alleanze e sui trattai di pace. In Inghilterra il Parlamento inglese del ‘500 ereditava dal medioevo la struttura bicamerale in cui alla Camera dei Lord, si affiancava la Camera dei Comuni. Durante la monarchia dei Tudor e in particolare durante il regno di Elisabetta il Parlamento acquistò il privilegio di libertà di parola e l’immunità dall’arresto dei propri membri, mentre la sua funzione legislativa rimaneva essenzialmente quella di votare positivamente o negativamente i progetti di legge, pur mantenendo il re il potere di introdurre emendamenti anche senza sottoporli nuovamente al voto delle due Camere e il potere di convocare e scioglierlo in qualsiasi momento, condizionandone così il ruolo e il peso. Al superamento di queste limitazioni si giunse solo alla fine del ‘600, al termine di una lunga serie di lotte e contrasti tra la monarchia degli Stuart e il Parlamento stesso, quando con voto quasi unanime riuscì ad approvare una serie di proposte di leggi che modificarono per sempre e in profondità il rapporto con la monarchia. Infine fu solo con la definitiva rimozione degli Stuart, che il Parlamento ottenne il riconoscimento esplicito e decisivo di alcune

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prerogative fondamentali, in gran parte contenute nella Carta dei diritti (Bill of Right) del 1689. Riconoscimento non solo nei confronti delle pretese legislative del re ma anche nei confronti dei giudici di Common law. Fu dunque da questo momento che si instaurò in Inghilterra il regime di effettiva distinzione tra il potere legislativo, il potere esecutivo e il potere giudiziario, esattamente come aveva teorizzato in quegli stessi anni Locke; passaggio di particolare rilevanza che segnò il superamento dell’assolutismo e costituì la base del moderno costituzionalismo. L’ordine internazionale

La nascita dello stato moderno e la scoperta del nuovo mondo segnarono una radicale trasformazione delle relazioni internazionali e delle correlate dottrine giuridiche. La guerra tra Stati era da considerare “giusta” non già sulla base di una giusta causa, ma semplicemente in considerazione della natura del nemico, visto che una guerra tra Stati contrapponeva due giusti nemici. In questo senso la pace di Westfalia del 1648, che pose fine alle guerre di religione segnò una tappa importante per la storia del diritto internazionale. 18. LA SCUOLA CULTA Umanesimo giuridico

Un nuovo indirizzo della dottrina giuridica dell’età moderna fu quello della Scuola Culta, un filone della cultura dell’umanesimo, fiorita nel ‘400, che prestava attenzione alla riscoperta di testi antichi sia greci che romani, all’arte, alla cultura letteraria, alla poesia del mondo antico, con uno spirito però del tutto nuovo e lontano ma soprattutto libero delle interpretazioni e delle dottrine delle scuole medievali. Il metodo dei Culti ed Alciato

Tra i tanti Andrea Alciato è da considerare il vero fondatore della Scuola Culta in quanto un giurista completo, sia teorico che pratico, capace di interpretare i passi più complessi della compilazione giustinianea ma anche di redigere apprezzati pareri legali. La caratteristica della sua opera (le Adnotationes), come di altre che ne succedettero, era costituita dal duplice criterio:

- metodo filologico, per ricercare la formulazione originaria dei testi studiati, senza l’utilizzo di glosse o commenti;

- metodo storico, per poi analizzarne il significato alla luce delle fonti greche e latine, nel contesto della società e della cultura del tempo;

In tal modo un passo di Ulpiano o di Papiniano non soltanto poteva essere depurato, con il metodo filologico, dalle aggiunte o dalle alterazioni apportate dai giuristi giustinianei, ma poteva essere interpretato e compreso, con il metodo storico, nel suo contesto originario. I Culti, a cominciare da Alciato, fecero ricorso alle fonti antiche, giuridiche e non giuridiche, utilizzando un latino classico per esaltare il loro gusto per l’eleganza, ben lontano dal latino scolastico medievale che disprezzavano e respinsero. Un altro tra i più importanti giuristi culti fu Erasmo da Rotterdam, grande filosofo e umanista il quale affermò che la ricostruzione di un testo antico poteva realizzarsi con la

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comparazione delle fonti coeve e con la ricerca del significato dei testi, senza necessariamente farsi condizionare da interpretazioni autorevoli da secoli accettate. L’atteggiamento mentale e culturale degli umanisti, propensi all’indagine e all’interpretazione di prima mano delle fonti (senza cioè basarsi sulle somme precedentemente elaborate dai giuristi medievali) influenzò la cultura religiosa cattolica, ma anche la cultura religiosa delle correnti protestanti, come quella di Lutero o Calvino. L’indirizzo storico-filologico

Accanto al metodo filologico e storico si affiancarono: - un indirizzo metodologico e - un indirizzo critico nei confronti del sistema giuridico coevo/corrente.

Il primo consistente nella ricerca di nuovi testi giuridici antichi che però fu piuttosto deludente e non portò alla riscoperta di grandi opere come quella delle Istituzioni di Gaio che riemergerà solo nell’800. Tuttavia opere come le Pauli Sententiae o l’Editto di Teodorico, furono riscoperti da Pierre Pithou e altri umanisti. Proprio Quest’ultimo fu uno degli esponenti di massimo rilievo. Inoltre fu molto significativo il fatto che l’impostazione filologica e storicistica dei Culti non rimase confinata solo allo studio critico delle fonti giuridiche dell’antichità , ma si estese ad altre fonti e ad altre fasi della storia.

L’indirizzo critico

In merito invece all’indirizzo critico, la cura con la quale i Culti vollero ricostruire il contenuto originario e il significato autentico dei testi giuridici classici, da loro assai ammirati li condusse a considerare le fonti contenute nel Corpus iuris come dei veri e propri monumenti della cultura antica, al pari dei testi letterari, storici e poetici. Ma questo non implicava a priori alcuna convinzione sulla validità reale e universale della normativa romana né alcuna aprioristica adesione ad esse. Gli autori classici infatti non suscitavano in loro alcuna subordinazione acritica (ovvero condivisa passivamente senza esprimere alcun parere, senza discussione), tanto da svilupparsi in tal contesto orientamenti come lo scetticismo (cinismo indifferenza), lo stoicismo (freddezza, distacco), ecc.. Dunque i culti si svincolarono dal principio di autorità non solo nei confronti delle interpretazioni tradizionali, ma anche nei confronti degli stessi autori antichi, ammirati ma non per questo ritenuti indiscutibili nelle loro posizioni. Si spiega allora perché proprio alcuni degli esponenti maggiori della Scuola abbiano espressamente dichiarato inaccettabile il criterio di adottare senza discussione la normativa giustinianea perché si dichiarava assurdo ritenere universalmente valide quelle leggi romane che tante volte si erano modificate nel corso dell’età antica e non più adeguate ai nuovi tempi. Quindi nel momento stesso in cui la compilazione giustinianea veniva scomposta distinguendo la disciplina del diritto classico da quella del diritto postclassico, l’unità del sistema del Corpus iuris veniva messa in discussione, se non addirittura potenzialmente infranta.

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L’indirizzo sistematico

Nella Scuola Culta conviveva anche un indirizzo sistematico, collegato alla valorizzazione delle scienze umane diverse dal diritto, a cominciare dalla filosofia, considerata dai Culti non solo utile ma necessaria al giurista. In riferimento al Corpus l’indirizzo sistematico adottato da alcuni esponenti della Scuola Culta intendeva rispondere essenzialmente a finalità di chiarezza analitica ed espositiva per rendere più preciso, sicuro ed agevole l’apprendimento della complessità normativa del Corpus stesso. L’indirizzo teorico

Vi fu infine un ulteriore indirizzo, quello teorico che portò chiaramente a sottolineare il legame tra la norma giuridica e la natura, sia delle cose che dell’uomo. Il filone teorizzante della Scuola Culta, come già detto, partiva dalla classificazione classica di “persone, cose e azioni”, ma si fondava su premesse teoriche diverse da quelle dei giuristi classici e se per Gaio le cose e le persone erano anzitutto fatti nell’impostazione dei teorici erano invece categorie e concetti. 19. PRATICI E PROFESSORI I giuristi del “mos italicus”

Il metodo introdotto dai giuristi della Scuola Culta non raccolse molti consensi generali nel mondo degli esperti di diritto, generando come conseguenza una serie i reciproche accuse e critiche tra culti/umanisti da un lato e tradizionalisti dall’altro. Tra i giuristi culti, che non risparmiarono aspre critiche allo stile e alla sostanza del metodo tradizionale, il più acerbo rimprovero provenne da Cuiacio nei confronti dei Commentatori, accusati di essere ripetitivi su punti di scarso rilievo ed evasivi invece sulle questioni più delicate. Cuiacio, ricordiamo, fu autore di profonde indagini, sull’opera di giuristi classici come Papiniano, ricostruite collocando frammenti del Digesto nell’ordine originario da cui erano stati rimossi per meglio individuare e comprenderne il significato; furono così molte le alterazioni che rilevò e stesso criterio lo applicò ad altri testi tardo-antichi come il Codice Teodosiano e i Libri Feudorum medievali; l’obiettivo fondamentale dei suoi studi scientifici fu infatti quello di restituire alle fonti del diritto romano classico la loro originaria integrità, manipolata ed alterata dai compilatori giustinianei. A loro volta tra i tradizionalisti, che non furono da meno, il Mofa senza negare il fondamento delle molte rettifiche proposte dai culti, difese il metodo didattico tradizionale dei Commentatori che suddivideva in tante fasi distinte l’esame di ogni frammento della Compilazione; anche Alberico Gentili contestava l’utilità del metodo umanistico per la concretezza del diritto, nel senso che se il compito principale del giurista, teorico e pratico, consisteva nell’impostazione corretta del ragionamento, tale da consentire l’inquadramento di un caso civile o penale entro un certo tessuto normativo, allora l’approccio filologico e storico dei culti era superfluo se non addirittura dannoso perché non permetteva né di difendere né di decidere nella maniera migliore una causa, a differenza invece dell’aiuto che potevano offrire i commentari, i consilia, ecc. indispensabili per chi operava nel mondo del diritto.

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Questo profondo contrasto di metodo si tradusse nella formula che contrapponeva il mos italicus al mos gallicus, ovvero il metodo italico tradizionale di insegnare diritto delle maggiori università italiane (detto anche bartolistico, in quanto riferito a Bartolo, quale esponente di spicco della Scuola del Commento) al metodo didattico della Scuola dei Culti. Tuttavia, nonostante la mancanza di consensi generali e le conseguenti critiche, sarebbe erroneo ritenere che la dottrina e il metodo dei Culti siano stati ignorati in Italia, anzi ne furono presi parecchi spunti per arricchire sempre di più il bagaglio giuridico ereditato dal mondo antico. Enorme sviluppo conobbero invece nell’età moderna i Trattati, cioè le monografie (saggi, studi specifici..) giuridiche dedicate a singole sezioni del diritto o a singoli istituti di esso. Le raccolte di decisioni e trattati costituirono poi la nascita di vere e proprie enciclopedie, infatti la più grande enciclopedia giuridica venne pubblicata a Venezia nel 1584 con il titolo di Tractatus Universi Iuris che riprodusse, in 30 grandi volumi, centinaia di trattati in grado di comprendere ampi settori come quello del diritto pubblico, penale, processuale, civile, commerciale. Agli autori dei trattati si attribuì così la qualifica di Pratici (o Pragmatici); e tra le opere più citate ricordiamo il trattato processualistico De Ordine Iudiciorum di Roberto Maranta, e l’opera di Domenico Toschi con le Practicae Conclusiones, largamente utilizzata. Il diritto penale

Particolare importanza ebbe anche lo sviluppo della dottrina sul diritto penale, una materia che i Glossatori e i Commentatori avevano solo occasionalmente approfondito, anche perché lo spazio ad esso riservato nella compilazione giustinianea era alquanto ridotto. Lo Stato moderno, in fase di formazione, rafforzò i poteri punitivi nelle mani dei monarchi, mentre l’applicazione e la repressione concreta venne assunta ed esercitata dalle magistrature del re, lasciando comunque al sovrano o alle grandi magistrature larghi poteri di grazia. Anche in tale ambito furono molte le opere scritte di esposizione della materia penale e processuale al fine di dare adeguata e maggiore chiarezza. Il diritto commerciale

Non meno rilevante fu in questi secoli lo sviluppo della dottrina del diritto commerciale, nato nelle città medievali in forma di consuetudine, alla fine del ‘300 aveva attirato l’attenzione di alcuni esponenti del Commento a cominciare da Baldo degli Ubaldi. Ma solo a partire dal ‘500 lo Ius Mercatorum venne affrontato in forma sistematica/organizzata/ordinata. Per primo l’avvocato Bartolomeo Stracca raccolse in un trattato un vasto insieme di questioni relative ai mercanti, al loro status, alle obbligazioni. In Francia una salda struttura legislativa sulla materia commerciale era avvenuta con le due Ordonnances di Luigi XIV sul commercio e sulla marina, di cui diremo più avanti. La scuola di Salamanca, in Spagna

Come già era avvenuto per la città di Bologna e per Orleans anche Salamanca divenne una sede universitaria all’avanguardia e privilegiata da studiosi del diritto. Ciò che la

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caratterizzava era il profilo teologico, in quanto i professori che in essa insegnavano non erano di diritto ma di teologia. Essi scelsero di porre al centro dei loro insegnamenti alcuni aspetti centrali della problematica giuridica, come quelli:

- della giustizia, - del diritto naturale, - del diritto divino, - dei poteri del principe e dei suoi limiti, - specifici istituti dell’ordinamento normativo ad es. proprietà, successioni, usura.

Conoscitori ed esperti non solo della teologia ma anche del diritto romano e del diritto del loro tempo, miravano ad analizzare le corrispondenze delle norme romane con quelle del diritto divino e naturale. In ciò stava la novità della loro impostazione, in quanto i maestri di Salamanca scesero nei particolari della disciplina normativa in misura assai più esaustiva e sistematica e proposero di delineare confini precisi entro i quali le proposizioni del Corpus iuris dovevano ritenersi valide, perché conformi a principi e a valori di livello superiore naturale e divino, e dove invece non lo erano. Il teologo che forse esercitò maggiore influenza fu Suarez, il quale volle costruire una dottrina del diritto e della società che consentisse di giustificare le istituzioni e le norme del diritto naturale anche mediante il ricorso ai criteri della ragione e non solo sulla base della Rivelazione. Ciò che deve essere posto in particolare rilievo a proposito della Scuola di Salamanca è dunque il criterio di avvicinare e analizzare le questioni giuridiche, anche nei particolari relativi ai singoli istituti e contratti, sulla base sì del diritto romano che essi ben conoscevano, ma anche con l’analisi dei valori e dei principi della teologia. Per la prima volta, dopo secoli di esegesi e di indagini, le norme dei giuristi romani venivano così valutate con un metro esterno ad esse, che poteva condurre anche al loro rifiuto per l’eventuale loro discrepanza rispetto ai precetti interni e immutabili della rivelazione. La scuola elegante olandese

L’università di Leida fu celebre per un metodo di insegnamento che affiancava alle lezioni corsi ulteriori – collegia – tenuti dai docenti sino a divenire un punto di riferimento della cultura giuridica non solo per i Paesi Bassi ma per l’Europa. All’insegnamento di alcuni maestri dell’università dei Paesi Bassi si suole dare il nome di giurisprudenza elegante che ne indica appunto lo stile preciso e conciso, tipico dei Culti. L’impostazione dei professori della scuola elegante olandese si riallacciava infatti a quella dei Culti ma il filone specifico era quello storico-filologico di Cuiacio. “Usus modernus Pandectarum”

Sempre a Leida, Arnold Vinnen fu autore di un Commentario alle Istituzioni del Corpus che ebbe vastissima diffusione in Europa. In tale opera l’impostazione culta dedicata allo studio delle Istituzioni si coniuga con l’attenzione per il diritto locale e per le consuetudini. Da qui dunque l’analisi testuale di ascendenza culta e l’attenzione per la giurisprudenza locale si intrecciarono in modo vario e questo indirizzo teorico-pratico prese il nome di Usus modernus Pandectarum, un approccio distinto da quello della giurisprudenza elegante, che mirava a coniugare le fonti giustinianee con le necessità correnti della pratica e che per questo

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rifiutava le ricostruzioni testuali dotte dei giuristi per privilegiare invece le regole coerenti e precise, ancorate al testo legale antico. Un aspetto essenziale dell’usus modernus fu quello di valorizzare la tradizione germanica, non solo nella sua dimensione attuale ma nelle sue radici medievali e consuetudinarie. Nonostante alcuni elementi comuni, i metodi più usati dai giuristi della giurisprudenza elegante olandese e dai maestri dell’usus modernus fu dunque notevole. I primi ritenevano che senza gli strumenti della filologia e della storia non fosse possibile comprendere neppure i profili giuridici delle norme dei testi romani; invece gli autori dell’Usus modernus Pandectarum limitavano il ricorso allo studio filologico dei testi antichi perché miravano a conservare nella sua integrità il Corpus giustinianeo, che però integrarono con i diritti locali e con le consuetudini. Giovanni Battista De Luca In Italia, Giovanni Battista De Luca fu il più importante giurista italiano del ‘600. La sua opera più importante: Theatrum veritatis ac iustitiae era un complesso di migliaia di casi, prevalentemente vertenti su questioni legate ai contratti, ai feudi, ai testamenti e ai fedecommessi, lo Stato Pontificio. Ciò che colpì di tale opera e dell’autore fu la limpidezza delle argomentazioni e la sua impostazione diretta a non assumere superficialmente una massima legale, per quanto sostenuta dalla dottrina, ma a valutare l’applicabilità dell’una o dell’altra opinione alla luce della specificità del caso singolo. Ciò perché fondamentalmente disprezzava l’inutile sfoggio di citazioni che era frequente nei pratici del suo tempo, privilegiando invece la vera natura di un rapporto giuridico in discussione. Molto importante fu infine la sua iniziativa di pubblicare una stesura della sua opera principale, in italiano, anche al di fuori dell’ambito forense, in un linguaggio più contenuto e familiare così da potersi porre anche al servizio di chi non fosse giurista di professione. 20. DOTTRINA GIURIDICA E PROFESSIONI LEGALI Ruolo della dottrina e stampa giuridica

Il diritto romano-comune, ormai da secoli oggetto di brillanti interpretazioni ed elaborazioni giuridiche rappresentato dal Corpus Iuris, continuava a rappresentare la principale fonte del diritto con il conseguente successo dei giuristi di professione formatisi sui testi del diritto romano-comune. Dalla fine del ‘400 si ebbe però una svolta decisiva grazie ad un’importante evoluzione tecnologica: la stampa, con la quale fu finalmente possibile diffondere centinaia di copie di opere e testi giuridici riducendone notevolmente i tempi e i costi, visto che prima l’unico metodo di sopravvivenza e trasmissione delle opere e dei testi era rappresentato dall’attività degli amanuensi, che armati si sana pazienza, le trascrivevano e copiavano a mano. Se la stampa da un lato rappresentò un’importante passo avanti garantendo a tutti i giuristi, anche quelli meno facoltosi, la possibilità di avere a disposizione una vera e propria biblioteca giuridica da consultare e applicare nel proprio lavoro (ricordiamo che prima non tutti potevano permettersi l’acquisto del Corpus Iuris glossato e operavano solamente con i

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preziosi appunti presi a lezione durante la formazione universitaria), dall’altro questa accresciuta disponibilità di testi giuridici determinò conseguenze negative per la certezza del diritto. Grazie infatti alla maggiore disponibilità di testi e di interpretazioni giuridiche, l’avvocato poteva attingere ad un ventaglio di opinioni molto più ampio e spaziare così le proprie argomentazioni davanti al giudice, il quale si ritrovava a decidere proprio sulla base di quelle interpretazione più o meno estensive, più o meno lontane dalla lettera o testo originale, e quindi ad allontanarsi dal reale significato e contenuto specifico della norma. Communis opinion doctorum

Quanto detto apriva dunque ai giudici, chiamati a decidere sulle allegazioni degli avvocati, un margine altrettanto ampio di discrezionalità, facendone le spese proprio la certezza del diritto che come sappiamo è un valore essenziale e fondamentale che nessun ordinamento può trascurare e prescindere oltre una certa misura. Per ovviare al problema e ai conseguenti rischi, si individuarono due vie alternative molto diverse tra loro ma convergenti nel fine:

- la communis opinio doctorum, che permetteva di identificare determinate questioni di diritto sulle quali una pluralità di giuristi, appositamente riuniti, doveva pronunciarsi per individuare tra le tante soluzioni quella più adeguata; qualora si fosse raggiunto o riscontrato l’accordo di tutti o della maggioranza, su quella specifica soluzione di quella determinata questione, allora si affermava che su quella soluzione esisteva un’opinione comune - communis opinio. E ad essa i giudici dovevano conseguentemente adeguarsi . La vincolatività di queste opinioni comuni, per i giudici, inizialmente non fu imposta per legge, bensì nei fatti e nella prassi, ciò perché né gli avvocati né i giudici erano obbligati a rispettarla e ad applicarla. La tendenza fu però quella di esserlo indirettamente per il rischio di responsabilità per colpa in cui incorreva il giudice se avesse deciso di optare per un’altra decisione/soluzione e nel farlo avesse commesso un errore di diritto; responsabilità che invece era a priori esclusa se avesse rispettato la communis opinio. Tale aspetto non ne determinò però un carattere immutabile, potendo essere ad un certo momento, per eventuali cambiamenti della società, non più di opinione comune, anzi di minor rilievo.

- il peso crescente esercitato dalla giurisprudenza delle grandi magistrature. Professioni legali: la formazione e l'accesso

La formazione universitaria, anche nell’età moderna, continuò a rappresentare il titolo essenziale per l’accesso alle professioni legali e lo studio necessario fu sempre quello concernente il diritto romano e il Corpus iuris civilis. I modi dell’insegnamento non erano uniformi, perché vi erano alcune facoltà e professori aderenti al metodo scolastico del tardo commento - mos italicus, mentre altri aderenti alla scuola dei culti - mos gaillicus. La formazione giuridica rimaneva dunque il principale canale di ascesa sociale, non solo i termini di prestigio ma anche di redditività. Proprio riguardo all’accesso alle professioni legali, soprattutto in Francia, il sistema della venalità degli uffici (ovvero la vendita degli uffici a chi offriva di più), consentiva alla monarchia di acquisire ingenti risorse in denaro,

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anche se comunque esigeva almeno per l'accesso alle magistrature più importanti, i1 possesso di una solida formazione legale. Si realizzava così la cosiddetta ereditarietà dell’ufficio, ovvero che più generazioni di giuristi di una stessa famiglia potevano avere una comune e permanente carriera di successo (sborsando puntualmente consistenti somme di denaro) ponendo finalmente un freno all’accesso per appartenenza alle classi nobiliari e patrizie. Avvocati, procuratori; causidici

In merito alle professioni legali, fondamentale era la distinzione tra avvocati (dottori in legge che rappresentano, assistono e difendono i propri clienti in giudizio, dinnanzi al giudice per la risoluzione di una controversia) e procuratori (rappresentanti, tramite procura, di una persona fisica o giuridica, in un giudizio, in un contratto, ecc. che non difendono, il proprio rappresentato ma lo sostituiscono come parte attiva o passiva). In Italia l’organizzazione delle professioni legali era suddivisa per livelli al cui vertice della scala stavano:

i giureconsulti appartenenti al patriziato; poi gli avvocati non appartenenti all’elite patrizia; al di sotto ancora i causidici e i sollecitatori, operatori di minor rilievo; alla fine i turba, ovvero collaboratori e ausiliari delle categorie superiori. I notai invece ebbero e mantennero una struttura e una formazione diversa e a sé rispetto a giudici e avvocati.

- Anche in Francia era presente la bipartizione tra i due ordini principali di avvocati e procuratori. Tra gli avvocati l’ordine di Parigi fu quello che si dotò di una propria organizzazione e che si rese quasi indipendente dallo stato e aveva poteri decisivi sull’ammissione ed esclusione dall'albo. I procuratori invece erano nominati dal re.

- In Germania avvocati e procuratori avevano distinte funzioni: l'avvocatura costituiva lo stadio iniziale della professione legale, visto che portava poi a conseguire anche il titolo e le funzioni di procuratore.

- In Inghilterra invece si era soliti distinguere tra sollecitatori e difensori. Un aspetto degno di attenzione fu lo stretto intreccio tra funzione di difesa, di consulenza e di giudizio tra giudici e avvocati. Come sappiamo i giudici erano soliti scegliere dei giurisperiti a cui affidare il compito di redigere il consilium sapientis, che il magistrato poi si limitava a trasformare semplicemente in sentenza. La prassi di richiedere un parere alle facoltà legali fu consistente soprattutto in Germania, in quanto non soltanto le corti, ma anche una delle parti in giudizio poteva richiedere un consilium, talvolta per decidere se intraprendere o meno una causa, altre volte per precostituirsi un orientamento favorevole in caso di contenzioso. Prassi questa che nell'età moderna determinò la tendenza a scegliere coloro che avrebbero ricoperto le più importanti cariche giudiziarie, attingendo ai membri del Collegio dei giureconsulti, che aveva a sua volta ereditato le funzioni dell'antico Collegio dei giudici.

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21. LA GIURISPRUDENZA

Corti sovrane e Rote

La seconda via alternativa per ovviare alle conseguenze negative della diffusione di opere a mezzo stampa, ovvero per ovviare al problema dell’incertezza del diritto, fu quella prestata dalla giurisprudenza delle grandi magistrature. Nei secoli dell’età moderna la giurisprudenza assunse infatti sempre più importanza tra le fonti del diritto; si fa riferimento alle pronunce e ai giudicati delle Tribunali Supremi di ogni Stato, che presero il nome di Corti supreme e le cui competenze e decisioni erano di ultima istanza, cioè non erano subordinabili né rovesciabili da nessun altra magistratura, nemmeno dal monarca. Ogni Stato ebbe infatti la sua Corte o le sue Corti Supreme e ciascuna ebbe caratteri e competenze specifiche. In Italia ad esempio ci furono:

- il Sacro Real Consiglio di Napoli; - il Senato milanese; - i Senati di Piemonte e di Savoia; - la Rota romana, quale tribunale ecclesiastico per l'intera cristianità cattolica; - le Rote, nuovi tribunali superiori.

In Francia invece il Parlamento di Parigi fu ristrutturato come Corte di giustizia suprema della monarchia, col tempo si aggiunsero anche altre Corti supreme le ci decisioni erano definitive e insindacabili. In Germania troviamo due tribunali supremi:

- il Tribunale imperiale di corte, presieduto dallo stesso imperatore. Successivamente venne riformato e strutturato da giudici formati nelle università e dunque sui testi del diritto romano;

- il Tribunale camerale, competente quale corte di ultima istanza per gli appelli presentati contro le sentenze civili dei giudici locali.

Nei Paesi Bassi vi fu infine l'istituzione del Gran Consiglio di Malines. Giudici, competenze e procedure delle Corti

Tra le diverse Corti supreme menzionate non vi era alcuna uniformità di disciplina, né di poteri né di procedure. Tuttavia vi erano degli elementi comuni:

- l’accrescimento dei poteri sovrani, realizzato in gran parte attraverso lo strumento delle giurisdizioni regie;

- le competenze delle Corti, che non conoscevano la moderna tripartizione dei poteri, per cui esse esercitavano anche funzioni di natura legislativa. In diversi Stati, come in Francia, le leggi volute dal re non entravano in vigore se non dopo essere state registrate dal Parlamento o dal Senato;

- il valore di legge degli ordini emanati direttamente dalle Corti, aveva efficacia generale e non limitata al caso singolo;

- le funzioni anche esecutive delle Corti supreme, in quanto ai giudici della Corte erano spesso affidati compiti di governo di città o di comunità locali.

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Tuttavia il compito primario e ovviamente comune a tutte le Corti supreme risiedeva nell’esercizio della giurisdizione. Tale giurisdizione delle Corti poteva talvolta essere:

- esclusiva, quando bisognava giudicare su materie di particolare rilevanza politica; - di ultima istanza per le cause civili di maggior rilievo; - dotata del potere di avocazione, cioè decidere la Corte a sua discrezione di prendere

direttamente in carico una causa sottraendola al tribunale competente di primo o di secondo grado.

Ad ogni modo, al di là degli aspetti comuni o diversi, la composizione delle Corti era normalmente scelta dal sovrano, che sceglieva i magistrati secondo procedure differenziate, o in via esclusiva e personale o entro una rosa di nomi proposti dalla Corte stessa. Il sistema della venalità delle cariche consentiva a candidati appartenenti a famiglie provviste di risorse in denaro di competere per le prestigiose cariche nelle massime magistrature e l’ereditarietà riconosciuta permise spesso la trasmissione dell’ufficio all’interno della stessa famiglia. Inoltre i componenti delle Corti sovrane erano per lo più nominati vita, cosa che consentiva ai membri del collegio un'autonomia sostanziale persino di fronte al potere monarchico, che a questo punto espressione di un potere assoluto lo era solo in teoria. Anche in merito ai modi di procedere delle Corti, vi erano diverse alternative:

- la Rota romana praticò un metodo che prevedeva la redazione scritta di uno schema di decisione: decisio con argomentazioni in fatto e in diritto, fondata sulle allegazioni di parte e basata sull’esplicazione dei punti controversi della questione: dubia. Dopo aver sottoposto al collegio degli uditori il caso e averne raccolto disgiuntamente il voto,il testo della decisio veniva sottoposto alle parti in causa per possibili controdeduzioni ed eventualmente riformulato. Solo a questo punto veniva emessa la vera e propria sentenza, limitata al dispositivo;

- le Rote, sulla scia del modello della Rota romana, applicarono il requisito della motivazione non allo schema di decisione preliminare-decisio ma direttamente alla sentenza;

- il Senato milanese e altre Corti sovrane di alto prestigio giudicavano senza dover motivare.

In ogni caso in riferimento alle decisioni da adottare, la discrezionalità delle Corti fu maggiore o minore a seconda dei casi; ad esempio il Parlamento di Parigi e le altre corti sovrane del regno di Francia nell’emanare i loro giudizi potevano ampiamente discostarsi dal rigore della legge in quanto si consideravano, come il sovrano, sciolti dall'osservanza della legge. Anche il Senato milanese era abilitato dalla legge a giudicare secondo coscienza, secondo equità e considerando soltanto la verità dei fatti, potendo addirittura contrastare con il diritto comune o con gli statuti. Insomma tutto ciò stava a significare che sostanzialmente la Corte suprema poteva decidere anche al di là di ciò che le parti avevano richiesto nella domanda di giudizio, prescindendo persino dal diritto positivo e decidendo la qualità e la quantità della pena in base ad una propria libera valutazione dei fatti addotti in giudizio. Dunque un potere e un sistema penale definito arbitrium/arbitrale differente da quello tradizionale dell’antico regime, dove i giudici erano tenuti a giudicare su prove legali; seguire regole predeterminate, in parte fissate nelle leggi romane, in parte in quelle canoniche e in

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parte messe a punto dalla dottrina. Erano in sostanza modi di giudicare completamente diversi. Raccolte di decisioni

In Francia ma anche in Italia, giudici e giuristi di spicco iniziarono a selezionare e talvolta ad integrare decisioni giurisprudenziali su determinati casi e questioni, in apposite raccolte dette appunto Raccolte di decisioni. In Francia venne principalmente trascritta la giurisprudenza del Parlamento di Parigi, mentre in Italia quella delle Rote e in particolare la giurisprudenza della Rota romana. Le raccolte di decisiones erano generalmente opera di un giurista attivo nella Corte, che selezionava una serie di decisioni alle quali aveva preso parte in veste di relatore, e che in tale veste aveva scritto l'argomentazione/motivazione sulla quale il collegio aveva fondato la decisione della controversia. Con il tempo sui precedenti giurisprudenziali contenuti nelle raccolte si affermò il principio del cosiddetto precedente vincolante: due o tre pronunce conformi, emanate dalla Corte superiore su casi giudiziari distinti, costituivano un precedente che poteva vincolare anche la Corte stessa e a cui si doveva aderire senza obiezioni. Ciò rappresentava un mezzo per dare certezza al diritto, applicato dai Tribunali supremi dell'età moderna. 22.DIRITTI LOCALI E LEGISLAZIONE REGIA Diritti locali

Nei primi 3 secoli dell'età moderna una componente fondamentale rimasta tra le fonti del diritto era rappresentata dai diritti particolari e locali.

- Dei diritti particolari, come già detto, la caratteristica principale era quella di prevedere una specifica disciplina per ciascun ordine o ceto vigente: nobiltà, militari, contadini, mercanti, artigiani, marinai, ecc..

- Dei diritti locali invece ricordiamo gli statuti delle città: i brevia dei consoli, le consuetudini trascritte, le leggi approvate dall’assemblea cittadina, ecc.. che nell’età moderna sopravvissero accanto al diritto comune, ma solo in quelle città non soggette all’autorità dell’impero, e quindi in quelle città “libere”. Nelle altre invece furono redatti nuovi statuti.

In particolare in Francia con Carlo VII fu dato il via alla codificazione scritta delle consuetudini del luogo. E tra le tante centinaia di consuetudini locali scritte e redatte, la Coutume di Parigi acquistò una priorità netta; venne commentata da Charles Du Moulin, il quale ne sottolineò anche lacune e incongruenze e ne propose una redazione riveduta, che si realizzo incorporando regole derivanti da decisioni del Parlamento parigino. Da allora essa divenne il testo di riferimento più autorevole, cui si faceva per colmare lacune o ambiguità delle altre consuetudini. Con la redazione scritta la coesistenza tra diritti locali e diritto romano-comune si mantenne ma cessò l'evoluzione per così dire spontanea dei sistemi consuetudinari che per molti secoli avevano modellato il diritto civile e penale. La presenza di un così ampio ventaglio di consuetudini scritte, se da un lato rese più sicuro il loro accertamento, dall'altro lato creò problemi non facili di interpretazione per norme spesso simili, ma formulate diversamente.

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Assolutismo e potere legislativo

Sempre tra le fonti dei diritti locali, rilievo assunsero i provvedimenti di natura legislativa decisi, con valore vincolante, dalle Corti sovrane, le cui competenze non erano soltanto giudiziarie ma anche normative, anche gli statuti cittadini e rurali, gli statuti corporativi, le consuetudini scritte mantennero il loro peso con la condizione però di ricevere dal sovrano o dal principe locale un'approvazione espressa, condizione che li riconduceva sotto l'autorità dello stato. Il diritto comune era invece sempre al di sopra delle fonti normative. Tra i vari regni d’Europa quello di Francia spiccò più degli altri. Francia

Nella Francia dell'età moderna valeva il principio secondo cui “ciò che il re vuole, lo vuole la legge”. Si trattava di una prerogativa propria del re che venne rappresentata dalle cosiddette Ordonnances, ovvero leggi che disciplinavano in via generale uno o più istituti giuridici e utilizzate dalla monarchia francese, fino alla Rivoluzione del 1789, come mezzo di unificazione legislativa dello Stato assoluto. La forma giuridica che poneva in essere le Ordonnances era quella delle lettere patenti, sottoscritte dal re e munite del sigillo regio, che però entravano in vigore solo dopo essere state registrate dalla Corte sovrana, competente sul territorio entro il quale dovevano applicarsi. Tale verifica oltre che formale era anche sostanziale per ché in presenza di eventuali motivi di opposizione, la Corte poteva modificare o addirittura ritirare l’ordinanza. Casi di mancata registrazione delle Ordonnances non furono poi così rari, tanto che per ovviare a tale ostacolo i sovrani ricorsero ad altre forme e procedure meno vincolanti, così che la loro volontà poteva esercitarsi senza ostacoli. Fu proprio in questo ordine di idee che presto vennero emanate anche norme di natura legislativa sottoforma di ordinanze, sprovviste ovviamente di sigillo, potendosi così manifestare l’incondizionata e incontestata volontà del re ed esaltarne l’assolutismo legislativo. Molte di tali ordinanze furono piuttosto significative in quanto introdussero delle vere e proprie regole in materia di prescrizione, di donazioni, ecc.. tanto che presto si presentò la necessità di sistemarle in apposite raccolte e proprio il re Enrico III incaricò un magistrato e colto giurista Brisson di svolgere tale lavoro. L’opera però non ricevette valore ufficiale, né la ricevette un ventennio più tardi con una rielaborazione di Enrico IV; neppure il re Luigi XIII riuscì a vincere l’accanita opposizione del Parlamento di Parigi all’approvazione di un testo che raccogliesse le principali disposizioni di diritto pubblico, il cui scopo fondamentalmente era solo quello di accentuare i poteri legislativi del re. L'impulso decisivo per la realizzazione di un testo codificatore si affermò in riferimento ad alcune importanti ordinanze di Luigi XIV, e grazie al lavoro svolto dal ministro Colbert, convinto del fatto che solo un’opera sistematica di natura legislativa potesse attribuire alla monarchia quel controllo normativo che le Corti di giustizia di fatto si arrogavano. Da tale pensiero e lavoro vide la luce l’Ordonnance civile, con la quale fu finalmente possibile tracciare l'intera disciplina del processo civile in modo organico e vietare ai Parlamenti di pronunciare decisioni discrezionali contrastanti con le norme positive. Il processo civile così disciplinato era essenzialmente scritto, più semplice e snello. Tre anni più tardi altrettanto importante fu l’introduzione dell'Ordonnance criminelle, la quale stabilì con chiarezza le regole del processo penale fondato sul principio inquisitorio, al

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cui magistrato attribuiva il compito di istruire la causa con pieni poteri e ricercare le prove, in particolare la confessione del reo ottenibile anche ricorrendo alla tortura; nel caso poi di condanna alla pena capitale introdusse l’appello obbligatorio al Parlamento. Sostanzialmente fu un processo fondato sul sistema delle prove legali con poche concessioni ai diritti della difesa. Altrettanto rilevante fu poi l'Ordonnance de Commerce, su iniziativa sempre di Colbert in collaborazione con un colto mercante parigino, contenente norme sulle società commerciali, sulla cambiale, sui libri di commercio, sul fallimento e con la quale per la prima volta lo Stato operava direttamente sul campo dell’economia attraverso appunto o struemnto della legislazione regia. Infine da ricordare è l’Ordonnance de la Marine, la quale raccoglieva le regole giuridiche del commercio marittimo. La sistematicità di queste opere, la chiarezza dei contenuti nella lingua corrente del Paese, la cura nell'evitare contraddizioni, l'incorporazione di regole tradizionali e di alcune regole nuove, ecc. rappresentano quei caratteri per tentare un approccio ad un codice di stampo moderno. A tal proposito importanti furono anche le tre Ordonnances di Luigi XV, elaborate dal cancelliere D’Aguesseau, in tema di donazioni, testamenti e fedecommessi, e che a differenza delle Ordonnances Colbertiane non disciplinavano interi settori del diritto, ma singoli istituti di diritto privato; i testi furono attentamente meditati e preparati in modo chiaro e sintetico con l’obbiettivo di impiantare sia la tradizione romanistica che quella consuetudinaria. Fu così che il complesso delle Ordonnances costituì il tentativo di uniformare settori giuridici fino ad allora basati sul diritto consuetudinario e che troverà piena realizzazione solo nel processo di codificazione dei secoli successivi. 23. GIUSNATURALISMO Giusnaturalismo moderno

Con il termine giusnaturalismo moderno intendiamo l’insieme delle dottrine del diritto naturale che assunsero un’importanza particolare. La concezione del diritto naturale era fondata sull’uomo, considerato un essere che all’istinto coniugava la ragione, considerata parte essenziale della sua “natura”. Dunque una concezione che si distaccava nettamente da quella medievale (divina). Sulla base di ciò, l'attenzione posta sui diritti dell'individuo, cioè sui diritti soggettivi inalienabili della persona umana, costituisce un profilo centrale delle nuove dottrine giusnaturalistiche, che sta alla base della dichiarazione dei diritti di libertà delle moderne costituzioni. Quanto ai contenuti del diritto naturale fu possibile notare un identico riferimento ad una serie di fonti, quali:

- il diritto romano, - i precetti fondamentali della Scrittura e del cristianesimo, - i testi letterari, poetici, storici e filosofici greci e romani.

I contorni e i contenuti del diritto naturale nascevano dalla presenza di problemi nuovi entro una realtà nuova: :

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- il venir meno di una concezione unitaria della comunità sotto la duplice e suprema autorità dell'Impero e della chiesa,

- la presenza di stati sovrani in conflitto tra loro per il dominio dei mari e delle terre, - i contrasti scaturiti dalla scissione religiosa conseguente alla Riforma protestante.

Comune a molti di essi, come Grozio, Hobbes, è la teoria del cosiddetto contratto sociale, un accordo stretto tra gli uomini per raggiungere una condizione di pace e di sicurezza affidandone la tutela ad un sovrano. Un altro profilo comune alla scuola giusnaturalistica fu anche la convinzione nonché la necessità di identificare un complesso di principi e di regole di diritto naturale oggettivamente valido (conforme alla ragione e alla natura umana) efficacie in ogni tempo e in ogni luogo, in virtù del fatto che la natura umana era ritenuta immutabile nel tempo. Grozio

L’importanza di cui godette il pensiero di Ugo Grozio è legata all'opera De iure belli ac pacis, scritta in Francia dopo che l'autore si era sottratto con la fuga al carcere a vita irrogatogli per avere voluto identificare una serie di principi generali e di regole fondate sulla ragione, in grado di essere condivise da tutti gli uomini. Da qui l’affermazione del principio, secondo Grozio ritenuto fondamentale, che imponeva di osservare i patti: pacta sunt servanda, dalla cui inosservanza ne fa derivare ogni altra regola, a cominciare da quelle che impongono di risarcire i danni arrecati ad altri, di restituire ciò che si è fraudolentemente sottratto, di pagare con la pena le conseguenze dei propri atti delittuosi dannosi per il prossimo e per la società, ecc.. Nel De iure belli ac pacis veniva espressa l’idea che il fondamento dei diritto naturale risiedesse nella natura razionale dell'uomo e non nel comando diretto di Dio, la quale si contrapponeva al pensiero protestante che al contrario riteneva la radice del diritto naturale essere nel comando di Dio e non nella ragione. Il pensiero di Grozio esercitò un certo influsso soprattutto nella dottrina del diritto internazionale pubblico, con il suggerimento di individuare una legge comune tra le nazioni che potesse porre un limite alla violenza delle guerre senza freno, come se la guerra fosse quasi autorizzata da una legge universale per risolvere crimini di ogni specie. Dunque sulla base di queste idee i temi del diritto di guerra e del concetto di guerra giusta assumevano una nuova veste che proponeva temperamenti agli scontri facili rendendoli meno arbitrari e aspri. Grozio fondava questo suo pensiero sempre e comunque sulla ragione e sulle regole del diritto delle genti/ius gentium, contenenti i comportamenti creati dalla consuetudine, e dalla storia. Ad ogni modo le sue teorie sembrarono essere ispirate dal pensiero della Scolastica spagnola, in particolare di Suarez, perciò ritenerlo fondatore del moderno giusnaturalismo e del moderno diritto internazionale sembra un po’ eccessivo; tuttavia il contenuto delle sue opere fu originale. Hobbes

Lontano dal pensiero di Grozio fu l’inglese Thomas Hobbes. Le sue opere principali furono scritte in Francia, per sottrarsi anch’egli ai rischi ai quali lo avevano esposto le posizioni

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assunte negli anni in cui il Parlamento inglese andava conquistando, attraverso aspre lotte, nei confronti del potere monarchico un ruolo primario nella legislazione. Nell’opera De cive e soprattutto nel Leviatano, Hobbes evidenziò i fondamenti dell'assolutismo; precisamente partendo da uno “status naturale” dell’uomo, in cui si trova a lottare con altri uomini per soddisfare i propri bisogni vitali e conquistarsi spazio e potere, è possibile uscirne soltanto rinunciando unilateralmente ad ogni diritto autonomo e affidando la somma di tutti i poteri ad un unico soggetto, il sovrano, che è per ciò assoluto. Tutto ciò per assicurare la pace che altrimenti porterebbe alla guerra di tutti contro tutti. Una teoria dunque che contrasta in maniera netta ed evidente con quella del contratto sociale, in quanto il sovrano non si assumeva alcun obbligo e i sudditi non mantenevano per sé alcun diritto; il margine di autonomia dell'individuo era in sostanza limitato a quei rapporti entro i quali l'autorità non poteva penetrare, ma non perché non poteva quanto perché non lo voleva vista l’irrilevanza per l'ordine interno dello stato e per il mantenimento del potere sovrano. Posizioni coerenti con l’assolutismo monarchico. Locke

Alle tesi assolutistiche di Hobbes si contrapposero qualche decennio più tardi, le idee di John Locke, il quale ebbe una concezione razionalistica del diritto naturale, definito come una regola di condotta fissa ed eterna, dettata dalla ragione stessa. Secondo tale concezione gli uomini si accordavano allo scopo di evitare e di correggere gli abusi di potere e le iniquità, e di affidare ad un’autorità riconosciuta i poteri di governo e di giudizio, il già nominato contratto sociale. Potere fondamentale era dunque il potere legislativo che Locke riteneva doversi conferire ad un organo rappresentativo, distinto dal potere di governo, che spettava invece al sovrano; una sorta di approccio alla teoria sulla separazione dei poteri. Secondo Locke l’essenza del potere legislativo risiedeva nella sovranità del popolo, che bensì l'affidasse all'organo rappresentativo da loro scelto ne conservavano per così dire la chiave; una fondamentale affermazione questa, che sta alla base del moderno concetto di sovranità popolare. Locke inoltre ne faceva derivare l'importante conseguenza che il popolo avrebbe potuto legittimamente revocare la delega qualora il legislatore avesse infranto i limiti che la “legge naturale” gli imponeva. Infatti il patto fiduciario col popolo si doveva ritenere infranto quando il potere legislativo tentasse di rendere se stesso, o una parte della comunità, padrone o arbitro delle vite, delle libertà e dei beni del popolo; anche la proprietà privata costituiva per Locke, a differenza che per Grozio e per Hobbes, un diritto innato e inviolabile, fondato sul lavoro dell'uomo. In conclusione si comprende come le idee di Locke sulla sovranità popolare, sui limiti del potere legislativo, sulla sua distinzione dal potere esecutivo, sulla libertà, sui diritti dell’uomo, sulla proprietà, ecc. eserciteranno un ruolo determinante nelle dottrine giuridiche successive fino ai nostri giorni. Pufendorf

Altro esponente della scuola del diritto naturale fu Pufendorf. Uno scritto nel quale criticava l'organizzazione del Sacro Romano Impero lo costrinse a trasferirsi in Svezia, dove pubblicò due importanti opere: il De iure naturae ac gentium e il De officio homiis et civis.

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Anche per Pufendorf, come per Grozio, il diritto naturale era comune a tutti gli uomini perché fondato sulla ragione; ciò che lo distingue da Grozio è invece l’idea che l'essenza della legge consista in un comando di un superiore

- come Dio per le norme di diritto naturale: perché, nonostante sia considerato come fondato sulla ragione, è sempre e comunque radicato nella volontà divina, che da all’uomo la razionalità di cui necessita;

- come il principe per le leggi positive: perché ciò che rende operanti i principi del diritto naturale e la coattività attraverso il potere regio supremo e indiviso proprio dell'assolutismo.

Ne consegue una netta distinzione tra diritto e teologia: l'uno avendo per oggetto i rapporti e i doveri dell'uomo con altri uomini, l'altra il rapporto dell'uomo con Dio. Tra i contributi di Pufendorf si deve menzionare anche l'opera realizzata sui rapporti tra Stato e Chiesa, nella quale egli distinse:

- la disciplina giuridica delle chiese nel contesto del diritto pubblico, ius circa sacra, risevata allo Stato;

- le norme di organizzazione interna delle chiese stesse, ius in sacra, affidate alle singole chiese.

Infine i caratteri enunciati da Pufendorf, nel definire i necessari requisiti della legge, come la generalità, l'irretroattività, l'applicazione delle medesime regole giuridiche a tutti i sudditi senza distinzione di status, ecc.. anticipano alcune delle posizioni di fondo dell'illuminismo giuridico,che vennero ampiamente recepite da Rousseau. Leibniz

Una concezione del diritto naturale assai lontana da quella di Pufendorf fu espressa da Leibniz, grandissimo matematico, filosofo, storico e anche giurista. La sua aspirazione fu quella di dimostrare come sulla base di pochi principi, attraverso un metodo scientifico e matematico, fosse possibile concepire un sistema di norme applicabili ad ogni caso concreto, con la collaborazione dei giuristi di professione. Dunque molto chiara era la sua posizione di favore al razionalismo giuridico (ovvero che il diritto naturale si fonda sulla ragione) visto che i precetti della giustizia avevano per lui la medesima base razionale di quelli dell'aritmetica . Domat

Anche Domat, importante esponente francese del giusnaturalismo, esercitò una certa influenza nella sfera del diritto, grazie soprattutto al trattato Le leggi civili nel loro ordine naturale, con il quale volle esporre le regole del diritto della Francia sulla base di alcuni principi fondamentali:

- la natura imperfetta dell'uomo, derivante dal peccato originale, lo condanna al lavoro e alla fatica vincolandone le attività entro le regole “naturali” che sono comuni a tutti i popoli.

- l'ordine sociale, con la sua ripartizione di oneri e di status tra i diversi ceti, deve essere accettato senza obiezioni.

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- l'ordine pubblico e il buon costume, con cui i privati possono disciplinare liberamente i loro rapporti contrattuali nel rispetto della buona fede e delle regole conformi al diritto naturale.

Insomma una visione complessa quella di Domat, dove la tradizione romanististica veniva valorizzata alla luce del diritto naturale. Thomasius

Il contributo di Thomasius detrminò per il giusnaturalismo un indirizzo in parte nuovo. Egli adottò un'impostazione ben differente da quella del maestro Pufendorf, con la quale sostenne che occorreva distinguere con chiarezza l'ambito del diritto da quello della morale individuale e sociale; i qui la distinzione da lui formulata, divenuta classica, tra:

- ciò che è giusto, appartiene al mondo del diritto perché riguarda i rapporti tra soggetti e le regole di tutela da eventuali lesioni di diritti altrui;

- ciò che è onesto, appartiene all’etica e non ha rilevanza per il diritto; - ciò che è decoroso, insieme dei comportamenti raccomandabili nei rapporti reciproci,

la cui inosservanza non comporta però l’applicazione di sanzioni. In questo modo non solo si delineava il confine tra “ciò che è diritto naturale e ciò che non è diritto”, ma si determinava anche una sorta di limite del diritto stesso. E’ infatti da queste distinzioni che è possibile dedurre come Thomasius avesse un temperamento anticonformista, criticando da un lato la tortura giudiziaria, i reati di eresia, di stregoneria, ecc.. e sostenendo dall’altro la convivenza al di fuori del matrimonio, o il rapporto sessuale tra adulti consenzienti e non coniugati, da valutare ed eventualmente sanzionare non con il diritto ma con la morale. Il pensiero di Thomasius, come quelli degli altri giusnaturalisti, poterono considerarsi come transitori tra le dottine del giusnaturalismo e la fase successiva dell'illuminismo giuridico che fiorirà nel secondo ‘700. 24. GIUSTIZIA DEL SETTECENTO Italia: Gravina, Averani

Tra i giuristi del ‘700, in Italia, ricordiamo: - Francesco D’Andrea; - Gian Vincenzo Gravina, la cui fama è legata all'opera Origines Juris civilis, con la

quale, basandosi sulla scienza giuridica dei glossatori, commentatori e culti, individua una nuova e diversa formazione del giurista, non più basata su vane citazioni di dottrina ma su una salda base razionale;

- Giuseppe Averani, la cui fama è invece legata alle Interpretationes iuris, contenenti una serie di trattazioni e passi della compilazione di Giustiniano, in particolare del Digesto. Su ciascuna questione l’autore discuteva approfonditamente le tesi degli interpreti precedenti, compresi i maggiori esponenti della scuola culta, per poi procedere esprimere un pensiero personale con suggerimenti originali. Era proprio in questo lavoro di analisi che risiedeva, per Averani, il compito del professore universitario nella formazione del futuro giurista.

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- Luigi Cremani, professore di diritto penale, la cui opera, suddivisa in tre volumi, sul diritto criminale ebbe risonanza notevole.

Germania: Bohmer, Heinecke, Wolff

In Germania tra le scuole universitarie, particolare vigore per la qualità dei maestri, ebbe l'Università di Halle - ove insegnarono tra i tanti Thomasius e Wolff. Ma l’autore maggiormente conosciuto fu Heinecke (si pronuncia Eineccio), che pubblicò Elementa iuris civilis secundum ordinem, il cui successo fu dovuto all'impostazione chiara e sintetica, fondata su altrettanto chiare definizioni di ciascun istituto giuridico civile. Il testo costituiva una sorta di introduzione al sistema del diritto privato romano “moderno”. Nell’ambito del diritto naturale pubblicò un’altra opera con la quale traccia i doveri dell’uomo verso Dio, verso se stesso e verso gli altri; quindi tratta dell’uomo in quanto essere sociale, dei suoi doveri verso la famiglia e verso lo Stato. Ritornando a Wolff, filosofo, teologo, matematico, professore di fama alla Halle nonché autore di una serie di scritti fu anche studioso di diritto. Egli istituì un parallelismo tra le obbligazioni naturali alle quali ogni individuo è tenuto in quanto uomo e i diritti naturali, che ne sono la diretta derivazione: al dovere di osservare le obbligazioni corrisponde il diritto a che esse siano adempiute. Dovere e diritto sono comuni a tutti e configurano perciò un fascio di regole valide universalmente, senza distinzione di status. La società civile fu sostanzialmente per Wolff la prosecuzione nel tempo del contratto sociale originario da cui il sovrano traeva la legittimazione del suo potere sui sudditi, finalizzato a far conseguire la sicurezza e il benessere di tutti, attraverso una serie di leggi e di disposizioni. Una concezione in parte derivata da Hobbes, in parte da Leibnz che ebbe molte attenzioni e fu ripresa da altri giuristi. Francia: Pothier

Tra i giuristi francesi del ‘700 un ruolo di spicco fu svolto da Pothier, magistrato di Orleans e autore di un celebre Commentario alla Coutume di Orleans, col quale evidenziò le affinità con le altre consuetudini nell'intento di delineare il “diritto comune consuetudinario” francese. La fama di Pothier è però legata ai numerosi trattati di diritto privato: sulla proprietà, sui diritti reali, sulle successioni, sulle obbligazioni, sulla vendita, sulla locazione, ecc.. nei quali seppe coniugare la disciplina del diritto comune di radice romanistica con la tradizione consuetudinaria francese. Le sue opere ebbero molta fortuna e furono presi come riferimento da coloro che elaborarono poi il codice napoleonico. 25. IL SISTEMA DELLE FONTI Diritti locali e diritto comune

Legislazione degli Stati, consuetudini locali, statuti cittadini, diritto feudale, diritto cromano comune, diritto canonico, giurisprudenza dei grandi tribunali, dal ‘400 al ‘700 sino alle codificazioni moderne tali fonti coesistettero in un intreccio piuttosto complesso. Intreccio che

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fu possibile tracciare partendo dal dualismo tra diritti locali e particolari da un lato e diritto comune dall'altro,

1. nella prima parte tutto ciò che è locale: statuti, consuetudini, o particolare: diritti di ceto, norme feudali

2. nella seconda parte invece, non solo le leggi romane e le leggi della Chiesa: il Corpus iuris civilis e il Corpus iuris canonici, ma anche le dottrine dei dottori che direttamente o indirettamente si richiamano al diritto romano.

La novità più rilevante nel sistema delle fonti moderne fu l'ingresso di un terzo elemento: 3. la normazione dello stato, con la quale i sovrani legiferavano ormai con autorità piena

in molti campi del diritto e impongono che la loro normazione abbia la priorità rispetto a qualsiasi altra fonte del diritto.

Il binomio si tramutò così in un trinomio: - leggi regie e norme dello stato, - diritti locali e particolari, - diritto comune.

una sorta di gerarchia molto spesso accettata e rispettata nei singoli ordinamenti, tanto che i giudici dovevano prima applicare le norme emanate dal sovrano, poi quelle locali o particolari ed infine il diritto comune se le prime due tipologie di norme necessitavano di integrazioni o interpretazioni per risolvere quella determinata questione pratica. Sulla base di tale criterio gerarchico si considerò dunque la legislazione regia (leggi emanate dal sovrano) come diritto speciale, attingendo solo in caso di lacuna al diritto comune, quale diritto generale. Le supreme magistrature assunsero così un ruolo importantissimo nel sistema delle fonti e delle regole giuridiche. All'interno dell'ordinamento in cui la Corte aveva la funzione di giudice di ultima istanza, le sue pronunce pesavano in misura determinante anche sulle pronunce dei giudici inferiori; quanto al rapporto tra decisioni delle Corti e normativa, una parte della dottrina ritenne che la Corte sovrana, in quanto titolare del potere del re in materia di giustizia, potesse anche decidere in deroga rispetto alla legge, ovvero contra ius, altra parte ritenne invece che un tale potere non spettasse alle Corti se non in presenza di una specifica autorizzazione concessa dal sovrano nel singolo caso. De Luca sostenne che neppure la Rota romana poteva giudicare contro il diritto, in virtù del principio che il giudice non è il legislatore. Su questo punto i testi romanistici non si trovavano concordi, perché:

- da un lato il Codice sottolineava il ruolo inderogabile della legge, non aggirabile con il ricorso a precedenti giurisprudenziali,

- dall'altro il Digesto ammetteva che le ambiguità della legge potessero venir risolte adeguandosi o alla consuetudine o alla giurisprudenza consolidata.

In ogni caso l’aspetto sicuramente certo era la superiorità del Corpus civilis, rispetto alle fonti locali e particolari, nonché alle leggi del sovrano assoluto, arricchito ed integrato dalla dottrina dei glossatori, dei commentatori, dei culti, ecc.. Italia

Negli Stati italiani l'applicabilità del diritto comune, quale norma sussidiaria per colmare eventuali lacune e ambiguità dei diritti locali, era indiscussa e generale. Il diritto comune

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costituiva la normativa di riferimento per gli statuti ad esso conformi secundum legem e per quelli ad esso estranei praeter legem, ma non per gli statuti contrari al diritto comune stesso contra legem. Ma ad ogni modo la crescente importanza del diritto regio in ogni campo del diritto (civile, commerciale, penale, processuale..) avanzava sempre di più tanto che per l'applicazione della norma consuetudinaria fu necessario il potere di valutazione del giudice, secondo il suo arbitrium. Quanto agli statuti, se era pacifico che essi fossero ancora in vigore e altrettanto pacifico era che il diritto regio avesse la priorità su di essi. Francia.

Anche in Francia le Corti sovrane diedero al diritto comune un peso sempre maggiore. Si affermò inoltre la prassi di chiedere al re, in taluni casi, delle lettere di rescissione che avevano l'effetto di annullare specifiche clausole contrattuali con cui le parti avevano rinunciato ad avvalersi di norme del diritto romano, meglio dette renunciationes. In tali casi il diritto romano, ormai sempre più residuale, tornava ad applicarsi. Le consuetudini ebbero invece piena vigenza, e alle eventuali lacune si poneva rimedio ricorrendo alle consuetudini delle provincie vicine e in ultima istanza a quella di Parigi, alla quale si rapportava la giurisprudenza del Parlamento parigino. Charles Du Moulin, dopo avere dapprima riconosciuto il ruolo del diritto romano come ius commune cambiò posizione, affermando che non il diritto romano, bensì il diritto consuetudinario delle grandi regioni di Francia costituisse il diritto comune francese. La relazione tra le consuetudini particolari e locali e la consuetudine generale della regione francese era dunque una relazione di sussidiarietà, nel senso che a quest'ultima si ricorreva per supplire alle lacune di quelle particolari e locali. Addirittura secondo una parte della dottrina, neppure la legislazione del re poteva di norma contravvenire alle consuetudini se non per cause della massima importanza. Un ulteriore limite al potere legislativo del re fu costituito da un nucleo ristretto di principi, qualificati dalla dottrina come leggi fondamentali del regno, che si ritennero inderogabili in quanto tramandati senza possibilità di interruzioni, quali:

- la successione al trono dei soli maschi primogeniti secondo la linea di successione, - l'inalienabilità dei beni del demanio regio.

Alla luce di ciò il diritto romano venne tenuto costantemente presente ma come normativa residuale alla quale potere ricorrere in caso di bisogno come completamento e integrazione delle norme consuetudinarie, perché comunque conforme alla ragione, alla giustizia e al diritto naturale. Germania

Anche in Germania il diritto romano civile o privato e il diritto canonico, quali componenti del diritto comune continuarono ad essere sempre importanti. Il Tribunale Camerale dell'Impero sia stato assegnato il compito di giudicare secondo il diritto comune, integrato con la dottrina dei glossatori e dei commentatori. La posizione di superiorità del Tribunale camerale rispetto ai tribunali locali inferiori potenziò enormemente il ruolo del diritto comune come diritto effettivamente vigente applicato nei territori germanici, tanto che le altre Corti minori di giustizia, consapevoli che un ricorso in appello al Tribunale dell' Impero

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sarebbe stato deciso secondo il diritto comune, iniziare a regolarsi di conseguenza al fine di evitare frequenti revisioni delle loro decisioni. Ciò però non significò affatto che ogni altra fonte normativa fosse stata accantonata, ne che il diritto comune avesse ricevuto una priorità nella suddivisione delle fonti, anzi al primo posto vi era:

- il diritto delle città, poi - il diritto del principato territoriale, - il diritto comune.

Le consuetudini locali germaniche non furono dunque totalmente respinte anche se, in caso di lacuna o ove occorresse interpretarle, era nuovamente il diritto comune a prevalere. Crisi del diritto comune e diritto patrio

La molteplicità delle fonti e il difficile coordinamento tra i tanti piani normativi portò alla crisi del sistema del diritto comune, crisi aggravata anche dal fatto che la compresenza di fonti consentivano alle Corti un’ampia discrezionalità di decisione. Ciò infatti determinò, alla fine del ‘700, la grande volta delle codificazioni. Un fenomeno di grande importanza fu a tal proposito rappresentato dal diritto patrio, ovvero che all'interno di ciascun ordinamento:

- permasero i diritti locali e particolari di origine medievale, statuti, consuetudini, regole feudali;

- vigevano norme di legge regie, le sentenze dei grandi tribunali, e le principali raccolte di decisiones;

- il diritto romano comune venne sempre applicato per integrare, interpretare e coordinare le normative specifiche.

Il risultato di questo complesso di fonti fu differente da paese a paese, non solo perché in ogni ordinamento le norme locali e leggi del sovrano furono diverse ma anche perché lo stesso diritto comune fu coordinato con fonti diverse. In merito alla crisi del diritto comune in Italia si poté evidenziare che:

- da un lato la compresenza di un insieme di fonti molto vasto e variegato, rendeva difficile se non impossibile l'identificazione di una disciplina univoca per questioni e casi controversi, pur se in presenza di una gerarchia di fonti;

- dall'altro lato l’evidente latitudine che questa condizione delle fonti lasciava aperta non solo all'interprete ma anche al giudice.

Si criticavano ormai le procedure di nomina dei giudici delle Corti sovrane, la loro durata vitalizia, ecc.. Le riforme e gli eventi successivi fino alla Rivoluzione francese porteranno all'affermazione del principio di legalità, della pubblicità dei giudizi, della motivazione delle sentenze, ecc.

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Parte quarta L’età delle riforme (1750-1814)

Il sistema del diritto comune si mantenne in vita, ma mostra segni sempre più palesi di crisi: una crisi di certezza, determinata dal groviglio delle fonti e delle dottrine accumulate nei secoli, ed una crisi di contenuti, derivante da nuove tendenze di pensiero e da nuove esigenze del potere della società maturate nel corso dell’età moderna. Ma dalla metà del secolo un nuovo indirizzo culturale si afferma: la critica al sistema delle istituzioni, già implicita in molte posizioni del giusnaturalismo, ora è aperta e spesso radicale. Proposte di riforme. Età dei lumi. La legge dello stato divenne da allora in Europa ciò che non era mai stata nei lunghi secoli del diritto comune, la fonte prima e dominante del diritto, lo strumento privilegiato se non addirittura esclusivo delle sua evoluzione. I sovrani del continente, a differenza di quanto accaduto nel ‘600 in Inghilterra, mantennero però tutti i poteri conquistati in età moderna, anzi aumentarono: età dell’assolutismo illuminato. I poteri dello stato si rafforzarono anche là dove l’antico regime venne traumaticamente rimosso (Francia della Rivoluzione): lo stato cessò di costituire il “braccio secolare” della Chiesa. La spinta possente alle riforme segna il tr4amonto del patriziato come ceto dominante. È iniziata l’ascesa della borghesia. Codificazione del diritto privato, del diritto penale, delle procedure. I codici sostituiscono in toto le fonti anteriori, cioè non sono più, a differenza delle ordinanze dei sovrani medievali, etero-integrabili con le altre fonti del diritto: gli avvocati e i giudici debbono necessariamente ricavare dai codici e solo da essi le regole per la difesa e la decisione dei casi. 25. ETA’ DELLE CODIFICAZIONI Illuminismo giuridico Montesquieu Quale momento iniziale della nuova cultura illuministica si suole designare l’anno della prima edizione dell’Esprit des lois (1748). Nella sua opera maggiore, Montesquieu si propose un obiettivo ambizioso: tacciare un compiuto disegno delle relazioni necessarie che intercorrono tra il regime politico-costituzionale di un Paese e il suo diritto pubblico e privato. Tripartizione aristotelica dei regimi politici, considerando tre forme di governo: repubblicano (a sua volta diviso in democrazia o aristocrazia), monarchico, il cui sovrano governa attraverso le leggi, e dispotico, nel quale il despota può operare a suo arbitrio in ogni campo. Tra le monarchie l’autore descrive i modelli della Francia e dell’Inghilterra, soffermandosi sulle differenze tra i due ordinamenti. Il principio cardine del governo repubblicano è la virtù e con essa la ricerca dell’eguaglianza (per esempio, nella ripartizione dei carichi fiscali); il principio su cui si basa l’ordinamento monarchico è invece l’onore. Ma vi sono monarchie strutturate per il perseguimento della gloria (Francia) e quelle per il perseguimento della libertà (UK)- proprio le pagine della costituzione britannica sono tra le più importanti dell’opera, in quanto per la prima volta la costituzione inglese, una costituzione non scritta, veniva descritta dall’opinione colta del continente con ammirazione.

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Montesquieu teorizzava la dottrina dei tre poteri che diverrà un caposaldo del moderno costituzionalismo; difendeva i pregi di un regime rappresentativo che affidasse il potere legislativo congiuntamente ad una Camera elettiva e ad una rappresentante l’élite della nazione. La libertà cresce quando il potere è limitato; ciò che consente di limitare i poteri è la loro separazione, in quanto potere blocca potere. Libertà atte a garantire il bene dell’individuo e quello della società. Consapevolezza della storicità del diritto, che risulta foggiato in forme diversissime nel tempo e nello spazio. Persino il diritto delle genti secondo l’autore non è ovunque il medesimo. Gli Enciclopedisti e Rousseau Enticlopedia: diretta da due intellettuali, Diderot e D’Alembert, pubblicata nell’arco di un quindicennio dal 1750. E se sul terreno del diritto non hanno particolare qualità teorica, esse tuttavia riflettono numerose posizioni dei giusnaturalismi e di Montesquieu. All’Enciclopedia aveva collaborato anche Rousseau (Contratto sociale): L’uomo è nato libero ed è ovunque in catene. La vita in società, il contratto sociale, non è per Rousseau una scelta libera compiuta in un momento del passato, ma una necessità oggettiva. La sovranità appartiene a chi al contratto ha dato vita, al popolo nella sua totalità, non al sovrano. Ed è una sovranità unica, inalienabile e indivisibile. Inoltre, il patto sociale stabilisce tra i cittadini una tale uguaglianza che essi si obbligano tutti sotto le medesime condizioni e devono godere tutti degli stessi diritti. Le deliberazioni collettive si manifestano attraverso la legge, che ha carattere generale ed astratto e deve promanare da tutto il popolo (a favore della democrazia diretta); d’altra parte, il potere legislativo deve essere distinto da quello esecutivo. Concezione del potere politico basato sul principio della democrazia diretta e sul suffragio universale, dunque sulla sovranità popolare intesa nel suo significato pieno e rigoroso. Voltaire Pose al centro della sua attività di scrittore la denuncia delle ingiustizie. La pretesa di imporre ai sudditi un’unica fede religiosa e fu combattuta da Voltaire. Le terribili sanzioni penali prescritte nei confronti degli eretici, il divieto di divorzio, etc., furono l’oggetto di innumerevoli scritti di implacabile denuncia. Altrettanto netta fu la condanna delle violazioni della libertà di pensiero e di espressione, che l’istituto della censura dei libri codificava limitando la libertà di stampa. Il sistema penale e i vasti poteri discrezionali delle Corti sovrane vennero stigmatizzati attraverso la presentazione di errori giudiziari esemplari. Più in generale, Voltaire criticava la pluralità delle consuetudini e l’arbitrarietà delle troppe regole in vigore, diverse per località, e criticava la pluralità dei regimi giuridici per le diverse classi sociali. Per Voltaire, il rimedio contro le norme obsolete era semplice: abrogarle e sostituirle con altre, migliori. Battaglie ideologiche.

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Beccaria, Verri e “Il Caffè” I fratelli Verri discutevano, sulle pagine di un foglio periodico da loro creato (1765), il Caffè, temi di economia e di costume pubblico e privato, affrontati in un libero dibattito ispirato alla nuova cultura dei “lumi”. Pietro Verri aveva maturato un’aspra avversione per quel sistema, per la intramontabile fortuna della codificazione giustinianea e per la latitudine eccessiva del potere discrezionale dei giuristi, una casta potente. Forte reazione antigiurisprudenziale. Cesare Beccaria: incoraggiato da Verri, si diede a riflettere sul sistema penale del tempo. In pochi mesi ne uscì un libro, Dei delitti e delle pene, che ottenne un successo immediato e clamoroso. Appena due anni più tardi, Voltaire non solo lo fece tradurre e pubblicare in francese, ma ne scrisse un commento. Beccaria muove da una concezione utilitaristica del diritto penale: la pena deve mirare alla difesa della società mediante la prevenzione e la repressione dei comportamenti criminosi che rechino danno alla società. È una concezione non retributiva del diritto penale in un duplice senso: perché esprime una nozione secolarizzata del diritto penale (viene espunta la punizione dei peccati) e perché si sostiene che la pena non ha lo scopo di attivare una reazione diretta contro il reo per punirlo del male che ha arrecato. Essa è invece concepita come lo strumento per evitare che il malfattore ponga in atto ulteriori comportamenti criminosi e insieme per distogliere, con il timore della sanzione, chi volesse imitarlo. La pena deve essere proporzionata alla gravità del reato: pene miti ma certe. Per Beccaria solo la legge può stabilire la forma precisa della pena. Principio di legalità del reato e della pena. I reati venivano classificati in ordine di gravità, ponendo come criterio il livello di pericolo di ciascun atto delittuoso nei confronti della società stessa. Quanto alle prove, se Beccaria condivideva con Montesquieu la persuasione di mantenere alcune regole legali (almeno due testimoni per formare la prova di fatto), egli elogiava la giuria popolare come più equa nelle sue valutazioni. Bentham La misura del diritto e del torno deve essere la felicità massima per il massimo numero di persone. Kant La distinzione tra diritto e morale si basa sulla diversa natura dell’obbligo dei due settori: il dovere morale è tale per se stesso in quanto deriva da un’idea di ragione che genera l’impulso ad adeguarvisi, mentre il diritto ha carattere intersoggettivo ed è connesso inscindibilmente con il potere di costringere, con la coattività. Unico diritto innato per Kant è quello che rende possibile la libertà di ogni uomo facendola coesistere con quella di un altro uomo. A questo fine è legittimata l’autorità dello stato: non al raggiungimento della massima felicità, bensì alla garanzia che assicura a ciascuno la sua libertà attraverso la legge.

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26. LE RIFORME Nella prima metà del Settecento diversi stati europei avevano promosso iniziative di revisione del proprio ordinamento legislativo. Ma solo a metà del secolo la legislazione assunse il ruolo di strumento privilegiato per una trasformazione in profondità del diritto e delle istituzioni. La Prussia di Federico il Grande Terzo decennio del ‘700: ordinamento che accentuava fortemente i poteri del sovrano sul terreno fiscale e nel governo civile e militare, riducendo le prerogative dei ceti, in particolare, la nobiltà. Federico II introdusse un ampio ventaglio di innovazioni. Programma: sostituire il diritto romano comune con una normativa ispirata alla tradizione del territorio prussiano, ma anche fondata sulla ragione naturale. Esigenza di disporre di “leggi ragionevoli”. Drastica è la sua valutazione sulla prassi dei maltrattamenti inflitti dai giudici ai ricorrenti di bassa estrazione sociale. Principio della subordinazione dei giudici alla sola legge, invitandoli esplicitamente ad ignorare eventuali ordinanze sovrane in contrasto con la legge. Le sentenze dovevano essere inoltre munite di motivazione. Il re non intendeva affatto eliminare l’ordinamento per ceti nei rapporti di diritto privato e nella disciplina degli status personali, pur avendo ridotto le prerogative di diritto pubblico dell’aristocrazia. Ciò spiega come il progetto di codice civile sia stato abbandonato ancora prima di entrare in vigore. L’Allgemeines Landrecht Alcuni decenni più tardi, nuovo progetto di Codice generale di Prussia. Nel 1794 entrò in vigore l’ Allgemeines Landrecht per gli stati prussiani. Rispetto al sistema delle fonti precedenti, il nuovo codice sostituiva il diritto comune in quanto normativa superiore e generale, ma non sostituiva i diritti particolari e locali, che dunque rimanevano in vigore anche se ne era previsto il futuro raccordo in un codice. Si tratta di un codice dotato di caratteri complessi. La ripartizione della materia è indicativa della scelta di fondo: mantenere saldo l’ordinamento tradizionale per ceti della società della Prussia, stabilendo per ciascuno Stand uno specifico assetto normativo ma anche fissando regole generali per tutti i ceti. La status centrale si acquisiva con la nascita ed era ripartito nelle tre categorie di antico regime: nobiltà, borghesia della città, ceto rurale, a sua volta diviso in contadini liberi e servi. Un Codice dunque per molti aspetti ancora di antico regime sia con riguardo al sistema delle fonti, che alla disciplina differenziata per ceti, sia infine per la presenza di norme di diritto pubblico e di diritto privato in un medesimo testo. I dominii asburgici: Maria Teresa Maria Teresa d’Austria favorì una serie di interventi legislativi. Riforma dell’Amministrazione con la quale le materie finanziarie dei dominii asburgici venivano raggruppate in un’unica Cancelleria, mentre l’amministrazione centrale degli affari giudiziari fu affidata ad un distinto organo: separazione tra amministrazione e giurisdizioni. Furono le necessità crescenti di spesa causate dalla guerre a dare la spinta ad una riforma del sistema fiscale le cui implicazioni andarono ben al di là del terreno dell’economia. Un primo importante intervento si ebbe con la prescrizione che i tributi dell’imposta fondiaria venissero

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corrisposti in danaro sulla base di una valutazione decennale della redditività delle terre in misura dell’uno per cento a carico del feudatario, e del due per cento a carico dell’utilista. Per la prima volta, il criterio della proporzionalità dell’imposta risultò operante. Alcuni corposi privilegi della nobiltà, radicati nei secoli, venivano così efficacemente contrastati. Alle proprietà ecclesiastiche, che erano circa 1/3 dei beni fondiari, fu mantenuto un regime di parziale esenzione. Con la proporzionalità si affermava il principio dell’equiparazione giuridica tra il patriziato e la borghesia. Giuseppe II Politica assai più radicale rispetto a quella di Maria Teresa. Editto di tolleranza con il quale veniva per la prima volta riconosciuta l’eguaglianza tra i sudditi dell’impero delle diverse confessioni religiose cristiane quanto all’accesso alle cariche pubbliche, ai gradi accademici, etc. La legge matrimoniale sancì la natura del contratto di matrimonio, come tale legittimamente disciplinabile dal diritto civile dello stato. Giuseppe II promosse inoltre la codificazione in quasi tutti i settori dell’ordinamento. La disciplina legislativa del codice ha il carattere della completezza, si articola in forma sistematica, isola il diritto sostanziale dal processuale, distingue il civile dal penale, espunge ogni altra fonte normativa incluso il diritto comune con l’intero patrimonio di dottrine elaborate nel corso dei secoli. Codice penale giuseppino: principio di legalità della pena accompagnato dall’espresso divieto del ricorso all’analogia; pena imprescrittibile. Meno fortunata fu la codificazione civilistica, forse anche per la novità dell’impresa. Pietro Leopoldo Non sorprende che alla morte di Giuseppe vi sia stata una forte reazione, sia a Vienna che a Milano. Pietro Leopoldo riuscì a varare nel 1786 una legge di importanza storica. Non siamo di fronte ad un codice nel significato che assumerà in seguito, perché la materia penale e la disciplina del processo non sono disciplinate in forma compiuta e sistematica. Ma il sistema penale viene ridisegnato in modo nuovo, con una disciplina del processo che superava molte delle regole e delle secolari consuetudini del diritto comune e dei diritti locali. Abolizione della tortura giudiziaria, depenalizzazione dei reati di opinione e di religione, sfrondamento delle ipotesi di lesa maestà, rimodulazione del sistema delle pene ma soprattutto abolizione della pena di morte. La “Leopoldina” fu la prima legge in Europa ad avere accolto su questo punto cruciale le idee del Beccaria. Anche la codificazione civile compì negli anni di Leopoldo un progresso sensibile. Progetto Martini (1794) che si qualifica con le caratteristiche di un codice moderno: abroga infatti le fonti sussidiarie e il diritto comune consentendo solo le consuetudini “secundum legem”, si limita al diritto privato, contiene anche alcune disposizioni generali che dichiarano la connessione del diritto privato civile con il diritto naturale.

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L’indipendenza americana Gli articoli della Confederazione approvata nel 1778 erano fondati su un chiaro principio: i tredici stati rimanevano “sovrani” mentre un’assemblea centrale (Congresso) veniva investita del compito di decidere sulle questioni di comune interesse nell’economia, nella difesa, nei rapporti internazionali. Le decisioni del Congresso venivano assunte attribuendo un voto a ciascuna delle delegazioni dei tredici stati, anche se composte da un numero diverso di delegati. Ma le decisioni del Congresso non avevano per destinatari diretti i cittadini, bensì gli stati medesimi, ai quali spettava di metterle in atto. Pochi anni furono sufficienti per dimostrare che questa struttura era troppo debole. Nuova convenzione. La questione di gran lunga più dibattuta fu quella della composizione delle camere legislative. Molto presto si decise che i parlamentari della Camera dei Rappresentanti fossero da eleggere in numero proporzionale rispetto alla popolazione dei singoli Stati e con elezione diretta. Invece per il Senato i delegati degli stati più piccoli erano determinati a mantenere il criterio di un voto ciascuno. La soluzione finale fu che il Senato avrebbe avuto un egual numero di senatori per ogni stato, scelti dalla Camera legislativa dei singoli stati. Il bicameralismo consentì di far coesistere la logica della rappresentanza popolare e quella della rappresentanza per stati, con l’importante specificazione che le leggi destinate alla raccolta dei tributi avrebbero dovuto essere proposte dalla Camera dei Rappresentanti. 27. RIVOLUZIONE FRANCESE E DIRITTO La convenzione giacobina e il terrore del 1793-94: dopo la caduta di Robespierre i quattro anni del Direttorio segnarono una presa di distanza da una serie di misure estreme degli anni precedenti e sboccarono nel colpo di stato del 18 brumaio anno VIII (1.11.1799) che istituì il consolato e inaugurò il quindicennio del dominio napoleonico in Francia e in Europa. Gran parte delle riforme introdotte dalla Costituente trova la sua radice nelle idee e nelle proposte degli illuministi, ma la storiografia ha chiarito che sia erroneo ritenere la rivoluzione lo sbocco naturale del programma dei philosophes. Al contrario, nessuno di loro l’aveva prevista, e molti di loro l’avevano criticata. Inoltre, si trattò di una serie di rivoluzioni, una di seguito all’altra, anche di segno diverso. I “Cahiers de deléances” Grave crisi della finanza pubblica: tentata adozione di alcune misure audaci e innovative, ispirate ai fisiocratici in sostegno della produzione agricola, quali la divisione dei pascoli comune, il tentativo di introdurre la libera circolazione dei cereali, etc.: tentativi parzialmente falliti per l’opposizione congiunta dei parlamenti, del patriziato, degli intellettuali regi. Il permanere e l’accentuarsi di una condizione di crisi non superata condusse alla proposta di convocazione degli Stati generali, riesumati dopo quasi due secoli di inattività, per iniziativa soprattutto dei Parlamenti, determinati ad impedire misure normativa che riducessero i loro privilegi: nessuno aveva previsto che questa iniziativa avrebbe segnato la loro fine. La sessione fu preceduta da una gigantesca inchiesta sullo stato del paese e sulle aspirazioni di riforma: i Cahiers de doléances rivelano la presenza di una quantità di precise istanze di riforma del sistema giuridico. Critiche aspre sono rivolte al forte potere discrezionale delle Corti sovrane di giustizia, alle giustizie signorili, all’eccessiva severità delle pene, alla molteplicità

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delle consuetudini locali e all’oscurità delle leggi. Mai prima di allora si era compiuta una ricognizione altrettanto approfondita delle attese della società civile compiuta capillarmente in centinaia di assemblee locali e sintetizzata in precisi documenti. 04.08.1789: abolizione del sistema feudale e signorile. La Costituente: la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo” Con essa la legge, è espressione del titolare della sovranità, la “nazione”, e diviene lo strumento per l’affermazione dei diritti fondamentali. Il testo esordisce con l’affermazione che “tutti gli uomini nascono e rimangono liberi ed eguali in diritti”: elenca poi, quali diritti naturali e imprescrittibili, la libertà, la proprietà, la sicurezza, dichiarando che lo scopo di ogni associazione politica è di garantire questi diritti. La sovranità risiede nella Nazione. Accoglie il principio della proporzionalità delle imposte, che in Francia non si era ancora adottato. Diritto alla libera manifestazione di pensiero. Nel diritto penale, principio di legalità e di irretroattività della pena, presunzione di innocenza sino alla condanna e, più in generale, condanna dei poteri di polizia di antico regime. La riforma amministrativa Completa riforma dell’ordinamento amministrativo: abolite le autonomie delle regioni storiche, la Francia viene suddivisa in 83 dipartimenti, divisi in distretti. La venalità delle cariche viene abolita, e con questa la trasmissibilità degli uffici per via ereditaria. Ne derivava una struttura dello stato più uniforme e centralistica, perché le antiche regioni sparivano e con esse le loro secolari autonomie. Le riforme della giustizia Abolite le Corti sovrane, la giustizia viene articolata in modo uniforme su più livelli, sulla base di un principio fondamentale, l’elettività dei giudici. Le sentenze del tribunale nelle cause civili si potevano impugnare, ma fu deciso che l’appello fosse demandato non ad una corte superiore, bensì ad uno dei tribunali contigui a scelta delle parti, perché si volle evitare di riprodurre una gerarchia di giurisdizioni. Ai due gradi si aggiungeva un terzo grado, la Corte di Cassazione, ma soltanto facendo valere un errore di diritto, cioè asserendo che i giudici di merito avevano disapplicato la legge o l’avevano interpretata in modo erroneo. Funzione nomofilattica, assicurare cioè l’uniformità dell’interpretazione della legge entro l’intero stato. Il processo penale venne a sua volta completamente ridisegnato. Istituzione di una giuria popolare. I giurati venivano scelti su liste votate dai cittadini elettori. Il giudizio di colpevolezza richiedeva il voto di almeno dieci giurati su dodici e veniva pronunciato (abbandonando il sistema delle prove legali tipico del diritto comune) sulla base del “libero convincimento”. Questo doveva formarsi esclusivamente nel corso del dibattimento, con l’adozione del criterio fondamentale dell’oralità. La sentenza era inappellabile (“vox poluli, vox Dei”).

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Il Codice penale Tripartizione dei fatti illeciti tra contravvenzioni (sanzionate con ammende), delitti (di competenza dei tribunali correzionali) e crimini (intervento della giuria). Venivano cancellati i reati contro l’ortodossia religiosa e si stabiliva il criterio fondamentale della fissità della pena, senza lasciare ai giudici alcun margine di discrezionalità (neppure ad esempio in presenza di circostanze aggravanti). Il diritto civile: proprietà, lavoro, famiglia La Costituente si propose l’obiettivo di un codice di leggi civili per l’intero stato, ma non pervenne alla sua redazione. Tuttavia gli anni della rivoluzione portarono a interventi settoriali di grande importanza: in particolare, in materio di diritto di proprietà, del lavoro, delle persone e della famiglia. L’abolizione delle istituzioni feudali portò ad una svolta nella disciplina della proprietà. Superamento della distinzione tra il dominio diretto, del signore o della Chiesa, e il dominio utile di chi coltivava la terra versando al nudo proprietario un censo, in danaro o in natura. Abolizione delle corporazioni e delle associazioni professionali (anche ordine dei procuratori, etc.). Si abolì la servitù. Maggiore età a 21 anni. Principio del matrimonio civile: la laicizzazione del matrimonio consentì più tardi l’introduzione del divorzio. Per la donna, non fu abolito lo stato di soggezione al marito (potestà maritale), né l’incapacità di agire che richiedeva la presenza del coniuge o di altro familiare per compiere qualsiasi negozio giuridico (eccettuato il solo caso di abilitazione al commercio). Chiesa e Stato Tra i costituenti, la grande maggioranza era formata da cattolici. Ma il nodo dei rapporti con la Chiesa cattolica venne molto presto al pettine. L’abbandono dei privilegi votato nel 4.08.1789 includeva l’abolizione dei benefici ecclesiastici. La confisca delle immense proprietà immobiliari della Chiesa seguì a breve distanza. Le diocesi vennero ridisegnate. La nomina dei vescovi veniva affidata all’assemblea degli elettori del dipartimento. Al clero si imponeva di giurare di essere fedeli alla nazione, alla costituzione, alla legge, al re. Scisma che divise per alcuni anni il clero francese in due. Durante il terrore, anche la matrice anticattolica e antireligiosa si accentuò fortemente, sino a condurre a sistematiche distruzioni di chiese e monasteri. 28. L’ETA’ NAPOLEONICA Il regime napoleonico Colpo di stato del 18 brumaio dell’anno VIII (09.11.1799): triumvirato, a Napoleone spettavano le funzioni di primo console. Al primo console – che era abilitato a decidere anche da solo – venivano conferiti poteri enormi: gli spettavano tutte le funzioni di comando e di governo (bilancio, nomina e revoca dei ministri, etc.), il comando dell’esercito, il potere regolamentare. Inoltre, gli spettava l’iniziativa legislativa. Le leggi, predisposte dal governo, dovevano venir sottoposte al voto del Tribunato e quindi al voto del Corpo legislativo, e potevano solo venire approvate o respinte. Al Senato spettava il compito di verificare la costituzionalità delle leggi.

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Le innovazioni di carattere amministrativo e legislativo furono di grande rilievo. Affidamento ai prefetti dei compiti di rappresentanza dello stato e del governo sul territorio, con ampie funzioni amministrative. La nomina elettiva prevalsa nella fase iniziale della Rivoluzione venne eliminata. I prefetti erano nominati dal governo, scelti da Napoleone sulla base di una lista predisposta dal Ministro dell’interno, e in ogni momento revocabili. Sul terreno della giustizia l’innovazione fondamentale fu l’abolizione dell’elettività dei giudici. Solo i giudici di pace restarono elettivi, mentre per quelli togati dei tre livelli si stabilì che fosse il primo console a sceglierli. Ma per contrappeso, il doppio principio dell’irrevocabilità e della durata vitalizia delle carica. Fu ristabilito l’ordine degli avvocati. Nei rapporti con la Chiesa, accordo con Roma. Il Concordato faticosamente concluso dichiarava pubblico e libero il culto cattolico, imponeva al clero un giuramento di obbedienza e fedeltà al governo. La procedura dei vescovi era affidata al governo. Il governo di Bonaparte segnò nella disciplina del diritto pubblico e privato la conclusione e la sintesi del periodo rivoluzionario. Molte riforme del periodo della rivoluzione vennero mantenute, altre abolite. Altre riforme videro la luce e vennero riprese nei codici. L’Italia napoleonica L’Italia (eccetto la Sicilia e la Sardegna) erano sotto il controllo della Francia, fino all’intervento dell’Inghilterra, che sconfisse Bonaparte, ma le conseguenze del dominio napoleonico permasero. L’Italia, pur suddivisa in tre parti, sperimentò in questi anni un’unità economica e giuridica che non conosceva da anni. Alcuni di questi progetti italiani (codice commerciale e penale) sono davvero notevoli. L’apporto di Romagnosi al codice penale fu di prima grandezza. Per l’Italia Bonaparte non volle la giuria popolare. Riforme in Prussia 1) La servitù della gleba venne abolita, istituendo la libera trasmissibilità delle terre; 2) il governo centrale fu riformato creando cinque ministri, alle dipendenze del re; 3) l’amministrazione locale, prima d’allora formata in parte per cooptazione, in parte con uomini designati dal re, venne resa elettiva su base censitaria ed autonoma dal potere centrale. Complesso incisivo di riforme che minava le basi della tradizionale struttura per ceti, anche se non prevedeva l’introduzione di istituzioni rappresentative. La Costituzione spagnola Al di fuori dell’orbita francese. Un’Assemblea nazionale formata dalle Cortes varò a Cadice una Costituzione chiaramente ispirata alle idee dell’illuminismo e del moderno costituzionalismo. Il potere legislativo e il potere di tassazione erano riservati ad un’unica Camera, che riuniva tutti i deputati eletti nel Paese. Essi rappresentavano la nazione, non la provincia di provenienza. Al re erano riservati il potere esecutivo, con la nomina e revoca dei ministri, ma anche il potere di negare la promulgazione delle leggi, che tuttavia sarebbero entrate in vigore se il Parlamento le avesse votate per la terza volta nonostante l’opposizione del sovrano. Principio di unità legislativa e unità giurisdizionale dello stato. Negava la libertà di religione.

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29. LE CODIFICAZIONI Il Codice civile francese: progetti (1793-1799) Codificazione del diritto privato, penale e processuale. Cinque codici voluti da Napoleone: tessuto legislativo disegnato al fine di coprire in modo esclusivo tutti i principali settori dell’ordinamento tradizionalmente disciplinati dal diritto comune e dai diritti locali. Tra i codici, il più rilevante è il Codice civile. L’iniziativa per la composizione di un Codice civile fu avviata nel culmine del periodo giacobino (Cambacérès). Persone e famiglia, beni, contratti. Le scelte erano coerenti con quelle liberali e permissive della rivoluzione, abolitive della patria potestà e della potestà maritale, agevolanti le procedure di divorzio. Caduto Robespierre, la nuova Convenzione riprese l’iniziativa: codice di Cambacérès è un codice di principi di 297, che rispecchiava ancora l’ideologia rivoluzionaria. Questa volta le critiche dell’assemblea si appuntarono sull’eccessiva sinteticità del testo. Un terzo progetto di Codice civile, composto da 1104 articoli, nel quale tra l’altro il divorzio veniva circoscritto, la patria potestà tornava ad affacciarsi, etc., ma neppure questo progetto venne approvato, considerato ancora troppo vicino alle soluzioni giacobine. Portalis: recupero del diritto romano e della tradizione antica del diritto privato, respinge l’idea di una codificazione. Il Codice civile napoleonico Commissione di quattro giuristi. Esso rispecchia alcune delle tendenze già emerse negli anni immediatamente precedenti. Ad esempio, la patria potestà è restaurata, e così la potestà maritale, è scomparsa quale causa di divorzio l’incompatibilità di carattere, l’adozione è addirittura vietata. Oltre 100 sedute nelle quali Napoleone intervenne più volte a far valere le sue vedute. Approvazione nel marzo 1804. Carattere esclusivo della disciplina del Codice civile:

- Esclusione di ogni altra fonte sussidiaria anteriormente vigente: dal momento della sua entrata in vigore le leggi, ordinanze, consuetudini, diritto romano, giurisprudenza delle Corti sovrane e ogni altra fonte di diritto avrebbe cessato di avere vigore nelle materie disciplinate dal codice stesso

- Vieta al giudice di rifiutarsi di giudicare con il pretesto del silenzio, oscurità o difetto della legge. Il Codice diviene fonte esclusiva, non etero integrabile con altre fonti da parte del giudice (nemmeno equità).

Il Codice civile è composto di 2281 articoli, suddivisi in tre parti: persone, beni e le modifiche della proprietà, i diversi modi d’acquisto della proprietà. Straordinaria limpidezza delle proposizioni. “Codice delle proprietà”. Il trasferimento della proprietà è retto nel Codice da un principio fondamentale che si distacca dalla tradizione del diritto romano, ancora ritenuta valida da Pothier. Mentre nei contratti traslativi della proprietà il diritto romano stabiliva che la proprietà passasse al creditore solo con la consegna della cosa (traditio), il Codice stabilì che l’obbligazione di consegnare la cosa è perfetta col solo consenso dei contraenti. Tale obbligazione costituisce proprietario il creditore. Il consenso delle parti aveva quindi di per sé valore traslativo. Quanto ai beni mobili, è affermato il principio di possesso vale titolo.

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È nella disciplina della famiglia e delle successioni che soprattutto si coglie lo spirito con il quale il legislatore napoleonico ha inteso redigere un equilibrio tra tradizione e rinnovamento. L’autorità del padre e del marito è pienamente restaurata, anche se viene reso generale il criterio dei paesi di diritto consuetudinario, per il quale la patria potestà viene meno al raggiungimento della maggiore età. Le cause di divorzio sono più limitate, i beni sono amministrati dal solo marito; la donna maritata è priva della capacità di agire equiparata al minore e all’incapace. Preciso intento: presupposto e garanzia dell’”ordine”; un ordine che non si limita alla famiglia ma include la società e lo stato: “è dall’autorità paterna che dipende principalmente la pubblica tranquillità”. Il Codice civile deve la propria fortuna principalmente a tre profili:

- Contenuti: il Codice ha raggiunto un doppio felice equilibrio: l’unificazione dei due rami della tradizione francese, e l’innesto di una serie di innovazioni del periodo della rivoluzione

- Metodo: per la prima volta ha intessuto una coerente disciplina dell’intero diritto civile, sostituendola ad ogni altra fonte del diritto in netta discontinuità con una tradizione storica di ben 7 secoli

- Forma: livello di eccellenza con l’adozione di un linguaggio chiaro e asciutto Qualità formale e sostanziale. Gli altri Codici francesi Il Codice di procedura civile segna il ritorno a un procedimento più formale rispetto al tentativo radicalmente antiformalistico della riforma del 1793. Oralità del procedimento avanti ai giudici di pace, mentre davanti al tribunale il processo era incentrato sulle prove scritte e sullo scambio delle memorie difensive, lasciando spazio alla parola solo per le arringhe conclusionali. Codice di commercio: tratta in quattro libri, rispettivamente, del commercio per via di terra, del commercio marittimo, del fallimento e della giurisdizione commerciale. Quest’ultima era affidata ai tribunali di commercio, composti di mercanti, e poteva tra l’altro decidere l’arresto per debiti che invece il diritto civile aveva bandito per le obbligazioni non commerciali. Importante è l’enumerazione tassativa degli atti di commercio: per questa via il diritto commerciale si trasformava in un diritto oggettivo, il diritto degli atti di commercio, indipendentemente dallo status personale di chi tali atti compiva (prima, invece, era il “diritto dei commercianti”). Il processo penale venne profondamente ristrutturato nel Code d’instruction criminelle: Napoleone era avverso alla giuria penale. Cambacérès propose l’eliminazione della giuria di accusa, e la conservazione della giuria di giudizio, esclusa solo per alcuni casi particolari, e così fu deciso. Nella disciplina della fase istruttoria si riaffermò risolutamente il principio della segretezza. Le notizie di reato e le testimonianze dovevano venir vagliate e raccolte dal giudice istruttore su impulso del procuratore del re, senza che l’imputato potesse difendersi e senza neppure l’obbligo di informarlo sui fatti posti alla base dell’accusa. Invece, per la fase del dibattimento, vale il criterio della pubblicità, alla presenza del difensore e con la possibilità del controinterrogatorio dell’imputato alla presenza dei giurati. Le disposizioni testimoniali raccolte per iscritto durante l’istruttoria venivano lette e poste alla base dell’interrogatorio dell’imputato. Un processo nel quale torna ad avvertirsi “il fruscio della

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carta più che della voce delle parole e delle cose”. Rimaneva comunque il criterio fondamentale del libero convincimento e l’inappellabilità del verdetto dei giurati. Codice penale: tripartizione tra crimini, delitti e contravvenzioni. Le pene per i crimini includono la pena capitale, i lavori forzati, il bando, la reclusione; tra i reati, un peso preponderante viene dato a quelli contro la sicurezza dello Stato. Si reintroduce la sanzione della confisca dei beni del condannato. Il tentativo viene punito con la stessa pena irrogata al delitto perfetto. La recidiva è severamente colpita. Il concorso è sanzionato con la medesima pena prevista per l’autore del reato. Si stabilisce un minimo e un massimo per le singole pene stabilite dal Codice, consentendo ai giudici un congruo margine di discrezionalità. I Codici austriaci: il Codice penale Comprende sia il diritto penale sostanziale che procedurale. Sul primo fronte è rimasta la fondamentale distinzione Giuseppina tra delitti e gravi trasgressioni politiche. Nettissima è l’affermazione del principio di legalità del reato e della pena, nonché la precisazione che solo il dolo intenzionale autorizza alla repressione penale. Il sistema delle pene per i delitti è severo, fino all’inflizione della pena di morte. Anche i reati religiosi sono perseguiti. Quanto alla procedura, è mantenuto intatto il sistema delle prove legali: occorrono almeno due testimoni, ovvero la confessione del reo. Solo la piena prova consente la condanna. Al fine di ottenere la confessione è prevista l’inflizione di mezzi brutali. Inoltre, non è prevista la presenza del difensore e il giudice assolve al triplice compito di sostenere l’accusa, provvedere alla difesa dell’imputato e pronunciare la sentenza. Il Codice civile (ABGB) Il diritto naturale viene richiamato: in caso di lacuna normativa prescrive innanzitutto al giudice il ricorso all’analogia ma, in subordine, ove neppure l’analogia soccorra, impone di decidere secondo i principi del diritto naturale. Il codice lasciava un certo spazio, nei sui interstizi, a normative e consuetudini specifiche dei territori dell’Impero, tanto diversi per lingua, tradizioni, costumi. E qui sta un’altra ragione del suo successo. Codice per principi (mentre quello francese era codice per comandi). Sul terreno dei diritti reali la tradizione del diritto comune prevale: la proprietà è ancora espressamente disciplinata nella forma del dominio diviso di origine medievale. Quanto alle obbligazioni, il Codice recepisce la regola romana che richiede la consegna della cosa per il trasferimento della proprietà e degli altri diritti reali. Per gli immobili l’atto di acquisto deve essere iscritto nei libri pubblici, e solo così diviene opponibile ai terzi (sistema tavolare). Il diritto delle persone e della famiglia è la sezione dell’ABGB che più direttamente ha ricevuto l’impronta del pensiero illuministico. Qui la distanza dal Codice Napoleone è davvero grande. La donna può liberamente amministrare il proprio patrimonio, senza la necessità dell’autorizzazione maritale. L’educazione dei figli e la potestà genitoriale sono affidati a entrambi i genitori. Il figlio naturale deve essere curato e alimentato in proporzione alle sostanze della famiglia, ma gli illegittimi sono esclusi dalla successione. Il matrimonio civile è mantenuto, ma esso è indissolubile per i cattolici, mentre è ammesso per protestanti ed ebrei. La fortuna dell’ABGB è dimostrata dal fatto che è ancora in vigore in Austria.