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1 Stabilità versus flessibilità nel diritto comunitario: quale punto di equilibrio? * di Daniela Izzi Sommario: 1. Ambito della ricerca: dal soft law del metodo di coordinamento delle politiche occupazionali all’hard law del metodo comunitario classico – 2. Il paradigma della flexicurity nella Strategia europea per l’occupazione: quale flessibilità e quale sicurezza? – 3. Stabilità versus flessibilità in entrata e in uscita, ovvero a proposito di contenimento della precarietà del lavoro a termine e di protezione nei confronti dei licenziamenti – 4. L’acquis communautaire in tema di stabilità del posto di lavoro – 4.1. La Corte di giustizia e i contratti di lavoro a tempo determinato – 4.2. La Corte di giustizia e i licenziamenti – 5. Conclusioni: tra soft e hard law, dove va l’Europa? 1. Ambito della ricerca: dal soft law del metodo di coordinamento delle politiche occupazionali all’hard law del metodo comunitario classico In un’epoca dominata dall’imperativo culturale della flessibilità «formula magica» evocata nel dibattito pubblico con una frequenza pari solo all’indeterminatezza del suo significato (Caruso 2004, p. 11) – ma attraversata, anche, dalla diffusa aspirazione sociale alla stabilità del lavoro, verso quale punto di equilibrio sta spingendo l’Europa? La rilevanza assunta nell’attuale fase del processo d’integrazione comunitaria dalle fonti di soft law 1 , intervenute ad infrangere il monopolio tradizionalmente esercitato dalla tecnica di armonizzazione dei sistemi normativi con una determinazione che non lascia dubbi sulla loro progressiva ascesa, suggerisce di cominciare proprio da qui la ricerca delle indicazioni utili per abbozzare una risposta a tale domanda. Al centro dell’attenzione, più in particolare, dev’essere posto quel processo di carattere ibrido (a metà strada, cioè, tra la cooperazione intergovernativa e la centralizzazione a livello sopranazionale: v. Bano 2003, p. 59 e Ravelli 2006, p. 69) volto a determinare la graduale convergenza delle politiche nazionali verso le finalità dell’Unione che, sotto il nome di metodo aperto di coordinamento (MAC), pare ormai rappresentare l’archetipo della nuova governance europea (così Lo Faro e Andronico 2005, p. 514). * Il saggio è stato elaborato nell’ambito del progetto Prin 2004 “Sviluppo dell’occu pazione e tutela del posto di lavoro. La conciliazione possibile tra flessibilità e stabilità”, coordinato da M.V. Ballestrero. I primi risultati della ricerca sono stati presentati nel Convegno di studi svoltosi a Rovigo (24 e 25 febbraio 2006). 1 V. in tal senso il Libro bianco sulla governance europea adottato dalla Commissione europea il 5 agosto 2001, COM (2001) 428 def., p. 21.

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Stabilità versus flessibilità nel diritto comunitario: quale punto di equilibrio?* di Daniela Izzi

Sommario: 1. Ambito della ricerca: dal soft law del metodo di coordinamento delle politiche occupazionali all’hard law del metodo comunitario classico – 2. Il paradigma della flexicurity nella Strategia europea per l’occupazione: quale flessibilità e quale sicurezza? – 3. Stabilità versus flessibilità in entrata e in uscita, ovvero a proposito di contenimento della precarietà del lavoro a termine e di protezione nei confronti dei licenziamenti – 4. L’acquis communautaire in tema di stabilità del posto di lavoro – 4.1. La Corte di giustizia e i contratti di lavoro a tempo determinato – 4.2. La Corte di giustizia e i licenziamenti – 5. Conclusioni: tra soft e hard law, dove va l’Europa?

1. Ambito della ricerca: dal soft law del metodo di coordinamento delle politiche

occupazionali all’hard law del metodo comunitario classico

In un’epoca dominata dall’imperativo culturale della flessibilità – «formula

magica» evocata nel dibattito pubblico con una frequenza pari solo all’indeterminatezza

del suo significato (Caruso 2004, p. 11) – ma attraversata, anche, dalla diffusa

aspirazione sociale alla stabilità del lavoro, verso quale punto di equilibrio sta

spingendo l’Europa?

La rilevanza assunta nell’attuale fase del processo d’integrazione comunitaria

dalle fonti di soft law1, intervenute ad infrangere il monopolio tradizionalmente

esercitato dalla tecnica di armonizzazione dei sistemi normativi con una determinazione

che non lascia dubbi sulla loro progressiva ascesa, suggerisce di cominciare proprio da

qui la ricerca delle indicazioni utili per abbozzare una risposta a tale domanda. Al centro

dell’attenzione, più in particolare, dev’essere posto quel processo di carattere ibrido (a

metà strada, cioè, tra la cooperazione intergovernativa e la centralizzazione a livello

sopranazionale: v. Bano 2003, p. 59 e Ravelli 2006, p. 69) volto a determinare la

graduale convergenza delle politiche nazionali verso le finalità dell’Unione che, sotto il

nome di metodo aperto di coordinamento (MAC), pare ormai rappresentare l’archetipo

della nuova governance europea (così Lo Faro e Andronico 2005, p. 514).

* Il saggio è stato elaborato nell’ambito del progetto Prin 2004 “Sviluppo dell’occu pazione e tutela del posto di lavoro. La conciliazione possibile tra flessibilità e stabilità”, coordinato da M.V. Ballestrero. I primi risultati della ricerca sono stati presentati nel Convegno di studi svoltosi a Rovigo (24 e 25 febbraio 2006). 1 V. in tal senso il Libro bianco sulla governance europea adottato dalla Commissione europea il 5 agosto 2001, COM (2001) 428 def., p. 21.

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Ideato per assecondare esigenze regolative non soddisfabili dalle norme uniformi,

precettive ed eteronome prodotte mediante i classici strumenti di hard law, questo

metodo, definito “aperto” per sottolineare lo spazio di libertà di cui godono gli Stati

membri durante il suo svolgimento e l’importanza riposta nell’attiva partecipazi one alle

decisioni dei destinatari delle stesse2, costituisce l’intelaiatura giuridica della «strategia

coordinata a favore dell’occupazione» istituita ad Amsterdam, con l’inserimento nel

Trattato comunitario del Titolo VIII (artt. 125-130), e venuta concretamente alla luce

con il Consiglio europeo di Lussemburgo del novembre 19973. La finalità di tale

strategia, come chiarisce l’articolo di apertura del nuovo Titolo dedicato

all’occupazione, è di realizzare, tramite la «promozione di una forza lavoro compe tente,

qualificata, adattabile e di mercati del lavoro in grado di rispondere ai mutamenti

economici», i fondamentali obiettivi indicati dall’art. 2 Tce: tra i quali, in particolare,

«un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, il miglioramento del tenore e

della qualità della vita, la coesione economica e sociale e la solidarietà tra Stati

membri». Entro quest’orizzonte teleologico 4, autorità comunitarie e singoli Stati sono

chiamati a cooperare secondo le modalità previste dalla sequenza procedurale di tipo

circolare scandita dall’art. 128 Tce e costellata da un insieme di atti riconducibili a

quell’universo eterogeneo di regole non giustiziabili e contenutisticamente non

stringenti racchiuso nel concetto di soft law5.

Strumenti di diritto “leggero” sono infatti, ripercorrendo le diverse tappe

istituzionali in cui si articola la Strategia europea per l’occupazione (SEO), gli

orientamenti elaborati dal Consiglio, su proposta della Commissione e in coerenza con

2 Secondo la «nuova “dottrina dell’integrazione” europea» (così ha battezzato l’insieme degli studiosi del MAC Barbera 2006, p. 9), il coinvolgimento nel processo deliberativo dei soggetti cui compete l’attuazione delle decisioni assunte, facendo venir meno quella netta separazione fra le fasi di produzione e di applicazione delle norme caratteristica del metodo comunitario classico, dovrebbe porre rimedio ai limiti mostrati da quest’ultimo in punto sia di legittimazione politica (per l’asserita insufficienza degli interessi rappresentati in sede di formazione delle regole: il cosiddetto deficit democratico) che di effettività (non bastando la previsione di sanzioni ad impedire la violazione di tali regole). Come attestato anche dalle più recenti analisi (v. Szyszczak 2006, p. 499; Ravelli 2006, p. 96 s. e 105; Barbera 2005, p. 352 s.), tuttavia, la valorizzazione del momento partecipativo promessa dal MAC ha sinora stentato a tradursi in realtà. 3 Fu in quel vertice straordinario sull’occupazione, infatti, che venne decisa, con largo anticipo rispetto alla data prevista per l’entrata in vigore dell’insieme del Trattato di Amste rdam, l’immediata nascita della strategia contemplata nel Titolo VIII, per questa ragione denominata anche “processo di Lussemburgo”. 4 Orizzonte che l’art. 127 Tce sente l’esigenza di sintetizzare richiamando in via esclusiva, per ben due volte, l’obietti vo di «un elevato livello di occupazione». 5 Per una ricostruzione di tale concetto con specifico riguardo al diritto comunitario v., oltre a Bano (2003), l’approfondito lavoro monografico di Senden (2004).

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gli indirizzi economici generali stabiliti ai sensi dell’art. 99.2 Tce, per guidare le

politiche nazionali in materia d’occupazione; i piani predisposti dagli Stati membri alla

luce delle guidelines comunitarie (originariamente denominati piani d’azione nazionali

e riguardanti solo l’occ upazione; confluiti dal 2005 nei programmi nazionali di riforma

concernenti anche la politica economica); le raccomandazioni che il Consiglio può

rivolgere ai singoli Stati a seguito dell’esame sull’attuazione delle politiche nazionali

per l’occupazione; n onché, infine, la relazione comune di Consiglio e Commissione «in

merito alla situazione dell’occupazione nella Comunità e all’attuazione degli

orientamenti» scaturente dal suddetto esame e trasmessa al Consiglio europeo, che si

riunisce ogni primavera, in vista della formulazione delle conclusioni destinate a

costituire la base di riferimento per gli orientamenti del ciclo successivo.

Nel complesso del soft law prodotto nei diversi ambiti di applicazione del MAC6,

quello inerente alle politiche per l’occup azione rappresenterebbe più esattamente,

secondo qualcuno, «l’estremo hard»7; non sembra trattarsi, tuttavia, di una tesi

unanimemente condivisa, se è vero che non manca chi riferisce proprio ai frutti della

SEO l’osservazione (di per sé di carattere più g enerale) per cui «il soft law è una specie

di … elastico che si presta ad essere tirato come si vuole» (così Roccella 2006a, p.

112)8. Quale che sia il punto di vista preferibile, ad ogni modo, certo è che agli

orientamenti messi a punto per coordinare le politiche nazionali in materia

d’occupazione non possono disconoscersi quei connotati di flessibilità e scarsa

determinatezza tipici di un metodo di regolazione imperniato sulla fissazione di linee

guida anziché di dettagliate prescrizioni: il che, in qualche misura, rende di marginale

interesse la controversa questione della rispondenza della riforma del mercato del lavoro

realizzata dal d. lgs. 276/2003 agli inputs della Strategia europea per l’occupazione

(espressamente richiamata, addirittura, nell’arti colo di apertura dello stesso testo

6 Al Consiglio europeo di Lisbona (23-24 marzo 2000), ove fu ufficialmente coniato il termine “metodo aperto di coordinamento”, venne infatti decisa l’estensione del meccanismo sperimentato per le politiche occupazionali ad altre materie (inclusione sociale, previdenza, immigrazione, ambiente, sanità, istruzione, innovazione, società dell’informazione, fisco). 7 Ciò, come chiarisce Caruso (2005, p. 81), «sia per il rilievo costituzionale che la SEO riceve dalla sua cristallizzazione regolativa nel Trattato, sia per i concreti risultati registrati dopo la fase di avvio e assestamento». In senso analogo v. Leighton (2005, p. 63). 8 Sulla stessa lunghezza d’onda sembra assestata Saraceno (2005) secondo cui le parole contenute negli orientamenti, pur appartenendo ad un vocabolario comune, vengono di fatto adoperate dagli Stati membri per conseguire obiettivi diversi.

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normativo)9, nonché le divergenze di vedute sulla matrice comunitaria di determinati

interventi legislativi posti in essere negli altri Stati dell’Unione 10.

Prima e assai più che il rapporto intercorrente fra gli orientamenti in materia di

occupazione e le misure adottate negli ordinamenti nazionali in “attuazione” degli

stessi, del resto, le vivaci dispute che attraversano la dottrina europea investono

l’effettiva natura e funzione del MAC: meccanismo virtuoso, secondo ta luni, capace di

offrire, grazie al superamento dei limiti mostrati dal metodo comunitario classico, un

insostituibile contributo alla costruzione dell’Europa sociale; meccanismo pericoloso,

secondo altri, che, ove non finisca per ridursi ad una “tigre di c arta” (avida divoratrice

di ingenti quantità di tempo e di risorse), potrebbe innescare una deriva deregolativa

dagli esiti devastanti per il futuro del cosiddetto modello sociale europeo11.

Per contrastare il rischio di una regulatory competition, valorizzando

l’indispensabile dimensione sociale del processo d’integrazione, da più parti (v.

Barbera 2005, p. 354 ss.; De Schutter 2005; Klosse 2005, p. 30 ss.) si propone

d’irrobustire il metodo di coordinamento facendo leva sui diritti fondamentali

“costituzi onalizzati” con l’inserimento nel nuovo Trattato della Carta di Nizza 12; mentre

qualcun altro, in vista di simile rafforzamento, invita a prendere in considerazione

l’ hard law (v., in termini diversi, Scharpf 2002 e Velluti 2005, p. 454 ss.), giungendo

così a rimarcare, di fatto, l’essenziale funzione tuttora svolta dall’armonizzazione

legislativa.

9 Tale rispondenza, fermamente sostenuta – com’è naturale – dagli studiosi che hanno ideato e messo a punto la cosiddetta riforma Biagi (v. Sacconi, Reboani, Tiraboschi 2004; Tiraboschi 2005, p. 155 s.), è invece rinnegata da ampia parte della dottrina, giuslavoristica (v. ad esempio Guarriello 2004, p. 383 s.) ma non solo (tra i politologi v., con riferimento al Libro bianco pubblicato dal Ministero del lavoro nell’ottobre 2001 ad illustrazione de ll’intervento riformatore in corso di preparazione, Ferrera e Sacchi 2005, p. 62). 10 Sui dubbi avanzabili, ad esempio, a proposito della coerenza con gli orientamenti SEO del contrat nouvel embauche francese v. De La Rosa (2005, p. 1217 s.). 11 Per una sintetica illustrazione degli opposti punti di vista dei sostenitori e dei detrattori del MAC v. Trubek e Trubek (2005, p. 351-356); un tentativo di valutazione della funzionalità di tale metodo nella difesa dei diritti sociali è approfonditamente svolto, invece, nel volume curato da De Schutter e Deakin (2005). 12 Come efficacemente spiegato da Lo Faro e Andronico (2005, p. 520 s.), l’abbinamento con i diritti fondamentali «appare così irresistibilmente attraente agli occhi di entusiasti e scettici del metodo aperto di coordinamento perché conferma le istanze di “unità nella diversità” valorizzate dai primi, attutendo al contempo i timori di diversità senza unità paventati dai secondi. E, in effetti, cosa c’è di più solido e rassicurante di un argine alle derive regolative costituito da un catalogo di diritti sociali fondamentali finalmente equiparati, in virtù del principio di indivisibilità, ai diritti civili e politici?»

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È proprio sul tradizionale terreno dell’ hard law, ove pure sono chiaramente

percepibili i segni dell’ammorbidimento regolativo realizzatosi nell’ultimo decennio 13 ,

che la ricerca sullo spazio riservato al valore della stabilità del lavoro dall’ordinamento

comunitario, evidentemente, deve proseguire. Qui, a fronte di misure legislative che –

con la sola eccezione della direttiva n. 99/70 sul lavoro a tempo determinato –

affrontano il problema del mantenimento dell’occupazione solo tangenzialmente e in

modo del tutto parcellizzato (come s’illustrerà infra, par. 4), un ruolo di primo piano ha

assunto, soprattutto negli anni più recenti, la giurisprudenza della Corte di giustizia: il

che spiega perché, nell’esame dell’ acquis communautaire sul tema in oggetto, sia

proprio la giurisprudenza a fare la parte del leone, tracciando le linee di un paesaggio

che risulterebbe altrimenti alquanto desolato.

Decisamente movimentato, al contrario, è il quadro che si presenta quando si cala

la domanda da cui si sono prese le mosse nel contesto del processo di coordinamento

delle politiche occupazionali delineato nel Titolo VIII del Trattato. Misurarsi con la

questione “stabilità versus flessibilità” significa infatti andare dritto al cuore di tale

processo, se è vero che l’idea di “flessibilità nella sicurezza” (o “flessibilità mite”,

secondo la denominazione introdotta da Caruso 2000) «costituisce la trama di fondo

dell’intera strat egia europea» (Barbera 2000, p. 150) e la più nitida espressione della sua

ispirazione nella filosofia della cosiddetta “terza via”: la quale, destreggiandosi (talora

goffamente) tra spinte neoliberiste alla deregolamentazione del mercato del lavoro e

volontà di difesa dei principi cardine del modello sociale europeo, si propone di

contemperare l’esigenza delle imprese di adattarsi flessibilmente ed efficacemente alle

trasformazioni dell’economia, per rispondere alle sfide della competizione globale, con

la garanzia ai lavoratori di una «ragionevole sicurezza, … ritenuta essenziale per il

benessere dei singoli e per la coesione sociale»14.

I termini nei quali deve realizzarsi il richiesto compromesso fra flessibilità e

sicurezza sono indicati solo genericamente, rimettendosene la puntuale determinazione

agli Stati membri e, in particolare, alle parti sociali, sul presupposto che un ruolo

13 Mediante le direttive di recepimento degli accordi collettivi europei che, per il contenuto prescrittivo relativamente “leggero” da cui sono caratterizzate, possono considerarsi fonti del diritto a metà strada tra l’ hard e il soft, com’è generalmente riconosciuto (v. per tutti Bano 2003, p. 67 -69). 14 Sulla scelta della “terza via” sottesa al la SEO v. Kenner (1999), Treu 2001 (in particolare p. 24, da cui è tratta la breve citazione riportata nel testo, p. 83 e p. 96), Caruso (2000, p. 143 s.), Perulli (2002, pp. 350-352).

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centrale spetti in proposito al metodo della concertazione (Treu 2001, p. 96)15.

L’innegabile tensione che percorre il model lo comunitario di flexicurity non approda,

infatti, ad una soluzione univoca e lineare: e proprio in ciò, verosimilmente, sta la

spiegazione del fatto che, dei quattro pilastri (occupabilità, imprenditorialità, adattabilità

e pari opportunità) sui quali – durante il quinquennio iniziale del processo di

Lussemburgo – sono stati imperniati gli orientamenti per l’occupazione, è stato il terzo

– quello che, com’è noto, individua appunto nella “flessibilità nella sicurezza” la chiave

per fronteggiare la necessità delle imprese e dei lavoratori di adattarsi alle

trasformazioni della produzione e dei mercati – ad aver suscitato le maggiori

discussioni.

Partendo dalla consapevolezza che sarebbe vano il tentativo di ricostruzione di un

modello unitario e compiuto di flexicurity, essendo lo stesso geneticamente predisposto

ad una pluralità di interpretazioni16, occorre adesso guardare più da vicino al contenuto

di questa fortunata formula, per comprendere in che modo e in quale misura il valore

della stabilità del lavoro trovi spazio al suo interno.

2. Il paradigma della flexicurity nella Strategia europea per l’occupazione: quale

flessibilità e quale sicurezza?

Come si addice ad un’idea rientrante nello stesso DNA della SEO, la

sollecitazione ad introdurre nei mercati del lavoro nazionali più flessibilità

accompagnata dalla garanzia di un adeguato standard di sicurezza attraversa il processo

di coordinamento delle politiche occupazionali, ormai prossimo al suo decimo

compleanno, come un imperterrito leitmotiv: il cui contenuto, peraltro, non è rimasto

completamente immutato nel corso del tempo.

Il paradigma della flexicurity ricorrente nelle guidelines sull’occupazione, infatti,

mentre ha subito semplici cambiamenti di collocazione topografica in corrispondenza

15 Per nulla casuale è la circostanza che in Olanda, Paese ove l’idea di flexicurity ha cominciato a farsi strada ben prima di essere sponsorizzata dalla SEO e che per questo ne è considerata da molti l’autentica patria, la legge sulla flessibilità e sicurezza entrata in vigore il 1° gennaio 1999 sia stata messa a punto col determinante contributo delle parti sociali, firmatarie in precedenza di un articolato accordo in materia (v. Wilthagen e Tros 2004, pp. 172-176). 16 Sui diversi percorsi seguiti dagli Stati membri nel tradurre in pratica la ricetta politica della flexicurity v., con riguardo rispettivamente alla Danimarca, all’Olanda e alla Germania, Madsen (2004), Van Oorschot (2004), Keller e Seifert (2004).

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delle modifiche apportate a più riprese alla struttura del processo di Lussemburgo al fine

di rafforzarne l’efficacia e di intensificarne il nesso con il ciclo di programmazione delle

politiche economiche (previsto nel Titolo VII del Trattato), ha conosciuto alcune

variazioni contenutistiche in conseguenza dell’evoluzione politica vissuta dalla SEO,

ovvero delle diverse priorità d’azione sulle quali è stata via via focalizzata l’attenzione

delle istituzioni comunitarie e nazionali, senza che neanche da questo punto di vista,

comunque, come emergerà dal breve excursus qui effettuato, si siano mai registrati

autentici colpi di scena17.

Dopo il triennio (1998-2000) che ha visto l’avvio e l’entrata a regime del MAC

delle politiche per l’occupazione 18, triennio durante il quale le guidelines contenute nel

pilastro “adattabilità” sono rimaste ferme nel sollecitare una modernizzazione

dell’organizzazione del lavoro basata sull’introduzione, in via contrattualcollettiva, di

formule più nuove e flessibili di lavoro («al fine di rendere le imprese produttive e

competitive e di raggiungere il necessario equilibrio tra flessibilità e sicurezza»19),

nonché sull’introduzione, in via legislativa, di «tipi di contratto più flessibili» («per

tener conto del fatto che l’occupazione riv este forme sempre più diversificate», senza

rinunciare però ad assicurare ai lavoratori interessati da detti contratti una «sicurezza

sufficiente e … un migliore status professionale, compatibilmente con le necessità delle

imprese»), una secchiata d’acqua fresca è stata vigorosamente gettata sulla SEO, in

verità, dal Consiglio europeo di Lisbona (del 23 e 24 marzo 2000). Fissando all’Europa

l’ambizioso obiettivo di divenire, nell’arco di un decennio, «l’economia della

conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, capace di una crescita economica

duratura accompagnata da un miglioramento quantitativo e qualitativo dell’occupazione

e da una maggiore coesione sociale»20, il Consiglio di Lisbona ha richiamato infatti

17 Nel contesto di un processo politicamente aperto ma tendenzialmente impermeabile a bruschi scossoni, quale sembra esser stato sinora il processo di Lussemburgo, del resto, non stupisce che le differenze riscontrabili nelle indicazioni sulla “flessibilità nella sicurezza” susseguitesi da un ciclo all’altro assomiglino più a sfumature che a vistosi mutamenti di colore. 18 Rispettivamente, con la risoluzione del Consiglio del 15 dicembre 1997 concernente gli orientamenti in materia di occupazione per il 1998 e, entrato ormai in vigore il Trattato di Amsterdam, con la decisione del Consiglio del 13 marzo 2000 (2000/228/CE) concernente gli orientamenti in materia di occupazione per il 2000. 19 Tra i temi suggeriti alle parti sociali per la negoziazione compaiono l’annualizzazione dell’orario di lavoro, la riduzione del lavoro straordinario, lo sviluppo del part-time, l’accesso a formazione continua e interruzioni di carriera. 20 La citazione è tratta dalle Conclusioni della Presidenza di tale Consiglio europeo, par. 5.

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l’attenzione, assorbita fino a quel momento dalla preoccupazione di creare more jobs,

sulla necessità di promuovere anche better jobs.

Il risalto senza precedenti accordato in quest’occasione alla qualità del lavoro ha

alle sue spalle precise ragioni: oltre a rappresentare – nell’ottica di un mod ello sociale

propenso a considerare le aspirazioni professionali dei lavoratori – un valore di per sé,

la qualità del lavoro viene infatti ritenuta fattore propulsivo sia della crescita economica,

attraverso l’aumento della produttività delle imprese che è in grado di determinare, sia

dell’inclusione sociale, per la sua capacità di spezzare quel circolo vizioso tra

occupazioni di serie C, disoccupazione ed emarginazione sociale avente ripercussioni

evidentemente molto pesanti sui mercati del lavoro e i bilanci pubblici nazionali. Nella

misura in cui la qualità dell’occupazione riesce a incentivare la partecipazione al

mercato del lavoro dei soggetti che ne erano ai margini e ad impedire le transizioni dalla

vita attiva all’esclusione sociale, in definitiva, essa dovrebbe influire positivamente

sulla quantità di occupazione, il cui aumento resta al centro del programma definito a

Lisbona, come dimostra la fissazione, per la prima volta, di specifici targets di presenza

sul mercato del lavoro21.

La questione della qualità del lavoro, ripresa e sviluppata dall’Agenda per la

politica sociale varata al Consiglio europeo di Nizza (del dicembre 2000)22, condiziona

sensibilmente il tenore degli orientamenti per l’occupazione dei due cicli successivi al

vertice di Lisbona: dapprima, nel 2001, arricchendo con nuove puntualizzazioni il

contenuto delle guidelines del pilastro “adattabilità” 23 (e anche, sebbene meno

21 A Lisbona viene infatti affidato all’Unione europea l’impegnativo compito di conseguire, entro il 2010, un tasso di occupazione generale pari al 70% e un tasso di occupazione femminile pari al 60%. A questi obiettivi, sui quali il Consiglio europeo di Stoccolma (del marzo 2001) innesta una tappa intermedia (stabilendo che entro il 2005 il tasso di occupazione generale debba aver raggiunto il 67% e quello di occupazione femminile il 57%), si aggiunge poi, sempre a Stoccolma, quello di arrivare al 2010 con un tasso di occupazione degli anziani (cioè di persone in età compresa fra i 55 e i 64 anni) del 50%. 22 L’Agend a risultante dalla comunicazione della Commissione – COM (2000) 379 def. del 28 giugno 2000 – approvata al vertice di Nizza, dominata dalla sottolineatura dello stretto legame esistente tra la protezione sociale (considerata non zavorra ma elemento produttivo) e la forza economica dell’Europa, indica infatti la necessità di promuovere al tempo stesso la qualità del lavoro, la qualità della politica sociale e la qualità delle relazioni industriali. 23 Nella parte del terzo pilastro dedicata alla modernizzazione dell’organizzazione del lavoro (di cui si è già detto supra), in particolare, si afferma: con riferimento agli accordi tra le parti sociali, che devono puntare all’obiettivo «di rendere le imprese produttive e competitive, di raggiungere il necessario equilibrio tra flessibilità e sicurezza e di migliorare la qualità del lavoro» (corsivo di chi scrive), includendosi nell’esemplificazione dei temi da affrontare «la sicurezza del posto di lavoro»; con riferimento alle tipologie contrattuali flessibili che possono essere introdotte in via legislativa, invece, che devono comunque offrire agli interessati «una sicurezza adeguata e … un migliore status professionale,

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marcatamente, quelle del pilastro “pari opportunità”) 24; l’anno seguente, ferme restando

le suddette acquisizioni, divenendo protagonista di uno degli obiettivi orizzontali, cioè

di portata generale, frattanto affiancati ai quattro pilastri della SEO25.

È nel contesto di questo nuovo obiettivo, tra l’altro, che vengono richiamate le

componenti essenziali della qualità del lavoro selezionate dalla Commissione nella

comunicazione del 20 giugno 200126 al fine di rendere più comprensibile, in concreto,

un «concetto relativo e al contempo pluridimensionale» come quello in oggetto e di

consentire, tramite il riferimento agli indicatori che accompagnano ciascuna

componente, la valutazione delle situazioni nazionali (cioè un difficile esercizio di

benchmarking nel campo della politica sociale: v. Ravelli 2006, p. 85 ss.). Illustrando i

dieci aspetti chiave da prendere in considerazione, concernenti sia le caratteristiche

specifiche del posto di lavoro che, più in generale, l’ambiente di lavoro e le condizioni

del mercato27, la Commissione ha chiaramente voluto «mettere un po’ di carne sulle

ossa» del discorso, sino a quel momento solo teorico, in tema di qualità del lavoro.

L’esperienza della SEO sin qui sviluppata, tuttavia, conferma la sfiducia nei confronti di

un’autentica svolta all’insegna dei better (e non soltanto more) jobs subito manifestata

da una parte della dottrina28. Nel percorso sulla qualità dell’occupazione compiuto nel

nuovo secolo dall’Europa si ritrovano, infatti, molti inciampi e cadute, come si cercherà

di mettere in evidenza (nel par. seguente) soffermando l’attenzione su quel cruciale

compatibilmente con le esigenze delle imprese e con le aspirazioni dei lavoratori» (corsivo ancora di chi scrive). 24 Nella parte del quarto pilastro concernente la conciliazione tra vita professionale e familiare, difatti, si invitano gli Stati membri a «fare in modo che le donne possano beneficiare di formule flessibili di organizzazione del lavoro, su base volontaria e senza che la qualità dell’impiego ne risenta» (il corsivo, anche in questo caso, evidenzia l’innovazione rispetto al passato). 25 Negli orientamenti per l’occupazione adottati con la decisione del Consiglio del 18 febbraio 2002 (2002/177/CE), infatti, il secondo obiettivo orizzontale (aggiunto ai 5 dell’anno precedente a seguito della sollecitazione in tal senso formulata dal Consiglio europeo di Stoccolma) è di «mantenere e migliorare la qualità del lavoro». 26 COM (2001) 313 def., intitolata Politiche sociali e del mercato del lavoro: una strategia d’investimento nella qualità e aperta dall’altisonante affermazione che «l’idea di base del modello sociale europeo è la qualità». 27 Nella categoria «caratteristiche del posto di lavoro» rientrano, in particolare, i seguenti profili: qualità intrinseca del lavoro; qualifiche, formazione lungo l’intero arco della vita e carriera professionale. Nella categoria «ambiente di lavoro e condizioni del mercato del lavoro» rientrano invece: parità di trattamento di uomini e donne; protezione della salute e della sicurezza sul lavoro; flessibilità e sicurezza; integrazione tramite il lavoro e accesso al mercato del lavoro; organizzazione del lavoro ed equilibrio tra sfera professionale e sfera privata; dialogo sociale e partecipazione dei lavoratori; diversificazione e non discriminazione; risultati economici generali e produttività (corsivo di chi scrive). 28 V. Goetshy (2001, p. 412) e Kenner (2003, p. 495 s.), dal cui scritto (p. 493) è tratta anche l’espressione riportata tra virgolette nella frase precedente.

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ingrediente della «sicurezza» (per usare la terminologia del processo di Lussemburgo;

ma si potrebbe anche parlare, rifacendosi alla letteratura sociologica, di job satisfaction)

rappresentato dalla stabilità del lavoro.

Nonostante le riserve che possono essere espresse a proposito dell’effettiva

valorizzazione, nel contesto del MAC delle politiche occupazionali, della dimensione

qualitativa del lavoro, ad ogni modo, non v’è dubbio che quest’ultima continui a

ricevere attenzione negli orientamenti adottati a seguito delle riforme messe a punto,

dopo il primo quinquennio di sperimentazione della SEO, per migliorarne l’efficacia –

essenzialmente tramite la semplificazione delle guidelines e la loro collocazione in una

prospettiva triennale – e irrobustirne sempre più marcatamente il legame con il processo

di coordinamento delle politiche economiche, fino a giungere, nel 2005, al varo da parte

del Consiglio di «linee direttrici integrate» in tema di macroeconomia, microeconomia e

occupazione, tutte con durata triennale29.

Negli orientamenti per il 2003 (la cui validità è stata estesa anche al 2004, in

sintonia con l’ottica di medio termine che si è scelto di abbracciare) 30, ove non si

ritrovano più i quattro pilastri articolati nella lunga serie di guidelines (nè gli obiettivi

orizzontali che li precedevano), il miglioramento della «qualità e produttività sul posto

di lavoro» costituisce infatti uno dei tre obiettivi generali e interrelati che traducono le

priorità indicate a Lisbona e che trovano svolgimento (soltanto) in dieci orientamenti

specifici. Negli orientamenti per l’occupazione 2005 -2008 che, grazie alla saldatura

realizzatasi nel frattempo tra il processo di Lussemburgo e il processo di Cardiff, come

s’è anticipato, formano un tutt’uno con gli indirizzi di massima per le pol itiche

29 Il processo di riforma che ha investito la SEO si articola in due fondamentali tappe: la prima, innescata dalla richiesta formulata dal Consiglio europeo di Barcellona (del 15 e 16 marzo 2002) di rafforzare e snellire la strategia in questione e di sincronizzare il calendario previsto per l’adozione degli orientamenti per l’occupazione con quello riguardante gli indirizzi di massima per le politiche economiche, concretizzatasi nelle scelte effettuate dal Consiglio europeo di Bruxelles (del 20 e 21 marzo 2003), chiaramente riflesse negli orientamenti di quell’anno; la seconda, maturata nel contesto del rilancio della strategia di Lisbona deciso – col rimettere al centro la crescita e l’occupazi one – dal Consiglio europeo tenutosi ancora a Bruxelles (il 22 e 23 marzo 2005), ove s’è proseguito il già intrapreso percorso di razionalizzazione dei processi di coordinamento delle politiche economiche ed occupazionali, optando per la presentazione in un insieme integrato degli indirizzi di massima e degli orientamenti relativi rispettivamente alle une e alle altre. 30 La decisione del Consiglio del 4 ottobre 2004 (2004/740/CE) si è infatti limitata a dichiarare mantenuti gli orientamenti per le politiche a favore dell’occupazione adottati con la decisione del Consiglio del 22 luglio 2003 (2003/578/CE).

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economiche definiti ai sensi dell’art. 99 TCE 31, lo stesso obiettivo compare poi, insieme

alle altre due priorità dell’agenda di Lisbona (la piena occupazione e il potenziamento

della coesione economica e sociale), in cima all’elenco dei suggerimenti rivolti agli

Stati membri (cioè nel diciassettesimo orientamento integrato, il primo in materia di

occupazione). L’integrale lettura di questi orientamenti, soprattutto se contestualizzata

nel clima che pare avvolgere gli ultimi atti prodotti nell’ambito della SEO, suscita

tuttavia più di un dubbio sulla circostanza che, in una fase caratterizzata dalla stentata

crescita economica e dalla consapevolezza dell’enorme distanza che separa l’Europa dai

targets occupazionali stabiliti per il 201032, la qualità del lavoro rimanga realmente al

top delle preoccupazioni delle autorità comunitarie33.

Quanto alla flexicurity che, oltre ad essere stata annoverata tra le componenti

essenziali della qualità del lavoro, costituiva il nocciolo del terzo pilastro, va detto che

nella seconda fase di vita della SEO essa, mentre continua a restare al centro delle

indicazioni sulla promozione dell’adattabilità, comincia a diversificare il proprio

contenuto rispetto al passato34.

Negli orientamenti del 2003, in particolare, per stimolare la capacità di lavoratori e

imprese di adattarsi ai cambiamenti (oggetto del terzo orientamento specifico), viene

suggerito agli Stati membri di sottoporre a revisione e, ove opportuno, riformare «gli

elementi eccessivamente restrittivi della normativa del lavoro che incidono sulla

dinamica del mercato del lavoro e sull’occupazione delle categorie che incontrano

difficoltà nell’accedere al mercato stesso», anticipandosi così, in qualche misura, quella

direttrice di ammorbidimento delle discipline lavoristiche (relative essenzialmente ai

31 Nonostante la diversità formale degli atti con cui gli uni e gli altri sono adottati: con decisione del Consiglio del 12 luglio 2005 (2005/600/CE) i primi, con raccomandazione del Consiglio del 12 luglio 2005 (2005/601/CE) i secondi. 32 Tale consapevolezza emerge chiaramente anche dalla dichiarazione, contenuta nel secondo considerando della decisione del Consiglio del 12 luglio 2005, citata alla nota precedente, che gli obiettivi della strategia di Lisbona «rimangono lungi dall’essere conseguiti». 33 Sul cambiamento “climatico” ormai intervenuto rispetto al Consiglio europeo di Lisbona v., con puntuali riferimenti ai contenuti degli atti della SEO, Ravelli (2006, p. 85) e Roccella (2006b, p. 44 s.). Un segnale in senso opposto, tuttavia, sembra emergere nella relazione comune sull’occupazione 2005/2006 (p. 7), ove è stigmatizzato l’impegno ancora troppo modesto degli Stati membri, seriamente determinati ad accrescere i tassi d’occupazione, sul fronte della qualità del lavoro e della coesione sociale. 34 Secondo Roccella (2006b, p. 44) i termini di simile diversificazione, imputabile soprattutto agli stimoli provenienti dal rapporto redatto nel 2003 dall’ Employment Taskforce (di cui alla nota seguente), possono essere riassunti constatando l’ascesa «al primo posto (del)le politiche di flessibilità del mercato del lavoro, anche in relazione ai profili più controversi, quali quelli attinenti alle modalità di fissazione dei livelli salariali e alla disciplina dei licenziamenti». Di queste specifiche declinazioni della flessibilità si

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contratti di lavoro subordinato standard), ritenute troppo vincolanti per i datori di

lavoro, che troverà ampia espressione, qualche mese più tardi, nel rapporto della

Taskforce europea per l’occupazione presieduta dal l’ex primo ministro olandese Wim

Kok35. Nello stesso documento e sempre in tema di adattabilità, d’altro canto, compare

per la prima volta quella sollecitazione a migliorare la capacità di «anticipazione e

gestione costruttiva del cambiamento economico e della ristrutturazione» che verrà

costantemente ribadita da tutti i successivi atti del processo di Lussemburgo36, compresi

gli orientamenti integrati per la crescita e l’occupazione 2005 -2008. Qui l’obiettivo di

«favorire al tempo stesso flessibilità e sicurezza occupazionale», abbinato a quello di

«ridurre la segmentazione del mercato del lavoro», è diventato protagonista di un

orientamento autonomo (il ventunesimo), mentre l’accrescimento dell’attitudine di

lavoratori e imprese ad adattarsi alle trasformazioni è compreso nella triade di azioni da

realizzare prioritariamente per perseguire le finalità stabilite a Lisbona: ma forse, anche

se non è ufficialmente dichiarato, soprattutto quella dell’aumento dell’occupazione 37.

Tirando le somme dall’esame della SE O che si è sinteticamente riferito, diventa

possibile, a questo punto, illustrare quali siano i significati dei concetti di flessibilità e

sicurezza ricorrenti nel soft law comunitario.

Cominciando dalla flessibilità, parola che – come ben sanno i sociologi – conosce

molteplici applicazioni in riferimento alla sfera del lavoro38, si deve constatare che

anche nell’ambito della Strategia europea essa risulta variamente declinata. Non v’è

tratterà comunque nel seguito (del presente par. e, per quanto riguarda i licenziamenti, anche in quello successivo). 35 L’ Employment Taskforce, composta da esperti di diversi Stati membri e istituita (su richiesta del Consiglio europeo di Bruxelles del marzo 2003) allo scopo di individuare la “via maestra” per il potenziamento delle capacità della SEO – fino a quel momento, in verità, rivelatesi scarse – di determinare un innalzamento dei tassi d’occupazione, ha presentato alla Commissione europea il rapporto Jobs, Jobs, Jobs – Creating more employment in Europe il 26 novembre 2003. Sul contenuto di questo rapporto si avrà modo di soffermarsi nel par. seguente. 36 Per la denuncia dell’insufficiente attenzione riservata a questo problema v. le relazioni comuni sull’occupazione di Consiglio e Commissione 2003/2004 (in particolare pp. 35 e 95), 2004/2005 (p. 13) e 2005/2006 (p. 15), nonché la raccomandazione del Consiglio del 14 ottobre 2004 (2004/741/CE, nella parte dedicata al Belgio). 37 Il sospetto che il contemperamento tra le opposte istanze racchiuse nel paradigma della flexicurity si sia tendenzialmente realizzato, negli ultimi anni, riducendo il peso dell’esigenza di sicurezza riceve conferma, almeno per quanto riguarda le politiche per l’occupazione nazionali, dall’osservazione contenuta nella relazione comune sull’occupazione 2005/2006 (p. 15) per cui, mentre il «cuore dell’adattabil ità sta nel trovare il giusto equilibrio tra flessibilità e sicurezza, in modo da ridurre la segmentazione del mercato del lavoro, molti Stati membri affrontano questa priorità sottolineando l’aspetto della flessibilità per i datori di lavoro». 38 Per una sintetica ricognizione ed essenziali rimandi alla dottrina sociologica v. Caruso (2004, p. 13 s); sulla flessibilità come «espressione polisenso», da ultimo, anche Rusciano (2006, p. X s.).

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dubbio, anzitutto, dato l’accento ripetutamente posto sull’esigenza di a mmodernamento

dell’organizzazione del lavoro, che l’impegno richiesto agli Stati membri riguardi la cd.

flessibilità funzionale, cioè quella incidente sullo svolgimento del rapporto di lavoro.

Proprio in questa direzione, del resto, governi e parti sociali nazionali si sono attivati –

fruttuosamente, seppure in modo molto settoriale – sin dai primi anni del processo di

Lussemburgo, ricorrendo alla modulazione più flessibile dell’orario di lavoro (e

segnatamente all’annualizzazione dello stesso, con consegue nte riduzione degli

straordinari) come mezzo per «aumentare l’adattabilità all’andamento dell’attività

economica e quindi accrescere la sostenibilità dell’occupazione a lungo termine»,

secondo quanto si legge nel “Bilancio di cinque anni della Strategia eu ropea per

l’occupazione” 39.

La flessibilità che pare dominare la scena del processo di coordinamento delle

politiche occupazionali, riguardato nel suo intero sviluppo, è però quella cd. in entrata,

che punta sulla diversificazione delle tipologie contrattuali per rendere meno rigido e

standardizzato, e dunque più agevole, l’accesso al mercato del lavoro. Contratti di

lavoro part-time, contratti a termine e contratti di lavoro interinale sono le principali

entità che popolano quest’universo, rispetto al qua le – come emerge già dalle prime

relazioni comuni sull’occupazione 40 – i Paesi dell’Unione hanno mostrato in genere

grande interesse, seppure con profonde differenze dall’uno all’altro e in modo talora

squilibrato. Ciò spiega l’assidua presenza del tema del la flessibilità in entrata nelle

raccomandazioni rivolte dal Consiglio ai singoli Stati a seguito dell’esame dei piani

nazionali, ove ricorrono le sollecitazioni a potenziare l’utilizzo del lavoro a tempo

parziale e (da qualche anno a questa parte anche) del lavoro temporaneo, considerandosi

invece patologica la situazione di quei mercati nazionali in cui la diffusione del lavoro a

termine ha assunto proporzioni esagerate, tali da non lasciar dubbi sull’avvenuto

tradimento della linea della “flessibilità so stenibile” predicata dagli orientamenti per

l’occupazione 41.

39 COM (2002) 416 def., 17 luglio 2002, p. 15, ove tuttavia si registra la scarsa attenzione dedicata al tema dell’organizzazione del lavoro nel suo complesso. 40 Si fa riferimento, in particolare, alle relazioni del 2001 e del 2002. È sul duplice fronte dei sistemi flessibili di orario e dei contratti di lavoro non standard, in effetti, che si sono inizialmente concentrate, nell’ambito delle azioni suggerite nel pilastro sull’adattabilità, le iniziative degli Stati membri. 41 Ciò è chiaramente accaduto in Spagna e Portogallo, ove le percentuali di lavoro a tempo determinato superano tuttora, rispettivamente, le soglie del 30% e del 20%, a fronte di una media europea attestata nel periodo 2001-2003 intorno al 13% e giunta nel 2005, con riferimento agli ormai 25 Paesi dell’Unione, al

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Un discorso completamente diverso va fatto, invece, a proposito della flessibilità

cd. in uscita (l’altra faccia, accanto alla flessibilità in entrata, della cd. flessibilità

numerica o esterna), che chiama in causa i regimi di protezione dei lavoratori nei

confronti dei licenziamenti: un’autentica patata bollente, per la crucialità degli interessi

in gioco e le difformità di vedute presenti nell’Unione, non a caso accuratamente evitata

nei primi cicli della SEO e solo a seguito del rapporto Kok penetrata “in punta di piedi”

negli atti di quest’ultima (come si spiegherà nel par. seguente), restando peraltro del

tutto estranea agli orientamenti.

Forte impulso sembra aver ricevuto dallo stesso rapporto anche il tema della

flessibilità salariale (che costituisce, insieme alla flessibilità funzionale, il capitolo della

cd. flessibilità interna): dopo le caute indicazioni susseguitesi al riguardo nel

quinquennio iniziale del processo di Lussemburgo, infatti, le autorità comunitarie sono

passate a prese di posizione ben più nette, spingendosi addirittura al di là di quanto

richiesto in proposito dall’OCSE 42. Almeno su queste ultime due declinazioni della

flessibilità, dunque, è inevitabile constatare l’ev oluzione intervenuta nell’avvicendarsi

dei cicli di coordinamento delle politiche occupazionali.

Prendendo in considerazione, a questo punto, l’altro versante del paradigma della

flexicurity, va rilevata in primo luogo l’insistenza con la quale viene sott olineata

l’importanza di un’interpretazione dinamica, e non puramente statica, del concetto di

sicurezza, costretto a fare i conti con le rapide trasformazioni (economiche e produttive)

del mercato globalizzato: il che, a ben guardare, risulta in sintonia con la parola d’ordine

dell’adattabilità, intesa essenzialmente come capacità delle imprese e dei lavoratori di

affrontare il cambiamento in modo positivo43.

14,5%: v. il rapporto redatto nel 2006 dalla Commissione europea (in collaborazione con l’Eurostat) Employment in Europe 2006, Lussemburgo: Ufficio delle pubblicazioni ufficiali delle Comunità europee, p. 41, dal quale risulta anche la vertiginosa crescita di contratti a termine (dal 6% al 26%) intervenuta nel nuovo secolo in Polonia. 42 È questo il giudizio espresso da Casey (2004, p. 337), nell’ambito di un discorso volto a mettere in evidenza l’influenza esercitata sulla SEO dalla Job strategy dell’OCSE: a tale scritto si rimanda per maggiori spiegazioni sui termini in cui è affrontato, da ciascuna delle due strategie, il tema della flessibilità salariale. 43 V., a conferma, la comunicazione della Commissione sulla qualità già citata alla nota 26 (p. 9), ove si afferma che la finalità chiave della politica di flessibilità e sicurezza consiste nell’«incoraggiare un atteggiamento positivo nei confronti del cambiamento sul posto di lavoro e in genere sul mercato del lavoro, garantendo ai lavoratori, che perdono il loro impiego o cercano un’alternativa a questo, un sostegno adeguato».

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Dalle spiegazioni in tema di sicurezza contenute in diversi atti della Strategia

europea44 si evince chiaramente, infatti, l’esigenza di aggiornare e ampliare tale

concetto, per consentirgli di «coprire non solo la protezione dell’occupazione ma anche

lo sviluppo della capacità delle persone di mantenere un’occupazione e di progredire

professionalmente». Nell’idea di sicurezza fatta propria da Consiglio e Commissione

rientrano quindi, più in particolare, oltre alla tutela contro i licenziamenti ingiustificati e

alla disponibilità di una rete di sostegno in caso di perdita del posto di lavoro, l’accesso

a misure di formazione, la garanzia dell’inesistenza di discriminazioni (legate al tipo di

contratto stipulato, ma non solo), un salario adeguato, buone condizioni di lavoro e il

diritto alla conservazione, in caso di mobilità professionale, delle posizioni

previdenziali maturate: cosicché, tenuto conto della coincidenza di gran parte di questi

elementi con i componenti essenziali della qualità di cui s’è detto supra, non si può fare

a meno di rilevare la stretta contiguità dei concetti di lavoro sicuro e lavoro di qualità.

Alla luce delle indicazioni appena riferite risulta evidente, allora, che quella volta

a mitigare e controbilanciare l’auspicata maggiore flessibilità è una sicurezza che,

sebbene dinamica e tendenzialmente incentrata sul mercato del lavoro (come sembra

facile desumere – fra l’altro – dall’accento posto sulle politiche attive dell’impiego

nell’ambito del discorso sull’occupabilità), non si esaurisce affatto in esso, investendo

anche il rapporto di lavoro. Preso atto dell’ampio significato attribuito al concetto di

sicurezza dalla SEO, tuttavia, sarebbe difficile negare che al suo interno vi siano aspetti

particolarmente enfatizzati, il cui peso è andato progressivamente aumentando, anzi, nel

passaggio da un ciclo all’altro.

È questo, senza dubbio, il caso della formazione professionale (intesa soprattutto

come formazione continua) che, pur trovando la propria naturale sedes materiae nel

pilastro sull’occupabilità, già negli orientamenti adottati il mese successivo al vertice

straordinario di Lussemburgo “invade” le guidelines in tema di adattabilità45, giungendo

44 Si fa riferimento, in particolare, alle relazioni comuni sull’occupazione del 2002 (p. 46) e del 2003/2004 (p. 94, da cui è tratta la citazione riportata fra virgolette nel seguito del testo), oltre che alla comunicazione della Commissione del 26 novembre 2003, Migliorare la qualità del lavoro: un’analisi degli ultimi progressi (COM 2003-728 def., p. 16) e al rapporto della Taskforce europea per l’occupazione (p. 28). 45 Cfr. Reboani (2000, p. 158). C’è da tener presente, tra l’altro, che «mentre all’atto del varo della SEO l’occupabilità era percepita fondamentalmente come il rimedio per i disoccupati, gradualmente il concetto si è esteso ed ora riguarda l’intero arco della vita», come si legge nella comunicazione della Co mmissione sul bilancio dei primi cinque anni di strategia europea già citata in nota 39: ma per precisazioni in ordine a quest’affermazione v. Roccella (2006b, p. 9 s.).

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qualche anno dopo ad essere indicata quale componente fondamentale della sicurezza

ed «elemento essenziale dell’equilibrio tra flessibilità e sicurezza» 46.

Analoga ascesa, d’altrond e, ha conosciuto la questione della lotta alla

segmentazione del mercato del lavoro indotta dalla crescente diffusione dei contratti di

lavoro (comunemente detti) atipici, tendenzialmente accompagnati da trattamenti meno

favorevoli di quelli goduti dai lavoratori tipici, come attestato da diverse rilevazioni

statistiche47 e, in gran parte, differenziati dal modello standard essenzialmente in

ragione della loro durata temporanea. Portato alla ribalta dal rapporto presentato dalla

Taskforce europea per l’occup azione48, il problema dell’esistenza di un mercato del

lavoro a due velocità, dov’è molto difficile riuscire a spostarsi dal circuito contrattuale

caratterizzato da precarietà e scarsa protezione sociale a quello del lavoro stabile e ben

tutelato, ha infatti ricevuto ampia considerazione nelle raccomandazioni e nelle

relazioni comuni sull’occupazione degli anni successivi 49, fino a diventare – con gli

orientamenti integrati 2005-2008, come s’è già accennato – parte integrante e

fondamentale dell’indicazione s ulla flexicurity50.

È questo, in effetti, nell’ambito del discorso sulla sicurezza svolto dalla Strategia

europea, uno snodo di cruciale rilievo. Senza nulla togliere all’importanza della

formazione quale arma di difesa, per i lavoratori, dai rischi della disoccupazione e del

confinamento nel circuito più debole del mercato, difatti, è innegabile che la possibilità

46 V. rispettivamente la comunicazione della Commissione del 14 gennaio 2003, Il futuro della strategia europea per l’occupazione “Una strategia per il pieno impiego e posti di lavoro migliori per tutti” (COM 2003-6 def., p. 14), e gli orientamenti per il 2003 già richiamati in nota 30 (la citazione è tratta dal dodicesimo considerando). 47 Si v. ad esempio la comunicazione della Commissione del 26 novembre 2003 richiamata in nota 44, ove si osserva che «sebbene i lavori a tempo parziale e a tempo determinato possano agevolare il primo ingresso nel mercato del lavoro e la partecipazione ad esso per alcune categorie di persone, i dati raccolti finora mostrano che chi lavora con queste forme di contratto rischia discriminazioni a livello di retribuzione e di pensione e ha minori opportunità di partecipare alla formazione continua e di migliorare le prospettive di carriera» (così a p. 16). 48 Tra gli impegni suggeriti da tale rapporto, in via prioritaria, a Stati membri e parti sociali v’è infatti quello di «assicurare che vi sia un’adeguata sicurezza per i lavoratori nel contesto di tutte le forme di contratto, in modo da prevenire l’emergere di mercati del lavoro a due velocità». 49 Meritevole d’essere specificamente ricordata è la relazione comune sull’occupazione 2005/2006, che incentra sul problema in questione la sollecitazione a progredire nel cammino di valorizzazione della qualità del lavoro, spiegando (a p. 10) che sono «indispensabili ulteriori passi avanti per quanto riguarda … il passaggio dall’impiego temporaneo a quello a tempo indeterminato e la scomparsa dell’impiego sottopagato e della segmentazione del mercato». 50 L’obiettivo sinteticamente fissato dal ventunesimo orientamento è, infatti, quello di «favorire al tempo stesso flessibilità e sicurezza occupazionale e ridurre la segmentazione del mercato del lavoro, tenendo debito conto del ruolo delle parti sociali». Desta perplessità, tuttavia, il fatto che nella successiva illustrazione degli specifici aspetti sui quali occorre intervenire sia menzionata la questione del lavoro non dichiarato ma non quella, pure di centrale rilevanza, dei contratti atipici.

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di accesso ad un posto di lavoro contrattualmente stabile e assistito da adeguate garanzie

sotto il profilo normativo, retributivo e previdenziale rappresenti il nocciolo duro del

patrimonio di sicurezza cui aspira qualunque lavoratore: tanto più se atipico, data la

ricorrente associazione riscontrabile, nella cruda realtà del mercato, tra lavoro non

standard e lavoro dequalificato e precario (così, fra gli altri, Dore 2005, p. 49). La

semplice circostanza dell’assunzione con contratto a tempo indeterminato, d’altro canto,

non risulta sufficiente ad assicurare al lavoratore la disponibilità di quel patrimonio,

dipendente dall’insieme di condizioni che accompagnano lo svolgimento e la cessazione

del rapporto: ragion per cui sarebbe improprio instaurare un’automatica equazione tra

lavoro standard e lavoro stabile (in senso analogo Napoli 2002, p. 10 e Roccella 2006c,

p. 57).

Se si guarda alla sicurezza postulata dal paradigma comunitario della flexicurity

focalizzando l’attenzione sulla delicata dimensione della stabilità del lavoro, dunque,

finiscono per essere inevitabilmente due le direttrici lungo le quali va incanalata la

ricerca: trattandosi di verificare in che termini, nel soft law europeo in materia di

occupazione, venga preso in considerazione l’interesse dei lavoratori atipici, intrappolati

nel segmento debole del mercato, ad emanciparsi dai contratti precari, da un lato, e

quello dei lavoratori con un impiego a tempo indeterminato – e quindi potenzialmente

stabile – a godere di un’adeguata protezione rispetto al rischio di subire un

licenziamento ingiustificato, dall’altro.

3. Stabilità versus flessibilità in entrata e in uscita, ovvero a proposito di contenimento

della precarietà del lavoro a termine e di protezione nei confronti dei licenziamenti

Nonostante la correlazione, divenuta via via più evidente, tra la flessibilità in

entrata e l’infoltimento di un circuito di lavoro sottopro tetto di cui molti rimangono

prigionieri, la SEO non mostra alcun ripensamento rispetto all’incoraggiamento della

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prima51, riponendo evidentemente una certa fiducia nelle attitudini di job creation della

diversificazione delle tipologie contrattuali52.

Non tutte le forme di lavoro atipico, naturalmente, sono guardate con lo stesso

favore. Al vertice delle preferenze comunitarie si colloca, comprensibilmente, il lavoro

part-time, il cui sviluppo è stato sollecitato con forza sin dall’inizio del processo di

Lussemburgo, senza risparmiare energiche tirate d’orecchie ai Paesi ov’è scarsamente

diffuso53. Segue a ruota, ma solo da qualche anno a questa parte (ovvero dopo il

marcato accento posto su questa figura contrattuale dal rapporto Kok), il lavoro

temporaneo, ritenuto ottimisticamente in grado di coniugare al meglio l’esigenza di

stabilità dei lavoratori con quella di flessibilità delle imprese che li utilizzano54. In

ultima posizione, infine, il lavoro a termine che, per la sua natura intrinsecamente

provvisoria, al pari di un farmaco efficace ma dai pesanti effetti collaterali, viene

ritenuto benefico solo se assunto in dosi contenute, provocando invece gravi e

indesiderate conseguenze quando vi si faccia ricorso in modo massiccio ed

eccessivamente protratto nel tempo.

Dalla strutturale transitorietà e quindi, in buona sostanza, instabilità dei contratti

di lavoro a tempo determinato derivano le preoccupazioni della soverchiante,

spropositata diffusione che essi hanno avuto in qualche Stato dell’Unione

(segnatamente in Spagna e Portogallo, come già ricordato nel par. precedente) e, di

51 All’acquisita consapevolezza delle gravi ripercussioni – in termini di segmentazione del mercato del lavoro – che possono discendere dalla flessibilità in entrata, tuttavia, si deve la puntualizzazione sull’opportunità di «evitare la proliferazione delle forme contrattuali e preservarne l’omogeneità, al fine di agevolare il passaggio dall’una all’altra», inserita nella sollecitazione a rendere disponibile un’adeguata gamma di contratti di lavoro contenuta nella relazione comune sull’occupazione 2005/2006 (p. 16). 52 Nella comunicazione della Commissione sul bilancio del primo quinquennio di Strategia europea (già richiamata in nota 39) si constata infatti, basandosi presumibilmente sugli stessi dati dichiarati dagli Stati membri, che «in alcuni paesi la creazione netta di posti di lavoro è in parte attribuibile ad un aumento del lavoro flessibile (contratti di lavoro a tempo determinato, di lavoro temporaneo e a tempo parziale)», aggiungendosi che «tra i gruppi particolarmente interessati dal lavoro flessibile figurano i giovani e le donne che rientrano nel mercato del lavoro». 53 Si fa soprattutto riferimento a Spagna, Italia e Grecia, oltre che ai 10 Stati divenuti membri dell’Unione il 1° maggio 2004. L’espansione del part-time è ritenuta di primaria importanza, considerata la massiccia presenza di simili contratti, com’è noto, nei Paesi europei con tassi d’occupazione particolarmente elevati (come Olanda, Svezia e Danimarca). 54 In tal senso v. ad esempio la relazione comune sull’occu pazione 2003/2004, p. 72. Un interessante modello di coniugazione delle suddette esigenze è offerto dal contratto di lavoro tramite agenzia disciplinato dalla legge olandese sulla flexicurity del 1999, che prevede la successione di quattro fasi durante le quali si realizza il progressivo irrobustimento dei diritti dei lavoratori, fino a giungere – nell’eventualità (in concreto tutt’altro che frequente) del decorso di un biennio – alla sostanziale stabilizzazione del rapporto: in proposito v. Visser (2005, p. 145 ss.) e Wilthagen e Tros (2004, p. 174 s.).

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converso, l’apprezzamento per le iniziative di vario genere assunte dai governi

interessati al fine di limitare il ricorso a tali contratti55.

La percentuale di lavoratori a termine rispetto al totale del lavoro subordinato

costituisce d’altronde, insieme a quella dei lavoratori a tempo parziale, uno degli

indicatori del livello di flexicurity adottati dal Consiglio, sulla base della proposta della

Commissione di cui s’è già detto nel par. precedente, per la valutazione dei progressi

compiuti dai singoli Stati nel perseguimento dell’obiettivo multidimensionale della

qualità del lavoro. La semplice misurazione del grado di diffusione dei contratti a tempo

determinato, non corredata da quella di dati che rivestono fondamentale importanza per

la comprensione del fenomeno in oggetto, come l’incidenza quantitativa della

successione di tali contratti, la durata media di ciascuno di essi e del periodo trascorso

dai lavoratori «nel “purgat orio” della precarietà prima di accedere ad un’occupazione

stabile», suscita però forti riserve sull’attenzione accordata nel benchmarking previsto

dalla SEO all’esigenza di sicurezza dei lavoratori atipici 56: che nel caso del lavoro a

termine (diversamente dal lavoro part-time), oltretutto, sono in stragrande maggioranza

involontariamente atipici.

Se si aggiunge che l’indicatore in questione, “dimenticandosi” del principio di

parità di trattamento tra lavoratori a termine e lavoratori a tempo indeterminato stabilito

dalla direttiva n. 99/70, non richiede alcuna informazione neppure sulle condizioni che

accompagnano lo svolgimento dei contratti a termine57, diventa poi ancor più difficile

55 Per quanto riguarda il Portogallo, la relazione congiunta sull’occupazione 2003/2004 (p. 86) dà positivamente conto della scelta, effettuata dal codice del lavoro entrato in vigore nel 2003, di imporre limiti nell’utilizzazione dei contratti non permanenti; mentre il rapporto Kok (a p. 29) considera un passo nella giusta direzione gli incentivi finanziari previsti da un provvedimento governativo del marzo 2002 a favore delle imprese con meno di 50 dipendenti (o, quando si tratta di stabilizzare lavoratori disabili, anche con un numero superiore di dipendenti) che trasformano i contratti a termine giunti a scadenza in contratti a tempo indeterminato. Con riguardo alla Spagna, Paese che da circa tre lustri si aggiudica la maglia nera europea in fatto di precarietà del lavoro, il rapporto Kok (sempre a p. 29) apprezza invece la soluzione, introdotta in via sperimentale nel 1997 per incoraggiare la stipula di contratti permanenti e ripetutamente confermata dal legislatore, di ridurre l’indennità spettante in caso di illegittimità del licenziamento per ragioni oggettive ai lavoratori il cui contratto originario era a termine: di questa delicata ricetta, che realizza in buona sostanza uno scambio tra stabilizzazione del posto di lavoro e abbassamento del costo dell’eventuale licenziamento, si tratterà peraltro meglio nel seguito del paragrafo. 56 Una critica all’incompletezza di questo indicatore della flexicurity è già stata formulata da Ravelli (2006, p. 92), dal cui scritto è tratta l’espressione riportata tra virgolette. 57 Inascoltato è rimasto il suggerimento avanzato in tal senso dalla comunicazione della Commissione sul miglioramento della qualità del lavoro già citata in nota 44, che proponeva (a p. 28) di integrare l’indicatore della flexicurity con «informazioni sul livello al quale i lavoratori a tempo parziale e con contratti a tempo determinato beneficiano, in modo equivalente e proporzionato, della protezione sociale e dei diritti legali dei lavoratori a tempo pieno e con contratti a tempo indeterminato», dopo aver osservato (a p. 17) che «per promuovere un buon equilibrio tra flessibilità e sicurezza è particolarmente

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trovare, in un processo di coordinamento politico che vorrebbe fare del benchmarking il

suo principale strumento operativo, concreti riscontri della preoccupazione per una

flessibilità in entrata non a senso unico e, in ultima analisi, per le caratteristiche

qualitative – e non puramente quantitative – dell’occupazione.

Il problema della stabilizzazione dei lavoratori a termine trascurato in sede di

misurazione della flexicurity (come componente della qualità del lavoro) viene preso in

seria considerazione, tuttavia, quando si tratta di introdurre nell’agenda della Strateg ia

europea lo spinoso tema della flessibilità in uscita: con la conseguenza, per certi versi

paradossale, di andare a cercare in quest’ultima la compensazione agli inconvenienti

sociali provocati dalla flessibilità in entrata.

Dopo anni di assoluto silenzio del processo di Lussemburgo in ordine alla

prospettiva di ammorbidimento della disciplina dei licenziamenti, pure caldeggiata

dall’OCSE in quel Job Study del 1994 che è stato per lungo tempo considerato una sorta

di Bibbia della politica economica (cfr. Lettieri 2005, p. 153), è il rapporto redatto dalla

Taskforce europea per l’occupazione, come s’è già accennato (nel par. precedente), a

tentare con forza di metterla all’ordine del giorno di tale processo. Sotto l’influenza

delle teorie economiche che addebitano la vasta diffusione dei contratti non permanenti

all’eccessiva protezione assicurata, in punto di licenziamenti, ai titolari di contratti di

lavoro permanenti58, tale rapporto dedica infatti la prima delle sette sollecitazioni rivolte

a Stati membri e parti sociali all’esigenza di «esaminare e, ove necessario, adeguare il

livello di flessibilità previsto nei contratti standard per assicurarne l’attrattiva per datori

di lavoro e lavoratori»59: laddove rendere più flessibile la regolazione dei contratti

standard, come risulta chiaro dall’illustrazione del contenuto di tale sollecitazione,

significa sostanzialmente alleggerire le tutele previste con riguardo ai licenziamenti.

Più in particolare il rapporto Kok, pur ammettendo i vantaggi collegati alla

protezione dell’occupazione (capace fra l’altro di stimolare l’impegno dei lavoratori ed

incoraggiare i datori di lavoro ad investire nella formazione del loro personale),

suggerisce di ammodernare le discipline nazionali in argomento intervenendo su aspetti

importante garantire parità di accesso alla formazione, all’assistenza sanitaria e alle misure di protezione sociale anche ai lavoratori con contratti atipici». 58 In tal senso v., da ultimo, le osservazioni di Gautié (2005, p. 5) e Coats (2006, p. 30 s.). 59 Così a p. 27 del rapporto. Ma è solo per i datori di lavoro, in realtà, che va accresciuta l’attrattività dei contratti a tempo indeterminato, non essendovi dubbi sulla generalizzata preferenza ad essi accordata dai lavoratori.

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come «periodi di preavviso, costi e procedure per i licenziamenti individuali e

collettivi» e, persino, sulla «definizione di licenziamento ingiustificato»60, allo scopo di

rendere meno gravoso, in termini di tempo e di spese, il recesso del datore di lavoro dai

contratti di lavoro di durata indeterminata ed evitare così, in ultima analisi, il ricorso a

contratti temporanei o il rifiuto di nuove assunzioni61. Un discorso, questo, certamente

“senza peli sulla lingua”, destinato a lasciare il segno nel succes sivo corso della

Strategia europea, ove peraltro è ripreso (ma non dagli orientamenti, come s’è anticipato

nel par. 2) nei toni prudenti e sorvegliati caratteristici del complesso dei suoi atti.

Nella relazione congiunta sull’occupazione 2003/2004, pratic amente aperta dalla

dichiarazione che «la valutazione generale e i messaggi politici della Taskforce per

l’occupazione sono condivisi dalla Commissione e dal Consiglio, essendo pienamente

in linea con gli orientamenti della SEO» (così a p. 5), le sollecitazioni formulate dal

gruppo d’esperti presieduto da Wim Kok vengono riproposte tutte alla lettera, senza

giungere però ad addentrarsi nella questione dei licenziamenti. La convinzione

dell’opportunità di introdurre maggiore flessibilità nei contratti di lav oro a tempo

indeterminato incidendo sulla disciplina del recesso traspare tuttavia dal richiamo

effettuato, a titolo d’esempio (a p. 34), ad alcune riforme varate in tal senso dagli Stati

membri: ovvero, più precisamente, l’elevazione della soglia dimensio nale (non più 5 ma

10 dipendenti) al di sopra della quale scatta la più rigorosa protezione del posto di

lavoro decisa in Germania nel dicembre 200362 e la riduzione dell’indennità spettante in

caso di illegittimità dei licenziamenti per motivi economici stabilita in Spagna per i

lavoratori assunti con un contratto specificamente volto ad incoraggiare l’occupazione a

tempo indeterminato (il contrato de trabajo para el fomento de la contrataciòn

indefinida o più semplicemente contrato de fomento del empleo, istituito in via

60 Il significato di quest’ultima indicazione non è del tutto trasparente: si può tuttavia supporre che la Taskforce europea per l’occupazione, non potendo mettere in discussione la necessità di giustificazione del licenziamento (indicata fra l’altro poche righe prima tra gli elementi costitutivi della nozione di sicurezza), inviti di fatto gli Stati membri a non andare tanto per il sottile nella configurazione delle ragioni che legittimano il recesso dal contratto del datore di lavoro. 61 A p. 27, più precisamente, si spiega che i «datori di lavoro devono essere in grado di adattare la consistenza del proprio personale risolvendo i contratti senza eccessivi ritardi o costi quando altre misure, come la flessibilità oraria o la riconversione professionale dei lavoratori, hanno raggiunto il loro limite», tenuto conto che regole «eccessivamente protettive sui contratti standard possono dissuadere i datori di lavoro dall’effettuare assunzioni … o indurli ad avvalersi di altre forme contrattuali, suscettibili di ricadute negative sulla capacità di accesso al lavoro dei soggetti meno avvantaggiati quali giovani, donne, disoccupati di lunga durata». 62 Sull’insieme di innovazioni apportate al Kündigungsschutzgesetz dalla legge del 24 dicembre 2003 v. Corti (2005) e Däubler (2005).

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transitoria nel 1997 e ripetutamente confermato dalla legislazione successiva), il cui

regime giuridico è per il resto coincidente con quello dell’ordinario contratto di lavoro

senza termine di durata63.

Sebbene di ammorbidimento delle tutele in materia di licenziamento non si torni a

parlare (stando a quanto consta attualmente) in altri atti del processo di coordinamento

delle politiche occupazionali64, del resto, tale tema può ritenersi ormai saldamente

penetrato nel dibattito politico e nell’attività negoziale e parlamentare di diversi Paesi

dell’Unione: a cominciare appunto dalla Spagna ove, nel tentativo di contrastare

l’abnorme presenza di contratti di lavoro di durata temporanea (circa il 33% del totale),

la legge para la mejora del crecimiento y del empleo del 9 giugno 2006 (adottata per

dar seguito all’accordo sottoscritto un mese prima da governo e parti sociali) ha riaperto

i termini entro cui la decisione imprenditoriale di stabilizzare lavoratori a tempo

determinato è premiata (oltre che con consistenti sgravi contributivi: ma ciò solo per un

primo periodo) con la riduzione dell’indennità per l’eventuale licenziamento

ingiustificato caratteristica del contrato de fomento del empleo, riproponendo con

convinzione quello scambio tra affrancamento dalla precarietà e contenimento del costo

del licenziamento ricorrente nella legislazione spagnola dell’ultimo decennio 65.

La recedibilità ad nutum del datore di lavoro durante il cd. periodo di

consolidamento, corrispondente al primo biennio del rapporto di lavoro, costituisce

invece il tratto saliente del contrat nouvelle embauche introdotto nell’ordinamento

francese nel luglio 2005 dal governo appena insediato: un contratto di lavoro a tempo

indeterminato riservato alle imprese di modeste dimensioni (fino a 20 dipendenti), il cui

regime giuridico si è poi tentato di riproporre, nella sua essenza, per le assunzioni di

giovani lavoratori (d’età compresa fra i 16 e i 26 anni) da parte delle imprese di

63 In merito alle caratteristiche del contrato de fomento del empleo, quali risultanti dalla prima disposizione addizionale della legge 12/2001, v. Martín Valverde, Rodríguez-Sañudo Gutíerrez, García Murcia (2005, p. 420 ss.). Pare comunque opportuno ricordare che tale contratto, utilizzabile sia per l’assunzione di disoccupati che per la stabilizzazione di lavoratori precari, prevede un’indennità per licenziamento ingiustificato pari a 33 – anziché 45 – giorni di salario per ciascun anno di servizio, con il tetto massimo di 24 – anziché 42 – mensilità. 64 Almeno non apertamente: Roccella (2006b, p. 45) fa infatti notare la «sottolineatura, negli orientamenti integrati del 2005, della persistente esigenza di “riforme strutturali” del mercato del lavoro» (ed è ben noto agli “addetti ai lavori” come tale espressione rimandi ad interventi deregolativi sui licenzi amenti). 65 Sul provvedimento riformatore del 9 giugno 2006, che ha anche voluto contrastare la concatenazione abusiva di contratti a termine stabilendone la conversione in contratti a tempo indeterminato ogniqualvolta la durata del lavoro (anche discontinuo) giunga a superare i 24 mesi nell’arco di 30, v. Pedrajas Moreno e Sala Franco (2006). Il testo dell’accordo tripartito siglato il 9 maggio 2006 si trova pubblicato (in lingua italiana) in RIDL, 2006, III, p. 129 ss.

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maggiore consistenza, con quel famoso contrat première embauche che non ha mai

visto la luce a causa della forte mobilitazione sociale organizzata nei primi mesi del

2006 per contestarlo (sia di per sé che per il disegno di progressiva erosione della tutela

della stabilità del posto di lavoro ritenuto ad esso sottostante)66.

Di modificazione della disciplina sui licenziamenti si discute ancora

animatamente, inoltre, sia in Germania, ove la riforma varata qualche anno fa ha sortito

«l’esito piuttosto paradossale di scontentare quasi tutti» (Corti 20 05, p. 385, cui si

rimanda per l’illustrazione del dibattito tedesco, nel quale non mancano proposte di

interventi “al ribasso”), che nel nostro Paese, ove il fallimento delle iniziative

parlamentari e referendarie incentrate sull’art. 18 dello Statuto dei lavoratori ha lasciato

immutato un assetto normativo attraversato da profonde tensioni e irrisolte difficoltà di

gestione giudiziaria, del quale si prospettano revisioni che contemplano limitazioni di

vario genere all’applicabilità del regime di tutela re ale del posto di lavoro67.

Dall’insieme di vicende (nazionali e sovranazionali) appena riferite può dunque

trarsi la certezza che il tema della flessibilità in uscita sia oggi in Europa più vivo che

mai, nonostante la marcia indietro recentemente innestata in proposito dall’OCSE, con

l’ammissione dell’assenza di una chiara correlazione inversa tra intensità della

protezione dell’impiego (misurata con riferimento alle discipline dei licenziamenti

individuali e collettivi e dei contratti di natura temporanea) e livello dell’occupazione 68.

All’accresciuta consapevolezza dell’irrilevanza dell’affievolimento delle tutele in

66 Sulle caratteristiche dei due contratti, da più parti considerati semplici tappe di un percorso che punterebbe alla precarizzazione di tutti i rapporti di lavoro (cioè, più in particolare, all’estensione generalizzata dell’iniziale biennio di libera licenziabilità dei dipendenti o all’intr oduzione di un unico contratto di lavoro da cui il datore può liberamente recedere, salvo il pagamento di un’indennità economica), v. Freyssinet (2006) e Renzi (2006). Sulla rivolta giovanile che ha impedito l’introduzione del Cpe (e, dal punto di vista dei contestatori, l’avanzamento nel suddetto percorso) v. invece Merlo e Sciotto (2006). 67 La proposta di un «sentiero a tappe verso la stabilità» avanzata da Boeri e Garibaldi (2006) prevede, ad esempio, che il meccanismo della reintegrazione divenga applicabile ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo solo dopo il compimento di un triennio di lavoro, mentre quella di Pallini e Leonardi (2006) abbina all’allungamento dei periodi di prova l’introduzione di un’«indennità economica di licenziamento», aggiuntiva rispetto al preavviso, a favore dei dipendenti delle imprese con oltre 15 lavoratori che rinuncino ad impugnare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo. In direzione diversa vanno invece le disposizioni in materia di licenziamento contenute nel disegno di legge sulla riforma del processo del lavoro recentemente presentato in Senato dagli onorevoli Salvi e Treu (v. in Atti parlamentari della XV legislatura, d.d.l. n. 1047 del 28 settembre 2006). 68 Così nell’ Employment Outlook pubblicato dall’OCSE nel 2004 (a p. 61, sviluppando spunti già contenuti in quello del 1999 ma rinnegati poi nel 2002). C’è da tenere presente, comunque, che la misurazione del grado di protezione dell’impiego è un’operazione complessa e che sull’attendibilità scientifica degli indicatori adoperati a tal fine dall’OCSE sono stati avanzati dubbi da più parti (v. ad esempio Gautié 2005, p. 4 e Casey 2004, p. 341 ss.).

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materia di licenziamento rispetto all’obiettivo di job creation si accompagna, semmai, la

valorizzazione delle attitudini della flessibilità in uscita nel contrasto al problema,

sempre più avvertito, della segmentazione del mercato del lavoro69.

L’idea che la semplificazione dei licenziamenti rappresenti la principale carta da

giocare in risposta alla duplice esigenza di stimolare nuove assunzioni e di contenere la

diffusione dei contratti di lavoro non permanenti, d’altronde, continua a circolare con

estrema disinvoltura nell’Unione europea 70, non di rado accompagnata dalla pretesa di

costituire addirittura l’espressione di una sorta di legge na turale, a dispetto della

mancanza di evidenti riscontri empirici (cfr. Del Punta 2001, p. 19 e Biagi e Tiraboschi

2000, p. 180) e delle contestazioni alla solidità dei suoi fondamenti scientifici sollevate

da più parti (v. Reyneri 2006, pp. 3-5). Il modello della flexible firm e la teoria

economica imperniata sulla contrapposizione tra insiders e outsiders (Lindbeck e

Snower 1988, divulgata da noi da Ichino 1996, con una spiccata enfatizzazione del

«ruolo dis-funzionale» dell’«esistenza di una disciplina li mitativa dei licenziamenti»:

Del Punta 2001, p. 17) non possono dunque considerarsi, nel loro complesso, affatto in

declino71.

Viene allora da chiedersi, in questo contesto, che fine abbia fatto la sicurezza dei

lavoratori presa in attenta considerazione dal paradigma della flexicurity messo al centro

della SEO e abbracciato ormai ufficialmente, con una vistosa virata rispetto alla

tradizionale ricetta di pura deregolazione, anche dall’OCSE. Secondo gli economisti che

ritengono necessaria l’iniezione nei co ntratti di lavoro standard di una dose di

flessibilità in uscita, e quindi una riduzione della protezione dell’impiego (o sicurezza in

69 Occorre peraltro precisare, a questo proposito, che l’incidenza della protezione dell’impiego sulla composizione strutturale dell’occupazione, cioè sulla riduzione delle opportunità dei soggetti meno avvantaggiati di uscire dalla disoccupazione e trovare un’idonea collocazione lavorativa, pur venendo sostenuta da più parti (v. ad esempio l’ Employment Outlook dell’OCSE richiamato nella nota precedente), resta circondata da non trascurabili dubbi (v. Regini 2001, p. 146 e, con riferimento all’esperienza dei Paesi europei di maggior successo sul fronte occupazionale, Roccella 2006b, p. 39 s.) 70 Basti pensare al già riferito contenuto del rapporto Kok, alle conclusioni cui pervengono diversi gruppi di esperti francesi incaricati di indagini in proposito dai pubblici poteri (v. Freyssinet 2006, p. 3) e, in casa nostra, alla ferma convinzione di Ichino (2005, p. 24) che «più il lavoro regolare è stabile, più è difficile per il disoccupato, il precario e l’irregolare uscire dalla loro posizione». 71 Per un’approfondita critica all’assunto, derivante dalle stesse teorie economiche, secondo cui la liberalizzazione dei contratti a termine migliorerebbe l’efficienza dell’impresa e contribuirebbe alla crescita dell’occupazione v. peraltro Zappalà (2006), che sottolinea come il controllo tradizionalmente esercitato sulla diffusione di tali contratti nel nostro Paese sia stato funzionale non solo all’interesse dei lavoratori alla stabilità ma anche a quello degli imprenditori alla razionalità dell’organizzazione del lavoro. Per ulteriori prese di distanza dalla convinzione sulle potenzialità di job creation dei contratti a tempo determinato v. Fuchs (2005, p. 139) e Nodari (2006, p. 542).

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senso oggettivo), simili interventi dovrebbero trovare adeguata compensazione nel

rafforzamento delle tutele operanti sul mercato del lavoro, vale a dire nel potenziamento

degli strumenti di politica attiva del lavoro, da un canto, e di sostegno del reddito dei

disoccupati, dall’altro. Un cambiamento d’assetto, questo, che dovrebbe risultare “a

costo zero” per i lavoratori, se è vero (come spiega Gautié 2005, p. 8 ss.) che sulla

percezione individuale di sicurezza (o sicurezza in senso soggettivo) incidono non solo

la natura del contratto e la protezione esistente rispetto ai licenziamenti, ma anche le

previsioni circa le conseguenze (sul reddito e sulla ripresa della vita lavorativa)

dell’eventuale perdita dell’impiego: cosicché essa sarebbe sostanzialmente equivalente

nei Paesi con intense tutele nel rapporto di lavoro e scarse tutele sul mercato, come

l’Italia, e in quelli con più modeste tutele nel rapporto di lavoro e più forti tutele sul

mercato, come la Danimarca.

L’evocazione del modello di flexicurity danese, tanto celebrato dai sostenitori

della flessibilità in uscita e verso il quale paiono ormai convergere le simpatie

dell’OCSE (Gautiè 2005, p. 10 e Coats 2006, p. 36), non può tuttavia esser fatta “a cuor

leggero”. A parte le doverose precisazioni sulle «caratteristiche particolari e più o meno

irripetibili» di tale modello (Janssen 2006, p. 1) e sulle difficoltà della sua

riproposizione in differenti contesti nazionali, dato l’«elevatissimo livello

dell’imposizione fiscale» necessario per coprire il costo dei servizi e dei meccanismi di

sostegno del reddito messi a disposizione degli outsiders (Roccella 2006b, p. 40),

occorre infatti guardare con più serietà alla lezione sull’inestricabile nesso tra tutele nel

rapporto e tutele sul mercato da esso offerta: con la conseguenza di capire facilmente,

ogniqualvolta vengano proposti alleggerimenti delle regole sui licenziamenti non

preceduti da concreti interventi di rafforzamento del sistema degli ammortizzatori

sociali, che il richiamo a quest’ultimo costituisce in realtà solo un alibi per lo

smantellamento dell’apparato regolativo esistente (cfr. Balandi 2006, pp. 223 -225).

4. L’acquis communautaire in tema di stabilità del posto di lavoro

Seguendo la stessa duplice direzione nella quale si è sviluppata la ricerca sul

valore assegnato alla stabilità del lavoro dal soft law della Strategia europea per

l’occupazione (le prospettive di stabilizzazione offerte ai lavoratori precari, da un canto;

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la tutela dal rischio di subire un licenziamento assicurata ai lavoratori standard,

dall’altro), occorre a questo punto concentrare l’attenzione sul più assestato orizzonte

dell’ hard law, significativamente arricchito – com’è noto – dall’opera interpretativa

della Corte di giustizia.

Il determinante contributo apportato dalla sua giurisprudenza alla definizione del

diritto comunitario del lavoro risulta ulteriormente amplificato assumendo quale

particolare angolo visuale il tema della stabilità del posto di lavoro. Con tale tema,

affrontato dalle fonti europee solo in termini limitati, i giudici di Lussemburgo si sono

infatti trovati a confrontarsi trasversalmente più volte: col risultato d’individuare, quasi

sempre facendo leva sul principio di parità di trattamento (nelle sue varie articolazioni,

cioè, a seconda dei casi, tra uomini e donne, tra cittadini di diversi Stati membri, tra

anziani e non), una serie di importanti paletti alla flessibilità in contrasto con gli

interessi dei lavoratori, quand’anche sorretta da pretesi o reali obiettivi occupazionali, e

di fornire così conferma alla centralità del ruolo svolto dalla Corte di giustizia nella

costruzione di quell’ acquis communautaire incisivamente definito la «cornice delle

regole sostanziali che … limitano le modalità attraverso cui può avvenire in Europa la

job creation» (Bruun 2001, p. 314).

Per quanto riguarda, anzitutto, l’affrancamento dalla precarietà dei lavoratori a

termine, la Corte non ha atteso l’adozione della direttiva n. 1999/70 (di attuazione

dell’accordo quadro concluso in materia dalle parti sociali europee), né la specifica

richiesta di chiarirne la portata in via pregiudiziale, per prendere posizione contro

l’utilizzazione abusiva dei contratti a tempo determinato, come risulta evidente dalle

pronunce (delle quali si dirà nel par. 4.1.) rese nel caso Alluè e, in qualche misura, anche

nei casi Tele Danmark e Jiménez Melgar: una giurisprudenza, questa, di carattere

certamente episodico, che tuttavia può essere considerata espressione, insieme a quella

– di consistenza monumentale – elaborata prima dell’adozione della direttiva n. 1997/81

(di attuazione dell’accordo quadro europeo in materia di lavoro a tempo parz iale) per

colpire le diffuse discriminazioni ai danni dei part-timers72, della volontà di difendere in

concreto la qualità del lavoro flessibile.

Un decisivo balzo in avanti nella difesa dell’aspirazione alla stabilità dei lavoratori

a termine (e nella «direzione di un miglior equilibrio tra la flessibilità dell’orario di

72 In quanto discriminazioni indirette nei confronti delle lavoratrici: v. Izzi (2005, p. 183).

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lavoro e la sicurezza dei lavoratori»)73 si è comunque compiuto con l’accordo quadro

allegato alla direttiva n. 99/70 che, finalizzato al duplice obiettivo di «migliorare la

qualità del lavoro a tempo determinato, garantendo il rispetto del principio di non

discriminazione», e di «creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi

derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo

determinato», contiene nel suo preambolo la rilevante affermazione del riconoscimento

che «i contratti a tempo determinato sono e continueranno ad essere la forma comune

dei rapporti di lavoro fra i datori di lavoro e i lavoratori», sebbene i contratti a termine

rispondano, «in alcune circostanze, sia alle esigenze dei datori di lavoro sia a quelle dei

lavoratori». È sulla base di quest’accordo europeo che la Corte di giustizia, valorizzando

al massimo la portata dell’affermazione appena riferita, dapprima con la sentenza

Mangold (peraltro incentrata sulla violazione del divieto di discriminazione nel lavoro

in base all’età, come si spiegherà nel par. 4.1.) e poi con la sentenza Adeneler (della

quale si tratterà nello stesso par., insieme alle sentenze Marrosu e Sardinu e Vassallo,

anch’esse concernenti la direttiva n. 99/70), ha potuto proseguire fruttuosamente nel già

intrapreso cammino di contrasto della tendenza alla “stabilizzazione nella precarietà”

dei lavoratori a termine.

Nessun intervento di natura legislativa o giurisprudenziale si registra invece

rispetto all’analogo problema esistente per i lavoratori temporanei: la proposta di

direttiva sul lavoro tramite agenzia presentata dalla Commissione europea nel marzo

2002, dopo esser stata modificata nel novembre dello stesso anno74, continua infatti a

giacere dimenticata nei cassetti del legislatore sovranazionale ed è al momento difficile

prevedere se riuscirà mai a vedere la luce e tanto più se, prima di quell’ipotetica data,

potranno essere corrette le previsioni in essa contenute che paiono allontanare dalla

soluzione del suddetto problema (sul punto v. Zappalà 2003, in particolare pp. 89-92).

Per quanto attiene alla tutela del posto di lavoro dei dipendenti assunti a tempo

indeterminato, è noto che il diritto comunitario non contempla una disciplina di

protezione dai licenziamenti di carattere generale, limitandosi a stabilire in proposito

alcuni specifici divieti (si pensi alla direttiva n. 2001/23 sul mantenimento dei diritti dei

73 Come si legge nell’ incipit del preambolo dell’accordo quadro in questione, riecheggiando l’i dea di flexicurity al centro della SEO. 74 V. rispettivamente Com (2002) 149 def. del 20 marzo 2002 e Com (2002) 771 def. del 28 novembre 2002.

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lavoratori in caso di trasferimento d’impresa, alla direttiva n. 1976/207 contro le

discriminazioni di genere nel lavoro e alla direttiva n. 1992/85 sulla tutela delle

lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo d’allattamento).

Un traguardo non marginale sembrava in verità essere stato raggiunto, da questo

punto di vista, con l’inserimento nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione

europea dell’art. 30, ai sensi del quale «ogni lavoratore ha diritto alla tutela contro ogni

licenziamento ingiustificato, conformemente al diritto comunitario e alle legislazioni e

prassi nazionali»: un articolo, questo, per nulla scontato (v. Hunt 2003, p. 53) che, al di

là dell’apparente minimalismo del suo contenuto, non sarebbe destinato a restare privo

di conseguenze (come si spiegherà nel par. 5) qualora acquistasse forza vincolante. La

situazione di stallo in cui versa attualmente il Trattato costituzionale europeo

sottoscritto a Roma il 29 ottobre 2004 (con la speranza dell’entrata in vigore al 1°

novembre 2006) e, di riflesso, la Carta dei diritti fondamentali in esso trasfusa, tuttavia,

non consente affatto di considerare acquisito tale risultato. In simile contesto l’unica

garanzia esistente contro il rischio di un eccessivo ammorbidimento delle discipline

nazionali in materia di licenziamento, giustificato più o meno in buona fede dallo scopo

d’incentivazione delle assunzioni (secondo la logica illustrata nel par. precedente), resta

perciò quella – politicamente forte ma tecnicamente limitata, dato il suo particolare

fondamento antidiscriminatorio – costruita dalla Corte di giustizia nella sentenza

Seymour-Smith (di cui si dirà nel par. 4.2.).

A fronte delle crescenti trasformazioni delle imprese, in crisi o meno, collegate a

fenomeni di ristrutturazione e/o delocalizzazione delle attività produttive verso Paesi

con basso costo del lavoro, pare divenuta inoltre pressante l’esigenza di delineare, ad

integrazione della disciplina sui licenziamenti collettivi – di natura essenzialmente

procedurale – contenuta nella direttiva n. 1998/59, un quadro di regole condivise a

livello europeo sulle responsabilità pubbliche e private da chiamare in causa per

salvaguardare, ovviamente nei limiti del possibile, l’occupazione (cfr. in proposito Treu

2005, p. 412 s. e Roccella 2006b, p. 36). Al riguardo nessun passo conclusivo è stato

sinora compiuto, ma interessante è certo la proposta di regolamento per l’istituzione di

un Fondo europeo di adeguamento alla globalizzazione presentata dalla Commissione

nel marzo 200675 con l’intento di provvedere al finanziamento di i nterventi mirati di

75 V. Com (2006), 91 def. del 1° marzo 2006.

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riqualificazione professionale a beneficio dei lavoratori colpiti da un licenziamento

collettivo derivante dai notevoli cambiamenti della struttura del commercio mondiale.

Non è tuttavia il discorso sull’ acquis communautaire che qui si sta svolgendo la sede

opportuna per approfondire questo argomento.

4.1. La Corte di giustizia e i contratti di lavoro a tempo determinato

La prima occasione nella quale la Corte di giustizia ha avuto modo di pronunciarsi

contro il ricorso abusivo ai contratti di lavoro a termine risale al 1993 e ha tratto origine

dalla controversia instaurata nei confronti di due università italiane da un gruppo di

lettori di lingua straniera che lamentavano la violazione, a loro danno, del principio di

parità di trattamento tra cittadini di diversi Stati membri di cui all’art. 48 (ora art. 39)

del Trattato, contestando il limite di durata annuale imposto ai loro contratti di lavoro,

in linea generale, dalla normativa italiana (l’art. 28 del DPR n. 382/1980, che faceva

comunque salva la possibilità del rinnovo), mentre un’analoga limitazione non esisteva

per gli altri insegnanti universitari76. Tenuto conto dell’elevata percentuale di lettori

aventi cittadinanza straniera (per l’esattezza, all’epoca dei fatti, il 75% del totale), la

Corte non ha esitato a riconoscere la ricorrenza di una discriminazione indiretta sulla

base della nazionalità, sostenendo che «i contratti destinati a soddisfare esigenze

costanti inerenti all’insegnamento, quali si presentano nei casi delle l ingue il cui studio

sia obbligatorio o delle lingue notoriamente più richieste, vanno stipulati a tempo

indeterminato», come accade per gli altri insegnanti; e osservando che «il termine

massimo di un anno, con possibilità di rinnovo, … rappresenta per i lettori un fattore di

incertezza in ordine alla conservazione del rapporto di lavoro e si presta a consentire

abusi da parte dell’amministrazione nazionale» 77.

Dopo la sentenza Allué, è l’interpretazione della disciplina contro le

discriminazioni di sesso contenuta nella direttiva 1976/207 ad offrire alla Corte di

Lussemburgo l’opportunità di tutelare l’interesse (non alla stabilizzazione, ma almeno)

alla continuità dell’occupazione dei lavoratori a termine, affermando, nei casi Tele

76 È il caso affrontato da Cgce 2 agosto 1993, cause riunite C-259/01, C-331/91, C-332/91, Pilar Alluè e a. v. Università degli Studi di Venezia e Università degli Studi di Parma, in Racc., 1993, p. 4334 ss. 77 Così nei punti 16 e 18, rispettivamente, della motivazione. C’è da precisare che il riferimento della sentenza alla possibilità di abusi era tutt’altro che teorico, data la «prassi, riferita dalla Commissione, consistente nel subordinare il rinnovo contrattuale all’accettazione di una riduzione della retribuzione».

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Danmark e Jiménez Melgar78, l’“illegittimità comunitaria” del licenziamento intimato

ad una lavoratrice a tempo determinato che, al momento dell’assunzione, non aveva

comunicato al datore di lavoro il proprio stato interessante e la conseguente

impossibilità di svolgere l’attivit à lavorativa per una parte rilevante della durata del

contratto e, rispettivamente, del mancato rinnovo di un contratto a termine motivato

dallo stato di gravidanza della dipendente.

Solo di recente, ad ogni modo, la Corte s’è trovata a confrontarsi con

un’operazione di flessibilizzazione della disciplina dei contratti a tempo determinato

posta in essere allo scopo di stimolare la crescita occupazionale ovvero, più

precisamente, di agevolare l’accesso all’occupazione di persone in condizioni di

debolezza sul mercato del lavoro. Ciò è avvenuto nel caso Mangold 79, a seguito di un

rinvio pregiudiziale avente il merito di toccare per la prima volta questioni di

straordinaria importanza per il diritto comunitario del lavoro come la natura della

clausola di non regresso – in particolare, quella contenuta nella direttiva n. 99/70 sui

contratti a termine, mai giunta fino a quel momento davanti ai giudici comunitari – e la

portata del divieto di discriminazioni sulla base dell’età sancito dalla direttiva n.

2000/78.

Oggetto di contestazione nel procedimento a quo era il vistoso abbassamento (da

58 a 52 anni) dell’età oltre la quale i contratti di lavoro a tempo determinato possono

essere conclusi senza restrizioni, realizzato nell’ordinamento tedesco, al fine di fav orire

l’inserimento professionale dei lavoratori anziani in stato di disoccupazione, da una

legge intervenuta a modificare quanto stabilito sul punto, un paio d’anni prima, in sede

di trasposizione della direttiva 99/70: un abbassamento considerato dalla parte ricorrente

in contrasto, per l’appunto, col divieto di reformatio in peius previsto nell’accordo

europeo attuato dalla suddetta direttiva, da un canto, e col divieto di discriminazioni in

ragione dell’età risultante dalla direttiva -quadro per la parità di trattamento nel lavoro,

dall’altro. È solo quest’ultimo profilo d’illegittimità ad aver ottenuto, nel contesto di

78Cgce 4 ottobre 2001, causa C-109/00, Tele Danmark v. Handels- og Kontorfunktionærernes Forbund i Danmark, in Racc., 2001, p. 6993 ss. e Cgce 4 ottobre 2001, causa C-438/99, Maria Luisa Jiménez Melgar v. Ayuntamiento de Los Barrios, ivi, p. 6915 ss. 79 Cgce 22 novembre 2005, causa C-144/04, Werner Mangold v. Rüdiger Helm, non ancora pubblicata in Racc. (ma reperibile nel sito www.curia.eu.int), preceduta dalle apprezzabili conclusioni dell’Avvocato generale A. Tizzano.

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una sentenza che non pare effettivamente meritare gran parte delle critiche ricevute80,

l’avallo dei giudici comunitari.

Secondo la Corte di giustizia, infatti, il particolare trattamento riservato ai

lavoratori anziani dalla disciplina tedesca sui contratti a termine non può trovare

legittimazione nel disposto dell’art. 6.1 della direttiva 2000/78 (che esclude il carattere

discriminatorio delle «disparità di trattamento in ragione dell’età … oggettivamente e

ragionevolmente giustificate, nell’ambito del diritto nazionale, da una finalità

legittima», sempre che «i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e

necessari»), dal momento che, pur essendo indubbia la legittimità dell’obiettivo di

favorire l’inserimento professionale dei disoccupati d’età avanzata perseguito,

nell’interesse generale, dalla disposizione controversa, quest’ultima, «nella misura in

cui considera l’e tà del lavoratore … come unico criterio di applicazione di un contratto

di lavoro a tempo determinato, … indipendentemente da ogni altra considerazione

legata alla struttura del mercato del lavoro di cui trattasi e dalla situazione personale

dell’interessa to», non supera positivamente il controllo sul rispetto del principio di

proporzionalità cui vanno assoggettate le giustificazioni delle disparità di trattamento81.

Il rigore col quale è stato condotto tale controllo mostra con chiarezza che i giudici

comunitari, nonostante i termini elastici in cui il divieto di discriminazioni in base

all’età è stato costruito dal legislatore sovranazionale (v., fra gli altri, Izzi 2005, p. 398

s.), non sono affatto disposti a prenderlo alla leggera: nemmeno quando, come nel caso

di specie, vengano in rilievo previsioni sicuramente in linea con l’obiettivo di favorire la

partecipazione alla vita professionale dei lavoratori anziani stabilito dalla SEO (come

s’è visto nel par. 2) ed espressamente ricordato nella motivazion e della sentenza (al

punto 7). Ai protagonisti di tale strategia la Corte sembra perciò voler ricordare che «le

politiche di invecchiamento attivo … non possono essere condotte in termini

80 Pur essendo vero che la Corte, nel riconoscere la forza giuridicamente vincolante della clausola di non regresso, avrebbe potuto fornire qualche spiegazione in più, data la molteplicità di domande e di ipotetiche risposte circolanti in proposito nella dottrina europea (cfr. Bonardi 2006, p. 270-272), non si condivide affatto l’idea (di Calafà 200 6, p. 225 s.) che la posizione assunta sul punto dalla Corte sia stata poco coraggiosa a causa del centrale rilievo da essa accordato al «perseguimento di risultati occupazionali previsti dal Trattato» (perché mai, altrimenti, tale coraggio sarebbe dovuto venir fuori, poche righe dopo, nel giudizio sul mancato rispetto del divieto di discriminazioni per età?); né la critica rivolta (da Bonardi 2006, p. 267 s.) al rifiuto della Corte di tener conto della previsione mirante a prevenire la successione di contratti a termine di cui alla clausola 5 dell’accordo quadro a fini d’interpretazione sistematica dello stesso (così facendo, infatti, si sarebbe compiuta una forzatura tanto evidente quanto, in concreto, inutile). 81 Si v. i punti 59-65 della motivazione della sentenza Mangold (la citazione è comunque tratta dal punto 65).

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socialmente credibili stringendo i lavoratori anziani nell’alternati va fra disoccupazione e

lavoro precario» (così Roccella 2006b, p. 30 s.): ovvero, per dirla in altri termini, che i

requisiti di qualità e sicurezza dell’occupazione non possono essere dimenticati neppure

nelle operazioni di job creation indirizzate ai meno giovani.

Va inoltre notato che la Corte, pur essendo alle prese con l’interpretazione della

normativa antidiscriminatoria di cui alla direttiva 2000/78, non ha esitato a richiamare la

direttiva 1999/70, valorizzandone la funzione di argine, nello specifico contesto del

lavoro a termine, alle declinazioni unilaterali della flessibilità. Proprio nel cuore della

motivazione di Mangold (al punto 64), infatti, i giudici comunitari tengono ad osservare

che una situazione nella quale tutti i soggetti che hanno raggiunto i 52 anni d’età (senza

riguardo all’esistenza e alla durata di un precedente stato di disoccupazione) possono

essere impiegati, fino al momento del loro pensionamento, con contratti a tempo

determinato rinnovabili liberamente rischia di escludere una consistente categoria di

persone «dal beneficio della stabilità dell’occupazione, la quale costituisce …, come

risulta dall’accordo quadro, un elemento portante della tutela dei lavoratori». Nel

contesto di un giudizio di violazione del diritto comunitario per discriminazione in base

all’età, ecco dunque ritagliato un piccolo, ma non trascurabile, spazio alla sottolineatura

della finalità di contrasto alla precarizzazione del lavoro sottesa alla direttiva sui

contratti a termine82.

Neppure un anno dopo Mangold, sono le questioni d’interpretazione pregiudiziale

di tale direttiva sollevate nel caso Adeneler83, e più in particolare quelle concernenti la

clausola dell’accordo quadro sulla prevenzione degli abusi derivanti dalla successione di

contratti a tempo determinato, ad offrire alla Corte l’occasione di proseguire il suo

discorso a difesa della stabilità dell’impiego.

Sollecitata a chiarire – a partire dal dubbio d’illegittimità avanzato dai giudici

greci rispetto alla disposizione nazionale che autorizza il rinnovo dei contratti a termine

in presenza di una previsione legislativa o regolamentare in tal senso (e quindi in modo

generale ed astratto) – la nozione di «ragioni obiettive» che, ai sensi della clausola 5, n.

1 dell’accordo quadro, devono giust ificare siffatto rinnovo, la Corte incentra

82 Il fatto che in Mangold il ragionamento della Corte finisca col ruotare intorno a questa direttiva, pur senza addentrarvisi, è riconosciuto, ma in termini critici, anche da Sciarra (2006, p. 56). 83 Cgce 4 luglio 2006, causa C-212/04, Konstantinos Adeneler e a. v. Ellinikos Organismos Galaktos (ELOG), non ancora pubblicata in Racc. (ma reperibile nel sito www.curia.eu.int)

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apertamente la costruzione della sua risposta sulla considerazione dello scopo

dell’accordo e della clausola in questione, arrivando così a fornire un’indicazione di

fondo sicuramente non meno importante della specifica conclusione sulla necessità di

ragioni riferite «a circostanze precise e concrete caratterizzanti una determinata

attività»84. Nell’escludere «che una disposizione nazionale possa, di pieno diritto e

senza altra precisazione, giustificare contratti di lavoro a tempo determinato successivi»,

la Corte di giustizia afferma infatti (al punto 73 della motivazione) che ciò

«equivarrebbe a ignorare la finalità dell’accordo quadro, che consiste nel proteggere i

lavoratori dall’instabilità dell’impiego, e a s vuotare di contenuto il principio secondo il

quale i contratti a tempo indeterminato costituiscono la forma generale dei rapporti di

lavoro»: riconoscendo così valore di principio giuridico vincolante alla dichiarazione

sulla normalità dei contratti di durata indeterminata e l’eccezionalità dei contratti a

termine contenuta nel preambolo dell’accordo quadro, promossa a pieno titolo nella

categoria dell’ hard law.

Sempre facendo leva sull’esigenza di non «compromettere l’obiettivo, la finalità

nonché l’effet tività dell’accordo quadro», la Corte risponde alla domanda sul concetto

di successione dei contratti a termine, escludendo la “legittimità comunitaria” di una

disposizione – come quella contestata nel procedimento a quo – «che consideri

successivi i soli contratti di lavoro a tempo determinato separati da un lasso temporale

inferiore o pari a 20 giorni lavorativi», col risultato di consentire in sostanza «di

assumere lavoratori in modo precario per anni» e di permettere quindi

quell’utilizzazione abusiva d ei contratti in oggetto che la direttiva 99/70 mira appunto

ad impedire85.

La limitazione, così operata, del potere discrezionale di cui godono gli Stati

membri nel recepimento della direttiva sul lavoro a termine non potrà restare priva di

ripercussioni, evidentemente, sul diritto italiano, considerata la stretta somiglianza con

la disciplina greca censurata dalla Corte del disposto dell’art. 5, comma 3, del d. lgs.

368/2001. Anche l’affermazione, con valenza prescrittiva e non semplicemente

84 La citazione è tratta dal punto 69 della motivazione, ma è del discorso svolto nei punti da 58 a 75 che si sta qui trattando. 85 Così ai punti 83-86 della motivazione, mentre è nel punto 88 la spiegazione sul fatto che al «datore di lavoro sarebbe … sufficiente, al termine di ogni contratto di lavoro a tempo determinato , lasciare trascorrere un periodo di soli 21 giorni lavorativi prima di stipulare un altro contratto della stessa natura

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orientativa, del carattere eccezionale dei contratti a tempo determinato, d’altronde, è

destinata a condizionare l’assetto giuridico interno, rendendo impossibile contestare che

l’esclusione della loro piena fungibilità con i contratti a tempo indeterminato effettuata

– in continuità con l’impostazione precedente al d. lgs. 368 – dai nostri giudici (v., in

prospettive diverse, Aimo 2006, p. 462 ss. e Montuschi 2006, p. 109-112) costituisca

doverosa espressione dell’obbligo d’interpretazione conforme su di essi gravante.

All’ulteriore questione, formulata dai giudici greci, concernente la compatibilità

con l’accordo quadro europeo del divieto di conversione in contratto a tempo

indeterminato dei contratti a termine stipulati in successione (al fine di soddisfare

«fabbisogni permanenti e durevoli» del datore di lavoro) nell’ambito del settore

pubblico, la Corte fornisce una risposta che può essere meglio compresa alla luce di

quella resa un paio di mesi dopo nei casi Marrosu e Sardinu e Vassallo86, a seguito di

due rinvii pregiudiziali d’identico tenore effettuati dal Tribunale di Genova con

riferimento all’art. 36, comma 2, del d. lgs. 165/2001. Mentre in Adeneler, a fronte di

una legislazione nazionale che non prevedeva nessun’altra «misura effettiva per evitare

e … sanzion are l’utilizzazione abusiva di contratti a tempo determinato successivi» da

parte dei datori di lavoro pubblici, il suddetto divieto di conversione è ritenuto in

contrasto con l’accordo quadro, infatti, di segno tendenzialmente opposto è la

valutazione contenuta nelle sentenze di origine italiana, in considerazione del diritto al

risarcimento del danno contemplato dal d. lgs. 165 a favore del lavoratore abusivamente

impiegato, sul presupposto che l’adeguatezza di tale rimedio risulti accertata dai giudici

remittenti87.

per escludere automaticamente la trasformazione dei contratti successivi in un rapporto di lavoro più stabile». 86 Cgce 7 settembre 2006, causa C-53/04, Cristiano Marrosu e Gianluca Sardinu v. Azienda Ospedaliera Ospedale San Martino di Genova e Cliniche Universitarie Convenzionate e Cgce 7 settembre 2006, causa C-180/04, Andrea Vassallo v. Azienda Ospedaliera Ospedale San Martino di Genova e Cliniche Universitarie Convenzionate, non ancora pubblicate in Racc. (ma reperibili nel sito www.curia.eu.int). 87 Nei punti 55 e 56 della motivazione di Marrosu e Sardinu (come nei punti 40 e 41 della motivazione di Vassallo) la Corte afferma infatti che «una normativa nazionale … che prevede norme imperative relative alla durata e al rinnovo dei contratti a tempo determinato nonché il diritto al risarcimento del danno subito dal lavoratore a seguito del ricorso abusivo da parte della pubblica amministrazione a una successione di contratti o rapporti a tempo determinato sembra, prima facie, soddisfare gli obblighi» comunitari, pur spettando al giudice a quo «valutare in quale misura le condizioni di applicazione nonché l’attuazione effettiva dell’art. 3 6, n. 2, prima frase, ne fanno uno strumento adeguato a» prevenire e reprimere l’utilizzo abusivo dei contratti a termine.

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La stentata applicazione sinora ricevuta dalla misura risarcitoria di cui all’art. 36,

comma 2, del nostro testo unico sul lavoro pubblico88 non pare tuttavia consentire di

ritenere integrato, in linea generale, detto presupposto: cosicché, in mancanza di un

nuovo corso giurisprudenziale in proposito, la Corte di giustizia potrebbe essere

costretta a ritirare il lasciapassare accordato, sub condicione, al regime che esonera le

pubbliche amministrazioni dalla sanzione della trasformazione del contratto di lavoro

prevista per i datori di lavoro privati dall’art. 5 del d. lgs. 368/2001.

4.2. La Corte di giustizia e i licenziamenti

Le uniche due circostanze nelle quali i giudici di Lussemburgo hanno dovuto

misurarsi (naturalmente a distanza, dati i confini delle loro competenze) con regole

nazionali di limitazione del raggio d’operatività della tutela contro i licenziamenti,

trovandosi di fatto ad interferire con delicate scelte di politica sociale compiute dagli

Stati membri, hanno tratto origine da richieste d’interpretazione pregiudiziale della

disciplina comunitaria sulla parità tra lavoratori e lavoratrici: più precisamente, da

quelle sottoposte alla loro attenzione, nel corso degli anni ’90 e a distanza di oltre un

lustro, nei casi Kirsammer-Hack e Seymour-Smith89.

Nel primo di essi, sollecitata a pronunciarsi sulla portata indirettamente

discriminatoria (e, più in particolare, sul contrasto con gli artt. 1 e 5 della direttiva n.

76/207) di una disposizione – vigente in Germania – che escludeva dal regime di

protezione contro i licenziamenti illegittimi le imprese con non più di 5 dipendenti,

imponendo però di non conteggiare a tale fine i cosiddetti lavoratori minori (cioè quelli

con orario di lavoro non superiore a 10 ore settimanali o a 45 ore mensili), la Corte di

giustizia, dopo aver chiarito che il problema si sarebbe effettivamente posto solo

qualora si fosse dimostrata una concentrazione di donne nelle piccole imprese (anziché

negli impieghi minori, com’era stato dedotto dai giudici remit tenti), aveva comunque

affermato, con riguardo a tale evenienza, la ravvisabilità di una giustificazione obiettiva

88 V. quanto osservato da Guariso (2005, p. 167), in nota ad una delle rarissime decisioni che hanno riconosciuto al lavoratore interessato – come recita l’art. 36 del d. lgs. 165/2001 (riprendendo alla lettera l’art. 36 del d. lgs. 29/1993, come modificato dall’art. 22 del d. lgs. 80/1998) – il «diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative».

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dello svantaggio sproporzionato, considerata l’appartenenza della disposizione

contestata «a un complesso di misure intese a ridurre gli oneri gravanti sulle piccole

imprese, le quali rivestono un ruolo essenziale per lo sviluppo economico e la creazione

di posti di lavoro nell’ambito della Comunità» 90.

In Kirsammer-Hack la Corte aveva quindi rinunciato ad esercitare un sindacato,

alla luce del principio di proporzionalità, sulla giustificazione della (ipotetica, come s’è

visto) disparità di trattamento fra uomini e donne, lasciandosi probabilmente influenzare

dalla constatazione della relativa “normalità”, nel contesto europeo, di quella scelta di

applicazione selettiva (cioè solo alle imprese di una certa consistenza dimensionale)

delle tutele contro i licenziamenti che costituiva il mezzo – verosimilmente idoneo, ma

forse non necessario – adoperato dal legislatore tedesco per raggiungere l’obi ettivo,

indiscutibilmente legittimo, di sostegno delle piccole imprese. L’indulgenza manifestata

dalla Corte, in una serie di successive sentenze concernenti presunte discriminazioni

indirette nei confronti delle donne in materia previdenziale, rispetto alle ragioni di

politica sociale dedotte dagli Stati membri a giustificazione delle regole ad impatto

differenziato91, tuttavia, aveva contribuito ad accentuare oltre misura la percezione della

“pericolosità” del precedente Kirsammer-Hack.

L’indisponibilità della Corte ad accettare che l’effetto discriminatorio di

qualunque previsione limitativa della protezione rispetto al licenziamento potesse essere

neutralizzato dalla semplice invocazione dell’obiettivo di job creation è però emersa

con estrema chiarezza92, nella pronuncia Seymour-Smith.

Qui, a fronte del dubbio avanzato dai giudici britannici in ordine al contrasto col

divieto comunitario di discriminazioni indirette (ex art. 119 del Trattato o ex direttiva

76/207) della regola che condizionava la possibilità di impugnare il licenziamento al

superamento – meno frequente per le donne che per gli uomini, come parevano attestare

i dati statistici – di un periodo biennale di attività lavorativa, la Corte di giustizia, dopo

89 Cgce 30 novembre 1993, causa C-189/91, Petra Kirsammer-Hack v. Sidal, in Racc., 1993, p. 6185 ss. e Cgce 9 febbraio 1999, causa C-167/97, Regina v. Secretary of State for Employment, ex parte: Nicole Seymour-Smith e Laura Perez, in Racc., 1999, p. 623 ss. 90 Così, in sintonia con le argomentazioni della Commissione, nel punto 33 della motivazione di Kirsammer-Hack, prima del tentativo di rafforzare la propria presa di posizione col richiamo all’(allora) art. 118 A del Trattato (che richiedeva alle direttive in materia di salute e sicurezza dei lavoratori di non imporre «vincoli amministrativi, finanziari e giuridici di natura tale da ostacolare la creazione e lo sviluppo di piccole e medie imprese»). 91 Per maggiori indicazioni su questa giurisprudenza v. Izzi (2000, p. 320) e Izzi (2005, pp. 179 e 181).

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aver riconosciuto l’incontrovertibil e legittimità dell’obiettivo d’incentivazione delle

assunzioni sottostante a tale regola (secondo quanto dichiarato dal governo

interessato)93, ha infatti proceduto ad una scrupolosa verifica sull’osservanza del criterio

di proporzionalità, arrivando alla conclusione che «semplici affermazioni generiche,

riguardanti l'attitudine di un provvedimento determinato a promuovere l'avviamento al

lavoro, non sono sufficienti» a dimostrarne l’idoneità e la necessità rispetto al

conseguimento dello scopo prefissato e ad escluderne, di conseguenza, il carattere

discriminatorio94. Pur spettando ai giudici a quo, naturalmente, pronunciare l’ultima

parola sulla discriminatorietà della disciplina interna oggetto di contestazione (che è

stata infine esclusa dalla House of Lords), l’osservazione della Corte sul fatto che la

discrezionalità di cui godono gli Stati membri nella definizione della politica sociale

«non può risolversi nello svuotare di ogni sostanza l'attuazione di un principio

fondamentale del diritto comunitario, quale quello della parità … tra i lavoratori e le

lavoratrici», ha certo mandato ai legislatori nazionali un preciso segnale: prontamente

colto, a quanto pare, dal governo del Regno Unito, se è vero che pochi mesi dopo la

sentenza Seymour-Smith il periodo di lavoro richiesto in quel Paese per l’ammissibilità

dell’impugnazione giudiziale del licenziamento è stato abbassato ad un anno 95.

Le ripetute conferme, nella successiva giurisprudenza della Corte96, del rigoroso

orientamento appena illustrato consentono di confidare ragionevolmente sulla sua tenuta

e di ritenere quindi improbabile, da parte dei giudici comunitari, l’avallo di eventuali

scelte di ammorbidimento delle discipline nazionali a tutela della stabilità del posto di

92 Anche se non tutti la pensano così, rilevando un sensibile scarto tra il coraggio della motivazione e la timidezza del dispositivo della sentenza: v. ad esempio Borelli (2005, p. 308) e Skidmore (2004, p. 62). 93 Dinanzi alla Corte, come risulta dal punto 70 della motivazione, il governo del Regno Unito ha difatti sostenuto «che il rischio, gravante sui datori di lavoro, di essere coinvolti in procedimenti per licenziamento senza giustificato motivo per via di lavoratori subordinati recentemente assunti costituisce un elemento che si presta a dissuadere dalle assunzioni, per modo che l'estensione della durata di occupazione richiesta per avvalersi della tutela contro il licenziamento sarebbe un elemento inteso a favorire l'assunzione dei lavoratori». 94 V. i punti 69-77 della motivazione. 95 Per puntuali indicazioni su questa modifica legislativa nonché sulla decisione resa dalla House of Lords v. Bowers (2005, p. 260 s.). La citazione fra virgolette è tratta dal punto 75 della motivazione di Seymour-Smith. 96 Si fa riferimento a Cgce 20 marzo 2003, causa C-187/00, Helga Kutz-Bauer v. Freie und Hansestadt Hamburg, in Racc., 2003, p. 2741 ss. e Cgce 11 settembre 2003, causa C-77/02, Erika Steinicke v. Bundesanstalt für Arbeit, ivi, p. 9027 ss., nelle quali s'è trattato di prendere posizione sulla natura indirettamente discriminatoria delle regole di accesso all'istituto tedesco del lavoro a tempo parziale per motivi di età.

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lavoro suscettibili di svantaggiare in modo particolare i lavoratori dell’uno o dell’altro

sesso.

Resta da vedere, tuttavia, se il medesimo rigore ispirerà anche le valutazioni che

potrebbero essere sollecitate, con riguardo al divieto comunitario di discriminazioni

basate (non sul genere ma) sull’età, a partire da misure limitative della protezione contro

i licenziamenti illegittimi ipoteticamente adottate dagli Stati membri col dichiarato

scopo di favorire nuove assunzioni: come sarebbe potuto pacificamente accadere, ad

esempio, con l’istituzione di un contratto a tempo indeterminato destinato

esclusivamente ai lavoratori più giovani e caratterizzato da un lungo periodo di libera

recedibilità del datore di lavoro quale il contrat première embauche (v. supra, par. 3).

Vero è che per le disparità di trattamento in ragione dell’età l’art. 6.1 della

direttiva 2000/78 prevede la singolare possibilità97 che «esse siano oggettivamente e

ragionevolmente giustificate … da una finalità legittima» e che nella lista

esemplificativa di differenziazioni non discriminatorie ivi riportata rientra «la

definizione di condizioni speciali di accesso all’occupazione …, di occupazione e di

lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e di retribuzione, per i giovani, i

lavoratori anziani e i lavoratori con persone a carico, onde favorire l’inserimento

professionale o assicurare la protezione degli stessi». Queste disposizioni, dunque,

potrebbero essere certamente invocate per escludere l’illegittimità di una riduzione

dell’operatività del regime generale di protezione dai licenziamenti quale quella

risultante, nel contesto di un evidente trade off tra (più) occupazione giovanile e (meno)

stabilità, dal mai nato contratto francese. Occorre però tener presente che, in sintonia

con il consolidato canone che impone di interpretare in senso restrittivo le deroghe al

fondamentale principio di parità di trattamento, il citato art. 6.1. non può essere

considerato una sorta di miracoloso passe-partout (in senso analogo Bonardi 2007) e,

soprattutto, che anche «i giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del

lavoro e di formazione professionale» ivi menzionati devono essere perseguiti con

mezzi appropriati e necessari.

Proprio nel valutare la proporzionalità dei trattamenti differenziati destinati dagli

Stati membri a lavoratori giovani o anziani col dichiarato scopo di agevolarne

l’inclusione nella vita attiva, la Corte di giustizia potrebbe tornare ad adoperare –

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dimostrando così di avere a cuore anche l’omogeneità del diritto antidiscriminatorio

dell’Unione – il severo metro di giudizio utilizzato in Seymour-Smith98. Un esito del

genere, dopo lo strict scrutiny effettuato in punto di proporzionalità nel caso Mangold,

cioè nell’unico precedente giurisprudenziale in tema di discriminazioni per età, non è

poi così difficile da immaginare.

5. Conclusioni: tra soft e hard law, dove va l’Europa?

L’attraversamento dei due metodi nei quali trova espressione la regolazione

europea compiuto in questa ricerca, seppure nei limitati termini imposti dall’oggetto

della stessa, ha consentito di verificare l’esistenza di numerose interferenze tra l’uno e

l’altro, indotte dalla parziale sovrapposizione delle materie rientranti (nei Titoli VIII e

XI del Trattato cioè) nella politica per l’occupazione e nella politica so ciale: non a caso,

il raccordo con gli obiettivi della SEO è esplicitamente dichiarato nel preambolo di

diverse direttive “lavoristiche” dell’ultimo decennio 99.

La presenza di tali interferenze, tuttavia, costituisce una base troppo fragile per

giungere ad affermare che la distinzione tra hard law e soft law si è ridotta ad «una linea

disegnata nell’acqua» (così Bruun 2001, p. 323), o è comunque assai meno marcata di

quanto non appaia a prima vista, considerato che l’ hard law risulterebbe in concreto

meno incisivo che sulla carta e il soft law, al contrario, in grado di provocare sostanziali

cambiamenti (v., anche per più approfondite spiegazioni, Trubek e Trubek 2005, pp.

356-361). Questa visione minimizzatrice delle differenze intercorrenti, in punto di

effettiva capacità vincolante, tra metodo di coordinamento aperto e metodo comunitario

classico trova deboli riscontri, in verità, nell’esperienza reale, dalla quale emerge invece

97 Singolare dal momento che, in linea generale, ogni giustificazione non legalmente predeterminata è estranea alla nozione di discriminazione diretta: v. Izzi (2005, p. 398 e 62 ss.). 98 Come già puntualmente osservato da Bonardi (2007), poco importa che le discriminazioni basate sull’età qui ipotizzate siano di tipo diretto mentre il precedente Seymour-Smith riguarda una discriminazione indiretta, giacché «se la valutazione di legittimità di una determinata giustificazione deve essere fatta in modo rigoroso per le disposizioni, i criteri e le prassi che possono essere indirettamente discriminatori, a maggior ragione» lo stesso rigore dovrà essere adottato «ove si tratti di giustificare una differenziazione di trattamento … direttamente fondata sul fattore vietato». 99 Si fa riferimento, in particolare, alla direttiva n. 1997/81 sul lavoro a tempo parziale (una tipologia contrattuale molto utile all’espansione dell’occupazione perseguita dalla Strategia europea, come risulta dal preambolo del relativo accordo quadro), alla direttiva n. 1999/70 sul lavoro a termine (che richiama la SEO sia nel suo preambolo che in quello dell’accordo quadro) e alla direttiva quadro sulla parità di trattamento n. 2000/78 (di cui si v. il 25° considerando).

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il consumato tradimento di quella promessa partecipativa che dovrebbe rappresentare il

principale punto di forza della SEO100, da un lato, e la valorizzazione giurisprudenziale

dei contenuti prescrittivi, pur non particolarmente stringenti, risultanti dalle direttive

volte all’attuazione di accordi quadro europei e quindi geneticamen te “leggere” 101,

dall’altro.

Prendendo atto della netta divaricazione che persiste tra il processo di

coordinamento delle politiche occupazionali e la tecnica di armonizzazione delle

politiche sociali, non s’intende affatto sostenere che il primo sia condan nato ad essere

nulla di più di un salotto intergovernativo ove si scambiano amabilmente chiacchiere

prive d’utilità, anche se una serie di circostanze potrebbe indurre, per il passato e il

presente, a simile conclusione102. Affinché una poderosa impalcatura come quella messa

in piedi dalla SEO non corra il rischio di ridursi a questo, occorre però evitare il

ripiegamento in se stesso di un metodo innovativo proprio in quanto “aperto” e trovare

la volontà politica di compiere almeno qualcuna delle impegnative scelte che già sono

state ritenute necessarie per realizzarne un significativo rafforzamento103.

È anche nel merito, e non solo sul piano metodologico, ad ogni modo, che la

Strategia europea dovrebbe correggere il suo tiro. Se è vero che la qualità del lavoro

rappresenta il terreno sul quale il modello sociale europeo «deve misurare la … propria

capacità di resistenza alle spinte deregolative» (Ravelli 2006, p. 87) e se è vero che gli

indicatori statistici «non sono utensili neutri esterni alla procedura» ma strumenti chiave

100 Sull’insufficiente grado di partecipazione dei soggetti interessati a tale processo (soprattutto parti sociali e parlamenti nazionali) si v., oltre alla dottrina citata alla nota 2, la chiara denuncia contenuta nel rapporto congiunto sull’occupazione 2005/2006 (pp. 7 e 11). 101 Più precisamente, è alla direttiva 99/70 e all’interpretazione datane dalla Corte di giustizia nel caso Adeneler (v. supra, par. 4.1.), che si sta alludendo. 102 Infatti, da un lato, i piani d’azione nazionale – o programmi nazionali di riforma, secondo l’attuale denominazione – sono documenti di carattere politico redatti dai governi, sostanzialmente “a porte chiuse”, allo scopo di mostrare l’allineamento degli Stati membri alle richieste della Comunità (v. Dell’Aringa 2003, p. 629) e caratterizzati quindi da una naturale dose d’insincerità (così Skidmore 2004, p. 72); dall’altro, la Commissione, nel suo riesame, tende ormai ad evitare di formulare critiche nei confronti dei singoli Stati, limitandosi perlopiù a ripetere quanto da essi dichiarato (v. Szyszczak 2006, p. 489). 103 Si fa riferimento, principalmente, alle proposte avanzate dalla Commissione per rendere più penetrante il contenuto degli orientamenti per l’occupazione, miseramente affondate nel corso del processo di consultazione (v. Watt 2004, p. 131 ss., con riguardo alle guidelines per il 2003), nonché al rifiuto del Consiglio – istituzione prettamente intergovernativa e non sovranazionale, come fanno notare Lo Faro e Andronico (2005, p. 517) – di accogliere il suggerimento, formulato nel Rapporto del gruppo di alto livello presieduto da W. Kok dal titolo Facing the challenge. The Lisbon strategy for growth and employment (Lussemburgo: Ufficio delle pubblicazioni ufficiali delle Comunità europee, 2004), di far ricorso alla tecnica sanzionatoria del naming e shaming, potenzialmente utile ma certo pericolosa per i governi in periodi di elezioni (come De La Rosa 2005, p. 1214).

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«la cui selezione rivela gli schemi operativi impliciti della politica europea» (Lyon-

Caen e Affichard 2005, p. 1081), come si può, infatti, accontentarsi di affidare la

misurazione di quella cruciale componente della qualità del lavoro che è la flexicurity

(come s’è spiegato nel par. 2) ad un indicatore che considera la cruda percentuale di

contratti a termine, trascurando qualunque informazione sulle garanzie offerte ai

lavoratori da tale tipologia contrattuale e sulle prospettive di stabilizzazione ad essi

aperte? Mentre ci si domanda che fine abbia fatto la sicurezza che dovrebbe

controbilanciare l’accresciuta flessibilità (in entrata) del lavoro, sorge la tentazione di

dare ragione, in qualche misura, a chi imputa alle preoccupazioni eminentemente

quantitative della Strategia per l’occupazione la responsabilità di sospingere il modello

sociale europeo verso la deriva americana (così Vos 2005, p. 367).

Nella consapevolezza (non della ineluttabilità di tale conclusione ma certo)

dell’esi stenza di questo rischio, non è difficile capire perché l’affermazione

giurisprudenziale del «principio» secondo cui il lavoro a tempo determinato è destinato

a restare un’eccezione rispetto alla regola del lavoro a tempo indeterminato, insieme al

riconoscimento dell’impossibilità di sacrificare qualunque aspirazione alla stabilità del

lavoro sull’altare della crescita occupazionale (v. supra, par. 4.1., a proposito

rispettivamente delle sentenze Adeneler e Mangold), consentano di tirare un respiro di

sollievo, contribuendo ad incentrare su un concreto interesse dei lavoratori, qual è (in

linea di massima) il carattere permanente del loro contratto, l’obiettivo dell’occupazione

di qualità propagandato con astratta insistenza (come illustrato nel par. 2) a partire dal

Consiglio europeo di Lisbona.

Alla “sensibilità sociale” della Corte di giustizia, assai più che ai fiumi di parole

scorsi sinora nell’ambito della SEO, si deve dunque la precisazione che nell’ideale dei

better jobs è compreso un preciso impegno contro l’indiscriminata precarizzazione del

lavoro: ovvero a tutela di una stabilità dell’occupazione che continua a trovare nel

contratto a tempo indeterminato il suo punto di riferimento privilegiato, pur potendo

rappresentare anche l’esito di percors i diversi104.

È di scontata evidenza, naturalmente, la constatazione che i giudici comunitari non

avrebbero potuto fornire indicazioni come quelle sopra ricordate in mancanza di fonti

104 Si pensi alla già ricordata disciplina olandese del lavoro temporaneo (v. supra, nota 54) e, più in generale, alla prospettiva di ricomposizione unitaria delle esperienze lavorative discontinue (non solo dei lavoratori interinali) già indicata anni addietro da Supiot (1999, p. 70 ss.).

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vincolanti che, a differenza degli orientamenti per l’occupazione sui qu ali è imperniato

il processo di Lussemburgo, sollevano ben definiti problemi di conformità da parte delle

legislazioni nazionali, la cui soluzione è suscettibile di provocare incisive conseguenze

su larga scala: basti pensare alle inevitabili ripercussioni sulla disciplina italiana dei

contratti a termine (e forse anche, in via d’interpretazione estensiva, su quella francese

del contrat nouvelle embauche)105 della spiegazione del concetto di “successione” dei

contratti a tempo determinato di cui alla direttiva 99/70 offerta dalla Corte su

sollecitazione dei giudici greci (v. supra, par. 4.1.).

Sta di fatto, peraltro, che l’ hard law comunitario non contiene, allo stato, tutte le

indicazioni che sarebbero necessarie per rispondere alle molte domande aperte a

proposito dell’individuazione del punto di equilibrio tra stabilità e flessibilità. Quando

sia richiesta (occasionalmente) di prendere posizione riguardo a qualche particolare

aspetto di tale questione, la Corte di giustizia è quindi costretta a muoversi con la

massima delicatezza possibile, sulle basi (spesso limitate, come è accaduto nel caso

Seymour-Smith: v. par. 4.2.) che ha a disposizione, in un contesto giuridico complicato

dalla «coesistenza di due approcci regolativi … la cui interazione resta assolu tamente

indeterminata» (Bano 2005, p. 836).

Un utile contributo alla limitazione della confusione che regna su alcune questioni

focali per la definizione del modello sociale europeo potrebbe essere apportato, con

l’entrata in vigore del Trattato costituz ionale, dalla Carta dei diritti fondamentali in esso

recepita ma fino ad ora, nell’incertezza che circonda le sorti del processo di

costituzionalizzazione dell’ordinamento dell’Unione, quasi completamente ignorata dai

giudici comunitari (v. Greco 2006, p. 531 e Bellavista 2006, p. 22). Rispetto

all’interrogativo da cui ha preso le mosse questa ricerca, in particolare, un punto fermo

potrebbe essere posto con il principio di necessaria giustificazione del licenziamento

stabilito dall’art. 30 di tale Carta: u n principio apparentemente incapace di arricchire in

modo significativo l’ acquis communautaire (come s’è già osservato nel par. 4), ma che

potrebbe invece svolgere una preziosa funzione di orientamento del dibattito sulle

105 Del contrat nouvelle embauche, particolare contratto a tempo indeterminato caratterizzato da un iniziale biennio di libera recedibilità (come già illustrato nel par. 3), è infatti possibile l’illimitata reiterazione, in caso d’interruzione prima della scadenza del termine biennale, una volta decorsi almeno 3 mesi dal momento dell’interruzione. Dubbi di legittimità sono sollevati in proposito da Renzi (2006, p. 532 ss.), anche in riferimento alla durata ragionevole del periodo di prova imposta dalla convenzione OIL n. 158/1982 sui licenziamenti individuali.

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riforme da varare attualmente in corso, sbarrando la strada alle proposte di sostituzione

della giustificazione del licenziamento con un’indennità economica circolanti in qualche

zona del vecchio continente (segnatamente in Francia e Italia)106. Con l’entrata in vigore

della Carta di Nizza e il rafforzamento dell’orizzonte giuridico entro cui è chiamata ad

operare la Corte di giustizia, potrebbe risultare un po’ più semplice, dunque, capire dove

va l’Europa.

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106 Si v., per la Francia, la proposta avanzata nella relazione preparata per il Conseil Française d’Analyse Economique da Blanchard e Tirole (2004, già tradotta in lingua italiana), criticata fra gli altri da Gautié (2005, pp. 5-8), e, per l’Italia, quella di Ichino (2005, p. 28 ss.).

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