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Sicurezza dei pazienti e gestione del rischio clinico in medicina complementare Corso di formazione Empoli – ottobre 2009 promosso da: organizzato da: Agenzia per la Formazione Azienda Usl 11 Empoli Rete Toscana di Medicina Integrata Centro per la Gestione del Rischio Clinico e la Sicurezza del Paziente

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Sicurezza dei pazienti e gestione del rischio clinico in medicina complementare

Corso di formazione

Empoli – ottobre 2009

promosso da:

organizzato da:

Agenzia per la FormazioneAzienda Usl 11 Empoli

Rete Toscana di Medicina Integrata

Centro per la Gestione del Rischio Clinico e la Sicurezza del Paziente

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Sicurezza dei pazienti e gestione del rischio clinico in medicina complementareCorso di formazione

Supplemento n. 18 MC ToscanaRegistrazione Tribunale di Lucca n. 769Reg. Periodici del 19-22/03/04

Editing e coordinamento editoriale Mariella Di Stefano

Coordinamento Eureka s.r.l. Lucca

Grafica e copertina Cristina Francesconi

Stampa Tipografia Francesconi - Lucca

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Indice

PrefazioneDaniela Scaramuccia

Introduzione

Interventi e relazioni

Qualità e sicurezza: aspetti irrinunciabili delle medicine complementariValerio Del Ministro

Il quadro normativo regionale delle medicine complementari e non convenzionaliSonia Baccetti

Il cambiamento culturale necessario per migliorare qualità e sicurezza delle cureRiccardo Tartaglia

Lo studio degli incidenti in sanitàTommaso Bellandi

Farmacovigilanza e rischio clinico in medicina complementareAlfredo Vannacci, Eugenia Gallo

Codice deontologico medico: doveri e sanzioniAntonio Panti

Consenso informato, responsabilità professionale e risk management in medicina complementareMassimo Martelloni

Effetti avversi in agopuntura e medicina tradizionale cinese Sonia Baccetti, Maria Valeria Monechi

Fitoterapia e sicurezza dei pazienti Fabio Firenzuoli

Gli eventi avversi in omeopatiaElio Rossi

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Comunicazione e promozione della sicurezza in medicina complementareMariella Di Stefano

Tavola rotondaRadici antropologiche del rischio, responsabilità morale e giuridica per la promozione della cultura della sicurezza ed etica della scelta

Schede tecniche e applicative

La cultura della sicurezza: indagine esplorativaSara Albolino

Esempio di caso studio analizzato con l’approccio sistemico: ritardo diagnostico-terapeutico in paziente affetto da una grave forma di eritrodermia Tommaso Bellandi

Applicazione della FMEA ai percorsi di trattamento presso l’ambulatorio di MTC Fior di PrugnaPetra Scrivani

Formazione e medicine complementari: il ruolo dell’Agenzia per la Formazione Azienda USL 11 Empoli

Conclusioni

AllegatiModulo di informazione e consenso informato, Azienda USL 2 LuccaScheda AuditScheda segnalazione di sospetta reazione avversa a prodotti a base di piante officinali e a integratori alimentari

Ringraziamenti

Contatti

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Prefazione

Le medicine complementari sono antichissime. Nel corso dei mil-lenni l’umanità ha fatto riferimento ad esse per ottenere i miglio-ri risultati nella cura delle malattie e nel sollievo dal dolore. La medicina basata sull’evidenza non le ha mai “soppiantate”, così come non ha mai eliminato dall’uso più diffuso una farmacopea molto antecedente alla chimica moderna. Milioni di persone in tutto il mondo se ne giovano ancora, mol-tissimi medici le praticano quotidianamente, mentre in campo scientifico la discussione sul loro ambito di efficacia prosegue e la ricerca scientifica sviluppa le branche ad esse dedicate.

La Regione Toscana ha compiuto in questo campo passi molto più coraggiosi di quanto non sia avvenuto a livello nazionale, avviando e sviluppando un processo di integrazione che ha trovato nel Piano sanitario regionale 2008-2010 un momento importante di sintesi.I principi cardine per la costruzione della Rete Toscana di Medi-cina Integrata sono stati quelli a fondamento di tutto il sistema della sanità pubblica: integrazione, libertà di scelta da parte del paziente, libertà di cura da parte dei professionisti, qualità delle prestazioni, formazione degli operatori, ricerca. E, ultima ma non meno importante, la sicurezza del paziente.

A questo tema, delicatissimo, è stato dedicato il progetto formati-vo di cui questa pubblicazione raccoglie i documenti. Si è trattato di una iniziativa di grande rilievo, che ha fatto compiere alla rete delle medicine complementari un ulteriore passo avanti, arric-chendo la nostra sanità di un approccio sistematico a garanzia dei risultati di salute.

Stiamo tracciando una strada innovativa per tutta la sanità nazio-nale, la strada giusta per estendere le pratiche della sicurezza in tutte le pieghe del sistema.

Daniela ScaramucciaAssessore al Diritto alla Salute e alle Politiche di SolidarietàRegione Toscana

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Introduzione

Questa pubblicazione presenta i materiali (interventi, relazioni, schede tecniche e applicative ecc.) del corso di formazione “Sicu-rezza dei pazienti e gestione del rischio clinico in medicina com-plementare”, che si è svolto a Empoli nell’ottobre 2009 su inizia-tiva della Rete Toscana di Medicina Integrata (RTMI), del Centro per la Gestione del Rischio Clinico in collaborazione con l’Agenzia per la formazione della ASL 11 di Empoli.

La valutazione e la gestione del rischio clinico rappresentano sempre di più una questione importante e irrinunciabile per i pro-fessionisti e i manager della salute nella prospettiva di un mi-glioramento continuo della qualità dei servizi sanitari offerti ai cittadini. In particolare, la prevenzione degli eventi avversi è il punto di partenza per garantire al paziente un adeguato livello di sicurezza e per promuovere lo sviluppo professionale dei clinici e degli operatori sanitari.Nell’ambito delle medicine complementari questa esigenza è an-cora più forte per un’ampia serie di ragioni che includono la note-vole crescita del numero di cittadini che utilizzano queste medici-ne, la discussione in atto su questa materia nell’ambito scientifico e il processo di integrazione di queste discipline nelle risorse per la salute che si sta sviluppando, soprattutto in Toscana, negli ul-timi anni.La domanda di qualità, oltre che di quantità, nelle cure e nell’assi-stenza rappresenta un altro elemento di stimolo a sviluppare una valutazione del rischio e a costruire le basi per definire attività specifiche di prevenzione degli eventi avversi. L’obiettivo è quello di avviare un programma di gestione del ri-schio clinico a partire da un’analisi delle pratiche di lavoro reali all’interno delle strutture sanitarie di riferimento per le medicine complementari. Il corso ha preso in esame le medicine complementari e ha defi-nito i criteri appropriati per la valutazione del rischio e il monito-raggio dei percorsi diagnostico-terapeutici. Particolare attenzione è stata prestata alla relazione fra medico e paziente e alla comu-nicazione tra le strutture, che risultano tra gli aspetti più critici in questo contesto. Alla fine del corso è stato definito un piano operativo con l’obietti-

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vo di rendere costanti e quotidiane le attività di controllo e la veri-fica delle misure adottate nelle strutture pubbliche per la sicurez-za dei pazienti e la riduzione del rischio nella pratica clinica.

Il progetto formativo: articolazione e obiettivi

Il corso si è posto l’obiettivo di sviluppare le competenze neces-sarie per un approccio sistematico e concettuale di metodi e stru-menti finalizzati all’identificazione e alla prevenzione dei rischi, con l’eventuale segnalazione e la gestione degli eventi avversi.Al suo termine i partecipanti hanno acquisito le seguenti compe-tenze:- individuare le motivazioni, anche etiche, per l’impegno in ma-teria di prevenzione e gestione del rischio clinico nella pratica professionale quotidiana;- individuare le reazioni avverse delle medicine complementari;- valutare le cause delle insufficienze attive e di quelle latenti;- attuare interventi per la prevenzione dei rischi e per la gestione degli eventi avversi e delle relative conseguenze;- individuare il valore e le potenzialità della documentazione e collaborare alla sua adeguata gestione e archiviazione;- individuare le attività a maggior rischio per le diverse figure professionali e le relative responsabilità;- attuare la rete di gestione del rischio nell’ambito delle medicine complementari; - istruire i pazienti, i familiari, i volontari e gli operatori in materia di identificazione, prevenzione, e protezione dai rischi e di gestio-ne dei danni e delle relative conseguenze;- individuare le implicazioni in termini di rischio clinico di procedu-re, farmaci e tecnologie sanitarie nelle medicine complementari;- individuare le implicazioni organizzative, economiche e medico-legali del rischio clinico nelle medicine complementari.

Il corso è stato suddiviso in tre giornate. Nella prima sono stati trattati i principi etici e scientifici per la gestione del rischio clinico e la loro applicazione nelle medicine complementari. La seconda giornata ha affrontato gli aspetti normativi e deonto-logici riguardanti la segnalazione e l’analisi degli eventi avversi in medicina complementare e la segnalazione e l’analisi degli eventi avversi dalla teoria alla pratica. Infine, nella terza giornata sono

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stati esaminati gli aspetti tecnico-professionali specifici.

Responsabili del progetto formativo: Sonia Baccetti, Tommaso Bellandi, Fabio Firenzuoli, Gian Franco Gensini, Danilo Massai, Elio Rossi, Riccardo Tartaglia.

Ha coordinato il progetto formativo aziendale Alessandro Mancini e Francesca Maggiorelli ha svolto le attività di segreteria.

Docenti e moderatori

Sara Albolino: staff del Centro per la Gestione del Rischio Clinico e la Sicurezza del Paziente della Regione ToscanaSonia Baccetti: Responsabile Rete Toscana di Medicina Integrata e struttura regionale di riferimento per le MC e la MTC Fior di Pru-gna - Azienda Sanitaria di FirenzeTommaso Bellandi: staff Centro per la Gestione del Rischio Clini-co e la Sicurezza del Paziente della Regione Toscana Katia Belvedere: Direzione Generale Diritto alla Salute e Politiche di Solidarietà, Regione ToscanaSimonetta Bernardini: Responsabile del progetto sanitario di me-dicina integrata dell’Ospedale di PitiglianoDavid Coletta: medico di medicina generale, EmpoliValerio Del Ministro: Responsabile Settore Assistenza Sanitaria, Regione ToscanaMariella Di Stefano: Direttore del Notiziario regionale MC Tosca-naFabio Firenzuoli: Responsabile struttura regionale di riferimento per la fitoterapia - Centro di Medicina Naturale, Az. USL 11 di EmpoliGian Franco Gensini: Preside della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di FirenzeMassimo Martelloni: Direttore della U.O. di Medicina Legale Az. USL 2 di Lucca; componente medico-legale del Consiglio Sanita-rio Regionale della Regione Toscana; componente medico-legale della Commissione Regionale di Bioetica della Regione ToscanaAntonio Panti: Presidente dell’Ordine dei Medici di FirenzeCarlo Pizzirani: Vicepresidente Federazione Nazionale Ordine dei Veterinari ItalianiElio Rossi: Responsabile struttura regionale di riferimento per

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l’omeopatia - Ambulatorio di omeopatia, Az. USL 2 di LuccaAlberto Schiaretti: Presidente Ordine dei Farmacisti di FirenzeRiccardo Tartaglia: Direttore Centro per la Gestione del Rischio Clinico e la Sicurezza del Paziente della Regione ToscanaAlberto Zanobini: Responsabile Settore Risorse Umane, Comuni-cazione e Promozione della Salute, Regione ToscanaAlfredo Zuppiroli: Presidente della Commissione di Bioetica della Regione Toscana

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Interventi e relazioni

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INTERVENTI E RELAZIONI

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QUALITÀ E SICUREZZA: ASPETTI IRRINUNCIABILI DELLE MEDICINE COMPLEMENTARI

Valerio Del MinistroDirigente responsabile settore Assistenza sanitaria, Regione Toscana

Nell’augurare a tutti buon lavoro, vorrei condividere alcune rifles-sioni che valgano anche da introduzione al corso. La prima è che abbiamo raggiunto un livello così interessante di approfondimen-to del dibattito culturale e di un pensiero sulle medicine comple-mentari perché la Regione Toscana è partita da un’osservazione, e cioè dal fatto che i cittadini toscani utilizzavano questa tipologia di medicine. Non solo le utilizzavano i cittadini ma anche i medici, come ha evidenziato un’indagine condotta qualche anno fa dall’Agenzia Regionale di Sanità (ARS). Secondo quello studio, realizzato su un campione significativo di medici di medicina generale e di pe-diatri di libera scelta, il 15% dei medici utilizzava le medicine complementari, il 58% le consigliava e il 23% le aveva usate su di sé per vari problemi di salute. Era ragionevole, dunque, che si avviasse un percorso volto ad ac-creditare queste terapie, un percorso che potesse garantire deter-minati livelli di qualità nell’erogazione delle prestazioni ai cittadini, quindi la stesura di un elenco dei medici che praticano tre medicine complementari: l’agopuntura, la fitoterapia e l’omeopatia. La Legge regionale n. 9 del 2007, rivista e modificata dalla Legge 31 emanata nello stesso anno, ha definito un percorso normativo che, oltre a istituire gli elenchi dei medici che esercitano le tre di-scipline citate, procede all’accreditamento del percorso formativo dei professionisti e degli istituti pubblici e privati di formazione in medicina complementare, prevedendo anche un regime transitorio per le scuole e i professionisti che già praticavano queste discipline prima dell’approvazione del citato provvedimento legislativo. Anche il secondo filone si inserisce nella pianificazione regionale, potremmo dire nel piano e nella legge, o meglio si inserisce in un concetto generale di salute intesa come la salute nell’equilibrio di un soggetto ambiente, che dipende da alcuni determinanti di cui quello sanitario costituisce solo una parte, poiché determinanti di salute sono anche le condizioni ambientali, la genetica, le condi-zioni socio-culturali e quelle socio-economiche e i sistemi sanitari.

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In una logica di pianificazione che guarda più alla salute che alla sanità, in una logica di pianificazione dunque più ampia dove i piani integrati di salute sono un momento di programmazione che unisce le comunità locali - gli enti locali, i comuni, le società della salute - alla programmazione delle aziende, la visione culturale delle medicine complementari si inserisce in maniera ottimale. Un’altra piccola riflessione: perché medicine complementari? An-che questa è stata una strategia vincente della Regione Toscana e di coloro che hanno lavorato alla definizione della normativa regionale in materia. Con il concetto di complementarietà, infatti, si è introdotta un’altra possibilità di scelta non solo per il cittadi-no, ma anche per il professionista della Toscana che consente, di fatto, di utilizzare una gamma di terapie più ampia di quelle che sono consentite in altre Regioni. Non a caso, infatti, le prestazioni di medicina complementare sono state inserite nei Livelli Essen-ziali di Assistenza (LEA), hanno una tariffazione e un codice di riconoscimento. Si tratta dunque di un filone normativo che tende a privilegiare la qualità. A questo punto, arriviamo a parlare di questo corso, orientati principalmente verso due aspetti. Prima di tutto dimostrare l’ef-ficacia delle medicine complementari, raccogliere le prove scien-tifiche, perché la scommessa dell’integrazione si basa sulla pos-sibilità di dimostrare l’azione terapeutica di queste medicine che, per alcuni versi, è già dimostrata e dimostrabile. Questa deve essere una prospettiva di sviluppo del sistema e di logica su cui il sistema si misura. L’altro tema è quello della sicurezza, che è intrinsecamente legato al concetto di qualità, poiché non esiste la qualità senza la sicurezza. Questo concetto fa parte del patrimonio etico del sistema e, se le medicine complementari non sono una monade ma fanno parte del sistema, anch’esse devono affrontare la questione della sicurezza. Credo dunque che questo corso si inserisca in una logica com-plessiva coerente in cui le medicine complementari rappresenta-no un’altra opportunità terapeutica offerta sia ai professionisti sia ai cittadini. D’altra parte un sistema che si definisce etico, un sistema uni-versalistico, non può non occuparsi di sicurezza. Un sistema che introduce le medicine complementari come un’integrazione alla medicina accademica deve considerare la sicurezza come uno strumento efficace di governo di queste medicine. Per queste ra-gioni giudico particolarmente interessante questo corso.

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Interventi e relazioni

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IL QUADRO NORMATIVO REGIONALE DELLE MEDICINE COMPLEMENTARI E NON CONVENZIONALI

Sonia BaccettiResponsabile del coordinamento Rete Toscana di Medicina Inte-grata

Questo intervento passa in rassegna in modo sintetico i princi-pali atti normativi che hanno permesso di introdurre le medicine complementari nel Servizio Sanitario Regionale (SSR) della To-scana, l’unica regione in Italia, e a detta dei colleghi europei e cinesi anche unica al mondo, con processo di integrazione così sviluppato.L’estate scorsa, durante un viaggio di studio in Cina, ho incontra-to il Rettore della Facoltà di Medicina Tradizionale Cinese (MTC) dell’Università di Pechino e quando ho spiegato che in Toscana questa medicina fa parte del servizio sanitario pubblico e che ci sono decine di ambulatori pubblici, la sua reazione è stata di grande sorpresa. Infatti, la sanità in Cina oggi è a carico del cit-tadino, anche se questi non deve esborsare cifre altissime. La Regione Toscana è, dunque, una delle esperienze più avanzate in materia di integrazione e ciascuno di noi deve essere consape-vole di essere portatore di un’innovazione e di una specificità di grande valore. La politica sanitaria della Regione Toscana si basa su alcuni prin-cipi fondamentali. Primo fra tutti quello dell’integrazione, intesa non come sopraffazione o come annullamento delle differenze, ma come interazione e rapporto fra pari. Gli altri due principi su cui si fonda la scelta della Regione Toscana di includere le medici-ne complementari nel Servizio sanitario pubblico sono la libertà di scelta terapeutica per i cittadini e la libertà di cura per il medico.Quando parliamo di scelta terapeutica, ci riferiamo al diritto di scegliere esercitato da un utente informato e questa condizione deriva dall’alleanza che deve instaurarsi fra il paziente e il perso-nale sanitario. Altri elementi che distinguono il lavoro della Regio-ne Toscana in questo campo sono il rilievo attribuito al percorso di formazione e l’appropriatezza delle prestazioni. Altrettanto im-portanti sono la sicurezza del cittadino - come dimostra questo corso sul rischio clinico in medicina complementare - l’umaniz-zazione delle cure e l’uguaglianza di accesso alle terapie. Infatti, nella maggior parte del mondo le medicine complementari sono

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una prerogativa delle classi sociali medio-alte e con una cultura di livello corrispondente. Negli Stati Uniti, ad esempio, le cosiddette “medicine complementari e alternative” (CAM) sono poco diffuse fra gli Ispanici e gli Afro-americani, mentre sono piuttosto popo-lari nella popolazione di origine anglosassone.L’integrazione delle medicine complementari nel SSR significa ga-rantire a tutti gli utenti/cittadini uguale accesso alle cure. Non è un caso, dunque, se le ricerche condotte in Toscana mostrano che l’utenza delle medicine complementari è composta soprattutto da casalinghe, pensionati, dunque anche da persone con un livello culturale medio-basso, in controtendenza rispetto a quanto indi-cano i dati internazionali.Un atto di grande rilievo nella programmazione sanitaria riguar-dante le medicine complementari è il Piano Sanitario Regionale (PSR) per il triennio 2008/2010; già nel 1998 tuttavia il PSR con-teneva una sezione dedicata a queste discipline. Il Piano Sanitario Regionale citato afferma che agopuntura, fitoterapia e omeopatia fanno parte del Servizio Sanitario Regionale, come aveva peraltro stabilito una precedente delibera, ma specifica soprattutto che in ogni Azienda sanitaria della Toscana deve essere attivato almeno un centro di medicina complementare integrata. Un altro passaggio normativo di rilievo è la Legge regionale n.9 del 2007 che definisce i principi basilari per la formazione degli operatori sanitari in agopuntura, fitoterapia e omeopatia. Il prov-vedimento non riguarda soltanto i medici, ma interessa anche i veterinari e i farmacisti. La legge stabilisce che chi ha seguito un percorso formativo che corrisponde ai criteri fissati all’inter-no della norma può, se vuole, inserire questa annotazione negli elenchi attivati presso i relativi Ordini professionali.È una novità di rilievo perché se è vero che in Italia anche altri Ordini, come ad esempio quello di Roma, hanno già attivato gli elenchi degli esperti nelle varie discipline complementari su base volontaria, la Regione Toscana è la prima e l’unica che ha istituito gli elenchi degli esperti di medicina complementare in base a una legge. Di fatto si tratta degli unici elenchi validi in Italia.Molti si chiedono perché la Regione Toscana ha deciso di disci-plinare soltanto tre medicine complementari (agopuntura, fito-terapia e omeopatia), escludendo altre discipline esercitate da medici, veterinari e farmacisti oppure le discipline esercitate da professionisti di altro tipo. Qualcuno ha obiettato, ad esempio, che manca una norma che riconosca e disciplini la professionalità

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dell’osteopata, che in altri Paesi europei ha un profilo e un iter formativo propri. È utile chiarire che non potevamo varare una normativa che di-sciplina nuove professioni, perché questo atto è una prerogativa esclusiva dello Stato. Le leggi regionali possono regolare soltanto le figure professionali già esistenti ed è ciò che abbiamo fatto oc-cupandoci di formazione per medici, veterinari e farmacisti.La legge regionale toscana permette di accreditare gli istituti di formazione in medicina complementare pubblici e privati e di in-serire i professionisti esperti nelle tre discipline complementari nell’apposito elenco. Si tratta di un primo e importante passo. Gli elenchi a nostra disposizione, che si riferiscono a febbraio 2009 e sono divisi per disciplina, mostrano che in Toscana ci sono 86 medici iscritti negli elenchi di agopuntura e MTC, 165 in quelli dell’omeopatia e 17 fitoterapeuti. Secondo l’ultimo censimento (2009) sono in funzione 71 ambulatori pubblici di medicina com-plementare: 36 di agopuntura e MTC, 20 di omeopatia e 15 di fitoterapia. Un altro passaggio importante del processo di regolamentazione e integrazione delle medicine complementari è l’istituzione della Rete Toscana di Medicina Integrata (RTMI). Il ricorso al concetto di rete all’interno del servizio sanitario rappresenta una specifici-tà e un’innovazione della Regione Toscana. In questo modo viene superato il vecchio concetto di organizzazione sanitaria, dove le aziende sanitarie sono in competizione fra loro e ciascuna cerca di acquisire le proprie eccellenze. Gli ultimi due Piani sanitari della Regione Toscana hanno come elemento di innovazione comune proprio la costruzione di un sistema in rete, basato innanzitutto sulla mutua collaborazione fra le strutture. Questo criterio orga-nizzativo non esclude che esistano dei centri di eccellenza, ma ciò che conta è che tutte le componenti del sistema sanitario re-gionale possano svilupparsi. Tutte le attività del sistema sanitario regionale sono state organizzate in conformità a questi criteri; l’Istituto Toscano Tumori (ITT), per esempio, non ha un polo on-cologico di eccellenza, come accade in Lombardia o in altre regio-ni italiane, ma si è strutturato intorno a diversi poli che devono tutti migliorare la loro qualità. Questo concetto è stato applicato anche all’ambito delle medi-cine complementari con l’istituzione della RTMI, che ha sede in Regione presso l’Assessorato al diritto alla salute e promuove lo sviluppo del nostro settore in collaborazione con il gruppo regio-

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nale del governo clinico. Fra le norme che sono state approvate per promuovere l’integra-zione, occorre segnalare l’inclusione di esperti in medicine com-plementari nel Consiglio Sanitario Regionale (CSR) e nei Consigli sanitari delle Aziende sanitarie regionali. Il CSR è un organismo consultivo di governo clinico che ha il compito di promuovere e proporre su questioni che riguardano la qualità. La presenza di rappresentanti della medicina complementare in questa struttura permette di lavorare in sinergia con l’intero sistema e di ricordare che nella nostra regione esiste anche il settore delle medicine complementari. Sono stati realizzati dei lavori in collaborazione, comprese le linee guida sulla menopausa, alle quali hanno por-tato il loro contributo i tre centri regionali di riferimento di Campi Bisenzio, Empoli e Lucca. Un discorso analogo riguarda i Consigli sanitari aziendali. La Rete Toscana di Medicina Integrata si occupa anche di coope-razione sanitaria internazionale attraverso il sostegno a specifici progetti di cooperazione e mantiene rapporti con altre regioni a livello nazionale per coordinare le iniziative promosse in materia di integrazione delle medicine complementari. Ultimo ma non meno importante, occorre ricordare fra gli ele-menti basilari delle nostre attività la qualità delle prestazioni e la ricerca; in quest’ambito è in corso di definizione un progetto di ricerca europeo circa l’utilizzo delle medicine complementari in oncologia, in collaborazione con l’Istituto Toscano Tumori.

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IL CAMBIAMENTO CULTURALE NECESSARIO PER MIGLIO-RARE QUALITÀ E SICUREZZA DELLE CURE

Riccardo TartagliaDirettore Centro Gestione Rischio Clinico e Sicurezza del Pazien-te, Regione Toscana

La gestione del rischio clinico avrà ottenuto dei risultati importan-ti solo quando il tema della sicurezza sarà diventato un aspetto intrinseco della pratica clinica di ogni operatore sanitario e quan-do i manager della sanità saranno in grado di progettare l’orga-nizzazione del lavoro secondo i limiti delle persone. L’obiettivo prioritario della gestione del rischio è quello di pro-muovere una cultura della sicurezza. Non è un obiettivo facile da raggiungere poiché siamo ancora pervasi da una cultura medica che basa tutto sulle proprie risorse cognitive, sulle proprie cono-scenze e competenze tecniche. In realtà livelli più alti di sicurezza si raggiungono se siamo anche capaci di lavorare insieme soste-nendoci l’uno con l’altro e se si inseriscono nel sistema delle bar-riere protettive che intercettino gli errori cognitivi e organizzativi prima che determino un evento avverso.

Il punto di partenza di questo cambiamento culturale è stato il rapporto dell’Institute of Medicine To err is human (2000), che forniva dati sconcertanti sui decessi causati dagli errori medici. I dati provenivano da due studi epidemiologici, uno condotto nello stato dello Utah Colorado e un altro nello Stato di New York. Il documento riportava un numero di eventi avversi fatali da errori dei medici superiore a quelli causati da incidenti automobilistici e infortuni. Questo primo rapporto è stato seguito da molte altre ricerche, anche in epoca più recente, che hanno confermato alti tassi di eventi avversi nella pratica clinica. Una review dei maggiori studi epidemiologici, pubblicata nel 2009 sulla rivista Quality and Sa-fety in Health Care edita dal British Medical Journal, determina un tasso di eventi avversi pari al 9.2% ogni cento ricoveri. Laddove per “evento avverso” si intende un danno al paziente causato dalla gestione sanitaria, un evento dunque non collegato diret-tamente alla malattia, ma soprattutto un incidente che si può prevenire. Un aspetto importante dell’analisi degli eventi avversi è che a

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migliaia di mancati incidenti, a centinaia di piccoli eventi di lieve entità, possono corrispondere decine di incidenti severi e alcuni eventi mortali. È fondamentale, dunque, nell’ambito della gestio-ne del rischio, imparare soprattutto dai mancati incidenti, i più numerosi. La cultura nella quale siamo stati formati e di cui risentiamo quan-do analizziamo gli eventi avversi è quella della colpa, la ricerca delle responsabilità. Questo culto della responsabilità personale sta alla base anche di un mancato sviluppo della cultura della sicurezza. Concentrarsi sull’incidente in sé e sulla persona, invece che sul contesto e l’organizzazione in cui l’evento avverso ha avuto luogo e pensare che la questione si possa risolvere con provvedimen-ti disciplinari, risponde a una logica che appartiene al passato. Punire una persona oppure allontanarla dall’ambiente di lavoro tranquillizza forse l’opinione pubblica ma non rende più sicuro il sistema. In un bel film del 1955, Nessuno resta solo di Stanley Kramer con Frank Sinatra e Robert Mitchum, un film cult per molti chirurghi, il direttore dell’anatomia patologica dice: “Un medico è memoria, dovete imparare le 1.500 pagine di questo libro se volete avere l’immunità per uccidere”. In questa frase c’è tutta l’enfasi di un film, ma in realtà la nostra formazione di medici si è basata molto sulla memoria finché qualcuno ci ha detto: “attenzione c’è troppo ospedale intorno agli operatori”, che non ce la fanno a sostenere un carico cognitivo e alla fine dimenticano dei passaggi cruciali di una procedura chirurgica o di un percorso clinico-diagnostico. Se c’è troppo ospedale intorno agli operatori, dovremo aiutarli con strumenti di supporto cognitivo, come ad esempio le checkli-st del percorso chirurgico, questo afferma Atul Gawande, uno dei maggiori opinion leader (autore di libri di successo e di apprezzati articoli su New Yorker) che promuove questo cambiamento cultu-rale. Se è vero ciò che dice Donald Berwik, un altro dei guru della qualità e della sicurezza, e cioè che ogni sistema è organizzato per ottenere i risultati che ottiene, le conseguenze della cultura della colpa non possono che essere queste, quelle che abbiamo avuto fino ad oggi: nascondere gli incidenti, attribuirne la causa ad altri e ignorare perfino i mancati incidenti. Per questo è necessario un cambiamento culturale, perché il ti-more della segnalazione, di capire perché è accaduto un certo evento, non è legato soltanto al timore delle possibili conseguen-

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ze, penali e giudiziarie, o di perdere la stima dei colleghi ma dipende dal fatto che la nostra cultura ci spinge a pensare che quando accade qualcosa abbiamo il dovere di capire perché è accaduto. Oggi la maggioranza degli operatori sanitari crede nei sistemi di incident reporting come strumento per migliorare la qualità del proprio lavoro.Poco più di un anno fa il nuovo codice deontologico della Fede-razione Nazionale Ordini Medici Chirurghi e Odontoiatri (FNOM-CeO) ha stabilito che gli operatori hanno il dovere deontologico di segnalare gli errori e di avviare approfondimenti e analisi per evitare che possano ripetersi. Purtroppo siamo consapevoli che le strutture sanitarie sono af-fette in alcuni casi dalla cosiddetta “sindrome del sistema vulne-rabile”, così definita da James Reason, uno dei principali studiosi internazionali di errore umano. Tale sindrome è caratterizzata dalla tendenza a colpevolizzare gli operatori di prima linea, non considerare gli errori organizzativi, essere troppo condizionati nella gestione dell’ospedale da indicatori di tipo economico e non di qualità e sicurezza delle cure. È ormai dimostrato che un elemento di vulnerabilità del sistema consiste proprio nel negare i possibili errori organizzativi. È un errore organizzativo anche non mettere gli operatori in condi-zioni di agire al meglio della loro competenza professionale con un’adeguata formazione, ridurre i tempi delle visite, non investire in attività che migliorano la sicurezza ecc. In cosa consiste il passaggio fondamentale di questo cambiamen-to culturale? Organizzare il lavoro in sanità sapendo che le per-sone possono sbagliare, perché sbagliare è umano, è insito nella razionalità limitata. Dovremmo dunque come operatori sanitari considerare attentamente quest’aspetto e concentrarci sul conte-sto organizzativo e culturale invece che sulla performance. Dovremmo svolgere un ruolo di supporto, di stimolo, di motiva-zione e promuovere una cultura dell’apprendimento e della co-municazione. Un’altra questione fondamentale della gestione del rischio sono le relazioni umane tra operatori sanitari. È evidente che se non c’è il clima giusto, è molto difficile sviluppare la gestione del rischio. In questi anni il Centro Gestione Rischio Clinico della Regione Toscana è intervenuto in strutture sanitarie dove il livello di con-flittualità e tensione era così alto che parlare dei propri errori era

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davvero difficile. Occorre perciò lavorare sull’organizzazione, sul-le risorse umane, e non pensare più alla medicina come a un’at-tività di singoli operatori. Oggi, in effetti, si lavora sempre più in team, il che richiede una certa capacità di relazione. Questo cambiamento culturale comporta anche il passaggio da un’etica medica basata sull’autorità di stato, a un’etica basata sull’autorità di fatto; da un’etica basata sulle certezze a un’etica in cui si parla di probabilità, da un’etica basata sui dogmi a un’eti-ca che si basa su dati empirici, sulle valutazioni di probabilità; da un’etica paternalistica a un’etica basata sulla partnership e sulla collaborazione. In questo ragionamento è importante lo studio dell’ergonomia del fattore umano, come dice Reason: “non possiamo cambiare gli esseri umani, per loro stessa natura fallibili, ma possiamo cam-biare le condizioni in cui essi lavorano”, introducendo nel sistema delle barriere che permettono di intercettare gli errori prima che determinino un danno. È da qui che bisogna iniziare a organizzare il lavoro: progettare i sistemi e anche le apparecchiature biomedicali. Dobbiamo pro-gettare sistemi che si adattino ai lavoratori e non lavoratori che si adattino ai sistemi.Il nuovo approccio alla sicurezza del paziente ha introdotto, ac-canto al fallimento attivo conseguente a errori di comportamento dovuti all’operatore, il fallimento latente, cioè gli errori associati ad attività distanti, in termini di spazio e di tempo, dal luogo dell’incidente, come le attività manageriali, normative e organiz-zative. Le conseguenze degli errori latenti possono restare silen-ti nel sistema anche per lungo tempo e diventare evidenti solo quando si combinano con altri fattori in grado di rompere le dife-se del sistema stesso. Nei nostri ambienti talvolta sono emanate regole senza tener conto delle loro reali possibilità di applicazione che servono solo a togliere al management il peso di alcune responsabilità. Tra le criticità che si devono affrontare per migliorare la sicurez-za, la comunicazione ha un ruolo basilare. La Joint Commission on Accreditation of Healthcare Organizations (JCAHO) mediante l’analisi di numerosi eventi sentinella utilizzando la “route cause analysis”, una metodica di studio molto usata per l’analisi degli incidenti, pone la comunicazione al primo posto come causa di evento sentinella. Possono esserci incidenti di vario genere colle-gati alla comunicazione. Si lavora spesso in ambienti con un forte

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rumore di fondo, mentre in radiologia ci sono enormi problemi d’interpretazione delle immagini conseguenti alla complessa co-municazione visiva. Ci sono i problemi di comunicazione legati all’ambiguità semantica e fonetica ma anche alla deferenza ge-rarchica e alla conflittualità tra operatori. Un’altra questione da affrontare nei nostri ospedali riguarda le tecnologie. Le apparecchiature non tengono conto dell’ergonomia e dell’usabilità. È necessario a tal fine basare gli acquisti anche su questi requisiti.La cultura della sicurezza si aumenta e si diffonde anche con i sistemi di segnalazione volontaria.È necessario effettuare audit clinici e rassegne di mortalità per migliorare il nostro lavoro anche a seguito di eventi significativi. È però necessario stabilire anche degli obiettivi a breve termine. Le campagne di sensibilizzazione promosse su alcune buone pra-tiche, a livello nazionale e regionale, hanno questo significato.Nella Regione Toscana ne abbiamo realizzate su varie temati-che: l’igiene delle mani per prevenire le infezioni ospedaliere, la scheda terapeutica unica per evitare gli errori di trascrizione, la checklist di sala operatoria per evitare dimenticanze prima e dopo l’intervento chirurgico, la “Modified Early Warning Scale” per prevenire il rischio di arresto cardiaco. Occorre anche mitigare gli effetti indesiderati del cambiamento. Sappiamo, infatti, che i momenti di grande trasformazione devo-no essere guidati e supportati costantemente. Bisogna dunque sostenere gli operatori che vivono questi cambiamenti e promuo-vere il lavoro di gruppo, standardizzare e riprogettare le procedu-re tenendo conto degli errori. Questa è la filosofia che abbiamo cercato di promuovere nel Ser-vizio Sanitario Toscano, consapevoli che, per citare Albert Ein-stein: “I problemi che abbiamo oggi non saranno mai risolti all’in-terno della stessa cultura che li ha generati”. È necessario promuovere questo cambiamento culturale e invito anche voi, se ci credete, a diffondere nelle vostre sedi lavorative questa nuova cultura del segnalare e imparare dai propri errori, l’unica che può migliorare qualità e sicurezza. È molto importante, infine, che anche i cittadini siano consape-voli di queste dinamiche e che insieme a loro, con il loro coinvol-gimento, si lavori per metterli in grado sempre di più di fare le proprie scelte in materia di salute basandosi su dati oggettivi e su indicatori condivisi.

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Riferimenti bibliografici

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LO STUDIO DEGLI INCIDENTI IN SANITÀ

Tommaso BellandiCentro per la Gestione del Rischio Clinico e la Sicurezza del Pa-ziente, Regione Toscana

La prospettiva sistemicaMolti incidenti in sanità e in altri settori vanno studiati secondo la prospettiva sistemica, per riuscire a comprenderli a fondo e ottenere un apprendimento organizzativo. Come abbiamo visto negli interventi precedenti, azioni e fallimenti dei singoli individui hanno un ruolo centrale, ma il loro modo di pensare e di agire è fortemente condizionato dal contesto vicino e dalle più ampie dinamiche organizzative.Reason (1997) ha descritto gli elementi essenziali degli incidenti organizzativi. Prima di entrare nel merito delle modalità di analisi proposte da Reason e delle tecniche sviluppate per il contesto sanitario, occorre premettere che non tutti gli eventi avversi sono da ricondurre ai fattori latenti e dunque da indagare in profondità secondo la prospettiva sistemica. In alcuni casi gli errori sono confinati al contesto operativo e pos-sono essere spiegati con l’analisi dei fattori individuali e le carat-teristiche del compito. In realtà, analizzando le interazioni emer-gono sempre anche fattori latenti che, però, in alcune situazioni hanno un peso minore rispetto alle dinamiche del contesto vicino. In ogni caso, gli incidenti più gravi hanno bisogno di un certo pe-riodo d’incubazione, perché coinvolgono un gran numero di per-sone e di fattori che vi contribuiscono. In queste circostanze, la modalità di analisi organizzativa, conseguente all’adozione della prospettiva sistemica, è di grande efficacia per l’interpretazione dell’incidente (�incent, 1998, Taylor-Adams e �incent, 2003). L’incubazione dell’incidente inizia con gli effetti negativi dei pro-cessi organizzativi di alto livello, come la pianificazione e la pro-grammazione della produzione dei servizi, la previsione del volu-me di attività, la progettazione e la manutenzione degli ambienti e delle tecnologie, le strategie di sviluppo e le politiche del per-sonale. I fallimenti a questo livello creano le condizioni latenti di pericolo che si riversano e si diffondono in contesti operativi come la sala operatoria o il pronto soccorso. Qui possono creare le condizioni locali, come un eccessivo carico di lavoro o una cattiva interazione con le apparecchiature, che promuovono l’attuazione

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di errori o di violazioni. Molte azioni insicure sono commesse sulla prima linea, ma soltanto poche di esse riescono a penetrare le difese del sistema generando l’incidente. Il fatto che le barriere di sicurezza (Hollnagel, 2005) ingegnerizzate nel sistema, come al-larmi e procedure, abbiano delle deficienze dovute a errori laten-ti, ma anche a errori attivi, è illustrato nella figura 1 dalla freccia che buca le barriere di difesa del sistema generando l’incidente.

Figura 1. Lo sviluppo degli incidenti

Le persone che lavorano sulla prima linea sono gli eredi dei falli-menti del sistema invece che i responsabili di azioni insicure che provocano incidenti. Il modello non va inteso tuttavia come un invito a spostare la ricerca dei colpevoli dai professionisti della prima linea ai manager del livello organizzativo, quanto a consi-derare che gli stessi manager lavorano in un ambiente comples-so, in cui gli effetti di decisioni e azioni non sono immediatamente evidenti. Pertanto, secondo Reason (2001) i manager non sono da incolpare né più né meno degli operatori della prima linea, poiché anche loro, in quanto esseri umani, possono commettere errori di pianificazione e di esecuzione. È opportuno dunque che la cultura della sicurezza sia condivisa a tutti i livelli, affinché manager e progettisti tengano conto delle condizioni di pericolo che possono derivare dalle loro decisioni o azioni. Talvolta la percezione del rischio è più bassa in chi lavora a grande distanza dalla prima linea, perché il mancato contat-

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to diretto con i processi produttivi e il contesto delle operazioni spinge i manager e i progettisti del blunt end a sottovalutare le dinamiche della sicurezza nelle prestazioni. È piuttosto da bia-simare l’atteggiamento di manager e progettisti che decidono e agiscono senza un confronto costante con la realtà della prima linea e senza coinvolgere chi sta a diretto contatto con il processo produttivo. In sanità, la distanza tra il blunt end e lo sharp end è in certi casi accentuata dal fatto che alcune scelte di tipo politico e or-ganizzativo avvengono al di fuori delle strutture sanitarie, sulla base di valutazioni di rischi e benefici non sempre coerenti con la missione delle strutture sanitarie. Ci sono quindi problemi di tipo inter-organizzativo che travalicano i confini delle strutture sanitarie e che, talvolta, possono essere decisivi per la qualità e la sicurezza delle prestazioni. Come è stato osservato anche nel contesto dell’aviazione (Catino, 2003), l’industria dei farmaci e delle apparecchiature biomedicali, il governo e le agenzie collega-te, gli ordini professionali e le società scientifiche contribuiscono in misura consistente al disegno delle strutture e dei processi di diagnosi e cura, introducendo un ulteriore livello di complessità nel sistema che manca nella rappresentazione della figura 1.Il problema della regolamentazione in sanità è particolarmente critico, perché se è vero che si tratta di un settore in cui l’autono-mia dei professionisti della prima linea è così accentuata che ogni tentativo di uniformazione delle pratiche rischia di scontrarsi con tradizioni professionali consolidate, d’altro canto la personalizza-zione della relazione è parte importante dell’assistenza, tanto che risulta inaccettabile una cieca standardizzazione delle procedure che può avere un impatto negativo sulla sicurezza. I programmi di qualità e accreditamento calati dall’alto hanno rappresentato più un eccesso burocratico che un miglioramento delle pratiche di lavoro per gli operatori, ai quali è stato richiesto di compilare montagne di carta e moduli di cui non coglieva-no il significato. Questo intervento di regolamentazione funziona se attuato nella logica del governo clinico, cioè nell’incontro tra enti regolatori e professionisti della prima linea (Tomassini et al, 2003).Vincent e colleghi (1998, 2003) hanno esteso il modello di Rea-son per applicarlo all’analisi degli eventi avversi in sanità, classi-ficando le condizioni del contesto vicino che favoriscono gli errori e le caratteristiche del livello organizzativo in un’unica cornice dei

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sette fattori che influenzano le pratiche cliniche (tabella 1).All’inizio ci sono i fattori connessi alle condizioni del paziente. In tutte le situazioni cliniche, le condizioni del paziente influiscono in modo diretto sulle pratiche e sui risultati delle prestazioni sa-nitarie. Altri fattori, come la personalità del paziente, la lingua ed eventuali problemi psicologici, possono essere molto importanti perché influenzano la comunicazione con il personale sanitario.Anche il disegno del compito, la disponibilità e l’utilità di protocolli e dei risultati di test diagnostici possono influenzare il processo di cura e la qualità dei risultati.I fattori individuali includono conoscenze, abilità ed esperienza di ogni membro dello staff, che influiscono su qualità e sicurezza delle prestazioni.Ogni membro dello staff è parte di un gruppo all’interno di un’uni-tà operativa, parte dell’ampia struttura ospedaliera o territoriale, a sua volta inserita in un’azienda sanitaria o ospedaliera. Il modo in cui un individuo opera e il suo impatto sul paziente è vincolato e influenzato dagli altri membri del gruppo, dal modo in cui co-municano, si supportano e si supervisionano l’un l’altro.Il gruppo è influenzato dalle azioni e decisioni di tipo organiz-zativo del management della struttura e dell’azienda sanitaria. Questo include l’allocazione delle risorse umane e tecnologiche, la formazione del personale, gli obiettivi e le verifiche periodiche della direzione, e così via.La direzione aziendale è a sua volta influenzata dal contesto isti-tuzionale, inclusi i vincoli economici, dalla normativa vigente e dal più ampio clima politico ed economico.La cornice dei sette fattori è uno schema utile per l’analisi degli eventi avversi, che include sia i fattori clinici sia le condizioni organizzative di alto livello. Rappresenta dunque un’utile guida per l’analisi degli eventi avversi perché invita a tenere in conside-razione un’ampia gamma di fattori che ai diversi livelli sono de-terminanti dei risultati delle prestazioni sanitarie. Se applicata in maniera sistematica nell’analisi degli incidenti, consente di stilare una graduatoria dei fattori di maggior peso sull’esito delle pre-stazioni e di definire una graduatoria di priorità degli interventi necessari a prevenire futuri fallimenti del sistema.

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Fattori che contribuiscono a determinare le pratiche cliniche (Vincent et al, 1998)Tipo di fattore Determinanti che influenzano le

pratiche clinicheFattori del paziente Complessità e gravità della patologia

Lingua e comunicazionePersonalità e status

Fattori del compito e della tecnologia

Disegno del compito e chiarezza della strutturaDisponibilità e uso di protocolliDisponibilità e accuratezza dei risul-tati dei testSupporti alla decisione

Fattori individuali dell’operatore

Conoscenze e abilitàCompetenzeSalute fisica e mentale

Fattori del gruppo di operatori

Comunicazione verbaleComunicazione scrittaSupervisione e richiesta d’aiutoLeadership

Fattori dell’ambiente di lavoro

Livello dello staff e disponibilità di risorse umaneCarico di lavoro e organizzazione dei turniProgettazione, allocazione e manu-tenzione delle apparecchiatureSupporto amministrativo e manage-rialeAmbiente fisico

Fattori organizzativi e gestionali

Risorse e vincoli economiciStruttura organizzativaPolitiche, standard e obiettiviCultura della sicurezza e priorità

Contesto istituzionale e normativo

Regolamentazione economica e nor-mativaGoverno del sistemaCollegamenti con organizzazioni esterne

Tabella 1. La cornice per l’analisi degli incidenti

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L’analisi dei casi Lo scenario di una prestazione sanitaria può essere esaminato da molte prospettive, ognuna delle quali può mettere in luce sfaccet-tature del caso. I casi sono impiegati da sempre per la formazione degli operatori sanitari e per riflettere sulla natura delle malattie. Servono anche per illustrare le dinamiche di decision making, la valutazione delle pratiche cliniche e soprattutto, quando gli errori sono oggetto di discussione, l’impatto sulle persone di incidenti o fallimenti. L’analisi degli incidenti, per le finalità della gestione del rischio clinico, riguarda tutti questi aspetti e include riflessioni più ampie sull’affidabilità del sistema sanitario.Sono diverse le tecniche di analisi dei casi in sanità. Negli Stati Uniti la tecnica più diffusa è la Root Cause Analysis (RCA). Questo approccio all’analisi dei casi, impiegato dalla Joint Commission, è molto approfondito e intensivo e richiede tempo e risorse e ha avuto origine dagli approcci “Total Quality Management” alla sicurezza in sanità (Spath, 1999). La RCA è promossa e adottata in molti Paesi, con risultati non sempre corrispondenti agli inve-stimenti in tempo e risorse (Tartaglia et al, 2005).Per un’ampia serie di ragioni, pare più convincente l’approccio così detto di analisi di sistema, o “London protocol” (Taylor-Adams e Vincent, 2003). Il termine “Root Cause Analysis”, analisi della causa radice, anche se molto diffuso, è contraddittorio perché sottintende la possibili-tà di ricondurre l’incidente a una singola causa. Data la comples-sità del mondo sanitario, questo è molto difficile, perché le pra-tiche cliniche sono determinate da molti fattori che interagiscono a vari livelli. L’esito delle prestazioni è dunque il risultato di una catena di fal-limenti invece dell’effetto evidente di una singola causa radice. Inoltre, un’obiezione ancora più importante rispetto all’uso del termine “Root cause analysis” riguarda le finalità dell’indagine. L’analisi dei casi di eventi avversi non mira, infatti, alla ricerca della causa, ma al miglioramento complessivo di un sistema che non è stato in grado di prevenire l’incidente. Certo, è necessario capire che cosa è successo e perché, anche solo per spiegarlo al paziente e ai suoi familiari. Se la finalità è migliorare la sicurezza del sistema, bisogna andare oltre la causa e riflettere su ciò che l’incidente rivela circa i buchi e le inadeguatezze del sistema in cui è avvenuto. L’incidente è una finestra sul sistema, un break-down (Winograd e Flores, 1986) che consente di cogliere le di-

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namiche del sistema, impalpabili quando tutto va bene: si parla quindi di “System analysis” cioè di analisi del sistema (Taylor-Adams e Vincent, 2003). In questo senso lo studio dei casi non è una ricerca retrospettiva della causa radice, ma il tentativo di guardare al futuro per prevenire i rischi alla sicurezza dei pazien-ti. La causa radice non è importante, perché riguarda il passato, non il futuro e le attività di prevenzione dei rischi. Le carenze del sistema rivelate dall’incidente rimangono presenti finché non si agisce per rimuoverle, dopo un’attenta analisi dei fattori che vi hanno contribuito.Il London protocol è il modello che abbiamo adottato per l’analisi dei casi di evento avverso nell’ambito delle revisioni tra pari, cioè negli audit e nelle rassegne di mortalità e morbidità. Le fonti d’infor-mazioni per ricostruire il caso sono le segnalazioni spontanee degli operatori, la revisione della documentazione clinica o le osservazioni sul campo. I quesiti principali che guidano l’analisi sono:

Che cosa è successo? (i risultati e la sequenza di eventi)1. Com’è successo? (il tipo di problema nell’assistenza e le con-2. dizioni cliniche)Perché è successo? (i fattori che hanno contribuito all’evento)3.

Ricostruita la sequenza di eventi esaminando la documentazio-ne clinica e le testimonianze dei soggetti coinvolti, si procede all’identificazione del tipo di problema nell’assistenza, all’osser-vazione del contesto clinico in cui l’evento è avvenuto e alla de-scrizione dei fattori che vi hanno contribuito. I problemi nell’as-sistenza sono azioni o omissioni, oppure deviazioni nel processo diagnostico-terapeutico che hanno effetti diretti o indiretti sulla qualità dell’assistenza. Alcuni problemi riguardano il monitoraggio delle condizioni del paziente, il tempismo della diagnosi, gli errori nel trattamento ecc. Le condizioni cliniche riguardano, invece, le caratteristiche principali della prestazione oggetto di analisi e i fattori del paziente che hanno contribuito all’incidente. I fattori che hanno contribuito all’evento sono le condizioni in cui si è verificato l’incidente, ereditate dagli operatori che si tro-vavano ad agire nel luogo e nel momento dell’esecuzione delle prestazioni non andate a buon fine. Qualsiasi combinazione di determinanti può contribuire a un problema nell’assistenza. Gli analisti devono distinguere i fattori rilevanti solo nella particolare occasione, da quelli che fanno parte in modo costante dell’uni-

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tà operativa o dell’intera organizzazione. Per esempio, potrebbe esserci un problema di comunicazione tra due medici che contri-buisce a un evento avverso. Se questo problema non è usuale, potrebbe non richiedere un’ulteriore considerazione, ma se è ri-corrente indica delle carenze del sistema, che occorre approfon-dire per trovare una soluzione ed evitare che invalidino ancora la qualità della comunicazione in situazioni critiche.Sebbene la documentazione clinica sia un’ottima fonte per ri-costruire la dinamica degli incidenti, le interviste con i sogget-ti coinvolti nella gestione del caso oggetto d’analisi sono molto importanti per rilevare come sono andate le cose nella realtà, perché talvolta nei documenti ufficiali si tende a riportare solo le informazioni non compromettenti. Nel modello toscano, a differenza di quello proposto da Vincent e colleghi, l’analisi del tipo di problema e dei fattori latenti (Bellandi et al, 2005) avviene nell’ambito di riunioni con tutti gli attori che hanno gestito il caso. Il London protocol, infatti, prevede che uno o più analisti esterni ricostruiscano il caso e lo analizzino con ri-ferimento alla documentazione clinica, alle interviste con gli ope-ratori e a eventuali osservazioni sul campo. Nel modello toscano invece i clinici, con l’aiuto di un facilitatore interno alla struttura preparato per questo ruolo, analizzano i casi di incidenti avvenuti nella propria realtà operativa. Così si favoriscono lo sviluppo di una visione comune dei problemi e l’impegno a promuovere e attuare iniziative di miglioramento che scaturiscono dall’analisi, in maniera più informale e centrata sui comportamenti individuali con la rassegna di morbidità e mortalità, in modo più approfondi-to e dettagliato quando si produce un “alert report” a seguito di un audit clinico GRC.Ad ogni modo, lo stesso Vincent (2005) suggerisce che il London protocol può essere impiegato in più modalità e formati in tutti i contesti sanitari da parte di ricercatori, clinici, risk manager o gruppi di operatori, che possono usare il modello come guida strutturata alla riflessione su uno o più incidenti. A seconda della gravità dell’evento, l’analisi può avere diversi livelli di approfondi-mento, con la partecipazione di un numero più o meno elevato di operatori. Il protocollo può essere impiegato per l’insegnamento, per l’introduzione della prospettiva sistemica con un approccio pragmatico che parte dall’analisi dei casi e non dall’enunciazione della teoria. Lo abbiamo fatto nell’azienda sanitaria di Firenze (Bellandi et al, 2004) e poi promosso a livello regionale.

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I fattori che hanno contribuito all’evento avverso sono l’obiettivo delle azioni di miglioramento, che in alcuni casi sono promosse dopo un singolo incidente, soprattutto quando le conseguenze sono molto gravi. Per attuare interventi più ampi e costosi, è ne-cessario raccogliere una casistica di incidenti per rilevare i fattori latenti che richiedono misure di prevenzione prioritarie. È consi-gliabile prevedere sempre degli indicatori per valutare nel tempo l’impatto delle azioni di miglioramento intraprese.

L’analisi dell’affidabilità umana e dei sistemi L’analisi dei casi di eventi avversi può essere illuminante, per co-gliere le deficienze del sistema e definire piani di miglioramento seguendo un approccio bottom-up. Appresa la prospettiva siste-mica, si può procedere anche adottando un approccio diametral-mente opposto all’analisi dei rischi per i pazienti. Si può cioè partire, anziché da uno o più casi di incidenti realmente accaduti, dall’ana-lisi dei processi diagnostico-terapeutici esaminando sistematica-mente le possibilità di fallimento, seguendo l’approccio dell’analisi dell’affidabilità umana e dei sistemi, dall’inglese HRA, Human and System Reliability Analysis (Kirwan e Ainsworth, 1993).La HRA è stata definita come l’applicazione delle informazioni ri-levanti sulle caratteristiche dei comportamenti degli esseri umani e dei sistemi alla progettazione degli oggetti, delle infrastrutture, delle apparecchiature e degli ambienti impiegati nei luoghi di vita e di lavoro. Le tecniche HRA sono utilizzate sia nell’analisi degli incidenti, sia più in generale nell’analisi dei processi organizzativi e sono impiegate da più di 50 anni nelle industrie ad alto rischio e nel settore militare. Tra queste anche la più nota Failure Modes and Effects Analysis (FMEA), di cui parleremo più avanti. Le tecniche HRA sono applicabili in tutte le fasi del ciclo di vita di un processo produttivo. Le tecniche sviluppate per prevedere in anticipo i possibili fallimenti di un sistema e le misure di preven-zione e contenimento dei danni sono state associate in particola-re alla crescita dell’industria nucleare (Slovic, 2000). Per ottenere il consenso delle popolazioni all’installazione di centrali nucleari si è data ampia diffusione ai risultati delle valutazioni dei rischi fatte con la HRA, per mostrare le capacità di anticipare i rischi da parte dei progettisti e rassicurare gli abitanti dei territori vicini agli impianti. Questo tipo di analisi comporta una dettagliata spe-cificazione delle caratteristiche dei processi, la quantificazione di probabilità e modalità dei fallimenti, la misurazione delle proba-

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bilità dei diversi tipi di errore umano e, infine, la considerazione degli effetti conseguenti tutte le possibili combinazioni di errore e fallimento del sistema, per ottenere una valutazione complessiva della sicurezza del sistema. La realtà ha dimostrato in più occasioni che questa modalità di valutazione dei rischi non è sufficiente a garantire la sicurezza di processi produttivi ad alto rischio, e ancor meno la sicurezza dei lavoratori e degli abitanti dei territori vicini agli impianti (Perrow, 1999). La complessità di molti sistemi safety critical rende im-possibile e aleatoria un’analisi a priori dei possibili fallimenti del sistema e degli errori umani. Nonostante questo, si ritiene utile applicare questo tipo di tecniche in sanità per promuovere una riflessione tra gli operatori della prima linea prima di introdur-re un’innovazione di tipo tecnico o organizzativo. Ad esempio, prima di introdurre una nuova procedura è utile riflettere sulle possibili criticità delle diverse fasi della procedura, oppure nel caso di un’innovazione tecnologica si possono predisporre solu-zioni di back-up per affrontare eventuali malfunzionamenti dello strumento. Considerata la tendenza all’improvvisazione più che alla pianificazione, nelle pratiche sanitarie l’impiego delle tecni-che HRA può favorire lo sviluppo di un pensiero sistemico volto ad anticipare le situazioni di rischio e preparare gli operatori a gestirle per salvaguardare i pazienti.Esistono numerose tecniche di previsione dei rischi che sono state sviluppate nell’industria in molti casi con fini commerciali, senza una validazione scientifica o pubblicazioni di supporto. Per chi si avvicina a questo tipo di tecniche, si aggiunge la difficoltà di varie sigle impiegate per nominare strumenti spesso simili ma originati in ambienti diversi, come FMEA, PSA, PRA, SLIM, HEART, THERP, HAZOP e altri acronimi che in certi casi sono varianti proprietarie dello stesso approccio HRA (Lyons et al, 2004). Alcune tecniche sono primariamente finalizzate alla descrizione dettagliata di un compito o di una sequenza di azioni tecniche. Ad esempio nella “hierarchical task analysis”, l’attività è scomposta in una serie di compiti, sottocompiti e operazioni, fino a un livello di notevole dettaglio che può essere utile per rilevare i rischi di ogni singola operazione, quantificarli, classificarli e prevedere le misure di sicurezza da adottare per evitare il fallimento del com-pito, tenendo conto anche di fattori situazionali e di sistema. La quantificazione dei rischi ha come fine ultimo la messa a punto di modelli probabilistici che dovrebbero consentire di prevedere

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gli errori e stimare le probabilità di fallimento del sistema. La quantificazione è l’aspetto più controverso della HRA, perché as-segnare valori numerici a eventi incerti e provocati da più fattori, cioè la probabilità attesa che un operatore commetta un errore, è una sfida enorme, dal punto di vista scientifico e pratico. Spesso la quantificazione è affidata al giudizio di un gruppo di esperti e non è il frutto dell’osservazione rigorosa delle pratiche operative e della registrazione della frequenza degli errori effettivi. Queste tecniche hanno di per sé un carattere normativo, tendono cioè a descrivere le attività come dovrebbero svolgersi e gli errori come è prevedibile che si verifichino in conseguenza della precedente descrizione delle attività. Sono descrizioni per forza di cose sintetiche e non analitiche, che quindi non possono tenere conto della complessità delle opera-zioni e dell’andamento dinamico delle pratiche sullo sharp end. In sanità sono state applicate con successo soprattutto negli ambiti che, per le caratteristiche delle attività, consentivano una det-tagliata descrizione sintetica e una precisa proceduralizzazione, come il settore emotrasfusionale.La tecnica che suscita maggiore interesse in ambito sanitario è la “vecchia” Failure Modes and Effects Analysis (FMEA). Molti or-ganismi che promuovono la gestione del rischio clinico l’hanno proposta per valutare in modalità sia proattiva sia reattiva i rischi connessi con i vari step di un processo diagnostico-terapeutico. La FMEA è una metodologia che guida gli addetti alla sicurezza nell’analisi delle criticità di un processo di lavoro e nell’indivi-duazione di possibili azioni di miglioramento per ridurre il rischio d’incidenti. È uno strumento di prevenzione che identifica le aree deboli di un processo e sviluppa azioni di miglioramento sulla base di giudizi soggettivi forniti dagli stakeholders del processo. La finalità dell’analisi è capire quali sono i rischi di un processo, cioè cosa potrebbe andare male (failure mode) e quali potrebbero essere le possibili conseguenze (failure effects), al fine di render-lo più sicuro ed efficiente.Nata negli Stati Uniti in ambito militare nel 1949 per determinare gli effetti dei fallimenti del sistema e degli equipaggiamenti, dal 1960 è stata impiegata dalla NASA per prevedere i fallimenti, pianificare le misure di prevenzione e i sistemi di back-up nel programma spaziale Apollo (Kirwan, 1994). Da allora, la FMEA è stata impiegata in molti settori safety critical quali l’industria ae-rospaziale, i processi chimici industriali, il nucleare e l’automotive

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(Ford, GM, Toyota). Dagli anni ’90 viene applicata ai processi di assistenza e cura sanitari con il nome di “Healthcare Failure Mo-des and Effects Analysis” (HFMEA®).FMEA è uno strumento particolarmente flessibile e piuttosto sem-plice, per questo si impiega talvolta anche, in modalità reattiva, nell’analisi dei casi insieme al modello sistemico. Prevalentemen-te è impiegata in modalità proattiva, così come consigliano la Joint Commission, che impone alle strutture accreditate di com-piere almeno un’analisi con FMEA ogni anno (JCAHO: standard LD. 5.2. luglio 2001), la US Veterans Administration e la National Patient Safety Agency (NPSA) nel Regno Unito che hanno definito programmi di training per l’applicazione di FMEA in sanità. Nella proposta dell’Institute for Healthcare Improvement (2003) l’applicazione di FMEA in modalità proattiva prevede la revisione della sequenza di eventi, delle modalità di fallimento (cosa po-trebbe andare male?), delle cause del fallimento (perché dovreb-be succedere il fallimento?) e degli effetti del fallimento (quali potrebbero essere le conseguenze di ogni fallimento?).

L’applicazione di FMEA è suddivisa in sette fasi:

Selezionare un processo da valutare con FMEA, tenendo pre-1. sente che questa tecnica funziona meglio per l’analisi di pro-cessi lineari che non hanno molti sottoprocessi. In tal caso è consigliabile applicare la tecnica a ogni singolo sottopro-cesso.Organizzare un gruppo multidisciplinare con tutti gli atto-2. ri coinvolti nel processo oggetto di analisi, alcuni dei quali possono essere coinvolti solo per la parte di analisi che li riguarda.Fare un incontro per analizzare il processo a partire dalla de-3. scrizione delle fasi del processo, cercando di descrivere ogni fase in maniera dettagliata e senza inserire giudizi.Per ogni fase del processo, elencare tutte le possibili moda-4. lità di fallimento (failure modes), cioè tutto quello che po-trebbe andare male, inclusi i problemi rari e di minore entità. Quindi procedere all’identificazione delle possibili cause di ciascuna modalità di fallimento.Per ciascuna modalità di fallimento individuata, fare asse-5. gnare al gruppo un valore numerico su una scala da 1 a 10

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per la frequenza dell’evento (dove 1 rappresenta una bas-sissima frequenza, 10 un’altissima), la gravità delle possibi-li conseguenze (dove 1 rappresenta una bassa gravità, 10 un’altissima) e la probabilità di identificare il fallimento da parte degli operatori (dove 1 rappresenta un’alta probabilità di identificazione, 10 una bassa);Calcolare l’Indice di Priorità del Rischio (IPR) per ogni moda-6. lità di fallimento, moltiplicando il punteggio della frequenza (F) per la gravità (G) per la probabilità di identificare (I) il fallimento da parte degli operatori. Il range dei possibili ri-sultati del calcolo vanno da un IPR pari a 1 a un IPR pari a 1000. Definire i piani di miglioramento, a partire dalle modalità di 7. fallimento che hanno accumulato un punteggio IPR più eleva-to e pertanto richiedono interventi prioritari (�edi figura 2).

Nella definizione del piano di miglioramento è utile tenere pre-sente che se la modalità di fallimento ha una frequenza elevata sarebbe opportuno eliminare la causa, oppure aggiungere vincoli di tipo tecnologico o organizzativo, come una procedura che pre-vede un doppio controllo indipendente, per modificare il processo riducendo la probabilità del fallimento. Se viceversa la modalità di fallimento è difficile da identificare da parte degli operatori, biso-gna agire per aumentarne la visibilità, ad esempio mediante l’uso ragionato di allarmi o sistemi di allertamento, oppure inserendo un passaggio in una procedura per anticipare l’evento. Infine, se la modalità di fallimento può generare conseguenza molto gravi è necessario predisporre piani di emergenza per contenere l’esca-lation verso il disastro o il ripetersi dell’evento a breve distanza di tempo e di spazio nella stessa struttura sanitaria o in altre dello stesso sistema sanitario.

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Valutazione del rischio

Figura 2. Schema riassuntivo del processo

L’analisi dei processi e delle procedure in sanitàL’analisi dei processi di lavoro in generale dovrebbe essere il pri-mo passo nella prospettiva di migliorare la produzione e l’ero-gazione del servizio. La descrizione dello stato attuale dell’or-ganizzazione è, infatti, il punto di partenza per comprendere le modalità quotidiane di funzionamento di un sistema complesso come un ospedale, dove la componente sicurezza deve essere parte integrante del processo e delle procedure e non un fattore aggiuntivo da spalmare su procedure di lavoro definite.Nella prospettiva sistemica, lo studio del rischio è considerato un’opportunità per riflettere sulle condizioni organizzative che lo hanno favorito: sono proprio i breakdowns delle organizzazioni a rivelarne le caratteristiche fondamentali, che restano invisibili nell’ordinaria amministrazione finché non sorge un problema che richiama l’attenzione degli operatori su un punto critico del pro-cesso di lavoro.

Identificazione delle possibili criticità

Identificazione degli effetti

Identificazione delle possibili cause

Stima della Frequenza (O)

Stima della Gravità (S) dell’effetto

Capacità di rilevazione della criticità - Rilevabilità (D)

Calcolo dell’Indice di RischioIPR = F x G x R

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Le esigenze di ottimizzazione e miglioramento delle procedure si congiungono quindi perfettamente con lo studio e il monitoraggio degli errori e delle situazioni di rischio.I punti critici di un processo sono le situazioni in cui il rischio di incidente è elevato perché è più probabile che gli errori com-messi dagli operatori abbiano conseguenze dannose, rispetto ad altre fasi del processo lavorativo o comunicativo. Gli esseri umani sbagliano continuamente, poiché alla base dell’errore umano ci sono le stesse funzioni cognitive che gui-dano il comportamento corretto, ma l’errore diventa pericoloso solo dove il sistema è più debole, più soggetto a cadute a causa delle sue caratteristiche strutturali sommate alle contingenze particolari. Un certo livello di rischio è connaturato nelle organizzazioni, per-ché è impossibile prevedere tutte le contingenze di un sistema dinamico generato dalle interazioni ricorrenti tra gli esseri umani, che evolve nel tempo insieme all’ambiente circostante. L’indivi-duazione dei punti critici consente, però, di riflettere sui rischi connessi con le attività umane ed eventualmente di assumere iniziative per ridurre la pericolosità delle situazioni a rischio.L’errore attivo dell’operatore della prima linea ha invece una lunga storia alle spalle, fatta di decisioni organizzative di lungo termine e di pratiche di risposta a tali decisioni. Quando le pratiche sono costellate di rischi pronti a esplodere in un incidente, è necessario ritornare sulle decisioni che hanno influenzato l’evoluzione delle pratiche per individuare quegli errori latenti che restano invisibili finché non c’è una caduta del sistema. La differenza fra gestione del rischio e reazione agli incidenti sta tutta nell’attività di mo-nitoraggio, che consiste nell’analisi dei processi e nella costante riflessione sui punti critici.La capacità di percepire i punti critici dall’interno dell’organizza-zione è però limitata dalla visione situata degli operatori e del management. Il significato attribuito dai lavoratori dell’ospedale alle difficoltà nello svolgimento delle attività dipende dalla cultu-ra dell’organizzazione di cui fanno parte. Assunti e pregiudizi di quella cultura lasciano perciò una traccia anche nell’applicazione delle tecniche HRA e nell’interpretazione delle criticità. La tradi-zionale cultura della colpa, aggravata dalle responsabilità lega-li che regolamentano lo svolgimento dell’attività medica, rende molto difficile riconoscere e comunicare gli errori commessi o le situazioni di difficoltà di un operatore. Gli operatori tendono quin-

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di a sviluppare localmente delle pratiche per sopravvivere alle dif-ficoltà. Queste restano soluzioni ad hoc e non hanno l’opportunità di emergere per essere riconosciute dall’organizzazione. Questa ipotesi, emersa nel corso di ricerche in diverse strutture sanitarie (Re, 2001; Bellandi, 2002), suggerisce l’esistenza di una sistematica anticipazione di imminenti crolli del sistema da parte degli operatori competenti, a tutti i livelli, dall’ausiliare all’infer-miere al medico, che operano correzioni continue. Sono i singoli che continuamente attivano le difese del sistema, correggendo in modo pro-attivo condizioni di rischio che emergono difficilmente dalle analisi sull’errore o sulla qualità dell’organizzazione, per-ché queste correzioni sono viste dagli operatori come interventi legati all’iniziativa personale, e non come aspetti fondamentali della propria competenza professionale. Si tratta di iniziative che, se non attuate, non comportano alcuna violazione degli impegni contrattuali e professionali; se attuate, cambiano radicalmente la qualità di risposta del sistema. Tra il funzionamento “fuori norma” e il funzionamento soggetto a “certificazione di qualità” esiste una zona intermedia di costru-zione quotidiana di qualità. Questa zona non è riconosciuta isti-tuzionalmente pur rappresentando, per ampiezza e rilevanza, un luogo cruciale per la prevenzione dell’errore. Si tratta di un luogo, anche psicologico, che segna per ogni operatore la distanza tra una posizione psicologica di omissione e una posizione psicologi-ca di “presa in carico”.In questa prospettiva, lavorare per l’emersione dell’errore non significa diffondere una cultura dell’eccezionalità, ma costruire una cultura del quotidiano: sviluppare, attraverso un’analisi ergo-nomica del lavoro, una competenza collettiva che continuamente attiva e fa emergere il potenziale di miglioramento del sistema. Cambia l’oggetto stesso dello studio dei fattori di rischio: il punto di partenza non è identificare la sequenza degli eventi che hanno contribuito al danno del paziente, ma individuare i comportamen-ti individuali dei lavoratori e le regolazioni collettive che già nella situazione attuale determinano un miglioramento nelle prestazio-ni del sistema.Il tempo speso nell’analisi di queste attività di miglioramento, se riconosciuto come attività professionale di medici, infermieri e operatori, può dotare l’organizzazione della capacità di ripro-gettarsi, con una progettazione più lenta ma continua, centrata sul coinvolgimento delle persone, meno emozionante ma più du-

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revole del processo basato sulla sola innovazione tecnologica o sull’acquisizione di modelli esterni.In altre parole, può sviluppare nei gruppi un’attivazione e una ricerca di qualità che trascina, come effetto secondario, le zone grigie, le zone di debolezza, e permette di affrontare con succes-so la sfida di migliorare senza indurre la paura, paralizzante, di dover colpire i punti deboli del sistema. Per sostenere queste potenzialità di miglioramento distribuite nell’ambiente ospedaliero si auspica un intervento interdisciplina-re che coinvolga le varie discipline scientifiche interessate all’ana-lisi e alla progettazione dei sistemi complessi (psicologia del lavo-ro e delle organizzazioni, fisiologia, ingegneria, disegno industria-le, scienze della comunicazione, studi organizzativi ecc.). L’unica strada per il miglioramento è riconoscere nell’essere umano, con i suoi limiti cognitivi e fisici, ma anche con le sue straordinarie capacità di immaginazione e adattamento, il baricentro della pro-gettazione.

Verso l’integrazione degli strumenti di analisi dei rischi in sanitàL’analisi dei casi è considerata una tecnica di tipo retrospettivo, mentre le tecniche HRA come FMEA sono considerate modalità di analisi proattiva, poiché si impiegano per l’analisi dei processi diagnostico-terapeutici. Si potrebbe quindi concludere che le tec-niche HRA sono superiori perché consentono di anticipare i rischi ed evitare il prossimo incidente, invece di ritrovarsi a discutere di criticità del sistema con un altro paziente morto o danneggiato a causa della cattiva gestione sanitaria. Probabilmente, quando la sanità sarà più sicura, potremo fare a meno dell’analisi dei casi e concentrarci sull’applicazione delle tecniche di valutazione dell’affidabilità. A parte il fatto che è mol-to difficile immaginare l’azzeramento degli incidenti in sanità e in qualsiasi altro sistema complesso, ci sono una serie di ragioni a sostegno dell’integrazione delle tecniche HRA con l’analisi dei casi, invece che una progressiva sostituzione. Innanzitutto non c’è una netta divisione tra gli strumenti in discussione: FMEA, ad esempio, può essere impiegata in modalità reattiva all’interno di un’indagine condotta seguendo il London protocol. L’analisi dei casi, pur affrontando situazioni già avvenute, è sem-pre rivolta al futuro, cioè a identificare le azioni di miglioramento necessarie a fronteggiare le criticità emerse con il caso analiz-

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zato ai vari livelli del sistema. Viceversa, la cosiddetta “analisi proattiva” fa sempre riferimento in maniera più o meno esplicita alle esperienze precedenti degli analisti. La frequenza, la gravità e l’identificabilità delle modalità di fallimento nell’applicazione di FMEA sono frutto del giudizio degli operatori coinvolti nella di-scussione; questo giudizio non può che basarsi sulle esperienze precedenti, riferite a uno o più casi specifici. Occorre aggiungere, a vantaggio dell’analisi dei casi, che di soli-to le tecniche HRA richiedono un certo livello di astrazione dalla realtà che può essere difficoltoso per gli operatori coinvolti e pone il rischio di una deriva verso un’eccessiva reificazione della realtà operativa (Woods e Cook, 2003). L’analisi dei casi è invece mol-to coinvolgente per gli operatori sanitari, perché parte dalle loro testimonianze, dalla ricostruzione di una storia, che come tale ha un notevole potere di stimolo al confronto con scenari simili e all’esplorazione dei modi in cui si possono modificare dei passaggi per ottenere in futuro esiti differenti (Carroll, 1995).È prevedibile che nel prossimo futuro si tenderà ad applicare en-trambe le tecniche in maniera ragionata, cioè nel momento in cui le strutture per la gestione del rischio clinico raggiungeranno un maggiore livello di maturità, potranno decidere la tecnica mi-gliore tenendo conto dell’oggetto e della finalità di analisi, come in ogni buona ricerca che segue un metodo scientifico (Marradi, 1980; Corbetta, 1999). Gli operatori sanitari possono, inoltre, dare un notevole contri-buto alla qualità delle tecniche di analisi dei rischi, visto che nes-suna delle tecniche citate ha avuto una validazione e una stan-dardizzazione basata su un’applicazione estensiva e monitorata secondo i principi della medicina basata sulle evidenze (Gardini, 2005). In altre parole, l’applicazione delle tecniche di analisi del rischio agli eventi avversi in sanità può guadagnare rigore e scientificità grazie all’incontro con il settore medico e infermieristico, in cui negli ultimi anni si è fatto moltissimo per migliorare l’efficacia e l’efficienza delle pratiche cliniche. Anche in ambito gestionale è opportuno promuovere una mag-giore attenzione alla qualità dei metodi e delle tecniche impiegati, fermo restando che quando si trattano fenomeni complessi come il funzionamento di un sistema sociotecnico è molto difficile, o addirittura aleatorio, pretendere di arrivare a quantificazioni e a modelli previsionali generalizzabili a tutto il sistema. Un conto è

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prevedere la risposta biologica di un organismo a un trattamen-to terapeutico a seguito di ampi studi clinici randomizzati sulla popolazione, altra cosa è immaginare le dinamiche di un proces-so organizzativo all’interno di un sistema complesso come quello sanitario.

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FARMACOVIGILANZA E RISChIO CLINICO IN MEDICINA COMPLEMENTARE

Alfredo Vannacci, Eugenia GalloUnità di Farmacoepidemiologia, Farmacovigilanza e Fitovigilanza, Dipartimento di Farmacologia Preclinica e Clinica, Centro di Medi-cina Molecolare (CIMMBA), Università degli Studi di Firenze

Farmacovigilanza e rischio clinicoLa farmacovigilanza è la disciplina che ha il compito di identificare gli eventi avversi correlati all’uso dei farmaci. L’oggetto della far-macovigilanza sono gli eventi avversi e tutte le reazioni indeside-rate che si verificano in corso di terapia, in particolare gli eventi sconosciuti o quelli nuovi, per natura clinica, gravità e frequenza (Hauben M, Zhou X. Quantitative Methods in Pharmacovigilance. Focus on Signal Detection. Drug Safety 2003; 26: 159-186).Poiché questa disciplina si occupa dell’identificazione di segna-li preliminari, il cosiddetto “segnale di allarme”, non richiede all’operatore sanitario di formulare una diagnosi, ma di segna-lare un semplice sospetto, un segnale che permetta al sistema di mettere in atto in caso di necessità tutte le procedure atte a garantire la sicurezza dei pazienti. L’allarme a volte può essere immotivato, ma è compito del sistema e non del singolo segna-latore stabilirlo.

Reazioni avverseLe reazioni avverse sono risposte dannose non intenzionali che si verificano alle dosi normalmente utilizzate nell’uomo per profilas-si, diagnosi o terapia. Per “risposta dannosa” non si deve intendere un effetto terapeu-tico secondario, bensì un evento negativo per il paziente e non in-tenzionale. A volte, infatti, i farmaci possiedono un pleiotropismo di azione e il clinico può scegliere deliberatamente di utilizzare un effetto secondario di un farmaco con fini terapeutici (ad esempio l’effetto ipnoinducente degli antistaminici di prima generazione).È fondamentale inoltre che l’evento avvenga alle dosi normal-mente utilizzate nell’uomo per profilassi, diagnosi o terapia. Non si considerano pertanto in farmacovigilanza i sovradosaggi, le as-sunzioni per tentativo di suicidio; ciò vale anche per i mezzi di contrasto, per i vaccini ecc. Come detto, riveste particolare importanza la segnalazione spon-

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tanea degli eventi avversi gravi.

Sono cinque i fattori da considerare in quest’ottica:Se l’evento è fatale: in questo caso è obbligatorio redigere •una relazione alla propria direzione sanitaria.Se l’evento minaccia la sopravvivenza: se un paziente è a •rischio di morte, l’evento è considerato alla stessa stregua del precedente. Se l’evento determina un’invalidità o un’incapacità persi-•stente significativa.Se l’evento provoca o prolunga il ricovero in ospedale. Ogni-•qualvolta una persona viene ricoverata in ospedale, oppure accede al pronto soccorso e richiede un’osservazione anche breve, perché ha assunto un farmaco, la segnalazione è obbligatoria.Se l’evento causa un’anomalia congenita o un difetto alla •nascita. Per estensione, è opportuno segnalare le reazio-ni avverse in donne in gravidanza, anche senza aspettare l’esito della gravidanza.

Le reazioni avverse sono classificate come di tipo A, dose-dipen-denti, e di tipo B, non dose-dipendenti. Le prime sono frequenti, a bassa mortalità e correlate alle caratteristiche farmacologiche del farmaco (ad esempio l’effetto anticolinergico degli antide-pressivi). Le reazioni di tipo B sono rare, non correlate alle caratteristiche farmacologiche del farmaco e possono avere un’alta mortalità, ad esempio quelle che implicano il coinvolgimento del sistema im-munitario, come rash cutanei, shock anafilattico, vasculiti, ane-mia emolitica, sindrome di Stevens-Johnson (Edwards IR e Aron-son JK. Adverse drug reactions. The Lancet 2000, 356, 1255).Nella medicina complementare, in particolar modo in fitoterapia ma anche con medicinali omeopatici a basse diluizioni, questo tipo di reazioni può verificarsi anche con bassissime dosi di prin-cipio attivo. Se il soggetto ha una particolare predisposizione ge-netica a sviluppare un certo tipo di eventi, c’è il rischio che possa verificarsi, per esempio, uno shock anafilattico o una reazione orticarioide anche con medicinali omeopatici molto diluiti.

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Aspetti epidemiologiciMolti studi internazionali condotti in ospedale hanno rilevato l’in-cidenza delle reazioni avverse sulla salute pubblica. Uno studio condotto nel servizio sanitario britannico su 18.000 ospedalizza-zioni ha mostrato che il 6,5% (1.225) dei ricoveri era legato a una reazione avversa a un farmaco (Pirmohamed M et al., BMJ 2004, 329;14-19). L’imputabilità e la diagnosi di certezza di rea-zione avversa al farmaco c’erano soltanto nell’1,3% dei casi. Circa il 70% delle reazioni avverse, comunque causa di ospedaliz-zazione, ha un’imputabilità definita come probabile e il 30% come possibile (sottolineando l’importanza di segnalare il sospetto, per sollevare il segnale di allarme); quelle dubbie, incerte o negative non vengono considerate. Lo studio ha mostrato inoltre che la maggior parte delle reazioni avverse era prevedibile, circa il 72% è stata addirittura identificata come “evitabile” conoscendo le ca-ratteristiche farmacologiche del farmaco. I farmaci maggiormen-te coinvolti sono stati i più vecchi (su base epidemiologica occorre osservare che la grandissima maggioranza delle reazioni avverse avviene per i vecchi farmaci, che sono anche i più utilizzati). La durata media del ricovero è stata di otto giorni e ha influito sul-le ospedalizzazioni e sulla spesa sanitaria in modo significativo. Uno studio condotto in Italia riferisce dati analoghi: il 45% delle reazioni avverse ai farmaci era certamente evitabile, il 30% era possibilmente evitabile, circa il 70% delle reazioni avverse po-trebbero essere evitate (Pilotto et al. Drug Safety 2008). Globalmente l’incidenza di ADR (Adverse reaction) come causa di ospedalizzazione è di circa 1-5% nei bambini, circa 5-10% negli adulti e circa 10-15% negli anziani. Essa aumenta con l’età, perché crescono la fragilità dell’individuo, la presenza di polipa-tologia, la poliprescrizione e il rischio di interazioni tra farmaci. I farmaci chiamati più spesso in causa sono antibiotici e bronco-dilatatori nei bambini, farmaci cardiovascolari, antinfiammatori e per il sistema nervoso centrale (SNC) negli adulti e negli anziani (Kongkaew et al, The Annals of Pharmacotherapy n. 42, 2008).La presenza di reazioni avverse risente quindi della prescrizione. La manifestazione di queste reazioni avverse, in particolare nella popolazione anziana, di cui il 70% è evitabile, lascia intendere che l’appropriatezza di utilizzo di questi prodotti non è molto ele-vata. Infatti, uno studio pubblicato da un gruppo italiano su JAMA nel 2005 osserva che la prevalenza di potenziale inappropriatezza di prescrizione di farmaci nell’anziano è di circa il 20%. Ci sono

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Paesi, tra cui purtroppo l’Italia, che superano questa inappropria-tezza di prescrizione e ci sono Paesi più virtuosi, come la Dani-marca, dove si presta particolare attenzione alla prescrizione di farmaci nella terza età (Gambassi et al. JAMA 2005).In sintesi, le reazioni avverse ai farmaci sono un’importante cau-sa di ospedalizzazione, mortalità e spesa sanitaria. L’utilizzo ap-propriato delle medicine complementari, specialmente in geria-tria, potrebbe risolvere un problema non solo per il paziente ma anche per il Servizio Sanitario Nazionale (SSN).

Aspetti normativiLa farmacovigilanza è normata a livello nazionale dall’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), in collaborazione con altri uffici in-ternazionali che fanno capo all’Agenzia Europea dei Medicinali (EMEA). Una norma varata 4 anni fa stabilisce che le Regioni possono avere un sistema regionale di farmacovigilanza. La Toscana ha creato un Centro regionale di farmacovigilanza alle cui attività collaborano ASL e Università. La rete regionale è organizzata in tre livelli: il primo costituito dalle ASL, il secondo composto dai centri di Area vasta per la farmacovigilanza (nelle sedi di Firenze, Pisa e Siena). Il terzo, individuato nel centro di coordinamento regionale, è guidato dalla Commissione terapeutica regionale, che ha affidato la gestione specifica delle attività a una sottocommissione per la farmacovi-gilanza. In questi centri opera personale che svolge in maniera dedicata attività di farmacovigilanza, compresa la diffusione di informazioni circa la sicurezza dei farmaci. L’Area Vasta Centro (II livello) in collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità e il Centro clinico di medicina naturale di Empoli ha implementato di recente un sistema di fitovigilanza che garantisce un’adeguata sorveglianza dei farmaci, tutelando in modo più efficiente sia il cittadino sia il malato. Il sistema prevede che l’operatore sanita-rio che osserva la reazione, la segnali al suo farmacista di primo livello, responsabile di farmacovigilanza; quest’ultimo lo invia al secondo livello, il terzo livello integra e infine il tutto va all’AIFA. Allo scopo di coinvolgere sempre di più gli operatori sanitari nel processo di segnalazione delle sospette reazioni avverse ai far-maci, la Regione Toscana utilizza strumenti che si sono dimostrati efficaci in altre realtà europee, come l’invio di un feedback infor-mativo al segnalatore. Un anno dopo l’attuazione di questo siste-

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ma, la Toscana è passata dall’ottavo al primo posto delle regioni che segnalano in Italia (da 100 a 226 reazioni avverse segnalate ogni milione di abitanti) fino a superare nel 2009 le 450 segna-lazioni per milione di abitanti, ampiamente oltre il gold standard di 300 segnalazioni indicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Dal 2009 esiste inoltre un sistema di vigilanza in formato elet-tronico, sugli incidenti e i mancati incidenti a dispositivo medico, che consente di osservare in tempo reale una stima di incidenti e mancati incidenti.

La vigilanza sulle medicine complementariFatta eccezione per la fitoterapia, non esiste ancora un sistema specifico regionale o nazionale di valutazione degli eventi avver-si in medicina complementare. Dal 2003 è stata inserita nella scheda di segnalazione al farmaco una nuova sezione destinata a raccogliere informazioni sull’uso concomitante di altri prodotti a base di piante officinali, omeopatici, integratori alimentari. Un secondo canale, gestito dall’Istituto Superiore di Sanità, è dedicato alla sorveglianza delle reazioni avverse da prodotti di origine vegetale. La segnalazione dell’evento avverso può essere effettuata tramite un’apposita scheda (scaricabile dal sito www.epicentro.iss.it) da inviare via fax all’Istituto Superiore di Sanità. Quando l’operatore si trova di fronte a un effetto avverso corre-lato all’assunzione di un farmaco e di un fitoterapico, ha la pos-sibilità di segnalarlo sia sulla scheda specifica di fitovigilanza, sia sulla normale scheda di farmacovigilanza. Per affrontare correttamente il rischio clinico nelle altre medicine complementari, occorre fare quindi riferimento in gran parte alla letteratura, dove queste medicine appaiono relativamente sicure, in particolare se confrontate con i farmaci di sintesi.

OmeopatiaPer valutare la sicurezza dei farmaci nell’uso clinico, si utilizza-no in genere gli studi post-marketing, che sono gli unici a dare informazioni attendibili sulla sicurezza. Normalmente i farmaci vengono studiati prima in laboratorio, poi nei trials clinici (fase 1, fase 2, fase 3) e infine entrano in commercio. Nei trials di fase 3 (i più vicini all’uso clinico) sono escluse molte tipologie di pazienti (poiché sono condotti su popolazioni selezionate) e l’incidenza delle reazioni avverse registrate è più bassa rispetto alla pratica

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clinica reale. Nella fase 4, quando il farmaco entra in commercio, l’osservazione si estende a tutta la popolazione. La letteratura sulla sicurezza in omeopatia si basa solo sui trials clinici, quindi non può essere considerata pienamente affidabile. In omeopatia i lavori che hanno valutato gli eventi avversi sono pochissimi e particolarmente tranquillizzanti. Una review di tre articoli pubblicati tra il 1970 e il 1995 (Br Homeopath J. 2000 Jul; 89 Suppl 1:S35-8) rileva che negli studi clinici omeopatia contro placebo, l’incidenza degli eventi avversi è del 9% per l’omeopatia contro il 6% del placebo. Si tratta inoltre soltanto di eventi avver-si lievi. La conclusione della review è che i medicinali omeopatici, a diluizioni alte e medio-alte, sono piuttosto sicuri e che è impro-babile che causino eventi avversi gravi. Un’altra analisi (Forsch Komplementmed. 2006;13 Suppl 2:19-29) conclude più o meno alla stessa maniera: i medicinali omeo-patici hanno scarsi effetti collaterali e scarsi o nessun effetto tossico. Un report sulla sicurezza dei prodotti omeopatici e sugli eventi avversi riportati in terapia omeopatica nella pratica clinica, condotto in Toscana presso l’ambulatorio di omeopatia dell’ASL 2 di Lucca, conferma il dato della letteratura: su 335 visite di fol-low up consecutive in ambulatorio, si sono registrate soltanto 9 reazioni avverse, meno del 3%, compresa un’allergia al lattosio che non può essere definita in senso stretto un evento avverso all’omeopatia. In definitiva, la letteratura riporta che i medicinali omeopatici sono sostanzialmente sicuri, con eventi avversi che oscillano dal 3% al 9%, a seconda degli studi valutati, e in nessun caso eventi avversi gravi (Endrizzi C et al, Homeopathy, 2005, 94, 23-240).È importante sottolineare, inoltre, che spesso i prodotti naturali non vengono classificati correttamente né dai pazienti né dai me-dici. Sono stati, ad esempio, attribuiti all’omeopatia eventi avver-si correlati a fitoterapici tradizionali cinesi (Corleto et al, World J Gastroenterol 2007 13(14):2132-2134), o a sostanze farma-cologiche come ormoni tiroidei e anfetamine (Mortelmans et al, European Journal of Emergency Medicine 11:242–243, 2004).

AgopunturaL’agopuntura è considerata un atto medico invasivo (anche se in misura minima), ma assolutamente sicuro se praticato da medici qualificati e nel rispetto delle buone pratiche cliniche e di disin-fezione.

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White e colleghi descrivono soltanto 6 casi di evento avverso (pneumotorace o rottura di aghi) su 109.000 pazienti per un to-tale di oltre un milione di trattamenti (White et al., Acupuncture in medicine, 2004). Gli autori di questa review sottolineano che in questi casi gli operatori non erano qualificati. Andando a valutare la gravità e la tipologia degli eventi avversi che si verificano in agopuntura nella normale pratica clinica, si tratta in gran parte di sanguinamento ed ecchimosi (60% dei casi), dolore o problemi di tipo vegetativo ecc. In totale, in circa il 6% dei trattamenti di agopuntura si verifica un sanguinamen-to o un’ecchimosi; un dolore significativo si verifica nel 2% dei casi; le altre reazioni, come palpitazioni, stipsi, diarrea, perdita di peso, disturbi circolatori, lesioni di vasi sanguigni, infezioni si-stemiche, sono rare o molto rare (Witt, Forsch Komplementmed 2009;16:91–97).Gli eventi avversi si possono verificare più facilmente nei bam-bini trattati con agopuntura; ad esempio in circa un terzo di essi si osserva sedazione, nel 26% dei casi si manifesta dolore e nel 15% compaiono problematiche legate al sistema nervoso perife-rico, come parestesie ecc. (Jindal, J Pediatr Hematol Oncol, 30, 6, 2008).

FitoterapiaLa principale caratteristica di questa disciplina è l’impiego di fi-toterapici (piante medicinali e derivati) in cui, a differenza dei farmaci convenzionali, è responsabile dell’azione terapeutica non un singolo principio attivo, ma il fitocomplesso, cioè una combi-nazione armonica dei diversi principi attivi presenti nella pianta. La peculiare attività del fitoterapico consiste proprio nell’azione di squadra esercitata dalle diverse molecole che contiene.I prodotti a base di piante officinali sono efficaci in molte condi-zioni, ma il loro profilo di sicurezza è talvolta discutibile. La pianta deve essere, infatti, considerata come un contenitore di sostanze chimiche dotate di possibili attività farmacologiche (e per questo anche tossicologiche), la cui gestione non può essere affidata sol-tanto all’automedicazione. Come in ogni forma di terapia possono esserci effetti collaterali, controindicazioni, interazioni farmacolo-giche ecc.Esistono piante tossiche, piante efficaci ma responsabili di effetti collaterali anche gravi e piante con specifiche controindicazioni. In fitoterapia non dovrebbero mai essere utilizzate le erbe raccol-

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te spontaneamente, ma solo quelle garantite dal controllo di un esperto e distribuite attraverso i regolari canali di vendita, come ad esempio la farmacia. Molti estratti vegetali, anche ben definiti sul piano farmaceutico e fitochimico, sono commercializzati ed etichettati nel nostro Paese come “alimenti”, e quindi non sono soggetti ai controlli eseguiti di norma sui farmaci. I problemi specifici della fitovigilanza sui prodotti commercializzati come “fitointegratori” sono diversi: in-certa composizione dei prodotti, mancanza di standardizzazione delle quantità, qualità variabile dei componenti, difficoltà di indi-viduazione dei principi attivi (e quindi dei possibili meccanismi di azione), problemi di contaminazione e adulterazione, aggiunta di farmaci di sintesi non dichiarati (cortisonici, diuretici, betabloc-canti ecc.), tipologie di preparazioni e prodotti di base. Le donne in gravidanza, i neonati, i bambini e gli anziani non dovrebbero utilizzare erbe medicinali senza il controllo del medico.Un’indagine condotta dal nostro gruppo a Firenze su 172 donne in gravidanza ha mostrato che il 48% fa ricorso a prodotti natu-rali, il 30% ne considera l’uso sicuro al pari dei farmaci e il 52% li considera più sicuri dei farmaci (Lapi et al EJCP, 2008). Questi dati evidenziano una percezione del rischio estremamente bassa, tanto che le erbe sono assunte soprattutto nel primo trimestre di gravidanza, quando il rischio di effetti tossici sul feto è più ele-vato. I dati toscani sono in linea con quelli internazionali e sono stati confermati di recente da una indagine condotta in Veneto (Cuzzolin et al, 2010, in press).A differenza dalle altre medicine complementari, la fitoterapia ha un efficiente sistema di fitovigilanza coordinato dall’Istituto Supe-riore di Sanità. A giugno 2009 erano pervenute al sistema di sor-veglianza delle reazioni avverse 370 segnalazioni, di cui il 68% interessavano prodotti a base di piante medicinali. Si trattava per lo più di eventi gravi riguardanti patologie gastrointestinali, pato-logie della cute e del tessuto sottocutaneo, patologie del sistema nervoso e patologie del fegato. Nel 34% delle segnalazioni è stato riferito l’uso concomitante di farmaci convenzionali. In generale, le segnalazioni hanno evidenziato problemi di adulterazione o di contaminazione dei prodotti, rischi associati all’uso tradizionale di alcune piante e rischi di interazione con i farmaci convenzionali.Alcune segnalazioni di reazioni avverse da fitoterapici hanno ri-guardato prodotti considerati sicuri fino a pochi anni fa. Quando piante medicinali utilizzate da secoli o da millenni si mostrano

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improvvisamente tossiche, vale la pena chiedersi se esse non siano utilizzate in modo diverso, a dosaggi troppo elevati o per scopi diversi da quelli tradizionali. Non è necessariamente tossi-ca la pianta medicinale, ma il prodotto preparato secondo certe modalità. È stato, ad esempio, il caso della kava (Piper methy-sticum), epatotossica solo se preparata con particolari tecniche estrattive che concentrano eccessivamente i kavalattoni, o del tè verde (Camelia sinensis), dotato di numerosi effetti terapeutici e preventivi, ma epatotossico se assunto in preparazioni che con-centrano eccessivamente le catechine (in particolare la epigallo-catechina gallato).Sugli effetti avversi influiscono anche la posologia e la durata del trattamento. La liquirizia ad esempio, sicura come alimento o come fitoterapico in dosi e tempi adeguati, se assunta ad alte dosi per brevi periodi o a basse dosi per lunghi periodi può causare ipopotassemia, ipertensione arteriosa e miopatia fino alla rabdo-miolisi. Infatti il principale principio attivo della liquirizia, l’acido glicirizzico, è un inibitore della reduttasi epatica che catalizza la trasformazione del cortisolo in cortisone causando l’aumento dei metaboliti ad azione mineralcorticoide. Per queste ragioni, all’as-sunzione di derivati di liquirizia è stata associata la manifestazio-ne di questi effetti avversi, in particolare in soggetti ipertesi.In conclusione, è necessario monitorare l’utilizzo dei prodotti a base di piante officinali per conoscere le possibili reazioni avver-se, ma non bisogna dimenticare che molti fitoterapici sono par-ticolarmente utili, e relativamente sicuri, nella terapia di diversi disturbi.D’altra parte la medicina attinge da sempre dal mondo naturale per la ricerca di nuove molecole farmacologicamente attive che, se dimostrate efficaci, sono entrate a far parte della terapia uf-ficiale. L’utilizzo corretto dei preparati a base di piante medicinali richie-de sempre la visita e la prescrizione di un medico, dato che le reazioni avverse gravi sono legate spesso all’uso scorretto del fitoterapico, alla mancanza di sorveglianza medica o all’utilizzo in situazioni a rischio (bambini, anziani, gravidanza).

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CODICE DEONTOLOGICO MEDICO: DOVERI E SANZIONI

Antonio Panti Presidente dell’Ordine dei medici della provincia di Firenze

Oggi in Italia la Regione Toscana è l’unica che ha provveduto a fornire una forma di riconoscimento giuridico delle medicine com-plementari con la Legge regionale 9/2007; a livello nazionale non sembrano, per ora, esserci grandi spiragli né spinte particolari perché si legiferi in questa materia. È chiaro che l’approvazione di una legge nazionale per queste medicine avrebbe ben altro valore di un provvedimento regionale e offrirebbe maggiori garanzie anche sul piano formale. Il provvedimento di legge emanato dalla Regione Toscana rap-presenta in ogni caso un importante passo avanti, che si fonda su questo ragionamento: viene valutato il curriculum formativo di medici, veterinari e farmacisti in maniera che si possa dire che quel professionista è in grado di esercitare l’omeopatia, la fitote-rapia o l’agopuntura perché ha frequentato, conseguendo degli attestati, scuole e corsi di un certo tipo. Questa forma di selezione, che è a favore del cittadino, è stata resa possibile dalla citata Legge regionale e da un successivo Pro-tocollo d’intesa siglato fra la Regione Toscana e gli Ordini profes-sionali dei medici, dei veterinari e dei farmacisti. È stato possibile adottare queste misure perché esse non alteravano il profilo pro-fessionale dei medici, non mettevano cioè in discussione aspetti che sono di esclusiva competenza statale e che solo lo Stato può modificare. Il processo di integrazione delle medicine complementari è stato favorito da un clima di apertura della Regione Toscana nei con-fronti di queste pratiche, che pure hanno animato e continuano ad animare molte discussioni all’interno del mondo medico.Il codice deontologico dei medici dedica alle pratiche complemen-tari o non convenzionali un articolo specifico (art. 15) nel quale si afferma che il ricorso a pratiche non convenzionali “non può pre-scindere dal rispetto del decoro e della dignità della professione e si esprime nell’esclusivo ambito della diretta e non delegabile responsabilità professionale del medico”. Quali sono le conseguenze di questa enunciazione? Innanzitutto che nelle medicine non convenzionali la responsabilità del medico è diretta e non delegabile, in sostanza chi firma la ricetta ne è

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responsabile. Di fronte alla legge il medico è un soggetto respon-sabile in modo autonomo, benché oggi nei percorsi assistenziali complessi all’interno degli ospedali cominci ad affermarsi, anche nella giurisprudenza, il concetto di responsabilità non individuale, ad esempio la responsabilità dell’azienda o della struttura sani-taria. In questo caso si dice, però, che se un medico decide di proporre a un paziente una terapia non convenzionale lo fa sotto la sua esclusiva responsabilità e che egli deve attenersi al rispetto e al decoro della professione medica. Che senso ha dire questo in una regione come la Toscana dove ci sono medici che esercitano l’attività medica integrata con la medicina tradizionale? Vuol dire che anche nella civile Toscana ci sono medici che sotto forma di medicine alternative attuano pratiche che vanno contro il decoro della professione. Ad esempio pensano di curare una patologia oncologica con polveri più o meno strane, e purtroppo questi fenomeni avvengono anche in questa regione. Dico ciò per chiarire che nell’ambito delle medicine non convenzionali occorre portare avanti un fondamentale lavoro di selezione, nell’interesse anche dei medici che esercitano queste pratiche. La Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri (FNOMCeO) sviluppa un discorso più vasto in materia di medicine non convenzionali, avendone delimitato il campo e avendo stilato un elenco di pratiche che sono di esclusiva com-petenza del medico. Ed è molto importante perché la FNOMCeO sostiene che è corretto sul piano deontologico non soltanto prati-care l’omeopatia, ma anche la medicina ayurvedica, l’antroposo-fia e le altre discipline da essa riconosciute, ma non altre forme che non hanno nulla a che vedere con la medicina. Il codice deontologico continua dicendo, in sintonia con un orien-tamento moderno della medicina, che i trattamenti che offriamo alla popolazione devono basarsi su valutazioni scientifiche veri-ficate. Più avanti l’articolo specifica che il ricorso alle pratiche non con-venzionali non deve sottrarre il cittadino a trattamenti scientifi-camente consolidati e che si richiede sempre una circostanziata informazione e l’acquisizione del consenso. Ribadisco questo con-cetto, perché se le persone oneste non hanno alcun problema al riguardo, purtroppo sono avvenuti episodi incresciosi come quello della giovane diabetica deceduta a Firenze, all’ospedale pediatri-co Meyer, dopo avere sospeso le cure adeguate per la sua condi-zione. Sono questioni che vanno lette con riferimento alla realtà

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nazionale e non a quella toscana, dove per fortuna problemi di questo tipo hanno un impatto senza dubbio limitato. Per questa ragione sono sempre stato un paladino della regolamentazione delle medicine non convenzionali e l’ho sostenuta anche di fronte a quei colleghi che, ritenendole terapie non dimostrate, chiedeva-no perché mai dobbiamo occuparcene. Dobbiamo farlo perché se regolamentiamo questo settore, diamo un vantaggio ai professio-nisti seri e degni di questo nome, che esercitano un’attività lecita, regolare e corretta sul piano deontologico e professionale.Con lo strumento della legge, e degli atti normativi ad essa cor-relati, intendiamo poter selezionare, in un ambito in cui ancora oggi purtroppo esiste un’ampia gamma di situazioni, coloro che svolgono un’attività lecita sul piano professionale. E lo facciamo nell’interesse dei professionisti e dei cittadini.Un altro articolo del codice deontologico, correlato al primo, af-ferma che il medico deve garantire impegno e competenza pro-fessionale, non assumendo obblighi che non sia in condizione di soddisfare. Egli deve affrontare, nell’ambito delle sue specifiche responsabilità e competenze, ogni problematica con il massimo scrupolo e disponibilità, dedicando ad essa il tempo necessario per una accurata valutazione dei dati oggettivi, in particolare dei dati anamnestici, avvalendosi delle procedure e degli strumenti ritenuti essenziali e coerenti allo scopo, assicurando attenzione alla disponibilità dei presidi e delle risorse. Vale per me che faccio il medico di famiglia: se mi mettessi, infatti, a prescrivere tera-pie di cui non ho alcuna competenza specialistica potrei essere sottoposto a sanzioni perché è acclarato che non esiste il medico tuttologo. Ognuno è prima di tutto un medico di base e poi si specializza nelle varie branche.Il codice deontologico prevede, dunque, che chi esercita l’omeo-patia o un’altra branca specialistica deve essere consapevole del-le proprie competenze e dei limiti della propria disciplina. La prescrizione e i trattamenti terapeutici devono essere soste-nuti da una diagnosi adeguata, sono demandati all’autonoma re-sponsabilità del medico e devono essere ispirati alle più recenti acquisizioni scientifiche. Il medico deve sapere tutto dei farmaci che prescrive, siano essi omeopatici o etici, ed è vietata l’adozio-ne e la diffusione delle terapie non comprovate scientificamente. È evidente che se gli Ordini dei medici hanno accettato di inclu-dere le pratiche non convenzionali in un’area in cui è decoroso e dignitoso praticarle, come lo è l’esercizio di ogni altra specialità,

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si ritiene che, anche in assenza di un ampio numero di studi come in altri ambiti della medicina, nella pratica quotidiana e nelle pubblicazioni esistenti ci siano sufficienti elementi per dire che le pratiche non convenzionali si possono considerare un’utile integrazione per la salute del cittadino. Tutto ciò che non è provato scientificamente deve essere sottopo-sto a una valutazione complessiva, che non può essere soltanto quella dei trials randomizzati e controllati (TRC), che in definitiva si possono realizzare soltanto per una piccola parte della medi-cina. In conclusione, il codice deontologico medico non solo rende pos-sibile e corretto l’esercizio delle tre medicine citate dalla Legge regionale toscana (agopuntura, fitoterapia, omeopatia), ma di una gamma più vasta di pratiche che hanno una specificità, una tradizione storica e una realtà culturale proprie. Come presidente dell’Ordine dei medici mi auguro che si compia-no ulteriori progressi nell’ambito della formazione e nel rapporto fra la popolazione e i medici e che si definisca una legge nazionale che disciplini in base a questi principi l’esercizio delle medicine complementari.

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CONSENSO INFORMATO, RESPONSABILITÀ PROFESSIONA-LE E RISk MANAGEMENT IN MEDICINA COMPLEMENTARE

Massimo MartelloniDirettore della U.O. di Medicina legale della Azienda USL 2 di Lucca

Deontologia e pratiche non convenzionaliIn questa materia il richiamo è al nuovo Codice di deontologia medica (16 dicembre 2006) che all’art. 15 parla di pratiche non convenzionali. L’articolo citato parla di decoro e dignità della pro-fessione e valorizza l’utilizzo delle conoscenze scientifiche che sono alla base di ogni disciplina. Il riferimento della responsabilità riguarda l’esclusivo ambito del-la diretta e non delegabile responsabilità del medico. Da questo punto di vista il commento da fare è sui vantaggi e gli svantaggi della scelta terapeutica che qualsiasi professionista deve illustra-re al proprio paziente. Questo forte richiamo chiarisce come, in definitiva, tutte le bran-che mediche debbano comportarsi allo stesso modo: anche in medicina complementare, dunque, occorre fare ciò che è meglio per il paziente, optando per scelte comprovate scientificamente in funzione della salute del paziente che, pertanto, non devono ave-re un carattere ideologico. Il medico deve agire secondo scienza e coscienza e sulla base di prove di medicina dell’evidenza.

Informazione e consensoUn altro aspetto importante dello stesso Codice riguarda la consa-pevolezza del paziente, con il richiamo all’informazione circostan-ziata e all’acquisizione del consenso informato al trattamento. Si tratta cioè di informare il paziente dei vantaggi o degli svantaggi di quella terapia, anche nel caso in cui egli rifiuti una terapia con-venzionale e scelga un intervento di medicina complementare.

Esercizio di terzi non medici Un altro richiamo forte riguarda l’esercizio di terzi non medici, in cui si afferma che “è vietato creare delle collaborazioni per favorire l’intervento nel settore delle cosiddette pratiche non con-venzionali di terzi non medici”. Qui il commento riguarda una questione specifica, cioè la disponibilità del medico verso attività legate a vantaggi economici, perdendo di vista così l’interesse della salute del paziente. Il commento generale è analogo: la

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medicina complementare è una medicina e per essa valgono le stesse regole di comportamento richieste a qualsiasi medico. Le regole della responsabilità in un processo assistenziale valgono, naturalmente, anche nell’ambito parallelo della professione infer-mieristica o di altra professione sanitaria.

Fattori di rischio L’altro importante riferimento in questa materia è l’art. 14 del Codice di deontologia, che affronta l’individuazione dei fattori di rischio, e dove si legge: “Il medico opera al fine di garantire le più idonee condizioni di sicurezza del paziente e contribuire all’adeguamento dell’organizzazione sanitaria, alla prevenzione e gestione del rischio clinico anche attraverso la rilevazione, se-gnalazione e valutazione degli errori al fine del miglioramento della qualità delle cure. A tal fine il medico deve utilizzare tutti gli strumenti disponibili per comprendere le cause di un even-to avverso e applicare i comportamenti congrui per evitare che si ripeta. Questi strumenti costituiscono un’esclusiva riflessione tecnico-professionale riservata, volta all’identificazione dei rischi, alla correzione delle procedure e alla modifica dei comportamen-ti”. È il lavoro questo che facciamo con gli audit e le review, gli strumenti che utilizziamo normalmente sul piano preventivo.

Modalità dell’informazione Rispetto al contenuto dell’informazione e della modalità di comu-nicazione le informazioni, che diamo al paziente, devono avere contenuti precisi. Il riferimento, da tenere in considerazione, è rappresentato dall’art. 33 del Codice di deontologia medica del 2006 secondo cui bisogna fornire “la più idonea informazione sul-la diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive delle eventuali alter-native diagnostico-terapeutiche e sulle prevedibili conseguenze delle scelte operate”, con l’obbligo del medico a soddisfare “ogni ulteriore richiesta di informazione da parte del paziente”. Si discute dunque di diagnosi, prognosi e alternative diagnostico-terapeutiche, che vanno sempre fatte presenti, e delle possibili conseguenze, quindi vantaggi e svantaggi rispetto alla salute e alla qualità di vita e al benessere del paziente. Questo tipo di colloquio deve essere aperto e tranquillo, mettere a proprio agio le persone in un rapporto senza barriere; occorre spiegare come stanno le cose e ciò che si può fare.Questo aspetto è presente in diversi trattati sulla sicurezza del

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paziente nell’ambito del biodiritto; si pensi alla convenzione di Oviedo (1997), trasformata in legge dello Stato italiano nel 2001 (L. 145/2001). È questa una legge importante che, all’art. 5, cita espressamente il fatto che “nessuno può essere sottoposto a un trattamento sanitario contro la sua volontà”. In materia di informazione occorre trovare quindi un’alleanza con il cittadino e informarlo della sicurezza delle cure, fornendo ogni spiegazione anche nel caso in cui avvenga un incidente. È una nuova cultura della comunicazione che comprende gli aspetti ri-guardanti il rischio clinico. Anche in giurisprudenza si inizia dunque ad avere coscienza di che cosa voglia dire informare, di quale sia il rapporto tra il me-dico, e più in generale il sanitario, e il paziente.La materia giurisprudenziale è cambiata, per fortuna, con le ulti-me sentenze delle Sezioni Unite della Cassazione, specie in sede penale. Nella medicina complementare, che più di altre medicine ha ca-ratteristiche olistiche e applica un rapporto empatico con il pa-ziente, questi concetti si affermano molto più che nei settori sa-nitari altamente tecnologicizzati. In questo ambito sta a cuore soprattutto la relazione con il paziente e la comunicazione diretta è parte importante dell’azione terapeutica.Sotto questo profilo è ancora più importante la continuità della re-lazione terapeutica, perché facilita il rapporto e la comprensione delle cose dette. E in materia di comunicazione è da augurarsi co-munque che nelle nuove strutture si creino situazioni ambientali che la favoriscano: tempo sufficiente, un ambiente tranquillo, calma, concentrazione, riservatezza. Quando comunica, il medico dovrà fare attenzione non solo ai contenuti ma anche alle modalità dell’in-formazione. Dobbiamo indicare sempre al paziente se ci sono delle alternative terapeutiche e adeguarci alla sua capacità di compren-sione, verificare se ciò che abbiamo detto è stato compreso. Può essere utile, quando si raccoglie il consenso, la presenza del personale infermieristico che, avendo un rapporto assistenziale più stretto e costante con il paziente, potrà sostenerlo e confor-tarlo ed essendo più a contatto con il paziente, potrà ricevere quesiti da riportare al medico perché siano date delle risposte. Occorre saper dialogare, comunicare e far capire che siamo en-trati in empatia, cogliere il livello di sofferenza, o di difficoltà psi-cologica, nel quale versa chi sta davanti al medico.Il Codice deontologico all’art. 35 sull’acquisizione del consenso

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recita: “Il medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o terapeutica senza l’acquisizione del consenso esplicito e informa-to del paziente. Egli deve desistere da atti diagnostici o curativi e non è consentito agire contro la volontà del paziente”. I riferimenti di tale articolo nella Costituzione italiana sono l’art. 13, che definisce inviolabile la libertà della persona, e l’art. 32 che recita: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale di-ritto dell’individuo e interesse della collettività” e non un obbligo che giustifichi qualsiasi violenza da parte di terzi anche in punto di morte. Questi concetti permeano non solo la Costituzione, ma l’intera le-gislazione nazionale, in quanto sono stati ripresi anche dagli art. 34 e 35 della riforma sanitaria. Il trattamento sanitario è collega-to al concetto di libera scelta, che non era preso in considerazione in passato, quando la salute del paziente era affidata totalmente al medico. Ci sono voluti molti anni perché si affermasse, final-mente, questo principio in giurisprudenza: la libertà individuale è un diritto inviolabile, è connessa alla salute e da questo punto di vista è indiscutibile.

Il sistema di pubblica tutela Con la riforma sanitaria del 1992 si vara inoltre la carta dei diritti e nasce il sistema di pubblica tutela con l’istituzione dell’Ufficio Rapporti con il Pubblico (URP), per la gestione dei reclami e della Commissione Mista Conciliativa, mentre in Toscana il Difensore Civico Regionale assume competenze anche in materia di gestio-ne di casi di supposta responsabilità professionale.Occorre notare però che tutta la materia del sistema di pubblica tutela non costituisce un ambito formativo universitario per la professione medica e per le professioni sanitarie.I passaggi principali di questo percorso di riforma sono costituiti dalla Legge n. 241/1990 sulla trasparenza degli atti pubblici e dalla Legge di Riforma della Riforma Sanitaria che, all’art. 14, pone il problema di progettare l’assistenza anche in termini di qualità e di appropriatezza nel rispetto dei diritti dei cittadini.

Appropriatezza in ambito sanitarioIn realtà le fonti fondamentali di appropriatezza dell’assistenza sanitaria sono tre:

l’appropriatezza clinica, che richiama la medicina dell’evi-1. denza,

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la sicurezza, che rappresenta in definitiva l’appropriatezza a 2. livello organizzativo e cioè rendere i processi sicuri rispetto ai fattori di rischio,il rispetto dei diritti del cittadino, con la legge sulla tra-3. sparenza, la privacy e la materia del biodiritto (consenso informato, rispetto delle volontà del paziente, testamenti biologici ecc.).

In questo campo di intervento tutti i Paesi stanno approntando risposte di tipo laico e in questa direzione vanno anche i codici deontologici medico e infermieristico. L’attuazione del consenso informato è però molto carente nella sostanza, anche se le firme sui moduli ci sono. In ogni caso, molti moduli di consenso informato non dimostrano che al paziente è stata data un’informazione adeguata sui rischi specifici degli in-terventi praticati. Ci sono, inoltre, carenze nelle modalità con cui si registra la co-municazione, che è avvenuta o non è avvenuta, visto che anche il personale infermieristico si presta a passare i moduli cartacei in modo burocratico. In realtà ogni operatore dovrebbe difendere la propria dignità professionale e cominciare a dire “questa cosa non la faccio”.Nell’organizzazione sanitaria le fonti dell’appropriatezza richie-dono di discutere e affrontare le problematiche emergenti con audit, con review, strumenti interni della qualità, che consentono di capire come organizzare meglio il lavoro. Nella pratica esistono ancora registrazioni fatte in modo generico, oggi in realtà sempre meno, o documenti di cure a cui ci si deve sottoporre incompleti, nei quali non sono spiegati i percorsi disponibili e cosa occorre fare. Questi documenti possono essere fonte di contenzioso giu-risprudenziale, questione che deve essere ben compresa da parte dei medici. Il giudice trova, infatti, sempre più spesso consensi informati rac-colti da infermieri invece che da medici; occorre invece registrare ogni passaggio nel processo assistenziale perché ciò è importante sia ai fini di una corretta assistenza sia ai fini di un procedimento giudiziario. In altre parole ciò che non è scritto non esiste.L’atteggiamento della giurisprudenza è comunque cambiato. Non si parla generalmente più di lesioni dolose, ma di lesioni a carat-tere colposo.È emerso in una recente sentenza la valorizzazione della lege ar-

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tis che deve guidare l’atto medico, comunque considerato un atto teso a beneficere e non a ledere. L’atto medico può comunque diventare un atto lesivo.L’importante è comprendere che il comportamento etico e quello tecnico non devono essere disgiunti e che il fine medico di guari-re deve contemperarsi con il fine del prendersi cura con il pieno rispetto della persona assistita. Pertanto il medico deve consentire al paziente di aderire libera-mente e in modo consapevole al trattamento sanitario.Il paziente diventa in tal senso una persona assistita, informata e in grado di poter scegliere in modo libero e cosciente se ade-rire ai trattamenti sanitari proposti. L’informazione e il consenso ai trattamenti sanitari da parte della persona assistita diventano importanti, come lo è per i medici aderire all’interno dell’organiz-zazione sanitaria alle indicazioni del Codice di deontologia medi-ca, uscendo così dal penoso trend della “medicina difensiva”.

Responsabilità professionale e risk managementIn materia di responsabilità professionale, quindi, si possono ri-assumere i seguenti argomenti:

1. errore medico e responsabilità professionale;2. evoluzione della giurisprudenza;3. medicina complementare;4. attestazione delle buone pratiche;5. sistema assicurativo tradizionale e autoassicurazione;6. attività di risk management nelle Aziende sanitarie.

Cerchiamo di capire meglio l’errore medico. Il comportamento professionale può essere censurabile quando produce conse-guenze dannose ingiuste.L’evento avverso può essere causato da un errore evitabile, quan-do non siano state adottate le necessarie cautele, oppure può es-sere prevedibile, ma non evitabile.Quando si arriva a valutare questa materia, abbiamo di fronte l’altro protagonista, il paziente, che in pratica spesso e volentieri vuole qualcosa di più, in realtà spesso vuole un risultato. Occorre dunque avere percorsi sicuri non solo per assistere il paziente, ma anche per mettere a sua disposizione le risorse più aggiornate.In generale c’è quindi la volontà del paziente di trasferire sul me-dico la responsabilità della malattia che lo ha colpito. In questo senso l’errore medico non è più tollerato.

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Il contenzioso è comunque maggiore nelle aree dove la medicina è più progredita. Cresce la qualità tecnica della scienza medica, ma aumenta la richiesta di risultati.Dal punto di vista dell’evoluzione della giurisprudenza sono diver-si i principi che ispirano la responsabilità medica. La responsabilità del medico rientra nell’ambito della responsabilità contrattuale. Tale indirizzo ormai consolidato ha modificato l’onere della prova e i tempi di prescrizione. Vuol dire che spetta ai medici e anche alle professioni sanitarie dimostrare di essere stati diligenti, fatto rilevante che impone la necessità di ben documentare quello che viene fatto.In ambito civile comunque la giurisprudenza è sempre più favorevo-le verso il paziente, mentre in ambito penale la situazione cambia.Le indagini sulla colpevolezza sono rigorose e fondate su puntuali regole di garanzia. La prova del fatto deve risultare oltre ogni ra-gionevole dubbio, quindi occorrono prove certe. La giurispruden-za si ispira a principi di equità e ragionevolezza. Bisogna dimo-strare che l’evento non si sarebbe verificato senza una condotta di carattere colposo.

Parallelamente al caso civile o penale in ambito di risk manage-ment devono essere studiati gli elementi circostanziali/organizza-tivi nei quali si è determinato il fatto.L’audit rappresenta lo strumento per lo studio di quanto avvenuto e per l’individuazione delle soluzioni. Con l’audit non si studia il nesso di causalità tra l’azione e le sue conseguenze.L’analisi medico-legale del caso serve a capire se il comporta-mento è stato utile a determinare il fatto nell’ambito di logiche di carattere giurisprudenziale, sapendo che in pratica giurispru-denziale e medico-legale tra verità clinica e verità processuale c’è spesso un abisso nel mezzo a dividere i campi. In altre pa-role, dell’errore medico dobbiamo discutere. Non farlo significa bloccare l’analisi della vicenda nella fattispecie del rischio clinico, della sicurezza e della soluzione dei problemi da affrontare sotto il profilo organizzativo.A volte abbiamo paura di discutere e questo ci impedisce di agire nell’ambito della sicurezza e di fare audit. Spesso c’è il timore di discutere di un problema per paura che poi ci succeda qualcosa e si teme anche di fare una brutta figura nell’ambiente di lavoro, ammettendo l’errore. Questa seconda componente pesa più della prima, come indicato nelle ultime ricerche condotte in Italia.

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Occorre quindi distinguere tra verità clinica e verità processuali.Le verità processuali pongono altre questioni. In ambito penale è ri-chiesta la certezza della prova per poter esprimere un giudizio oltre ogni ragionevole dubbio; inoltre la linea di tendenza giurispruden-ziale è diversa tra l’ambito penale e quello civilistico. In quest’ultimo ambito prevalgono indirizzi di carattere probabilistico.Le risposte preventive degli operatori devono basarsi sulla gestio-ne di procedure, protocolli, ovvero su azioni dirette a migliorare la sicurezza dell’assistenza.In ambito penale vale il principio: “Peggio condannare un inno-cente che lasciare libero un colpevole”. La colpevolezza del medico si basa sulla dimostrazione che senza condotta colposa l’evento lesivo non si sarebbe verificato, (non basta individuare l’errore).In Toscana, in realtà, ci sono vari provvedimenti amministrativi che costituiscono fonti di protezione per chi partecipa alla gestio-ne del risk management. Sul piano amministrativo chi partecipa all’audit non può esse-re sottoposto a provvedimento disciplinare. In tal senso l’ultima delibera della Regione Toscana, (febbraio 2009), ha attuato, fi-nalmente, un’indicazione che a suo tempo avevamo portato dalla Danimarca.La Danimarca è l’unico Paese in Europa che ha emanato una le-gislazione a protezione dell’intero procedimento del rischio clinico ovvero dell’incident reporting e dell’audit, che non può essere utilizzato né per provvedimenti disciplinari da parte del datore di lavoro, né addirittura dalle Corti di giustizia come fonti di prova. In Italia la magistratura può invece acquisire qualsiasi cosa, si tratta di capire che quello che facciamo con l’audit non è una fonte di prova.

A rafforzare il sistema del risk management è intervenuto anche l’art. 16 del contratto di lavoro dei medici, che richiama la neces-sità della tutela medico-legale e la necessità del medico di ren-dersi disponibile per capire perché l’evento è avvenuto e perché non si ripeta. Si parla di rischio clinico; questi sono linguaggi contrattuali nuovi, espressione di una cultura nuova. Si comincia a dire: mi interessa rendere sicuro il sistema attraverso la partecipazione di tutti al governo del sistema, il governo clinico, appropriamoci dunque degli strumenti del governo clinico perché possono essere eserci-tati bene solo da chi conosce la realtà tecnico-assistenziale.

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In ambito civilistico, come già detto, la situazione per l’operato-re sanitario è più debole perché si ragiona ancora in termini di probabilità soprattutto in ambito omissivo, valutando dove era possibile intervenire e che cosa sarebbe cambiato in caso di inter-vento. Quindi c’è la necessità di dimostrare che comunque quel danno è stato ingiusto e lo si dimostra quando, al di là dell’errore, si dimostra che l’errore è la conseguenza di un comportamento imperito, imprudente e/o negligente. Dall’altra parte, ovvero da parte di chi si difende, è necessario dimostrare che il danno era inevitabile. Da parte del medico c’è la necessità di registrare/documentare bene tutto quello che fa, altrimenti si origina il punto debole che può essere colpito. Anche la cartella infermieristica va compilata, ma spesso non si fa. Lavorando insieme si può migliorare. Bisogna imparare ad auto-valutarsi a partire dall’esame della correttezza della compilazione della documentazione redatta. Quando la documentazione è mal redatta, l’atteggiamento della giurisprudenza è sfavorevole alla posizione del medico, in quanto viene avvantaggiata la posizio-ne del soggetto che si ritiene danneggiato (e che è considerato la parte debole tra i due contendenti nel rapporto sanitario). In ambito civilistico prevale, infatti, l’esigenza di risarcire il danno sulla necessità di dimostrare l’ingiustizia del danno e spesso la necessità di documentare l’evitabilità del danno viene sottovalu-tata. Questi orientamenti comportano costi elevati per il sistema sanitario. In Toscana i medici sono ben tutelati poiché coperti da assicurazioni aziendali fino al 31 dicembre 2009 e coperti dal fondo regionale e da assicurazioni personali per la colpa grave dal 2010, quando inizia la tutela autoassicurativa.

Che cosa possiamo fare allora in queste situazioni sul piano di valutazione della responsabilità professionale?

1. Cercare di dimostrare che si è fatto tutto il possibile per ot-temperare all’obbligazione di buona assistenza (la condotta professionale è stata adeguata oppure si è discostata dalle regole dell’arte?).

2. Dimostrare che determinate cause hanno reso impossibile comportarsi in un certo modo, cause sopravvenute, compli-cazioni che hanno impedito di assistere bene il paziente (la condotta ha causato un danno alla persona?).

3. Valutazione del danno alla persona: omicidio o lesioni per-sonali in ambito penale; danno risarcibile in ambito civile.

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Qual è dunque l’orientamento della giurisprudenza penale e ci-vile? La valutazione della colpa segue un doppio binario sul gra-do di probabilità richiesta: la Cassazione penale ammette la re-sponsabilità in caso di elevato grado di credibilità razionale o di probabilità logica mentre la Cassazione civile richiede solo una ragionevole probabilità.La perdita di chance non ha rilevanza in ambito penale; è fonte di danno autonomo in ambito civile (non c’è bisogno di dimostrare il nesso).

Consenso informato e giurisprudenzaL’informazione deve consentire al paziente di condividere la scel-ta medica oppure di decidere in modo diverso.Non informare il paziente della possibile complicanza alla fine rende responsabile il medico di quanto succede (in campo civili-stico).

Informazione e consensoLa mancanza di informazione e di consenso è ritenuta autonoma fonte di condotta penalmente rilevante e di danno risarcibile.Ogni informazione di rilievo va finalizzata al consenso e, soprat-tutto, alla condivisione.Contenuti: finalità della procedura consigliata; benefici; benefici e rischi; alternative.Le misure più efficaci contro le richieste di risarcimento:

1. informazione chiara;2. diligenza nell’esecuzione della prestazione;3. diligenza nella registrazione delle motivazioni alla base del-

le scelte tecniche;4. sottoscrizione del consenso.

In medicina complementare per quanto riguarda gli aspet-ti clinici:

1. circostanze e caratteristiche proprie del caso da esaminare;2. difficoltà di diagnosi e di prognosi;3. prevedibilità dell’evento;4. rilevanza causale di eventuali altri antecedenti causali.

Qui nasce il problema di migliorare sempre di più la comunicazio-ne tra gli stessi operatori.

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Criticità più frequenti1. Problemi di comunicazione tra i professionisti: le notizie

vanno lasciate con chiarezza al collega che si ritrova poi davanti al paziente;

2. errata valutazione prognostica, un aspetto importante ri-spetto alle alternative terapeutiche tradizionali che il pa-ziente potrebbe seguire;

3. errata o mancata diagnosi;4. trattamento insufficiente.

ConclusioniAnche in medicina complementare è giusto ragionare sull’atte-stazione delle buone pratiche per la sicurezza del paziente. Si tratta dunque di costruire la buona pratica rispetto alla quale misurarsi. Anche in questo settore si comincia a entrare non solo nei mecca-nismi di accreditamento istituzionale, ma anche in quelli di accre-ditamento volontario, che passa in ogni caso per il rischio clinico. Si tratta di fatto di creare qualità dal basso.Quali sono le finalità delle buone pratiche? Rendere visibili i ri-sultati per tutta la comunità e non solo nel mondo della medici-na complementare; ridurre il contenzioso per contenere i costi assicurativi; attivare una competizione positiva per migliorare la qualità motivando gli operatori e infine rassicurare le associazioni dei cittadini.

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EFFETTI AVVERSI IN AGOPUNTURA E MEDICINA TRADI-ZIONALE CINESE

Sonia Baccetti, Maria Valeria Monechi Centro di MTC Fior di Prugna, Struttura Regionale di riferimento per la MnC e la MTC; Rete Toscana di Medicina Integrata, Regione Toscana

Nata più di 6.000 anni fa in Cina, la medicina tradizionale cinese (MTC) è l’unica “arte medica” che si è conservata in sostanza inal-terata fino ad oggi, ed è utilizzata da 1 persona su 6 nel mondo. Essa è composta di un insieme di tecniche raffinate che compren-dono l’agopuntura, il massaggio tuina, la moxibustione, il fior di prugna, la farmacopea cinese, la dietetica, la ginnastica energe-tica ecc. Il meccanismo di azione di queste tecniche è analogo poiché ognuna di esse è in grado di modificare, equilibrandola, l’energia del nostro corpo, che sta alla base dell’equilibrio psiche-soma, e quindi del benessere. Sulla natura di questa energia vi sono molte ipotesi per le quali si rimanda ai testi specialistici. Nel classico approccio terapeutico la scelta della tecnica da uti-lizzare dipende dalle caratteristiche energetiche del soggetto da trattare e quindi dalla sua patologia: correntemente, infatti, si afferma che l’agopuntura ha un’azione disperdente e deve essere utilizzata nelle patologie da pienezza-calore; il massaggio è più indicato nelle forme di ristagno dell’energia, la moxibustione in caso di vuoto energetico e la fitoterapia nelle patologie dell’inter-no, degli organi e dei visceri. Le ginnastiche energetiche, come il tai qi e il qigong, hanno una funzione per lo più preventiva e di riequilibrio dell’energia e si possono dunque utilizzare in ogni patologia. Anche la dietetica ha un’indicazione preventiva e cu-rativa. Nel tempo questa metodologia classica si è andata modificando e oggi in quasi tutto il mondo la scelta terapeutica è fortemen-te influenzata dalla disponibilità di operatori con una formazione specifica, dalle attitudini del professionista che esercita la MTC e dalla scelta terapeutica del paziente. Per esempio in Cina la tec-nica più diffusa è la farmacopea, mentre in Europa e soprattutto in Italia è praticata l’agopuntura, seguita dalla moxibustione e dal massaggio tuina.Nelle comunità di cinesi immigrate nel nostro Paese il ricorso alla farmacopea è molto diffuso e si avvale di farmaci inviati diretta-

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mente dalla Cina; spesso però sono assunti anche farmaci della farmacopea ufficiale sintetizzati in quel Paese nell’errata convin-zione che siano preparati di medicina tradizionale. Non sono molti i lavori di revisione sugli effetti avversi della MTC. Le segnalazioni più frequenti riguardano: dolore e sanguinamen-to, lesioni cutanee, infezioni, ecchimosi per il trattamento con fior di prugna; dolore, ecchimosi, ustioni e lacerazioni cutanee nell’utilizzo di coppette. In seguito a massaggio sono stati descrit-ti in letteratura astenia, danni da errata manipolazione, infezioni e aggravamento dei sintomi. Sono invece noti numerosi effetti avversi in fitoterapia cinese; ciò è dovuto al fatto che in alcune ricette sono presenti erbe con una certa tossicità, che la composi-zione delle ricette non è sempre descritta in modo completo e che possono essere presenti rimedi non facili da identificare. Il qigong è una tecnica ampiamente utilizzata, anche nella ria-bilitazione e in oncologia, della quale non sono riferiti eventuali disturbi collaterali, anche nei dati bibliografici più recenti. Sono più numerosi gli studi sugli effetti avversi legati all’agopun-tura. Secondo la letteratura internazionale, essi sono costituiti da lipotimie transitorie, dolore, ecchimosi, vertigini, dipendenza da agopuntura, infezioni cutanee o allergie agli aghi metallici e ustioni (in caso di moxibustione). Sono descritti anche rari casi di pneumotorace, epatite, lesioni spinali, endocardite batterica. Tut-ti questi effetti si possono evitare con l’applicazione delle normali tecniche di asepsi o scegliendo una diversa profondità degli aghi secondo le zone del corpo trattate.Una review dei lavori pubblicati negli ultimi vent’anni (Ernst E e coll. 2001) mostra che la percentuale degli effetti avversi gravi è molto bassa (0.02%-0.1%) ed è legata soprattutto all’infissione degli aghi da parte di personale non laureato in medicina e con una bassa professionalità. A un’analoga conclusione era giunto il National Institute of Health (Stati Uniti) nella Consensus Confe-rence sull’agopuntura del 1999. Nella review di Ernst e coll. sono descritti 2 casi di pneumotorace su 250.000 trattamenti, mentre gli effetti avversi minori sono stati riscontrati in percentuale maggiore. I risultati degli studi dimostrano che gli effetti avversi più comuni sono dolore all’infis-sione dell’ago (1 - 45%), stanchezza (2 - 41%) sanguinamento e/o ematoma ed ecchimosi (0,03% - 38%); l’86% dei pazienti ha riscontrato una sensazione di rilassamento.Sulla base della letteratura internazionale White (2004) ha pre-

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so in esame 715 casi di effetti avversi significativi e ha concluso che il rischio di gravi effetti avversi in agopuntura è molto basso, inferiore a quello di altri trattamenti. Esso può essere stimato in percentuale di 0.05 per 10.000 trattamenti e di 0.55 per 10.000 pazienti. La maggior parte dei 715 effetti avversi era costituita da traumi (pneumotorace) e infezioni (60% epatite B). Nell’ultimo periodo questi eventi sono diminuiti con l’utilizzo di aghi monouso e di migliori tecniche di asepsi. Un importante lavoro di Jindal e coll. (2008) riferisce gli effetti avversi in pediatria riportati in 22 studi clinici randomizzati con-trollati. Gli effetti più frequenti sono stati sedazione (32%), do-lore causato dagli aghi (26%) e neuropatie o disturbi del sistema nervoso (16%). In 9 trials su 782 soggetti di età compresa tra 2 e 18 anni, l’incidenza degli effetti avversi è stata di 1.55 su 100 trattamenti di agopuntura o agopuntura sham, cioè falsa o placebo (l’arrossamento nella zona della puntura è stato il più frequente). L’incidenza degli effetti avversi gravi è stata di 5.36 su 10.000 trattamenti. Witt e coll. (2009) hanno pubblicato uno studio osservazionale prospettico su 229.230 pazienti, sottoposti in media a 10 trat-tamenti di agopuntura. Lo studio riferisce che 8.726 soggetti (8.6%) hanno presentato effetti avversi. I più comuni sono sta-ti sanguinamento o ematoma (6.1%), dolore (1.7%) e sintomi neurovegetativi (0.7%). Due pazienti hanno presentato pneumo-torace e uno ha manifestato una lesione nervosa guarita in 3 mesi. Nessun effetto collaterale è legato alla fase diagnostica, che si basa esclusivamente sull’anamnesi, sulla presa dei polsi, sull’esame della lingua e sull’esame obiettivo.

Lo studio del Fior di PrugnaPresso il Centro di medicina tradizionale cinese Fior di Prugna dell’ASL 10 di Firenze è stato condotto uno studio retrospettivo attraverso la revisione delle cartelle di circa 24.600 trattamenti, effettuati su utenti adulti nel periodo 1995-2003. Le tecniche uti-lizzate erano l’agopuntura, il massaggio tuina, la moxibustione e il fior di prugna, tutte impiegate in maniera integrata.Gli operatori avevano una formazione in medicina occidentale (laurea in medicina e chirurgia, diploma di fisioterapia o massofi-sioterapia, infermieri professionali) e in MTC.Per ogni paziente è stata compilata una cartella clinica contenen-te i dati anagrafici, le abitudini di vita e la professione, l’anamnesi

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(occidentale e orientale), l’esame obiettivo (occidentale e orien-tale), la determinazione della pressione arteriosa e del battito cardiaco ed eventuali esami clinico-strumentali. Ogni paziente è stato informato su vantaggi e svantaggi del trattamento e sulle possibili alternative terapeutiche e ha sottoscritto il consenso al trattamento su un apposito modulo contenente anche rassicu-razioni sulla riservatezza del trattamento dei dati sanitari. Nel corso di ogni trattamento la cartella clinica è stata aggiornata annotando la sintomatologia riferita dal paziente, gli eventuali cambiamenti dell’esame obiettivo, la terapia praticata e gli even-tuali effetti collaterali. Le sedute di agopuntura avevano una durata di 15-20 minuti secondo la natura della patologia, la costituzione e il peso del paziente.Negli adulti, gli effetti avversi del trattamento con fior di prugna sono stati esclusivamente prurito cutaneo o lieve malore nell’1% dei casi; con la moxibustione si sono verificati 4 casi di ustioni e 1 caso di lipotimia. Il massaggio ha causato raramente sintomi collaterali quali astenia, lievi vertigini, nausea e secchezza delle fauci. Alcune reazioni avverse dell’agopuntura sono state solo stimate poiché, essendo poco rilevanti dal punto di vista patologico, am-piamente descritte in letteratura o considerate “normali” in MTC, non erano state riportate sulla cartella clinica. Per esempio, il peggioramento della sintomatologia trattata dopo la prima sedu-ta, un evento considerato come un segno prognostico positivo in MTC e presente in circa il 25-30% dei pazienti. Piccole ecchimosi sono state riscontrate nell’8-10% dei trattamenti, sia perché i punti vengono cercati con particolare attenzione sia per il ridotto tempo di stimolazione degli aghi, secondo la tecnica europea ri-spetto alle tecniche praticate in Cina. L’1-2% dei trattamenti ha causato qualche segno di lipotimia come lieve sudorazione, nausea, disturbi gastrici o lievi vertigini; i sintomi sono scomparsi in posizione supina o con l’infissione di aghi specifici. In tutti i casi, gli aghi sono stati mantenuti in sede e si è potuto terminare normalmente il trattamento alla scompar-sa dei sintomi, che sono durati qualche minuto. Nel 2-3% dei casi l’agopuntura è stata molto dolorosa, ma soltan-to 2 pazienti hanno interrotto i trattamenti per questa ragione. Il 15% dei pazienti ha accusato astenia che, in qualche caso, determina la necessità di dormire e in casi rari (1%) si sono ma-

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nifestati tremori muscolari di una parte o di tutto il corpo. È un evento fastidioso poiché spesso induce paura nel paziente ma che, una volta passato, lascia il posto a un piacevole rilassamen-to. Raramente possono comparire disturbi quali riniti, leucorrea, arrossamenti cutanei o prurito da ricondursi a “evacuazione “ o “esteriorizzazione” della patologia. Anche questi sintomi, fasti-diosi per il paziente, sono interpretati in MTC come un segno prognostico positivo.

Casi cliniciSi descrivono di seguito alcuni casi in cui sono comparsi sintomi clinici rilevanti durante o dopo il trattamento, desunti dall’esame delle cartelle:

- Uomo di 49 anni con cefalea. All’inizio di ogni seduta dopo l’in-fissione del primo o del secondo ago comparivano ipotensione, sudore, lipotimia. Il paziente riferiva la stessa sintomatologia in occasione di prelievi ematici o di esami strumentali. Dopo la terza seduta si è concordata l’interruzione della terapia.- Uomo di 78 anni affetto da dolori epigastrici, dito a scatto, pro-blemi circolatori agli arti inferiori in trattamento da circa 2 mesi, con un graduale miglioramento della sintomatologia. Con il pa-ziente in posizione supina, l’infissione dei punti 10 BL/�escica, 20 GB/Vescica Biliare, 20 GV/Vaso Governatore e 12 VC/Vaso Con-cezione non è stata seguita da alcun disturbo. Dopo il trattamen-to e la stimolazione del punto zusanli (36 S/Stomaco) è comparsa una sintomatologia vertiginosa ingravescente con impossibilità a mantenere la posizione eretta. È stato necessario il ricovero ed è stata formulata la diagnosi di sindrome vertiginosa, trattata con la terapia farmacologica corrente. Il paziente è stato dimesso dopo quattro giorni senza sintomi. - Donna di 45 anni affetta da dolori lombari: 1 giorno dopo il trat-tamento è comparsa un’infezione cutanea al palmo della mano sinistra, in corrispondenza del punto 3 SI che era stato punto. Gli aghi utilizzati, “a perdere”, erano stati tolti dalla confezione e posti in un contenitore sterilizzato per facilitare il loro utilizzo. La zona da trattare non era stata detersa, una pratica che peraltro non è molto utilizzata. La sintomatologia è scomparsa dopo 7 giorni di terapia antibiotica. - Donna di 60 anni affetta da lombalgia: comparsa di infezio-ne cutanea in corrispondenza di GB/Vescica Biliare 30 regredita

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dopo 1 giorno di terapia antibiotica locale.- Uomo di 35 anni affetto da insonnia e nervosismo: al primo trat-tamento è stato sottoposto a fior di prugna nella zona dorsale C 7 D 5 e ad agopuntura (20 GV/Vaso Governatore, 20 GB/Vescica Biliare, 7 HT/Cuore, 17 CV/Vaso Concezione, 3 LV/Fegato, 34 GB/Vescica Biliare). Subito dopo il trattamento, il paziente ha avuto un incidente alla guida del motorino e a posteriori ha dichiarato di essersi sentito “molto strano” uscendo dall’ambulatorio.- Donna di 48 anni affetta da astenia: trattata con agopuntu-ra per 20 minuti (11 LI/Grosso Intestino, 4 LI/Grosso Intestino, 17 CV/Vaso Concezione, 12 CV/Vaso Concezione, 6 SP/Milza, 3 KI/Rene) ha dichiarato che, all’uscita dall’ambulatorio, ha avuto qualche minuto di disorientamento spazio-temporale. Questi sin-tomi hanno causato l’interruzione del trattamento, ripreso soltan-to dopo alcuni anni.- Donna di 36 anni affetta da ipoacusia: 12 ore dopo il tratta-mento, che prevedeva anche la puntura dei punti shu-mo della Vescica Biliare, è insorta una colica della colecisti trattata con i normali analgesici. A posteriori è stata rilevata una calcolosi della colecisti in precedenza ignorata.- Uomo di 45 anni affetto da lombalgia, uveite con evidente ri-stagno dei capillari in zona ipocondriale destra. Il trattamento utilizzato ha previsto l’uso di aghi (14 L�/Fegato), fior di prugna per risolvere il ristagno; dopo qualche ora è comparso un dolore violento riferibile a colica biliare.

In conclusione la nostra esperienza mostra che gli effetti avversi di massaggio, moxibustione, fior di prugna sono irrilevanti, men-tre l’agopuntura può avere effetti collaterali (dolore, ecchimosi, lieve lipotimia, astenia, tremori, sintomi di evacuazione all’ester-no della patologia interna) generalmente lievi e transitori, in ana-logia con quanto descritto dalla letteratura.L’agopuntura ha un effetto più profondo e più rapido e richiede una particolare attenzione quando è praticata su persone deboli di costituzione, soggetti anziani o affetti da patologie importanti. Può accadere, ad esempio, che il trattamento di alcuni punti de-termini il movimento di calcoli renali o della colecisti, con relativa insorgenza di patologia acuta dolorosa se i calcoli sono di dimen-sioni discrete (maggiori di 1 cm). Nei pazienti psicolabili o affetti da turbe psichiche l’agopuntura richiede particolare attenzione (pochi aghi e tempi di puntura ristretti) poiché potrebbe far rie-

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mergere problemi profondi. In campo oncologico è richiesta un’attenzione particolare nella scelta dei punti da trattare, dei tempi di trattamento o delle tec-niche utilizzate. Queste cambiano secondo la fase della malattia e lo stato generale di salute del paziente.

Bibliografia

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FITOTERAPIA E SICUREZZA DEI PAZIENTI

Fabio FirenzuoliCentro di riferimento per la fitoterapia, Regione Toscana, UO Me-dicina Naturale, Ospedale S.Giuseppe, Azienda USL 11 Empoli

Come si può garantire la sicurezza dei pazienti che si rivolgono alla fitoterapia? Per qualcuno è semplice, sarebbe sufficiente non utilizzarla, per varie ragioni. Perché non sappiamo cosa c’è nel-le erbe medicinali, i prodotti non sono controllati a sufficienza, mancano le prove di efficacia, le erbe possono essere inquinate o adulterate. Ci sono erbe cinesi, indiane, sudamericane e quando le piante funzionano è certamente dovuto alla presenza di farma-ci o all’effetto placebo… Erbe, integratori e nutraceutici non sono farmaci e perciò non hanno il bugiardino, non riportano in etichet-ta le indicazioni d’uso e le controindicazioni e non devono essere prescritti come farmaci. Per di più questi prodotti non si possono assumere insieme ai farmaci per evitare pericolose interazioni e, in teoria, dovrebbero essere usati sempre come alternativa e non come terapia complementare. Di fronte a queste considerazioni sommarie ma comuni, la risposta sembrerebbe una sola: la sicu-rezza del paziente si garantisce solo ignorando la questione, non utilizzando erbe medicinali.

Errare humanum est, perseverare autem diabolicum, dicevano gli antichi romani. Le precedenti considerazioni confermano che molti illustri farmacologi, operatori e professionisti della salute e della sanità non conoscono le regole che codificano e garantiscono i fitoterapici. Continuare a confonderli con i prodotti erboristici, con gli integratori, con le pozioni per rituali magici o con le preparazio-ni domestiche a base di erbe medicinali non significa screditare il buon nome di una disciplina ma essere ignoranti. Significa ignorare le leggi e le norme che definiscono i fitoterapici a tutela della sicu-rezza e della qualità del medicinale vegetale, cioè del fitoterapico.Il primo step per la definizione di esatte procedure affinché il me-dico fitoterapeuta possa lavorare in sicurezza nell’interesse della salute del paziente, è conoscere le regole che già esistono. Al di fuori di esse non si parla di fitoterapia, ma si parla d’altro. I prin-cipali problemi clinici che occorrono nel nostro settore avvengono al di fuori della fitoterapia - nell’ambito dell’automedicazione non controllata, dell’uso di prodotti non medicinali - e si possono ri-

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condurre all’inosservanza di regole e di procedure esistenti. Continuare ad affermare che i rischi maggiori delle medicine complementari derivano dalla fitoterapia è improprio. I rischi de-rivano dall’uso scorretto delle erbe, non dei medicinali, o dall’uso di prodotti non medicinali che non fanno parte della fitoterapia. Occorre prima di tutto informare il medico e gli operatori sanitari su cosa è un prodotto medicinale e che cosa non lo è. Su cosa si deve utilizzare per garantire la sicurezza del paziente e sul modo in cui utilizzarlo. Ciò riduce il problema in misura consi-stente eliminando una serie importante di fattori di rischio. Per questo esistono le regole, che molti però ignorano. Perseverare nella confusione mettendo insieme i prodotti vegetali tout court e i medicinali fitoterapici, diabolicum est.

I prodotti naturaliÈ molto difficile riuscire a classificare una pianta come medicina-le, alimentare o cosmetica perché da ogni pianta “officinale” si possono ottenere sostanze numerose e diversificate. Il problema si pone anche quando si vuole distinguere in maniera chiara i pro-dotti contenenti derivati di piante: oggi in Italia lo stesso estratto vegetale può, per esempio, essere incluso in un integratore ali-mentare e in una specialità medicinale. La situazione è analoga nei vari Paesi europei. Questa situazione, tuttavia, può disorientare il paziente e prima ancora il medico che, sprovvisto di una specifica formazione, ri-schia di attribuire la valenza di farmaco vegetale a integratori o prodotti erboristici oppure, al contrario, di sottostimare l’impor-tanza di un farmaco vegetale considerandolo un integratore.L’indispensabile demarcazione tra i vari prodotti in commercio serve innanzitutto a garantire la sicurezza e la qualità e per i me-dicinali anche l’efficacia terapeutica. L’etichetta di un integratore, per esempio, non può riportare le informazioni per il paziente presenti nel foglietto illustrativo dei medicinali (indicazioni, con-troindicazioni, interazioni farmacologiche ecc.), senza considera-re che i requisiti di qualità di un integratore o di una preparazione erboristica non corrispondono a quelli del prodotto medicinale. Nel primo caso la composizione fa riferimento solo alle esigenze fisiologiche dell’organismo e non è richiesta una dimostrazione di efficacia, mentre il medicinale risponde allo scopo di curare una vera e propria malattia. Questo, tuttavia, non significa che non sia possibile utilizzare i prodotti giusti al momento giusto. Ben

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diversa è la pratica clinica quotidiana del medico, il quale consi-glia spesso al paziente cambiamenti nello stile di vita e regole di igiene. In questo contesto la prevenzione di molte patologie, da quelle metaboliche e cardiovascolari a quelle oncologiche, non può ignorare interventi correttivi sull’alimentazione, spesso pove-ra di alcuni nutrienti ed eccedente in altri. In questi casi il medico può consigliare e prescrivere alimenti particolari e integratori in base alle necessità del paziente. Lupo Andreotti, un grande clinico fiorentino scomparso di recen-te, affermava: “Le malattie non esistono, esistono i malati”. Se mettiamo al centro la persona, prima ancora che il paziente e la malattia, è chiaro che il medicinale non è più importante dell’ali-mento o di altre tipologie di intervento, psicologico, culturale, musicale, alimentare ecc. La Comunità europea ha approvato di recente una serie di norme che identificano alcune categorie di medicinali sulla base delle modalità di registrazione (standard/semplificata) e in particolare per la fonte delle prove di efficacia (studio clinico/uso tradizio-nale) e per le modalità di produzione (industria/farmacia) (vedi tabella 1). Ha inoltre riconosciuto un’altra grande categoria di prodotti di uso salutistico, e non medicinale, negli integratori ali-mentari, cui appartiene la maggior parte dei prodotti a base di erbe attualmente in commercio. Ai due gruppi citati (medicinali e integratori alimentari) si aggiungono i dispositivi medici, i novel foods, i cosmetici e gli aromi.

Tabella 1 - Regolamentazione dei medicinali vegetali (Firenzuoli, 2009)

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Le specialità medicinali vegetali I medicinali prodotti industrialmente, inclusi quelli di origine ve-getale e cioè i fitoterapici (herbal medicinal products), sono defi-niti specialità medicinali e richiedono la preventiva autorizzazione all’immissione in commercio delle competenti autorità. Questa viene rilasciata in base ai dati che riguardano i requisiti di qualità, sicurezza ed efficacia, in conformità con le direttive europee e la normativa italiana di recepimento (Direttiva CE 65/65, 2004/27/CE e successivi aggiornamenti). Una sostanza, anche vegetale, corredata di tutta la documenta-zione richiesta, compresi gli studi clinici di efficacia, può seguire la procedura di registrazione standardizzata. Il farmaco così di-sponibile potrà essere dispensato come medicinale di automedi-cazione senza obbligo di ricetta medica, oppure come farmaco da prescrizione medica, in relazione alla patologia per la quale è indicato e al rapporto rischio/beneficio. Molti fitoterapici in commercio sono farmaci di automedicazione di fascia C. Le procedure di “registrazione semplificata” identi-ficate e normate a livello europeo consentono di immettere sul mercato come medicinali vegetali due particolari tipologie di fito-terapici (Silano 2006): • medicinali vegetali di uso consolidato: sono sufficienti i dati pubblicati in letteratura circa la sicurezza e l’efficacia, ma non è necessario condurre studi clinici ad hoc. La possibilità di registrazione è subordinata all’autorità regolatoria; sono ancora molto pochi i medicinali che l’hanno ottenuta; • medicinali vegetali tradizionali: è sufficiente l’uso tradizio-nale da almeno 30 anni, di cui 15 nella Comunità europea. Si tratta di prodotti composti di una o più sostanze o di preparazioni di origine vegetale autorizzate per l’automedicazione.

Quest’ultima tipologia di fitoterapico, il cosiddetto “medicinale vegetale tradizionale”, è la categoria più recente introdotta sul mercato europeo con la Direttiva CE 2004/24. Questo importan-te provvedimento consente di registrare molti estratti fitoterapici attualmente commercializzati sotto forma di integratori. L’origine “tradizionale” di questa tipologia di medicinale vegetale deve es-sere certificata dal parere di esperti ed è sufficiente per ottenere la registrazione. Questo vale anche se il prodotto è già stato com-mercializzato senza una specifica autorizzazione, come accade per gli integratori. I requisiti e i documenti necessari per la regi-

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strazione semplificata sono descritti nella Direttiva CE 2001/83; in ogni caso occorre sempre fare riferimento alle monografie re-datte dall’Herbal Medicinal Products Committee (HMPC) costitui-to a questo scopo all’interno dell’Agenzia Europea dei Medicinali (EMEA). L’HMPC predispone anche una lista di sostanze, preparazioni e combinazioni possibili in cui sono descritte le relative indicazioni, concentrazioni e la posologia. Entro il 2011 la Direttiva 2004/24 dovrà essere applicata anche ai medicinali tradizionali già in com-mercio. Questa direttiva ha come vantaggio la semplificazione e l’armo-nizzazione delle regole di registrazione nei vari Stati europei, in modo da garantire la sicurezza dei prodotti. Qualche perplessità suscita invece il fatto che sono medicinali privi di prove di effica-cia per definizione, essendo l’indicazione basata esclusivamente sull’uso tradizionale e prolungato del prodotto. Per questi medicinali di automedicazione vale il principio del mu-tuo riconoscimento tra gli Stati europei. Le aziende si avvalgono di questa categoria per quei prodotti per i quali non ci sono dati in letteratura, ma solo l’uso tradizionale, e utilizzano la categoria dei medicinali di uso consolidato quando ci sono prove di efficacia sufficienti.Occorre rilevare che i medicinali registrati in questa categoria sono ancora molto pochi in Europa (circa una decina) e nessuno in Italia. Ciò si può spiegare con il fatto che molte aziende del settore preferiscono commercializzare gli estratti vegetali come integratori alimentari risparmiando il tempo e il denaro necessari per la registrazione (circa 20.000 euro per la registrazione di un farmaco vegetale contro 160 euro per la notifica di un integrato-re) e gli sforzi indispensabili per soddisfare i requisiti dell’EMEA. Tutti i fitoterapici registrati secondo le modalità descritte soddi-sfano i requisiti di qualità, mentre la sicurezza e l’efficacia posso-no essere variamente ricavate dalle prove cliniche, dalla lettera-tura o semplicemente dall’uso nel tempo. Infine la normativa mantiene poche differenze circa le indicazio-ni salutistiche (claims), poiché consente agli alimenti di vantare effetti fisiologici, nutrizionali e salutistici presentati e presentabili spesso in una forma “quasi” simile a quella dei medicinali.

I medicinali vegetali galeniciLa produzione non industriale dei medicinali si effettua nelle far-

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macie private, pubbliche e ospedaliere, in conformità con alcuni provvedimenti legislativi, a partire dal Decreto legislativo 178 del 1991. Per garantire qualità e sicurezza del prodotto, il farmacista fa riferimento alla Farmacopea e alle cosiddette “Norme di buona preparazione dei medicinali in farmacia”, modificate con Decreto del ministero della Salute del 18 novembre 2003 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 15 gennaio 2004 (“Procedure di allestimento dei preparati magistrali e officinali”). Queste norme sostituiscono le analoghe norme del Formulario nazionale (FU IX) e consentono l’allestimento di due tipologie di galenici: • preparato officinale: medicinale allestito in farmacia in base alle indicazioni di una Farmacopea dell’Unione Europea e destina-to a essere dispensato direttamente ai pazienti della farmacia; • preparato magistrale: medicinale allestito in farmacia in con-formità a prescrizione medica destinata a un determinato pazien-te (Legge n. 94, 8 aprile 1998).

Il Decreto ministeriale del 18 novembre 2003 indica tutti gli adempimenti che il farmacista deve osservare per l’allestimento di una preparazione, la compilazione e l’archiviazione dei docu-menti, certificati di analisi delle materie prime e ricette mediche, obbligatorie per i preparati magistrali, nonché le norme per le etichette da applicare sulle confezioni, che devono riportare i se-guenti dati:

• riferimenti della farmacia;• nome e cognome del medico prescrittore;• nome e cognome del paziente;• numero progressivo della preparazione;• data di preparazione;• data di scadenza;• composizione quali-quantitativa della preparazione;• eventuali eccipienti;• prezzo di vendita;• uso: interno, esterno o veterinario;• altre eventuali avvertenze: veleno, doping, caustico ecc.;• precauzioni d’uso: “Tenere fuori dalla portata dei bambini”,

“Non disperdere nell’ambiente”.

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In base alla tipologia di ricetta medica il farmacista deve conser-varla per un periodo variabile da 6 mesi a 5 anni. Il preparato galenico magistrale è una risorsa importante per il medico e in particolare per il fitoterapeuta perché consente di personalizzare la prescrizione e di far preparare un farmaco ad personam. Il ri-corso a preparazioni magistrali impone sempre l’obbligo del con-senso informato, che può essere anche verbale ma deve essere sempre personale, esplicito, specifico e consapevole.

La ricetta medicaLa ricetta medica riporta sempre i riferimenti del medico prescrit-tore, il nome e il cognome del paziente, la data di compilazione e la firma del medico. Nel caso della prescrizione di specialità medi-cinali, è possibile indicare il nome commerciale della specialità re-gistrata oppure il medicinale equivalente. Nel caso di una prescri-zione magistrale, il medico può prescrivere sostanze presenti in medicinali autorizzati in un Paese della Comunità europea oppure descritti nella Farmacopea ufficiale o nella Farmacopea europea, o presenti in integratori o cosmetici in commercio nella Comunità europea. La ricetta magistrale è valida per 3 mesi.Una prescrizione magistrale fitoterapica deve indicare sempre:

• il nome botanico della pianta medicinale;• la droga vegetale, cioè la parte della pianta utilizzata;• il tipo di estratto;• la concentrazione-standardizzazione dei principi attivi;• l’eventuale riferimento alla F.U.;• la quantità della materia prima per unità (per esempio, per capsula);• il numero delle capsule per confezione;• le eventuali modalità di preparazione e confezionamento richieste dal medico;• posologia e modalità di assunzione.

È importante definire tutti i dati a cominciare dal nome botanico della pianta, perché il nome comune varia da Paese a Paese, sono presenti molti sinonimi e addirittura lo stesso nome comune può corrispondere a specie botaniche differenti.Anche in fitoterapia la prescrizione medica deve seguire le regole del Codice deontologico. Se si osservano queste regole, una buo-na parte dei problemi è eliminata in partenza.

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Perché parlare di sicurezza?Esiste un corpus di reazioni avverse all’uso di erbe medicinali correlato all’impiego di tecniche non validate, all’inappropriatezza del trattamento, a forme di automedicazione irrazionale, all’uso di prodotti non controllati o alla sospensione della terapia senza consiglio medico. I punti critici sono rappresentati dall’uso scorretto di piante non controllate, in genere al di fuori del circuito medicinale, per tossi-cità da contaminazione della pianta o del prodotto da:

metalli pesanti•pesticidi•micotossine•batteri•funghi•virus•radiazioni•

Accade in particolare quando si utilizzano piante raccolte diret-tamente nei campi, vicino a fonti di inquinamento oppure erbe provenienti da fonti non sicure. Un altro aspetto importante sono le frodi, cioè l’aggiunta illegale di farmaci di sintesi alle erbe. Nel campo dell’automedicazione non controllata o della mancata co-noscenza da parte del professionista è motivo di preoccupazione anche la tossicità intrinseca della pianta che riguarda:

genere della pianta (ad esempio, • Teucrium)specie botanica (ad esempio, passiflora) •droga vegetale (ad esempio, borragine, pomodoro). Del ricino •è tossico il seme “naturale” ma non l’olio estratto (purgante)sostituzione o contaminazione accidentale con piante tossiche•

Fra gli errori correlati alla mancata conoscenza di farmacologia e tossicologia delle sostanze vegetali ci sono gli effetti collaterali prevedibili, generalmente dose-dipendenti. In questi casi le rea-zioni avverse sono causate spesso da sovradosaggio o sottodo-saggio, dall’impiego di prodotti contenenti estratti di piante non titolati in principi attivi che non consentono l’adeguamento poso-logico richiesto. La colpa in questo caso non è della pianta, ma di chi la prescrive e del modo in cui si prescrive. Ad esempio l’uso prolungato o il sovradosaggio di liquirizia può provocare iperten-sione arteriosa e/o ipopotassiemia.

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Errori imputabili alla scarsa professionalità del medico prescritto-re, del farmacista preparatore o del paziente che acquista il pro-dotto in canali non controllati sono correlati a reazioni provocate dal tipo di estratto o di prodotto improprio, come nel caso di:

preparazioni vegetali grezze (non depurate)•presenza di solvente (tinture alcoliche ecc.)•estratti non adeguatamente standardizzati•presenza di molte erbe•prodotti non medicinali •acquisti non sicuri (porta a porta, Internet ecc.)•

Esistono inoltre i rischi che hanno a che fare con il paziente e che il medico è obbligato a conoscere. Giova sempre ricordare che anche il banale consiglio di un “prodotto naturale” a scopo me-dicinale richiede sempre un’accurata anamnesi. Trascurarla può avere conseguenze mediche per il paziente e legali per il profes-sionista:

variazioni genetiche del metabolismo dei farmaci•deficienze enzimatiche (favismo)•allergie (ad esempio a salicilati, Composite, resine ecc.), in •parte prevedibilireazioni idiosincratiche, generalmente imprevedibili•condizioni particolari (anziani, bambini, gravidanza, allatta-•mento) che richiedono specifiche cautelemalattie in atto o pregresse (gastroresezione, insufficienza •renale ecc.)

Un altro capitolo insidioso riguarda le interazioni tra erbe e far-maci, e cioè le interazioni di piante sulla farmacocinetica (assor-bimento, distribuzione, metabolismo ed escrezione) e sulla far-macodinamica (meccanismo d’azione) di un farmaco. Le conse-guenze possibili sono l’aumento di efficacia (fino alla tossicità) del farmaco o dei farmaci in terapia oppure, al contrario, la riduzione fino alla perdita di efficacia.La gestione ottimale di questi aspetti richiede un’adeguata cono-scenza della farmacologia delle sostanze vegetali e dei farmaci. Non è così semplice. Prima di tutto perché una pianta medicina-le, o un estratto vegetale, contiene moltissime molecole, spesso molto diverse tra loro, talvolta sconosciute. La questione si com-

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plica quando sono prescritte e associate più piante contempora-neamente. Inoltre gli estratti, anche se standardizzati in principi attivi, riportano di solito soltanto la quantità delle sostanze uti-lizzate come standard di riferimento (ipericina 0.3% nell’estratto di iperico, monacolina 4% nell’estratto di riso rosso fermentato ecc.). Di conseguenza la restante percentuale dell’estratto, che spesso è quella più consistente, può rimanere variabile o scono-sciuta.In via teorica, quando si prescrivono estratti fitoterapici, c’è sem-pre una zona grigia riguardante i costituenti non noti che potreb-bero modificare la cinetica o la farmacodinamica dei farmaci. Il problema delle interazioni deve essere noto ai medici, agli ope-ratori e ai professionisti del settore, almeno per gli aspetti noti o prevedibili.Nella tabella 2 sono riportate le principali interazioni tra sostanze vegetali e citocromi e i relativi farmaci da questi metabolizzati. Si richiede particolare cautela quando si prescrive un prodotto vegetale, medicinale o non medicinale, a un paziente in terapia con altri farmaci.

Bibliografia essenziale

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Tabella 2. Piante e sostanze naturali che interferiscono (come induttori o inibitori) con i citocromi e i relativi farmaci metabolizzati (substrati) (Firenzuoli, 2009)

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GLI EVENTI AVVERSI IN OMEOPATIA

Elio RossiResponsabile dell’ambulatorio di omeopatia della Azienda USL 2 di Lucca, Centro regionale di riferimento per l’omeopatia

Oggetto di questa relazione è un lavoro realizzato dall’ambulato-rio di omeopatia di Lucca nel 2005, e seguito in particolare dalla dottoressa Cristina Endrizzi, attualmente in servizio presso l’ho-spice “Il gelso” di Alessandria (1).Il punto di partenza è stato uno studio di Flávio Dantas, medico e docente universitario brasiliano, pubblicato sul British Homeopa-thic Journal nel 2000. Secondo Dantas, i farmaci omeopatici pre-parati secondo la farmacopea omeopatica e prescritti da medici esperti in alte diluizioni sono un intervento sicuro sotto il profilo quantitativo e qualitativo. Questa conclusione non può essere ap-plicata anche ai cosiddetti “prodotti omeopatici”, preparati utiliz-zando varie componenti minerali e fitoterapiche in diluizioni mol-to basse o addirittura non diluiti, sotto forma di tintura madre.Un altro elemento che ha influito molto sulla decisione di studia-re questo aspetto è stata la necessità di garantire all’istituzione sanitaria il massimo di sicurezza, poiché si tratta di un campo, quello omeopatico, che non era mai stato inserito prima di allora, nel periodo 1998-2000, nelle attività sanitarie della Azienda USL 2 di Lucca. Aprire un ambulatorio di omeopatia all’interno di un ospedale pubblico rappresentava un esperimento circa l’efficacia e l’azione di questa terapia ma doveva garantire anche la massi-ma sicurezza di intervento.Abbiamo avviato due tipologie di azione: prima di tutto verificare, dati alla mano, che non ci fossero effetti avversi degni di rilievo nella nostra pratica clinica. Questo era dato per scontato da tutti, ma aveva pochi riscontri in letteratura internazionale. La seconda attività è stata l’istituzione di un punto informativo telefonico sul farmaco omeopatico e di farmacovigilanza, attivato nel novembre del 2003. Da allora abbiamo risposto a numerose telefonate e per un certo periodo abbiamo anche monitorato la tipologia delle telefonate e i quesiti che venivano posti, di cui parleremo più avanti.Il termine “evento avverso” indica un evento medico spiacevole che si manifesta nel corso di un trattamento farmacologico o di altro tipo, ma che non ha necessariamente una relazione causale

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con quel trattamento. Una reazione avversa è, invece, una rispo-sta dannosa e non intenzionale a un farmaco che si verifica alle dosi normalmente utilizzate nell’uomo per profilassi, diagnosi o cura della malattia, o per modificare una determinata funzione fisiologica (WHO Technical Report n. 498, 1972).

Di che cosa parliamo allora quando ci riferiamo alla reazione av-versa a un rimedio omeopatico? Sono almeno tre le possibilità: l’”aggravamento omeopatico”, un fenomeno noto e ben descritto nei testi di dottrina omeopatica; una reazione avversa “non pre-vedibile” a seguito di una prescrizione appropriata e, infine, la reazione avversa con aggravamento di sintomi, non seguita da un successivo miglioramento, in sostanza un errore di prescri-zione.Per “aggravamento omeopatico” s’intende un aggravamento ini-ziale dei sintomi del paziente seguito da un miglioramento, come effetto della malattia artificiale indotta dal rimedio omeopatico simile all’insieme dei sintomi presenti nel paziente. Se la prescri-zione è corretta, generalmente questo fenomeno non avviene o si manifesta in forma molto lieve. Ciò significa che si è scelto un rimedio con una potenza e una frequenza di somministrazione compatibili con la capacità del soggetto di tollerare la malattia artificiale prodotta dal rimedio - che passerà quindi quasi inos-servata - purché si accompagni a un notevole miglioramento del paziente e dei suoi sintomi, con una durata e un’intensità di rea-zione minima e tollerabile.Abbiamo analizzato per lo studio le cartelle cliniche di 1.110 pa-zienti visitati in maniera consecutiva dal 2002 al 2007: 440 sono stati seguiti per almeno due mesi e rappresentano il 39.7% di tutti i casi. I casi di aggravamento omeopatico sono stati 67, cir-ca il 6% del totale dei pazienti visitati, e il 15,2% dei casi seguiti in follow up. In letteratura i dati sono discordanti: il 30.8% o il 25.4% di aggravamento lieve e il 7.8% di aggravamento signifi-cativo. Molto dipende tuttavia dalla definizione di aggravamento omeopatico e di tutte le varianti possibili incluse in essa.

Quando parliamo di reazione avversa, con l’aggravamento dei sintomi non seguito da un miglioramento, ci troviamo di fronte a una prescrizione omeopatica inappropriata. Può accadere quando si somministra un rimedio solo parzialmente simile, non in totale sintonia con l’insieme dei sintomi del paziente; oppure quando

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il rimedio è adeguato ma non è corretta la posologia, a causa di una ripetizione intempestiva o troppo frequente del rimedio a una potenza eccessivamente alta, o al contrario perché è stata prescritta una potenza troppo bassa, ai limiti della ponderabilità della sostanza.La reazione avversa “non prevedibile” dopo prescrizione appro-priata può essere, invece, condizionata da una ipersensibilità del soggetto, che reagisce al rimedio in modo eccessivo e imprevedi-bile. Oppure, al contrario, si è di fronte a una forma di iporeatti-vità dunque, secondo l’omeopatia classica, l’incapacità della forza vitale del paziente di reagire in modo adeguato alla stimolazione indotta dal rimedio.

Il lavoro è uno studio prospettico osservazionale con due bacini di utenza per la raccolta dei dati:1) dal novembre 2003 le segnalazioni spontanee casuali telefoni-che al servizio di informazione sul farmaco omeopatico e di far-macovigilanza. Sono state prese in considerazione anche alcune segnalazioni riferite durante la visita omeopatica riguardanti le reazioni a rimedi omeopatici prescritti al paziente nel passato e non presso l’ambulatorio di omeopatia di Lucca;2) dal giugno 2003 i dati sono stati raccolti nel corso della visita omeopatica di controllo, cioè la visita successiva alla prima ese-guita presso l’ambulatorio di omeopatia di Lucca.

Obiettivi del lavoro erano:

una valutazione generale del rischio e dell’efficacia della tera-•pia omeopatica;il monitoraggio sul territorio delle terapie omeopatiche e omeo-•terapiche utilizzate dai cittadini e prescritte da varie figure professionali.

In particolare intendevamo verificare il tipo di qualifica delle figu-re professionali che utilizzano e consigliano la terapia omeopati-ca, possibilmente le modalità di prescrizione, i problemi correlati alla dose e alla potenza del rimedio omeopatico e le caratteristi-che dei rimedi cosiddetti “complessi”.Le segnalazioni spontanee sono state raccolte da un medico esper-to in omeopatia e catalogate con un’apposita scheda, in cui sono descritti i dati epidemiologici (luogo di provenienza dell’utente, età, sesso) e quelli sulla terapia praticata (tipo di terapia omeo-

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patica, rimedio unitario o no, più rimedi somministrati contem-poraneamente, medicinali complessi, prodotti definiti omeopatici ma in realtà fitoterapici, integratori alimentari ecc.).Per gli effetti avversi segnalati sono state raccolte le informazioni riguardanti:

posologia •dopo quanto tempo dall’inizio del trattamento l’evento è com-•parso se è scomparso con l’interruzione del trattamento (• dechallenge) se è ricomparso assumendo di nuovo la terapia N.C. (• rechal-lenge) eventuali trattamenti farmacologici concomitanti•grado di relazione tra l’evento segnalato e la terapia pratica-•ta secondo 4 possibili valutazioni: assente, dubbia, probabile, certa

Le segnalazioni di effetto avverso in corso di visita omeopatica di controllo sono state raccolte da un medico esperto in omeopatia, diverso da quello che aveva prescritto il farmaco omeopatico, somministrato generalmente come unica prescrizione secondo i criteri dell’omeopatia classica.La valutazione ha considerato i seguenti aspetti:

tipo di rimedio, dose e frequenza di somministrazione •dopo quanto tempo dall’inizio del trattamento l’effetto è com-•parso tipo di effetto e intensità (indicata dal paziente secondo una •scala analogico visuale VAS) dechallenge/rechallenge •eventuali fattori concomitanti •correlazione tra effetto e terapia, secondo 4 possibilità di rela-•zione: assente, dubbia, probabile, certa.

I principali criteri utilizzati per valutare la presenza di una reazio-ne avversa al rimedio omeopatico sono stati:

la reazione si ripete utilizzando almeno 2 volte lo stesso rime-•dio;la reazione s’interrompe sospendendo il trattamento e ri-•compare ripristinando la terapia omeopatica (dechallenge e rechallenge positivi), in assenza di condizioni concomitanti e

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predisponenti;esiste una correlazione chiara tra l’espressione dei sintomi del •soggetto e i sintomi del rimedio noti dalla sperimentazione pura (“proving”); in questo caso si tratta in genere di sintomi nuovi mai presenti nel soggetto e comparsi dopo l’assunzione del rimedio (per effetto del cosiddetto “proving”) in assenza di condizioni concomitanti; i sintomi riferiti come indesiderati sono gli stessi presentati •dal paziente prima della cura, ma accentuati per intensità o frequenza (aggravamento omeopatico);non esistono condizioni concomitanti correlate con i sintomi •indesiderati riferiti dal paziente.

I criteri per valutare il nesso causale tra un evento avverso e la terapia omeopatica o non convenzionale (omeo e fito complesso, integratori ecc.) sono stati i seguenti:

correlazione certa:• una chiara relazione tra l’espressione dei sintomi del soggetto e gli effetti del rimedio, con lo stesso rimedio somministrato almeno due volte; dechallenge/rechal-lenge positivi; assenza di fattori concomitanti predisponenti;correlazione probabile: la reazione avversa non sembra coe-•rente con i sintomi prodotti nella sperimentazione del rimedio ed esistono fattori predisponenti di chiaro effetto sul problema del soggetto, ma il fenomeno scompare sospendendo il tratta-mento e ricompare assumendo di nuovo il rimedio;correlazione dubbia:• l’effetto sembra dipendere dal trattamen-to per coerenza sintomatologica, ma non per una relazione temporale positiva, con dechallenge/rechallenge negativi ed esistono fattori predisponenti;correlazione assente:• non sussistono i criteri citati per stabilire una relazione di causalità.

Sulla base di questi criteri si sono ottenuti i seguenti risultati:1) su 81 segnalazioni telefoniche casuali, che non riguardavano

informazioni sul medicinale omeopatico ma segnalavano un evento avverso, sono state registrate 21 reazioni avverse;

2) su 447 visite di controllo su 181 pazienti seguiti nel tratta-mento omeopatico, sono state registrate 12 reazioni avverse (2.68% dei casi). Questo dato corrisponde ad altri presenti in letteratura (2.7% Anelli M et al., Homeopathy 2002; 7.8%

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Riley D et al., J Altern Complement Med 2001).Il 29% dei 181 pazienti visitati era di sesso maschile, il 71% femminile, l’età media 20,6 anni (minimo 14 mesi, massimo 68 anni). Il 43% dei pazienti è ritornato per eseguire più di 1 visita di controllo nel periodo di osservazione (follow up da un minimo di 1 visita a un massimo di 7 visite consecutive). La frequenza media tra una visita e la successiva è stata di 1,7 mesi (minimo 1 mese, massimo 13 mesi).Le patologie più frequenti sono state quelle respiratorie (asma 11.1% dei pazienti, infezioni acute respiratorie recidivanti 9%), problemi dermatologici di tipo allergico (7.6%), patologie di tipo psicologico come sindromi ansioso-depressive (9%), patologie del tubo digerente come gastrite e sindrome dell’intestino irrita-bile (9%), disturbi della menopausa (6.2%) e cefalea (4%).

La tabella seguente mostra il tipo di reazioni avverse registra-te durante il trattamento omeopatico in 9 pazienti (2.68%) su 335 visitati in modo consecutivo (seconde visite) dall’1.6.2003 al 30.6.2004.

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Tabella 1. Dati sulle reazioni avverse

Legenda: R.O.: ricovero ospedaliero P.O.I.: prescrizione omeopatica inappropriata Dech.: dechallenge Rech.: rechallenge

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Passiamo all’esame di 21 reazioni avverse su 81 segnalazioni ca-suali selezionate. Nel primo anno di attività del Servizio di infor-mazione sul farmaco omeopatico e farmacovigilanza, il 18% di richieste di informazioni riguarda gravidanza e allattamento, il 26% effetti avversi indesiderati, cioè 21/81 segnalazioni selezio-nate non riguardanti una richiesta generica di informazione sul farmaco omeopatico.

La distribuzione geografica degli utenti, il tipo di prescrizioni e la qualifica dei prescrittori sono i seguenti:

Luogo di provenienza:• 38% nord Italia, 42% centro e 20% sud e isole. Tipologia del rimedio: • 28% rimedio omeopatico unitario, 52% complessi omeopatici o pluralità di rimedi omeopatici, 20% altre terapie (fitoterapia, integratori, oligoelementi, fiori di Bach).Qualifica dei prescrittori: • nel 55% il prescrittore è un me-dico esperto in omeopatia, nell’11% un medico generico, nel 34% la terapia è stata consigliata da non laureati in medicina e chirurgia.

Al paziente/cittadino si chiedevano le seguenti informazioni: sesso ed età, per quale patologia aveva richiesto la prescrizione omeopatica, che tipo di terapia era stata praticata, quale reazio-ne aveva provocato, avversa e/o indesiderata, cosa era successo sospendendo il farmaco ed eventualmente riassumendolo ed en-tro quanto tempo compariva l’eventuale effetto avverso. È stato anche chiesto se erano presenti fattori concomitanti, quali altre terapie o possibili cause, per esempio di tipo psicologico. In base a ciò è stato formulato un giudizio di correlazione fra la terapia e l’effetto segnalato: certa, dubbia, probabile...

Esempi di segnalazioneUna donna di 50 anni, dopo avere assunto un complesso omeo-patico (Cuprum Heel, Pascoe D) per la cefalea, ha lamentato tachicardia e aumento della cefalea, con conseguente ricovero ospedaliero, in assenza di fattori concomitanti e con una correla-zione con la terapia giudicata certa.

Donna di 50 anni affetta da cefalea, con aumento del disturbo dopo somministrazione di un rimedio omeopatico ad alte potenze

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(Natrum muriaticum 200 CH e M CH) con dechallenge e rechal-lenge positivi.

Sono stati registrati anche fenomeni di ipersensibilità/allergia: ad esempio un neonato di 6 mesi, dopo avere assunto un integratore alimentare (vitamina B), ha avuto una reazione cutanea con ede-ma al volto. I sintomi, comparsi dopo 2 giorni, hanno richiesto il ricovero ospedaliero.

Gli effetti avversi registrati nelle segnalazioni spontanee riguar-dano per lo più complessi di tipo paraomeopatico (fitoterapici, omeopatici in bassa diluizione, a volte iniettabili), ma sono stati registrati anche effetti provocati da rimedi omeopatici classici in alta diluizione. È il caso di una donna di 53 anni affetta da nevral-gia del trigemino che, dopo avere assunto una dose di Aconitum 30 CH tre volte al giorno, ha manifestato epistassi e agitazione psicomotoria.

ConclusioniTorniamo alle reazioni avverse al trattamento omeopatico e alla loro definizione in base alla classificazione internazionale, che è cambiata nel corso degli anni.

Nel 1977, su proposta di Rawlins e Thompson, le ADRs (Adverse Reactions) furono classificate come segue:

tipo A, dose-dipendenti e prevedibili in funzione delle caratte-•ristiche del farmaco; tipo B, dose-indipendenti e imprevedibili.•

La nuova classificazione, indicata con la sigla DoTS (Aronson e Fermer, 2003), è descritta come tridimensionale e prende in con-siderazione per ogni reazione avversa:

dose-dipendenza (Do)•tempo di insorgenza della reazione (T) •suscettibilità del paziente (S).•

Utilizzando queste classificazioni, il fenomeno di “aggravamento omeopatico” potrebbe essere comparato a:

una reazione avversa di tipo A,• (secondo la classificazione di Rawlins e Thompson): effetto prevedibile del farmaco come eccesso della sua azione principale, riproducibile sperimental-

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mente sul soggetto sano (proving omeopatico); una reazione avversa tempo-dipendente (reazione prima •dose), secondo la classificazione DoTS di Aronson e Fermer, poiché occorre considerare anche il fattore tempo (per esem-pio la frequenza di somministrazione).

L’”evento avverso” potrebbe essere considerato per lo più come una reazione di tipo B, in base alla dose, in pazienti suscettibili (reazioni di ipersensibilità).Rispetto al tempo può trattarsi di reazioni spesso imprevedibili (e quindi tempo-indipendenti), che possono verificarsi alla prima dose, oppure dopo un’esposizione continuata e ripetuta al rimedio (tipo reazione intermedia/tardiva), quando il “livello energetico” dell’individuo è ampiamente saturato e sollecitato dal rimedio e il paziente comincia a sperimentare gli effetti del rimedio stesso. Questo tipo di classificazione, come il tentativo di definire il feno-meno con un linguaggio “più scientifico” o più moderno, è discu-tibile e può essere contestato a partire da una diversa interpreta-zione dei fenomeni sia in chiave strettamente omeopatica, sia in termini di classificazione convenzionale. In conclusione, esistono reazioni avverse ai rimedi omeopatici diverse dal fenomeno di “aggravamento omeopatico”. Sono rea-zioni lievi, di bassa intensità e rare rispetto alle reazioni avverse da farmaci convenzionali.È dunque importante, riprendendo l’esortazione di Flávio Dantas, creare un sistema di monitoraggio chiaro e definito per osservare il fenomeno dell’aggravamento omeopatico o delle reazioni av-verse dopo la somministrazione di rimedi omeopatici.

Riferimenti bibliografici1. Endrizzi C., Rossi E., Crudeli L., Garibaldi D. Harms in homeopathy: aggravations, adverse drug events or medication errors?, Homeopathy 2005; 94: 233-240.

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COMUNICAZIONE E PROMOZIONE DELLA SICUREZZA IN MEDICINA COMPLEMENTARE

Mariella Di Stefano Direttore del Notiziario regionale MC Toscana

La sicurezza del paziente riceve un’attenzione sempre maggiore negli ultimi anni. L’interesse però si è focalizzato più sull’epide-miologia degli errori e sugli eventi avversi che sulle pratiche atte a ridurre quegli eventi, sulla prevenzione. Il programma di questo corso ha scelto questo taglio ed è una novità positiva. Quando parliamo di comunicazione nell’ambito della salute, oc-corre distinguere innanzitutto fra la comunicazione sanitaria, che spetta al medico, agli operatori e alle strutture sanitari, e l’infor-mazione-divulgazione sui media, generalisti e specializzati, com-pito dei giornalisti. Le informazioni in materia di salute per essere credibili devono indicare la fonte e deve essere chiaro se esprimono opinioni o fat-ti accertati. Esse devono essere aggiornate e verificate a scaden-ze regolari, formulate in un linguaggio comprensibile e devono fornire dati obiettivi e imparziali. È improprio dire che i media non parlano di medicine complemen-tari, almeno negli ultimi anni. Il problema non è la quantità, ma la qualità e l’affidabilità dell’informazione comunicata al cittadino. La difficoltà di una buona informazione e divulgazione delle me-dicine complementari è dovuta a più aspetti e innanzitutto a una conoscenza parziale, o peggio pervasa da pregiudizi, degli argo-menti, ma anche alla confusione che regna ad esempio in Inter-net e al conflitto d’interesse. Queste discipline sono a volte sot-tostimate, altre spettacolarizzate, banalizzate o svilite sul piano esclusivamente commerciale. Talvolta la divulgazione è impropria o strumentale, gli eventi o i dati sono riportati in maniera errata oppure separati dal loro contesto di riferimento. Naturalmente ci sono esempi di buona informazione e divulgazione anche in Italia, dove manca però quella solida tradizione di giornalismo scientifico sviluppato in altri Paesi. Il modo in cui i media parlano di medicine complementari ri-flette una sostanziale asimmetria, che è correlata al ruolo e al peso economico di queste medicine e di cui il persistente vuoto normativo è la cartina di tornasole. Queste medicine infatti, se si esclude il caso della Regione Toscana, non sono ancora state

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disciplinate da una legge nazionale. La rappresentazione delle medicine complementari sui media è influenzata anche dalle regole che governano il mondo dell’infor-mazione, ad esempio il rimaneggiamento di un evento secondo i criteri cosiddetti della “notiziabilità”. Un evento è “notiziabile” se c’è qualcuno da accusare, se ci sono vittime da compiangere, se c’è una speranza da suscitare ecc. Le conseguenze implicite di questo approccio sono la “drammatizzazione” della notizia, la sua semplificazione nei titoli ed è ciò che spesso si osserva e di cui gli operatori del settore si lamentano. In che modo comunicare il tema della sicurezza in questo cam-po? L’argomento delle reazioni avverse alle piante medicinali, un tema specifico che riguarda la fitoterapia classica europea e la fi-toterapia cinese, è da tempo in primo piano. È giusto e necessario monitorare questo aspetto, poiché se le piante medicinali svolgo-no un’azione terapeutica, è chiaro che possono anche scatenare effetti avversi o interazioni con i farmaci di sintesi. Dell’argomen-to si occupa, in collaborazione con il Centro di medicina naturale della ASL 11 di Empoli, l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) dal 2002. In quell’anno fu avviato uno studio pilota, all’epoca deno-minato “Epicentro”, in seguito trasformato in uno studio di fito-sorveglianza vero e proprio. Il monitoraggio riguarda i prodotti naturali in generale, un’ampia categoria che include l’integratore alimentare, il prodotto “erboristico”, il prodotto omeopatico o pa-raomeopatico, i fiori di Bach ecc.Esso prevede la segnalazione spontanea con una scheda di rileva-zione scaricabile dal portale dell’ISS. Vale la pena segnalare che finora, dopo circa sette anni di attività, sono state segnalate circa 340 reazioni, come ha comunicato di recente Francesca Menniti Ippolito dell’ISS nel corso di un convegno svoltosi a Empoli. Que-sti dati sono parziali, dunque non esauriscono il problema né lo documentano in maniera completa, ma si possono considerare da un certo punto di vista “incoraggianti”, soprattutto se messi in relazione con il volume totale di prodotti di questo tipo utilizzati in Italia. Senza minimizzare né sottostimare una questione che ha un indubbio rilievo nell’ambito della salute pubblica, è giusto però ricondurla alla sua giusta dimensione e continuare a lavo-rare per raccogliere un numero maggiore di dati sulla sicurezza dei prodotti. Di sicurezza delle piante medicinali si è occupata anche l’Orga-nizzazione Mondiale della Sanità (OMS), che ha varato specifiche

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Linee guida in materia nel 2004. Queste rispondono all’obiettivo di identificare la natura dell’effetto avverso, di individuare i me-todi per la gestione del rischio e di istituire adeguate misure di prevenzione. L’OMS intende anche sviluppare un’efficace comuni-cazione dei rischi e dei benefici delle piante medicinali attraverso un lavoro che riguarda le istituzioni, la filiera produttiva e i con-sumatori. Vale la pena rilevare che le Linee guida dell’OMS distinguono in modo chiaro fra l’effetto avverso in sé e l’uso improprio da parte del consumatore. Quest’ultimo fenomeno è riconducibile a più fattori: dosaggio sbagliato, errori di assunzione del prodotto, in-terazioni farmacologiche ecc. In questo contesto rientra anche la qualità scadente del preparato che, ad esempio, può essere adul-terato con farmaci di sintesi o contaminato con sostanze tossiche. Appare evidente che la sicurezza dei prodotti “non convenziona-li”, in questo caso dei preparati vegetali, non può essere affidata soltanto al medico ma, se si vogliono ottenere risultati efficaci, deve coinvolgere anche le istituzioni, il mondo sanitario, i cittadi-ni e la filiera produttiva. Negli ultimi anni si sono compiuti indubbi passi avanti in questo campo, anche grazie all’approvazione e all’attuazione di normati-ve nazionali e comunitarie che regolano il settore e contribuisco-no a migliorare la qualità dei prodotti. Questo percorso è ancora all’inizio, ma si sono poste le basi, con l’intervento mirato anche del ministero della Salute italiano, per garantire una maggiore sicurezza del cittadino. Quando parliamo dei rischi dell’informazione sulla salute, e nel nostro caso sulle medicine complementari, non si può trala-sciare ciò che compare on line. In Internet, infatti, si trovano spesso informazioni non documentate e talvolta in contraddi-zione con i dati scientifici verificati. Internet è uno strumento straordinario che ha rivoluzionato e semplificato il lavoro gior-nalistico consentendo di accedere alle informazioni in tempo reale, ma è anche un contenitore subdolo e disomogeneo in cui abbondano notizie distorte e informazioni discutibili. Il rischio aumenta se a queste informazioni accedono soggetti inesperti della materia. Un’interessante iniziativa per la garanzia delle informazioni me-diche e sulla salute presenti in Internet è stata realizzata alla Fondazione svizzera “Health on the net”. Si tratta di una sorta di “certificato di qualità” reso visibile da un logo e rilasciato ai

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siti web dedicati alla salute che soddisfano questi standard: le informazioni mediche sono redatte da medici o da professio-nisti qualificati e sono accompagnate da referenze esplicite e da link verso i dati; ogni informazione su eventuali benefici delle terapie è docu-mentata con prove scientifiche “adeguate e ponderate”; il sito fornisce un indirizzo dove gli utenti possono richiedere informazioni;eventuali patrocini e sponsor commerciali sono indicati chiara-mente nel rispetto della trasparenza.

Su questo argomento sono stati pubblicati anche alcuni lavori specifici. In particolare due studi realizzati uno in Canada e l’altro in Australia hanno analizzato il rapporto tra le cosiddette Comple-mentary and Alternative Medicines (CAM) e la qualità e il valore delle informazioni su queste medicine disponibili on line. Anche il Centro di medicina naturale di Empoli ha condotto un’indagine sull’informazione on line che ha riguardato in particolare alcune piante medicinali (camedrio, farfara, borragine e Monascus). Lo studio ha esaminato 522 siti italiani cercando le indicazioni tera-peutiche di queste piante, la citazione delle fonti bibliografiche, la possibilità di acquistarle in Internet, i dati su effetti collaterali e interazioni farmacologiche, la presenza delle avvertenze ministe-riali. Il lavoro conclude che “l’informazione veicolata è insufficien-te e a volte rischiosa per i consumatori”. Ad esempio il camedrio, una pianta non autorizzata in Italia perché considerata dannosa per il fegato, si poteva acquistare on line e soltanto il 38% dei 60 siti esaminati riportava il divieto. Questi dati richiedono dunque una riflessione seria sui temi del-la sicurezza e dell’attendibilità delle informazioni sulle medicine complementari, sulla loro efficacia ma anche sulla sicurezza. I media svolgono un ruolo essenziale in questo campo. Il giornali-sta che tratta questi argomenti dovrebbe avere facile accesso a informazioni verificate, essere consapevole dell’importanza di ga-rantire attendibilità, precisione, equilibrio e rispetto delle regole, leggere gli studi possibilmente completi, parlare con gli esperti per ottenere verifiche e chiarimenti.Il compito di una corretta informazione è, dunque, anche quello di raccogliere e diffondere i dati sulla sicurezza e sulla tossicità delle piante o di altri trattamenti di tipo complementare, evitando però di cadere nell’atteggiamento opposto. C’è, in effetti, una certa

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stampa che tende a enfatizzare le reazioni avverse dei prodotti “naturali” utilizzandole, in maniera indiretta ancorché sottile, per indebolire il valore di strumenti terapeutici ai quali si rivolge un numero crescente di cittadini anche in Italia. Vale la pena ram-mentare che gli effetti avversi delle piante medicinali sono in ogni caso inferiori a quelli di molti farmaci di sintesi. Si ricorda, fra i tanti, uno studio pubblicato nel 2004 sulla rivista dell’Associazio-ne dei medici statunitensi, JAMA, secondo cui i decessi causati dagli effetti avversi dei medicinali erano la quarta causa di morte negli Stati Uniti. È indicativo a questo riguardo anche il caso di Cimicifuga race-mosa, una pianta utilizzata in modo ampio e con buoni risultati per alleviare la sindrome climaterica. Nel 2006, dopo la segna-lazione di effetti avversi sul fegato che sembravano correlati al suo impiego, l’Agenzia Europea dei Medicinali (EMEA) diffuse un comunicato con cui invitava operatori e pazienti a segnalare gli eventuali effetti avversi della pianta. In realtà un’attenta analisi degli studi e dei dati consentì di ridimensionare in breve tempo la tossicità della cimicifuga e nel gennaio del 2007 i prodotti a base di questa pianta, di cui il ministero della Salute italiano ave-va sospeso la vendita per precauzione, sono stati riammessi. I media, che avevano riportato con grande clamore la sospensione della pianta, non hanno però documentato la sua riammissione in commercio, con il risultato che l’immagine della pianta è stata compromessa. In materia di informazione per questo settore, si ricorda il No-tiziario regionale MC Toscana, una pubblicazione che ha docu-mentato sin dall’inizio il percorso di integrazione delle medicine complementari nel sistema sanitario della Regione Toscana, uno strumento di informazione per i cittadini e di confronto per gli operatori del settore. La testata si può consultare on line al seguente indirizzo:http://www.regione.toscana.it/salute/medicinecomplementari/index.html

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RADICI ANTROPOLOGIChE DEL RISChIO, RESPONSABI-LITÀ MORALE E GIURIDICA PER LA PROMOZIONE DELLA CULTURA DELLA SICUREZZA ED ETICA DELLA SCELTA

Sonia BaccettiLe strutture di riferimento regionali per la MTC, la fitoterapia e l’omeopatia, insieme alla Rete Toscana di Medicina Integrata han-no organizzato questo corso di formazione rivolto agli operatori di medicina complementare che operano nel servizio sanitario regionale toscano per avviare un processo finalizzato a migliorare la qualità delle prestazioni di medicina complementare incentrato sulla sicurezza del paziente. Il concetto di rischio e di sicurezza del paziente sono cambia-ti molto nel corso del tempo e la sempre maggiore attenzione ai problemi della prevenzione dell’evento avverso da parte degli operatori sanitari è conseguente agli indirizzi di politica sanitaria nazionale che hanno trovato in Regione Toscana un particolare sviluppo. Infatti è stata istituita in ogni azienda sanitaria la figura del clinical risk manager e sono stati attivati il sistema di incident reporting e la pratica dell’audit clinico affinché, a partire dall’erro-re o dall’evento avverso scongiurato, possano essere individuate le strategie migliori per la sicurezza del paziente.In questa tavola rotonda discuteremo anche delle radici antro-pologiche del rischio, poiché la capacità individuale di percepire i possibili danni in relazione alla scelta terapeutica cambia molto riguardo ai valori propri degli individui e agli aspetti culturali di ciascuno di essi. Invito quindi i relatori a riflettere su come sia necessario applicare le metodiche del controllo del rischio clinico anche al settore delle medicine complementari e come la perce-zione del rischio sia anche molto diversa in rapporto al gruppo sociale che sceglie di utilizzare una terapia in maniera “comple-mentare” o “alternativa” alla terapia ufficiale.

Simonetta BernardiniIl paziente che utilizza le medicine complementari, quale che sia la sua appartenenza sociale, è sempre uno straniero in patria e un clandestino, perché si rivolge a medicine non ufficializzate che nel nostro Paese sono tollerate ma non accolte. La storia del paziente che si rivolge alle medicine complementari è la storia di un paziente diviso e questa divisione si osserva nella medicina territoriale e ancor più a livello ospedaliero. Ancora oggi,

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il medico della biomedicina non è interessato a conoscere e non vuole essere coinvolto nell’ascolto di una scelta che il paziente ha fatto, così come ha fatto l’altra. I miei pazienti, per esempio, non parlano mai male del loro medico curante o della biomedicina, ma raccontano con dolore una storia di malattia non risolta. Il fatto che il paziente porti la sua storia prima a un medico e poi a un altro implica due tipologie di rischio: il rischio della malattia e un rischio di natura professionale. Il rischio malattia perché quando il paziente delle medicine com-plementari non viene inviato da un collega, ma sceglie da solo il medico complementare senza parlarne con il medico curante, porta una storia ricca di omissioni e di sottovalutazioni. Egli, ad esempio, può dimenticare di riferire quali farmaci assume o quali controlli ha fatto. Il medico di medicina complementare che acco-glie questa persona e la sua storia può dunque sbagliare perché il paziente non gli è stato presentato nella maniera corretta. L’altro rischio è di natura professionale. Sono convinta che non ci sia niente di peggio di due categorie che si vanificano l’un l’altra e che, anziché riconoscere e sostenere insieme la loro professio-nalità per il bene del paziente, si ignorano. È un problema importante che non sarà risolto finché le porte del servizio sanitario non si apriranno per accogliere tutte le risorse terapeutiche della medicina e finché fra queste non si svilupperà un dialogo. Questo scambio culturale porterà, nel futuro, a ridise-gnare e a ripensare insieme la cura attraverso un processo fonda-to sull’alleanza di tutte le risorse terapeutiche per i cittadini. Il problema della divisione fra questi due mondi è ancora mag-giore quando si rivolgono alle medicine complementari persone provenienti da altre culture e con altre aspettative, che sono essi stessi stranieri e talvolta semiclandestini. Persone che devono farsi carico da sole della propria storia di malattia e raccontarla a un operatore che non comunica con chi gestisce quotidianamente la sua salute.

Alfredo VannacciIl concetto di integrazione, il fatto che chi decide di rivolgersi alle medicine complementari non debba sentirsi uno straniero in patria, è di grande rilevanza. Per noi è più facile affrontare que-sti temi perché la Regione Toscana ha fatto passi da gigante in questo settore rispetto ad altre regioni e persino a livello inter-nazionale. Il clima sta cambiando per promuovere una maggiore

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integrazione rispetto al passato fra le discipline complementari e la medicina convenzionale.

Alfredo ZuppiroliVorrei cominciare con un esempio relativo alla cardiologia ospe-daliera, che cito in quanto è la disciplina che conosco meglio: essendo maggiormente incline a pratiche invasive, dunque po-tenzialmente “a rischio”, si potrebbe pensare che il concetto di rischio clinico la riguardi direttamente, mentre le discipline non convenzionali ne sarebbero immuni. Non c’è niente di più falso. Occorre integrare questi due approcci, perché la medicina è una sola e faremo un bel salto culturale in avanti quando riusciremo a parlare di medicina e basta, senza aggiungere a questa parola nessun altro aggettivo. Dobbiamo con la massima laicità possibile e in una logica integrata offrire al paziente la soluzione più appro-priata per il suo specifico problema. Possiamo però lasciare la responsabilità di un intervento di salute soltanto al paziente? Il paziente è un soggetto autonomo portatore di diritti a priori, quasi fosse un suo tratto genetico, oppure è un soggetto che deve essere educato nel suo rapporto con la sofferen-za e la malattia? Come possiamo fidarci che la scelta del paziente, magari orientata da mode, da abitudini o da fatti contingenti, sia quella giusta? I percorsi clinici sono determinati spesso dal tipo di struttura cui il paziente si rivolge invece che dalle sue reali esigen-ze cliniche. Dunque il rischio, la probabilità che un evento accada, è già predeterminato dalla prima scelta del paziente. Una medicina laica e integrata dovrebbe essere qualcosa che cre-sce insieme al paziente e che poi confeziona su misura la solu-zione più appropriata per la sua specifica patologia, per il suo sintomo o per il suo problema.

David Coletta Vorrei iniziare con una citazione di Karl Popper: “Il medico tutta-via deve convincersi con umiltà che nonostante tutto continua a operare in condizioni di probabilismo, perché tutta la conoscenza scientifica è ipotetica e congetturale. Quello che possiamo chia-mare il metodo della scienza consiste nell’imparare sistematica-mente dai nostri errori, in primo luogo osando commetterli, e in secondo luogo andando sistematicamente alla ricerca degli errori che abbiamo commesso”. Se vogliamo migliorare la qualità dell’assistenza dobbiamo porci

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di fronte all’errore in modo diverso. Di solito lo facciamo con sen-timento di vergogna, cercando di nasconderlo il più possibile, ma soltanto riflettendo sugli errori possiamo applicare le procedure che permettono di evitarli. Gli errori possono essere sì perso-nali, ma più spesso sono errori di struttura e di organizzazione; essi devono essere comunque valutati se vogliamo promuovere la qualità delle cure. I medici di famiglia dell’ASL di Empoli hanno spostato l’asse della formazione orientandola verso i gruppi Balint e gli audit. Ci siamo resi conto che solo andando a vedere ciò che ciascuno di noi face-va, dandoci obiettivi e parametri sui fenomeni più importanti, era possibile correggere gli errori e migliorare la qualità. Nel 1994 Blumenthal scriveva: “La prima delle sfide che i medici devono affrontare per ridurre l’incidenza dell’errore è rompere un patto perverso: i medici dovrebbero ammettere la propria fallacia e i pazienti accettare la propria vulnerabilità. Il paradosso del mi-glioramento dell’attuale livello di qualità è che solo confessando e non biasimando l’errore il suo tasso può diminuire”. Questi concetti, in realtà, non sono stati assimilati fino in fondo. In Toscana si sta facendo molto in questa direzione, ma dovrem-mo riuscire a diffondere la cultura del risk management in manie-ra più capillare, per migliorare la qualità delle nostre prestazioni. Ancora nel 1999 il British Medical Journal si chiede: “Quante per-sone rimarrebbero su un aeroplano dopo che il comandante ha annunciato che la probabilità di arrivare a destinazione sani e salvi è pari al 97%, e quella che il personale di volo faccia qual-che errore grave è del 6,7%”? La risposta è banale: nessuno sa-lirebbe sull’aereo, ma i dati di un’indagine su due grandi ospedali americani riportano quelle stesse percentuali di errore. Dobbiamo applicare tutte le procedure possibili per ridurre l’er-rore. Si diceva poc’anzi che la medicina integrata è l’unica strada ed è vero anche ciò che si è detto dei pazienti clandestini, ma soprattutto è fondamentale che si avvii la comunicazione tra i professionisti che esercitano le varie branche della medicina. Il consenso informato è una procedura che tutti i medici devono applicare. Si tende a pensare che debba essere richiesto soltanto in caso di procedure invasive, ma sono convinto che il paziente debba essere informato sempre, anche quando il suo medico sta-bilisce che deve assumere una statina per ridurre il rischio cardio-vascolare. Anche in quel caso dobbiamo spiegargli che il beneficio della riduzione dell’infarto, stimato ad esempio al 5%, riguarda in

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realtà la popolazione generale e che lui in quanto singolo indivi-duo potrebbe avere un infarto anche se si curasse per vent’anni con quella statina. Nella realtà ciò non accade sempre. Siamo tutti concordi nel dire che la figura paternalistica del me-dico appartiene al passato, ma essa resiste ancora. Dobbiamo condividere con il paziente le terapie e le procedure migliori, ne-goziare con lui l’approccio migliore per trattare il suo problema - che può essere un farmaco, la fitoterapia, l’agopuntura o nulla - ma non sempre lo facciamo. Occorre condividere con il paziente ciò che stiamo facendo, altrimenti ritorna la figura del medico paternalista. È necessario ascoltare il malato, comprenderne gli stati d’animo, le preoccupazioni, le attese. Valutare il paziente nei suoi ambienti sociali, antropologici, culturali, capire qual è la sua visione di ma-lattia e di cura. Un certo paziente sceglierà l’omeopatia perché ha una visione antropologico-culturale della sua salute e della sua capacità di cura che manca nella medicina basata sull’evidenza, ma che su di lui funziona. È una scelta personale. Non possiamo dire che il paziente può scegliere quando si parla di biomedicina e che non può più farlo per un altro tipo di trattamento, altrimenti limito la sua capacità di scelta. Posso e devo spiegare le opzioni possibili, ma in definitiva è il cittadino che deve scegliere, però un cittadino davvero informato. La formazione/informazione deve coinvolgere, infine, non soltanto i cittadini, ma anche i medici. Siamo convinti che si possa vivere senza commettere errori e senza il rischio, eppure il rischio è insito nella nostra esistenza, così come l’errore lo è nella medicina e in tutte le attività umane. L’errore deve essere gestito a livello personale e sociale e soprat-tutto sul piano dell’informazione. Parliamo di appropriatezza: da anni ci fanno digerire l’appro-priatezza legata esclusivamente all’economicità della prestazio-ne sanitaria. È ora di svegliarci. L’appropriatezza di per sé non vuol dire nulla: occorre specificare appropriato rispetto a cosa. Rispetto ai benefici di salute? Rispetto al sistema sanitario che deve funzionare ed essere equo, solidale ecc.? Rispetto alle pro-cedure? Rispetto alla riduzione dei rischi? Non si può parlare di appropriatezza in termini generali, ma si continua a parlare del costo dei farmaci e mai dei benefici di salute che ne scaturiscono. La stessa riflessione si può fare sulle terapie non convenzionali: quanto costa la rete toscana di agopuntura, omeopatia, o fitote-rapia rispetto ai benefici che offre ai cittadini?

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Il rapporto medico-paziente ci sta molto a cuore. Nella medi-cina occidentale tecnologizzata questo rapporto sembra ridursi progressivamente. In fondo quando ho eseguito una TAC o una risonanza magnetica mi sento a posto e sento di aver fatto il mio dovere anche quando ho praticato un intervento per liberare le coronarie. Si parlava di paziente “spezzettato”, in realtà i pazienti della medicina occidentale sono spezzettati a priori, perché c’è lo specialista di organo, quello di apparato, il superspecialista, addi-rittura il cardiologo che si occupa solo di aritmia atriale, il medico di famiglia che fa il vigile…Che cos’è allora l’appropriatezza? È fare ciò che è utile, nel modo migliore, con il costo minore, a chi, e soltanto a chi, ne ha bisogno. E termino con una citazione antica: “Non sembra difficile, forse richiede impegno, esperienza, professionalità, umanità e coraggio, ma siamo medici, non possiamo preoccuparci di gestione sanitaria quando ancora non siamo riusciti nel processo dell’umanizzazione della medicina, e non ci siamo riusciti ancora”.

Se poi parliamo di umanizzazione della medicina, non mi convin-ce il ragionamento che fanno a volte i colleghi di medicina com-plementare, e cioè che sono solo loro a prendere in carico il pa-ziente. In realtà il medico, e la buona medicina, devono sempre prendere in carico il paziente e chi non lo fa è un cattivo medico. Se così non fosse, avrebbe ragione l’imperatore Adriano quando scriveva: “Caro Marco, oggi mi sono recato dal mio medico, Er-mogene, appena rientrato da un lungo viaggio in Asia. Mi sono spogliato, ho adagiato le vesti, mi sono sdraiato sul letto. Caro Marco, quanto è difficile anche solo rimanere imperatori davanti a un medico. Il medico di te non vede altro che un amalgama di linfa e sangue”.Se fossimo a questo punto, avremmo fallito tutti, ma mi auguro, anzi sono certo, che non è così. La medicina e la professione me-dica sono cambiate molto negli anni, ma questa è l’unica strada da percorrere se vogliamo migliorare la qualità delle cure e ridur-re i rischi, perché i rischi sono connaturati al mancato ascolto del paziente.

Sonia BaccettiQuesti concetti riportano l’attenzione su alcuni pregiudizi che ca-ratterizzano il nostro lavoro quotidiano. Ad esempio la questione della libertà di scelta del paziente su cui, forse, si è insistito trop-

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po negli ultimi anni. È vero che in passato il paziente viveva una situazione di assoluta sudditanza, impossibilitato a interferire su ciò che riguardava la sua salute, ma è anche vero che egli non può essere lasciato solo in situazioni in cui non ha tutte le pos-sibilità per scegliere in modo corretto. Il paziente deve essere, infatti, informato correttamente ma talora egli acquisisce i dati in Internet e arriva in ambulatorio con una sua autonoma posizione dettata dalle pubblicazioni che ha raccolto. Talora poi i medici di famiglia non conoscono in maniera approfondita alcune terapie, come per esempio le medicine complementari, e quindi non sono in grado di fornire quelle informazioni che consentano una scelta libera.È opinione comune ritenere che i medici che esercitano le medi-cine non convenzionali stabiliscono un rapporto privilegiato con il paziente mentre i sanitari che praticano la medicina ufficiale sono spesso accusati di non farlo. In realtà chi pratica le medicine complementari non necessaria-mente è più predisposto all’ascolto ma è obbligato ad ascoltare dal metodo che sottintende alla medicina che esercita. Il grande sviluppo delle indagini strumentali, che sono parte fondante della medicina ufficiale, fa sì che l’anamnesi e quindi la sintomatologia descritta dal paziente abbiano un ruolo sempre più marginale nella diagnosi. Se riteniamo invece che la comunicazione è un elemento importante per prevenire il rischio, occorre riflettere sulla necessità di promuovere un cambiamento non solo nel sin-golo professionista ma nel sistema della formazione degli stu-di sanitari, ricollocando la comunicazione al centro del rapporto medico-paziente. La gestione del rischio clinico fa parte dell’etica del professionista e del sistema. Coletta diceva che, quando si parla di appropria-tezza, pensare in termini di efficacia o in termini di costo costitui-sce una scelta etica di rilievo. In che modo allora l’etica riesce a influenzare la modalità di gestione del rischio clinico?

Alfredo ZuppiroliRiprendo temi già trattati per sottolineare l’importanza di que-sto corso che affronta temi di rilievo come la segnalazione degli eventi avversi, gli audit, la FMEA e altre tecniche. Senza scomodare la filosofia, l’etica e i grandi sistemi, i me-dici hanno a disposizione un proprio codice deontologico che all’art.14 impone di diffondere la cultura della segnalazione

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dell’evento avverso.Dobbiamo rifuggire dal rischio dell’autoreferenzialità, una mina che insidia tutte le professioni. Cito spesso a questo proposito un aforisma di Mark Twain: “quando si ha un martello in mano, tutto sembra un chiodo”. L’errore è che ognuno con il proprio martello veda solo chiodi da battere. C’è il rischio che l’inizio di un percor-so generi una serie di concatenazioni e di esiti determinati dalla tipologia di percorso a cui il paziente si riferisce e non dal suo reale bisogno di salute. Qui l’etica e la filosofia ci devono venire in soccorso, dobbiamo ispirarci alla cultura del limite. Uno dei mali della medicina è l’as-serzione di infallibilità, il potere supremo della tecnica. Se è inelu-dibile che la medicina ufficiale debba ragionare in termini riduzio-nistici, perché si deve poter separare il normale dal patologico, il falso dal vero, misurare con l’aiuto delle leggi della statistica, cor-riamo però il rischio che non si riesca a cucire il vestito ad hoc sul paziente irripetibile e unico che abbiamo davanti. Quel paziente ha il suo specifico problema, per il quale le leggi della statistica, della biologia, mi dovrebbero aiutare a capire con quale probabi-lità si genereranno determinati risultati con certe terapie. Esiste poi la declinazione personale del vissuto, la storia del pa-ziente, che viene oggi rivalutata nella medicina narrativa ed è un terreno culturale tipico della medicina integrata e complementa-re. Di nuovo, dobbiamo tutti ispirarci al principio del limite - il che vuol dire, come diceva Foucault, che le persone muoiono non solo perché hanno malattie o subiscono degli incidenti, ma perché sono mortali. Questo limite però spesso lo dimentichiamo e ancor più lo dimentica la medicina ufficiale, ma l’errore resta quello del proprio chiodo, del proprio martello e dell’autoreferenzialità. Una prima regola etica sta dunque nel principio del limite: trasmet-tere questo concetto nella pratica professionale quotidiana con i nostri pazienti: qualunque cura scegliamo, che sia ipertecnologica o una psicoterapia, dobbiamo ispirarci al concetto di limite. Lasciamo ad altri dogmatismi e assolutismi, quindi un po’ meno prosopopea, un po’ più laicità, che significa il saper riconoscere le posizioni diverse dalle proprie. E ancora umiltà, conoscenza del limite delle nostre capacità terapeutiche, ma anche educazione dei pazienti. Non dobbiamo considerare la segnalazione dell’evento avverso soltanto come l’ammissione del nostro fallimento professionale. Fra gli ostacoli che impediscono la diffusione della cultura del ri-

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schio clinico negli ospedali c’è il fatto che molti di noi equiparano il rischio sanitario per il paziente al rischio giudiziario per l’opera-tore. La prima reazione è la medicina difensiva: non solo richiedo mille esami per pararmi le spalle ma, quando vengo a conoscenza di un evento avverso o di un potenziale errore, non lo segnalo perché temo le conseguenze della segnalazione. Attenzione a cadere in questo tranello ma anche a pensare che le medicine non ufficiali, “meno invasive”, siano innocue. Esse possono forse avere meno effetti collaterali, ma attenzione non è per nulla innocua la vostra scelta professionale quando decidete di usare il vostro martello per quel chiodo, quando le evidenze suggerirebbero un passo indietro e che per quel paziente e la sua patologia si dovrebbe utilizzare un altro tipo di martello e di chiodo. Cosa significa etica? Sono i valori che guidano le nostre scelte e non possiamo pensare che le scelte professionali da cui dipende la salute dei pazienti debbano essere ispirate soltanto alla nostra coscienza professionale. La famosa formuletta “in scienza e co-scienza” non basta più. Noi medici siamo stati scossi da una sentenza emessa a Firen-ze anni fa. Nel 1990 un noto chirurgo operò una signora con un tumore dell’intestino, che aveva manifestato un chiaro dissenso nei confronti di un ano artificiale. Il chirurgo eseguì un intervento tecnicamente perfetto, quindi operò “in scienza” ai massimi livel-li. Operò secondo la sua coscienza, pensando di fare il bene di quella signora, ma ne disattese le indicazioni. Alcuni mesi dopo la donna morì per complicanze innescate dall’intervento e il medico fu condannato non per omicidio colposo ma per omicidio prete-rintenzionale. Il giudice lo condannò perché ritenne che quell’atto fosse stato dolosamente volontario nel ledere la paziente. Fu una sentenza shock per i medici, poiché da secoli Ippocrate ci ras-sicurava con la formula paternalistica dell’operare in scienza e coscienza.Scienza e coscienza, infine, devono essere patrimonio non sol-tanto dei medici della medicina ufficiale, ma anche di infermieri, fisioterapisti, tecnici e di chi pratica la medicina complementare.

Simonetta BernardiniNel 2005 un questionario nazionale sul tema del paziente diviso o condiviso, realizzato in collaborazione con la Federazione Italiana dei Medici di Medicina Generale (FIMMG), con la Federazione Ita-

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liana dei Medici Pediatri (FIMP) e con la Società Italiana di Ome-opatia e Medicina Integrata (SIOMI) per la parte omeopatica, mostrò come siano diverse le percezioni del fenomeno medicine complementari. Scoprimmo, infatti, che la percezione dei pediatri e dei medici di famiglia di quale percentuale della popolazione si curasse con le medicine complementari era del 4%, mentre le statistiche parlavano del 20-22%. Rivolgendo la stessa domanda agli omeopati, la risposta era intorno al 20-22%. Questo esempio mostra che non c’è consapevolezza da parte dei medici del territorio di quante persone utilizzano le medici-ne complementari, non solo in termini numerici, ma anche delle motivazioni che le inducono a farlo. Parlando di rischio clinico non dobbiamo dimenticare che siamo solo all’inizio di un modo nuovo di intendere la medicina, ancora in costruzione. Se la biomedicina è malata di standardizzazione, le nostre me-dicine sono malate “gravi” di individualità, poiché sono cresciute fuori dall’accademia e dagli ospedali. Si sono organizzate in grup-pi più o meno grandi, ma non hanno avuto la possibilità del con-fronto interdisciplinare, né del confronto all’interno delle stesse medicine complementari. Dobbiamo studiare percorsi terapeutici condivisi, provvedere a stilare delle linee guida sulla formazione uguali in tutto il mondo, linee guida di intervento e di approccio al paziente mediando fra l’individualità, qualità essenziale del rapporto medico-paziente nelle medicine complementari, e la necessità di assistere le per-sone in strutture di garanzia come ambulatori e ospedali.

David ColettaMi occupo di formazione in medicina generale e in venticinque anni di attività non ho mai sentito né pensato di organizzare un corso sui determinanti etici della professione medica. Siamo sempre guidati dalla cultura del fare. Il mio paziente ha la broncopolmo-nite, devo prescrivergli il tal farmaco o fare un certo intervento. Non ho mai pensato di fare altro, ad esempio formare i medici su quegli aspetti etici che sono basilari per la nostra professione. In realtà più che la cultura del solo fare dovremmo sviluppare la cultura di come e perché agire. Dovremmo riflettere su cosa pensa il paziente di se stesso e cosa il paziente preferisce fare. A volte dovremmo fare un passo indietro e iniziare a riflettere su cosa facciamo per cominciare a farlo meglio. Quando abbiamo iniziato con il metodo Balint è stata una scom-

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messa, eppure già dopo il primo anno abbiamo dovuto raddop-piare il numero degli psicoterapeuti che vi partecipavano. Il Balint è un metodo particolare, ideato da uno psicoterapeuta inglese che faceva anche il medico di famiglia negli anni Cinquanta in Inghilterra. Si procede così: ogni sera due o tre persone illustrano agli altri le difficoltà relazionali con i propri pazienti. In realtà è una sorta di “psicoterapia di gruppo”, una metodica di autoanalisi in cui i temi etici sono affrontati con un approccio pragmatico, e che insegna gradualmente a relazionarsi meglio con i pazienti, a considerarli come persone e non come ammalati. Abbiamo cominciato quasi per caso e da cinque anni il 20% dei medici di famiglia della no-stra ASL continua a seguire corsi Balint.

Simonetta BernardiniLa medicina integrata è un’opportunità per ricomporre le varie branche medicine in un’unica medicina. È un modello di sviluppo della medicina dove si sperimenta una nuova visione in cui ognu-no, con la sua identità, porta i propri contenuti e il suo paradigma e li condivide nella medicina che cambia. Questo modello ha biso-gno di alcuni ingredienti essenziali e innanzitutto di un linguaggio intelligibile e condivisibile, perché se non si parla la stessa lingua, non c’è modo di condividere, neanche in medicina. Davanti al pa-ziente e davanti alla legge devo fare il medico e lo sono sempre, quando pratico l’omeopatia e quando pratico la biomedicina. La medicina integrata è un modello di ricerca e di condivisione delle conoscenze mediche. Si può accettare o non accettare, ma è un percorso, anche se non l’unico, di garanzia per il cittadino e per la professionalità dei medici.

Sonia BaccettiIl termine “integrazione” desta molte paure non solo in campo sanitario, ma anche in ambito sociale. Il concetto di integrazione rimanda spesso alla sopraffazione di una cultura sull’altra; per questo preferisco quello di “interazione”, che rende meglio l’idea del rapporto fra pari. Un altro termine utilizzato è “articolazione” per rimarcare che ciascuno è portatore di modelli, valori etici e culturali da confrontare, rispettare, miscelare. Si sottolinea quindi la necessità di ragionare davvero fra pari, garantendo una comunicazione bidirezionale. È dal confronto e dall’integrazione che nasce il melange, una cultura meticcia che

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rappresenta un valore aggiunto e non un limite. Questo anche in medicina, dove il confronto fra pari nel team terapeutico è garan-zia di qualità delle prestazioni.

Alfredo ZuppiroliStiamo attenti a non difendere le identità in senso militante. Dob-biamo adattarci alla multiculturalità e alle diverse culture, anche mediche. Non c’è nessuna volontà di realizzare un melange che unifica tutto ma, attenzione, di rischio clinico e di errore occorre parlare. Attenzione a pensare che essere terapeuti significhi fare la medicina. Therapeyo in greco vuol dire “essere al servizio di”, il terapeuta esercita una professione al servizio di un’altra e tera-peuta era anche lo scudiero del nobile che andava in guerra. La terapia implica anche la scelta del trattamento (a quali dosi, con quali soluzioni) che deriva da una diagnosi e la diagnosi è un processo che deriva da un lavoro d’équipe. In questo noi ospe-dalieri siamo privilegiati, poiché la professione infermieristica ha raggiunto un livello di autonomia professionale impensabile fino a pochi anni fa. La tendenza è creare albi professionali per tutte le singole professioni, ma l’unica strada è lavorare insieme non per-ché il massofisioterapista diventi medico o viceversa, ma perché ognuno possa portare il suo contributo. Cerchiamo di guardare alle diverse identità in modo positivo, andando l’uno verso l’altro ed evitando di riconoscere le nostre identità contro chi è diverso da noi. Cominciamo ad assumerci le nostre responsabilità, singole e pro-fessionali. Chi pratica l’omeopatia ha fatto, in scienza e coscienza con se stesso, un percorso di diagnosi che permette di ritenere opportuna e appropriata la sua scelta? C’è stato un processo laico di riconoscimento dell’altro? In ospedale siamo costretti a farlo tutti i giorni. Se noi medici tradizionali corriamo il rischio di prati-care soltanto una medicina dei numeri e il riduzionismo a simula-cri inesistenti, dall’altra parte si rischia di praticare una medicina autoreferenziale, dove ognuno si dà ragione. Occorre dunque riconoscere sempre di più l’altro da noi, evitando la pericolosa deriva dei litigi fra ordini professionali o fra profes-sioni più o meno riconosciute o fra le varie modalità di esercitare la medicina. La medicina non può che essere una ed è al servizio di chi soffre.

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LA CULTURA DELLA SICUREZZA: INDAGINE ESPLORATIVA

Sara AlbolinoCentro per la Gestione del Rischio Clinico e la Sicurezza del Pa-ziente, Regione Toscana

PremessaAi partecipanti al corso di formazione è stato somministrato un questionario finalizzato a realizzare un’indagine esplorativa sulla cultura della sicurezza. In particolare, si è ritenuto opportuno svolgere una valutazione del vissuto e delle opinioni dei partecipanti rispetto alla segnala-zione e analisi degli eventi avversi anche attraverso l’utilizzo dei sistemi di segnalazione volontaria (incident reporting).Difatti l’attitudine degli operatori verso la segnalazione degli eventi avversi, soprattutto attraverso strumenti della gestione del rischio clinico quali l’incident reporting, è un elemento impor-tante della cultura della sicurezza e, se monitorato nel tempo, è un indicatore del livello di sviluppo nel tempo della cultura stessa all’interno di una comunità professionale o organizzazione.Il sistema di segnalazione volontaria è una componente del siste-ma di gestione del rischio il cui obiettivo principale è identificare in maniera rapida problemi che si verificano a livello locale. La letteratura internazionale evidenzia inoltre come i sistemi di in-cident reporting per funzionare hanno bisogno che una serie di condizioni siano soddisfatte. In sintesi queste condizioni possono essere riassunte in: impiego di risorse esperte, consenso sulla ne-cessità di raccogliere informazioni sui problemi esistenti, impiego di tempo per mettere in moto il sistema, raccogliere i dati e “ven-dere” il sistema alle persone che devono usarlo (Billings, 1998).Ciascuna di esse presuppone il consenso e il coinvolgimento atti-vo delle persone a tutti i livelli dell’organizzazione. In particolare, è necessario l’impegno del top management aziendale e delle altre figure di coordinamento e la diffusione nell’organizzazione di una cultura della sicurezza “no blame” basata sull’assunto che eventi inattesi e incidenti sono un’occasione di apprendimento (Reason, 2001; IOM, 1999; 2004). La realizzazione della survey relativa ai sistemi di incident reporting, così come è stata conce-pita, permette di capire quanto questi presupposti siano presenti, sia dove il sistema deve essere implementato, sia dove è già in utilizzo (in quest’ultimo caso è possibile anche mettere in relazio-

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ne i risultati con il livello di reporting raggiunto).

Scopo dell’indagine• Indagare il livello di conoscenza di strumenti e metodi per la

gestione del rischio clinico dei partecipanti al corso.• Esplorare le caratteristiche della cultura della sicurezza dei

partecipanti al corso.• Considerare le opinioni e le esperienze dei partecipanti al corso

circa l’utilizzo di strumenti e metodi per la gestione del rischio clinico.

Principali risultatiL’indagine ha riguardato nel complesso 22 operatori sanitari, pro-venienti per la maggioranza dall’area specialistica medica e critica, in maggioranza donne (68%) e di professione medica (72%).

Area specialistica di lavoro

Grafico 1. Area specialistica di lavoro

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Dall’analisi dei dati risulta che solo un terzo degli operatori ha acquisito conoscenze sul tema prima di aver frequentato questo corso; il canale maggiormente utilizzato è quello dei corsi e delle conferenze. Ciò evidenzia come la diffusione e la conoscenza dei sistemi e degli strumenti della gestione del rischio clinico nei con-testi sanitari siano ancora scarse.

Grafico 2. Conoscenza della GRC

La scarsa esperienza pregressa in materia di gestione del rischio clinico fra i partecipanti si evince anche dalle loro risposte rispetto a cosa sia da segnalare nei sistemi di incident reporting e sulla loro esperienza rispetto alla partecipazione ad analisi di eventi avversi

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Eventi da segnalare nell’incident reporting

Grafico 3. Eventi da segnalare nell’incident reporting

È stato coinvolto in un evento avverso in seguito al quale si è svolto un approfondimento?

Grafico 4. Approfondimento di un evento avverso

Chi ha partecipato a un momento di analisi e approfondimento di un evento avverso ritiene comunque che questa riflessione sia utile per migliorare la qualità e la sicurezza.

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Pensa che il processo di approfondimentoabbia portato a qualche cambiamento positivo?

Grafico 5. Cambiamenti positivi legati a un approfondimento di un evento avverso

Rispetto alle conoscenze dell’argomento, le opinioni espresse di-mostrano però un atteggiamento positivo rispetto alle attività di gestione del rischio clinico da parte della maggioranza dei par-tecipanti, i quali vedono la segnalazione come un’azione utile a migliorare le condizioni di lavoro; quasi nessuno degli intervistati la considera un’attività priva di valore.

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Corso di formazione

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La segnalazione di EA è un’azione utile a ridurre gli EA?

La segnalazione EA è una perdita di tempo?

Grafici 6-7. Opinioni sulla segnalazione degli eventi avversi

Per quanto concerne invece la comunicazione degli eventi avver-si, dalle risposte date emerge, in linea con i risultati degli studi nazionali1, che la comunicazione del rischio predilige il canale in-formale e del confronto fra pari. La comunità stretta di lavoro di

1 Progetto di ricerca finalizzata 2004 Finanziamento del Ministero della Salute ex artt. 12 e 12 bis, D.Lgs 502/92 e s.m.i.“La promozione dell’innovazione e la gestione del rischio”.

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riferimento è il principale interlocutore in situazioni in cui avviene un evento avverso.

La memoria dell’evento non diventa organizzativa, ma rimane nel proprio gruppo di riferimento e questo può rappresentare un im-pedimento all’apprendimento organizzativo della comunità pro-fessionale di riferimento più ampia rispetto ai rischi e quindi al miglioramento della sicurezza.

Se dovesse segnalare un evento avversocon chi ne discuterebbe per primo?

È venuto a conoscenza di un evento avverso accaduto a un collega?

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Corso di formazione

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Come ne è venuto a conoscenza?

Grafici 8-9-10. La comunicazione degli eventi avversi

La modalità più frequente con cui si viene a conoscenza di un evento avverso è parlandone con i colleghi. I sistemi di gestione del rischio clinico non consentono ancora di acquisire questo tipo di informazioni con modalità più ufficiali o in occasione di incontri formali. Per quanto concerne il “vissuto”, cioè l’esperienza reale di ogni intervistato riguardo alla segnalazione di eventi avversi, si rileva che quanto dichiarato dai partecipanti è coerente con le affermazioni degli intervistati nell’indagine nazionale. La maggio-ranza degli intervistati dichiara di avere avuto da 1 a 3 eventi av-versi durante la propria carriera professionale, ma in questa inda-gine sono di più coloro che hanno sempre segnalato gli eventi.

Quanti eventi avversi le sono accaduti?

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Le è capitato di segnalare eventi avversialla sua struttura di appartenenza?

Se ha risposto si, quanti?

Grafici 11-12-13 Esperienza personale sugli eventi avversi

L’ultimo quesito riguarda le possibili cause di un evento avverso. Anche in questa risposta i partecipanti hanno dimostrato di avere un approccio e una percezione corretti delle dinamiche che sotto-stanno a un evento avverso, perché hanno individuato fra le cau-se principali la comunicazione, in coerenza con quanto affermato a livello internazionale dalla Joint Commission. In generale, l’indagine evidenzia che nonostante il gruppo non abbia una formazione pregressa in materia di gestione del rischio clinico e sicurezza del paziente, l’atteggiamento e la cultura di base dei partecipanti al corso sono positivi: c’è una generale fi-

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ducia verso la segnalazione degli eventi avversi e l’analisi dei casi per migliorare i livelli di qualità e sicurezza e una consapevolezza di quanto elementi organizzativi, come la comunicazione, siano strategici per la gestione del rischio clinico.Un monitoraggio nel tempo, realizzato con somministrazioni suc-cessive dello stesso questionario, può aiutare a comprendere lo sviluppo della cultura della sicurezza nel gruppo, soprattutto a seguito di interventi formativi e organizzativi riguardanti la ge-stione del rischio clinico e la sicurezza del paziente.

Secondo lei, qual è la causa principale degli EA

Grafico 14. Cause che generano gli eventi avversi

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RITARDO DIAGNOSTICO-TERAPEUTICO IN PAZIENTE AF-FETTO DA UNA GRAVE FORMA DI ERITRODERMIA Esempio di caso studio analizzato secondo l’approccio si-stemico nell’ambito del corso di formazione

Tommaso BellandiCentro per la Gestione del Rischio Clinico e la Sicurezza del Pa-ziente, Regione Toscana

PremessaIl caso discusso è una versione modificata di un evento avverso di ritardo diagnostico-terapeutico realmente accaduto, riportato dai partecipanti al corso. A tutela della confidenzialità di operatori e pazienti il caso è sta-to trattato omettendo i riferimenti specifici alle persone e alle circostanze in cui sono avvenuti i fatti. Nella presente trattazio-ne si illustra pertanto soltanto un’astrazione delle fasi principali nella gestione del paziente, utili a riflettere su alcune criticità e su azioni per il miglioramento della sicurezza dotate di una ge-neralizzabilità sostanziale ad altre situazioni cliniche, tipiche del lavoro quotidiano dei medici omeopati, e per alcuni aspetti anche dei fitoterapeuti. Nell’ambito del corso il caso è stato presentato e analizzato se-guendo l’approccio sistemico, secondo il metodo dell’audit su eventi significativi in cui si procede dalla descrizione della cro-nologia dei fatti principali, all’analisi delle criticità e, infine, alla proposta di azioni di miglioramento.

Cronologia dei fatti principaliUn uomo di 45 anni in trattamento da circa un anno con terapia cortisonica, prescritta da un dermatologo per una diagnosi di der-matite, decide di sospendere autonomamente la terapia che dava remissione solo durante i cicli di trattamento per poi ricomparire. A 15 giorni dalla sospensione della terapia cortisonica, l’uomo decide di rivolgersi a un medico omeopata, presso il suo ambula-torio privato, per una verifica della diagnosi e per valutare tratta-menti alternativi. Durante la visita riferisce al medico l’interruzio-ne volontaria della terapia cortisonica, a causa della percezione di inefficacia e di effetti collaterali. Il paziente spiega al medico di aver sofferto di insonnia e di grande ansia in concomitanza con la dermatite e con l’assunzione dei farmaci. Il medico prescrive

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Corso di formazione

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una cura omeopatica per il trattamento della dermatite e delle problematiche a essa correlate.Venti giorni dopo la visita, il paziente telefona al medico per av-visarlo di un aggravamento della sintomatologia cutanea, con diffusione delle chiazze in ampie aree del corpo. Il paziente in quel momento era in vacanza all’estero e non poteva recarsi di persona dal medico, il quale valuta che l’aggravamento è troppo lungo per essere imputabile al rimedio omeopatico, suggerisce di continuare la terapia omeopatica ed eventualmente di riprendere la terapia locale cortisonica se la situazione sembra aggravarsi troppo.Trascorsi altri 10 giorni, al ritorno dalle vacanze estive, il paziente si reca nuovamente dall’omeopata, il quale riscontra una situa-zione molto più grave di quella descritta nelle telefonate, con una possibile evoluzione in eritrodermia, dimagrimento ed ede-ma leggero a piedi e caviglie, che non impediva però di calzare le scarpe. Il paziente riferiva inoltre di aver sofferto, durante la vacanza, di incubi che, una volta rientrato a casa, erano scom-parsi. Valutando la gravità della situazione e le condizioni generali comunque discrete, il medico prescrive rimedi omeopatici “acuti”, raccomandando comunque al paziente di tenerlo costantemente aggiornato sull’evoluzione del caso.Tre giorni dopo, il medico si mette in contatto telefonico con il pa-ziente, il quale riferisce che i rimedi somministrati non hanno né migliorato né peggiorato la situazione. A questo punto il medico raccomanda al paziente, sempre telefonicamente, di eseguire con urgenza una serie di esami ematochimici e delle urine per accer-tare rapidamente la situazione.A questo punto il paziente decide di consultare un altro medi-co omeopata, che va a visitarlo a domicilio una settimana dopo la visita precedente e riscontra una grave dermatite sull’intera superficie corporea con secrezione purulenta in alcune aree. Il paziente appare defedato, disidratato e febbricitante e mostra in modo chiaro i segni di una grave forma di eritrodermia. Viene quindi disposto il ricovero d’urgenza. Il paziente viene ricoverato e si conferma sia la compromissione dello stato generale sia lo stato setticemico acuto con epato-sple-nomegalia e valori inferiori alla norma delle proteine totali e va-lori al limite dell’albuminemia. Nel corso della degenza il paziente è sottoposto a terapie infusionali con antibiotici, albumina, solu-zioni idroelettrolitiche, a bagni emollienti e con permanganato di

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potassio e ad applicazione di creme idratanti. Viene dimesso dopo circa 10 giorni, in buone condizioni. In seguito l’uomo decide di querelare il primo omeopata per i presunti errori nel trattamento della dermatite acuta e nella diagnosi del suo aggravamento.

Analisi delle criticitàNella valutazione del rischio riguardante un caso clinico si consi-derano le criticità connesse con il fattore umano, il fattore tecno-logico e il fattore organizzativo che hanno contribuito a determi-nare l’evento avverso. Per il fattore umano andiamo a considerare innanzitutto i fattori relativi alle decisioni e azioni compiute dagli operatori sanitari intervenuti nella gestione del caso. Dalla cronologia dei fatti prin-cipali non emergono errori particolarmente rilevanti. È tuttavia possibile, con il senno di poi, sostenere che il primo medico omeo-pata, in occasione della seconda visita al paziente, avrebbe po-tuto richiedere gli esami di laboratorio per accertare le eventuali infezioni in corso, in considerazione dell’aggravamento della der-matite e della possibile sovrainfezione. Inoltre, anziché comuni-care telefonicamente la necessità di eseguire gli esami tre giorni dopo la visita, il medico avrebbe potuto rivalutare il paziente di persona. In entrambe le situazioni, il medico ha commesso un errore di re-gola, poiché ha applicato uno schema decisionale rigido che lo ha portato a concentrarsi sul trattamento della sintomatologia cuta-nea cronica e sui problemi ad essa correlati, invece di considerare il possibile rischio infettivo esplicitato solo nell’ultima telefonata. Sempre riguardo al fattore umano, nel caso in questione sono evidenti anche alcuni fattori contribuenti connessi con il paziente e con il suo ambito familiare. Questi hanno, a loro volta, sotto-valutato l’aggravamento delle condizioni cliniche rifiutandosi di applicare il suggerimento di utilizzare la terapia cortisonica locale al momento della diffusione delle chiazze, durante il periodo di vacanza all’estero. Anche il paziente si è ancorato alla sua deci-sione di rifiutare la terapia cortisonica senza riconsiderare il no-tevole aggravamento della sua situazione e il suggerimento del medico omeopata.Da un punto di vista organizzativo, con questo caso clinico emer-gono chiaramente i limiti del follow-up telefonico, poiché nella presa in carico di un paziente affetto da un disturbo di tipo cronico è mancata una chiara programmazione delle visite successive alla

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prima. L’assenza di questa programmazione avviene in un con-testo di visita ambulatoriale estemporanea in cui non è neppure definito chiaramente un progetto terapeutico, né un consenso in-formato. Sono inoltre presenti difetti nella comunicazione tra il primo medico omeopata e il paziente, in quanto la comunicazione telefonica non è efficace in due situazioni distinte: né al momento della telefonata durante le vacanze, né dopo la seconda visita il paziente segue le indicazioni del medico. Questo comportamento indica probabilmente l’assenza di un rap-porto di fiducia tra medico e paziente, condizione preliminare sia per la condivisione di un progetto terapeutico, sia per la possi-bilità del medico di affidarsi al giudizio autonomo del paziente in merito alla gravità delle proprie condizioni cliniche. Per quanto riguarda i fattori tecnologici, si è di fronte a un ec-cesso di fiducia del medico nell’utilizzo del telefono per la verifica delle condizioni del paziente e la prescrizione delle indicazioni per gli accertamenti diagnostici al momento della telefonata seguita alla seconda visita. In considerazione di quanto era accaduto in precedenza, il medico avrebbe, infatti, potuto decidere di com-piere una nuova visita, oppure valutare la possibilità di seguire il paziente a distanza in prima battuta, con l’invio di immagini digitali dell’edema alle caviglie e della dermatite.

Azioni di miglioramentoUna lista preliminare di azioni di miglioramento per ridurre i rischi associati alle criticità sopra descritte è la seguente:

la formazione continua dei medici omeopati sulla gestione del-- le possibili complicanze della sintomatologia cutanea; la predisposizione di protocolli terapeutici aggiornati per il trat-- tamento delle patologie croniche, che prevedano nello speci-fico la raccolta del consenso informato, la programmazione delle visite di follow-up, materiale informativo per i pazienti sulla sicurezza nell’utilizzo delle terapie omeopatiche, in modo da garantire e documentare l’effettiva presa in carico del pa-ziente da parte del medico omeopata;nel caso di impossibilità di contatto diretto con il paziente, per - periodi brevi, l’eventuale impiego di tecnologie web-based per il telemonitoraggio dei pazienti e per l’eventuale prescrizione scritta a distanza di farmaci e/o indagini diagnostiche.

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Schede tecniche e applicative

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APPLICAZIONE DELLA FMEA AI PERCORSI DI TRATTAMEN-TO PRESSO L’AMBULATORIO DI MTC FIOR DI PRUGNA

Petra ScrivaniCentro per la Gestione del Rischio Clinico e la Sicurezza del Pa-ziente, Regione Toscana

Un esempio di come la tecnica FMEA si possa applicare anche ai percorsi terapeutici di medicina complementare, è rappresentato dai risultati di un’analisi dei rischi condotta durante un incontro del corso di formazione oggetto di questa pubblicazione.Il gruppo di lavoro era costituito in prevalenza da medici e fisio-terapisti dell’ambulatorio di MTC Fior di Prugna dell’Azienda sa-nitaria di Firenze, ma anche da operatori di altre realtà sanitarie toscane.Il primo passo è stato quello di identificare le fasi del percorso selezionato (vedi tab.1) e rappresentarle graficamente (fig.1).

Tabella 1. Fasi del percorso di trattamento presso ambulatorio Fior di Prugna

Fase numero Descrizione sintetica

1 Prenotazione della visita

2 Raggiungere l’ambulatorio

3 Primo incontro

4 Prima visita

4.1 MTC e agopuntura

4.2 Auricoloterapia

4.3 Percorsi specifici

5 Visite successive

6 Visite urgenti

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Corso di formazione

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Figura 1. Percorsi terapeutici al Fior di Prugna

Si è quindi deciso di focalizzare l’analisi sul percorso “MTC e Ago-puntura” (lista lepre).Per ognuna delle fasi del percorso il gruppo di lavoro ha identificato:

le attività e gli operatori coinvolti;- i problemi e le criticità che, sulla base dell’esperienza persona-- le, gli operatori ritengono possano presentarsi svolgendo que-ste attività;le cause principali dei problemi;- le conseguenze di questi problemi sulla salute del paziente, - sull’efficienza ed efficacia del servizio e della terapia.

A ogni problema identificato è stato assegnato un valore:Frequenza (F), cioè la possibilità che il problema occorra real-- mente;Gravità (G) delle conseguenze del problema;- Identificabilità (I), cioè la facilità dell’operatore o del sistema - di rilevare il problema.

La scala utilizzata per assegnare i valori è riportata in tabella 2.

Tabella 2. Scale di valori

Scala 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10Frequenza Non succede mai Succede

sempreGravità Non ha alcuna

gravitàÈ gravissimo

Identificabilità È immediata-mente rilevabile

Non vi è alcuna possibilità di rilevarlo

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Schede tecniche e applicative

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Quindi è stato calcolato l’IPR (Indice di Priorità del Rischio), cioè il prodotto dei valori assegnati a Frequenza, Gravità e Identifica-bilità (FxGxI).Il risultato di questo lavoro è rappresentato nella seguente ta-bella.

Tabella 3. Valore IPR

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Corso di formazione

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Schede tecniche e applicative

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Infine, le attività e i relativi problemi sono stati ordinati sulla base del valore IPR assegnato dal gruppo di lavoro.Nella tabella 4 sono riportati i 5 problemi (su 14 identificati) con il più alto valore di IPR (da soli rappresentano più del 60% del valore IPR totale).Si tratta dunque dei primi problemi da affrontare per individuare le azioni di miglioramento per il percorso MTC presso l’ambulato-rio Fior di Prugna.

Tabella 4. Problemi ad alto valore IPR

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Corso di formazione

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Formazione e medicine complementari: il ruolo dell’Agen-zia per la Formazione Azienda USL 11 Empoli

Il tema delle medicine complementari interessa l’Agenzia per la Formazione sin dagli anni ’90, quando interviene con percorsi di formazione sia multiprofessionali sia monoprofessionali.In particolare, la formazione si è rivolta sia a medici, farmacisti e professioni sanitari sia agli operatori dell’area benessere con l’obiettivo di promuovere la disciplina all’insegna di una forma-zione di qualità che valorizzi i percorsi comuni mantenendo le differenze professionali.È ormai un concetto acquisito anche nella cultura occidentale che l’approccio nei confronti della salute non è ben finalizzato, se le sue componenti tecniche e professionali non vengono gestite te-nendo in considerazione la totalità dell’individuo che risulta es-serne la parte attiva.Da ciò deriva l’esigenza di approfondire i principi basilari secondo i quali mente e corpo sono inscindibili e che l’individuo deve es-sere preso in considerazione nella sua piena totalità. Ecco perché le medicine complementari parlano di molteplicità d’intervento e di approccio olistico.Da questo, e per la presenza nell’Azienda USL 11 di Empoli del Centro Clinico di Medicina Naturale, è scaturita la possibilità di collaborare per l’organizzazione di attività formative nell’ambito della medicina complementare, in grado di sviluppare i molteplici approcci delle terapie oggi più utilizzate. Valorizzando quest’approccio è nata la collaborazione per l’orga-nizzazione del corso regionale “Sicurezza dei pazienti e gestione del rischio clinico in medicina complementare”, promosso dalla Rete Toscana di Medicina Integrata.Ad oggi, molteplici sono stati gli interventi formativi volti a svi-luppare competenze specifiche nell’ambito della clinica e della diagnosi, nonché della ricerca sugli eventi avversi relativi all’uso dei prodotti naturali.Tra le tematiche citiamo corsi quali: Fitovigilanza, Fitoterapia clini-ca, Fitoterapia in oncologia, in ostetricia, Prodotti estetici, Prodotti di erboristeria, Pratiche integrative nei percorsi assistenziali…Inoltre, sono stati organizzati numerosi incontri internazionali e nazionali sulle tematiche delle medicine integrative.

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Schede tecniche e applicative

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Conclusioni

Poche parole a conclusione di questo lavoro comune che riprende e chiarisce quanto è stato fatto all’interno del Corso di formazione “Sicurezza dei pazienti e gestione del rischio clinico in medicina complementare”. Un’iniziativa formativa che, ricordiamo, ha affrontato per la prima volta questi temi in Italia e probabilmente in Europa.L’obiettivo del corso, come è stato affermato nell’introduzione a questo volume e negli interventi riportati al suo interno, era avviare un programma di gestione del rischio clinico a partire da un’analisi delle pratiche di lavoro reali all’interno delle strutture sanitarie di riferimento per le medicine complementari. Il corso non si è posto però soltanto obiettivi teorici e culturali, ma ha voluto entrare nel merito e definire per l’immediato futuro un piano operativo rivolto all’intera struttura della Rete Toscana di Medicina Integrata, per rendere costanti e quotidiane le attività di controllo e di verifica delle misure adottate, nelle strutture sanitarie pubbliche, per la sicurezza dei pazienti e la riduzione del rischio nella pratica clinica. Abbiamo verificato che sono diversi i livelli di rischio, dalla potenziale tossicità dei prodotti fitoterapici, alla possibilità di errore nell’esecuzione di atti terapeutici come la manipolazione vertebrale o l’infissione degli aghi, fino al problema dei problemi, e cioè la sostituzione della cura, un intervento che nella casistica recente ha chiamato in causa, anche impropriamente, l’omeopatia e la medicina ayurvedica.Tornando al corso, si trattava dunque di cercare di preparare gli operatori a lavorare “in sicurezza” innanzitutto nelle strutture pubbliche che erogano prestazioni di medicina complementare, perché proprio in queste strutture i cittadini accedono prima di tutto perché si sentono rassicurati. È questa sicurezza che vogliamo offrire ai cittadini, riducendo al massimo il rischio, peraltro mai completamente eliminabile, di incorrere in scelte terapeutiche sbagliate. Per questa ragione abbiamo cercato di affrontare la pratica clinica delle medicine complementari, il mondo reale della terapia e di definire i criteri più appropriati per la valutazione del rischio iniziando a realizzare un primo monitoraggio dei percorsi diagnostico-terapeutici. È risultata chiara e forte la necessità, sempre presente e affermata

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Corso di formazione

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anche dal Codice deontologico, di ottenere un consenso realmente informato da parte del paziente, un consenso dunque che non sia solo l’espletamento burocratico di un atto formale finalizzato a ottenere una, presunta, maggiore tutela legale. L’alleanza terapeutica che si realizza, se non sempre molto spesso, fra il medico e il paziente nell’ambito delle medicine complementari, come il dialogo e la comunicazione tra l’utente e l’operatore sanitario, è un fatto peculiare e significativo nel panorama sanitario attuale e rappresenta al tempo stesso l’unica vera garanzia per il cittadino, l’unico baluardo per evitare di ridurre ogni atto terapeutico a semplice medicina difensiva.Per anni il settore delle medicine prima definite “non convenzionali”, poi “complementari” e ora in qualche situazione davvero “integrate o integrative”, ha vissuto in un mondo parallelo, separato dal resto. Certo, è accaduto poiché queste medicine sono state rifiutate, osteggiate, accusate di non produrre prove di efficacia, di non sottostare ai paradigmi scientifici della medicina basata sull’evidenza. Oggi si va affermando un modo nuovo e diverso di concepire la pratica clinica non convenzionale, dove emerge il ruolo “complementare di queste medicine piuttosto che l’elemento di “alternativa” ideologica nei confronti della medicina convenzionale. Questa nuova visione comprende anche la necessità di svolgere un ruolo sociale a tutela della persona di fronte all’invadenza di una medicina sempre più tecnologicizzata. Tutto questo richiede un’attualizzazione del confronto, un rapporto dinamico con la complessità dei problemi che la società moderna pone soprattutto in campo sanitario.La Regione Toscana, dopo avere messo a punto un modello originale e finora unico nel panorama nazionale, di integrazione delle medicine complementari nel proprio sistema sanitario, oggi punta alla qualità delle prestazioni e alla sicurezza dei pazienti non solo con iniziative specifiche di formazione, come questo corso, ma soprattutto con la regolamentazione regionale e il riconoscimento dei percorsi formativi, garantendo così al meglio la qualità della preparazione professionale.

Garantire sicurezza e ridurre il rischio clinico significa affrontare la sfida del confronto e uscire allo scoperto, lasciare i fondi marini e riemergere in superficie. Significa affrontare con coraggio le criticità del nostro operare sapendo che l’errore medico si può e si deve combattere con le armi dell’analisi, dell’audit, per dirla con il

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linguaggio tecnico che abbiamo appreso nel corso, e soprattutto con gli strumenti della discussione e del confronto professionale.Oggi a livello internazionale e nazionale la sicurezza dei pazienti è una priorità di politica sanitaria. Per questo la Regione Toscana ha avviato dal 2004 un programma di gestione del rischio clinico rivolto agli operatori e al management delle aziende del servizio sanitario regionale. Le attività coordinate dal Centro Gestione Rischio Clinico e Sicurezza del Paziente hanno riguardato l’organizzazione di un sistema per l’identificazione e l’analisi del rischio, nonché lo sviluppo di buone pratiche per la sicurezza dei pazienti, cioè di soluzioni operative per contenere il rischio nei diversi luoghi dell’assistenza sanitaria. Il corso è stato pensato e organizzato per essere il primo passo nell’estensione del sistema di gestione del rischio clinico alle medicine complementari, tenendo in considerazione le loro specificità e la progressiva, non sempre semplice, integrazione con i percorsi assistenziali tradizionali. La gestione del rischio clinico è basata su un approccio sistemico all’analisi dell’errore e alla promozione della sicurezza, focalizzato sull’analisi delle interazioni tra i fattori umani, tecnici e organizzativi che concorrono a determinare la performance dei servizi sanitari. Questo approccio è sufficientemente ampio da poter contemplare le pratiche delle medicine complementari, pertanto i risultati del corso ci pongono adesso la sfida di realizzare ricerche e interventi per lo studio e lo sviluppo della sicurezza dei pazienti anche in questo settore. Visto l’entusiasmo dei partecipanti al corso, le premesse sono incoraggianti.

Elio RossiTommaso Bellandi

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Modulo a griglia diinformazione e consenso

informato

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Ringraziamenti

Sono molte le persone che, in vario modo, hanno contribuito a realizzare questa pubblicazione. Ad esse vanno i ringraziamenti più sinceri per le idee e le riflessioni che hanno apportato. Grazie in primo luogo a tutti i docenti e relatori e ai partecipanti al Corso di formazione “Sicurezza dei pazienti e gestione del rischio clinico in medicina complementare”, e in particolare a Katia Vuono e Federica Sabatini, medici presso il centro di MTC Fior di Prugna dell’Azienda Sanitaria di Firenze, per il lavoro sulla scheda di applicazione della tecnica FMEA al percorso di trattamento presso il Fior di Prugna. Francesca Ruberti, dello studio Flu di Pisa, e Carmela Leone, dell’Ambulatorio di Omeopatia della Azienda USL 2 di Lucca, hanno svolto un paziente lavoro di trascrizione delle lezioni. A loro un affettuoso ringraziamento. Grazie anche a Paolo Fedi, del centro di MTC Fior di Prugna, a Luca De Grandis di Eureka srl di Lucca per l’attività di coordinamento, a Sirio Del Grande, Annarita Tognetti e Franco Bocchi dell’Azienda USL 2 di Lucca, ad Alessandro Mancini e Benedetta Novelli, dell’Agenzia per la formazione della Azienda USL 11 di Empoli, e a Cristina Francesconi, della Tipografia Francesconi di Lucca, che ha curato il progetto grafico e l’impaginazione.

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Contatti

Per stabilire rapporti di collaborazione si possono contattare i Centri di

riferimento per le medicine complementari della Regione Toscana:

Ambulatorio di omeopatia Azienda USL 2 Lucca

Ospedale Campo di Marte

Padiglione B - 3° piano

55100 Lucca

Tel. 0583 449459 - Fax 0583 970618

Rif. Elio Rossi [email protected]

Centro di Medicina Tradizionale Cinese

“Fior di prugna” - Azienda sanitaria Firenze

Via Pistoiese 185

San Donnino, Campi Bisenzio

50013 Firenze

Tel. 055 894771 - Fax 055 8996508

Rif. Sonia Baccetti [email protected]

Centro di Medicina Naturale - Azienda USL 11 Empoli

Ospedale S. Giuseppe

�iale Boccaccio, Blocco H - 3° piano

50053 Empoli

Tel. 0571 702601 - Fax 0571 702639

Rif. Fabio Firenzuoli [email protected]

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Finito di stampare il mese di maggio 2010

da Tipografia Francesconi - Lucca