SGiornale di oria costituzionale · Storia, politica, costituzione ... Habermas e il paradigma...

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Contributi di Giovanni Busino, Luca Scuccimarra, Alain Laquièze, Monica Raiteri, Roberto Martucci, Lucien Jaume, Esteban Conde Naranjo, Michel Porret, Ignacio Villaverde, Ignacio Fernàndez Sarasola, Alessandro Torre, Luca Mannori, Luigi Lacchè, Anna Gianna Manca, Monica Stronati, Pasquale Beneduce Opinione pubblica Storia, politica, costituzione dal XVII al XX secolo PERIODICO DEL LABORATORIO DI STORIA COSTITUZIONALE ANTOINE BARNAVEn. 6 / II semestre 2003 Giornale di S t oria costituzionale

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Contributi di Giovanni Busino, Luca Scuccimarra, Alain Laquièze, Monica Raiteri,Roberto Martucci, Lucien Jaume, Esteban Conde Naranjo, Michel Porret, IgnacioVillaverde, Ignacio Fernàndez Sarasola, Alessandro Torre, Luca Mannori, Luigi Lacchè,Anna Gianna Manca, Monica Stronati, Pasquale Beneduce

Opinione pubblicaStoria, politica, costituzione

dal XVII al XX secolo

PERIODICO DEL LABORATORIO DI STORIA COSTITUZIONALE “ANTOINE BARNAVE” n. 6 / II semestre 2003

Giornale diStoriacostituzionale

Storiacostituzionale

n. 6 / II semestre 2003

Giornale di

In copertina: schema della Camera dei Deputati con l’indicazione dei nomie del rispettivo colore politico, apparso su la rivista «Il fischietto», 1861

Giornale di Storia costituzionale

Periodico del “Laboratorio Antoine Barnave”

n. 6 / II semestre 2003

Direzione

Giuseppe G. Floridia, Luigi Lacchè, Roberto Martucci

Comitato scientifico

Bronislaw Baczko (Ginevra), Giovanni Busino (Losanna), Francis

Delperée (Lovanio), Alfred Dufour (Ginevra), Lucien Jaume (Parigi),

Michel Pertué (Orléans), Joaquín Varela Suanzes (Oviedo)

Comitato di redazione

Paolo Colombo, Federico Lucarini, Giovanni Ruocco, Luca Scuccimarra

Segreteria di redazione

Ronald Car, Roberta Ciaralli, Gerri Ferrara, Marco Fioravanti, Simona

Gregori, Alessandro Macrì, Paola Persano, Monica Stronati, Maria

Valvidares

Direzione e redazione

Laboratorio di storia costituzionale “A. Barnave”

Università di Macerata

piazza Strambi, 1 – 62100 Macerata,

tel. +39 0733 258724; 258775; 258365

fax. +39 0733 258777

e-mail: [email protected]

I libri per recensione, possibilmente in duplice copia, vannoinviati alla Segreteria di redazione.La redazione si rammarica di non potersi impegnare a restituire idattiloscritti inviati.

Direttore responsabile

Angelo Ventrone

Registrazione al Tribunale di Macerata

n. 463 dell’11.07.2001

Edizione e distribuzione ⁄Publisher and Distributor

Quodlibet edizioni

via padre Matteo Ricci, 108

62100 Macerata

tel.+39 0733 264965

fax +39 0733 267358

e-mail: [email protected]

ISBN 88-7462-012-8ISSN 1593-0793

Progetto grafico

Augusto Wirbel

Tipografia

Litografica Com, Capodarco di Fermo (AP)

La rivista è pubblicata con un finanziamento dell’Università di Mace-rata e con un contributo del Dipartimento di diritto pubblico e teo-ria del governo.

Finito di stampare nel mese di febbraio 2004

Prezzo di un fascicoloeuro 15,49;arretrati, euro 22;Abbonamento annuo (due fascicoli)/ Subscription rates (two iusses)Italia, euro 25,82; Unione europea, euro 36,15; U.S.A. e altri Stati,euro 55;

Pagamento:A mezzo conto corrente postale n. 14574628 intestato a Tempi provinciali soc. coop. a.r.l., via p. Matteo Ricci, 108 - 62100 Macerata;Con assegno bancario, con la stessa intestazione;Tramite bonifico bancario: Banca delle Marche cc. 13004ABI 6055 CAB 13401con Carta Visa, inviando, tramite fax o e-mail, i propri dati, numerodella Carta e le ultime quattro cifre della data di scadenza.

Payments:By bank transfer: Banca delle Marche cc. 13004 ABI 6055 CAB 13401 Swift BAMA IT 3A001By Credit Card (Visa): please send by fax or e-mail the Credit Cardnumber and the last four digits of expiration date.

Gli abbonamenti non disdetti entro il 31 dicembre si intendono rin-novati per l’anno successivo.

Sommario

giornale di storia costituzionale n. 6 / II semestre 2003

5 Introduzioneluigi lacchè

Intersezioni

17 Alla ricerca d’una teoria dell’opinionepubblicagiovanni busino

35 La trasparenza del politico. Habermas eil paradigma della sfera pubblicaluca scuccimarra

61 L’opinion publique des juristesalain laquièze

73 Opinione pubblica e processi regolati-vi: teorie e interpretazioni costituzio-nali nella vicenda americana degli«economic rights»monica raiteri

Ricerche

97 Opinion frondeuse, opinion éclairée, opinionpublique nella Francia di Antico regimeroberto martucci

129 Tra concetto e idea-forza: l’opinionepubblica secondo Neckerlucien jaume

145 Cultivar la opinión, una metáfora de laEspaña ilustradaesteban conde naranjo

163 Censure et opinion publique dans laRépublique de Genève au siècle desLumièresmichel porret

Itinerari

181 Historia de una paradoja: los oríginesde la libertad de expresiónignacio villaverde

195 Opinión pública y «libertades deexpresión» en el constitucionalismoespañol (1726-1845)ignacio fernàndez sarasola

217 Le ipostasi costituzionali della societàcivile britannicaalessandro torre

Sommario

243 La crisi dell’ordine plurale. Nazione ecostituzione in Italia tra Sette e Ottocentoluca mannori

273 Per una teoria costituzionale dell’opi-nione pubblica. Il dibattito italiano (XIXsecolo)luigi lacchè

291 Pubblicità e organizzazione del lavoroparlamentare nella Germania costituzio-nale (1815-1918)anna gianna manca

315 L’originalità dell’informazione politicaitaliana: pubblicità parlamentare e opi-nione pubblica nel XIX secolomonica stronati

333 Cause in vista. Racconto e messa in sce-na del processo celebrepasquale beneduce

Cronache italiane

347 Avvocati in Parlamento, centocinquan-t’anni orsono…

Non sono le forme che conservano le costituzio-ni; una costituzione non dura senza opinionepubblica, e non c’è opinione pubblica senza liber-tà di stampa. Quando questa libertà è soffocata, igrandi corpi dello Stato sono come masse isolatedalla nazione, senza vita e senza reale forza…

Questa affermazione di Benjamin Con-stant ha rappresentato uno dei punti di par-tenza per il lavoro collettivo raccolto nelpresente numero monografico. Dopo fasci-coli miscellanei o al più con sezioni mono-grafiche ecco arrivare – alla fine del primotriennio di vita della rivista – un numerointeramente dedicato ad un tema-chiave.Così facendo, il «Giornale» si “trasforma”– come accadrà ancora in futuro – in unvolume dotato di autonomia e destinato,sperabilmente, a durare nel tempo, oltre itermini consueti di ogni rivista periodica.

Il tema prescelto – l’opinione pubblica –è apparso fin dall’inizio particolarmente ido-neo a verificare un tipo di indagine che il«Giornale» si è proposto di secondare dalsuo nascere, ovvero una lettura ricca, poli-fonica, multidisciplinare del fenomeno

costituzionale. Il sottotitolo di questo nume-ro («Storia, politica, costituzione (secoliXVII-XX)») ha cercato di tracciare le princi-pali coordinate entro le quali gli autori sonostati chiamati a dare il loro specifico contri-buto. Non si trattava di ripercorrere – sullascorta del celebre saggio habermasiano – ildifficile (e discutibile) percorso storico del-l’opinione pubblica. Se questo, come sivedrà, era un passaggio ineludibile, nondi-meno l’intenzione era un’altra, ovvero sag-giare, da vari punti di osservazione, del pre-sente e del passato, quella che ci piace defi-nire la “rilevanza costituzionale” dell’opi-nione pubblica, nel senso offertoci – agli ini-zi del XIX secolo – dal ricordato passo di Ben-jamin Constant. Una costituzione non durasenza opinione pubblica.

Lo scrittore svizzero – tributario del libe-ralismo di Coppet – individua nella libertà distampa il pilastro fondamentale del rappor-to tra istituzioni e opinione pubblica. Natu-ralmente parliamo della libertà di stampacostantemente minacciata dai governi nellaFrancia della Restaurazione. Joseph Barthé-

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Introduzione

luigi lacchè

giornale di storia costituzionale n. 6 / II semestre 2003

lemy ha osservato come nel XIX secolo «Lavera sanzione delle leggi costituzionali stavanel controllo dell’opinione pubblica costan-temente tenuta desta dalla libertà di stam-pa» (Lacchè 2003). Nella frase di Constant sipossono quindi cogliere preoccupazioni,ragioni e spunti analitici che in qualche modopercorrono questo numero del «Giornale distoria costituzionale». Oggi la conservazionedella costituzione è un problema che ha inparte perduto il carattere e il significato pre-gnante che poteva avere per i liberali del-l’Ottocento. E tuttavia, il timore di fondo èintegralmente il nostro. Chi non dubita oggidella piena efficacia degli strumenti costitu-zionali e legislativi nella salvaguardia di quel-la libertà di informazione che in ogni suoaspetto è il ganglio delle nostre società domi-nate da uno straordinario arsenale di mezzidi comunicazione di massa? Malgrado ciò,non sempre il problema dell’opinione pub-blica viene ricollegato – come si dovrebbefare – a quel concetto di rilevanza costituzio-nale (o storico-costituzionale) che abbiamoassunto a fondamento di questo fascicolo.

Il fatto che i giuristi, nella loro genera-lità, si siano occupati sempre meno dell’o-pinione pubblica (come questione essen-zialmente extra-costituzionale) rappresen-ta un impoverimento, perché denuncia ladifficoltà di leggere il mondo delle normegiuridiche alla luce della complessità deifenomeni sociali (Laquièze)1. Il “ritorno”al problema dell’opinione pubblica nelcontesto del costituzionalismo modernoevidenzia minacce ulteriori e pressanti chele “forme” – direbbe Constant – nonriescono, da sole, a governare.

Il numero che presentiamo non ha cer-to la pretesa di esaurire una questione cherischia di diventare un riferimento troppogenerale ed astratto, una sorta di luogo

comune “aperto” e in quanto tale disponi-bile ad accogliere i più svariati contenuti esignificati. La natura straordinariamenteambigua e polimorfica dell’opinione pub-blica – per alcuni tratti addirittura inaffer-rabile – rende più difficile ogni tentativo.Nel momento stesso in cui licenziamo ilvolume aumentano i dubbi e ci rendiamoconto delle lacune e di quanto si sarebbepotuto fare in un senso o in un altro. Lo sco-po del numero monografico, tuttavia, eraquello più modesto di offrire un terrenocomune di riflessione, di aprire un cantierenel quale continuare a lavorare e saggiareforme e modi di sviluppo e di articolazionedell’opinione pubblica con particolare rife-rimento alle sue espressioni costituzionali.

È stata sottolineata l’importanza delmodello critico-ricostruttivo di Habermas(Scuccimarra), ma non senza dimenticare diriflettere sui significati e gli scopi che l’auto-re ha annesso a quel modello nel corso dellasua perdurante attività di elaborazione. L’Öf-fentlichkeit – tradotta significativamentecome pubblicità, ma concettualizzata nei ter-mini di “sfera pubblica” in italiano o ingle-se e “spazio pubblico” in francese – è uno deifondamenti irrinunciabili della modernitàpolitica e si è rivelato un utile paradigmainterpretativo nell’analisi delle trasforma-zioni. È innegabile l’enorme influenza che letesi habermasiane hanno avuto sulla storio-grafia contemporanea, in termini di eviden-ziazione di oggetti d’indagine e di approccioal problema. Tutti e tre i termini del para-digma “sfera pubblica borghese” sono statifatti segno di analisi e di critica. Nel nostrocaso ci pare limitativa la tesi che ridimensio-na le logiche complesse del governo rappre-sentativo (di segno aristocratico-capacitarioprima, a tendenza democratica poi) a tuttofavore della preminente affermazione dei

Introduzione

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modi capitalistici di produzione correlati allacrescente politicizzazione della sfera pubbli-ca “letteraria”2. Del resto delineare la genea-logia dell’opinione pubblica attraverso treesperienze “forti” in una sorta di “staffetta”successiva (Inghilterra, Francia, Germania),lascia intravedere una gerarchizzazione e unamodellizzazione che rischiano di diventarefuorvianti se applicate senza mediazioni inaltri contesti. La scelta di privilegiare realtàpiù “decentrate” come la Spagna o l’Italia,soprattutto nel contesto ottocentesco, rap-presenta il tentativo di allargare gl’orizzontie di andare oltre il paradigma della “deca-denza” della sfera pubblica borghese lungoil XIX secolo, sia utilizzando l’osservatoriopolitico-costituzionale (Lacchè), sia spin-gendo sul registro di una storia sociale del-l’opinione pubblica (Civile 2000) in grado –ampliando la platea di soggetti, attori, lin-guaggi, pratiche – di mettere in discussione,al di là delle rappresentazioni, il dogma libe-rale dell’autonomia della società civile e del-la netta separazione tra sfera pubblica e sfe-ra privata3, pur avendo coscienza del ruolo dimediazione discorsiva che la sfera pubblicaavrebbe svolto in alcuni momenti.

Se uno dei campi di indagine da svilup-pare sembra pertanto quello della tarda etàliberale, non si può non riconoscere che ilproblema della comunicazione politica el’uso critico del concetto habermasiano disfera pubblica al ’600 inglese – per esempio– permettono di arricchire in misura note-vole la nostra prospettiva. Non è questo l’os-servatorio che abbiamo potuto privilegiarenel presente numero, ma senza dubbioappare con evidenza la difficoltà/impossi-bilità di declinare il concetto habermasianoin un contesto come quello dell’Inghilterradel XVII secolo caratterizzato da una “rivo-luzione comunicativa” nella quale è proprio

la “confusione” di religione, politica, pro-paganda, dibattito pubblico ecc. a segnarein profondità i caratteri del discorso e del-l’agire politico (Caricchio 2002; e le piùgenerali proposte metodologiche in Beni-gno 1995 e 1999). Nello stesso tempo non sideve giudicare un’opera come quella diHabermas sulla sola base della puntualitàstoriografica, giacché la ricostruzione sto-rica funge qui da base normativa per unarifondazione critica della politica e non sideve dimenticare la complessa genealogia –sul piano teorico-filosofico – della sua ope-ra (Scuccimarra).

L’opinione pubblica è il sintagma cheunisce e al tempo stesso pone in stato ditensione due universi. Per la tradizione del-la filosofia occidentale, l’opinione è sogget-tiva, particolare, casuale, immaginativa ecollide inevitabilmente con l’idealogico-razionale, oggettiva, di validità/veri-tà (Busino); ma nel momento in cui il pub-blico, attraverso varie forme di comunica-zione, la attrae a sé, la obbietivizza, la tra-sforma in strumento di giudizio, di ragionesociale, di categoria morale, essa tende amutare di senso, senza riuscire, tuttavia, asfuggire all’antinomia originaria. Opinio-ne/pubblica è la fonte del giudizio di ragio-nevolezza e del dubbio, della “verità” e del-la “falsità”, del bene e del male.

Come osserva Edmund Burke, «In unpaese libero ogni uomo pensa di avere inte-resse a tutte le questioni pubbliche, di ave-re il diritto di formarsi e di manifestareun’opinione su di esse. Egli le filtra, le esa-mina e discute. È curioso, assetato, attentoe geloso…». In Gran Bretagna la funzionecritica procede, pur non senza difficoltà(basti pensare al problema della libertà distampa e della pubblicità degli atti di gover-no), coi tempi della funzione politica istitu-

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zionalizzata (circuito politico-parlamenta-re). Le ipostasi costituzionali della societàcivile rivelano processi di lungo periodoincentrati anzitutto su tre pilastri: il sistemaparlamentare, gli apparati della giurisdizio-ne, il governo locale (Torre). In Francia lametafora del “tribunale” precede il dato isti-tuzionale e si esprime nel corso del Sette-cento come critica del public éclairé, dei phi-losophes più legati – come dirà Tocqueville –ad una «politica astratta e razionale».

La Francia di Antico Regime è un viva-cissimo laboratorio intellettuale: dall’opi-nion frondeuse di metà ’600 alla gradualematurazione, nel corso del secolo seguen-te, di una multiforme opinion publique. L’u-niverso gazzettiere e pamphlétaire rappre-senta uno spazio imprescindibile nella for-mazione ma anche nella precoce manipola-zione di un’opinion éclairée che intrecciadimensioni apparentemente lontane. Sitratti di Accademie, di ambienti parlamen-tari, di salotti, di caffé o di contesti politi-co-giudiziari, la Francia «pensa alle stessecose» e su di esse si trova a dover giudica-re (Martucci).

Un autore importante per capire i dilem-mi dinanzi ai quali si trova la monarchiafrancese nel Settecento è Jacques Necker,banchiere e uomo pubblico. L’esprit de socié-té e la conversation sono i canali di quella“simpatia” (mutuata dalla riflessione diHume e degli Scozzesi) che è il fluido dellanascente opinione pubblica. La retorica del“tribunale” è strettamente collegata all’ideagiudiziale del controllo costituzionale. L’o-pinione pubblica è così chiamata a riempi-re il “vuoto” che si è creato tra la monarchiae la nazione, ma nello stesso tempo essadeve poter indirizzare e se del caso “censu-rare” il governo. La fiducia/credito del ban-chiere è un binomio non lontano dalla fidu-

cia/responsabilità del sistema rappresenta-tivo (Jaume). Se Necker analizzerà durantela Rivoluzione il problema dell’opinione allaluce di una nuova e più complessa figura dicittadinanza (Martucci 1991), è indubbioche nella sua riflessione non si possa ritro-vare un’idea più avanzata di “governo delsentimento generale” riscontrabile invecenella riflessione di un personaggio comePierre-Louis Roederer (Jaume). La sua teo-ria dell’opinione pubblica (1797) proponeuna’analisi dei processi di azione-reazioneche ritroveremmo per esempio in un JamesBryce (Laquièze) e oggi richiamati dallemoderne teorie sulla “fabbricazione” del-l’opinione pubblica (Busino).

Se l’immagine retoricamente trionfantedel “tribunale dell’opinione pubblica”,istanza superiore, astratta, universale, rive-ste nella Francia settecentesca natura con-testativa, la costruzione di una sfera pubbli-ca è processo estremamente complesso efrastagliato. Nella Spagna dei Jovellanos, deiFeijoo, dei de Foronda, dei Florez Estrada(Conde, Sarasola) l’immagine del tribunaledeve fare i conti con un’altra metafora: il let-terato come “coltivatore dell’opinione pub-blica”. Questi tuttavia è solo un “colono”,perché il monarca resta l’unico proprietariodella “terra” (Conde). La censura, con le suestrategie sottili e diversificate, è il mezzo percontrollare e depotenziare l’“uso pubblico”della ragione, o quantomeno per ricondur-lo dentro i meccanismi della parola del pote-re legittimo, secondo un “progetto” benorchestrato. In tal senso l’analisi dei regimi(perduranti) di censura come ambiti dimediazione e controllo nel “mercato” dellastampa e del pubblico dei lettori rappresen-ta uno dei terreni più fertili nell’indaginestoriografica degli ultimi decenni e un fat-tore importante della rilettura critica del

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modello habermasiano (Landi 2000). Ilconcetto stesso di censura, misto di sanzio-ne morale, divieto giuridico e repressionepenale, dà il senso della sua poliedricità(Porret). Nella Ginevra dei Lumi i Procura-tori generali rappresentano il tribunalelegittimo di fronte a quello illegittimo (masempre più legittimato dal pubblico) dell’o-pinione. La lotta politica che contrassegnala storia ginevrina per gran parte del XVIIIsecolo e che investe la sua forma di governoaristo-democratica è nutrita da una straor-dinaria brochuromanie. Il droit de représenta-tion (da originario diritto di supplica) si raf-forza e ricorda in certe sue dinamiche queldroit de résistence – come diritto di parteci-pare attivamente – a cui il pacificoJean-Louis Delolme assegna nella Constitu-tion de l’Angleterre (cap. XXI) una funzionecentrale (Jaume). I processi, i roghi finisco-no per restituire, con gli interessi, al libel-lista anonimo o allo scrittore di vaglia (sipensi a Rousseau), quella pubblicità che lacensura vorrebbe negare (Porret). Non è lapolizia della stampa la via maestra per con-trollare il fenomeno, quanto piuttosto lacapacità dimostrata da un regime politico digovernare ed orientare il consenso.

Nei sistemi “costituzionali” fondati suuna prevalente concezione monistica delpotere (al di là degli schermi e delle giusti-ficazioni) l’opinione pubblica comincia adessere invocata come “contrappeso” dellasocietà colta e affluente per contrastaredall’“esterno” le derive assolutistiche deigoverni. In tal senso ci troviamo nel cuoredella storia del costituzionalismo modernoe in questo ambito gli studi sull’opinionepubblica potrebbero offrire un contributodi notevole rilievo. Questa concezioneessenzialmente “negativa” propria di unacultura embrionale del controllo e del limi-

te, inizierà a trasformarsi, in “positivo”, nelcorso del XIX secolo con la difficile fonda-zione di quei regimi rappresentativi (inrealtà anche molto diversi per forma esostanza) che in linea teorica riconosconoil principio del pluralismo delle opinioni edella libertà di stampa. Il liberalismo diCadice e la costituzione spagnola del 1812,per esempio, continuano ad affermare l’o-pinione pubblica come potenziale critica alpotere, ma si avviano sulla strada della suapositivizzazione (in termini di guida e diorientamento) (Sarasola). Le Cortes rivesto-no un ruolo cruciale nell’integrazione“costituzionale” dell’opinione pubblica.Tale momento, però, – e non solo in Spagna– segna un altro passaggio fondamentale. Sel’opinione è ormai istituzionalizzata nel Par-lamento ed il governo è by opinion, come siconcilia con l’idea esterna di “tribunale”?Questo passaggio frammenta il concetto diopinione e nel contesto dell’Ottocento spa-gnolo si può vedere quanto lo spazio dell’o-pinione pubblica e dei suoi mezzi “operati-vi” (in particolare della libertà di stampa) siallarghi o si restringa a seconda della diver-sa concezione della libertà che i progressi-sti, i moderati, i conservatori coltivano.

Le nozioni di pubblico (formato preva-lentemente da lettori liberi e raziocinanti) edi opinione pubblica possono egualmenterappresentare una lente privilegiata per cer-care di interpretare il difficile rapporto cheintercorre tra costituzione e nazione al tra-monto dell’ordine plurale della “società disocietà” (a cavallo tra la fine del ’700 e i pri-mi decenni dell’800). Le peculiarità, leimpasses e certi paradossi della vicenda “ita-liana” acquistano così nuova luce (Mannori).L’intellettuale “illuminista” (e poi il suo ere-de della Restaurazione) si trova in Italia adover fare i conti con spazi angusti, vivendo

Lacchè

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un duplice ostracismo, impostogli da unoStato troppo diffidente per aprirgli convinta-mente le porte e da una società civile compo-sita, frammentata, fragile, eteronoma. Ciòche di Breme scrive a Sismondi nel 1818 –riferendosi al tentativo di fondare un giorna-le letterario – è ben riassuntivo del problema:

Passe pour les frais; mais c’est qu’il n’y a rien d’or-ganisé, et que l’intention de ces Princes, d’isolerleurs sujets et d’entourer les rapports dans la pres-qu’île, se manifeste en toutes choses. Voilà un sujetà traiter sous le titre Du danger des communicationssociales au 19e siècle. Par un ami de l’ordre.[Lacchè 2001, p. 61]

Il 1848 nostrano impone una decisivaaccelerazione in termini di linguaggi e dipratiche. È necessario partire dall’irrisoltoproblema del come ricondurre il pluralismodelle “società” e delle opinioni (inevitabil-mente confliggenti) entro un nuovo ordine,da legare in maniera indissolubile ad unnuovo spazio pubblico – delineato lucida-mente da Cavour – costituzionale-rappre-sentativo, con al centro il ruolo cruciale, matutto da definire, di un’opinione pubblicanazionale (Mannori).

Nel corso dell’Ottocento si rafforza lariflessione sulla natura e sulla funzione del-l’opinione pubblica che si avvia a perdere ilcarattere di astrattezza e di universalità,eredità ideologica sei-settecentesca. L’o-pinione diventa indefinibile, si stenta acapire che cosa sia veramente. Nella cultu-ra liberale vengono elaborati modelli etipologie per cercare di “ordinare” unamateria tanto sfuggente. L’opinione deveessere libera, illuminata, perseverante,genuina. L’immagine del ceto medio iden-tificativo dell’opinione pubblica richiamaaltri miti, la gentry inglese (Torre) e la Bil-dungsbürgertum tedesca. La ricerca italiana

di una “classe politica”, in grado di assu-mere una funzione egemonica, ne è uno deiterreni privilegiati. La “tirannide borghe-se” vuole svelare confusamente le finzionidello Stato di diritto; la folla e il pubblicodei positivisti portano al tempo stesso lestigmate dell’atavismo e della barbarie maanche alcuni segni evidenti della moderni-tà. Certo, la stampa e il giornalismo hannolo straordinario potere di suggestionare,plasmare, guidare il pubblico verso “ogget-ti d’odio” ma anche di farlo ritornare suisuoi passi, come dimostra l’eclatante edrammatico affaire Dreyfus (Lacchè).

La libertà di stampa è – per riprendereConstant – la grande libertà dei moderni.L’opinione pubblica non ne può prescinde-re anche se il liberalismo, pur con qualcheeccezione, ne teme l’uso “volgare”, non“illuminato”. Il paradosso genetico tarderàa morire: più si afferma la libertà di opinio-ne e di stampa, più si fanno norme per con-tenere e punire gli “abusi”. Libertà più“censitaria” che naturale (Villaverde), tra-duce bene l’idea “qualitativa” dell’opinionepubblica (Sarasola) che attraversa tutto l’Ot-tocento. Senza dubbio la lettura ottocente-sca dello statuto ambiguo dell’opinione (seirrigimentata condannerà al fallimento ogniforma di «governo dei moderni»; se lascia-ta completamente libera di esprimersi potràalimentare pregiudizi, imporre abusi e unosterile conformismo, ovvero ostacolare ilgoverno nella salvaguardia stessa delle liber-tà) può fornire utili indicazioni.

Nell’analisi dei giuristi anglosassoni l’o-pinione viene ampiamente indagata nei suoiprocessi di formazione. Il fatto non meravi-glia essendo la società civile il punto diosservazione principale per intercettare einterpretare il senso delle trasformazionisociali e politiche (Torre). L’attività e la pas-

Introduzione

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sività delle classi sociali sono categorie uti-lizzate per capire la logica delle reciprocheinfluenze (Bryce). Anche un autore comeDicey si interroga sulla complessità di unfenomeno caratterizzato da orientamentidominanti ma anche da forti controcorren-ti (Laquièze). L’eminente giurista vittoria-no individua i tre stadi evolutivi dello svi-luppo giuridico e istituzionale dell’ultimosecolo di storia del proprio paese indivi-duando – secondo la tradizionale distinzio-ne – le relazioni tra il Parlamento e l’opi-nione pubblica, mostrandone però al tem-po stesso le complesse intersezioni (Torre).

Con grande evidenza emerge – su scalapiù ampia – una lettura otto-novecentescache riconduce il fenomeno a una logica tipi-camente elitaria. Questa prospettiva – scar-samente considerata dal modello haberma-siano – consente di rendere più articolato ilproblema della perdita di senso del dibatti-to razionale nelle società destinate alla con-dizione democratica (nel significato tocque-villiano). «Perciò l’uomo di Stato – osservaBluntschli – non deve dispregiare la pubbli-ca opinione, quantunque non sempre l’ap-provi. Egli deve averle riguardo non per lasua verità ma per la sua forza. Egli deve ado-perarsi d’illuminare la pubblica opinionequando gli è contraria per pregiudizî, e cor-reggerla quando è erronea» (v. Lacchè). Nonmeraviglia allora che il “governo di gabinet-to” appaia a taluni come un tentativo permediare tra la spinta “democratica” dellamaggioranza e la conservazione dell’indivi-duale, delle superiorità sociali, del principiodi designazione-selezione nel determinarel’inevitabile prevalenza dei migliori e dei piùcapaci; o, ancora, che la forte presenza dellamonarchia costituzionale in termini diinfluenza sia invocata nel “governo dell’opi-nione” (Lacchè). L’elitismo resta comunque

un filo rosso in grado di avvicinare, seppur inmaniera problematica, esperienze diverse,dall’Inghilterra di Dicey alla Francia di Hau-riou (Laquièze), dall’Italia di Mosca agli Sta-ti Uniti d’America della politica giudiziariain materia di economic rights (Raiteri).

«Il vero problema – osserva Minguzzi –è fissare i limiti del potere dell’opinionepubblica nel governo costituzionale» (Lac-chè). Che si tratti di influenza o di forza poli-tica, di potere politico o anche giuridico, l’o-pinione pubblica è divenuta parte costituti-va di questa forma di governo. Lo Stato costi-tuzionale non può fare a meno dell’opinionepubblica (opportunamente regolata) perchéa differenza dello Stato di diritto si basa nonsolo sull’imperativo della legge ma anche sulconsenso continuo dei cittadini. La presen-za dell’opinione pubblica (anche quando nonappare) nel governo rappresentativo chiamain causa il funzionamento stesso del sistema:si pensi alle prerogative fondamentali, ovve-ro ai poteri di scioglimento della Cameraeletta e di dimissione dei ministri; alla con-seguente natura e forma del governo (chi èl’interprete dell’opinione?); alla disciplina ealla concezione di libertà e strumenti di arti-colazione della politica (libertà di stampa, diassociazione, diritto di petizione, ruolo e for-ma dei “partiti” ecc.) che pur ritenuti coef-ficienti irrinunciabili, hanno però in con-creto vita tutt’altro che facile.

Anche la “centralità” del Parlamentosconta un décalage tra apparato retorico edeffettività dell’istituto. Arena pubblica, luo-go di legittimazione politico-costituzionaledella classe dirigente, strumento di media-zioni, il Parlamento vive anch’esso l’ambiva-lenza e la complessità delle relazioni tra “opi-nione legale” e opinioni pubbliche. Il Parla-mento è il luogo delle tribune e della paroladeclamata. È il teatro della pubblicità. Il Par-

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lamento – come complesso architettonico –ha una doppia natura: non solo tribuna del-l’oratoria politica ma anche dell’opinionepubblica. Più che ad una necessità della poli-tica, la pubblicità parlamentare rispondeall’esigenza di rafforzare una sfera pubblicanazionale ancora troppo fragile. La pubblici-tà è una grande fonte di educazione ma altempo stesso di tutela. Far emergere – anchecon un sistema originale ed efficace di ste-nografia – un’opinione pubblica “illuminata”è anche un modo per disciplinarla (Stronati).

La pubblicità dello spazio parlamentare èformalmente un dogma per i liberali otto-centeschi. Vari livelli di pubblicità convivo-no all’interno dell’aula, intrecciando il pro-blema della presenza del pubblico con quel-lo della rendicontazione e pubblicazione deidibattiti e degl’atti. Nel corso dell’Ottocentosi individua – come mostrerà in Gran Breta-gna Bagehot (andando oltre Bentham e Mill)– l’informing function quale dovere del Parla-mento non solo di discutere in pubblico leopinioni “legali” ma anche di darne positi-vamente conto alla società. La vicenda tede-sca è al riguardo di grande significato. La per-dita di pubblicità dei lavori parlamentari èpercepita come un dato patologico denotan-te il processo di crisi del modello liberale dirappresentanza e per estensione dell’interosistema parlamentare rimodulato dall’entra-ta in scena di soggetti “fazionari” ed“extra-giuridici” incapaci in quanto tali dirappresentare il popolo nel suo insieme(Manca). Questa ricostruzione – retroce-dendo da Schmitt (1923) all’esperienza delReichstag del 1871 – ha conosciuto un note-vole risalto storiografico.

Viene però da chiedersi quanto questoproblema – in sé di lungo periodo – sfugga aduna lettura meramente “patologica” se siassume come punto di partenza il seguente

dilemma: pubblicità/trasparenza oppureefficienza/produttività del Parlamento?Retorica e simbolismo o anche concretezza edecisione? (Manca). Probabilmente la via daseguire è quella di una strettissima congiun-zione: occorre muovere dalla genesi delfenomeno e domandarsi se questo nasca dal-l’esigenza della vita parlamentare (partitica)di ricercare anche momenti non pubblici diorganizzazione dell’attività istituzionale delParlamento per rafforzare la sua capacità disintesi, di decisione, di effettività e di pro-duttività dei lavori.

Guardando ai principali modelli, quelloinglese prevalentemente “plenario”, quellosezionario francese, la Germania sviluppaprogressivamente una serie di soluzioni ori-ginali, dapprima nelle realtà costituzionalidei singoli Stati, poi nell’ambito del Reichstagimperiale. Nonostante la teorica prevalenzadel modello “plenario”, col sistema delle treletture per esaminare i progetti di legge,furono anzitutto le Fraktionen e il Senioren-konvent (una sorta di conferenza dei capi-gruppo parlamentari) ad acquisire un ruolofondamentale (fissazione dell’ordinedegl’interventi in aula, distribuzione degliuffici, composizione delle commissioni) purnon figurando nel regolamento del Reichstag.Questa configurazione, così come l’assettocomplessivo dei lavori parlamentari, devemolto alla grande originalità del sistemapolitico-costituzionale imperiale: da un latoun diritto elettorale moderno e “democrati-co”, dall’altro un sistema di governo monar-chico-costituzionale di tipo essenzialmentedualistico. In Germania la precoce demo-cratizzazione del diritto di voto ebbe unindubbio contraccolpo sul funzionamentodell’assemblea e sul ruolo, pur segnato daricorrente instabilità, della parlamentarischeFraktion (Manca).

Introduzione

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La pubblicità del processo (di quellocelebre in particolare) si fonda parimentisu un effetto-teatro nel quale l’opinionepubblica gioca un ruolo primario. La cele-brazione, la ritualizzazione sono elementistrutturali di cui il “giurista eloquente” –che impersonifica, nel suo habitus, una plu-ralità di ruoli – non può fare a meno. Si puòosservare, come in uno specchio defor-mante, l’opinione pubblica nelle udienzein Corte d’Assise ma anche nella serie infi-nita di rappresentazioni e di messe in sce-na che accompagnano la vita dell’avvocatoo del giudice. La celebrità attraversa i con-fini ambigui del vedere e dell’essere visti,così come il ritratto rimanda a una com-plessa sintassi visiva che amplifica oltre-modo la presenza dell’autore-attore nell’o-pinione pubblica (Beneduce).

«Le opinioni umane non formano piùche una specie di polvere intellettuale, chesi agita in tutti i sensi senza potersi racco-gliere e posare», notava allarmato Tocque-ville più di un secolo e mezzo fa, annun-ciando un mondo nuovo di cui non potevacerto prevedere tutti gli sviluppi. L’aristo-cratico francese, “ossessionato” dal proble-ma della modernità e dai suoi misteri, per-cepisce, forse come nessun altro, i signifi-cati più profondi e ambigui dell’opinionecomune nello spazio politico inauguratodalla società democratica. La “polvere intel-lettuale” di cui parla Tocqueville ci permet-te di ritornare al punto di partenza. Che cosac’è all’origine delle opinioni, quali sono laloro causa e i loro movimenti, come sonopossibili? L’autonomia e l’unitarietà (pre-sunta) dell’opinione pubblica sono allenostre spalle (Busino). Conoscere le opi-nioni significa – nella prevalente logicamassmediologica – avvalersi di strumenti“quantitativi”: l’aritmetica, l’inchiesta, il

sondaggio ecc. (Sarasola). La critica teoricadelle tecniche di sondaggio squarcia il velodell’“oggettività”: la funzione seminale delquestionario è di “creare” l’opinione (Busi-no). Non può essere – in quanto tale – unamera operazione di accertamento. La criti-ca di Habermas aveva sottolineato il ruolodella pubblicità commerciale e della propa-ganda a fini manipolativi (Scuccimarra).Dalla razionalità discorsiva ci si muovevaverso un linguaggio allusivo: dalla “sferapubblica” alla “sfera pubblicitaria”?

La società della comunicazione di mas-sa e le conseguenti forme organizzative del-la politica modificano i processi di forma-zione discorsiva dell’opinione pubblica.Questa è passata attraverso le ambivalenzedel discorso e ha vissuto la progressiva mar-ginalizzazione dei luoghi tradizionali dellaparola a vantaggio di mezzi più impersona-li di comunicazione. La società del plurali-smo informativo tuttavia non può prescin-dere dal pubblico come atteggiamentorazionale e critico anzitutto con riguardo alcorretto funzionamento e sviluppo delleforme del governo liberal-democratico.

James Bryce aveva preconizzato alla finedel XIX secolo un governo attivo dell’opinio-ne (Laquièze). Ma è la natura stessa dei regi-mi rappresentativi (benché democratici) aporre il problema di questa effettività. Ilfenomeno, visto in un’ottica di realismo eli-tista, ci farebbe dire che «L’opinione regnama non governa» (Laquièze). L’ultimoHabermas è – almeno per certi tratti – menopessimista rispetto all’originario Struktur-wandel der Öffentlichkeit. Riconosce una pos-sibile filiazione tra «mondo della vita» esocietà civile emergente. Accentua l’im-pianto pluralistico, riferendosi ad una mol-teplicità di contesti comunicativi: il pubbli-co è l’insieme dei pubblici funzionalmente

Lacchè

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differenziati. Un certo grado di discussionecritica appare possibile attraverso la rivita-lizzazione del fenomeno cruciale dei movi-menti sociali. Certo, il modello territoriale(Stato-nazione) che il filosofo tedesco privi-legia – nell’età della costellazione post-nazionale – non sembra del tutto adeguato acogliere il problema della spazializzazionedella politica (Scuccimarra).

Ha osservato Serge Moscovici che biso-gna abbandonare i vecchi modelli di spiega-zione della realtà e mostrarsi piu critici e piuaudaci. Gli studi di opinione dovrebberoassumere nuove vie e ricordarsi che

le opinioni, nel momento della loro emergenza edurante la loro emergenza, sono inseparabili daisignificati che si attribuiscono alle cose, dai giu-dizi di valore che permettono di fissare delle fina-lità. Se è così le opinioni possono essere numero-se e nessuna può pretendere ad una superiorità oa una supremazia quale che sia. In una situazionecaratterizzata da un pluralismo assoluto, è forsearrivato il momento per rivisitare i concetti dimaggioranza e minoranza, d’opinioni dominantie d’opinioni devianti. Un tale cambiamento per-metterà di porre su basi più solide anche gli studisulle opinioni.[Busino]

Questo approccio può giovare – crediamo– anche ad una migliore comprensione delnodo originario, ovvero quello del rapportotra la forma istituzionale del governo rap-presentativo, le tradizioni del costituziona-

lismo e la funzione critica e di controllo del-l’opinione pubblica al di là del circuito for-male della sovranità politica.

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Introduzione

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1 I rinvii tra parentesi senza altrespecificazioni si riferisconoagl’autori dei singoli saggi raccol-ti in questo numero.

2 Attraverso una lettura “esterna” erelativamente schematica delprocesso di istituzionalizzazionedella sfera pubblica con “funzio-ni politiche” che muove dall’In-

ghilterra del tardo ’600 per arri-vare infine allo Stato di dirittoborghese a forma parlamentare(di per sé già molto problemati-ca). È evidente che lo straordina-rio sforzo di sintesi se giova allavisione d’insieme appare menoconvincente per leggere le singo-le esperienze.

3 Seguo qui i primi risultati diricerca che Lucien Jaume haesposto in un seminario macera-tese (7-9 ottobre 2003) sul tema“La societé civile: contexte etenjeu d’une notion”. Dello stessoautore vedi inoltre La liberté et laloi, 2000 e Problèmes du libérali-sme, 2000.

Intersezioni

L’antinomia del sapere, o del pensierorazionale, coll’opinione1, rimonta agli albo-ri della filosofia e costituisce certamente ilproblema centrale del pensiero greco clas-sico. Infatti, già nel Della natura di Parme-nide di Elea si parla di due dottrine: la dot-trina della verità per la quale solo l’Essereè reale e vero, e la dottrina dell’opinioneche attribuisce una certa realtà anche alnon-Essere. Ma mentre i fondamenti del-l’opinione si trovano nell’opinione stessa,quelli della verità sono invece soprattuttodati dall’analisi logica dei concetti puri. Inaltri termini, l’antinomia ragione-opinio-ne sta qui già ad indicare che l’opinione ècontraddittoria perché non ha certezzaassoluta, mentre la vera conoscenza con-tiene in sé le garanzie della propria validi-tà/verità, cioè la qualità di corrisponderealla realtà o quella di essere conforme alleregole logiche del pensiero.

Tutte le conoscenze e tutte le credenzesprovviste di validità/verità sono dunquedelle opinioni? Per Platone esse si trovanoin una zona intermedia tra l’ignoranza e la

conoscenza e ci sfuggono come le statue diDedalo. Ma se si riesce ad afferrarle ed alegarle «con un ragionamento fondato sul-la causalità» allora diventano conoscenzevere. Capita tuttavia a Platone, per esem-pio quando parla dei discorsi che l’animafa a se stessa, di ridurre la scienza ad opi-nione e con ciò stesso d’abolire l’opposi-zione tra il sapere vero e il sapere non vero.

Questa confusione, o, se si vuole, questaindeterminazione, si ripercuote in tutte leposteriori tradizioni filosofiche. La tradi-zione trascendentale, pur nella varietà del-le sue forme, mantiene la contrapposizionebasilare tra conoscenza vera ed opinione,tra il pensiero razionale e l’opinione. DaDescartes e Leibniz sino a Kant vi si tenta,infatti, di definire le condizioni ultime del-la certezza, della conoscenza vera, dell’og-gettività legittima. Lo stesso Kant opponefortemente il Wissen al Glauben e connotaquest’ultimo come conoscenza insufficien-temente provata: «L’opinare è una creden-za insufficiente, così soggettivamente comeoggettivamente, a cui s’accompagna la

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Alla ricerca d’una teoriadell’opinione pubblica

giovanni busino

giornale di storia costituzionale n. 6 / II semestre 2003

coscienza». Più tardi Hegel farà dell’opi-nione una sorta di referente, una sorta dicosa privata ed incomunicabile: «Un’opi-nione è una rappresentazione soggettiva, unpensiero casuale, un’immaginazione, che iomi formo in questa o quella maniera, e altripuò avere in modo diverso: l’opinione è unpensiero mio, non già un pensiero in séuniversale, che sia in sé e per sé».

La tradizione scettica, che dà un’inter-pretazione pragmatica del conoscere, andràin una certa misura ad alimentare il positi-vismo, che, come si sa, contesta l’esistenzadi giudizi sintetici a priori e fa della cono-scenza un insieme di giudizi analitici rego-lanti al più l’uso del nostro linguaggio.

Gli sviluppi più recenti dell’epistemolo-gia non escludono dalla scienza le opinionipurché siano all’origine di buone ipotesi opermettano d’elaborare valide costruzioninon-teoriche e persino le parti non forma-lizzate di certe costruzioni teoriche. In fon-do, sia l’epistemologia generale sia le pro-liferanti epistemologie settoriali hannoabbandonato le condizioni del conoscerealla sociologia della conoscenza o alla filo-sofia, la quale ultima poi contesta che si pos-sa fondare la verità sulla psicologia o sulrelativismo antropologico. Se la veritàdipendesse dalle strutture psicologiche edalle attività dei soggetti, tutte le forme diconoscenza sarebbero allora vere e fondate.

Una tale controversia è probabilmenteinestinguibile perché insolubile. Esistonocondizioni necessarie e sufficienti dellavalidità/verità, cioè d’un sapere indipen-dente dalle condizioni di tempo e di luogo?E l’opinione è da considerarsi sempre ecomunque un sapere condizionato storica-mente, socialmente e culturalmente?

L’idealismo trascendentale di Husserl èil tentativo più vigoroso operato nei nostri

tempi per sottrarre il pensiero vero alloscetticismo e al relativismo, onde dotarlo ditutte le condizioni di certezza. Husserl havoluto radicare la gnoseologia su un terrenostabile, sottratto alle peripezie del contin-gente, allo scopo di dotarla di meccanismigrazie ai quali il pensiero possa affermarecategoricamente la propria validità e perciòfondare la propria autogiustificazione. Perevidenziare i contenuti di certezza del pen-siero, Husserl recupera e rivaluta la distin-zione tra verità e sapere attendibile, traragione ed opinione, tra giudizio personalepoco stabile e poco intenso e certezzaimmutabile e permanente. Il che gli per-mette di mostrare la fallacia dello psicolo-gismo, che confonde il significato dei giudizicogli atti di giudizio, le deduzioni coi datipsicologici, e quindi fonda la logica susequenze psicologiche particolari. La cer-tezza deriva, invece, dalle strutture neces-sarie del mondo che sono costituite comecorrelati d’atti intenzionali della coscienzatrascendentale.

Le pretese husserliane d’una logica purasono state criticate duramente da Jean Pia-get, il quale tuttavia non è riuscito ad elimi-nare tutte le perplessità insite nel suo strut-turalismo genetico. Il costruttivismo piage-tiano non arriva a garantire la certezza, eperciò deve contrapporre oggettività e rea-lismo, deve assolutizzare condizionamentibiologici e sociali e situazioni particolari.

L’aporia è risolvibile all’interno del qua-dro di riferimento razionalista? La ricerca ela scoperta d’invarianti universali potreb-bero fornire un apporto pertinente almenoper circoscrivere le difficoltà e le incertez-ze? Da taluni è stato osservato che si tratta dipretese illusorie e velleitarie. L’assolutoepistemologico è irraggiungibile e la certez-za ultima è incommensurabile. Le teorie

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anarchiche della conoscenza di Paul K.Feye-rabend portano, da questo punta di vista, unduro colpo sia alla nozione di verità sia aquella d’approssimazione alla verità. Neconsegue che persino le nozioni d’oggetti-vità e di progresso delle conoscenze nonpossono più essere tematizzate né effettiva-mente spiegate, ma solo presupposte. Veri-tà e certezza come valori, come finalità?Impossibilità radicale di superare l’antino-mia tra il sapere e l’opinione?

Una risposta interlocutoria può esserequella di Leszek Kolakowski, per il quale lacultura umana non potrà mai raggiungereuna sintesi perfetta delle sue differenziate– e incompatibili – componenti. La suastessa ricchezza appare anzi alimentata pro-prio da questa incompatibilità dei suoiingredienti: è il conflitto dei valori, e nonla sua armonia, a mantenere viva la nostracultura, la nostra condizione d’esseri stori-camente determinati.

Se le opinioni sono attendibili ma apo-ditticamente incontrollabili, neanche ilimiti tra la certezza psicologica e la certez-za oggettiva sono tracciabili. Ma allora èproprio vero che in questo vasto mondo,per parafrasare Robert Musil, non vi sonopiù di una decina d’uomini che pensino lastessa cosa d’un oggetto così semplice comel’acqua? Il passaggio dall’opinione indivi-duale, personale, all’opinione interindivi-duale, pubblica, è avvenuto senza intoppi esenza asprezze. Opinione pubblica comecondensazione e cristallizzazione d’opinio-ni individuali? Si possono ritrovare le tap-pe di questa elaborazione nelle dottrinesocratico-platoniche, sofiste e ciniche,riprese da Aristotele, il quale, com’è noto,fa dell’opinione popolare una virtù politi-ca. Secondo Erodoto e Tucidide la legitti-mità dell’autorità è garantita dall’opinione

popolare, sostentamento e pericolo incom-bente ad un tempo, per Tito Livio e Cicero-ne, degli ordini costituiti. Con Virgilio l’o-pinione popolare diventa l’agente di tra-smissione irresistibile delle notizie tra lagente; Machiavelli ne sottolinea la forza e lachiama la « pubblica voce e fama»; Hobbese Temple fanno altrettanto e ne indicano leconnessioni cogli atti di govemo e con l’au-torità politica. Espressione della societàcivile o della collettività dei governati?Ancora non viene precisato. Ma ormai«l’opinione è come la regina del mondo »,dirà icasticamente Blaise Pascal.

L’area sociale d’apparizione del termi-ne “opinione pubblica” in quanto mecca-nismo regolatore dei sistemi politici, èquella stessa in cui prosperano i primiregimi borghesi. Qui si manifesta concoerenza e continuità l’opinione pubblica;qui essa è visibile e qui s’accorda cogliimperativi liberali: il cittadino s’esprimefacendo astrazione dalla sua situazione econdizione di classe, mentre i governantidispongono d’un margine di manovra con-siderevole rispetto ai governati, di cui peròpossono tollerare le opinioni. Non a casoJohn Locke ha posta accanto alla legge divi-na e alla legge politica, la legge dell’opinio-ne, la law of opinions, categoria dello stessorango delle prime due, ma la sola a poterdeterminare le virtu ed i vizi. L’opinionepubblica esiste perché esiste una sfera pub-blica che si contrappone ad una sfera pri-vata. Categoria borghese, essa è dunqueimprescindibile dall’esistenza di dibattitiaperti, dal concetto di pubblicità, di ciò cheè pubblico, visibile all’interno d’un deter-minato ambiente sociale. Se la pubblicità èafferente a ciò che è pubblico e rende pub-blico ciò che non lo è, si capisce subito per-ché la nozione d’opinione pubblica emer-

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ga come critica della politica dei governiassolutisti e come contestazione di qualsia-si forma di dominio non legittimato. L’or-dine assoluto, che aveva bisogno del segre-to dei gabinetti, trova nella categoria bor-ghese dell’opinione pubblica un criticopotenzialmente eversore. E questa catego-ria si consolida e si specifica più netta-mente in concomitanza alla sviluppo dellapubblicità e della propaganda.

ln cosa consista la pubblicità, cosa sial’opinione pubblica, sono cose difficilmen-te determinabili. Imprecisioni, confusionied indeterminazioni si ripetono e si perpe-tuano sin dai tempi di John Locke. II con-cetto d’opinione pubblica è utilizzato in tut-ti i settori delle scienze sociali e umane condenotazioni svariate e connotazioni esten-sive ed intensive disparate, periodicamen-te inventariate e criticate duramente. Spec-chietto per le allodole, sovente esso vieneanche considerato l’ipostasi d’una attitudi-ne psicologica contro cui s’è fatto valere chel’opinione pubblica non esiste, che si trattad’una mistificazione per trarre in ingannocirca il reale funzionamento dei sistemi didominazione e per dare l’illusione d’unauguaglianza nell’espressione delle opinionipersonali impossibile a realizzarsi in unastruttura di classe. La verità è che non tuttipossono avere un’opinione, che non tutte leopinioni possono equivalersi e che non puòesistere un consenso sul modo di produzio-ne dell’opinione. Vi sono opinioni di cui igovernanti tengono conto perché organiz-zate, canalizzate, mobilitate, perché soste-nute da personaggi autorevoli. Opinioni checostituiscono i parametri, forse non costrit-tivi, delle decisioni governative.

Opinioni individuali, riflessi d’appara-ti egemonici, emozioni, volontà, fatti da cuisi deducono le opinioni, affermazioni vei-

colate dai mezzi di comunicazione di mas-sa e d’informazione, comportamenti ver-bali? Una constatazione sembra fare l’una-nimità: il fenomeno dell’opinione pubbli-ca non è né unitario né autonomo, diffici-le da definire soprattutto a causa del fattoche «esso sta oggi a significare un insiemecomplesso di osservazioni, problemi prati-ci e riferimenti normativi». Non un ogget-to puramente costruito, dunque, bensì uninsieme di fenomeni la cui area socialed’apparizione è nettamente fissabile, e rap-portabile comunque alle istituzioni liberal-democratiche. I montanari Arapesh, i can-nibali Mundugumur, i lacustri Chambuli, iSamoani, studiati da Margaret Mead2, testi-moniano della primazia delle strutture isti-tuzionali nell’elaborazione e nell’emergen-za delle opinioni, e mostrano in vitro ilmodo di produzione di giudizi affini su coseed oggetti, come una pluralità d’individuiprenda coscienza di questa affinità, e attra-verso quali vie possa poi esteriorizzarla.Tant’è che molti studiosi sostengono chel’opinione pubblica è prodotta da individuinon appartenenti alla classe dirigente maper i quali gli affari pubblici non sono néestranei né indifferenti, e che ciò avvienesolo nei regimi parlamentari ed a suffragioindividuale. Proprio perciò l’opinione pub-blica, in questi regimi, sarebbe «un arbi-tro, un giudice... Il tribunale della coscien-za di una Nazione». Lo studio dell’opinio-ne pubblica nasce prima per captare lemovenze di questi giudizi le cui pluralità sicompongono in correnti, e poi per predirei risultati elettorali.

Lo studio dell’opinione pubblica è pra-ticato negli Stati Uniti sin dal 1824 per pre-dire i risultati delle elezioni presidenziali esi generalizzerà impetuosamente dopo larielezione di Roosevelt, il 3 novembre 1936,

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annunziata anticipatamente da George Gal-lup, Elmo Roper e Archibald Crossley. Apartire da quest’epoca i sondaggi d’opinio-ne pubblica avranno una specificità che glistudi di mercato, ai quali metodologica-mente s’apparentano e dai quali storica-mente discendono, non le avevano prece-dentemente consentito3.

La correlazione opinione pubblica-isti-tuzioni rappresentative non deve però farridurre la prima alla volontà popolare qualè espressa attraverso i meccanismi eletto-rali. L’opinione pubblica giudica, opina,stima; la volontà popolare decide, sceglie,investe di pieni poteri, delega. La primaaccoppia senza contarle sensibilità e pro-pensioni, la seconda invece addizionavolontà e scelte. L’opinione pubblica è ver-satile, volubile, cangiante, mobilitabile inqualsiasi momento a proposito di questio-ni a pretese generali. La volontà popolare èdi solito immutabile, poco sensibile ai cam-biamenti repentini, gli occhi fissi su pro-blemi precisi e su situazioni concrete. L’o-pinione pubblica è sentita, talvolta stimatao soppesata, mentre la volontà popolare ècontata. Il sondaggio d’opinione, le inchie-ste d’opinioni rivelano approssimativa-mente l’ampiezza e la consistenza dell’opi-nione pubblica. Essi formattano la manie-ra secondo cui l’opinione sarà enunciata,incitano le persone interrogate a sintetizza-re il loro punto di vista, a formularlo in con-formità alle esigenze del dibattito politico.Attraverso questi processi di traduzione edi trasformazione, di denominazione e d’e-nunciazione, grazie ad un lavoro di rappre-sentazione, le opinioni individuali diven-tano opinioni pubbliche. Le tecniche elet-torali fissano i limiti tra la maggioranza e laminoranza della volontà popolare e non siconfondono coi meccanismi d’assimilazio-

ne e d’accomodamento propri ai processidi formattazione dell’opinione pubblica.

Non ad ambedue s’applicano il para-dosso e l’effetto di Condorcet. Il primoindica che, nel caso di due opzioni fra cuiscegliere, può avvenire che quella scelta amaggioranza non collimi colle preferenzemanifestate dagli elettori. Il secondo rive-la casi in cui, anche dopo aver analizzatotutte le preferenze individuali espresse,non sarà possibile esprimere la preferenzasociale, dire in altri termini qual è la volon-tà generale. Come eliminare il paradosso eneutralizzare l’effetto di Condorcet?

Kenneth Arrow, com’è noto, ha dimo-strato che esiste una regola, la funzione discelta sociale, la quale permette di passaredalle preferenze individuali alla determi-nazione della volontà generale, dai voleriindividuali alle scelte sociali. Questa rego-la suscettibile di garantire la possibilità dideterminare le scelte collettive, cioè lavolontà generale, esige necessariamente:(1) che la funzione di scelta sociale non siaimposta anticipatamente, quali che siano lescelte individuali; (2) che non si segua lascelta d’uno solo misconoscendo le sceltedegli altri; (3) che, se esiste già una sceltasociale, questa conservi sempre il propriorango, oppure ottenga un rango più eleva-to se uno almeno degli elettori abbia fattosalire questa opzione nell’ordine delle suepreferenze; (4) che tutti gli elettori possa-no esprimersi su tutte le opzioni in gioco eche la condizione d’indipendenza rispettoall’esterno sia rispettata; (5) che tutte lepreferenze degli elettori tra tutte le opzio-ni in gioco siano ammissibili.

In altri termini, Arrow dimostra che ses’interdice l’adozione di regole non-logi-che per ottenere la preferenza sociale, que-st’ultima è assolutamente indeterminabi-

Busino

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le. Non esiste un mezzo assoluto per defi-nire la volontà generale. Le tecniche elet-torali sono palliativi, espedienti, risposteprovvisorie a problemi insolubili. Senon-ché in quest’ambito esse permettono ciòche altrimenti sarebbe irrealizzabile: lascelta d’un candidato, d’un programma,d’una opzione. E vi riescono dividendo gliattori in due gruppi. Il gruppo numerica-mente maggioritario prevale ed impone leproprie volontà al gruppo minoritario.Quest’ultimo può successivamente diven-tare, a sua volta, maggioritario e far preva-lere così la propria volontà su tutti gli altri.Ora l’applicazione di questa regola com-porta un accordo, un consenso sui mecca-nismi di funzionamento della regola stes-sa, sui limiti e sulle costruzioni che essa esi-ge. Il consenso sulla regola di produzionedelle preferenze e delle scelte rende questeeffettuabili e fungibili nel caso della volon-tà generale. Invece nel caso dell’opinionepubblica nessun consenso preliminare èindispensabile, la regola di Arrow non vi siapplica. Perciò i sondaggi e le inchieste d’o-pinione pubblica non potranno mai sosti-tuire le consultazioni elettorali. Dannoindicazioni approssimative tra due consul-tazioni elettorali e producono effetti per-versi (eliminano i corpi intermedi, margi-nalizzano gli intermediari tradizionali, fra-gilizzano differenti forme d’autorità e d’in-termediazione).

Un’elezione determina un accordoimplicito o esplicito, attivo o passivo, dure-voIe o passeggero, generale o particolare suprincipî, valori, norme, ma soprattutto sucerti obbiettivi della comunità e sui mezzipiù appropriati per realizzarli. Senonché,data la varietà dei fenomeni rispetto ai qua-li può richiedersi e ottenersi consenso esoprattutto le graduazioni infinite nel-

l’espressione del consenso stesso, sembraevidente che non si potrà mai avere unconsenso generale. Proprio per sopperire aquesta carenza fondamentale sono statimessi a punto i sondaggi d’opinione. Essipermettono, infatti, di fornire delle indica-zioni, degli orientamenti, per conoscerevariazioni e mutamenti nell’adesione d’ungruppo o di parecchi gruppi alle norme ed aivalori vigenti, per avvertire la vicinanza o lalontananza di questi stessi gruppi dalleinterpretazioni che le élites e le categoriedirigenti in generale dànno delle norme edei valori. Proprio per questo si può sonda-re l’opinione pubblica su qualsiasi cosa, sul-l’obiezione di coscienza e sulla riorganizza-zione della Corte suprema americana e suquestioni ancora più complesse di cui R.J.Simon ha fatto la cronistoria in Public Opi-nion in America, 1936-1970, uscito nel 1974,e Loïc Blondiaux la storia in La fabrique del’opinion. Une histoire sociale des sondages,pubblicato nel 1998 (Paris, Le Seuil).

S’è detto che l’esistenza d’un consensogenerale è inconcepibile, anche nellesocietà totalitarie, e che persino l’esisten-za di valori largamente condivisi è oggisempre più inverosimile4. S’è detto ancheperò che un minimo di consenso è indi-spensabile almeno per contenere o ridur-re il ricorso alla violenza come unico mez-zo per risolvere le controversie e gli scon-tri. Cio è possibile grazie al potere e all’e-sercizio della costrizione. Il potere non èuna cosa, è essenzialmente un rapporto diforze da cui un soggetto ricava più di quan-to l’altro passa ottenere, un rapporto squi-librato. Un soggetto ne beneficia di più, mal’altro non ne è totalmente sprovvisto. Ilcontrollo dei margini di libertà di cui tuttii soggetti impegnati in una relazione socia-le sono più o meno dotati, risulta dunque un

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fatto più che rilevante per la realizzazione distrategie egemoniche. Col potere, coll’e-sercizio della costrizione è possibile cattu-rare il consenso?

L’esercizio sistematico del potere percatturare il consenso è alla lunga imprati-cabile. Ma esiste un punto a partire dal qua-le l’esercizio della costrizione deve esserepraticato per evitare la scomparsa della for-ma minimale di consenso senza la quale ladeterminazione stessa della volontà gene-rale riesce impossibile? Se esiste, dove sisitua questo punto? Un fatto sembra certo,in qualsiasi società tutti i membri non con-dividono gli stessi fini sulla maniera divivere insieme. Nelle società tardocapitali-ste, poi, non vi sono punti-fini, se nonquello (peraltro non sempre rispettato) dipermettere a tutti i fini d’esprimersi e nel-la misura del possibile di realizzarsi. Que-ste società vorrebbero, in fondo, costituir-si continuamente e perpetuamente attra-verso il confronto di progetti divergenti.Cosicché il punto critico insormontabile èquello che metterebbe in pericolo di mor-te le regole di funzionamento per la produ-zione di tutti gli altri consensi.

Certi sociologi sostengono che questoconsenso minimale è ottenuto colla minac-cia e colla forza, in dispregio alle volontàindividuali. Certo, questo consenso è unaregola sociale, miscuglio di coercizione ed’accordo, d’imposizione e di legittimità,accordo di volontà implicante una costri-zione. Altri aggiungono che più una societàè stabile, più risulta difficile distinguere ciòche è imposto da ciò che è liberamenteaccettato. La socializzazione cancella le dif-ferenze e fa interiorizzare gli obblighi. Percui nessuno è al riparo delle manipolazioni.Parlare di volontà popolare, d’opinionepubblica ignorando che esse dipendono

dalla socializzazione, che sono funzioni deiprogetti d’egemonia d’una classe, d’un cetoo d’un gruppo di potere, significa dissimu-lare i veri problemi. Anziché parlare d’opi-nione pubblica, bisognerebbe allora stabi-lire perché la parte personale nella suacostituzione è tanto infima; bisognerebbeallora soppesare il ruolo rispettivo dei fat-tori personali e dei fattori esterni che s’im-pongono attraverso l’ambiente sociale;bisognerebbe rivelare i meccanismi cheimpongono l’interiorizzazione dell’habitus,come questo permetta d’assumere i diversiruoli e di vivere all’interno d’uno statussociale5.

Questioni, in verità, importanti, ma nonè certo che il loro chiarimento prelimina-re risolverebbe la complessa problematicainerente all’opinione pubblica. Che siaspontanea o provocata, emergente neigruppi primari o secondari, discendente dastrutture personali profonde, dall’affetti-vità, dalla specificità dell’universo vissuto,dai processi di razionalizzazione; che siaalogica, non cosciente, pseudorazionale,verbale e via di seguito – resta sempre sen-za risposta la domanda: cosa c’è all’originedelle opinioni, quali sono la loro causa e iloro moventi, come sono possibili? S’è par-lato di attitudini, cioè di predisposizionigenerali, causa e condizione dei nostri giu-dizi e dell’assunzione e svolgimento deinostri comportamenti. La psicanalisi, maanche gli studi sulle motivazioni in genera-le, indicano appunto che le opinioni sonol’espressione di attitudini dissimulate.

Le scale di Thurstone, di Lickert, diBogardus e d’altri, nonché l’analisi gerar-chica e l’analisi della struttura latente, ten-tano, sulla base di dati raccolti con vari test,di scoprire l’esistenza delle attitudini, cioèd’una predisposizione generale che sareb-

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be tra l’innato e l’acquisito, tra il coscientee l’inconsciente, tra l’individuo e la socie-tà, e che permetterebbe di definire il con-tenuto dell’opinione, il grado d’adesionech’essa suscita, e le risposte ch’essa è capa-ce di stimolare e determinare.

Disgraziatamente i risultati cui tuttequeste analisi sono approdate restano pococonvincenti (teorie dell’apprendimento),ambigue ed imprecise (teorie della perso-nalità), difficilmente chiaribili (teorie sul-la consistenza e sull’equilibrio, sui signifi-cati emotivi e sulla dissonanza cognitiva).Va detto che, allo stato attuale delle cono-scenze, ben poco si sa di solido e stabile sul-la natura delle attitudini e soprattutto sulperché e sul come l’attitudine sarebbe cau-sa o condizione della produzione dell’opi-nione. Variabile latente osservabile indi-rettamente attraverso i comportamentiverbali, o identificabile con il comporta-mento verbale stesso? Le risposte sononumerose e contraddittorie e si sgrananoda Sigmund Freud e Vilfredo Pareto a JeanPiaget e Noam Chomsky. Ciò nonostante,s’è tentato di descrivere e di misurare leopinioni, di studiarle nella loro fase di for-mazione-percezione, nella fase di cono-scenza, nella fase d’organizzazione e nellafase d’estrinsecazione, con tutti gli abusi ele incongruenze cui purtroppo questi studihanno dato e danno luogo. Per lo studiodelle opinioni, i principali strumenti uti-lizzati sono le inchieste d’opinione ed isondaggi d’opinione.

Mentre i sondaggi s’applicano anche insettori diversi dallo studio delle opinioni epersino al di là degli ambiti coperti dallescienze sociali, le inchieste d’opinione ver-tono esclusivamente sui fatti d’opinione.Col sondaggio si stima la proporzione d’u-na popolazione dotata d’un certo carattere

e si misura poi questa proporzione su unaparte soltanto di tale popolazione chiama-ta campione, mentre coll’inchiesta si puòanche prescindere dalle questioni di stimae di misura. Benché il sondaggio e l’inchie-sta si confondano e si compenetrino reci-procamente sempre di più, è opportunotuttavia tenerli distinti.

Viene chiamata inchiesta d’opinionel’insieme delle tecniche che permettonod’interrogare, per iscritto od oralmente,con colloqui semidiretti o con questionaristandardizzati, o altrimenti ancora, una opiù persone sull’argomento oggetto del-l’inchiesta. Quando gli interrogatori sonoeffettuati secondo un piano preciso,mutuato peraltro dagli studi di mercato, siparla allora correntemente di sondaggi d’o-pinione.

Una constatazione va immediatamentefatta: la raccolta delle opinioni è resa pos-sibile dalle tecniche utilizzate, queste necondizionano quindi la nascita e l’espres-sione. C’è, dunque, sempre qualcuno chedecide su che cosa bisogna interrogare l’o-pinione pubblica, su chi interrogare e sucome interrogare. E questa decisione èsempre presa in funzione d’una questionepratico-politica da risolvere o da meglioconoscere. Siccome non è sempre utileconoscere l’opinione della gente alla spic-ciolata, col sondaggio d’opinione si cercad’afferrare le opinioni individuali quali sitransustanziano nelle interazioni d’ungruppo. Poiché risulterebbe difficile ecostoso interrogare tutti i membri d’ungruppo preso in esame, bisogna limitarsiad una parte soltanto di essi. Una parte peròche deve riprodurre proporzionalmente ilgruppo globale. La tecnica consiste nel for-mare un universo in riduzione, il campio-ne, il quale, nei limiti dei margini d’errore

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determinati, permetta di dedurre dall’opi-nione d’un numero limitato di gente, l’opi-nione dell’aggregato più vasto, cioè deIgruppo reale. Com’è possibile dedurre conpiù o meno rigore l’opinione d’un univer-so reale da un suo campione limitato, sep-pure statisticamente elaborato?

L’opinione di duemila persone può rap-presentare l’opinione di trenta milioni d’e-lettori, per esempio?

La teoria matematica dei sondaggirisponde così a questa domanda: se i due-mila elettori interrogati sono stati sceltibene, è possibile stimare la probabilità chela loro opinione sia vicina a quella chesarebbe stata espressa se tutti gli elettorifossero stati interrogati nello stesso perio-do di tempo in cui il sondaggio è stato ope-rato. Occorre quindi scegliere il campionein maniera da rendere minima (non nulla,cioè uguale a zero) la probabilità d’unoscarto stimato sul campione e l’effettivovalore sconosciuto dell’universo reale.

Si consideri l’esempio usuale. Posta unadomanda alla quale gli interrogati possonorispondere o con un sì o con un no, si sup-ponga che p per cento degli interrogatirisponda sì e q per cento no. Si cominci col-l’interrogare la persona A. Essa risponderào con un sì o con un no; la probabilità d’a-vere p per cento e q per cento sarà un nume-ro compreso tra 0 e 1, cioè 0< Prob<1 . L’e-vento impossibile avrà la probabilità 0,mentre l’evento certo la probabilità 1. Sepoi s’interroga una seconda persona B, siavrà una situazione uguale a quella di A.Totalizzando i risultati di A e di B, si avran-no due risultati: due sì, o due no, o un sì eun no. È possibile continuare con C, D, E,..., Z. Siccome le probabilità di rispostasono p per cento per sì e q per cento per no,si possono calcolare le probabilità d’avere

due, tre, quattro,..., n sì, due, tre, quattro,..., n no, ecc. Per calcolare la probabilitàd’ottenere le diverse risposte, si utilizza laformula data dalla legge binomiale (q= 1-p;S=X1+X2+X3+…+Xn; k → b (k, n, p)).

Tutte le risposte hanno un grado di pro-babilità. Nessuna ne resta esclusa. Senonchéquesti eventi hanno un debole grado diaccadimento. Invece, più le risposte sonovicine alla proporzione reale p per cento, piùla loro probabilità è grande. Se queste rispo-ste vengono collocate su un piano, esse for-mano una sorta di curva simile a una cam-pana. Più il numero di risposte è grande, piùla curva costituita da queste risposte s’avvi-cina a quella ben nota di Gauss. La curva teo-rica di Gauss permette d’economizzare ilunghissimi calcoli di probabilità. In chemodo? La curva di Gauss ha il vantaggio dipoter essere definita da un solo parametro,il parametro S, in altri termini dalla scartoquadratico medio. Più S è piccolo, più la cur-va è appuntita, più il sondaggio è prossimoall’universo reale. L’ideale sarebbe che Sfosse piccolissimo, ma la precisione dellasua stima è proporzionale alla radice qua-drata dell’effettivo osservato. Per diminui-re della metà l’incertezza della stima, biso-gna quadruplicare l’effettivo costituente ilcampione. Il che significa che c’è un rap-porto tra S e la precisione del sondaggio.Quale? S’immagini che in un sondaggio incui i sì rappresentino il 60 per cento, S sia 1per cento. In questo caso esistono due pro-babilità su tre che la percentuale vera si tro-vi tra 59 e 61 per cento; 95 probabilità su100 che sia compresa tra 58 e 62 per centoe 99 probabilità su 100 che si trovi tra 57 e63 per cento. Nel caso in cui i sì rappresen-tassero il 51 per cento e il valore di S restas-se sempre 1 per cento, si avrebbero due pro-babilità su tre che il risultato si situi tra 50

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e 52 per cento; 95 probabilità su 100 che siatra 49 e 53 per cento; e 99 probabilità su 100che si trovi tra 48 e 54 per cento. Nel caso delsondaggio con 60 per cento di sì, i dubbicirca l’esito della consultazione sono vani.Nel secondo, invece, restano più che consi-stenti. Ora, per ottenere un risultato piùprobante, bisogna diminuire il valore di S.Nella prospettiva del sondaggio con 51 percento di sì, se S venisse diminuito da 1 a 0,5per cento, si avrebbero due probabilità sutre che il risultato si situi tra 50,5 e 51,5 percento rispetto al 50 e 52 per cento prece-denti; 95 probabilità su 100 che si situi tra50 e 52 per cento rispetto al 49 e 53 per cen-to precedenti; 99 probabilità su 100 che sisitui tra 47 e 53 per cento rispetto al 48 e 54per cento precedenti. La sola maniera perdiminuire il valore di S consiste nell’au-mentare il numero delle persone compo-nenti il campione. Tanto più il campionesarà grande tanto più S sarà piccolo. Perridurre S dello 0,5 per cento bisogna molti-plicare per quattro il numero dei soggetti dainterrogare, dato che lo stesso S è propor-zionale alla radice quadrata del campione.Per un campione di 10 000 persone l’erro-re è di ± 1 per cento; di 2600 persone di ± 2per cento; di 2500 persone di ±2,5 per cen-to; di 400 persone di ±5 per cento; per uncampione di 100 persone con S a 5 per cen-to, non si avranno che 95 probabilità su 100che i risultati siano prossimi alla realtà a ±10per cento.

Se tuttavia la riduzione di S può aversisolo accrescendo il campione, tale accre-scimento è praticamente irrealizzabile datii costi economici che esso comporta. Sipensi che per ottenere un valore di S corri-spondente a 1 per cento bisognerebbeinterrogare 2 500 persone; per portare lostesso S a 0,5 per cento bisognerebbe inve-

ce interrogarne 10000. Né si può aggirarequesta difficoltà confrontando sondaggisimili, sincronici e consecutivi, condottiseconda condizioni tecniche assolutamen-te identiche, giacché si trova sempre unerrore sulla differenza tra i due risultati cheè di 1,4 (radice quadrata di 2) volte l’erro-re su ognuno dei sondaggi, e giacché non sisa ben misurare la variabilità delle opinio-ni che ognuno dei sondaggi ineluttabil-mente registra in proprio.

La prima osservazione che si può fare èquesta: anche quando il sondaggio s’effet-tua in condizioni tecniche precisissime, isuoi risultati presentano uno scarto rispet-to ai limiti fissati dal modello teorico. Nel-le scienze sociali, il calcolo dei limiti diquesto scarto è molto problematico, pernon dire difficilmente operabile. La secon-da osservazione è questa: nelle scienzesociali la teoria che si trova alla base delsondaggio, e che ne fissa la legittimità, èuna teoria mutilata o stravolta. Si prenda-no le regole sulla formazione del campione,tanto essenziali alla teoria dei sondaggi.Queste esigono che le persone costituenti ilcampione debbano essere scelte in manie-ra assolutamente aleatoria. Nei sondaggipraticati nelle scienze sociali, tale condi-zione non è mai rispettata. I sondaggi quipiù praticati sono i sondaggi empirici, iquali sono totalmente sprovvisti di validitàteorica. Perché? Perché essi non sonocostituiti in maniera stocastica, ma a secon-da d’una scelta ragionata. I sondaggi perquota appartengono a questa specie. Essipartono dall’ipotesi che le variabili di con-trollo siano distribuite statisticamentecome le variabili da studiare. In altri ter-mini, essi postulano l’esistenza d’una stret-ta correlazione tra le variabili di controllo(età, sesso, categorie socio-professionali,

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abitato, regione, ecc.) ed il tipo di rispostadata. Una tale ipotesi è praticamente incon-trollabile, e perciò risulta impossibile valu-tare la variabilità della stima. In altri ter-mini, in un caso simile la teoria è esautora-ta di tutte le sue funzioni. La situazione pra-tico-politica rende impossibile, nella mag-gior parte delle situazioni, procedere ad unadeterminazione strettamente aleatoria,casuale del campione. Il palliativo di simu-lare la scelta casuale, artificio mediante ilquale i ricercatori si creano l’illusione direstare nell’ambito della teoria che con-sente l’elaborazione del sondaggio aleato-rio, è inadeguato. La simulazione della scel-ta aleatoria non fa uscire dall’ambito delsondaggio empirico, anzi è una manieramacchinosa per restarvi. Teoricamente,infatti, non è possibile simulare una sceltacasuale. Le tecniche di correzione, di rad-drizzamento non sanano le difficoltà.

I sondaggi psicosociologici sono tutti deisondaggi empirici, sprovvisti d’armaturateorica. Del resto l’osservazione della prati-ca di questi sondaggi ne fornisce una ripro-va. Il campione rappresentativo è una ridu-zione ragionata dell’universo reale, riduzio-ne ragionata fatta talvolta secondo regolematematiche che dovrebbero ridurre i rischid’errore, ma che invece li cumulano e li dis-simulano. Inoltre, il criterio della rappre-sentatività esige che si possano verificare leinformazioni ottenute e che altri ricercato-ri possano controllarle. Quando il campio-ne è retto dalla teoria aleatoria, il controlloè fattibile. Nel caso dei sondaggi sociali, ciònon si può mai verificare. Impossibile sosti-tuire un elemento nella struttura del cam-pione, difficile procedere a permutazioni ead interscambi, senza modificare i rapportitra le parti e l’insieme. La standardizzazio-ne del questionario è lungi dal risolvere la

specificità e unicità di questa complessaproblematica. La ragione è banale. Anche ilquestionario è sprovvisto d’una teoria. I ten-tativi di elaborarne una non sono andati al dilà della formulazione d’una serie di consiglipratici: evitare le oscurità semantiche, lecomplessità sintattiche, la polisemia delvocabolario, l’ambiguità e la complessitàdelle domande; non fare domande al di fuo-ri d’un quadro di riferimento noto all’inter-vistato; non ricorrere ai paragoni, ecc. Pra-ticamente inesistenti i dubbi sul fatto se ilquestionario sia niente altro che una tecni-ca di costruzione dell’opinione e su cosa essocostruisce. Non si sa, per esempio, se le opi-nioni messe in luce siano niente altro che“una” reazione possibile al questionario,risposte alle domande poste. Si ignora se leopinioni esisterebbero nel caso che l’inter-vistatore e/o il questionario non le facesse-ro nascere. Nel migliore dei casi, il questio-nario suscita l’opinione ponendo delledomande che in quel momento l’intervista-to non si poneva, dato che la sua situazionepersonale non lo esigeva.

In altre parole, il questionario dà comeesistente l’opinione alla stato grezzo, nepresuppone l’esistenza, impone una defi-nizione della situazione all’interno dellaquale il soggetto deve situarsi. Introduce, inogni modo, surrettiziamente, dei presup-posti quanto all’esistenza dell’opinione sucerti termini e su certe prospettive. In più,presuppone un grado d’intensità dell’opi-nione, comunque e dovunque. Ora, l’osser-vazione clinica e la pratica delle biografiestoriche mostrano che le modalità d’e-spressione e di reazione variano non solo dauna classe sociale all’altra, da una classe d’e-tà all’altra, da una categoria socioprofessio-nale ad un’altra, ma anche da un individuoall’altro. Per certi soggetti le opinioni sono

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nette e ben affermate, per altri incerte evacillanti, caute e prudenti. Per altri sogget-ti riesce impossibile afferrare il senso d’u-na formulazione o riconoscersi nella rispo-sta trascritta che enuncia tuttavia la loro opi-nione. Per molti l’espressione di un’opi-nione non ha valore se estratta dal contestoo liberata dalle modalità della sua produzio-ne. Correnti sono le reazioni: «Se ladomanda mi fosse stata posta altrimenti,avrei potuto rispondere...»; «In quellasituazione m’è capitato di dire, ma in unasituazione normale avrei aggiunto...»; «Horisposto così, ma non credo in questi son-daggi...». Un’antropologia delle situazionid’amministrazione del questionariomostrerebbe forse qual è la parte di respon-sabilità del questionario stesso nella costru-zione delle opinioni. Un fatto per il momen-to sembra ben certo: cumulando certe pos-sibilità si contribuisce a dotarle di probabi-lità d’esistenza; lasciando, al contrario, unmembro dell’alternativa inespresso o sem-plicemente implicito, si neutralizzano lepossibilità che esso potrebbe eventualmen-te rappresentare; non distinguendo l’opi-nione dall’informazione, postulando dun-que che tutti sappiano perché già informa-ti, si trasforma il fumo in arrosto.

Il limite invalicabile che caratterizza ilquestionario è dato e fissato da un elemen-to insopprimibile: chi fa le domande è allastesso tempo chi decide quali sono ledomande pertinenti ed a cosa esse debba-no servire. Siccome poi le domande deb-bono adeguarsi all’oggetto e alla situazionedell’intervista, il ricercatore parte da unmodello di riferimento che è il comporta-mento d’un individuo per così dire mutila-to, se non reificato. Si tratta d’un individuoisolato in un dominio, in un settore, orien-tato verso un solo atto, preoccupato d’e-

sprimere una opinione su una questioneche potrebbe essere per lui inattuale, irrea-le o semplicemente astratta. Il modello diriferimento del ricercatore è un individuoastratto (l’operaio, lo studente, il poliziot-to, il terrorista), avulso dalle sue relazionisociali, sottratto ai suoi desideri, alle sueinfluenze, alle sue costrizioni, ai suoi con-trolli, in breve alla sua vita quotidiana fat-ta sovente di piccole cose e raramente (o ditanto in tanto) delle cose che interessano iricercatori, i sindacati, i partiti, la Chiesa,gli intellettuali o i governanti. Le intervisteper un sondaggio non prendono mai inconsiderazione la particolarità della vitaquotidiana degli intervistati: i dati raccoltifanno sempre astrazione dai contenuti del-la quotidianità e dalle modalità che li fan-no nascere e che sovente non arrivano atrovare espressioni adeguate. La costruzio-ne del questionario (preparazione, sommi-nistrazione, analisi dei risultati) è, insom-ma, nella situazione attuale, uno dei pro-blemi più preoccupanti per uno studioveramente critico dell’opinione pubblica.

Un esempio chiarificherà meglio di qual-siasi discorso teorico l’intera problematica.È il celeberrimo sondaggio d’opinione sul-l’opportunità per gli Stati Uniti d’Americad’entrare in guerra, effettuato prima del 7dicembre 1941. Tre inchieste sullo stessotema, effettuate in tempi diversi, condomande formulate differentemente, arri-vano a conclusioni divergenti in manieramolto netta. Le risposte sono funzioni deltipo di domanda posta, del momento in cuisono state poste, o di svariati fattori irridu-cibili a questo tipo d’approccio?

Quello che si può dire è che nel settem-bre 1941 il 17 per cento soltanto del cam-pione rappresentativo della popolazioneamericana ha risposto con un sì alla doman-

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da: «Volete che gli Stati Uniti d’Americaentrino adesso in guerra?». Invece, al 51 percento che ha approvato l’immediata entratain guerra, la domanda posta era formulatacosì: «Se Roosevelt e i nostri esperti mili-tari dichiarassero che l’Inghilterra sarebbebattuta se noi non entrassimo in guerra,allora voi sareste per l’entrata in guerra, sìo no?». Nel terzo sondaggio, la stessadomanda era formulata altrimenti: «C’ègente che dice che la Germania dichiarerà laguerra agli Stati Uniti d’America se noi con-tinuiamo ad aiutare gli Inglesi. Credete chevalga la pena di correre un tale rischio e con-tinuare così ad aiutare l’Inghilterra?». Il 76per cento degli intervistati rispose afferma-tivamente alla domanda, che gli analistiinterpretarono, ovviamente, nel senso chel’opinione pubblica americana era, nellastragrande maggioranza, in favore dellaguerra a fianco dei paesi democratici.

È possibile spiegare la differenza di rea-zioni sulla base della diversa formulazionedelle domande? Nella prima domanda siparla esplicitamente di scendere in guerra;nella seconda del rapporto tra la situazioneinglese e l’azione americana; nella terza del-l’impegno americano verso l’Inghilterra e sifa intravedere che questo impegno compor-ta un rischio di guerra. Si tratta di doman-de assolutamente incomparabili, con rispo-ste fra le quali non esiste nessun terminecomune. La percentuale in cui ogni rispostaè espressa non ha alcun significato, dalmomento che essa appartiene a un contestogenerale che il rapporto percentuale vanifi-ca senza residui. L’esempio qui citatomostra altresì che, come è stato già accen-nato sopra, la presentazione d’una alterna-tiva è un modo di costruire un’opinione,un’opinione per accrescere il consenso,progressivamente, per eliminazioni succes-

sive d’opinioni dissidenti. Le questioni suc-cessive presuppongono una unità indipen-dente dal discorso proposto dal questiona-rio e suppongono che esista un’opinione eche questa sia anche costante nel tempo. Orala variabilità dell’idoneità ad essere in situa-zione d’avere delle opinioni, e quindi a pro-durle, è considerevole. La si può ignorare?Infine, si dà per scontata una soluzione dinon-continuità tra l’opinione e l’atto.

Senza affermare che le rotture in mate-ria sono correnti, non bisogna però scarta-re l’ipotesi che il passaggio all’atto si diffe-renzi poi da un gruppo sociale all’altro, dauna situazione socio-storica a un’altra. Conciò si pongono in dubbio i fondamenti stes-si dell’analisi gerarchica che privilegial’implicazione di tutte le pratiche ed estra-pola da queste le opinioni e talvolta le opi-nioni dalle pratiche. Dubbio fondato. Nontutte le opinioni espresse hanno infatti lostesso valore. E non hanno lo stesso valoreper svariate ragioni: perché le domandenon sempre possono essere formulate inmaniera che tutti le capiscano univoca-mente; perché il questionario non arriva atenere conto dell’elocuzione ineguale del-l’interrogato, delle sue facoltà d’esprimer-si, e d’esprimersi a richiesta; perché nes-suna domanda è totalmente adiafora; per-ché raramente il soggetto comprende l’ar-ticolazione delle domande rispetto allafinalità dell’inchiesta, cosicché le rispostepossono avere come referente una pro-spettiva diversa e quindi significanze appa-rentemente senza collegamento; perchél’influenza soggettiva e talvolta incoscien-te del ricercatore, è incancellabile; perchénon si tiene sufficientemente conto del fat-to che nessuna risposta è producibile al difuori d’una situazione, che questa resta lastruttura portante della risposta. Allorché

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questa è percentualizzata, tale strutturaportante è espulsa.

Parlare di opinioni facendo astrazionedella funzione seminale del questionario,non è dunque corretto. Non c’è operazione,all’interno del questionario, che non rive-li la sua partecipazione attiva al modo diproduzione forzato dell’opinione. Ancoraun esempio, per concludere su questo pun-to. Il questionario ha, in generale, due tipidi domande: le domande aperte e ledomande chiuse. Alle domande chiuse sideve rispondere scegliendo la propriarisposta tra le risposte fornite dal questio-nario. Alle domande aperte si risponde infunzione della propria facoltà d’esprimer-si e di rendere conto di motivazioni, diesperienze, d’avvisi, ecc. Qual è la ragioneche fa scegliere al ricercatore il tipo didomanda (aperta o chiusa)? L’osservazionedella pratica sociologica mostra che si scel-gono le domande chiuse quando si può age-volmente prevedere la gamma di risposte-reazioni possibili e le si vuole ripartire inuna serie di percentuali. Queste rispostechiuse hanno altresì la preferenza dei ricer-catori, perché non pongono nessun pro-blema di trattamento. Sovente sono preco-dificate, si possono quindi contare senz’al-tro e sfruttare in conseguenza. L’illusioneche i risultati quantitativi permettano del-le constatazioni oggettive, scientifiche, gio-ca a questo proposito un brutto scherzo allaserietà del lavoro. Le domande aperte sonoutilizzate quando si ha a che fare con teminon ancora ben circoscritti, quando cis’immagina essere difficoltosa la distribu-zione percentuale, quando il rango gerar-chico delle opinioni è reputato sufficiente.L’apertura comporta, inevitabilmente,risposte qualitativamente diversissime.Che cosa permette di trattarle in maniera

uniforme, come se fossero omogenee? Ilsistema categoriale. S’elaborano delle cate-gorie e s’infilano in queste categorie, a lumedi naso, le risposte. Poi si codificano esat-tamente come le domande chiuse e si trat-tano per ottenerne dei dati quantitativi.L’accorgimento, in certi casi vero miraco-lo d’ingegnosità, permette di trasformarerisposte qualitativamente differenti in ele-menti enumerabili e comparabili. Anchequesto esempio mostra che si studiano leopinioni come se esistessero, e come sequesta esistenza fosse indipendente dalletecniche utilizzate per produrle.

Le stesse incongruenze epistemologichesi trovano nella fase successiva quando, invista della quantificazione dei risultati, siformano dei gruppi e si fanno delle classi-ficazioni. I manuali di tecniche d’inchiestae di statistica sociale sono in materia ine-sauribili: prescrizioni sofisticate, consigli diprudenza, avvertenze si susseguono per direche una ricerca concreta è sempre una cosadiversa da quella raccontata dai professori dimetodologia. In pratica, cosa succede?

A ogni risposta si dà un valore numeri-co. Se la risposta ha due corni si dà al sì ilvalore 1, al no il valore -1 ed al rifiuto dirispondere s’attribuisce il valore 0. Quasisempre le non-risposte sono accantonate edi tanto in tanto non sono nemmeno presein considerazione per il calcolo delle per-centuali, coi risultati sulla distribuzione chetutti possono immaginare. Quantificaresignifica semplificare? Si può risponderecon un esempio. Dato un campione di 3000persone alle quali sono state rivolte 30domande, si può costruire una tabella cheavrà 3000 linee e 30 colonne (le variabili).Si avranno, in poche parole, 9000 numeri.Cosa ricavare da una tale selva di numeri, ecome?

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Nelle situazioni più correnti si calcola lapercentuale per tutti i tipi di risposte. Lasoluzione è semplice, elegante e pococostosa. Sulle percentuali s’eserciterannol’intelligenza e l’acutezza analitiche delcommentatore, il quale potrà fare millevariazioni sul tema. I significati prodottisaranno ambigui, contraddittori, comun-que relativi al sistema di valori del com-mentatore.

Se i mezzi disponibili lo consentono, ilricercatore potrà fare di più: incrociare, peresempio, due risposte, per rispondere a unanuova domanda, che potrebbe essere cosìformulata: come si risponde alla secondadomanda se si è risposto sì, o no, o non si èpunto risposto alla prima? In questo caso, siavranno nove numeri, anziché sei. Essidiranno se tra la prima e la seconda doman-da v’è un rapporto. Coll’insieme di questidati sulle trenta domande, si possono for-mare 385 coppie. I risultati numerici otteni-bili sono enormi. Si può affermare che sonoanche più ricchi? Forse, ma l’interpretazio-ne di questa caterva di numeri diventa diffi-coltosissima: impossibile cavare da un sif-fatto intrico un significato globale.

Al fine d’aggirare tale ostacolo, si sonomesse a punto un’infinità di tecniche sta-tistiche, tra le quali – nel settore dello stu-dio delle opinioni – l’analisi tipologica, l’a-nalisi fattoriale delle corrispondenze, l’a-nalisi discriminante e l’analisi di segmen-tazione risultano le più praticate.

I metodi tipologici riducono progressi-vamente le famiglie costituite coll’aggrega-zione d’individui non troppo dissimilirispetto a certe caratteristiche. Essi classi-ficano gli individui (o le risposte) in un cer-to numero di famiglie, di gruppi, di catego-rie, ecc. Ogni classe dev’essere abbastanzaomogenea, o quanto meno il meno eteroge-

nea possibile rispetto ad un’altra classe. Perfare delle classi, bisogna avere dei criteri diclassificazione. Il più corrente è quello del-la distanza. Due individui rispondono inmaniera assai simile a tutte le domande?Sono allora considerati vicini e quindi piaz-zati nella stessa classe. Ovviamente esisto-no infinite formule per calcolare la distan-za, ma tutte mirano allo stesso scopo: otte-nere una debole distanza intra-gruppo e unaforte distanza inter-gruppi.

L’arbitrio delle classificazioni è palese.Si tenta di ridurlo per via di correzioni suc-cessive, mediante iterazioni continue, manon si esce dalla superfetazione. La sceltainiziale, arbitraria, condiziona tutti gli svol-gimenti susseguenti. È corrente il caso incui scelte di partenza differenti dànno, uti-lizzando la stessa materia, risultati forte-mente divaricanti.

Coll’analisi fattoriale si tenta di rag-gruppare le domande, insomma di trovareuna rappresentazione d’insieme di risposteassai disperse. Coll’analisi fattoriale dellecorrispondenze si calcola inoltre il grado difedeltà della rappresentazione ottenuta.L’utilità pratica d’una tale procedura è evi-dente. A livello interpretativo essa facilitamolto il compito del ricercatore. Ma essafunziona bene nel caso che gli oggetti stu-diati siano omogenei. Il che capita rara-mente. Più sovente l’omogeneità è creataartificialmente grazie ad un’operazionetipologica.

L’analisi discriminante cerca, divisa lapopolazione in gruppi, di trovare le varia-bili che meglio caratterizzino questi grup-pi; l’analisi canonica collega due insiemi divariabili misurate sulla stessa popolazione;l’analisi di segmentazione spiega una varia-bile coll’altra stabilendo un ordine gerar-chico decrescente tra le dimensioni e le

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loro associazioni successive, a seconda del-la grandezza delle differenze che compor-tano per la frequenza d’una caratteristica.Non è qui necessario farne una critica.Anch’esse, combinando, permutando, tra-sformando, contribuiscono a produrre ciòche hanno la pretesa di descrivere, di pre-sentare, d’indicare e d’enucleare.

Per concludere, si può dire che le tecni-che utilizzate per lo studio delle opinionidànno come scontata l’esistenza delle opi-nioni stesse e come pacifico che gli indivi-dui possano esprimerle a nome loro e/o delloro gruppo d’appartenenza. Queste mede-sime tecniche tralasciano lo studio dell’ap-porto da esse stesse fornito alla produzionedelle opinioni e non s’interrogano puntosulla responsabilità di chi opera le sceltetecniche e decide della scelta delle opinio-ni da produrre. I risultati mostrano che nonsi riesce ad uscire da questo circolo viziosonemmeno colla teoria dei sistemi, che pureprende in considerazione l’insieme dei pro-cessi di reazione, tra il pubblico, le masse, ileader d’opinione (opinion leaders) ed isistemi di sondaggio. Per cui, allo statoattuale delle cose, la funzione sociale deisondaggi d’opinione all’interno degli appa-rati egemonici è ben stabilita. Non è dettoche questa funzione sia esclusivamentemanipolatoria, quantunque lo studio di chiutilizza i sondaggi apra delle prospettivepoco fauste sulle ragioni d’un impiego cheormai copre tutti i settori della vita in socie-tà, dai sogni e dall’immaginario alla popo-larità d’un candidato e alla notorietà d’unoscrittore. Che i sondaggi siano al serviziod’una causa, che il loro processo d’influen-za sia un flusso a due tempi (two-step flow),non debbono far dimenticare che gli orga-ni per la fabbricazione, il controllo, la for-mazione e la diffusione delle opinioni sono

essi stessi delle opinioni. E qui il discorso sicongiunge con quello sulla propaganda.Questa ha cambiato il nostro rapporto colmondo, ha rotto l’isolamento delle comu-nità, ha minato i blocchi d’ignoranza, basedella gerarchia umana. Ma ha trasformatotutto in spettacolo, privilegiando la singola-rità, il sensazionale, il visibile, a danno del-l’astratto. La memoria collettiva è cancella-ta gradualmente e lascia il posto ai vissutiindividuali, alle storie di vita. Non vi sonoopinioni spontanee ed ingenue, esse riflet-tono questi meccanismi che hanno priva-tizzato il pubblico e reso pubblico il priva-to. I sondaggi d’opinione fotografano, comeverità immediate e definitive, rappresenta-zioni che l’informazione, la propaganda, imass media, gli apparati ideologici, lo stu-dio delle opinioni hanno generato o contri-buito a strutturare.

È stato scritto da Serge Moscovici che«malgrado le enormi pressioni che vengo-no esercitate perché si raggiunga un’uni-formità di pensiero, di gusto e di compor-tamento, non solo gli individui e i gruppisono in grado di resistervi, ma giungonoper di più a creare nuovi modi di compren-dere il mondo, di vestirsi e di vivere, nuo-ve idee politiche, filosofiche e artistiche, ea convincere altri ad accettarle. La lotta trale forze del conformismo e quelle dell’in-novazione non perde mai il sua fascino eresta decisiva per le une come per lealtre...». Per questa ragione, prosegue lostesso Moscovici, «bisogna abbandonare ivecchi modelli di spiegazione della realtà emostrarsi più critici e più audaci, e invecedi guardare la società dal punta di vista del-la maggioranza, dei dominanti, guardarladal punto di vista della minoranza, deidominati...». Questo vuol dire, per gli stu-di di opinione, che non bisogna più consi-

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derare le opinioni maggioritarie come ele-menti per fondare l’efficacia delle azioni eper legittimarle, che qualsiasi discorsocontiene un senso che è anche il valore delsoggetto-attore della conoscenza, che l’og-gettività non è né imparzialità né neutrali-tà. ln altri termini, che le opinioni, nelmomento della loro emergenza e durante laloro emergenza, sono inseparabili daisignificati che si attribuiscono alle cose, daigiudizi di valore che permettono di fissare

delle finalità. Se è così le opinioni possonoessere numerose e nessuna può pretende-re ad una superiorità o a una supremaziaquale che sia. In una situazione caratteriz-zata da un pluralismo assoluto, è forse arri-vato il momento per rivisitare i concetti dimaggioranza e minoranza, d’opinionidominanti e d’opinioni devianti. Un talecambiamento permetterà di porre su basipiù solide anche gli studi sulle opinioni.

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1 Le relative indicazioni bibliogra-fiche si trovano in G. Busino, Perun’altra sociologia, Torino, Einau-di, 1983, pp.113-131 e in La socio-logie sans dessus dessous, Genève,Droz, 1992, pp. 180-198, nonchéSociedade-Civilização, Lisboa, Casade Moeda, 1999, pp. 271-290.

2 Le ricerche della Mead suscitanotuttora contestazioni e controver-sie importanti criticamente ana-lizzate da S. Tcherkézoff, Le mytheoccidental de la sexualité polyné-sienne, 1928-1999. Margaret Mead,Derek Freeman et Samoa, Paris,Puf, 2001.

3 I testi maggiori della concezioneempirista dell’opinione pubblicasono presentati da J. Padioleau,L’opinion publique. Examen criti-que, nouvelles directions. Recueil detextes, Paris, Mouton, 1981. Biso-gna però completarli con quellidi The spiral of Silence. Public Opi-nion-Our Social Skin, Chicago,

University Press, 1993; Die sozia-le Natur des Menschen. Beiträge zurempirischen Kommunikationsfor-schung , Fr e i b u r g - M ü n c h e n ,Alber, 2002, d’Elisabeth Noelle-Neumann (un individuo nonesprime volentieri la propria opi-nione, la dissimula se crede d’es-sere in minoranza). Sulle impor-tanti ricerche pubblicistiche edemoscopiche di questa studiosa,nata a Berlino nel 1916, fondatri-ce del leggendario «Institut fürDemoskopie» di Allensbach amBodensee, vedi il libro di KlausSchönback, Trennung von Nach-richt und Meinung, Freiburg-München, Alber, 1977.

4 Questo punto è contestato dai cri-tici sia del modello meccanicista,che ricorre ad una “forza occulta”per spiegare la correlazione tral’opinione e i dati sociobiografici,sia dal modello economicista edell’utilità sperata, per il quale le

opinioni dei soggetti sociali sonodeterminate da interessi indivi-duali e collettivi. Lo studioso cheha sviluppato con più rigore que-ste critiche è R. Boudon, «Voxpopuli, vox Dei?». Le «spectateurimpartial» et la théorie des opi-nions, in R. Boudon, P. Demeule-naere, R. Viale (sous la directionde), L’explication des normes socia-les, Paris, Puf, 2001, pp. 93-127, eper ulteriori sviluppi, dello stessoDéclin de la morale? Déclin desvaleurs?, Paris, Puf, 2002 e Raison,bonnes raisons, Paris, Puf, 2003.

5 Una sintesi di tali posizioni si tro-va in P. Champagne, Faire l’opi-nion. Le nouveau jeu politique,Paris, Minuit, 1990, che riprendele ricerche in materia di PierreBourdieu ora in Questions desociologie, Paris, Minuit, 1980 e inInterventions, 1961-2001. Sciencesociale & Action politique, Marseil-le, Agone, 2002.

Tra gli autori che nel corso degli ultimidecenni hanno contribuito a identificare ladinamica dell’opinione pubblica come unautonomo campo di indagine storico-socia-le, un posto di rilievo spetta sicuramente aJürgen Habermas. Il suo principale contri-buto sul tema – il volume Strukturwandel derÖffentlichkeit, pubblicato in Germania nellontano 1962 – ha superato brillantementela prova del tempo, imponendosi come unineludibile termine di confronto per chiun-que, a tutt’oggi, intenda affrontare in pro-spettiva storica la dinamica della politicacontemporanea, tra Stato di diritto e demo-crazia di massa. I motivi di questa eccezio-nale longevità risiedono nelle peculiaritàstesse del testo: perché, come è stato da piùparti sottolineato, quella offerta da Haber-mas nel suo volume è qualcosa di più di una– pur ampia e articolata – «storia dell’opi-nione pubblica» come fenomeno socio-politico e categoria ideologico-concettuale.A prendere forma in queste pagine è, infat-ti, un modello critico-ricostruttivo per mol-ti versi innovativo, una multidisciplinare

griglia di lettura al centro della quale spic-ca quello che per Habermas rappresenta ilvero nucleo costitutivo della modernitàpolitica: la dimensione della Öffentlichkeit,termine con qualche forzatura tradotto initaliano con “sfera pubblica”1.

Sebbene «nel quadro di diversi corsi distudi» sia stato adottato «come una speciedi manuale» (Habermas 1990, p. VII), iltesto habermasiano ha ben poco in comu-ne con l’anodina linearità di molte sintesistoriografiche. Nelle mani di questo autoreil concetto di Öffentlichkeit ha finito infattiper trasformarsi in un vero e proprio«paradigma per l’analisi del mutamentostorico», oltre che nella base normativa peruna rifondazione critica della politica(Hohendahl 1979, p. 92). Non sorprende,pertanto, che dal momento della sua pub-blicazione il volume abbia stimolato indiversi ambiti disciplinari una fruttuosaserie di verifiche e approfondimenti, dive-nendo esso stesso oggetto di dibattito, seb-bene spesso più per motivi ideologico-poli-tici che per esigenze di carattere metodolo-

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La trasparenza del politico.Habermas e il paradigma dellasfera pubblica

luca scuccimarra

giornale di storia costituzionale n. 6 / II semestre 2003

gico. Né sorprende che le tesi di fondo inesso enunciate abbiano subíto nel tempouna progressiva rimodulazione, secondo unpercorso evolutivo che appare pienamenteconsonante con il complessivo sviluppodella riflessione filosofica di Habermas.Obiettivo di queste pagine è appunto quel-lo di ricostruire l’intelaiatura problematicae argomentativa che anima questo percor-so, tentando di rileggere lo sviluppo delparadigma habermasiano della “sfera pub-blica” anche alla luce dell’intensa discus-sione critica da esso generata.

1. Il quadro interpretativo: la «sfera pubblicaborghese» e la sua dissoluzione

È difficile restituire in poche battute il qua-dro interpretativo che guida la ricostruzio-ne di Habermas, senza rischiare di appiat-tirlo o banalizzarlo. Per esplicita ammissio-ne dell’autore, Strukturwandel der Öffent-lichkeit assume infatti come proprio oriz-zonte di riferimento «tutto quel vasto cam-po dal quale un tempo derivava la determi-nazione della propria visuale la “politica”tradizionale»; la problematica da esso inda-gata risulta, dunque, dalla intersezione di«aspetti sociologici ed economici, giuridi-co-statuali e politologici, di storia sociale edelle idee» (Habermas 1962, p. XLV) e pro-prio in questa perseguita interdisciplinari-tà trova il suo elemento più caratterizzante.Alcuni punti fermi possono però essere fis-sati senza fare violenza al testo, a comincia-re dall’orizzonte spazio-temporale di riferi-mento: come sottolinea Habermas, obietti-vo dell’indagine è l’analisi della «sfera pub-blica borghese (bürgerliche Öffentlichkeit)»intesa come «categoria tipica di un’epoca»,

quell’era della borghesia che dalla genesidella moderna economia di mercato (XVII-XVIII secolo) giunge sino alla sua ristruttu-razione nelle forme del capitalismo orga-nizzato (XIX-XX secolo); e il campo di inda-gine prescelto coincide con la vicendasocio-politica di tre nazioni europee –Inghilterra, Francia e Germania – conside-rate in diverso grado rappresentative delcomplessivo contesto indagato.

Sicuramente meno agevole è, invece,definire lo specifico oggetto della ricerca,giacché qui occorre fare i conti con quellaambivalenza semantica di fondo che alcuniautorevoli critici, forse con eccessiva seve-rità, hanno considerato il vero punto debo-le della categoria habermasiana di Öffent-lichkeit (Bobbio 1980, p. 186). Meglio, dun-que, procedere per gradi, soffermandosi suidiversi orizzonti di senso ascrivibili allaricostruzione di Habermas.

Ad un primo livello, la «genesi della sfe-ra pubblica borghese» coincide con quelprocesso di polarizzazione che dall’indiffe-renziato contesto di azione tipico del mon-do feudale vede sorgere i diversi ambiti delpotere pubblico e dell’agire economico, delpolitico e del sociale. È in questo orizzonteche la coppia categoriale pubblico-privato,conservatasi nel corso dei secoli nello stam-po linguistico latino, assume il suo peculia-re significato moderno: qui la dimensionepubblica non si esaurisce più, come nell’e-sperienza medievale, in un «indice distin-tivo di status» da esibire di fronte al popo-lo secondo le modalità di quella che Haber-mas definisce «pubblicità rappresentati-va», ma si impone come un ambito speci-fico individuabile «dal punto di vista socio-logico, cioè sulla base di criteri istituziona-li» (Habermas 1962, p. 9). Un passaggio,questo, in gran parte collimante con la

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genesi del moderno Stato territoriale comelocus autoritativo progressivamente svinco-lato dalla persona del monarca. In tale acce-zione, dunque, “sfera pubblica” indical’ambito del potere statuale e “sfera priva-ta” il diretto ambito di azione di tutti colo-ro che, non occupando alcun ufficio pubbli-co, a quel potere sono «semplicemente sog-getti» (Habermas 1962, p. 23).

Si tratta però solo di uno strato, e il piùsuperficiale, dell’articolato complessosemantico sviscerato dalla ricostruzionehabermasiana. Approfondendo l’analisi delnuovo spazio di esperienza prodotto dalladinamica statuale nei suoi costitutiviintrecci con la nascente economia capitali-stica, ci si accorge infatti che la pressioneprodotta dalle politiche mercantilistichefinisce per attribuire una peculiare «rile-vanza pubblica» ad attività e dipendenzetradizionalmente confinate nel chiuso del-l’economia domestica. Prende forma, cioè,quell’«ambito del traffico di merci e dellavoro sociale» che nel vocabolario delpensiero moderno assumerà il nome disocietà civile: un contesto di azione a tuttigli effetti «privato», ma sottoposto a«pubblica direzione e sorveglianza» e dun-que percepito dagli stessi privati come unambito di interesse generale, perché rile-vante per tutti.

È proprio qui, nella “zona” critica in cuiregolamento pubblico e iniziativa privatacoesistono stabilmente, che trova alimen-to quella curvatura riflessiva della societàche Habermas definisce «sfera pubblica»in senso stretto: uno spazio di mediazionediscorsiva tra l’«ambito del pubblico pote-re» e l’«ambito privato» in cui le condi-zioni di riproduzione sociale non sono piùoggetto di cura esclusivamente da parte delgoverno, ma vengono discusse «da tutti i

sudditi come loro proprio interesse»(Habermas 1962, p. 29). Alla base di talepassaggio si pone certamente la nascita diun’economia di mercato, fondata sull’au-tonoma iniziativa individuale; altrettantoimportante si rivela però quella che si èsoliti definire la “rivoluzione della stam-pa”: la genesi, cioè, di un nuovo sistema dicircolazione dell’informazione, fondatosulla stampa periodica ma anche sui nuoviluoghi della socialità borghese (caffè, clubs,salotti). È solo grazie a questo “sistemamediatico” che l’insieme dei “privati” puòsuperare infatti la propria disgregata dislo-cazione spazio-temporale per fondersi inun soggetto collettivo di nuovo tipo, il publi-cum, destinato ad imporsi progressiva-mente come un’«astratta controparte delpotere pubblico, cosciente di sé comeinterlocutore»2.

Considerata a questo secondo livello, la«sfera pubblica borghese» può esseredefinita, dunque, come lo spazio di azionedei privati che, riuniti come pubblico,rivendicano contro lo stesso potere stataleil diritto di concordare con esso le regolegenerali del commercio nella sfera, pub-blicamente rilevante, dello «scambio dimerci e del lavoro sociale». Come un foro,cioè, nel quale il pubblico potere è chiama-to a rendere ragione delle proprie azioni –e dunque a legittimarsi – di fronte ad un’i-stanza critica di nuovo tipo, sorta dal nucleostesso di costituzione della pubblicità bor-ghese: l’opinione pubblica. Nello sviluppodella sua trattazione, Habermas si soffer-ma in particolare sul diversificato proces-so di istituzionalizzazione di questa «sferapubblica con funzioni politiche», dalla suaprima apparizione nell’Inghilterra dellaGlorious Revolution sino alla definitiva con-sacrazione nella vicenda ottocentesca del-

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lo «Stato di diritto borghese con forma digoverno parlamentare». In tale modellocostituzionale, questa dimensione ottiene,infatti, «lo status normativo di organo del-l’automediazione della società civile con unpotere statale rispondente alle sue esigen-ze», imponendosi come il principio stessodi organizzazione dello Stato. Da questopunto di vista, si può dire che pubblicità,nel senso di trasparenza, accesso, disponi-bilità, sia la vera e propria parola d’ordinedella forma di governo che, con alternevicende, si diffonde in Europa a partiredagli anni Trenta dell’Ottocento:

La pubblicità dei dibattiti parlamentari garanti-sce all’opinione pubblica la sua influenza e assi-cura il legame fra deputati ed elettori come partidello stesso pubblico. Circa nello stesso tempo lapubblicità si impone anche nei procedimenti giu-diziari. Persino la magistratura indipendente habisogno del controllo dell’opinione pubblica; lasua indipendenza tanto verso l’esecutivo quantoverso i privati sembra essere garantita soltantotramite il pubblico pronto alla critica.[Habermas 1962, p. 96 ss.]

Nell’impostazione di Habermas, ènecessario però un ulteriore slittamento dipiano per comprendere appieno il signifi-cato di questo processo nella complessivavicenda politico-istituzionale dell’etàmoderna. Oltre che come spazio – sociale epoi istituzionale – di mediazione tra «sfe-ra del pubblico potere» e «ambito priva-to», la «sfera pubblica borghese» si pro-pone infatti all’attenzione dell’interpretecome un peculiare campo di interazionediscorsiva, caratterizzato, in tutte le suevarianti, da comuni principi costitutivi.Dopo aver indagato il processo di costitu-zione esterna della «sfera pubblica bor-ghese» attraverso l’analisi della sua infra-struttura mediatica e giuridico-istituziona-

le, Habermas ne approfondisce perciò lemodalità di articolazione interna, a partireda quella fondazione filosofica del «prin-cipio di pubblicità» che trova i suoi prin-cipali passaggi nella direttrice più innova-tiva del pensiero moderno, da Locke agliIlluministi scozzesi, dai Fisiocratici a Kant.E ciò che emerge dalla sua analisi è un idea-le spazio comunicativo che, sulla base diprecisi «fondamenti istituzionali» – siste-matica astrazione dalle disuguaglianze distatus, assenza di limiti al processo di pro-blematizzazione riflessiva, assoluta apertu-ra verso l’esterno – viene proponendosicome il luogo di una libera discussionerazionale fondata sulla sola autorità dell’ar-gomento migliore, una determinazionecooperativa del bene comune, non distor-ta da alcun interesse di parte (Habermas1962, pp. 43 ss.).

È appunto a questo livello che l’approc-cio di Habermas entra nel vivo della suadinamica ricostruttiva, quell’analisi strut-turale della sfera pubblica borghese aperta-mente evocata anche dall’originario titolodell’opera. Ed è a questo livello che la suariflessione raggiunge i risultati più pene-tranti e innovativi, dando vita a quel para-digma discorsivo della Öffentlichkeit, desti-nato ad influenzare profondamente il suosuccessivo itinerario filosofico-politico.Conformemente alla specificità del suometodo d’indagine, Habermas non rinunciainfatti ad indagare il più ampio contestogenetico di questo processo, soffermando-si in particolare sui due passaggi evolutiviche a livello storico-sociale pongono leimmediate premesse per la costituzionedella discorsività borghese: da un lato, lanascita di una forma di produzione cultura-le orientata al mercato, che – dissolvendo ivincoli della «pubblicità rappresentativa»

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vetero-cetuale – rende, in linea di princi-pio, i beni culturali accessibili a tutti, tra-sformandoli per ciò stesso in oggetti pub-blici, suscettibili di discussione; dall’altro,il processo di emancipazione psicologicache la nascente borghesia sperimenta nelsecondo ambito di azione in cui è articolatala sua «sfera privata»: vale a dire quella«sfera intima» in cui l’individuo rappre-senta se stesso non più come bourgeois, pro-prietario di merci e attore della scena mer-cantile, ma come homme, padre di famigliae garante delle nuove forme, sentimentali epsicologiche, della società borghese.

È proprio alla confluenza tra queste duelinee di sviluppo che nasce quella «sferapubblica letteraria» che secondo Habermasrappresenta il prototipo della pubblicitàborghese. In tale spazio di interazione dis-corsiva – peculiarmente simboleggiato dal-la nuova istituzione della critica letteraria –gli uomini apprendono infatti ad accertarsicomunicativamente della loro soggettività,utilizzando i materiale provenienti dalla sfe-ra dell’intimità. Un passaggio, questo, che –nel bene e nel male – si rivelerà decisivo perla genesi di una «sfera pubblica con funzio-ni politiche»: anche quando applicano laloro funzione critica ai problemi di fondodella produzione e riproduzione sociale, imembri del pubblico borghese continuano,infatti, a rappresentare se stessi come «purie semplici uomini» impegnati a raggiunge-re, attraverso il medium della «pubblicaargomentazione razionale», una veritàinscritta nell’ordine stesso delle cose. E ciò,se da un lato conferisce alla pubblicità poli-tica una forma istituzionale peculiarmenteaperta, dall’altro non fa che riprodurreanche in campo politico la decisiva ambiva-lenza strutturale caratteristica della «sferapubblica letteraria», vale a dire la sua pro-

fonda condizionatezza economico-sociale:perché il borghese è sempre «due cose inuna», proprietario di beni e uomo, bourgeoise homme; e

non appena i privati si intendono non più sol-tanto come uomini sulla loro soggettività, maambiscono a determinare il potere pubblicocome proprietari nel loro comune interesse, l’u-manità della sfera pubblica letteraria serve damediazione all’effettività di quella politica.[Habermas 1962, p. 65]

Tradotta nelle categorie di una storiasociale di chiara impronta marxiana, l’am-bivalenza strutturale della «sfera pubblicaborghese» non è che un altro modo peresprimere il rigido fondamento classista delsistema politico scaturito dal crinale rivo-luzionario. Sebbene metta in scena l’utopiadi un «libero accesso per tutti», il pubbli-co che costituisce il soggetto dello Stato didiritto borghese resta infatti legato a preci-se condizioni di appartenenza: la cultura èuno dei suoi criteri di ammissione, e l’altroè la proprietà, due condizioni che di fattoriguardano la stessa cerchia di persone e chedefiniscono l’uomo, vale a dire la personapienamente autonoma in grado di parteci-pare ad un discorso critico-razionale sul-l’interesse generale. Nel contesto politicodello Stato di diritto borghese tale ambiva-lenza di fondo trova immediata espressionein un’ideologia censitaria che subordinal’accesso alla sfera pubblica con funzionipolitiche al possesso di determinati requi-siti tributari. Essa si manifesta però in modoancora più radicale nella sostanza normati-va di un ordinamento giuridico-statuale cheattraverso l’intelaiatura dei diritti fonda-mentali si propone di garantire al tempostesso la sfera del pubblico che discute nel-l’esercizio delle sue funzioni politiche, lo

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«status di libertà del singolo all’interno del-la piccola famiglia patriarcale» e i «rapportitra proprietari privati nell’ambito dellasocietà civile» (p. 96). Proprio in questacommistione di piani si disvela, infatti,secondo Habermas, il fondamentale conte-nuto classista di una forma politica fondatasulla separazione tra Stato e società civile eper il suo tramite sulla conservazione di unordine economico che si assume autosuffi-ciente. Una contraddizione, questa, che nel-l’autorappresentazione ideologica della«sfera pubblica borghese» tende ad esseresistematicamente occultata dal mito delmercato come istituzione meritocratica:perché i fondamenti istituzionali di questospazio discorsivo sono pur sempre rispetta-ti quando le condizioni economiche e socia-li offrono a chiunque la possibilità di rag-giungere con il proprio lavoro i presuppostimateriali di una piena partecipazione allasfera pubblica.

La successiva evoluzione dell’ordinesociale borghese avrebbe ben presto dimo-strato la fallibilità di questa pretesa e conessa la costitutiva fragilità dei fondamentistrutturali del modello classico di “pubbli-cità”. Il nuovo interventismo che caratte-rizza l’azione statale dalla fine del XIX seco-lo rappresenta infatti, già di per sé, un’au-torevole smentita di quel principio dellaautonomia della società civile presente allabase della “pubblicità borghese”, giacché«gli interventi del potere pubblico nelcampo delle relazioni dei privati medianoimpulsi che provengono indirettamentedalla loro stessa sfera» (Habermas 1962, p.164). Al tempo stesso, con l’irruzione dimasse sempre più ampie di cittadinanza nelrecinto protetto della politica, si assisteall’assunzione da parte di soggetti formal-mente appartenenti all’ambito privato –

come associazioni, potentati economici,gruppi di pressione – di «un caratteresemipubblico» che finisce per attribuireun’immediata rilevanza politica alle istan-ze e rivendicazioni da essi avanzate. Ciò cheemerge dalla «dialettica tra una progressi-va statalizzazione della società contempo-ranea e una sempre più marcata socializza-zione dello Stato» è così una «sfera socia-le ripoliticizzata nel cui ambito istituzionistatali e sociali si fondono in un complessodi funzioni che non si presta più alle distin-zioni tradizionali di pubblico e privato»(Habermas 1962, p. 172). Con ciò vienemeno quel presupposto strutturale – laseparazione tra Stato e società civile – cheaveva creato lo spazio stesso di articolazio-ne della «sfera pubblica borghese».

Tutta la seconda parte di Strukturwandelder Öffentlichkeit è diretta ad analizzare leconseguenze di questo processo, nei diver-si livelli – economico, politico, giuridico,culturale – sui quali esso esercita i suoieffetti. Al centro dell’interesse di Habermascontinua a porsi, però, la dinamica funzio-nale di quella «sfera pubblica» in sensostretto – la Öffentlichkeit come spazio criti-co-razionale di legittimazione del potere –che a suo giudizio aveva rappresentato «ilprincipio stesso di organizzazione dello Sta-to di diritto borghese a forma di governoparlamentare». È proprio a questo livello,infatti, che si registrano le più devastanticonseguenze del processo in corso: nel ter-reno intermedio che sorge dalla sempre piùcapillare intersezione tra Stato e società, lacostituzione della volontà comune della cit-tadinanza non avviene più attraverso «lamediazione dei privati impegnati nel dibat-tito politico», ma nelle forme non discor-sive della negoziazione e del compromessotra la pubblica amministrazione e istanze

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quasi-pubbliche portatrici di interessi pri-vati (associazioni, partiti, gruppi di interes-se). Un «ciclo del potere», questo, in cui ilpubblico come tale è inserito sporadica-mente e «soltanto per applaudire i risulta-ti», secondo la logica perversa di un pro-cesso di massificazione delle coscienze chein campo culturale finisce per privare lapubblicità borghese dei suoi stessi presup-posti psicologici di funzionamento. Insie-me all’ordine sociale, muta dunque l’idea diuna sfera pubblica con funzione politica eanche la sua effettiva funzione:

ciò che una volta fungeva da foro ideale della dis-cussione critica e razionale viene tramutato innulla più che un altro ambito del consumo cul-turale, e la sfera pubblica borghese degrada nelfalso mondo della creazione di immagini e delcontrollo delle opinioni.[Thompson 1995, p. 111]

La dimensione pubblica critica è sop-piantata da quella manipolativa. Considera-ta nel suo più profondo nucleo di senso, ladialettica della «sfera pubblica borghese»si conclude, dunque, secondo Habermas,con una completa inversione dei suoi dispo-sitivi fondativi. Quello che un tempo era sta-to un filtro discorsivo di interessi singoli,«neutralizzati nel comune denominatoredell’interesse di classe perché privatizzati»,diviene ora il luogo di mera dimostrazionedi interessi concorrenti di parte. Per questomotivo Habermas ritiene possibile sintetiz-zare la complessa dinamica di questo pro-cesso di dissoluzione della «sfera pubblicaborghese» attraverso la riuscita categoriadella “rifeudalizzazione della sfera pubbli-ca”: come dimostra la dilagante prassi dellepublic relations, nell’esperienza dello Statotardo-capitalistico la pubblicità imita, infat-ti, in modo parodistico «quell’aureola di

prestigio personale e di autorità sovranna-turale» di cui un tempo le cerimonie dellavita di corte ammantavano i re. In tale con-testo, «i “portatori di offerte” si esibisconoin uno sfoggio rappresentativo davanti aiclienti arrendevoli», e questa «integrazio-ne di intrattenimento di massa e sollecita-zione pubblicitaria» impone il suo codiceperfino allo Stato, che impara a rivolgersi aicittadini come se fossero consumatori. Cosìanche il potere pubblico rende omaggio aldilagante impero della pubblicità commer-ciale, come tecnica di costruzione di una dif-fusa «benevolenza non impegnativa»(Habermas 1962, p. 225). La diagnosi con-clusiva di Habermas non potrebbe perciòessere più spietata: esclusa dalla discussio-ne pubblica e dai processi decisionali, lamassa della cittadinanza diviene nelle socie-tà contemporanee un mero serbatoio dilegittimazione dal quale i politici, con l’au-silio dei media, possono trarre di volta involta il livello di consenso sufficiente a legit-timare i loro programmi.

2. Alle origini del “modello Habermas”

È probabilmente vero che alla base del gran-de affresco di Strukturwandel der Öffentlich-keit non c’è una nuova tesi, ma la «riformu-lazione di un’idea tradizionale» (Asa Briggse Peter Burke 2000, p. 92). Il nucleo cen-trale della ricostruzione – la rilevanzaassunta dal circuito dell’opinione pubblicanella dinamica dello Stato parlamentare didiritto – appartiene, infatti, alle consolida-te modalità di autorappresentazione pub-blicistica della modernità politico-istitu-zionale. Si dà il caso, però, che proprio quel-la riformulazione abbia esercitato una

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straordinaria influenza sulla storiografiacontemporanea, rivelandosi come un effi-cace stimolo all’apertura di nuovi terreni diindagine. Nel solo ambito degli studi sulXVIII secolo, le tesi di Habermas sulla gene-si della «sfera pubblica borghese» hannotrovato, ad esempio, un contrappunto (piùo meno esplicito) nelle recenti ricerche diautori come Robert Darnton, Daniel Roche,Roger Chartier e Keith Michael Baker. E ciòha finito per retroagire sulla sostanza stes-sa della ricostruzione habermasiana, con-sentendo di leggere in un ben più articola-to quadro analitico – e con alcune vistosecorrezioni di rotta3 – quel processo di costi-tuzione del moderno espace public che nel-l’impianto del saggio appariva inevitabil-mente compresso nella rigidità di uno sche-ma di sintesi.

Nel corso degli anni non sono mancati,comunque, giudizi severi sulla complessi-va validità della ricostruzione habermasia-na. Ad essere messa in discussione è stata,in particolare, la centralità attribuita allapubblicistica settecentesca – e in primoluogo alla stampa periodica dell’epoca – nelprocesso di costituzione di una “sfera pub-blica” nella più stringente accezione deltermine. Come è stato sottolineato, datareagli anni Cinquanta del XVIII secolo – oanche agli anni Trenta, come proponeBaker – la nascita in Francia di «un pub-blico che dibatte problemi politici» signi-fica sostanzialmente ignorare il ruolo gio-cato in questa dinamica dalla crisi di metàSeicento, un momento storico «in cui vie-ne prodotta una vera e propria alluvione ditesti a stampa su temi attinenti alla vita col-lettiva e in cui si scorge con chiarezza la for-mazione di un’arena pubblica» (Benigno1999, p. 99). E analoghe considerazionivalgono per l’Inghilterra, il vero e proprio

«caso modello» dell’analisi habermasia-na: anche qui, infatti, appare possibileretrodatare almeno sino agli anni dellaguerra civile quel passaggio evolutivo cheHabermas identifica con la grande fioritu-ra pubblicistica del primo Settecento.

Su questa base si è finito, anzi, per met-tere in dubbio anche la supposta centralitàdella “pubblicità letteraria” nel processo dicostituzione della «sfera pubblica borghe-se»: perché concentrare tutta la propriaattenzione sul ruolo fondativo assunto in talecontesto dalla letteratura moralistica e “sen-timentale” à la Fielding significa trascurarei contributi, altrettanto rilevanti, offerti daaltri segmenti della cultura dell’epoca, comela pubblicistica religiosa o la trattatisticascientifica (Zaret 1992, pp. 212 ss.).

Approfondendo il livello di analisi sto-riografica, dunque, il quadro d’insiemecambia, la narrazione si fa più sfumata e larilevanza stessa del modello borghese dipubblicità finisce per essere ridimensio-nata, rispetto ad altre forme di discorsopubblico ad essa radicalmente estranee(Thompson 1995, p. 107). E ciò senza con-tare la posizione estrema di chi è giunto asostenere che nella realtà il tipo di «sferapubblica politica» descritto da Habermasnel suo lavoro non è mai esistito, nemme-no in Inghilterra (Wisching, 1990, p. 352).

Sarebbe peraltro quanto meno incon-gruo pretendere di giudicare un’operacome Strukturwandel der Öffentlichkeit sullasola base della sua puntualità storiografica(Kramer 1992, pp. 249 ss.). Nonostante lagrande quantità di dati “evenemenziali”portati a sostegno del proprio schemainterpretativo, Habermas non si è mai can-didato infatti al ruolo di “storico ufficiale”della «sfera pubblica borghese». Al con-trario, nella premessa alla prima edizione

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del libro egli mette apertamente in guardiadai rischi connessi ad un tentativo rico-struttivo costretto a «procedere contem-poraneamente sul piano sociologico e sulpiano storico»: l’indagine sociologica deitrends storici – scrive – deve, infatti, man-tenersi necessariamente

ad un livello di generalità in cui processi e acca-dimenti irripetibili possono essere citati solo atitolo d’esempio, cioè interpretati come esempidi uno sviluppo sociale che va al di là del caso sin-golo. Questo procedimento sociologico si distin-gue dal rigoroso esercizio storiografico per unaapparente maggiore libertà di giudizio nei con-fronti del materiale storico; ciò nonostante obbe-disce dal canto suo ai criteri ugualmente rigoro-si di un’analisi strutturale delle connessioni del-la totalità sociale.[Habermas 1962, p. XLVI]

Qui, dietro l’apparente formalismo diuna excusatio di rito, a prendere la parola ègià il teorico della società tardo-capitalisti-ca, il sofisticato studioso delle patologiedella modernità politica e sociale. Tuttol’impianto dell’opera trae infatti alimentoda un’analisi strutturale della totalità socia-le, in cui la ricostruzione del dato storio-grafico appare sin dall’inizio finalizzataall’obiettivo primario di una critica del pre-sente. Da questo punto di vista risultaimpossibile cogliere il senso più profondodella proposta interpretativa habermasia-na, se non riconducendola al complessivocontesto gnoseologico in cui essa trova lasua originaria collocazione.

All’inizio degli anni Novanta, commen-tando retrospettivamente il “quadro teoreti-co” di riferimento della ricerca, Habermasha voluto sottolineare in particolare l’in-fluenza esercitata su di essa dall’ampio dibat-tito sull’essenza e il valore del Wohlfahrtsstaatall’epoca in corso nella scienza giuspubblici-

stica tedesca. Da questo punto di vista, l’iti-nerario ricostruttivo proposto in Struktur-wandel der Öffentlichkeit rappresenterebbeessenzialmente un contributo storico-socio-logico all’interpretazione socialmente pro-gressiva della costituzione tedesca elaboratada Wolfgang Abendroth in polemica con letesi dei giuristi conservatori à la Forsthoff:come un tentativo, cioè, di riportare alla lucela costellazione partecipatoria e critico-razionale presente sin dall’origine nell’inte-laiatura dello Stato parlamentare di diritto,attraverso la categoria della Öffentlichkeit(Habermas 1990, pp. XX ss.).

È peraltro difficile comprendere a fon-do l’impianto categoriale dell’opera, senzaprendere in considerazione il ruolo gioca-to nella sua elaborazione dalla KritischeTheorie di matrice francofortese. SebbeneHabermas resti ancor oggi particolarmen-te reticente su questo aspetto del suo sag-gio – un atteggiamento che riflette le con-dizioni accademicamente problematiche incui esso vide la luce4 – non c’è dubbio,infatti, che Strukturwandel der Öffentlichkeitrappresenti da diversi punti di vista il piùcompiuto risultato del lavoro da lui svoltopresso l’Institut für Sozialforschung di Fran-coforte a partire dalla metà degli anni Cin-quanta. La valutazione di tale legame teore-tico chiama in causa tuttavia questioni digrande complessità e deve essere affronta-ta con estrema cautela. Occorre, in parti-colare, evitare di leggere la vicenda della«sfera pubblica borghese» descritta daHabermas come una mera variazione sultema della “dialettica dell’illuminismo”,caratteristico della tarda produzione diHorkheimer e Adorno.

Da questo punto di vista, se è vero chesullo sfondo dell’analisi di Habermas sem-brano riproporsi molti temi della critica

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francofortese alla società di massa, è altret-tanto vero che l’impostazione stessa del suosaggio rappresenta un implicita presa didistanza dal vicolo cieco intellettualeimboccato dai principali esponenti dellaScuola dall’epoca dell’emigrazione ameri-cana. Contro il minimalismo sociologicoche domina l’ultima stagione di Horkhei-mer e Adorno, è un vero e proprio ritornodella grande teoria sociale quello che sidelinea, infatti, nelle pagine habermasiane.E qui il paradigma di riferimento sembraessere, più che il rassegnato Kulturpessimi-smus degli scritti degli anni Cinquanta, laconcezione dialettica della totalità socialecaratteristica della prima fase della para-bola francofortese: vale a dire, quel model-lo gnoseologicamente rinnovato di criticadell’ideologia che aveva trovato le sue piùpenetranti formulazioni metodologichenelle pagine sul concetto di Teoria criticapubblicate da Horkheimer e Marcuse sullaZeitschrift für Sozialforschung – la “storica”rivista dell’Institut.

A distanza di molti decenni, ancheHabermas appare convinto, infatti, checompito di una teoria critica della societàsia quello di mettere a confronto le prete-se dell’ideologia borghese con la realtà del-le condizioni vigenti, per valorizzare ipotenziali emancipatori presenti nel senostesso della società tardo-capitalistica (Jay1973, p. 93). Sarebbe inutile, però, cercarenello sviluppo del testo una esplicitadichiarazione di adesione a questo impe-gnativo paradigma critico: nel momento incui i suoi conflittuali rapporti con il grup-po dirigente dell’Institut hanno raggiunto ilpunto di rottura, Habermas sceglie infattidi affidare il senso della continuità inter-generazionale soltanto ad un breve ma cru-ciale richiamo agli Studien über Autorität und

Familie, per molti versi l’espressione epi-stemicamente più compiuta della primafase della teoria critica francofortese.

È sufficiente, tuttavia, fare riferimentoal coevo Über den Begriff der politischen Betei-ligung, vera e propria premessa “militante”al saggio sull’opinione pubblica, per trova-re pienamente esplicitato quanto in que-st’ultimo rappresenta un inespresso pre-supposto metodologico. Qui, infatti,Habermas sceglie di dare forma al proprioprogetto critico-ricostruttivo ricorrendo adun passo della Dialettica dell’Illuminismoche può essere letto come una vera e pro-pria «intrusione» del periodo classico del-la teoria critica (Habermas 1985, p. 120):l’analisi dello sviluppo dello Stato di dirit-to di ispirazione liberale e della sua attualestruttura – scrive – si attiene alle regoledella teoria critica che è libera proprio per-ché «accetta gli ideali borghesi, siano essiquelli ancora coltivati (seppur in senso dis-torto) dai rappresentanti della borghesia, oquelli in cui occorre riconoscere, a dispet-to di ogni manipolazione, il significatooggettivo delle istituzioni tecniche e cultu-rali… Essa espone la lingua alla contraddi-zione tra fede e realtà e ciò facendo rifletteun fenomeno del tempo» (Habermas 1961,pp. 44 ss.; per la citazione, Horkheimer eAdorno 1947, p. 261).

Certo, a differenziare profondamentel’approccio di Habermas dall’originariomodello francofortese interviene qui lo stes-so oggetto dell’analisi: nel programma diricerca interdisciplinare dell’Institut allateoria politica non era attribuito, infatti,alcun ruolo sistematico. Sebbene nei lorocontributi di critica dell’ideologia gli espo-nenti del gruppo avessero cominciato a met-tere radicalmente in questione la rigidadicotomia marxiana tra struttura e sovra-

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struttura, essi non spinsero mai la loro revi-sione metodologica sino al punto da attri-buire un autonomo significato alla analisidelle forme giuridico-istituzionali dello Sta-to borghese (Jay 1973, p. 184). Un atteggia-mento, questo, che il precipitare degli even-ti rese ancora più radicale: a mano a manoche la statualità contemporanea smarrivaogni connotato normativo per trasformarsiin un sistema di dominio onnipervasivo ecapillare, perdeva definitivamente di sensoagli occhi dei francofortesi qualsiasi sforzodi elaborazione teorica centrata «sulle que-stioni di legalità e di legittimità, sul signifi-cato delle forme parlamentari o sulla fun-zione del diritto e in ultima analisi della sfe-ra pubblica» (Heming 1997, p. 26).

Non stupisce, in tale prospettiva, che nelrileggere in chiave specificamente giuridi-co-politica il paradigma della «teoria criti-ca del periodo classico», Habermas si vedacostretto a fare ricorso al contributo di auto-ri molto lontani dall’orizzonte ideologicodella prima generazione francofortese. Chenel suo fondamentale nucleo normativoStrukturwandel der Öffentlichkeit possa esse-re considerato come un confronto a distan-za con le tesi esposte da Hannah Arendt nelsuo celebre saggio The Human Condition, èuna circostanza ampiamente sottolineatadagli interpreti. Altrettanto decisiva, in talecontesto, si rivela però l’intersezione con l’o-pera di altri grandi critici della modernizza-zione tardo-capitalistica. È il caso, questo,di teorici della società di ispirazione aperta-mente conservatrice come Schelsky, Ples-sner e Gehlen, e soprattutto del giurista efilosofo del diritto Carl Schmitt, uno dei piùgrandi critici “autoritari” della democraziadi massa, dai cui scritti di epoca weimarianaHabermas trae alcune fondamentali intui-zioni sul contenuto normativo dello Stato di

diritto parlamentare, oltre che lo schemagenerale del processo di «compenetrazionedi Stato e società civile» posto alla base del-le sue considerazioni sulla disgregazionedella «sfera pubblica borghese»5.

Ma alla prospettiva interpretativa diSchmitt possono essere in ultima analisiricondotti, attraverso la mediazione diun’ampia e variegata area di influenzaintellettuale, anche altri tasselli del com-posito mosaico di influenze che caratteriz-za il saggio di Habermas. Tra questi spiccasenza dubbio la ricerca di Reinhart Kosel-leck sulla «patogenesi del mondo borghe-se», all’origine – per ammissione stessadell’autore – di molte annotazioni haber-masiane sul processo di costituzione della«pubblicità borghese» come ideale nor-mativo (Habermas 1962, p. 103).

Contro la diffusa tendenza a considera-re Strukturwandel der Öffentlichkeit come unamera variazione sullo schema interpretati-vo koselleckiano, occorre però ribadire unavolta per tutte l’opposta ispirazione che, alpiù profondo livello di una teoria delladinamica storico-sociale, anima le duericerche (Habermas 1960, pp. 469 ss.;Ruocco 2000, pp. 34 ss.). Se, infatti, Kosel-leck, come molti altri studiosi di ispirazio-ne schmittiana, sembra far integralmentepropria la critica conservatrice della razio-nalità illuministica come luogo di dissolu-zione di ogni principio d’ordine sociale epremessa alla guerra civile europea, nel suosaggio sulla sfera pubblica Habermas ponegià le premesse per quella interpretazionedella modernità illuministica come “pro-getto incompiuto” che in seguito si impor-rà come una vera e propria cifra caratteriz-zante del suo percorso intellettuale.

Perché, a ben vedere, proprio questo è ilsenso più profondo della ricostruzione

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habermasiana: sottoposta all’approccio dia-lettico di una critica dell’ideologia di stam-po francofortese la costellazione ideale del-la «sfera pubblica borghese» dischiude,infatti, una dimensione universalistica cheoltrepassa i limiti della sua condizionatezzastorica, un nucleo utopistico di senso che«promette una totale liberazione della real-tà presente senza fughe nell’al di là»(Habermas 1962, p. 61). Considerata secon-do le sue proprie finalità – scrive, al propo-sito, Habermas – l’opinione pubblica bor-ghese non vuole essere un potere o la fontedi tutti i poteri, bensì lo strumento di unadissoluzione discorsiva di ogni forma dipotere. Nella sua area di influenza, dunque,lo Stato stesso, come ordinamento sovrano,vede mutare il proprio carattere: è il «pou-voir in quanto tale», infatti, ad essere postoin discussione «da una sfera pubblica confunzioni politiche. Questa deve tradurre lavoluntas in una ratio, che si produca nellaconcorrenza pubblica degli argomenti pri-vati come consensus su ciò che è pratica-mente necessario per l’interesse generale»(Habermas 1962, p. 95).

Ad essere prefigurato nell’ideale bor-ghese dello Stato di diritto è allora l’utopiadi una completa trasparenza del politico,uno spazio di visibilità assoluta dei proces-si di governo che vincolando tutta l’attivitàstatale al consenso libero e discorsivamen-te mediato dell’intera cittadinanza, «tendegià a un’eliminazione dello Stato come stru-mento di dominio in generale». Lungi dalrappresentare un astratto dover essere svin-colato dalla materialità dei processi sociali,questa utopia di razionalizzazione comuni-cativa del dominio resta incarnata però nelsenso oggettivo delle forme costituzionalidello Stato parlamentare di diritto, anchenelle mutate condizioni della democrazia di

massa; e questa “trascendenza nell’imma-nenza” è il momento di verità che solleva laconcezione borghese della sfera pubblica aldi sopra della sua stessa funzione ideologi-ca di occultamento del dominio di classe.Trasmettere il sentimento della sua univer-sale validità rappresenta perciò, secondoHabermas, il principale obiettivo di unateoria critica della società, anche laddovetutto sembra confermare il trionfo di un usopuramente manipolatorio della sfera pub-blica politica. Con ciò la Öffentlichkeit cessadi essere semplicemente una categoria sto-rico-sociologica di analisi, per trasformar-si in istanza filosofica e in prospettiva poli-tica per il presente.

3. Emancipazione e dominio

Sono noti gli esiti operativi a cui questaimpostazione conduce in Strukturwandel derÖffentichkeit. Nell’ultima parte del volume,Habermas abbandona il contrappunto dia-lettico tra le polarità della forma costitu-zionale tardo-moderna, per avanzare unvero e proprio programma di rivitalizzazio-ne della «sfera pubblica borghese» nellecondizioni di «democrazia di massa delloStato sociale».

Al centro della proposta è il mutamentodi ruolo di quelle organizzazioni private chenella società tardo-capitalistica esercitanofunzioni quasi-pubbliche senza essere inalcun modo sottoposte al controllo della cit-tadinanza. Il concetto di sfera pubblica, cheun tempo consisteva nella razionalizzazionedel dominio in seno e grazie al pubblicodibattito dei privati, deve cioè «essere rea-lizzato ora come razionalizzazione (limitataal pluralismo degli interessi privati orga-

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nizzati) dell’esercizio del potere sociale epolitico sotto il controllo reciproco di orga-nizzazioni rivali, fondate sulla dimensionepubblica sia nella loro intima struttura chenel rapporto con lo Stato o fra di loro»(Habermas 1962, p. 250). Nell’orizzontedella democrazia di massa, è proprio dallacreazione di una rete di sfere pubbliche par-ziali, interne alle diverse organizzazioni, chedipende, infatti, la possibilità che «l’eser-cizio del dominio e del potere» si apra alladinamica di «mutamenti sostanziali» ovve-ro continui a perpetuarsi «quasi fosse unacostante negativa della storia» (Habermas1962, p. 294).

Per quanto rappresentative della fortecurvatura pratico-politica imposta al para-digma critico francofortese, le pagine pro-grammatiche con cui si chiude Strukturwan-del der Öffentlichkeit sono però tra le piùdeboli di tutto il libro. L’ottimismo con cuiHabermas guarda ad una rivitalizzazionedella sfera pubblica contrasta, infatti, pro-fondamente con le degradate condizioni cul-turali della società di massa da lui stessodescritte nella seconda parte della ricostru-zione. E in assenza di un ethos socialmentecondiviso, anche il modello di una “sferapubblica delle organizzazioni” appare desti-nato ad esaurirsi in una rappresentanza neo-corporativa degli interessi, ben lontana dairigorosi fondamenti costitutivi della pubbli-cità borghese. Dopo aver identificato nellacornice normativa dello Stato di diritto par-lamentare un nucleo ideale per la criticaimmanente del presente, Habermas nonsembra dunque in grado di derivarne con-clusioni realmente applicabili al contestodella società contemporanea. Nelle condi-zioni esistenti manca, infatti, la base socia-le e istituzionale per una sfera pubblica poli-tica corrispondente nel carattere e nella fun-

zione al modello classico, ma «adeguata nel-la scala e nella partecipazione alla realtà deltardo capitalismo e della sua forma statuale»(Calhoun 1992, pp. 29 ss.).

Non sorprende, in tale prospettiva, chedopo aver conosciuto una certa fortuna tra lefile del nascente movimento studentescotedesco, questo modello normativo di Öffent-lichkeit sia andato incontro nella secondametà degli anni Sessanta a critiche semprepiù aspre da parte della sinistra radicale. Inquest’area di dibattito, la debolezza proposi-tiva del lavoro è stata, infatti, interpretatacome il sintomo della fragilità teorica dellasua stessa impostazione: nonostante la suaevidente formazione marxista, Habermas èstato accusato di aver idealizzato la forma divita della borghesia, aderendo con ciò in totoad una mistificante rappresentazione socia-le, espressione essa stessa del dominio diclasse. E oggetto di particolare contestazio-ne è stata la scelta – pienamente esplicitatanella prefazione al volume – di concentrarel’attenzione sulla «sfera pubblica borghe-se», identificata – secondo molti a torto –come il contenitore storico di istanze eman-cipatorie di portata universale.

All’unilateralità di questo paradigmanormativo la pubblicistica marxista ha con-trapposto, così, la riscoperta e la valorizza-zione della «dimensione pubblica plebea»,interpretata come una ben più autenticaespressione del potenziale di liberazioneumana messo in circolo dalla modernitàpolitica e sociale. Un approccio, questo, chenel dibattito tedesco ha trovato la sua piùcompiuta articolazione teoretica nell’inda-gine “micrologica” sulle specificità dellospazio “proletario” di esperienza, sviluppa-ta da Negt e Kluge a partire dai primi anniSettanta (Hohendahl 1979, pp. 102 ss.; Koi-visto-Väliverronen 1993, pp. 22 ss.).

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La discussione sul condizionamento diclasse del paradigma normativo haberma-siano rappresenta, peraltro, solo una diret-trice dell’ampio dibattito teorico alimentatonel corso degli anni dalle tesi di Struktur-wandel der Öffentlichkeit. Accanto ad essa,occorre ricordare, per la sua complessivarilevanza, almeno la critica dei fondamenti“sessuati” della «sfera pubblica borghese»avanzata a più riprese dal pensiero femmi-nista. Ad essere in discussione qui non è,infatti, una mera sottovalutazione dei dispo-sitivi sociali ed istituzionali che fanno delpubblico borghese un ambito dominato dal-la presenza maschile, ma la tendenza haber-masiana a leggere anche la discriminazionesessuale come una momentanea discrepan-za tra ideale e realtà della forma di vita bor-ghese, destinata ad essere assorbita attra-verso il suo pieno inveramento. Una pro-spettiva, questa, alla quale la più recente pro-duzione nel campo dei Gender Studies ha con-trapposto l’immagine rovesciata della Öffent-lichkeit come spazio di interazione sociale«essenzialmente, e non solo occasional-mente, maschilista» (Landes 1988, p. 7).

Diversi sono, peraltro, i livelli sui qua-li si è sviluppata questa revisione al fem-minile delle tesi habermasiane: ad esseremessi in questione nella loro generale vali-dità sono stati, infatti, oltre ai presuppostifilosofici del modello, i suoi stessi fonda-menti strutturali di operatività, a comin-ciare da quella dicotomia pubblico/privatoin cui molte interpreti hanno visto una ille-gittima ipostatizzazione dei tradizionaliruoli sociali6. Anche in tale contesto, non èmancato, peraltro, chi ha scelto di concen-trare le sue critiche sull’eccessiva rappre-sentatività storica attribuita da Habermasal fenomeno della «sfera pubblica borghe-se». In tale prospettiva, anche l’afferma-

zione “politicamente corretta” che nellaforma di vita borghese le donne fosseroescluse dalla sfera pubblica è apparsa sot-tilmente permeata di ideologia, nella misu-ra in cui faceva propria senza discussioni lapretesa del pubblico borghese di essere ilpubblico tout court. Secondo studiose comeNancy Fraser, la storia della sfera pubblicadovrebbe essere invece riletta in terminipluralistici e “di genere”, evidenziando ilruolo decisivo che i “contro-pubblici” fem-minili hanno svolto nella trasformazionedei complessivi fondamenti dell’ordinepolitico e sociale borghese (Fraser 1992, pp.116 ss.; Ryan 1992, pp. 259 ss.).

Al di là dei loro distinti – e almeno inparte divergenti – obiettivi polemici, lediverse linee di attacco alla concezionehabermasiana della «sfera pubblica» paio-no, peraltro, condividere un medesimoassunto costruttivo: l’esigenza di problema-tizzare la specifica dimensione di dominiopropria della stessa pubblicità borghese,portando al centro dell’attenzione i mecca-nismi interni di esclusione e assoggetta-mento che fanno di questo spazio di intera-zione discorsiva la chiave di volta di un pro-getto di egemonia sociale. Non è un caso,pertanto, che nel corso degli ultimi decen-ni queste direttrici di dibattito abbiano a piùriprese intersecato la riflessione di duegrandi decostruttori dell’ordine borghesecome Michel Foucault e Pierre Bourdieu.

Riletta alla luce delle innovative propo-ste metodologiche di tali autori, anche ladinamica funzionale della «sfera pubblicaborghese» ha finito, così, per rivelare latrama di un discorso di dominio sistemati-camente finalizzato alla creazione del pro-prio “altro”, una «strategia di distinzione»diretta a marcare la diversità della nuovaclasse borghese rispetto sia alle vecchie éli-

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tes aristocratiche cui intendeva sostituirsi,che ai «vasti strati popolari e plebei cheaspirava a governare». Come è stato sotto-lineato, c’è una notevole ironia nel fatto cheun campo discorsivo fondato sulla «paritàdel semplicemente umano» si riveli ani-mato nella sua stessa articolazione funzio-nale da un progetto di esclusione e didominio. E se è vero, come sostiene Haber-mas, che questa contraddizione non hacompromesso del tutto la sostanza idealedella «sfera pubblica borghese» e la suacapacità di autorigenerazione, è vero ancheche essa lascia pensare che il rapporto trapubblicità e status sia più complesso diquanto il filosofo tedesco sia disposto adammettere: perché «dichiarare un’arenadeliberativa come uno spazio in cui le esi-stenti distinzioni di status sono messe traparentesi e neutralizzate non è sufficientea far sì che ciò si verifichi realmente» (Fra-ser 1992, p. 115).

4. Trent’anni dopo

Tutto considerato, l’imponente massa dicritiche piovuta addosso a Strukturwandel derÖffentlichkeit dal momento della sua pubbli-cazione non sembra aver scosso in profon-dità le certezze del suo autore, che a distan-za di decenni continua a ritenere nelle«grandi linee» fondata la ricostruzione dalui proposta (Habermas 1990, p. XVI). Ciònon significa, naturalmente, che nel frat-tempo Habermas sia rimasto ancorato alcomplessivo quadro interpretativo elabora-to nel saggio del ’62. Al contrario, egli si èprogressivamente sganciato dalla costella-zione tematica in esso indagata, per dare vitaal più ampio e ambizioso programma di

rifondazione delle scienze sociali che il pen-siero contemporaneo conosca.

Anche in questo caso, però, è bene nonfarsi ingannare dalle apparenze: sostanzial-mente accantonata come autonomo oggettodi analisi, la concezione borghese dellaÖffentlichkeit, nella sua originaria valenzaemancipatoria, ha continuato, infatti, a rap-presentare per Habermas un fondamentalepunto di riferimento intellettuale, in qual-che modo presente alla base delle scelte teo-riche di volta in volta prevalenti. Da questopunto di vista, se è vero che sarebbe incon-gruo ricondurre tutta la sua variegata para-bola «in maniera monocausale» al temadella sfera pubblica, è altrettanto vero chealla luce della costellazione problematicadefinita nel saggio del ’62 assume maggio-re evidenza il progetto complessivo che ani-ma l’itinerario teorico habermasiano, sinoai suoi esiti più innovativi e caratterizzanti(Privitera 2001, p. 70).

In realtà, è lo stesso Habermas ad offri-re utili elementi per la ricostruzione di que-sto percorso. In anni recenti, egli ha identi-ficato, infatti, il nucleo propulsivo della suaricerca nella progressiva messa in discus-sione delle «assunzioni filosofico-storichedi fondo» su cui in ultima analisi poggiaval’approccio dialettico sperimentato in Struk-turwandel der Öffentlichkeit. Vent’anni dopola pubblicazione della Dialektik der Aufklä-rung, sarebbe stata, dunque, un’analoga cri-si di fiducia nella filosofia marxiana dellastoria a spingerlo oltre l’approccio ideolo-gico-critico caratteristico del «periodo clas-sico» della teoria critica francofortese.

Nel suo caso, però, la ricerca di una viadi uscita da un contesto teorico rivelatosiimprovvisamente aporetico non coincidecon una formale rinuncia alle aspirazionisistematiche della teoria della società, ma

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con il tentativo, ben più impegnativo, diridefinire le sue basi gnoseologiche di vali-dità. Un approccio, questo, che attraversoun duplice passaggio rifondativo – dallafilosofia della storia all’antropologia filo-sofica, e da questa alla teoria del linguaggio– avrebbe dato vita, nel corso dei successi-vi decenni, a quella svolta linguistica dellariflessione habermasiana, destinata a tro-vare la sua definitiva consacrazione nelmonumentale impianto ricostruttivo dellaTheorie des kommunikativen Handelns. Qui,in un orizzonte gnoseologico profonda-mente rinnovato, quel paradigma discorsi-vo che il giovane Habermas aveva scopertoincarnato nelle forme istituzionali della«sfera pubblica borghese», si rivelainscritto negli universali fondamenti divalidità impliciti in ogni forma di comuni-cazione linguistica.

In tale contesto, l’ideale critico di unarazionalizzazione comunicativa della socie-tà sembra trovare, dunque, una ben piùprofonda base di articolazione normativa.Come sottolinea Habermas, la teoria del-l’agire comunicativo mira, infatti, «a met-tere in luce un potenziale razionale insitonella stessa prassi comunicativa quotidia-na. Con ciò essa spiana contemporanea-mente la strada a una scienza sociale dalprocedere ricostruttivo, che identifica intutta la loro estensione i processi di razio-nalizzazione culturale e sociale, ripercor-rendoli anche oltre la soglia delle societàmoderne» (Habermas, 1990, p. XXVIII).

Questa rifondazione linguistica dellateoria critica della società rappresenta,peraltro, solo una componente, seppure digrande rilievo, del complessivo mutamentodi paradigma portato a compimento daHabermas nello sviluppo del suo percorsodi ricerca. Altrettanto rilevante appare

infatti, in tale contesto, la rimodulazione deiprocessi di categorizzazione dello spazio diazione sociale che si verifica, a partire dallametà degli anni Settanta, attraverso l’inse-rimento della coppia concettuale siste-ma/mondo vitale. Con tale passaggio,Habermas intende prendere le distanze daquella «concezione totalitaria» della socie-tà come macrosoggetto che, a suo stesso giu-dizio, inficiava la prospettiva ricostruttivadel saggio sull’opinione pubblica. Di fron-te al livello di complessità raggiunto dallesocietà contemporanee sembra, infatti, averperso ogni plausibilità la tradizionale ideaolistica «di un tutto sociale al quale gli indi-vidui socializzati appartengono come mem-bri di un’organizzazione onnicomprensiva»(Habermas 1990, p. XXII).

Ecco perché Habermas ritiene necessa-rio sostituire ad essa una più articolatamodalità rappresentativa, diretta a distin-guere gli ambiti di azione integrati in termi-ni di agire comunicativo – approssimati dal-la categoria di «mondo vitale» – dai nessisistemici di azione come il sistema econo-mico e l’apparato amministrativo, integratiinvece sulla base di media non linguistici(denaro e potere). Un’impostazione, questa,che – oltre ad offrire più efficaci categorie dianalisi alla teoria sociale – modifica drasti-camente anche il modo di affrontare le pato-logie della politica contemporanea: in uncontesto sociale ormai largamente dipen-dente da nessi sistemici di azione, non puòesserci, infatti, più alcuno spazio per quel-l’utopia di una integrale fluidificazione dis-corsiva del potere che animava il paradigmanormativo di Strukturwandel der Öffentlich-keit. Obiettivo della teoria critica della socie-tà diviene perciò ora l’instaurazione di unrapporto equilibrato tra ambiti di razionali-tà comunicativa e ambiti di razionalità siste-

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mica, che consenta di approfittare dei van-taggi funzionali che questi ultimi offrono,impedendone però l’indiscriminata proli-ferazione (Privitera 2001, pp. 79 ss.).

Ciò che occorre chiedersi, giunti a que-sto punto del percorso, è cosa resti nell’ap-proccio ricostruttivo dell’ultimo Habermasdi quella concezione sistematica della «sfe-ra pubblica» che emerge con tanta eviden-za dai suoi primi lavori di teorico dellasocietà. Una domanda, questa, alla qualeoggi è abbastanza agevole rispondere, con-siderato il rilievo che questa tematica, peranni relegata in posizione marginale negliscritti del filosofo tedesco, è tornata ad ave-re nella sua più recente stagione teorica:quella di Faktizität und Geltung e della teoriadiscorsiva del diritto e della politica. Nelmodello proceduralizzato di democrazia checaratterizza gli scritti habermasiani deglianni Novanta, l’esistenza di una vitale sferapubblica politica si propone come una con-dizione necessaria, sebbene non sufficien-te, per l’esistenza di una politica deliberati-va come processo di costituzione discorsivadi una volontà comune razionale. Secondo iprincipî della teoria del discorso, il succes-so di quest’ultima dipende, infatti, non«dall’agire unanime della cittadinanza, madall’istituzionalizzazione di corrispondentiprocedure e presupposti comunicativi, edall’interazione delle consultazioni istitu-zionalizzate con le opinioni pubbliche infor-mali» (Habermas, Faktizität, pp. 352 ss.).Un’impostazione, questa, in cui proprio aimeccanismi della sfera pubblica politica èattribuito il compito di garantire l’esisten-za di un circuito di comunicazione socialetra sistema e mondo vitale, che impedisca«un’autonomizzazione degli imperativifunzionali dalle costellazioni pratico-vitalidi interessi» e al tempo stesso introduca

impulsi innovativi nella dinamica del siste-ma politico (Heming 1996, p. 172).

Per spiegare la dinamica della sferapubblica nel contesto di una società fun-zionalmente differenziata, Habermas siserve ora di uno schema topografico larga-mente derivato dagli studi del sociologoBernhard Peters: al centro dello spaziopolitico si trova un sistema “poliarchico” digoverno, in cui sono facilmente riconosci-bili i «complessi istituzionali» corrispon-denti ai classici poteri dello Stato. Attornoad essi, in un’area di periferia interna, ruo-tano le diverse istituzioni «dotate di dirit-ti di autogestione, ovvero di funzioni dicontrollo e di sovranità direttamente dele-gate dallo Stato (università, sistemi assicu-rativi, rappresentanze professionali, enti,associazioni benefiche, fondazioni, ecc.)».Proseguendo verso l’esterno, troviamodapprima tutte le organizzazioni private, leassociazioni affaristiche e le lobbies che, inmodo per lo più poco trasparente, si occu-pano di attivare stabili rapporti negozialicon le pubbliche amministrazioni e, infine,quella rete di soggetti collettivi – circoli,associazioni, gruppi di interesse e movi-menti – che – «rivolti al parlamento eall’amministrazione, ma spesso ancheattraverso i canali dell’apparato giudiziario– “forniscono” espressione linguistica aiproblemi sociali, avanzano rivendicazionipolitiche, articolano interessi o bisogni,influenzando in tal modo la formulazionedei progetti legislativi e degli indirizzi poli-tici» (Habermas, Faktizität, pp. 422 ss.).

Per definire nel suo insieme questo par-ticolare «tessuto di vita associativa» chetrova la sua ragion d’essere nell’articola-zione di istanze politiche e sociali, Haber-mas fa ricorso alla classica nozione di socie-tà civile che già aveva giocato un ruolo cen-

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trale nell’intelaiatura categoriale di Struk-turwandel der Öffentlichkeit. Contro ladimensione economicistica un tempo evo-cata da questa nozione, egli ne sottolineaperò ora lo stretto riferimento alla genera-le dinamica dell’interazione comunicativa.Nella intelaiatura categoriale di Faktizitätund Geltung, la società civile si propone,infatti, come il luogo in cui – attraverso lamediazione di una rete di associazionivolontarie «di tipo non statale né econo-mico» – il «serbatoio di interazioni sem-plici» che forma la trama del mondo vitaleva ad alimentare un più ampio e struttura-to flusso comunicativo, centrato sulla pro-blematizzazione discorsiva di temi di inte-resse comune. Da questo punto di vista, lasocietà civile costituisce il necessario sup-porto infrastrutturale per l’esistenza dellasfera pubblica, intesa come spazio virtualein cui temi di pubblico interesse sono ela-borati e discussi e può formarsi una veraopinione pubblica (Habermas, Faktizität, p.100, pp. 427 ss.; Heming 1997, pp. 231 ss.).

Il quadro d’insieme che emerge dallapiù recente concezione habermasiana del-la Öffentlichkeit è dunque quello «di uncomplesso circuito di comunicazione cheparte dalla periferia, dove esperienze vis-sute nella sfera privata si amplificano nel-la società civile e, passando per i diversilivelli di astrazione della sfera pubblica,arrivano fino al centro del sistema», dovei problemi vengono affrontati nell’ambitodelle competenze istituzionali e trovanosoluzioni che, veicolate alla periferia, sonosottoposte al giudizio della sfera pubblica(Privitera 2001, pp. 86 s.). Più in partico-lare, si può dire che la sfera pubblica è ingrado di adempiere alla sua funzione dipercepire e tematizzare i problemi socialicomplessivi proprio nella misura in cui

nasce dai nessi di comunicazione di unpubblico di cittadini «emergente per cosìdire dalla sfera privata». Nelle diverse vocidi questo pubblico risuona, infatti, l’ecodelle esperienze biografiche negative, del-le sofferenze che i «costi esternalizzati» ei «disturbi interni» dei sistemi d’azionefunzionalmente specializzati infliggonoall’intero corpo sociale e che trovano la piùaccurata registrazione nell’orizzonte espe-rienziale del mondo della vita (Habermas,Faktizität, pp. 432 ss.).

Rispetto al modello degli anni Sessan-ta, Habermas propone però ora una nettaseparazione tra il processo di articolazionediscorsiva di problemi e opinioni – propriodella sfera pubblica in tutte le sue incarna-zioni – e il processo di costituzione dellavolontà comune, e dunque di vera e propriadecisione politica, che resta invece affida-to esclusivamente ai titolari di formali com-petenze istituzionali. Non è un caso, daquesto punto di vista, che egli faccia proprioil modello delle chiuse idrauliche, elabora-to da Peters per tematizzare il vero e propriosbarramento che i temi articolati dalla sfe-ra pubblica devono superare per poter fareingresso nell’agenda politica.

Habermas ritiene, peraltro, che nellecondizioni di ordinario sovraccarico funzio-nale dei sistemi politico-amministrativicontemporanei, un diretto coinvolgimentodella società civile nel procedimento di agen-da setting possa aver luogo solo in circostan-ze straordinarie, percepite dagli stessi citta-dini come situazioni di crisi. Per il resto, alpubblico nella sua generalità resta affidatosolo il compito di controllare l’operato delpotere amministrativo e orientarlo in una cer-ta direzione, identificando, «all’interno diun processo da cui sono rimosse le costrizio-ni della decisionalità, i nuovi problemi che

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meritano una considerazione formale» (Fer-rara 1999, p. 96). Da questo punto di vista, lapolitica deliberativa è un modello segmenta-to e processuale di formazione della volontàpopolare che parte dalla percezione dei pro-blemi sociali da parte dei diretti interessatie arriva sino alla loro elaborazione in sedeparlamentare (Privitera 2001, p. 84).

Anche all’interno di questo più artico-lato modello, si conferma centrale però ilruolo di un’autentica interazione discorsi-va, finalizzata alla libera formazione dell’o-pinione e della volontà. Nella dinamica dicostituzione dell’opinione pubblica – nota,al proposito, Habermas – le dimensioni delconsenso non sono, infatti, mai rilevantiquanto le concrete modalità attraverso lequali esso è stato raggiunto:

Per la strutturazione di un’opinione pubblicasono assai più importanti le regole d’una comu-ne prassi comunicativa. Solo così l’approvazionedi temi e contributi si sviluppa come risultatod’un dibattito più o meno esauriente, nel corsodel quale si sono potute elaborare – più o menorazionalmente – proposte, informazioni e ragio-ni. Il livello discorsivo della formazione dell’o-pinione nonché la “qualità” dei suoi risultatidipendono in generale proprio da questo «più omeno» di elaborazione razionale in ordine aproposte, informazioni e ragioni che dovrebbe-ro essere più esaurienti possibili. Perciò nonconsidereremo riuscita una comunicazione pub-blica solo per il fatto che essa ha prodotto “gene-ralità” e “inclusione”; al contrario si dovrà sem-pre giudicare in base ai criteri formali del costi-tuirsi di un’opinione pubblica qualificata.[Habermas, Faktizität, p. 430]

Certo, anche l’ultimo Habermas si fapoche illusioni sulle difficoltà che nellesocietà funzionalmente differenziate osta-colano il cammino di un’opinione pubbli-ca discorsivamente fondata. In Faktizitätund Geltung è presente, anzi, anche uno

schema verticale di analisi specificamentefinalizzato ad enucleare i complessi nodiproblematici che caratterizzano la dinami-ca della sfera pubblica contemporanea. Aben vedere, infatti, quest’ultima può esse-re differenziata su più livelli, a seconda delgrado di densità comunicativa, complessi-tà organizzativa e raggio d’azione che lacaratterizza; e a questo aumento di com-plessità strutturale fa riscontro anche unasempre più accentuata incidenza di quel-l’effetto teatro – la differenziazione tra«organizzatore, oratore e ascoltatore, are-na e galleria, palcoscenico e platea» – checaratterizza ogni spazio pubblico che oltre-passi il contesto delle interazioni semplici(Habermas, Faktizität, p. 431).

Un processo, questo, al quale è connes-so il rischio di una sempre maggiore asim-metria nelle concrete modalità di funzio-namento della Öffentlichkeit: non tutti i sog-getti che si muovono sul palcoscenico del-la sfera pubblica sono espressione, infatti,di quel tessuto della società civile che con-tribuisce a dare forma a temi e problemi diinteresse comune. Accanto agli «attori chespontaneamente si fanno avanti “uscendofuori” dalle file del pubblico», ci sono sog-getti semi-istituzionali come partiti e grup-pi d’interesse che si presentano semplice-mente «di fronte al pubblico», alla ricer-ca di quella dimensione di influenza poli-tica che nella sfera pubblica prende forma(Habermas, Faktizität, pp. 431 ss.).

A differenza dei primi, questi dispon-gono «fin dall’inizio di forza organizzativa,risorse e potenziali di minaccia», una dotedi potere sociale che consente loro diimporre con facilità all’agenda politica temidi proprio interesse. Inoltre, mentre gliattori che provengono dalla società civilesono impegnati in prima persona ad ali-

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mentare le strutture comunicative dellasfera pubblica, quelli che provengono dalcentro del sistema politico tendono sem-plicemente a sfruttare le potenzialità di unasfera pubblica già costituita, stringendolad’assedio «dall’esterno invece di agire dalsuo interno» (Habermas 1995, p. 141). Acompletamento del quadro, Habermasricorda infine che nella sfera pubblicamediatizzata caratteristica delle societàcontemporanee sono gli stessi professio-nisti della comunicazione – scrittori, gior-nalisti e pubblicisti in senso lato – a tra-sformarsi in attori del sistema, imponen-dosi in molti casi come gli arbitri indiscus-si dei flussi comunicativi esistenti al suointerno (Habermas, Faktizität, pp. 446 ss.).

Nel modello dell’ultimo Habermas divie-ne, perciò, possibile giudicare la qualità diuna sfera pubblica dal tipo di attori che viappaiono. Mentre gli attori che emergonodalla società civile articolano in senso comu-nicativo i problemi di cui sono interpreti,mirando a convincere il pubblico con la solaforza dei propri argomenti, gli esponenti diparticolari sfere funzionali argomentanosempre avendo presente l’interesse dell’or-ganizzazione di cui fanno parte, secondo unatteggiamento strategico, mirato a soddisfa-re istanze particolari, spesso inconfessabi-li, e pertanto impossibilitato a sviluppareun’argomentazione veramente aperta.

Un’impostazione, questa, che consentedi riproporre su basi metodologicamenterinnovate – quelle di una traduzione socio-logica del modello di democrazia radicaleavanzato dalla teoria del discorso – la distin-zione tra sfera pubblica autonoma e sferapubblica manipolata già formulata in Struk-turwandel der Öffentlichkeit: come sottolineaHabermas, i processi comunicativi pubblicisono tanto meno deformati «quanto più si

affidano alla dinamica interna d’una societàcivile emergente dal mondo della vita». Intale contesto il risultato della dinamicacomunicativa è, infatti, «un consenso veri-ficato discorsivamente, o per lo meno inun’opinione di maggioranza affinata discor-sivamente». Il prodotto di una sfera pubbli-ca manipolata è, invece, sempre «un poteregenerato amministrativamente», «la crea-zione di una lealtà di massa per decisioniprese a partire da e tramite il centro dellapolitica» (Privitera 2001, p. 89).

5. Spazio, comunicazione, identità

Nonostante tutti i caveat di cui è dissemina-ta la sua analisi, oggi Habermas sembra peròcondividere ben poco della pessimistica dia-gnosi epocale presente alla base di Struktur-wandel der Öffentlichkeit. All’inizio degli anniNovanta, egli ha fatto anzi pubblicamenteautocritica su questo punto, dichiarandosostanzialmente «inadeguata» la sua dia-gnosi «di un’evoluzione rettilinea dal pub-blico politicamente attivo a quello privati-stico, dal “pubblico che argomenta razional-mente in fatto di cultura a quello che consu-ma la cultura”» (Habermas 1990). Il perio-dico ritorno di grandi stagioni di impegnocivile – dalle lotte studentesche della secon-da metà degli anni Sessanta alle manifesta-zioni di piazza nei Paesi dell’Est – lo ha con-vinto, infatti, di aver ampiamente sottovalu-tato la capacità di resistenza di quel «pub-blico di massa» che nell’ovattata atmosferadella Germania del secondo dopoguerrasembrava destinato al confortevole obnubi-lamento dell’industria culturale.

Il capitolo VIII di Faktizität und Geltung èallora molto più cauto sul futuro della «sfe-

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ra pubblica politica». Riallacciandosi alledivergenti linee di analisi elaborate dallasociologia delle comunicazioni di massa,Habermas tende a proporre, infatti, l’im-magine di un campo di forze in cui si incro-ciano per lo meno due processi contrastan-ti: da un lato «la produzione comunicativadel potere legittimo» e dall’altro «il ricorsomanipolativo al potere dei media per crearedevozione di massa, domanda e “complian-ce” verso imperativi sistemici» (Habermas1990, p. XLI). Ribaltando un topos di origi-ne francofortese, egli si dichiara convinto,peraltro, che come dimensione comunicati-va ancorata al mondo della vita la sfera pub-blica possegga degli anticorpi strutturali ingrado di proteggerla dagli attori che dall’e-sterno la cingono d’assedio: se è vero, infat-ti, che in condizioni ordinarie è possibilecondizionarla e manipolarla, è vero ancheche in situazioni di crisi «le strutture su cuieffettivamente poggia l’autorità d’un pub-blico capace di prendere posizione comin-ciano a entrare in vibrazione» e allora «simodificano anche i rapporti di forza esistentitra società civile e sistema politico» (Haber-mas, Faktizität, p. 449).

Il moderato ottimismo con cui negliultimi anni Habermas sembra guardare aglisviluppi della sfera pubblica politica nel-l’orizzonte mediatizzato delle democrazieoccidentali non è, peraltro, l’unico ele-mento di revisione introdotto rispetto alparadigma critico-ricostruttivo degli anniSessanta. Sotto questo profilo, occorrericordare almeno il deciso impianto “plu-ralista” ora riconosciuto all’ambito dellaÖffentlichkeit: se cioè nel saggio del ’62oggetto dell’analisi era una «sfera pubbli-ca» al singolare come spazio onnicom-prensivo di interazione discorsiva, ora adessere indagata è una molteplicità di con-

testi comunicativi, irriducibile ad un ambi-to unificato e indifferenziato. In questaprospettiva, perno della dinamica comuni-cativa è sempre un “pubblico di pubblici”,differenziati su base spaziale, temporale,contenutistica o funzionale. Alla metaforasferica utilizzata un tempo viene sovrappo-nendosi, così, un’immagine reticolareimmediatamente espressiva del livello diframmentazione che, nelle società com-plesse, caratterizza la comunicazione poli-tica: la formazione dell’opinione – scrive, alproposito, Habermas –

si compie in una rete aperta e “includente” di sfe-re pubbliche subculturali che si sovrappongonol’una all’altra senza chiari confini temporali,sociali e di merito. All’interno del quadro garan-tito dai diritti fondamentali, le strutture di questasfera pubblica pluralistica si formano in manierapiù o meno spontanea. I flussi di comunicazionesono in linea di principio illimitati; essi penetra-no attraverso sfere pubbliche “messe in scena” daassociazioni che rappresentano gli elementi infor-mali della sfera pubblica generale. Questi flussiformano nel loro insieme un terreno “selvaggio”,mai interamente organizzabile dall’alto.[Habermas, Faktizität, p. 385, p. 427]

È appunto nell’orizzonte di questa rilet-tura pluralistica e “anarchica” della dina-mica della sfera publica, che la ricostruzio-ne di Habermas si arricchisce di nuovelinee di approfondimento tematico, capacidi attribuire maggiore concretezza alla suarappresentazione della democrazia di mas-sa. Accogliendo gli stimoli provenienti daalcuni dei suoi critici, egli dedica, ad esem-pio, grande attenzione al cruciale fenome-no dei movimenti sociali, completamenteassente nel modello ricostruttivo di Struk-turwandel der Öffentlichkeit. Ora, infatti, imovimenti si impongono come l’espres-sione più tipica della spontanea capacità di

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produzione dell’opinione caratteristica del«pubblico dei cittadini». E da questo pun-to di vista, consentono di tematizzare almeglio la «curiosa auto-referenzialità del-la prassi comunicativa della società civile»,giacché se da un lato, con i loro program-mi, essi influenzano direttamente il siste-ma politico, dall’altro appaiono «ancheriflessivamente impegnati a vitalizzare, sta-bilizzare ed allargare società civile e sferapubblica» (Habermas, Faktizität, p. 438).

Immergendosi nel vivo della dinamicapolitica contemporanea, Habermas superadunque, almeno in parte, quell’«eccesso distilizzazione» che qualcuno aveva rimpro-verato alla sua precedente concezione dellasfera pubblica. Al centro della riflessioneappaiono, infatti, ora problematiche moltodistanti dal topos di un processo di «autori-schiaramento collettivo di individui interes-sati al bene comune». Si indaga sulla dina-mica di «autoidentificazione» (e autolegit-timazione) che caratterizza ogni fenomenodi aggregazione all’interno del «pubblico deicittadini», sugli atti di disobbedienza civilecome «ultimo mezzo per procurare ascoltoe influenza pubblicistico-politica agli argo-menti d’opposizione», persino sul rischiodi un radicale conflitto intersoggettivo chesempre accompagna lo sviluppo di un’au-tentica comunicazione pubblica.

Conformemente alla “svolta etica” checaratterizza l’ultima stagione della teoriahabermasiana, oggetto di confronto discor-sivo all’interno della sfera pubblica non èpiù soltanto la composizione degli interes-si di parte in una interpretazione social-mente condivisa del bene comune, ma unaben più radicale lotta per il riconoscimen-to dei bisogni e delle identità, che chiamain causa il modo stesso di essere di sogget-ti individuali e collettivi, aprendo la sfera

pubblica ad un orizzonte esperienziale «ric-co di conflitti non meno che di “forme divita” generatrici di senso» (Habermas, Fak-tizität, p. 365). Qui, come è evidente, la con-cezione habermasiana della sfera pubblica siapre al mutato spazio di esperienza dellesocietà tardo-capitalistiche, alla dinamicadella globalizzazione e al processo di inter-sezione culturale che ne rappresenta unadegli esiti più appariscenti. Come e più del-la teoria della giustizia di Rawls, la politicadeliberativa sembra assumere il «fatto delpluralismo» come il punto di partenza perla costruzione discorsiva di una vera «soli-darietà tra estranei»: perché per Habermasnon esistono questioni intrattabili per prin-cipio. Al contrario, «qualunque tema,inclusi i valori, le interpretazioni dei biso-gni e i requisiti delle identità (…) può esse-re portato nel foro pubblico se qualcuno lodesidera» (Ferrara 1999, p. 104).

Certo, non si può dire che nella nuovaconcezione habermasiana della sfera pubbli-ca tutti gli elementi di debolezza teorica cheinficiavano il suo precedente modello abbia-no trovato soluzione. Anche dopo aver aper-to la sua sfera pubblica ad una «lotta per ilriconoscimento» largamente eccedente imeri conflitti socio-economici, Habermasresta ben lontano, ad esempio, dal ricono-scere al discorso pubblico una autentica cen-tralità nei processi di costituzione e poten-ziamento delle identità sociali. Da questopunto di vista, il suo modello resta fondato suuna decisa preminenza della sfera privata, cheil ricorso alla suggestiva categoria del mondovitale non fa che accentuare (Heming 1997,pp. 234 ss.): è in questo orizzonte, infatti, chesi verificano gli episodi più significativi per labiografia individuale e prendono forma leinterpretazioni che andranno ad alimentare ilrepertorio tematico dei diversi contesti dis-

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corsivi. Come è evidente, siamo dunquedistanti dai più articolati modelli di costitu-zione discorsiva della soggettività recente-mente offerti da altri orizzonti di ricerca.

Nonostante l’ostentata presa di distanzadagli stilemi della critica francofortese del-l’industria culturale, resta inoltre ancora nondel tutto chiaro il ruolo che Habermas è dis-posto a riconoscere ai nuovi media nel pro-cesso di costituzione di un’efficace sferapubblica politica. L’impressione che si traeda una attenta lettura della non lineare pro-sa di Faktizität und Geltung è, infatti, che eglicontinui a considerare la «discussione cri-tica» – e cioè il confronto riflessivo tradiverse argomentazioni, opinioni e punti divista, all’interno di un luogo condiviso –come il principale strumento di costituzio-ne di una vera pubblicità politica (Haber-mas, Faktizität, p. 452). Non sorprende, per-tanto, che molti studiosi delle comunicazio-ni di massa abbiano rimproverato al filoso-fo tedesco una sostanziale incomprensionedelle diverse possibilità di esperienza – e diinterazione comunicativa – offerte dallenuove tecnologie (Thompson 1995, pp. 184ss.; Heming 1997, pp. 210 ss.).

Questo irrisolto approccio all’orizzontedella pubblicità mediatizzata può forse con-tribuire a spiegare la prudenza persinoeccessiva con la quale in Faktizität und Gel-tung Habermas viene ridisegnando il suoideale normativo di una fluidificazione dis-corsiva del potere. Come è stato sottolinea-to, con la sua netta separazione tra formazio-ne dell’opinione e formazione della volontàpolitica egli sembra, infatti, aver accettato«l’idea “realistica” che un processo demo-cratico legittimo può essere compatibile conla presenza di ampi pubblici “deboli”, la cuifunzione è di formarsi un’opinione propriae di influenzare in tal modo i circoli di colo-

ro i quali dovranno in realtà prendere ledecisioni legislative o di politica sociale»(Ferrara 1999, p. 101). L’adesione senzariserve ad una versione completamente giu-ridificata del circuito dell’opinione pubbli-ca è il prezzo che Habermas è disposto apagare per evitare il rischio di una degene-razione mediatico-plebiscitaria del tradizio-nale principio della sovranità popolare.Un’impostazione, questa, che se applicatarigidamente rischia tuttavia di trasformarel’opzione proceduralistica della politica deli-berativa in una implicita rinuncia a quell’i-deale di una piena autodeterminazione del-la cittadinanza che aveva caratterizzato la teo-ria critica habermasiana sin dai suoi esordi.

Ma il rifiuto di approfondire il confron-to con i nuovi media finisce per avere deicosti anche sull’altro grande orizzonte tema-tico imposto dalla evoluzione del contestopolitico-economico mondiale: vale a dire lacreazione di circuiti di comunicazione poli-tica adeguati al progressivo emergere di unacostellazione post-nazionale. Sebbene inFaktizität und Geltung Habermas si sforzi dirappresentare la sfera pubblica come unarete spazialmente ramificata, inclusiva diarene internazionali, è abbastanza evidente,infatti, che egli continua a pensare lo Stato-Nazione come il fondamentale contesto diradicamento di ogni efficace dinamica diproblematizzazione discorsiva della politica.

Da questo punto di vista, l’impostazionedel volume sembra implicitamente ripro-porre, sebbene diversamente articolato, ilmodello territoriale di Öffentlichkeit caratte-ristico della ricostruzione degli anni Sessan-ta. A dispetto della complessità rizomaticadella sua articolazione interna, la nuova con-cezione habermasiana della sfera pubblica sirivela, così, ancora espressione di quella teo-ria della società come container in cui Ulrich

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Beck ha visto uno dei più duraturi effetti gno-seologici del dominio statale dello spazio(Beck 1999, pp. 41 ss.). Su questo punto,però, si giocano le possibilità di una genera-lizzazione transnazionale dell’ideale haber-masiano di politica deliberativa, la pensabi-lità stessa, cioè, della fondazione discorsivadi una democrazia cosmopolitica. Non è uncaso, dunque, che il problema della costitu-zione di una sfera pubblica globale abbia rap-presentato nell’ultimo decennio uno dei temipiù insistentemente presenti nella riflessio-ne filosofico-politica di Habermas. Anchenella nuova prospettiva di analisi inaugura-ta dalla teoria discorsiva della politica, la con-cezione habermasiana della Öffentlichkeit siconferma, dunque, come un programmainterdisciplinare di lavoro ancora lontano daun definitivo assetto costruttivo.

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Scuccimarra

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1 Sulle difficoltà di trovare un equi-valente italiano del termine siveda la nota dei traduttori inHabermas 1962, p. XLV. I tradut-tori di lingua inglese hanno risol-to anch’essi il problema ricor-rendo alla formula public sphere.In Francia il termine Öffentlich-keit è stato invece reso con espacepublic. In tutti i casi è evidente lascelta di rendere attraverso unesplicito richiamo spaziale il rife-rimento ad un ambito specifico«individuabile dal punto di vistasociologico» in esso contenuto.

2 Habermas 1962, p. 30. Per un’a-nalisi critica di questo aspettodella ricostruzione habermasianav. Briggs-Burke 2000, pp. 92 ss.;Thompson 1995, pp. 183 ss.

3 È sufficiente ricordare, a questo

proposito, la ben più articolatainterpretazione del nesso Asso-lutismo-Illuminismo-Rivoluzio-ne – e la conseguente riperiodiz-zazione storica – offerta da Bakernei suoi fondamentali studi sullagenesi della «sfera pubblica poli-tica» nella Francia di AnticoRegime (Baker 1990, pp. 167 ss.;1992, pp. 181 ss.). Ma per un ulte-riore esempio di valorizzazionestoriografica delle tesi di Haber-mas si veda Chartier 1991.

4 Nato come Habilitationsschriftpresso l’Università di Francofor-te, il lavoro fu infatti respinto daHorkheimer e Adorno per moti-vi ancora oggi poco chiari e pre-sentato con successo a Marburgograzie al decisivo appoggio diAbendroth, a cui non a caso il

libro è dedicato. Sui complessiretroscena di questo passaggio siveda Wiggershaus 1986, pp. 560ss. Un cauto riconoscimento del-le radici francofortesi dell’operaemerge, comunque, in Habermas1992, p. 463.

5 Sul nesso Habermas-Arendt siveda da ultimo Calhoun 1992, p.5; Benhabib 1992, pp. 73 ss. Suirapporti con la sociologia conser-vatrice Wiggershaus 1986, pp. 551ss.; sull’influenza di Schmitt-Kennedy 1986, pp. 402 ss.

6 Sui limiti del classico rapportopubblico-privato in una prospet-tiva femminista si veda Benhabib1992, pp. 89 ss.; Holland-Cunz1994, pp. 659 ss. Sulle trappoledella discorsività borghese si vedaFraser 1992, pp. 118 ss.

L’opinion publique c’est la sphère idéale de pen-sées où la lecture quotidienne du journal plongechacun des lecteurs.[Hauriou, p. 160]

L’opinion publique est-elle un objet d’é-tude pour les juristes? La réponse est certai-nement négative pour la plupart des juristescontemporains qui consacrent leurs activi-tés scientifiques à l’étude de la règle de droitet négligent les circonstances sociales et fac-tuelles qui gouvernent l’édiction de celle-ciet permettent – ou empêchent – sa bonneapplication, une fois édictée. Dans leur fas-cination pour les normes, ils délaissent lesindividus qui en sont les auteurs, mais aus-si les destinataires. Cela n’a pas toujours étéle cas. Chez les juristes – il faudrait parlerplus spécialement des constitutionnalistes –qui écrivaient autour des années 1900, lespréoccupations dans le domaine de la scien-ce politique, discipline alors balbutiante,étaient très présentes (v. par exemple, Fav-re, passim). Il n’était pas rare de voir, sousleurs plumes, de longs développementsconsacrés au peuple ou à l’opinion publique.

Ils mettaient toutefois en garde contre lecaractère largement indéterminable de l’o-pinion publique et la difficulté à la connaî-tre. Ainsi, James Bryce qui lui a consacréune douzaine de chapitres de son volumi-neux travail sur La République américaine, ainsisté sur la difficulté à la cerner et sur lerisque de voir dans certaines techniques,telles que l’élection des représentants, desmoyens infaillibles de son expression (pp.329 et 473-474). Carl Schmitt a égalementreconnu que les institutions et les procé-dures légales n’étaient pas à même d’ap-préhender et d’organiser complètementl’opinion publique, même si elles pou-vaient servir à l’exprimer, «à lui donnerune valeur de symptôme en plus de sa teneurofficielle» (Schmitt, Théorie de la constitu-tion, pp. 388-389).

Cette indéterminabilité apparente del’opinion publique ne signifie pas néces-sairement qu’elle est par définition indé-terminée. C’est la confusion entre desnotions pourtant distinctes qui a conduitsouvent – et peut-être encore aujourd’hui

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L’opinion publique des juristes

alain laquièze

giornale di storia costituzionale n. 6 / II semestre 2003

– à délaisser la notion d’opinion publique,jugée hâtivement comme peu opératoirepour saisir la vie politique et institution-nelle. Or, l’opinion publique ne peut êtreassimilée par exemple au peuple qui est unconcept multiforme, susceptible de recou-vrir de nombreuses significations. Le peu-ple peut en effet désigner aussi bien lapopulation, tous les ressortissants de l’Etat,un attroupement dans une ville, la nation,les électeurs, etc. Carl Schmitt a distingué,pour sa part, trois sens principaux du mot«peuple» dans le cadre d’une démocratielibérale: 1) le peuple avant et au-dessus de laconstitution qui désigne le peuple commele sujet du pouvoir constituant; 2) le peupleà l’intérieur de la constitution dans l’exerci-ce de pouvoirs réglementés par les loisconstitutionnelles: il s’agit là du corps élec-toral ou du corps civique participant direc-tement à une votation, comme les référen-dums et les plébiscites; 3) le peuple à côté dela réglementation des lois constitutionnel-les. C’est ce troisième sens qui renvoie àl’opinion publique (ibidem, pp. 377 et s).

Schmitt insiste sur l’idée que le peuplene peut être réduit au corps électoral qui semanifeste lors des élections ou des vota-tions. Il continue à exister comme «puis-sance politique immédiatement présente»(ibidem, p.381), comme «puissance inorga-nisée et non formée, à côté des cas où ilexerce une activité organisée légiconstitu-tionnellement» (ibidem). Le peuple n’estdonc pas uniquement, comme dans le posi-tivisme kelsenien, un organe de l’Etat quine devrait son existence qu’à la constitution:il existe non seulement avant mais aussi endehors de la constitution. On pourraitmême ajouter qu’il existe surtout hors de laconstitution: Schmitt livre là une critiquede la démocratie libérale, accusée de faire

de la «constitution libérale bourgeoise» leseul truchement de la volonté du peuple,niant en réalité son existence. Car le peuplen’apparaît, selon cette interprétation, quedans la vie publique; concrètement, celasignifie qu’il n’est présent que dans «le faitde la présence physique d’une foule ras-semblée en public» (ibidem, p. 382). On nepeut déceler la présence du peuple dans uneélection ou un référendum, puisque l’indi-vidu se prononce dans l’isoloir, en son âmeet conscience, par un vote individuel sec-ret. Comme le précise Schmitt,

[…] poussés jusqu’à leur terme, l’élection et lavotation par vote individuel secret transformentle citoyen – donc la figure spécifiquement démo-cratique, c’est-à-dire politique – en un hommeprivé qui, venant de la sphère du privé (que ceprivé soit sa religion, son intérêt économique oules deux en un), exprime une opinion privée etremet son vote. Le vote individuel secret signi-fie que le citoyen votant est isolé au momentdécisif. L’assemblée du peuple présent et touteacclamation deviennent ainsi impossibles, le lienentre peuple assemblé et vote est entièrementrompu. Le peuple n’élit et ne vote plus en tantque peuple.[Ibidem, pp. 383-384]1

Il serait donc très schématique d’assi-miler le corps électoral à l’opinionpublique, dès lors que celle-ci est beaucoupplus que l’agrégat d’un certain nombre d’é-lecteurs et même que le rassemblementd’opinions privées. Elle ne désigne pas uneopinion commune à un grand nombred’individus, mais plutôt un espace, un lieu,une «sphère psychologique» (pourreprendre un terme de M. Hauriou, p. 160)de discussion où s’échangent les idées poli-tiques. L’opinion publique est l’agora desdémocraties modernes, la place publiqueidéale où la discussion des affaires poli-

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tiques, guidée par le souci du bien public,s’effectue librement, spontanément et dansla plus grande clarté, ce qu’Hauriou appe-lait déjà la «publicité». La transparence etla capacité de se saisir de tous les sujets quiconcernent la cité font de l’opinionpublique un atout essentiel de la démocra-tie moderne, si on la compare avec lesmonarchies des temps absolutistes qui neconnaissent pas un espace public, spécifi-quement dédié à la chose politique2.

La littérature juridique n’a jamais cachéla dimension fictionnelle de l’opinionpublique. L’un des grands théoriciens del’opinion publique, Dicey, pourra écrire:

Après tout, l’opinion publique elle-même n’estqu’une simple abstraction; ce n’est pas un pou-voir ayant une existence indépendante; c’est toutsimplement un terme général pour désigner lesopinions d’un grand nombre d’êtres humains.[Dicey, p. 392]

Mais les juristes, habitués à manier desfictions – pensons par exemple à la per-sonnalité morale de l’Etat – n’ont pourtantpas renoncé, au moins dans les premierstemps de la démocratie représentative, àétudier l’opinion publique, alors même queson caractère inorganisé et la rareté de sesmoyens d’expression auraient pu les dis-suader de s’en occuper. C’est en particulierles constitutionnalistes anglo-saxons –James Bryce, Dicey, Lowell … – qui vontlancer des études pionnières sur la ques-tion, en observant le fonctionnement de ceslaboratoires démocratiques qu’étaient alorsles Etats-Unis et la Grande Bretagne. On netrouve certes pas dans leurs ouvrages uneétude historique de l’opinion publique,comme le fera Jürgen Habermas dans sonlivre célèbre, L’espace public3, même si unauteur comme James Bryce considère que

l’opinion publique a été, pratiquement àtoutes les époques, la puissance principaleau sein des nations.

En revanche, ils s’efforcent de détermi-ner comment elle se forme dans un paysdémocratique et comment elle peut s’ex-primer. Pour ce faire, ils adoptent deuxméthodologies différentes: tandis que l’a-nalyse de la formation de l’opinionpublique emprunte à la psychologie socia-le, et notamment aux travaux de GabrielTarde (I), la recherche des témoignages demanifestation de l’opinion publique s’ef-fectue à partir d’une approche essentielle-ment institutionnelle qui fait la part belleau parlement et aux groupes de pression.Ils restent néanmoins réservés et souventdubitatifs sur les réelles capacités d’actionpolitique de l’opinion publique qui, poureux, gouverne moins qu’elle ne règne dansles esprits (II).

1. La formation de l’opinion publique: inter-action des psychologies individuelles et impor-tance des élites

L’opinion publique est certainement l’œu-vre des individus eux-mêmes qui accep-tent, d’une manière ou d’une autre, les opi-nions des autres et sont parfois influencéspar elles. Non seulement il y a des échan-ges interindividuels qui sont susceptiblesd’aboutir à la formation d’une opinionpublique, mais il existe aussi, chez les indi-vidus, une acceptation de sa formation etde son contenu, quand bien mêmeseraient-ils en désaccord avec elle.

James Bryce a décrit la formation de l’o-pinion publique en adoptant une doubleperspective. La première s’applique à déter-

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miner comment se forme l’opinion indivi-duelle à propos d’un événement politique. Ilprend l’exemple de l’homme d’affaires qui litdans son journal, au déjeuner, les événe-ments de la veille, ainsi l’annonce par Bis-marck d’une politique de protection pourl’industrie allemande ou la désignation dunouveau maire de New York. Cet hommed’affaires va en ressentir une impression, enfonction de ses convictions profondes, quisera renforcée ou affaiblie lorsqu’il confron-tera, dans l’après-midi, son point de vue àson bureau avec ses collègues de travail. Lelendemain, son opinion commencera à secristalliser, d’autant que les journauxcontiendront des articles plus précis et plusaffirmatifs dans lesquels ils approuvent oucondamnent l’événement. Vient ensuite letemps des controverses où les partisans etles adversaires de cet événement affûtentleurs arguments: chacun, si l’on peut dire, achoisi son camp. Enfin, la phase de l’actionarrive, celle où le citoyen doit voter. Lesconséquences du vote sont importantes car,comme le souligne Bryce, «Quand un hom-me a voté, il est engagé: à partir de ce jour, ila intérêt à défendre l’idée qu’il a cherché àfaire prévaloir. De plus, l’opinion, qui étaitprobablement multiple jusqu’au moment duvote, n’a plus ensuite que deux formes. Il y aune idée qui a triomphé et une autre qui aété vaincue» (Bryce, p. 331).

Bryce tire des enseignements très éclai-rants de ce processus psychologique:contrairement à ce que nous enseigne lathéorie démocratique, chaque individu n’apas forcément une idée nette et réfléchiedes besoins du pays. Les idées politiques neviennent pas de lui, mais sont dues princi-palement à ce qu’il a entendu dire et ce qu’ila lu. Les arguments qu’il peut présenter luiont été fournis par d’autres, par ses amis

en particuliers, mais ces derniers sont pla-cés dans la même situation. En d’autrestermes, «(…) de ce que chacun croit, unepetite part seulement est son impressionpremière, la plus grande partie est le résul-tat de l’enchevêtrement, de l’action et de laréaction mutuelles des impressions d’unemultitude d’individus, dans lesquelles l’é-lément de la conviction personnelle, baséesur la réflexion individuelle, est infinimentpetit» (ibidem, p. 332). Bryce reconnaîtcertes que ce jeu d’influences réciproquesne s’exerce pas sur des individus, exemptsd’idées préconçues, à raison de leur édu-cation, de leurs principes, de leurs affini-tés religieuses et sociales, etc. Mais ces pré-jugés ne sont que de l’ordre du sentimentqui, tout en gouvernant leur premièreimpression, ne leur permet pas d’acquérirune réflexion raisonnée et argumentée.

A cette perspective qui prend en comp-te les relations interindividuelles et insis-te sur sa formation spontanée, l’auteur deLa République américaine ajoute une autregrille d’analyse qui divise l’opinion en deuxgroupes: l’opinion passive, composée de«ceux pour qui la politique n’a aucun inté-rêt spécial, qui ne s’en occupent que pourvoter, de ceux qui reçoivent et propagent,mais qui ne créent point des idées sur lesquestions publiques» (ibidem, p. 336), etla classe active «qui s’occupe avant tout desaffaires publiques, qui aspire à créer et àdiriger l’opinion» (ibidem). Ce deuxièmegroupe, bien que nettement plus restreintquant à ses membres, comprend les hom-mes d’Etat, les journalistes, les conféren-ciers, susceptibles d’influencer la majori-té passive des citoyens.

Mais cette influence de la classe activesur la majorité passive ne signifie pas quel’opinion publique soit purement et sim-

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plement le produit de l’opinion de la pre-mière. Au contraire, elle apparaît commele résultat d’une action des chefs de l’opi-nion publique sur la masse et d’une réac-tion de celle-ci sur ceux-là. La part d’ungroupe par rapport à l’autre dans la consti-tution de l’opinion publique différe, selonBryce, d’un pays à l’autre et résulte en par-ticulier de la différence d’instruction ent-re les deux groupes: plus cette différenceest faible, plus le poids de la masse seragrand.

Pour illustrer sa comparaison, Bryceprend l’exemple de l’Angleterre, puis desEtats-Unis. En Angleterre, l’opinionpublique est composée de trois groupes decitoyens: ceux qui font l’opinion, ceux quireçoivent et tiennent entre leurs mains l’o-pinion, et ceux qui n’ont pas d’opinion dutout. Le premier groupe qui se compte enquelques centaines de membres comprenddes politiciens, des journalistes et des écri-vains s’occupant des questions politiques.Au sein de ce groupe, l’opinion se crée, parl’action et la réaction des chefs des grandspartis, notamment lors des débats au seindu Parlement, et se propage, grâce aux jour-nalistes. Le deuxième groupe est composéd’hommes qui surveillent les affairespubliques avec un certain intérêt. Ils sui-vent régulièrement les débats parlementai-res, assistent de temps en temps aux réuni-ons publiques, sont le plus souvent mem-bres d’une association politique et votenten connaissance de cause. Ces citoyenséclairés, parmi lesquels on trouve de nom-breux représentants des professions libé-rales et des grands négociants, n’atteignentpas le tiers des électeurs. Enfin, le troisiè-me groupe comprend tout le reste des élec-teurs qui ressentent une certaine indiffé-rence envers la politique. Ils ne concourent

ni à la formation, ni à l’influence de l’opi-nion (ibidem, pp. 425 et s.).

Par conséquent, la formation de l’opi-nion publique dans l’Angleterre de la fin du19ème siècle passe par un échange de pointsde vue entre le premier groupe qui appa-raît comme une force d’initiative et lesecond qui réagit positivement ou négati-vement aux propositions qui lui sont faites.Le troisième groupe en revanche demeurepassif et va suivre, selon Bryce, la directiondonnée par le premier ou le deuxièmegroupe (ibidem, pp. 429-430)4.

Une description analogue de la forma-tion de l’opinion publique en Grande Bre-tagne se retrouvera chez Dicey. Une descaractéristiques de ce qu’il appelle «l’opi-nion législative», c’est-à-dire celle qui faitla loi, est qu’elle trouve souvent son origi-ne chez quelque penseur isolé ou dans uneécole de penseurs. Mais il faut générale-ment du temps – parfois plusieurs années– entre l’énoncé d’une nouvelle doctrine etsa traduction dans la législation. Ainsi,alors que La richesse des nations d’AdamSmith a été publiée en 1776, la politique dulibre échange ne fut pas complètementacceptée en Angleterre avant 1846 (Dicey,pp. 20 et s.). Maurice Hauriou, visiblementmarqué par la lecture de Dicey, reprendraà son compte l’idée selon laquelle l’organi-sation de l’opinion est due à une minoritéou à une élite, la masse du public ne jouantqu’un rôle passif (Hauriou, p. 162).

Cette compréhension de l’opinionpublique, en vertu de laquelle un petit cer-cle de personnes forme l’opinion en faisantusage de la raison, au sein du grand publicsollicité uniquement pour l’acclamation, apu être jugée comme caractéristique despositions du libéralisme (Habermas, p.248). Pourtant, cette domination d’une

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petite élite au sein de l’opinion ne parais-sait pas valoir dans toutes les démocratieslibérales de la fin du 19ème siècle.

Pour Bryce, la formation de l’opinionpublique s’effectuait en effet très diffé-remment aux Etats-Unis. Le premier et letroisième groupes qu’il a précédemmentidentifiés sont plus petits que leurs homo-logues britanniques et c’est dans le secondgroupe que l’opinion se forme et qu’elle estexaminée et créée (Bryce, pp. 430 et s.). Ildécrit là un pays plus avancé sur la voie dela démocratie de masse, dans laquelle lescitoyens forgent eux-mêmes leurs opinionset éprouvent un grand intérêt pour la poli-tique, avivé par le rythme fréquent deséchéances électorales.

En dépit des divergences qui peuventexister selon les pays quant aux modalitésde formation des différentes opinionspubliques, il reste que c’est dans la discus-sion et l’échange des points de vue que lesjuristes décèlent le ferment de l’opinionpublique. Ils retrouvent en cela une idéechère à Gabriel Tarde qui fait de la conver-sation, le facteur essentiel de l’opinion,ainsi que l’agent de l’imitation et de la pro-pagation des sentiments et des idées (Tar-de, L’opinion et la foule, notamment le 2ème

chap: «L’opinion et la conversation»; v.aussi Id., Les lois de l’imitation, chap. 5:«Les lois logiques de l’imitation»).

L’américain Lawrence Lowell, qui cited’ailleurs souvent Tarde, a tenté, pour sapart, de déterminer ce que pouvait être lanature de l’opinion publique, conscientqu’elle était, selon ses propres mots, «lavéritable force motrice d’une démocratie»(Lowell, p. 13). Il rejoint Bryce, lorsqu’ilaffirme que les opinions des hommes nesont pas forcément personnelles, mais pro-viennent souvent des autres (ibidem, pp. 17

et s.). Surtout, il revient à plusieurs repri-ses sur le caractère public de l’opinion enconsidérant que celui-ci n’est réel quelorsque la grande masse des citoyens estd’accord sur les fins et les buts du gouver-nement et que la minorité d’entre eux quine partage pas l’opinion dominante éprou-ve le sentiment qu’elle doit néanmoins pré-valoir (ibidem, pp. 7-9, 28 et 35).

En somme, c’est l’acceptation par lescitoyens des règles du jeu de la démocratiedélibérative – non seulement le principeselon lequel le peuple participe aux affairespubliques, mais aussi la règle de la majori-té pour faire triompher le point de vue col-lectif et le principe d’égalité de tous lescitoyens sans distinction de race ou de reli-gion – qui donne son homogénéité à lapopulation et par là, est une condition del’opinion publique. Une autre condition del’opinion publique est la liberté accordée àla minorité d’exprimer son désaccord partous les procédés honnêtes et pacifiques, cequi implique la liberté d’opinion et la liber-té d’association. L’opinion publique n’estdonc pas la volonté commune de tous lesmembres d’une démocratie: elle est le juge-ment plus ou moins rationnel d’une partieprépondérante de ces derniers qui respec-tent aussi les opinions minoritaires du pays.

Dans l’acceptation par les individus dela formation de l’opinion publique et dusentiment d’obligation qu’elle suscite, ilfaut y voir une construction fictive, certai-nement nécessaire au bon fonctionnementd’une démocratie moderne qui n’associehabituellement les citoyens au pouvoir,qu’au moment des élections. Quant à l’idéeque l’opinion publique peut être simple-ment le produit d’une majorité de person-nes, elle sous-entend que la société peutêtre traversée par plusieurs courants d’opi-

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nion contradictoires. Dicey explique ainsiqu’un pays comme l’Angleterre est marquépar un courant prédominant de l’opinionqui a déterminé directement ou indirecte-ment le cours de la législation5, mais dontla puissance est diminuée par l’existencede contre-courants ou de courants trans-versaux d’opinion. Ces corps d’opinion,opposés à l’opinion dominante, peuventexprimer des idées conservatrices qui per-dent graduellement leur emprise sur unegénération donnée, ou être alimentés pardes idées nouvelles, dont l’influence gran-dit sur les jeunes générations. Dicey voitdeux effets de ces contre-courants d’opi-nion, un effet certain et un effet possible:l’effet certain, c’est «un frein (…) mis àl’action de la foi dominante» (Dicey, p. 35),par exemple, le fait que le Reform act de 1832ne fut pas suivi par d’autres réformes insti-tutionnelles libérales pendant les trenteannées suivantes; le résultat possible,beaucoup moins certain, est de retarderune réforme ou une innovation pendant untemps si long, qu’elle ne pourra pas êtreeffectuée du tout ou qu’elle sera dénaturéelorsqu’elle interviendra.

Enfin, la question s’est posée de savoirsur quels types de sujets le public pouvaitformer une véritable opinion. Pour Lowell,ils sont limités à des principes généraux,plutôt qu’à des cas concrets, ainsi qu’à desquestions qui ne demandent pas «unesomme considérable de connaissancesapprofondies» (ibidem, p. 52). Des thèmesconcernant la politique agricole ou la fabri-cation de produits manufacturés pourrontéventuellement intéresser des petites com-munautés au sein de la nation, concernéesau premier chef par ces métiers, mais nesont guère susceptibles, par leur technici-té, de mobiliser l’opinion publique. A for-

tiori, les décisions gouvernementales quisont le fruit d’un compromis constituerontsans doute un obstacle à la formation d’u-ne opinion publique.

Plus de cinquante ans après les écrits deBryce, de Dicey et Lowell, on trouve, sous laplume de Georges Burdeau, une définitionde l’opinion publique qui apparaît commeune synthèse des recherches menées jus-qu’alors. Cette définition s’articule à partirdes trois points suivants: 1) l’opinionpublique est le produit d’un accord entreune majorité d’individus au sein d’un pays;2) elle se cristallise autour de problèmesposés en termes généraux et en quelquesorte impersonnels; il n’y a pas d’opinionpublique sur des sujets qui concerneraientdirectement et immédiatement certainsmembres du groupe; 3) son intensité estgénéralement faible, sans doute parcequ’elle apparaît désincarnée et que lesindividus ne se sentent pas fortementconcernés, dans leurs vies personnelles,par ses avis (Burdeau, pp. 102 et s.).

C’est sans doute ce manque d’engage-ment personnel des individus, lié au carac-tère abstrait de l’opinion publique, quiexplique sa grande versatilité, ainsi que lacapacité de groupes minoritaires à la diri-ger. Lowell, à la suite de Tarde, l’avait dureste déjà suggéré : l’intensité des convic-tions est un facteur important dans la pro-pagation des opinions et une minoritéd’hommes convaincus peuvent dicter leurloi à une majorité apathique. Dans cesconditions, il faut comprendre que la règlemajoritaire doit être prise avec beaucoupde prudence pour déterminer l’opinionpublique: elle ne peut pas, en tout état decause, être comprise nécessairement dansle sens d’une majorité numérique6. Celarend bien évidemment très délicat l’iden-

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tification de l’opinion publique. D’où latentation de la rechercher dans ses modesd’expression proprement dits.

2. L’expression de l’opinion publique: néces-sité des médias et illusion du gouvernementd’opinion

Les publicistes étaient prédisposés, du faitmême de leurs compétences juridiques, àétudier les modalités d’expression de l’o-pinion publique, ce qui les conduisait às’intéresser aux institutions et aux tech-niques qui pouvaient être considéréescomme les truchements de l’opinion.

Les entreprises de presse – maisonsd’éditions de livres et de revues, jour-naux… – occupent une place prépondé-rante dans l’expression de l’opinionpublique. Les journaux en particulier, par-ce qu’ils traitent des affaires politiques etqu’ils disposent d’un vaste lectorat, sontconsidérés, notamment par les gouver-nants, comme le miroir de l’opinion, maispeut-être plus encore comme le révélateur.Etant souvent les représentants d’un partipolitique, ils prennent part au débat publiccontradictoire qui existe dans le pays: celaest particulièrement vrai avant les grandesélections nationales (Bryce, pp. 360 et s.;Hauriou, p. 162; Tarde, Les transformationsdu pouvoir, pp. 234 et s).

Les associations sont également consi-dérées comme des instruments d’expres-sion de l’opinion. Bryce note pour les Etats-Unis que «(les) associations ont une gran-de importance pour le développement del’opinion, car elles attirent l’attention, ellespoussent à la discussion, elles formulentdes principes, soumettent des plans,

enhardissent et stimulent leurs membres,et produisent l’impression d’un mouve-ment qui gagne du terrain, impression quimène souvent au succès chez un peupleémotionnable» (Bryce, p. 371). Outre lesassociations, les partis politiques sontnaturellement destinés à influencer, voireà faire l’opinion. Carl Schmitt voit mêmedans l’existence des partis une conditionnécessaire d’une démocratie: «Il n’y a pasde démocratie sans partis, mais unique-ment parce qu’il n’y a pas de démocratiesans opinion publique et sans le peuplecontinuellement présent»7. La force despartis est d’exprimer directement l’opiniond’au moins une partie du peuple, alors quele parlement ne représente qu’un peupleabsent, perdant en cela son caractèrereprésentatif.

Nos auteurs restent toutefois allusifs surle fonctionnement précis de ces organesqui font la médiation entre l’opinion et legouvernement, en s’occupant des affairespubliques. Ils sont en outre très dubitatifssur le rôle des élections qui sont moinsl’expression d’une opinion publique quedes manifestations, par le vote individuelsecret, de personnes privées qui ne formentpas un peuple assemblé et qui se pronon-cent en faveur d’un candidat, leur ayant étéimposé par un parti (Schmitt, pp. 383-384et 388-389; Bryce, pp. 435-436).

Il est dès lors tentant de déceler l’ex-pression de l’opinion publique dans lalégislation faite par le parlement. Diceys’est en particulier attaché à cette démons-tration en faisant de ce qu’il appelle «l’o-pinion législative» l’expression majoritai-re de l’opinion publique. Il admet certesqu’il s’agit d’un «phénomène très com-plexe (qui) prend souvent la forme d’uncompromis résultant d’un conflit entre les

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idées du gouvernement et les sentimentsou les habitudes des gouvernés» (p. 9). Ilreconnaît en outre, comme on l’a déjà dit,l’existence de contre-courants, parmi les-quels il place les tribunaux8, qui peuventcontrarier et notamment retarder cetteexpression majoritaire. Et il constate quela législation adoptée peut aussi constituerun facteur de création de l’opinionpublique, entendue comme le produit d’unprocessus délibératif.

Léon Duguit reprendra l’argumentselon lequel le parlement en faisant la loiexerce une action sur l’opinion: «il y a ent-re lui et elle une série d’actions et de réac-tions et (…) ainsi peut être hâtée l’accep-tation par la masse des esprits du principede la loi» (p. 174). Or, comme la loi est fai-te par une majorité de parlementaires quisoutient le gouvernement, on comprendraque c’est en réalité une petite classe de gou-vernants qui ont la capacité, si ce n’est defaire l’opinion, en tout cas d’exercer sur elleune action déterminante et de l’exprimer.

En définitive, le propos de ces publi-cistes, en dépit de leurs divergences d’a-nalyse, peut être compris comme signi-fiant que ce sont toujours des petits grou-pes de décideurs – les gouvernants, lesparlementaires, les journalistes… – quifont et expriment l’opinion publique. Cet-te interprétation de leurs écrits permet-trait d’éclairer leur conviction que le gou-vernement d’opinion n’existe pas. Com-me l’écrira si bien Giovanni Sartori, «sil’idéal exige une démocratie gouvernante,l’observation du monde réel montre quece qui existe en fait est une démocratiegouvernée» (Sartori, p. 65).

Le constat d’une opinion publique pas-sive s’accompagne parfois d’une vigoureu-se critique de la démocratie représentative.

C’est le cas de Carl Schmitt pour qui l’opi-nion publique est une forme diffuse qui nepeut être réduite à des expressions légales,telles que les techniques électorales. Lareprésentation parlementaire et le droitconstitutionnel, tels qu’ils existent dans laRépublique de Weimar, sont plutôt un obs-tacle à la présence d’une véritable opinionpublique car ils l’empêchent de donnerlibrement son avis et d’exercer son contrô-le sur les gouvernants. L’opinion n’existeen réalité que lorsque le peuple est physi-quement et spontanément rassemblé aucours d’une manifestation de rues, au théâ-tre ou au stade. Par définition inorganisée,elle est «la forme moderne de l’acclama-tion» (Schmitt, Théorie de la Constitution,p. 385). Acclamer ne signifie pas seulementaccepter. Le peuple «à côté de la régle-mentation des lois constitutionnelles»peut «exprimer son accord ou son désac-cord par une simple exclamation, crier“vivat” ou “à bas”, applaudir un chef ou uneproposition, souhaiter longue vie à un roiou à toute autre personne, ou refuser l’ac-clamation en se taisant ou en murmurant»(ibidem, p. 382).

Au-delà de cette vision très inquiétan-te d’un peuple qui va exprimer son soutienbruyant à un chef, ce qui n’est pas sans évo-quer les mises en scène théâtrales des dic-tatures, de l’Empire romain au régime hit-lérien, il faut y déceler la condamnation dela démocratie parlementaire, ici sous la for-me de la République de Weimar. Au mêmemoment, le publiciste français RaymondCarré de Malberg déplorera également lamise à l’écart des citoyens dans le fonc-tionnement du régime parlementaire de laIIIème République, même si les remèdesqu’il préconisera seront moins radicauxque ceux proposés par Schmitt (v. notam-

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ment Carré de Malberg, pp. 225 et s.; cf.également Kelsen, pp. 47 et s.).

Le thème de la démocratie gouvernée etde l’opinion publique passive qui donne lapart belle à une petite élite de gouvernantssera largement repris par les théoriciens dela démocratie au 20ème siècle, qu’il s’agissede Schumpeter (Capitalisme, socialisme etdémocratie, notamment les chapitres XXI etXXII), de Sartori ou de Georges Burdeau. Cedernier considèrera que le «gouvernementd’opinion» laisse en réalité une grandemarge de manœuvre aux gouvernants carl’opinion n’est ni homogène, en ce qu’ellerassemble un très grand nombre d’appré-ciations individuelles, ni dogmatique. Parsa nature même, l’opinion est plus une for-ce sociale de réaction que d’impulsion, plusun juge qu’un gouvernant: «l’opinion trèscapable de juger, est impropre à concevoir.C’est donc aux gouvernants qu’il appartientd’imaginer une politique que le peuple estseul habilité à ratifier ou à rejeter» (Bur-deau, p.110). Elle est à la fois impérative, carelle est capable de briser toute puissance, etinefficace, car elle a besoin, pour agir poli-tiquement, d’être mise en œuvre par unorganisme, un parti par exemple. L’opinionrègne, mais ne gouverne pas…

Pourtant, à la fin du 19ème siècle, JamesBryce avait esquissé une mutation de l’opi-nion publique et prédit qu’elle serait enmesure, un jour, de gouverner effective-ment, après avoir traversé, au cours del’histoire, plusieurs phases, de l’étatinconscient et passif à l’état conscient etactif. Initialement soumise à un chef, l’o-pinion était ensuite entrée en conflit aveclui, avant de le contraindre à se soumettre,par le biais d’élections intervenues à desintervalles réguliers. Enfin, sa suprématieserait bientôt complète, dès lors que la

volonté de la majorité pourrait être connueà tout instant, sans passer pour autant parle mécanisme de l’élection. Ici, les proposde Bryce résonnent de manière prémoni-toire, même si sa conclusion est quelquepeu idéaliste:

Ce que je tiens à montrer, c’est que, même là oùle mécanisme pour peser ou pour mesurer lavolonté populaire d’une semaine à l’autre ou d’unmois à l’autre, n’a pas été inventé et n’est pas prèsde l’être, il peut se faire que les chefs, ministresou législateurs, soient portés à agir comme s’ilexistait; c’est-à-dire qu’ils observent toutes lesmanifestations de l’opinion publique courante,et qu’ils cherchent à agir d’après les idées qu’ilsse font de ces manifestations. Dans ce cas, lamasse des citoyens ne perd pas de vue les affai-res publiques, car elle sent que c’est elle qui gou-verne réellement, et que ses représentants, exé-cutifs ou législatifs, sont plutôt ses serviteurs queses représentants. Lorsque le peuple d’un côté etles personnes qui font le travail réel du gouver-nement de l’autre ont cette attitude, on peut direqu’il existe en fait, sinon en apparence, un gou-vernement différent du système représentatif telque se le figuraient les penseurs et les hommesd’Etat européens de la dernière génération. Etc’est à ce genre de gouvernement que semblenttendre les nations démocratiques.[Bryce, pp. 345-346]

En réalité, il est extrêmement délicat, etsans doute illusoire, d’avancer que lesgrandes démocraties connaissent aujour-d’hui un véritable gouvernement d’opi-nion. Car si les individus sont appelés àdonner quotidiennement leurs avis sur lesaffaires publiques, par le biais des tech-niques de sondage, ils n’interviennentqu’en tant que personnes privées, sansprendre de décisions reconnues par lesinstitutions. Quant à l’influence descitoyens sur l’action politique, elle ne seproduit qu’à intervalles plus ou moins rap-prochés, par les élections et les référen-

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dums, voire par les manifestations et lesréunions publiques, et elle n’est de toutefaçon qu’une expression minoritaire de lapopulation. L’espace public universel etpermanent, au sein duquel se prend toutesles décisions, demeure encore un idéal àatteindre9.

En dépit de leurs imprécisions et ducaractère intuitif de nombre de leurs ana-lyses, les écrits des juristes sur l’opinionpublique conservent une réelle pertinen-ce. Leur choix de faire appel à la psycholo-gie sociale pour tenter de circonscrire lesphénomènes d’opinion annoncent les tra-vaux ultérieurs de la sociologie américaine(Stoetzel, pp. 293 et s.) et les recherchesd’un Habermas sur l’espace public.

Ils constituent également, pour lespublicistes contemporains désireux de sor-tir du carcan étroit de l’ordre juridique afind’en comprendre les fondements, une invi-tation à mener une réflexion empruntant àla philosophie politique et à la psycho-sociologie. Ainsi, une investigation d’ord-re théorique sur cette notion si délicate,parce que multiforme, de «peuple», s’im-poserait d’autant plus qu’elle présente laparticularité d’être systématiquement citéedans les manuels de droit constitutionnel etde science politique, alors que sa définitionreste pour le moins confuse10. L’emprunt àla psycho-sociologie permettrait égalementde mieux comprendre comment une opi-nion publique peut influer sur l’édiction dela règle de droit. Dans des sociétés où lessphères privées et la sphère public s’inter-pénètrent de plus en plus – il suffit en par-ticulier de mesurer la place qu’ont prisaujourd’hui ces médias que sont la télévi-sion, internet, les instituts de sondage… –et où l’Etat tend à associer les représentantsde la société civile dans l’élaboration, qu’il

monopolisait jusqu’alors, des actes juri-diques, il devient nécessaire d’analyser laconstitution d’opinions collectives spéci-fiques au sein d’institutions, telles que lesentreprises, les collectivités locales, l’ad-ministration, les partis politiques etc. etd’évaluer comment ces différentes opi-nions communiquent pour former ce qu’ilest convenu d’appeler l’opinion publique.Le défi est ambitieux, mais il doit être rele-vé pour mieux comprendre comment inter-agissent le monde des normes juridiques etcelui des phénomènes sociaux.

Bibliographie

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Carré de Malberg (Raymond), Considérations théoriques surla question de la combinaison du referendum avec le par-lementarisme, in «Revue du droit public», 1931;

Dicey (Albert Venn), Leçons sur les rapports entre le droit etl’opinion publique en Angleterre au cours du dix-neuvièmesiècle, traduit par A. et G. Jèze, Paris, Giard et Brière,1906;

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Stoetzel (Jean), La psychologie sociale, Paris, Flammarion,1978;

Tarde (Gabriel), Les lois de l’imitation, Paris, F. Alcan, 1890;– Les transformations du pouvoir, Paris, F. Alcan, 1899; – L’opinion et la foule, Paris, F. Alcan, 1901.

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1 Le vote au scrutin secret est eneffet pour Schmitt le moyen deprotéger l’opinion de l’individucontre la pression du public etnon une manifestation de l’opi-nion publique: v. Parlementarismeet démocratie, p. 49.

2 Comme l’écrit Carl Schmitt (Par-lementarisme et démocratie, pp. 47-48): «Une politique de cabinetmenée par un petit nombre depersonnes derrière des portescloses apparaît désormais eo ipsocomme mal intentionnée, et enconséquence, le caractère public,du simple fait qu’il est public,comme une chose juste et bonne.Le caractère public est revêtu d’u-ne valeur absolue, bien qu’il nesoit au départ qu’un remède pra-tique contre la politique secrète del’absolutisme – politique à la foisbureaucratique, professionnelleet technique. Ecarter la politiquesecrète et la diplomatie secrètedevient le remède universel con-tre toutes les maladies et les cor-ruptions politiques; le caractèrepublic devient l’organe de contrô-le absolument efficace».

3 Habermas, L’espace public, passim;citons également, pour la France,le livre de Reynié, Le triomphe del’opinion publique, passim.

4 Bryce n’explique pas cependantcomment le deuxième groupe,composé de citoyens actifs etéclairés, qui s’exprime essentiel-lement par le vote, peut exercerconcrètement une influence surle troisième: sans doute est-cedans la vie sociale et notammentprofessionnelle qu’il faut situercette influence.

5 La définition de l’opinion domi-nante par Dicey annonce lesréflexions de Lowell: «Il existe, àune époque donnée, un ensem-ble de croyances, de convictions,de sentiments, de principesacceptés ou de préjugés ferme-ment enracinés, qui, pris ensem-ble, forment l’opinion publiqued’une période particulière, ou ceque nous pouvons appeler lecourant régnant ou prédominantde l’opinion […]. On peut ajouterque l’ensemble des croyancesexistant à une période donnéepeut être ramené généralement àcertaines suppositions fonda-mentales qui, à ce moment,qu’elles soient en réalité vraies oufausses, sont considérées par lamasse des individus comme étantl’expression de la vérité, et celaavec une confiance telle qu’ellessemblent difficilement avoir le

caractère de suppositions»(Dicey, pp. 18-19).

6 Lowell parle, à ce propos, de«majorité réelle» (p. 12). Surl’intensité de la confiance accor-dée par l’opinion à un hommed’Etat, v. Tarde, Les transforma-tions du pouvoir, pp. 42 et s.

7 Schmitt, Théorie de la Constitution,p. 386. Sur l’existence nécessairedes partis politiques dans unedémocratie, v. aussi Kelsen, pp.28 et s.

8 Dicey consacre en effet de longsdéveloppements à ce qu’il appel-le «la législation judiciaire»: pp.340 et s.

9 Sur la distinction entre le juge-ment d’opinion, c’est-à-dire lefait d’avoir une opinion, et lamanifestation d’opinion (réu-nion, manifestation, vote…), v.Reynié, «Opinion publique», pp.446-447; v. aussi, sur l’idée queles sondages ne peuvent présen-ter un certain reflet de l’opinionpublique qu’à la condition d’avoirété précédés par une formationde celle-ci relativement au thèmeabordé: Habermas, Droit et démo-cratie, p. 389.

10 La constatation avait été faite parBurdeau, t.V, p. 123, note 47.

Goverment is instituted to protect property of everysort; as well that which lies in the various rights ofindividuals, as that which the term particularlyexpresses. This being the end of government, thatalone is a just government, which impartially secu-res to every man, whatever is his own.[Madison 1792, pp. 174-175]

When the Constitution was framed, the [commonlaw] system was highly regarded as a guardian ofindividual rights, and many Americans equatedcommon law with natural law. For them, theunwritten English Constitution, which consistedprincipally of common law rights, provided thegreatest measure of human freedom.[Siegan, The Supreme Court, 1985, pp. 275-276]

1. L’opinione pubblica: ovvero how to frame?

Nel 1906 Roscoe Pound, uno dei più notiesponenti del movimento della sociologicaljurisprudence, ammoniva che

[…] law formulates the moral sentiments of thecommunity in rules to which the judgments of tri-bunals must conform. These rules, being formu-

lations of public opinion, cannot exist until publicopinion has become fixed and settled, and cannotchange until a change of public opinion has beco-me complete. […]Public opinion must affect the administration ofjustice through the rules by which justice is admi-nistered rather than through the direct admini-stration. All interference with the uniform andautomatic application of these rules, when actualcontroversies arise, introduces an anti-legal ele-ment which becomes intolerable. But, as publicopinion affects tribunals through the rules bywhich they decide and these rules, once made,stand till abrogated or altered, any system of lawwill be made up of successive strata of rules anddoctrines representing successive and oftenwidely divergent periods of public opinion.[Pound 1906]

Quasi un secolo più tardi, in un saggioapparso nel 2001, James Druckman hamesso in rilievo la dipendenza tra le posi-zioni espresse dall’opinione pubblica ed iframes – non necessariamente a caratteregiuridico, come pensava Pound – che le éli-tes hanno scelto di utilizzare in una situa-zione caratterizzata da scarsità o assenza divincoli, in modo da influenzare o manipo-

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Opinione pubblica e processi regolativi:teorie e interpretazioni costituzionali nellavicenda americana degli «economic rights»

monica raiteri

giornale di storia costituzionale n. 6 / II semestre 2003

lare le opinioni dei cittadini: il “popolo”rappresenta una minaccia per la stabilità eper la centralità del diritto di proprietà nel-l’impianto costituzionale americano ed èquindi necessario controllarne, incanalar-ne e delimitarne la partecipazione al govern-ment (Schwartz 1987; Jacobs 2001, pp. 1361-1374; Nedelsky 1990, p. 6).

La prospettiva di Druckman è partico-larmente interessante in quanto la sociolo-gia e l’analisi politologica non sembranoessersi fino ad ora occupate degli effetti del-l’attività di framing: ossia di un tema cheavrebbe potuto sensibilmente contribuiread una adeguata concettualizzazione dell’o-pinione pubblica (Drukman 2001, pp. 1041-1066). L’attività di framing quindi non è solola parola-chiave che accomuna tesi e pro-spettive analitiche lontane nel tempo, maanche l’azione (in senso sociologico) a cuiho inteso ricondurre l’approccio metodo-logico di questo saggio, dedicato al ruolodell’opinione pubblica nella vicenda costi-tuzional-giudiziaria statunitense degli eco-nomic e dei new rights: un ruolo apparente-mente molto marginale.

Quella degli economic e dei new rightsappare infatti, ad un primo esame, una rego-lazione dall’alto, una assegnazione di dirittii cui contorni si dissolvono in una conces-sione: in altri termini un contesto in cui ilruolo dell’opinione pubblica è tutt’altro checentrale. In realtà ambisco a dimostrare chese sul piano storiografico si tratta effettiva-mente di un problema, non è tale sul pianostorico e sociologico. Tempo fa, elaborandol’ipotesi che il conflitto su interventismo eliberismo avviato dalla Corte Suprema all’e-poca del New Deal fosse ascrivibile ad unproblema di comunicazione politica poirivelatosi trasversale ad esperienze politi-co-costituzionali più recenti, ho avuto modo

di sottolineare che il ruolo dell’opinionepubblica è difficilmente osservabile, e tan-tomeno ricostruibile (come in questo caso)attraverso una analisi documentale1: maquesto non significa che l’opinione pubbli-ca o meglio, come si comprenderà più chia-ramente tra poco, le élites che personificanol’opinione pubblica non abbia assunto unruolo preminente nei processi di elabora-zione delle politiche (Raiteri 1995).

Nelle pagine che seguono, riprendendoquell’ipotesi da una angolazione più detta-gliata, proporrò una ricostruzione prevalen-temente storiografica del modello statuni-tense di organizzazione dei poteri e dello sce-nario in cui si inquadra il dibattito politico ecostituzionale (particolarmente movimenta-to all’inizio degli anni ’90) per illustrare nonsolo l’attività di framing dei Founding Fathersma, soprattutto, i modi in cui i loro obiettivisono stati disattesi o riformulati proprio peraffrancare le élites – rappresentative dell’o-pinione pubblica – dai vincoli imposti dalprogetto costituzionale originario.

In tale contesto il limite metodologicoderivante dall’impraticabilità dell’analisidocumentale risulta secondario, mentrediviene centrale il perdurante nodo delladefinizione del ruolo della Corte Suprema:da un lato considerata portatrice degli inte-ressi delle élites (Matson-Onuf 1990) nellamisura in cui queste ultime si identificanoe si sovrappongono all’opinione pubblica e,secondo alcuni studiosi, che la consideranoun «agente indiretto» del Congresso inca-ricato di salvaguardare gli interessi dellacoalizione interessata al provvedimentolegislativo sottoposto al judicial review, con-tigua alle posizioni espresse dall’elettoratonell’ambito delle assemblee rappresentati-ve (Gely-Spiller 1992); dall’altro, un sog-getto politicamente neutrale.

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La prospettiva qui assunta persegue unobiettivo circoscritto: quello di contribuirea riportare l’attenzione sulla manipolazionedei vincoli che caratterizzavano l’originarioprogetto costituzionale attraverso la politi-ca giudiziaria della Corte, che pertanto siqualifica come un altro importante framerdell’opinione pubblica (McDowell 1982;Caporale-Winter 2002).

2. I diritti economici tra esigenze di costitu-zionalizzazione e mutamento sociale

I caratteri che differenziano il potere giu-diziario nella versione statunitense dellaseparazione dei poteri possono essere cosìschematizzati (Cohler 1998):

– il controllo di costituzionalità delleleggi è affidato al giudiziario: si tratta di uncontrollo che, unitamente al judicial reviewsull’esecutivo, assicura la garanzia dei dirit-ti soggettivi anche in una organizzazionedemocratica senza “corpi intermedi”, comerilevava Tocqueville nella sua analisi delleistituzioni americane;

– la giurisdizione si estende, oltre cheai rapporti tra privati, ai rapporti tra questiultimi e i soggetti pubblici: si tratta di unaestensione che nell’analisi tocquevillianasanciva «le garanzie dell’individuo controlo Stato», ossia garantisce i diritti sogget-tivi anche contro la maggioranza politica;

– i diritti soggettivi elencati nel Bill ofRights non rappresentano semplicementeuna formulazione programmatica ma sonoimmediatamente giustiziabili.

Tali caratteri, su cui nell’organizzazionegiuridica statunitense si fondano le tra-sformazioni degli equilibri fra i potericostituzionali, costituiscono, al contempo,

le tematiche intorno alle quali si è articola-to un dibattito scientifico che offre inte-ressanti, e in alcuni casi condivisibili, chia-vi di lettura.

Sotto il profilo della tutela dei dirittiindividuali e dei rapporti economici il pri-mo importante fattore di mutamento del-l’organizzazione giuridica va ricercato nel-l’evoluzione della giurisprudenza della Cor-te Suprema e nell’“attivismo giudiziale”che, in una alternanza tra autonomia priva-ta e regolazione e tra liberismo e interven-tismo, ha caratterizzato la politica giudizia-ria nell’arco temporale lungo il quale si èsnodato il New Deal rooseveltiano.

Il secondo fattore di mutamento è indi-viduabile nel rapporto tra diritti costituzio-nalmente garantiti e affermazione di “nuo-vi diritti” a cui consegue il superamento delmodello che emerge dalla genesi storica deldocumento costituzionale americano (cheverrà affrontata nei paragrafi successivi).

I termini del dibattito si possono sinte-tizzare nello spostamento del baricentro delsistema costituzionale in direzione dell’e-secutivo (Ackerman 2000; v. anche Camp-bell-Turnbull 2003): uno spostamento cer-tamente testimoniato dalle nuove modalitàdi tutela dei diritti, ma a cui non è estraneala trasformazione della funzione giurisdi-zionale che è progressivamente divenutauna funzione di mediazione e amministra-zione caratterizzata da una sorta di privatiz-zazione delle tecniche di risoluzione delledispute che sembra garantire in modo piùefficace i diritti, siano essi individuali o col-lettivi. Sono state avanzate diverse spiega-zioni di questo processo. La prima vieneindividuata in una “erosione” del carattereindividualistico dei diritti a fronte dell’af-fermazione dei diritti dei gruppi, a cui con-segue una attenuazione del tradizionale rap-

Raiteri

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porto tra “diritto” e “garanzie”. Una secon-da spiegazione, proposta soprattutto dallascienza politica statunitense, viene indivi-duata nel potenziamento da parte delle isti-tuzioni di tecniche di soluzione delle con-troversie alternative o collaterali a quellegiudiziarie che accentuerebbe le forme di“privatizzazione” della tutela dei diritti, lacosiddetta giudiziarizzazione del rule making(Raiteri 2002).

La terza spiegazione va ricercata in unaprofonda trasformazione della concezionestessa dei diritti rispetto alla teoria costitu-zionale originaria, per intenderci quella cheoggi è definita Jurisprudence of OriginalIntent – ed è il punto di forza della corren-te di pensiero nota come New Rights (Bork1986; Jefferson Powell 1985) – il cui prin-cipale contributo viene individuato nellaelaborazione del principio del limitedgovernment su cui la presidenza Marshallinnesterà un meccanismo di legittimazio-ne dell’attivismo giudiziario che tuttaviaporta ad escludere gli obiettivi redistribu-tivi dal progetto dei costituenti (Nagel 1989;Hart 1998).

Gli esponenti della New Rights sosten-gono che la volontà e le intenzioni dei costi-tuenti vincolerebbero l’attività dei giudici eche l’Original Intent costituisce l’unica baselegittima del processo di decision-makingcostituzionale. In questo senso il problemacentrale del diritto costituzionale è la solu-zione del “dilemma madisoniano” checaratterizza l’organizzazione politica statu-nitense: la maggioranza è in grado di domi-nare ampi settori della vita sociale sempli-cemente perché è maggioranza ma, al con-tempo, gli individui sono titolari di alcunelibertà sottratte al suo controllo (con l’in-cognita della “tirannia della minoranza”).La definizione del potere della maggioran-

za e della sfera di libertà della minoranza èattribuita alla Corte Suprema in quanto latutela giurisdizionale dei diritti individua-li non può risolversi in una negazione deldiritto della maggioranza ad esercitare l’a-zione politica.

L’attuale modello americano non ècaratterizzato esclusivamente da elencazio-ni di diritti soggettivi immediatamente giu-stiziabili (tali da ricalcare la struttura delsettecentesco Bill of Rights): accanto ai dirit-ti espressamente previsti e tutelati dallacostituzione si sono progressivamenteaffermati i cosiddetti New Rights. L’assegna-zione di tali diritti deriva dall’attribuzione diuno status particolare a sezioni del corpoelettorale che non trovano adeguata rappre-sentazione nel sistema politico. La conside-razione da parte degli apparati pubblici neiconfronti delle “pretese” in tal modo avan-zate si manifesta attraverso l’elaborazionedella parte propositiva di specifiche politi-che pubbliche in assenza di costi per la col-lettività. Perché i New Rights vengano con-cretamente attuati è però necessario chel’attuazione di tali politiche sia sollecitata dacoloro che ne sono i (potenziali) destinata-ri, ampliando in tal modo gli spazi di inter-vento del giudiziario.

L’elemento centrale delle politiche rela-tive ai New Rights è rintracciabile in unaconstatazione: le aspettative dei cittadininei confronti delle scelte decisionali degliapparati pubblici aumentano più rapida-mente della quantità di risorse disponibiliper la collettività. In questo quadro il giu-diziario opera un bilanciamento fra i duediversi ritmi di crescita riconoscendo leaspettative disattese nei processi di policymaking mediante l’assegnazione di “dirit-ti” o l’attribuzione di risorse. Le vicenderelative al diritto di proprietà sono emble-

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matiche di questo tipo di politica (McDo-well 1988; Carp-Stidham 1990). Il dirittogarantito dalla costituzione non è assoluto:la misura della sua legittimità è variabile,ossia proporzionale ai fini connessi all’uti-lizzazione individuale di tali risorse.

La trasformazione del concetto di pro-prietà, ossia il diritto di controllo, soggettoa limitazioni, esercitato su un bene econo-mico, è ascrivibile alle modalità variabili difruizione (collettiva) dei beni che caratte-rizzano i sistemi di welfare (Kornai 1997)2.Tali modalità implicano due caratteri deldiritto di proprietà: la stabilità, riferita allaprotezione dei diritti già esistenti, e la fles-sibilità, finalizzata all’affermazione di nuo-vi diritti o alla modificazione di quelli giàgarantiti. In altri termini al diritto di pro-prietà è accordata una tutela diversa e ovvia-mente più debole rispetto a quella dei dirit-ti fondamentali: una debolezza che oggidetermina una caduta di attenzione da par-te delle istituzioni nei confronti di tale dirit-to e, più in generale, degli economic rights, ilcui principale strumento di tutela diviene ilricorso al giudiziario.

I politologi statunitensi inquadrano lalegittimazione dell’intervento del giudizia-rio nel processo di elaborazione delle poli-tiche pubbliche nello schema analitico del-la «competenza istituzionale» (Grossman1989): una competenza che non è dettata daregole costituzionali, ma deriva dalla teoriacostituzionale che si fa risalire ai Padri Fon-datori e all’elaborazione del principio dellimited government. Questo impianto teori-co, che determina una “dipendenza” delgiudiziario dalla teoria costituzionale(McDowell 1985), parallelamente assegnaalla cultura giuridica e alla procedural justi-ce, attraverso la procedimentalizzazione del-le strutture decisionali che caratterizzano i

processi allocativi (Aranson 1987)3, il com-pito di selezionare e garantire i “diritti eco-nomici” agendo da filtri per mediare l’ac-cesso alla tutela giurisdizionale degli econo-mic rights.

Il contenuto dei diritti giustiziabili vie-ne in ultima analisi definito in una sedediversa da quella giudiziaria: conseguente-mente, dal punto di vista della separazionedei poteri, viene ulteriormente rimodella-ta quella che è una interferenza fisiologicafra i poteri costituzionali. È quindi conqualche perplessità che il sistema america-no sembra potersi definire, come qualchestudioso ha suggerito, «a regolamentazio-ne giudiziaria permanente».

3. La trama del dibattito teorico

Nella teoria costituzionale americana è dif-ficilmente rintracciabile una trattazionespecificamente dedicata agli economic rights,le cui vicende storico-costituzionali vengo-no spesso assimilate a quelle del diritto diproprietà. Peraltro, gli studiosi non concor-dano neppure sul fatto che questa tradizio-ne di studi ponga il diritto di proprietà alcentro del documento costituzionale (Beard1941; Lurie 1988) e, più in generale, delsistema economico americano, come sem-brerebbero testimoniare alcuni usi lessica-li, per esempio l’utilizzazione indifferen-ziata di espressioni quali economic rights eproperty rights (Macey 1992; FrankelPaul-Miller Jr.-Jeffrey 1992).

Per introdurre la discussione mi limite-rò qui a richiamare tre fra le molte tesi pro-spettate: quella di Frankel Paul, quella diNedelsky e quella di Scheiber. Ellen Fran-kel Paul sostiene che l’idea della «sanctity»

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della proprietà privata e del perfetto isola-mento dalle possibili interferenze dellostato è un «cherished American myth»:

property has never held such an exalted positioneven in this country, for the government hasalways intervened in property relationships. Incolonial times real property was held as a grantfrom the Crown in free and common socage underthe provision that the holder pay his rents, whilein the immediate post-revolutionary period thenew American government engaged in a massiveland grant scheme to enrich its meager treasury.[Franken 1981, p. 309; v. Siegan 2001]

Jennifer Nedelsky sostiene invece che ildiritto di proprietà è al centro del documen-to costituzionale e, benché la costituzioneamericana non ne chiarisca con precisione lanatura, ha notevolmente contribuito a con-figurare la struttura del sistema politico sta-tunitense attraverso una tensione costantetra i valori democratici e lo status privilegia-to dei private rights (Nedelsky 1990; ancheDorn-Manne 1987; Bennett-Bennett 1990).

I pericoli connaturati al processo demo-cratico e in particolare al meccanismo del-la rappresentanza, rilevati da Hamilton e,successivamente, da Tocqueville, fecero sìche alla fine del ’700 l’esigenza preminen-te fosse quella della “protezione” del dirit-to di proprietà da troppo accentuati tenta-tivi di democratizzazione. Da tale esigenza èpoi derivata la rappresentazione dei dirittiindividuali come limiti al potere legittimoespresso dall’organizzazione politica(Urofsky 1989; Carey 1989; Hall 1989). L’e-lemento centrale del costituzionalismoamericano sarebbe, in realtà, la dis-egua-glianza: per i costituenti la protezione del-la proprietà equivale alla protezione di unaproprietà diseguale che, quindi, non deveessere investita dalle trasformazioni demo-cratiche. Poiché nel programma dei costi-

tuenti la facoltà di esercitare il potere poli-tico è fisiologicamente differenziata sullabase della ricchezza, devono essere previstegaranzie per i diritti della persona distinteda quelle introdotte per i diritti di proprie-tà. Viceversa, i diritti politici — ossia i dirit-ti di tutti gli individui ad essere governatisolo mediante leggi nei confronti delle qua-li hanno espresso il loro consenso — sonogarantiti in modo egualitario (Nedelsky1990, pp. 2 e 208-210; Lively 1990).

Per attenuare questa diversificazione siprocede a configurare categorie e gerarchiedi diritti che tengano conto della distinzio-ne tra diritti civili – diritti della persona ediritti di proprietà (Bernstein 1999) – ediritti politici: ma è solo con il judicial review— e quindi, cronologicamente, con la presi-denza Marshall — che tale gerarchia assumeun assetto stabile (Clinton 1989; Nagel 1989;Sosin 1989; Braveman 1989; McCann-Hou-seman 1989; Stimson 1990). Ciò implicauna riformulazione, e al contempo un per-fezionamento, dell’idea di limited govern-ment, fino a questo momento inteso comeun self-limiting government fondato sul con-senso e quindi dotato di una forte connota-zione politica: in questa nuova prospettiva i“confini” del sistema politico vengono sta-biliti dal giudiziario, in una sede per defini-zione esclusa dall’arena politica in quantopermeata dal mito della neutralità del dirit-to (Mc Dowell 1988; Cannon 1985).

Benché la proprietà non sia all’originedel concetto madisoniano di limited govern-ment, ossia dei diritti come limiti all’attivi-tà del government, che è invece riconducibi-le alla libertà di religione (McCoy 1989) o,come è stato detto, alla «predatory propen-sity of the state» (Siegan, Economic), tutta-via ne mette in risalto il significato simbo-lico: una sfera protetta dall’ingerenza dello

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Stato; ma, al contempo, una “costruzione”dello Stato: da cui il paradosso del self-limi-ting government (Nedelsky 1990).

Infine Scheiber è fortemente critico neiconfronti della tesi secondo cui l’espropria-zione della proprietà privata da parte delgovernment non sarebbe una delle policiesche hanno maggiormente influenzato il cor-so dello sviluppo economico nella storiaamericana. Scheiber osserva che questa tesicontrasta con la radicata tendenza a sottoli-neare la stabilità dei property rights nell’or-dinamento giuridico americano(Mason-Garvey 1964, p. 50; Gaus 1992;Macey 1992; Nelson 1995; Levmore 2002);mentre le descrizioni dell’ambiente istitu-zionale che ha costituito lo scenario dellosviluppo economico assegnano un ruolocentrale al sistema giuridico e alla “estremaprotezione” della proprietà, al punto che laconsiderazione da parte della dottrina e deilawmakers per i vested property rights è con-siderata il fondamento del diritto costitu-zionale americano (Philbrick 1938, p. 723;Corwin 1914). Inoltre, Scheiber ritiene chel’espropriazione della proprietà privata siapriva della visibilità di policy issue che sareb-be derivata da un dibattito e da una soluzio-ne elaborata in sede congressuale. La ragio-ne di ciò è che la law of eminent domain è ilprodotto di un policy-making di livello sta-tale, caratterizzato da marcate discrepanzetra uno Stato e l’altro e da soluzioni estre-mamente differenziate proposte dalle Cor-ti statali (Scheiber 1973; Id. 1975).

Il dibattito sulla centralità del diritto diproprietà nell’organizzazione politico-costituzionale americana non può in ognicaso prescindere dalla progressiva, indi-scutibile espansione dei poteri statali, alpunto che il police power si è progressiva-mente sovrapposto alla takings clause san-

cita dal V Emendamento: la costituzionenon è più una barriera che delimita l’azio-ne dei poteri pubblici perché il contenutodella just compensation può essere determi-nato da parte dei giudici con la più ampiadiscrezionalità.

Il principale esito di tale mutamentonell’assetto dei poteri è la profonda inno-vazione del diritto amministrativo4, ascri-vibile, in primo luogo, all’incisiva erosionedei property rights da parte della legislazio-ne urbanistica e ambientale (quest’ultimasoprattutto a livello statale)5. Questa osser-vazione risale al saggio ormai classico diBernard Siegan, Non-zoning in Houston6.L’esperienza di Houston, Texas, l’unica cit-tà degli Stati Uniti all’epoca priva di unaregolazione in materia urbanistica, eviden-ziava che le forze economiche tendono adiversificare gli usi e, in tal modo, a massi-mizzare i profitti: secondo Siegan una cittàpriva di prescrizioni urbanistiche è una«cosmopolitan collection of propertyuses». Solo quando tale differenziazionenon viene garantita i detentori dei propertyrights troveranno un accordo per introdur-re una forma di regolazione: le prescrizio-ni urbanistiche producono infatti una con-trazione dell’offerta di alcuni usi.

Come nota Stephen, occorre determina-re il grado di specificità dei contenuti deidiritti a partire dai loro caratteri essenziali(Stephen 1988): in primo luogo l’universa-lità, per cui le risorse destinate agli individuinon devono necessariamente essere alloca-te secondo il meccanismo tradizionale dellaproprietà privata. Una possibile conseguen-za della non esclusività potrebbe essere unautilizzazione inefficiente delle risorse, anchese la situazione ottimale dell’efficienza nondeve conseguire soltanto e necessariamenteall’assegnazione di private property rights.

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Il secondo carattere essenziale è la tra-sferibilità, condizione necessaria ma nonsufficiente dell’efficienza, che dovrebbegarantire un uso esclusivo e al contempoimpedire che altri traggano benefici dal benesenza sostenerne (almeno) parte dei costi.

L’apparente contraddittorietà tra i duecaratteri si giustifica sulla base di due argo-mentazioni: la pretesa superiorità dei priva-te property rights rispetto ai public propertyrights in termini di efficienza a causa dellamassimizzazione dell’utilità individuale chemotiverebbe l’azione sociale; e, su un pianoanalogo, il riferimento al concetto di “effi-cienza sociale”, per cui la trasferibilità ren-derebbe possibile il passaggio da usi social-mente meno apprezzati ad usi socialmentepiù apprezzabili. La theory of institutionalchange offre uno strumento per ricomporrequesta apparente antinomia: i new propertyrights rappresenterebbero la conseguenzadei mutamenti intervenuti nelle pressionida parte dell’opinione pubblica ma anchedel passaggio da una gestione collettiva del-le risorse ad una gestione privata orientataa criteri di utilizzazione efficiente tale darendere possibile l’affermazione di privateproperty rights (Demsetz 2002).

4. Modelli legislativi e teorie esplicative delmodello costituzionale americano

Le riflessioni della teoria politica e costitu-zionale americana sul tema degli economicrights prendono avvio dalle vicende del judi-cial review della Corte Suprema degli StatiUniti sulla legislazione economica, a parti-re da alcune decisioni paradigmatiche, qua-le, per esempio, Lochner vs. New York (1905),in cui la Corte statuisce l’obbligazione posi-

tiva (Delue 1989) di proteggere l’integritàdella libertà economica dalla interferenzadel legislatore. Una interferenza che essen-do espressione di particolari gruppi di inte-resse non richiede di distinguere tra fede-ral interferences e state interferences median-te tecniche decisionali ed argomentativericonducibili al substantive due process e sta-bilite dalla commerce clause, dalla contractclause e dalla equal protection clause (Kens1990). Una delle descrizioni più lucide del-l’uso del concetto di giustizia da parte deiFramers è probabilmente quella di Dorn:

For the classical liberal, justice was a negativeconcept — the absence of injustice — and injusticereferred to the illegitimate use of force; namely,the use of force to take what belongs to another.The Framers used this negative concept of justiceto limit the role of government and the judiciaryto the protection of property rights, broadly con-ceived (in the Lockean tradition) as life, liberty,and property. The object of the law was not to givean exhaustive listing of what government coulddo, but to delimit the activities of government sothat individual freedom could be maximized.[Dorn 1987, p. 2]

Il rapporto tra diritti economici e con-trollo giurisdizionale può essere schematiz-zato a partire dall’esigenza di costituziona-lizzazione dei diritti economici, passandoattraverso le modalità dell’intervento stata-le nell’economia e, infine, analizzando lalettura del funzionamento dei meccanismidi mercato che emerge dalle decisioni del-la Corte Suprema. In tal modo può esserestabilita una periodizzazione della publicpolicy della Corte: al primo periodo, chegiunge fino alla metà degli anni ’30 ed ècaratterizzato da una politica fortementeliberista, segue un mutamento di indirizzo(a partire dal 1936) per cui il diniego della“libertà economica” a soggetti individuali o

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a corporations non viene necessariamenteritenuto incostituzionale7.

Questo orientamento ha esercitato unimpatto significativo sul sistema economi-co e politico statunitense accrescendo ilpotere delle istituzioni governative e delleagencies nei confronti dei soggetti (indivi-dui e corporations) che avevano fino a quelmomento svolto una attività economica dinatura privata. Da un lato, questa politica èstata definita «wisely neutral»; dall’altroessa negherebbe di fatto la libertà fonda-mentale di intraprendere una attività eco-nomica al punto da indurre uno dei più auto-revoli studiosi americani contemporanei deirapporti tra costituzione e libertà economi-che, Bernard Siegan, ad affermare che

For those denied the judicial forum for redres-sing grievances, the American government the-reafter consisted of only two branches, not three.[Siegan 1989, p. 3]

In realtà la tesi di Siegan, ripresa anchenei suoi lavori più recenti, è molto menoradicale, perché occorre tenere in conto cheil judicial review dell’azione legislativa rap-presenta il contributo offerto dall’Americaalla “scienza di governo”: egli propone dianalizzare la «constitutional mission of thejudiciary» (ibidem, p. 10) attraverso la sto-ria, il background e gli obiettivi del judicialreview per comprenderne il significato e lepotenzialità in rapporto alla configurazio-ne dei poteri costituzionali. Il judicial reviewè stato concepito come elemento essenzia-le della struttura di government, e fin dallesue origini è stato utilizzato a salvaguardiadel diritto di proprietà e dei relativi inte-ressi. All’obiezione secondo cui la societàcontemporanea non sembrerebbe dedica-re al diritto di proprietà la stessa attenzio-ne «that prior generations did» (ibidem, p.

83), Siegan replica che la base di fondo cheassicura gli interessi proprietari non èmutata: «A free society cannot exist unlessgovernment is prohibited from confisca-ting private property» (ibidem).

Il judicial review prospetta una soluzio-ne per i problemi che la costituzione del1787 aveva lasciato irrisolti, in particolare ladefinizione dei contenuti di diritti che, nel-la concezione dei Padri Fondatori, appari-vano autoevidenti, istituzionalizzando in talmodo la supremazia dei diritti individuali.Con il New Deal ha inizio un complessocambiamento nel modo di concepire ildiritto di proprietà sotto il profilo del lin-guaggio costituzionale, dell’attuazione daparte delle istituzioni e dell’elaborazionedelle politiche pubbliche.

L’idea della “distribuzione” si sovrappo-ne a quella dei “confini”: al di là degli aspet-ti lessicali, viene superata la tradizionale con-cezione di limited government. A partire dal1937, anno in cui la decisione West Coast HotelCo. v. Parrish inizia a smantellare la strutturaideologica del costituzionalismo laissez-fairee i principî del substantive due process e dellalibertà contrattuale, la Corte Suprema nonaccorda più agli economic rights le stessegaranzie previste in tema di diritti fonda-mentali e di libertà civili (Dubowsky-Bur-wood 1990; Barry 1998, pp. 72-82). A ciò faseguito un ridimensionamento dell’interes-se nei confronti dei property rights, la cui tute-la, assicurata soltanto dall’intervento del giu-dice sulla base di una competenza che si farisalire alla teoria costituzionale dei FoundingFathers, è divenuta “residuale”.

La decisione West Coast, incentrata sul-l’estensione del potere legislativo statale, adifferenza delle decisioni successive hainciso in modo inconsistente sulle posizio-ni dell’opinione pubblica perché ha con-

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sentito di valutare solo indirettamente lapolitica economica del New Deal. A confer-ma di ciò Caldeira rileva che l’opinionepubblica è scarsamente reattiva nei con-fronti di “impercettibili” cambiamenti del-le politiche pubbliche in quanto percepi-sce con difficoltà mutamenti che non sonofortemente visibili.

Come è stato osservato, le dinamichecostituzionali hanno operato in modo esat-tamente antitetico: il limited governmentnon legittima, almeno in modo esplicito,l’intervento giudiziario, ma il judicial reviewconsente di risolvere il problema posto alcentro della teoria costituzionale: la possi-bile “tirannia della maggioranza” (v. Ste-phens-Rathjen 1980).

L’attivismo giudiziario è il criterio allaluce del quale si è tentato di ricostruire aposteriori l’obiettivo dei Framers rispettoall’alternativa tra limited government e Sta-to redistributivo: un’ipotesi, quest’ultima,che sembra da respingere in quanto lastruttura, il lessico e il background dellacostituzione testimoniano la necessità di unpotere giudiziario attivo sul fronte dellaprotezione dei diritti.

Il tema della legittimazione del giudi-ziario a tutelare le “libertà economiche” nelquadro della dicotomia tra property rights ehuman rights è al centro di tre orientamen-ti giurisprudenziali che propongono solu-zioni diverse (v. Richards-Kritzer 2002):

– il judicial restraint, definito anche Ori-ginal Intent, è il movimento di pensiero del-la New Rights e individua i titolari delle deci-sioni sui property rights nei soggetti politici;

– la negative jurisprudence individua l’i-stituzione preposta a garantire i propertyrights nel giudiziario;

– l’affirmative jurisprudence per cui lafunzione del giudiziario è quella di affer-

mare nuovi diritti: per esempio i welfarerights, nonostante risultino del tuttoincompatibili con i diritti alla proprietà ealla libertà contrattuale, al punto da indur-re Dorn ad affermare, con un gioco di paro-le, che si tratterebbe di un «poco giudizio-so attivismo giudiziario» (Dorn-Manne1987; Smith 1988).

Il quadro fin qui delineato appare oggiradicalmente mutato: le dicotomie e ledistinzioni — le gerarchie dei diritti — costi-tuiscono uno strumento ormai superato. Lelibertà economiche sono ritenute una com-ponente essenziale delle civil liberties, percui le garanzie costituzionali sono indiffe-renziate e i modi in cui vengono tutelati iproperty rights rappresentano un criteriogenerale di valutazione della legittimità del-l’azione istituzionale (Callies 2000). Peresempio, la tesi di Shapiro cerca di supera-re la contrapposizione tra welfare e propertyrights individuata da Dorn sostenendo chela Corte non avrebbe abbandonato la lineapolitica del substantive economic due process,ma avrebbe soltanto spostato l’attenzionedai tradizionali interessi proprietari a quel-la che Reich nel 1964 ha definito «new pro-perty», ossia l’enactment di diritti a frontedi richieste di utilizzazione di risorse pub-bliche avanzate nei confronti del govern-ment. Si tratta di diritti dal contenuto fon-damentalmente procedurale che rappre-sentano una delle principali conseguenzedell’espansione del welfare state e che impli-cano una trasformazione delle tecnicheargomentative volte all’inclusione e all’e-sclusione rispetto ad uno scenario in cui lalibertà della proprietà privata era la regola ela regulation l’eccezione (Shapiro 1986).

Gli elementi indicativi della crisi dellafunzione giudiziaria concepita come tecni-ca redistributiva sono apparsi più netti

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quando sono stati avviati due processidistinti: la sopravvenienza di nuove formedi risoluzione delle controversie che hacomportato la sostituzione del modello del-la mediation a quello della adjudication; el’affermazione di una competitività politi-ca degli Stati (i cui indicatori sono, tra glialtri, la “durata” della costituzione statale eil numero degli emendamenti introdotti dagruppi di interesse orientati al constitution-building) che ha incentrato l’attenzione sul-le politiche penali (la cosiddetta new peno-logy), sugli economic regulation cases e, comesi è prima osservato, sulle libertà civili, acui si sono sommate le difficoltà derivantidalla sopravvivenza delle teorie efficienti-stiche della giustizia.

Il concetto di “competitività politica sta-tale” non solo aiuta a comprendere la diffu-sa interpretazione della ripartizione di com-petenze fra i poteri rispetto alla titolarità delprocesso decisionale da parte della culturagiuridica statunitense ma, rielaborando ladistinzione tra politically undifferentiated sta-tes e politically competitive states proposta daAtkins e Glick, spiega le rilevanti differenzeche caratterizzano le decisioni delle Corti sta-tali (Atkins-Glick 1976). Infatti la competi-tività politica dello Stato risulta positiva-mente correlata a fattori quali la ricchezza,l’industrializzazione, gli investimenti per lacostruzione di arterie di grande comunica-zione e per l’utilizzazione di risorse naturalie correlata negativamente a fattori quali glielevati investimenti nel settore delle welfarepolicies (v. Wallace 1936; Rabkin 1989; Bald-win 1990; Karger-Stoese 1990; Lens 2001).Ad un basso livello di differenziazione poli-tica corrisponde una giurisprudenza delleCorti statali fondamentalmente estranea alletematiche delle civil liberties e della govern-ment economic regulation. Tema del quale si

occupa invece la giurisprudenza delle Cortidegli Stati caratterizzati da un grado elevatodi ricchezza, di sviluppo economico e di pro-fessionalità politica. Se il conflitto dipendeda variabili ambientali, che a loro volta deli-neano il contesto di una decisione che è a tut-ti gli effetti di policy (Feiock 1986), i giudiciaffronteranno i temi dei civil rights e della eco-nomic regulation solo quando il livello di com-petitività politica sarà così elevato da “pro-durre” contenzioso.

Il mutamento dei modelli e dei conte-nuti del contenzioso, in particolare sotto ilprofilo degli economic regulation cases, ben-ché contrassegnati da una pluralità di stra-tegie di policy economica, rappresenta unindicatore della legittimazione politica disistemi giudiziari originariamente diversiche, armonizzati dai mutamenti qualitatividella domanda di giustizia, sono entrati afar parte a pieno titolo del sistema politico.

Rispetto alle tecniche di valutazionedell’impatto delle decisioni giudiziarie sul-l’economic policy making che caratterizzanole nostre pratiche l’accentuazione dellafunzione delle variabili strutturali eambientali induce a privilegiare la pro-spettiva efficientistica nell’analisi dellepolitiche alternative al giudiziario.

La stigmatizzazione dell’interferenza del-le corti in tema di diritti e di libertà econo-miche ridimensiona notevolmente la possi-bilità di interventi che esulano da previsio-ni costituzionali in senso lato, ossia intesecome una «strong textual authority andcostitutional theory» (Epstein 1985; v. ancheBork 1986). Tale ridimensionamento, da unlato, determina una “doppia protezione” dialcuni diritti economici (sia da parte dellacostituzione che del giudiziario) e priva inve-ce di garanzie i diritti economici non ricom-presi in alcuna previsione costituzionale.

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Dall’altro, l’esito di tale ridimensionamen-to è l’instaurazione di una forma di subordi-nazione del giudiziario alla teoria costituzio-nale, anziché alla costituzione (come è statopiù volte rimarcato), il che finisce per attri-buire il compito di selezionare, oltrechègarantire (anche se in via mediata), i dirittieconomici alla cultura giuridica.

Negli anni 1934-36 la politica giudizia-ria della Corte Suprema vanifica di fatto lemisure redistributive introdotte dal presi-dente Roosevelt nel corso del suo primomandato. Il Court-packing plan, il noto pro-getto di riforma dell’ordinamento giudizia-rio che introduce un limite di età per l’eser-cizio della funzione di giudice della Corte neltentativo di manipolarne gli orientamentiattraverso la formazione di una maggioran-za filopresidenziale e filocongressuale, nondiventerà mai legge ma produrrà ugualmen-te un importante effetto: la Corte, il cui indi-rizzo segna una netta inversione di tenden-za con la decisione West Coast Hotel vs. Parrish(1937)8, da questo momento, non potrà piùessere percepita come un soggetto apoliticoed un arbitro neutrale rispetto a temi dirilievo costituzionale, nonostante sia possi-bile dimostrare l’influenza che l’intensitàdella “copertura” informativa del conflittotra Roosevelt e la Corte Suprema da parte deimedia ha esercitato sulla radicalizzazionedelle posizioni dell’opinione pubblica (o,meglio, delle élites politiche che si identifi-cano con essa) e sui punti di svolta nell’an-damento del sostegno al progetto presiden-ziale. Infatti, all’aumento del numero di arti-coli pubblicati dal «New York Times» cor-risponde una diminuzione del numero degli“indecisi” nelle rilevazioni dei sondaggiGallup (Gely-Spiller 1992).

Il ruolo di framer dell’opinione pubblicadella Corte è però riferito soprattutto alla col-

locazione nell’impianto costituzionale deglieconomic rights, che a partire dalla decisioneWest Coast verranno quasi esclusivamentetematizzati nei termini di una differenzia-zione di garanzie rispetto alle altre tipologiedi diritti: civil, human o semplicemente other(Macey 1992; Narveson 1989; Gorga 1999;Barzel 2002).

Una differenziazione di garanzie deidiritti così concepita richiede che i mecca-nismi di scambio e di allocazione di risor-se si fondino sull’organizzazione di coali-zioni politiche che non solo consentano lapartecipazione al processo politico mafavoriscano ed implementino il wealthtransfer (Schroeder 1999; Mercuro-Ryan1984; Anderson-Shughart II-Tollison 1989).I soggetti politici fungono da intermediarifra i gruppi di pressione che richiedono itrasferimenti di risorse ed i cittadini, dis-ponibili ad “offrirli” solo perché i costi dasostenere per ostacolarne il trasferimentosarebbero più elevati (essenzialmente acausa della loro relativa disorganizzazione).

I meccanismi dello scambio sono pre-valentemente due: il mercato e l’arena poli-tica. I soggetti coinvolti decidono, di voltain volta e sulla base dei costi, l’utilizzo del-lo strumento, gli investimenti più proficuie i conseguenti trasferimenti di risorse. Lepreferenze e le scelte operate dai cittadinisono determinanti sia per i regolatori siaper i politici: se i cittadini avanzano prete-se nei confronti delle risorse che si quali-ficano come beni pubblici si determinainfatti un incremento della domanda deiservizi prestati da questi ultimi.

Queste considerazioni evidenziano cheil modello attuale, caratterizzato da econo-mic liberties prive di tutela sul piano costi-tuzionale a cui si accompagna un fortesostegno ai noneconomic rights, risponde

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alla necessità di incanalare le preferenzedei cittadini per incrementare la domandadi risorse da trasferire dal settore privatoal settore pubblico, favorendo in tal modola messa a punto di politiche che massi-mizzano il supporto dei gruppi di pressio-ne e delle coalizioni di interessi.

Una delle conseguenze della consapevo-lezza del problema dei gruppi di pressioneda parte dei Founding Fathers è stata l’asse-gnazione al sistema di checks and balances(tra le altre) della funzione di incrementa-re non solo i costi di negoziazione di questigruppi, ma, più in generale, i costi decisio-nali del government, sottraendo in tal modol’attività economica alla sfera pubblica.

Questo impianto costituzionale è statodi fatto vanificato impedendo al giudizia-rio di esercitare una funzione di controllonei confronti del Congresso, attraverso lasalvaguardia delle libertà economiche: inaltri termini, il giudiziario non ha potutoostacolare i trasferimenti di ricchezze daassociazioni politicamente disorganizzate acoalizioni politicamente potenti operati dalCongresso.

Il fatto che estesi settori di attività eco-nomica siano stati riservati al settore pub-blico ha comportato, secondo alcuni stu-diosi, una sottomissione dei diritti di “mol-ti” ai diritti di “pochi”. Secondo altri, inve-ce – in particolare coloro che si identifica-no nella economic theory of regulation, o theoryof public choice – questa mancata separazio-ne si giustifica in quanto nella sfera pubbli-ca e in quella privata gli individui sonomotivati dagli stessi interessi “private”.

Nonostante le possibili inadeguatezze chehanno caratterizzato la politica giuris-prudenziale a partire dall’era Lochner, la pro-tezione costituzionale degli economic rightsaveva in effetti consentito di esercitare un

controllo sull’operato del Congresso. Il suc-cessivo mutamento di indirizzo della Corte,infatti, ha notevolmente favorito la capacitàdei gruppi di interesse di ottenere trasferi-menti di ricchezze e, al contempo, ha resopiù difficile per i cittadini bloccare questitrasferimenti, diminuendone i costi attesiper esercitare le pressioni dirette ad ottene-re un determinato provvedimento legislati-vo e, parallelamente, aumentando i costi chei cittadini devono sostenere per individuarel’effettiva natura della contrattazione con-dotta dai gruppi di interesse.

Questo meccanismo favorisce il Con-gresso, riducendo al contempo il rischio diperdere il sostegno dell’opinione pubblica,nel momento in cui verrà rivelato che i tra-sferimenti di ricchezza a favore dei gruppi diinteresse verranno finanziati mediante ilprelievo fiscale (Hartley-Russett 1992; Wal-stad 1997; Beedle-Taylor Gooby 1998; Citrin1998; Knopf 1998). In alcuni casi il Con-gresso adotta la strategia di prospettare unalegislazione di special interest, dalla cui“tirannia” il giudiziario avrebbe dovuto pro-teggere i diritti della maggioranza, come sefosse di public interest. In tal modo il man-cato intervento del giudiziario consente alCongresso di massimizzare la domanda deisuoi servizi di fornitore di trasferimenti diricchezza ai gruppi di interesse.

Da questo punto di vista Campos osservache l’assemblea legislativa svolge un ruoloattivo nel processo di selezione degli inte-ressi e non si limita, come comunemente sisostiene, ad accettare lobbying inputs produ-cendo in modo sistematico regulatory benefitsa favore di gruppi di interesse. Una primaragione a sostegno di questa tesi risiede nel-l’impossibilità di separare la decisione di“regolare” dalla scelta della forma di regola-zione. Una seconda ragione è riconducibile

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alla posizione secondo cui il sistema di mer-cato è soltanto uno dei possibili meccanismiregolativi all’interno di un ventaglio di alter-native possibili che corrisponde ad un con-testo politico peculiare in cui la scelta dellegislatore è quella di non regolare. Infine, leagencies a cui è demandata l’applicazionedella regolazione non esercitano alcunainfluenza sui caratteri della regolazione.

Ciò nonostante il decision-making legis-lativo riceve un notevole impulso dalla pre-senza delle lobbies: gli inputs provenienti daigruppi di interesse vengono elaborati e tra-sformati in altrettanti, specifici outputs. Inmolti casi il numero dei potenziali benefi-ciari della regolazione è minore dei soggettisvantaggiati; tuttavia il legislatore compen-sa la potenziale perdita di voti derivante dalprovvedimento che danneggia alcune cate-gorie con il sostegno della lobby favorita dal-lo stesso provvedimento, in grado di forni-re informazioni e di “acquistare” voti neces-sari per massimizzare la probabilità dellarielezione dei rappresentanti politici (Cam-pos 1989).

5. The cynical view. La Costituzione come con-trattazione dei gruppi di interesse

In questa prospettiva, il presupposto del-l’indipendenza del giudiziario esprime insenso esattamente antitetico rispetto al pro-getto dei Framers l’egemonia dei gruppi diinteresse nel disegno costituzionale, perchéconsente trasferimenti di ricchezza a favoredi questi ultimi e fornisce loro la stabilità ela continuità necessarie per operare nell’a-rena legislativa. Benché al giudiziario vada,almeno in parte, attribuito il fallimento del-la politica antitrust nella promozione del-

l’efficienza economica (Landes-Posner1975; Hurst 1982; Currie1986).

Questo tema ha sollecitato diverse chia-vi di lettura, tra cui assume un particolarerilievo il dibattito tra Siegan e Posner sultema del laissez faire e sull’opportunità del-la sua costituzionalizzazione. Nel suo primoimportante lavoro, Economic Liberties and theConstitution, Siegan afferma che il ritorno aljudicial review in materia economica noncomporterebbe un ritorno all’economia dilaissez-faire, ma semplicemente, una ridu-zione degli eccessi legislativi ed ammini-strativi. Per avviare questo processo di“restaurazione” del due process in materiaeconomica non occorre soltanto l’acquisi-zione di una rinnovata consapevolezza dellaresponsabilità affidata al giudiziario, (ossiala protezione del diritto di proprietà cheinclude anche la libertà contrattuale), ma unpiù accentuato attivismo, caratterizzato dauna assunzione diretta di responsabilità daparte delle Corti in ordine alla protezione ditale diritto. O in alternativa, dal conferi-mento di tale funzione al Congresso e alleregulatory agencies; con la conseguenza che laproprietà verrebbe ridistribuita da questiultimi soggetti secondo criteri loro propri.

Posner (1987)replica a Siegan propo-nendo una interpretazione della costituzio-ne come garanzia generale dei liberi mer-cati e, in ultima analisi, una costituziona-lizzazione del laissez-faire9.

Alla luce di queste considerazioni appa-re di scarso rilievo chiarire se l’inversione ditendenza nell’orientamento relativo alla sal-vaguardia delle libertà economiche sia daattribuire ad un progressivo autoconvinci-mento della validità degli economic rights daparte della Corte, come sostiene Tribe(1998), o le ragioni per cui in altri ambiti laCorte ha continuato ad escludere l’interfe-

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renza del legislatore, nonostante fossecoerente con l’ideologia del New Deal, comesostiene Macey (1987 e 1992).

La spiegazione probabilmente più diffu-sa e condivisa, nota come self-preservationhypothesis, è che il Court-packing plan di Roo-sevelt avrebbe indotto la Corte a mutare ilsuo orientamento per preservare la posizio-ne di istituzione indipendente. Una spiega-zione antitetica, nota come nonindependen-ce hypothesis, argomenta invece il mutamen-to di indirizzo con il controllo esercitato dalCongresso sul budget del sistema giudiziario,che di fatto è un’agenzia fortemente buro-cratizzata. Macey ritiene che la dicotomia traeconomic e other rights rifletta le variegateposizioni della cultura giuridica che i giudi-ci della Corte Suprema esprimono e che, daun lato, risultano adeguate al mutamentoindotto dal New Deal ma che, dall’altro, devo-no poter riflettere le posizioni della comu-nità (espressione sociologicamente preferi-bile a opinione pubblica) a cui i giudici stes-si appartengono (Easterbrook 1988).

Il nesso tra le posizioni espresse dallacultura giuridica in tema di libertà econo-miche e la variabilità delle forme e delle tec-niche di tutela di tali libertà da parte dellaCorte si pone quindi come una esigenza dicarattere culturale molto più che di politicacostituzionale che trova una adeguata rispo-sta nella sottrazione della tutela costituzio-nale (Galie 1988). A partire dalla metà deglianni ’80 è stata avanzata una nuova inter-pretazione, nota come new judicial federa-lism, che scinde il tema degli economic rightsdalle vicende del judicial review della CorteSuprema federale sulla legislazione econo-mica. Se per quanto riguarda gli individualrights le politiche della Corte Suprema fede-rale e delle Corti statali mostrano un indub-bio parallelismo, sul tema degli economic

rights tali politiche evidenziano sensibilidivergenze. Per vanificare i provvedimentiregolativi di natura economica che interfe-riscono con gli interessi proprietari le Cor-ti statali fanno uso dei “vecchi” principî,quali lo state due process (antesignano del-l’economic substantive due process), la equalprotection clause e il right-to-remedy (Breton1978; Siegan, Economic liberties, 1985; Son-ger 1987; Fino 1987; Guenther 1988; Elazar1989; Braveman 1989; Brace-Hall 1990;Heydebrand-Seron 1990).

Il quadro in cui si inserisce il new judi-cial federalism è molto sfaccettato: ne trat-terò qui soltanto alcuni elementi. Le Cortistatali, che applicavano principi enunciatinelle costituzioni statali a salvaguardia deglieconomic rights ancor prima che la CorteSuprema federale “scoprisse” il substantivedue process, hanno continuato ad utilizzaretale metodo anche dopo il mutamento diindirizzo della Corte Suprema, ossia dopoWest Coast.

La netta divergenza tra le politiche del-le Corti a livello statale e federale viene giu-stificata in base a due argomentazioni: ledifformi previsioni costituzionali degli Sta-ti e della Federazione; e la caratterizzazio-ne del ruolo delle Corti supreme statali nelquadro degli state governments.

Il primo studioso ad evidenziare come ilsubstantive due process derivi dall’applicazio-ne dei principî enunciati nelle costituzionistatali più che dall’elaborazione dei giudicifederali è stato Edward Corwin: l’adozionedel XIV Emendamento (1868) non ha datoimmediato impulso all’elaborazione dell’e-conomic due process da parte della CorteSuprema, mentre il principio in essa conte-nuto è stato immediatamente assunto a tec-nica decisionale delle Corti statali (Corwin1914; Mason-Garvey 1964, p. 50). Acco-

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gliendo questa impostazione Siegan osservache la decisione Allegeyer v. Louisiana dellaCorte Suprema federale, che ha costituzio-nalizzato la libertà di contratto affermando ilprincipio del substantive due process, nongiunse inaspettata proprio poiché si allinea-va alla giurisprudenza di diverse Corti stata-li (Siegan 1980, pp. 58-59).

Galie ha rilevato che il principio del sub-stantive due process è stato applicato, in media,nel 70% delle decisioni elaborate dalle Cortistatali nell’arco temporale che va dal 1897 al1987, caratterizzato da un picco dell’81% nelperiodo 1938-1968 e da una notevole contra-zione (23%) nel periodo 1969-1987, a cuicorrisponde un incremento nell’applicazionedel principio della equal protection. L’autoreprecisa che i dati utilizzati probabilmenterisentono di una sottorappresentazione del-l’attività delle Corti nel periodo 1910-1937,così come l’aumento delle decisioni dopo il1937 può essere considerato un indicatoredella reazione delle Corti statali all’incre-mento dell’attività legislativa degli Stati e almutamento di indirizzo della Corte Supremafederale successivo a tale data. Inoltre, que-sti dati si spiegano solo parzialmente con unincremento della produzione normativa sta-tale di carattere regolativo, e ancor meno conuna variabilità dell’atteggiamento ideologicoalla base delle politiche giudiziarie. Galieosserva infatti che nell’intero arco tempora-le considerato la “filosofia” dell’attivismo giu-diziale risulta costante (Friedman 1965;Urofsky 1985): circa il 57% dei casi riguardala tutela della concorrenza ed esprime posi-zioni antimonopolistiche, benché a partiredagli anni ’80 la politica giudiziaria delle Cor-ti statali in tema di economic rights risulti fon-data su una crescente utilizzazione delle right-to-remedy clauses, spesso utilizzate conte-stualmente alla equal protection clause.

Per argomentare sia la perdurantedivergenza tra le politiche giudiziarie dellaCorte Suprema federale e delle Corti stata-li sia l’abbandono del principio del sub-stantive due process a livello federale sonostate enunciate diverse tesi.

La prima tesi configura il due processcome una “invenzione” del giudiziario asostegno di una posizione ideologica diret-ta a tutelare gli interessi proprietari, inquanto i nemici storici del due process sonoil monopolio della economic enterprise e l’e-spropriazione della proprietà. Non è casua-le che, accanto alla due process clause, lamaggior parte delle costituzioni statali pre-veda espressamente la protezionedell’«inalienable right of acquiring, pos-sessing and protecting property»10 e alcu-ni Stati abbiano introdotto il judicial reviewnei casi di espropriazione per pubblica uti-lità (taking for public purposes)11.

La due process clause e, conseguentemen-te, la libertà contrattuale sarebbero in que-sto senso incompatibili con il significato sto-rico del principio che, secondo alcuni stu-diosi, risalirebbe alla Magna Carta (Siegan2001; Anderson 2003, pp. 612-613).

La seconda tesi, nota anche come argo-mento della conservazione delle risorse giu-diziarie, sostiene che la politica della CorteSuprema federale, interamente rivolta allaprotezione delle libertà politiche e civili,opererebbe una sorta di self-restraint (pie-namente giustificabile) in tema di politicheregolative. Come osservano i giudici dellaCorte Suprema della Pennsylvania nel casoPennsylvania State Bd. of Pharmacy v. Pastor(1971), le Corti statali sarebbero meglioattrezzate sia dal punto di vista giuridico chedella conoscenza dello scenario economico,sociale e culturale che fa da sfondo a speci-fici provvedimenti e politiche regolative:

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This difference [between federal and state con-stitutional law] represents a sound development,one which takes into account the fact that statecourts may be in a better position to review localeconomic legislation than the Supreme Court,since their precedents are not of national author-ity, may better adapt their decisions to local eco-nomic conditions and needs...And where anindustry is of basic importance to the economy ofthe state or territory, extraordinary regulationsmay be necessary and proper.[Galie 1988, p.84]

Un ulteriore elemento a sostegno delfederalismo giudiziario in tema di regolazio-ne economica, particolarmente distintivo delruolo dell’opinione pubblica nella vicendapolitico-costituzionale descritta in questosaggio, riguarda l’immagine e la percezionedella legislazione statale. La rappresentazio-ne della contrapposizione tra la legislazionestatale, intesa come risultato del funziona-mento di una istituzione democratica, e ladecisione della Corte suprema statale, sog-getta al potere degli interessi dei gruppi dipressione e alla scarsità delle risorse checaratterizza i processi allocativi e, come tale,emblematica di un modello di istituzioneantidemocratica, è ormai desueta (Lens2001). Oggi il deficit di rappresentativitàinveste più facilmente gli organi legislativistatali: parallelamente al decision-makingdelle Corti statali si è invece aggiunto un ele-mento di democrazia (Reid 1989).

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Raiteri

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1 Nel caso del conflitto tra il presi-dente Roosevelt e la Corte Supre-ma degli Stati Uniti di cui si trat-terà in questo saggio, per esempio,Gregory Caldeira sottolinea che lesole fonti documentali disponibi-li sono i fascicoli del «New YorkTimes», i cui lettori costituivano,e rappresentano ancor oggi, unasezione élitaria, higly educated,della società americana.

2 Nedelski 1990, p. 3 osserva che«The modern welfare state doesnot fit easily within the Federa-lists’ conceptual framework».

3 Per quanto riguarda l’Italia siveda l’impianto teorico dellaricerca condotta da Pennisi-Ago-di-Consoli-Scuderi 2001.

4 Oltre ai noti lavori di Susan RoseAckerman e Roberta Romano sivedano i fondamentali saggi diStewart 1981 e Croley 1998. Sivedano inoltre: Wheeler 1988;

Detmold 1989; Edley 1990.5 Nel senso indicato da Niskanen

(1988), pp. XI-XIII, secondo ilquale le sezioni della Costituzio-ne Americana dedicate agli econo-mic powers del sistema politico eagli economic rights individualisarebbero state erose senza alcunemendamento formale al docu-mento costituzionale.

6 «Journal of Law and Econo-mics», 1970, vol. 13, pp. 71-147;Coon 1974; Fischel 1997; Pom-pe-Lipford 2002. Si veda anche ilrecente numero monograficodella rivista Gibb e Hoesli«Urban Studies». Per quantoriguarda l’ambiente si veda ilvolume curato da Kaplowitz 2000.

7 A proposito della periodizzazionedella public policy della CorteSuprema statunitense si vedano:Siegan 1989, pp. 23-28; Kent 1987,pp. 12-18; Franken-Dickman 1989.

8 Sulle ragioni che hanno ispiratoquesta inversione di tendenzadella Corte sono state avanzatediverse tesi, tra cui quella diLeuchtenburg 1976, che ho ana-lizzato in Raiteri 1995, cap. 2.

9 Sulle posizioni di Posner si veda-no, tra gli altri: Wilson, Justice Dif-fused, 1986; Id., Constraints ofPower, 1986;

10 Colorado, Alabama, Alaska,Arkansas, Idaho, Illinois, Iowa,Louisiana, Massachussetts, Mis-souri, Montana, Nebraska, Neva-da, North Dakota, New Hampshi-re, New Jersey, New Mexico,North Carolina, Ohio, Oklahoma,Pennsylvania, South Dakota,Utah, Vermont, Virginia, WestVirginia, California.

11 Arizona, Michigan, Nebraska,Hawaii, Missouri, Texas, Virginia,Idaho.

Ricerche

1. Il paradosso francese

Culla della centralizzazione amministrati-va e del culto di uno Stato “forte” in gradodi permeare persino la complessa ereditàpost-rivoluzionaria, la Francia è stata, altempo stesso, terreno d’elezione del piùvasto dibattito sul riassetto dei poteri pub-blici che la Storia ricordi.

Tale dibattito – che è stato anche parte diun fecondo “gioco di sponda” con l’elabo-razione giuspubblicistica della nascenteAmerica costituzionale – ha utilizzato cate-gorie fondanti il moderno diritto pubblico,mettendo a disposizione di politici, giuristie scienziati della politica un vocabolario euna grammatica istituzionale che li avreb-bero accompagnati nei secoli a venire. Lanatura della legittimazione dei poteri pub-blici, spazio e ruolo dei loro titolari, il rap-porto centro-periferia, il peso della massadei consociati nella gestione dello Statoquando i sudditi stavano diventando citta-dini, la necessità della periodica verifica delgradimento dei governanti tramite elezioni

a data fissa: sono questi i temi su cui si inter-roga la scienza del governo nella secondametà del XVIII secolo, in particolare, tra glianni Settanta e la metà degli anni Novanta.

Ma la riflessione non è stata autorefe-renziale; anzi, ha coinvolto un numerosempre più ampio di interlocutori, fino adevocare un protagonista collettivo, con ilquale negli ultimi due secoli abbiamo tuttiimparato a fare i conti nel mondo occiden-tale: l’opinione pubblica.

Tuttavia, nel momento stesso in cui evo-co la comparsa di quell’imperioso protago-nista collettivo, sono anche obbligato adalcuni chiarimenti preliminari. Collocandoquesta mia riflessione nella seconda metàdel Settecento, tendo forse a suggerire cheprima non ci sia stato nulla di riconducibilea quella che noi, oggi, chiamiamo opinionepubblica? Vale la pena di soffermarsi sullaquestione per chiarirne gli elementi più sfo-cati, a cominciare dal peso che sulla forma-zione di un’opinione può esercitare l’usodella carta stampata, quando i protagoni-sti/antagonisti di una qualunque vicenda dai

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Opinion frondeuse, opinion éclairée, opinionpublique nella Francia di Antico regime

roberto martucci

giornale di storia costituzionale n. 6 / II semestre 2003

profili politico-istituzionali decidono dimettere per iscritto le loro ragioni, renden-dole pubbliche e permettendo che attornoad esse si aggreghino espliciti consensi.

Emerge da questa premessa che la ricer-ca di un consenso motivato e attivo possaessere fatta iniziare con la comparsa di unospecifico strumento: il pamphlet politico;ma questo scritto così ricco di messaggi,impliciti ed espliciti, come è noto, nonnasce nel XVIII secolo.

2. Si legge, si mormora, ci si schiera: dov’è l’o-pinione?

Dalla metà del Cinquecento fino all’ultimaconvocazione degli Stati Generali (1789), dipamphlets se ne incontrano di tutti i tipi:contrari e favorevoli ai prìncipi, contrari efavorevoli ai ministri, cattolici e ugonotti,fautori e antagonisti delle Reggenze, amicie nemici delle riforme. Dalle Guerre di Reli-gione alla Journée des barricades di Parigi(Ligue, 1588), dai Concini a Richelieu, dallaFronda alla Rivoluzione, i torchi tipograficilavorano a ritmo crescente.

Da lì sono usciti libelli favorevoli o con-trari alla politica ufficiale del re di Francia,fosse egli il Re Sole o l’ultimo dei Luigi, favo-revoli o contrari a questo o quel ministro, sitrattasse di Mazzarino, Necker o Calonne,arrivando a infrangere i limiti della decenzacon accuse pretestuose (che non risparmia-vano la sfera privatissima, sconfinando nel-la pornografia) o con difese dal taglio apolo-getico. La Francia ci si svela tipograficamen-te spaccata da pamphlets che hanno alimen-tato le divisioni grazie alla vivace attività diplumitifs à gages, al servizio di questo o quel-lo schieramento. Ma essa è anche una Fran-cia politicamente spaccata in almeno due

correnti di opinione; quanto alla rispettivacapacità di interpretare le esigenze del Pae-se profondo, parlando per suo conto con pie-na legittimità, non è dato sapere con certez-za. Anche se al termine di questo percorso,nel 1789, Jacques Necker riterrà giunto ilmomento di stabilire un canale istituzionalein grado di intercettare la volontà di tutti iFrancesi, introducendo un suffragio maschi-le larghissimo, praticamente universale.

I pamphlets politici – spesso pubblicatiall’estero (Cantoni svizzeri, Province Unitedei Paesi Bassi) e poi introdotti di contrab-bando sous le manteau – li ritroviamo pertutto il secolo “lungo” inscritto nei regniborbonici dei tre Luigi e nelle due Reggen-ze di Maria de’ Medici e di Filippo d’Or-léans. Ma se questi pamphlets possono rive-lare ad una prima lettura un medesimopotenziale eversivo, il pubblico a cui si rivol-gevano per informarlo e “formarlo” non erapiù lo stesso. Per cominciare, a non esserepiù lo stesso era, innanzi tutto, il contesto.

Agli Stati Generali del 1614, Savaron,commissario del Terzo Stato presso laCamera del Clero legge un discorso scrittoche comincia con questa professione diinferiorità

Je reconnois en moi un défaut que le Baptêmen’a pu laver après ma naissance, à savoir unramage grossier.[cit. da Necker, De la Révolution françoise, I, p. 153]

Robert Miron presidente del Terzo Sta-to e prévôt des marchands, cioè sindaco diParigi, fu obbligato dal cerimoniale a pren-dere la parola in ginocchio alla seduta inau-gurale tenutasi al Louvre il 27 ottobre(Picot, Histoire, III, p. 334).

Centosettantacinque anni più tardi, nel1789, non solo il presidente Bailly non simette in ginocchio ma, al pari degli altri

Ricerche

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leaders del suo Ordine, considera infaman-te la stessa denominazione di Terzo Stato,preferendo quella di Communes de France,così evocativa dei Comuni d’Inghilterrariuniti in Parlamento, dunque impregnatadi forti valori politici.

Assumiamo per un istante i deputati delTerzo agli Stati Generali quali paradigmiviventi di una Francia profonda, spessocostretta a tacere. Nel 1614 i rappresentantidel Terzo Stato parlano a nome delle cittàdemaniali, della magistratura e, forse, sonoanche inconsapevoli portavoce di pochemigliaia di avvocati, procuratori, medici eletterati. Nel 1789, in un diverso contesto, ideputati fanno opinione, dialogano con l’o-pinione pubblica di cui si sentono espres-sione, ne interpretano le esigenze. Ma ilcambiamento non è stato repentino e puòessere rintracciato sul filo del “secolo lungo”,seguendo l’espansione dell’editoria legata alprogressivo abbassarsi dell’analfabetismo.

Come ha scritto Roger Chartier, tra il1686 e il 1790, le donne in grado di leggere

passano dal 14 al 27% e gli uomini dal 29 al47% (Le origini culturali, p. 70). Partendo daquesti dati, potremo allora dire che in Fran-cia si legge con intensità crescente, seguen-do una curva ascensionale; chi legge finiscecon l’attivare un flusso d’informazioni chefanno opinione e ne condizionano gli svilup-pi. Ma, prima di quegli anni, cosa è accadu-to? E, soprattutto, siamo in grado di affer-mare con sicurezza quale fosse il pubblicopotenziale, destinatario di una campagna dipamphlets? Proviamo ad isolare la situazionedi Parigi alla metà del secolo XVII, quandol’intero Regno è investito da una grave crisiistituzionale guerreggiata, nota come Fronda.

3. La Fronda fa opinione?

La Fronda, dunque. Contrasto Corte/Par-lamenti, Importants/Primo ministro, Reg-gente/Messieurs les Princes. Parlano le armi,ma la parola scritta non solo non viene mai

Martucci

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Frondista che incita la folla alla rivolta contro Mazzarino

meno, anzi accompagna e motiva la sedi-zione, sviluppando una petulanza argo-mentativa che verrà superata solo dallaRivoluzione francese.

È bene tener presente che le opere dipropaganda e contro-propaganda che solomezzo secolo prima, al momento dell’asce-sa al trono di Enrico IV possono anche cir-colare manoscritte prima di essere stampa-te – si pensi alla Satyre Ménippée diffusa nel1593 dal giurista Pierre Pithou (Garrisson,Guerre civile, p. 139 n. 1) – durante la Fron-da del 1648-53 sono stampate in tipografiae pubblicate a ciclo continuo. Anche se essehanno una tiratura inferiore alle mille copie(Bercé, La naissance, p. 176) godono di unacircolazione intensa legata soprattutto allaloro agilità interna e al linguaggio imme-diato e violento (non letterario) che fino anon molti decenni or sono ne disincentiva-va lo studio, e che, in parte, è legato alle con-dizioni di scrittura: di fretta e furia sull’an-golo di un tavolo d’osteria, mentre intornola confusione regna sovrana; oppure, nelchiuso di un cabinet, mentre sulla strada sot-tostante si erigono barricate e si scambianoi primi colpi di moschetto.

Talora si tratta di fogli volanti di una solafacciata, in quarto, detti billets e che oggichiameremmo volantini – come quelli dicui era imbottita la carrozza del cavaliere LaValette che ne aveva con sé seicento da dif-fondere alle Halles (Retz, Œuvres, p. 1336,n. 2) – ma spesso sono opuscoli di quattro-otto-dodici e, più raramente, trentaduepagine, venduti dai colporteurs a prezzovilissimo (quindi, alla portata di chiunquesappia leggere e possa pagarsi un bicchieredi vino) nei punti nevralgici della capitale:il centralissimo Pont-Neuf, il Palais de Justi-ce (sede del Parlamento), il parvis de Nôtre-Dame con i suoi dedali di viuzze, infine le

centinaia di taverne e osterie frequentateda artigiani, valletti e sfaccendati.

Ma, intanto, i fatti. Per cinque anni laFrancia assiste a una violenta contestazionedel potere regio e della centralizzazioneimposta nella lunga fase di Ministeriat diRichelieu. Ma ora che il Cardinale non c’èpiù, bersaglio è chi continua la sua politica,soprattutto il cardinale Giulio Mazzarino,un tempo nunzio papale, poi collaboratoredi Richelieu, entrato in Consiglio comeprincipal ministro nel 1642, nell’ultimoanno di vita di Luigi XIII. Anche il nuovoministro ha il berretto cardinalizio e cala-mita su di sé l’odio che fino ad allora Parigie i Grandi avevano riservato al clan fioren-tino dei Concini, ingrassatosi con la Reg-gente Maria de’ Medici tra il 1610 e il 1623.

Mazzarino è straniero (suddito napole-tano, cioè spagnolo al pari della Reggente),ricchissimo, carico di parenti (le tre nipo-ti mazarinettes), energico nel difendere leprerogative della Corona. Pretesto dellaribellione, l’eccessivo carico fiscale e ilricorso massiccio in periferia a una nuovafigura di collaboratori, commissari diret-tamente collegati al Cardinale e alla Reg-gente Anna d’Austria: gli intendants deJustice et Finances. Le avvisaglie della crisisono leggibili in versi minacciosi distribui-ti e urlati nelle vie di Parigi:

Un vent de frondea soufflé ce matin;Je crois qu’il grondecontre le Mazarin.[Méthivier, La Fronde, p. 58]

Il “vento di Fronda” non ha nulla digeorgico. È probabile che su Parigi e i suoiumori anti-ministeriali possa aver influitol’esempio d’Oltremanica di quegli stessianni, quando il Parlamento inglese dà scac-

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co a re Carlo I Stuart, sbaragliandolo inguerra, mettendolo poi sotto processo egiustiziandolo (1649). Anche se lo sboccoimprevisto – una Corte di giustizia che con-danna il re per tradimento – sembra cosìlontano dai pugnali e dai regicidi a cui si eraabituati per il ricordo dell’assassinio diEnrico III di Valois (1589) e di Enrico IV diNavarra (1610); quindi, crea orrore in tut-ta la Francia e in ogni ambiente.

Fatto sta che anche in Francia si apre unacrisi difficile: iniziano i Parlamenti (chesono Corti di giustizia), chiedendo di esse-re associati al governo; si muovono poi inotabili parigini; seguono infine Messieursles Princes. E qui la crisi si muta in guerracivile. Se Gaston d’Orléans, fratello deldefunto Luigi XIII, si rivela solo un incalli-to complottardo incapace di aggregarealleanze (malgrado gli faccia da suggeritorePaul de Gondi, Monsieur le Coadjuteur), Mon-sieur le Prince pone problemi diversi: il GranCondé, vincitore degli Spagnoli a Rocroi(19.V.1643), è infatti uno dei maggiori gene-rali del tempo. Egli si accontenterebbe dientrare nel Conseil du Roi per dominarlo, magiocato da Mazzarino, lascia parlare le armied è la guerra. Il resto – compresa l’entratain scena delle Amazzoni della Fronda: leduchesse di Longueville e Chevreuse, laGrande Mademoiselle, figlia di Gaston d’Or-lèans, la Principessa palatina, madre delfuturo Reggente – è stato già raccontato ed haispirato Alexandre Dumas per la saga deimoschettieri e qui lo diamo per conosciuto.

Alla Fronda – su cui di recente ha arre-stato la sua attenzione Franco Benigno – cisi può accostare rileggendo le pagine dialcuni protagonisti: i Mémoires di Retz o diMme de Motteville, le Lettres di Mme de Sévi-gné, le Historiettes di Tallemant des Réaux,saccheggiate da Dumas. Qui ci interessa

vedere come quella dura fase di scontro siastata anche combattuta con i torchi tipo-grafici, contrapponendo l’opinion frondeu-se ai partigiani di Mazzarino. E questo rin-vio ai torchi non può che evocare tutto ununiverso di autori, ufficialmente anonimi,per mettersi al riparo di dure sanzionipenali (fino alla forca) inflitte ai libellisti:anime autenticamente mordaci come quel-la di Paul Scarron; oppure, penne libera-mente in vendita, tanto da poter passaredall’uno all’altro fronte, parzialmente pro-tette dall’anonimato ma non al punto tale darestare del tutto sconosciute.

Oscilla tra i due schieramenti lo spadac-cino e poeta Nicolas-Savinien de Cyrano deBergerac, il Frondeur-Janus evocato daHubert Méthivier (La Fronde, p. 59). A Cyra-no dobbiamo il Ministre d’Estat flambé delfebbraio 1649 dove infilza «Mazarin, espritmalin de notre France», immaginando cheil Cardinale, «écorcheur de ce grand Royau-me», finisca nelle mani del boia in place deGrève; salvo cambiare idea nella Lettre contreles Frondeurs (1651). A questa categoriaambivalente apparterrebbe il poeta nor-manno Jean-François Sarasin, protetto dalCoadjuteur e da Mme de Longueville, succes-sivamente al servizio del principe di Conti,ma pronto a scrivere a Mazzarino per chie-dere denaro (Tallemant, Historiettes, II, p.355). Cammino inverso a quello dell’acca-demico Jean Chapelain autore di una Ode aucardinal Mazarin (1647) che pur fruttando-gli una pensione ministeriale di cinquecen-to lire tornesi non gli impedisce di passareal servizio del Coadjuteur. Mentre il poetalibertino Jacques Vallée Des Barreaux,amante di una delle galanti del secolo,Marion de Lorme, celebra disinvoltamentela doppia appartenenza:

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… et dînant dans un campJ’irais fort bien souper dans l’autre.[cit. da Méthivier, La Fronde, p. 60]

Poi c’è la scuderia di Monsieur le Coadju-teur (l’arcivescovo Paul de Gondi futuro car-dinale di Retz), formata da Louis-FrançoisLe Fèvre de Caumartin, consigliere al Par-lamento di Parigi, dall’avvocato NicolasJohannès Du Portail e da Olivier Patru,avvocato e decano dell’Académie française. Ilprincipe di Condé si serve dell’avvocatobordolese Claude Dubosc-Montandré chenei suoi pamphlets attacca Retz e Mazzarino.

Mazzarino non sta a guardare, contrat-tacca e fa scendere in campo acuti polemi-sti, come il suo bibliotecario Gabriel Naudé,lo scrittore libertino La Mothe Le Vayer e ilvescovo Anthime-Denis Cohon. Ma che lapartita, almeno sul piano pamphlétaire, siaimpari lo attesta il consuntivo finale di cin-quemiladuecento libelli anti-ministeriali,assolutamente non bilanciati dai seicento diparte cardinalizia. Senza il massiccio coin-volgimento di professionisti della pennaquella fioritura libellistica sarebbe stataimpossibile; Méthivier ipotizza, con qual-che fondamento, che l’acredine anti-maz-zariniana possa essere stata incoraggiatadalla revoca delle pensioni che il defuntocardinale di Richelieu aveva accordato allegens de lettres (La Fronde, p. 56 n. 10). Fattosta che il principal ministro è sulla bocca ditutti e alimenta una campagna diffamatoriache non avrà eguali fino alla Rivoluzione.

Senza Mazzarino, niente Fronda? È sta-to detto. Infatti l’opinion frondeuse si ali-menta del Cardinale: il grido «à bas le Maza-rin!» che nel quinquennio echeggia in vico-li, piazze e fin sotto le finestre del Louvre edell’Hôtel Mazarin, unifica opposants dai pro-grammi diversissimi. Nel 1649 la campagna

di pamphlets trova anche un titolo forte –Mazarinades – grazie a una vita burlesca delCardinale a cui il poeta satirico Paul Scarronha voluto dare un titolo che ricordasse l’I-liade (Méthivier, La Fronde, p. 57). L’inizia-tiva ha fortuna: fino al 1653 vengono pub-blicate ben cinquemiladuecento Mazarina-des frondiste; a cui i partigiani di Mazzarinocontrappongono seicento pamphlets (Bercé,La naissance, pp. 176-177).

Pur considerando una tiratura mediainferiore ai mille esemplari, i cinquemi-laottocento titoli, nel loro complesso, cidanno una massa che può lambire i cinque-sei milioni di fascicoli, ponendoci imme-diatamente due problemi legati a distribu-zione e stampa dei libelli. La loro diffusio-ne è quasi istantanea: per evitare sequestrie ritorsioni i tipografi preferiscono sbaraz-zarsene immediatamente tramite vendito-ri ambulanti, i colporteurs, che raggiungonoi punti caldi della capitale; li ritroviamo sulPont-Neuf, alle Halles, nella Galerie duPalais, nelle taverne e osterie. La stampadei pamphlets apre uno scenario diverso, diestremo interesse. Per la presenza dellaSorbona, di centinaia di magistrati e avvo-cati, dell’amministrazione centrale delRegno, infatti Parigi può essere considera-ta una grande “città-tipografia”.

Quando scoppiano i disordini la capita-le ha circa 415000 abitanti, mezzo milioneconsiderando anche l’immancabile popo-lazione fluttuante; essa ospita duecento-quaranta tipografie di varia grandezza (dauno a tre torchi). Come ricorda HubertMéthivier librai e tipografi sono raggrup-pati attorno a veri e propri poli. Una novan-tina sono in rue Saint-Jacques: tra i più notiMathieu Guillemot, Claude Morlot, Cra-moisy, Morel, Drouard, Sonnins (tipogra-fo dei Gesuiti); presso la Galerie du Palais,

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vicini al Parlamento di Parigi, hanno botte-ga i librai Augustin Courbé – che ha pub-blicato le tragedie di Pierre Corneille –Pierre Rocollet, collegato al CancelliereSéguier e imprimeur du Roi (La Fronde, p.79), la vedova Guillemot (madre di Mathieuche esercita in rue Saint-Jacques), «impri-meuse ordinaire du duc d’Orléans et del’archevêché» e poi del Coadjuteur Gondi(Retz, Œuvres, p. 1162).

Posto a sé merita Théophraste Renau-dot, responsabile della «Gazette»; egliimpianta torchi nei locali dell’orangerie delcastello reale di Saint-Germain-en-Laye e alLouvre, stampa dei billets, volantini propa-gandistici favorevoli al Cardinale, da lan-ciare di notte per le strade di Parigi. Ma ilsuo sembrerebbe un lealismo che mantie-ne opportune uscite di sicurezza. Infatti,secondo Hubert Méthivier, Isaac e EusèbeRenaudot, figli del lealista Téophraste,potrebbero aver stampato un «Courierfrançois» e una «Gazette» frondeuse:«problème débattu, non résolu» (La Fron-de, p. 128).

A sua volta, il principe di Condé installadei torchi nel proprio palazzo, avvalendosidella collaborazione del libraio Vivenay edella penna dell’avvocato bordolese ClaudeDubosc-Montandré, un professionista del-la contumelia, che scrive una cinquantina dipamphlets (Retz, Œuvres, p. 1504 n. 2). Alcu-ni di essi colpiscono l’arcivescovo Paul deGondi, futuro cardinale di Retz, che cosìricorda il libellista:

Un certain Montandré, méchant écrivain […]s’attacha, pour avoir du pain, à la miserable for-tune du commandeur de Saint-Simon, chef descriailleurs du parti des princes et m’attaqua surce ton par douze ou quinze libelles plus mauvaisl’un que l’autre, en douze ou quinze jours. Je mele faisait apporter réglément sur l’heure de mon

diner, pour les lire publiquement, au sortir detable, devant tout ce qui se trouvait chez moi […].[Cardinal de Retz, Œuvres, p. 624]

Soffermiamo ora la nostra attenzione suGondi. Jean-François-Paul de Gondi non èsolo l’intrigante ambizioso consegnatocidalla storia, o il «petit homme noir […] malfait, laid et maladroit» descrittoci da Talle-mant des Réaux (Historiettes, II, p. 303). Né,tanto meno, il meneur pasticcione, una spe-cie di Mazzarino mancato, finito prigionie-ro dei propri intrighi e di un machiavellismodi quart’ordine.

Gondi riesce a costruirsi un formidabilespazio di manovra grazie a una concezioneestremamente moderna della propagandapolitica. Infatti, consacrato il 31 gennaio 1644coadiutore dell’arcivescovo di Parigi, stupi-sce i fedeli predicando regolarmente dal pul-pito. A partire dal 1647 i suoi sermoni, cheriscuoteranno un crescente successo, saran-no annunciati sulla «Gazette» di Théophra-ste Renaudot. La Fronda parlamentare hasolo pochi mesi – l’arrêt d’union è del 13 mag-gio – quando il 25 agosto 1648 Gondi pro-nuncia nella chiesa parigina di Saint-Paul unviolento sermone politico, giudicato dal suosegretario Guy Joly «très emporté et trèsséditieux» (Retz, Œuvres, p. XXXIX).

Negli anni della grande sedizione Gondinon si limita a reggere le fila di disegni poli-tici che poi gli sfuggono sempre di mano, maimpugna la penna sovente. Come quando sitratta di replicare a Dubosc-Montandré conuna Défense de l’ancienne et légitime Fronde,venduta a Parigi da cinquanta colporteurs cheappaiono contemporaneamente in più stra-de, protetti da mazzieri appostati agli ango-li. In quegli anni, in più occasioni, si cimen-terà con opere simili; o scrivendole diretta-mente, o mettendo mano nei libelli scritti

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per suo conto; secondo Michel Pernot (cura-tore delle Œuvres), ha probabilmente ispi-rato Le contrat de mariage du Parlement avec laVille de Paris, opuscolo che illustra il pro-gramma politico frondista.

L’intera produzione libellistica del quin-quennio, secondo Gondi, comprendeva unasessantina di volumi; Mazzarino ha lasciatouna collezione privata di venticinquemilapezzi, compresi molti duplicati. E questo ciconduce al cuore del problema, legato alladiffusione dei pamphlets e alla loro capacitàdi fare e muovere l’opinion. Gli «chefs d’or-chestre invisibles» che hanno orchestratola campagna di stampa (Méthivier, La Fron-de, p. 18) non avranno eguali fino alla Rivo-luzione, ma il peso nazionale dei primi saràinfinitamente più modesto. L’opinion fron-deuse, dopo aver intercettato per qualcheanno umori e desideri delle élites e deglistrati artigiani parigini, non diventerà quel-l’opinion a cui ci ha abituato la seconda metàdel secolo XVIII. Mancano , intanto, fonda-mentali luoghi di aggregazione quali i caffè,mentre i salotti influenti sono un fenome-no ancora sporadico; inoltre, resta in piediun interrogativo legato alla diffusione deilibelli politici nell’intero Regno.

Non deve ingannarci il fatto che queicinquemilaottocento pamphlets con unatiratura inferiore ai mille esemplari potes-sero produrre una massa di circa cinque-sei milioni di opuscoli. Teoricamente, tut-ti i cinquemilaottocento libelli potevanofinire nelle stesse mani, soddisfacendo lacuriosità di soli mille lettori. È un’ipotesi-limite, dato che nessuno – a parte Mazzari-no – poteva permettersi di impegnare lacifra necessaria ad acquistarli in blocco. Èpossible, invece, costruire un altro percor-so interpretativo.

Importants, Grandi, ministri e meneurs

d’alto profilo come Monsieur le Coadjuteurpotevano permettersi di acquistare tutto,assorbendo un centinaio di esemplari. Mail resto dei pamphlets potevano aver avutoanche lettori diversi, raggiunti all’improv-viso dallo strillonaggio dei colporteurs sulPont-Neuf, alle Halles o nelle taverne e oste-rie frequentate da Planchet, il servitore delmoschettiere d’Artagnan. Dunque, i letto-ri non dovevano essere stati solo alcunemigliaia di robins e notabili sparsi nelle cit-tà parlamentari del Regno, potendosi allar-gare il numero a qualche decina di migliaiadi artigiani, magari in possesso di un solobillet lanciato dalla carrozza del cavaliere LaValette, la notte tra l’11 e il 12 febbraio 1649.Ma questo è sufficiente per farci dire che ilvento di Fronda che «gronde contre leMazarin», rappresenta l’opinion dell’inte-ra Francia?

4. «Cette voix puissante»

Nel secolo successivo di relativa pace inter-na – da un Luigi all’altro passando per laReggenza – i notabili di ogni condizioneincrementano un mercato editoriale in con-tinua espansione. Esso ha i suoi capisaldinelle opere letterarie, in quelle a caratterereligioso, nelle raccolte ufficiali di edittireali (Edits, Ordonnances, Déclarations), nel-le pubblicazioni giuridiche (trattati, sen-tenze, factums, memorie). Ma, ancóra unavolta, soprattutto, nei pamphlets.

Negli anni della Reggenza, l’affaire duBonnet (2.IX.1715) e la Question des légitimés(sui diritti di successione dei bastardi di Lui-gi XIV), esplosi quando al vertice dello Statosiede provvisoriamente il duca Filippo d’Or-léans, hanno un impatto dirompente sia nel-

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la capitale che nell’intero Paese. È credibileche i pamphlets antagonisti, ispirati dai par-lamentari e dai duchi e Pari del Regno, aven-do dato parecchio lavoro ai torchi tipograficipossano aver avuto una diffusione significa-tiva. Tuttavia, per smorzare facili entusiasmioccorre considerare che in un quarantenniodi grande vivacità culturale, quale fu certa-mente quello che dall’Encyclopédie (1751)giunge fino alla Rivoluzione (1789), la tiratu-ra media di un libro si colloca sotto le duemilacopie, e che con quattromila esemplari silambisce il successo. Detto questo, vale lapena di aggiungere che si tratta pur sempre ditirature che raddoppiano o quadruplicanoquelle dei libelli stampati durante la Fronda.

Nel secolo dei Lumi i letterati che scri-vono pamphlets «forment très-souvent uncris unanime, qui devient l’expression dela raison universelle», esprimendosi tra-mite «cette voix puissante qui […] parle &subjugue par la force de l’évidence» (Mer-cier, Tableau de Paris, I, p. 241). È costrettoad ammetterlo lo stesso Sebastien Mercier,secondo cui le gens de lettres hanno ormaiuna tale influenza che il loro stesso silen-zio sarebbe sufficiente a «décider encorel’opinion publique» (ibidem, p. 242).

Ma è la crescente curva della diffusionedei pamphlets su scala secolare a farci capirecosa potesse intendere Malesherbes nel suodiscorso d’ingresso all’Académie Française, il16 febbraio 1775, quando ricordava che

Il s’est élevé un tribunal indépendant de toutesles puissances et que toutes les puissancesrespectent, qui apprècie tous les talents, qui pro-nonce sur tous les gens de mérite. Et dans un siè-cle éclairé, dans un siècle où chaque citoyen peutparler à la nation entière par la voie de l’impres-sion, ceux qui ont le talent d’instruire les hom-mes et le don de les émouvoir, les gens de lettresen un mot, sont au milieu du public dispersé ce

qu’étaient les orateurs de Rome et d’Athènes aumilieu du public assemblé.[cit. da Ozouf, Le concept d’opinion publique, p. 34]

Il riferimento diventa molto più espli-cito nelle Grandes Remontrances del 6 mag-gio 1775 quando, nella sua veste di Premierprésident de la Cour des Aides, Malesherbesammoniva Luigi XVI ricordandogli che

tous les dépositaires de la puissance souverainedoivent être soumis à trois sortes de freins, celuides Lois, celui de recours à l’autorité supérieu-re, celui de l’opinion publique.[cit. da Badinter, Les “Remontrances”, p. 204]

Alcuni anni più tardi, nel 1782, l’in-quieto poligrafo Sebastien Mercier collocanel trentennio trascorso, cioè quello suc-cessivo alla pubblicazione dell’Encyclopédie,il compimento di una straordinaria rivolu-zione nel modo di pensare:

Depuis trente ans seulement, il s’est fait unegrande & importante révolution dans nos idées.

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Chrétien-Guillaume Lamoignon de Malesherbes

L’opinion publique a aujourd’hui en Europe uneforce prépondérante, à laquelle on ne résiste pas[…].[Tableau de Paris, III, p. 424]

Di tale «force prépondérante», all’ini-zio degli anni Ottanta, beneficia un’opera –il Compte-rendu au Roi di Necker – diffusain decine di migliaia di esemplari. A dirce-lo sono le fonti dell’epoca; per esempio,stando al «Journal politique ou Gazette desgazettes» del marzo 1781:

Le sieur Panckoucke, libraire qui a débité le 26février 42000 exemplaires et il se flatte d’en pla-cer au moins cent-mille.[pp. 39-40]

Successo imprevisto e imbarazzante pergli stessi librai che non riescono a tener die-tro alle crescenti richieste del pubblico,come ricordano gli «Annonces, affiches etavis divers de l’Orléanais» del 2 marzo diquell’anno:

Le débit prodigieux des exemplaires qui se fait àParis a empêché le libraire qui vend cet ouvraged’en envoyer dans les provinces, nous les atten-dons avec empressement pour satisfaire au désirde nos concitoyens.[p. 40].

Ma il successo è continentale. Il 28 apri-le 1781 i Mémoires secrets de Bachaumontsono in grado di annunciare che il Compte-rendu neckeriano viene pubblicato nelleprincipali lingue europee.

Successo europeo destinato ad esseresuperato dalla successiva pubblicazione aLosanna, nel 1784, del trattato De l’Admini-stration des Finances de la France con cuiNecker, ormai da tempo ritirato a vita pri-vata, dialoga alla pari con i governanti euro-pei. In un crescendo rossiniano dai torchitipografici svizzeri si riversano sui mercati

europei centinaia di migliaia di esemplaridell’Administration, subito accompagnati daimmediate traduzioni in inglese, tedesco,danese e russo che, a detta di Henri Grange(Les idées, p. 38) fanno di quest’opera dellostatista ginevrino un best-seller dell’interoXVIII secolo.

Su scala vastissima era successo a Neckerquel che su scala ridotta (ma, pur sempre,significativa) si stava verificando con leenciclopedie. La costosissima edizione infolio della Encyclopédie di Diderot e d’Alem-bert (1751) poteva contare su poche migliaiadi qualificatissimi e ricchi lettori. Già le suc-cessive edizioni in quarto segnano un’e-spansione del mercato, tanto da suggerireal libraio Panckoucke (titolare dei diritti diriedizione) un significativo rilancio.

Nasce così l’iper-specialistica e monu-mentale Méthodique che, malgrado il suogigantismo (duecentodieci volumi in quar-to), allarga di fatto il mercato editoriale,anche in conseguenza della sua formulainnovativa. L’Encyclopédie Méthodique sipresenta, infatti, come un “dizionario didizionari” suddiviso in una infinità di areetematiche, suscettive di “coprire” pubblicidiversi. Se una grande biblioteca o un ancorpiù grande collezionista privato potevanopermettersene l’acquisto integrale, il com-pratore medio della Méthodique potevaanche essere uno specialista che sottoscri-veva per i soli tomi di suo interesse.

Per gradi, siamo passati dalle pochemigliaia di lettori “privilegiati” alle decinedi migliaia di notabili del Regno coinvoltinella lettura; da questo livello a quello suc-cessivo che vedrà il successo editoriale del-l’Administration des Finances il passo saràtutto sommato breve, affiancando e arruo-lando nel variegato esercito dei lettori “pro-fessionali” decine e poi centinaia di migliaia

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di soggetti. Si comincia a tener conto anchedi chi fuoriesce dal ristretto numero dei let-terati ma è preso in considerazione perchéabitualmente legge; dunque, piccoli nota-bili, parroci, mezzadri alfabetizzati, membridelle corporazioni di mestiere: come quel-lo zio di umile estrazione sociale, ricordatodall’abbé Morellet nei suoi Mémoires, «etqu’on appelait dans la famille le docteur,parce qu’il lisait la gazette» (I, p. 4). Essi,solo pochi anni prima, mai si sarebberosognati di “far tendenza”, trasformandol’effimera mutevolezza delle proprie opi-nioni frammentate nell’interlocutore col-lettivo dei governi: l’opinione pubblica.Anche se non sempre risulta facile capirechi è autorizzato a dar conto di cosa e,soprattutto, a nome di chi.

Per esempio, l’abbé Morellet, che pureha giudicato la reputazione di mezza Fran-cia, si irrita quando La Harpe gli riserva lostesso trattamento. Questi ha formulato ungiudizio negativo contro la sua ammissioneall’Académie Française, scrivendo al gran-duca russo che «le public a vu de très mau-vais œil la préférence donnée à l’abbéMorellet». Ecco, allora, ridivenir opinabi-le l’attribuzione di un’opinione generale, elo stesso Morellet chiosa che

Il est difficile de juger avec quelque certitudequ’un choix est généralement désapprouvé: carchaque homme de lettres ne voit guère que sasociété, et ne peut constater l’opinion générale.[Mémoires, pp. 292-293]

Molti anni prima, in una riflessioneintitolata significativamente Monsieur lePublic, Sebastien Mercier si era già postointerrogativi analoghi:

Le public existe-t-il? Qu’est-ce que le public?Où est-il? Par quel organe manifeste-t-il savolonté? […] Dites à un homme en place, le

public désapprouve; il répond: j’ai aussi mon public,lequel approuve, & je m’en tiens à celui-là.[Tableau de Paris, V, pp. 240-241]

5. Quattro lustri di dibattito riformatore

Riportiamo il nostro sguardo sull’ultimoventennio del XVIII secolo, quando l’opi-nione pubblica può essere percepita qualemanifestazione collettiva della volontà par-tecipativa di ceti emergenti – funzionari,avvocati, pubblicisti, economisti, medici,ecclesiastici e nobili inquieti – venendo acostituire l’interlocutore collettivo e neces-sario del governo. In piena Restaurazionenel dare alle stampe una versione aggior-nata delle Lettres sur l’Italie del presidenteDu Paty, l’accademico Louis Du Bois avreb-be rievocato l’atmosfera riformatrice e pre-rivoluzionaria di fine Settecento, menzio-nando quei sages

qui préviennent les révolutions en faisant à pro-pos les concessions que réclame l’opinion, cet-te reine du monde, cette seule puissance qui necraint pas d’être jamais détrônée.[Lettres sur l’Italie, I, p. VII]

Ma essa costituiva anche – come aveva-no ricordato Malesherbes e Necker conaccenti diversi – il censore più spietato diun assetto dei poteri pubblici che nonlasciava spazio alle élites espresse dallasocietà civile e che, invece, sulla falsarigadi quanto era venuto accadendo nell’Ame-rica inglese chiedeva di poter “rappresen-tare” le istanze di mutamento istituzionale,affiancando il monarca nella gestione del-lo Stato. Sulla base, beninteso, di una dele-ga o, meglio, di un mandato ad agire analo-go a quello conferito dagli azionisti di una

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società al proprio Consiglio d’amministra-zione. Metafora, in parte, simile a quellautilizzata dall’abate Sieyès nel qualificare icittadini actifs, cioè circa i due terzi degliadulti maggiorenni maschi, «comme lesvrais actionnaires de la grande entreprisesociale» (Préliminaire, p. 21).

Poco importa, se alla fine di quel fecon-do ventennio, ben poco sembrava essererimasto in piedi delle strutture del nuovouniverso rappresentativo, cancellato inFrancia da un colpo di Stato – quello del 18brumaio anno VIII – ideato, per singolareparadosso, proprio dal massimo teorico set-tecentesco della rappresentanza politica,l’abate Emmanuel Sieyès. Importa inveceche per quattro lustri ci si sia interrogati sul-la riforma dei poteri pubblici, mettendomano a ben quattro tentativi di riassettodello Stato – con Necker nel 1789, poi con laRivoluzione in tre fasi: nel 1791, nel 1793 enel 1795 – leggendo e divulgando avida-

mente testi stranieri per lo più anglo-ame-ricani, agevolando la circolazione deimodelli costituzionali, interrogandosi sullaloro esportabilità (o, in altri termini, sullapotenziale universalizzazione dei diritti),traducendo costituzioni e Dichiarazioni.

In tal modo, veniva avviato un circolovirtuoso poggiato tanto sui tradizionali epi-stolari che legavano le gens de lettres – daisavants più accreditati ai pamphlétaires à gage– in una sola ecumène da Parigi, Ginevra eLondra a Boston, New York, Pietroburgo,Milano, Napoli e Palermo, come anche sul-l’impegno diretto volto a riformare lo Stato.Nel contrasto crescente tra gens de lettres ecorifei della Monarchia di vecchio stampo,la bilancia pendeva ormai a favore dei rifor-matori: «maîtres de l’opinion, ils en fontune arme offensive & défensive» (Mercier,Tableau de Paris, I, p. 239).

6. Salotti, epistolari, caffè, pamphlets

Questo circolo virtuoso della comunicazio-ne prospetta un diverso cantiere d’indagi-ne, dato che le persone che ne fanno partegiocano più parti in commedia. Esse non silimitano, cioè, a intrattenere una corri-spondenza dotta fra gens de lettres, ma ali-mentano differenti circuiti comunicativirientranti nella doppia coppia “mediatica”salotti-corrispondenza e caffè-pamphlets.

Anche se ogni regola ha le sue eccezio-ni e ogni approssimazione semplificativa lesue falle – penso alla corrispondenza traCaterina II di Russia e Diderot – a larghelinee gli epistolari possono considerarsi laprosecuzione delle conversazioni salottie-re con altri mezzi, come avrebbe potutoglossare il generale von Clausewitz se si fos-

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L’abbé André Morellet

se anche occupato di circolazione delleidee. D’altra parte, il più celebre di essi– quello tra Madame de Sevigné e sua figliaall’epoca del Re Sole – nasce proprio alloscopo di aggiornare su novità parigine erelativi commenti salottieri chi abita nellalontana provincia.

Salotti ed epistolari registrano a guisa dibarometri la circolazione delle idee, la loroaggregazione attorno a temi forti (anche senon tutti destinati a rivelarsi fecondi), l’al-terna fortuna di statisti quali Turgot, Neckero Calonne. Questa dimensione privata e, altempo stesso, tendenzialmente semi-pub-blica, gestita nei salotti, fotografata dalle let-tere, rievocata (e, quindi, manipolata) daipiù tardi Mémoires ci consente ancora oggi dispiare dietro le quinte. Magari con l’aiuto diuna guida disincantata come Sebastien Mer-cier, che della conversazione salottiera sot-tolinea soprattutto il futile e sentenziosoeclettismo:

Avec quelle légéreté on ballotte à Paris les opi-nions humaines! Dans un souper, que d’arrêtsrendus! On a prononcé hardiment sur les pre-mières vérités de la métaphysique, de la morale,de la littérature & de la politique: l’on a dit dumême homme, à la même table; à droite, qu’ilest un aigle, à gauche, qu’il est un oison. L’on adébité du même principe; d’un côté qu’il étoitincontestable, de l’autre, qu’il étoit absurde: lesextrêmes se rencontrent, & les mots n’ont plus lamême signification dans deux bouches différen-tes.[Tableau de Paris, I, p. 26]

Per capire quanto fosse impegnativo fareopinione a fine Settecento, in termini diinvestimento di tempo in serate e pomerig-gi salottieri possiamo centrare la nostraattenzione su un protagonista – l’abbéMorellet – e sulle sue conoscenze. «Lesvisites emportent beaucoup de temps»,

rileva Mercier (II, p. 289), chiarendo suc-cessivamente che «le beau monde consacrequatre ou cinq heures deux ou trois fois lasemaine à faire des visites» (IV, p. 237).L’abbé Morellet fa molto di più. Conversa-tore amabile, ironico, coltissimo, egli ani-ma pranzi e serate, trasformando ogni occa-sione mondana in raffinato incontro intel-lettuale. Lo ricorda l’accademico Marmon-tel (che ne avrebbe sposato la nipote), gene-ralmente poco incline ad elogiare gli altri:

L’abbé Morellet […] étoit, pour la conversation,une source d’idées saines, pures, profondes, qui,sans jamais tarir, ne débordoit jamais. Il se mon-troit à nos dîners avec une âme ouverte, un espritjuste et ferme, et dans le cœur autant de droitureque dans l’esprit. L’un de ses talens, et le plus dis-tinctif, étoit un tour de plaisanterie finement iro-nique, dont Swift avoit eu seul le secret avant lui.[Mémoires, II, p. 114]

Grazie agli stessi Mémoires di Morellet, ciè possibile appurare come l’abate non abbiasaltato un solo appuntamento culturale.Riusciamo a seguirlo nel corso degli anniSessanta e Settanta del ’700; ma anche glianni successivi, fino al 1789, saranno ugual-mente densi di impegni. La sua settimanaparigina viene monopolizzata il lunedì emercoledì da Mme Geoffrin dove incontrad’Alembert, Helvétius (fino al 1771), d’Hol-bach, Raynal, Marmontel e i diplomaticinapoletani Caracciolo e Galiani (I, p. 85).

Domenica e giovedì, dalle due del pome-riggio alle otto di sera il barone d’Holbachaccoglie una ventina di commensali, anchestranieri, per discutere di filosofia, religio-ne, arte di governo (I, p. 133). È lì che al gio-vane Marmontel si offre l’opportunità diconoscere Diderot, Helvétius, Grimm eRousseau «avant qu’il se fût fait sauvage»;come anche il giovane principe di Brunswick,di cui ci dice che «il se plaisoit singulière-

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ment au commerce des gens de lettres»(Marmontel, Mémoires, I, p. 327, III, p. 30).

Martedì ci si ritrova da Mme Helvétiusdove, però, la conversazione lascia a deside-rare (Morellet, Mémoires, I, pp. 141, 154).Venerdì riceve Mme Necker – «qui est un peula Mme Verdurin du XVIIIe siècle» (Bluche,La vie quotidienne, p. 107) – dove la conver-sazione è buona, malgrado il marito Jacquesmetta soggezione a tutti (Morellet, Mémoi-res, I, p. 154). Non certo al richiestissimoabate, che pur avendo pubblicato un paio dipamphlets piuttosto duri contro il banchiere,si assolve scrivendo di non «avoir passé dansces écrits les bornes d’une critique honnê-te», continuando a frequentare i ricevimen-ti dell’impassibile Ginevrino (I, pp. 161-162). Poi, una volta alla settimana (proba-bilmente il sabato), Morellet, con Cabanis eMme Helvétius va a Passy da Benjamin Fran-klin a discutere di fisica, tecnologie (stufe) equestioni americane (I, p. 295).

Ma la prima domenica del mese Morel-let diserta l’appuntamento a casa d’Hol-bach, apre le proprie stanze, e riceve Suard,d’Alembert, Chastellux, La Harpe, Delille eMarmontel, per dare la stura alla tenzonemusicale tra fautori di Piccinni e fautori diGluck (I, p. 252).

Possiamo assumere la settimana del-l’abbé Morellet come paradigmatica dell’u-tilizzo del tempo da parte dei letterati piùengagés; ciò non toglie che chi non era abi-tuato a questa “sovraesposizione”, potessemanifestare insofferenza. È quanto rilevaAlessandro Verri, costretto a un intensonoviziato che prevede come passaggi obbli-gati i salotti del barone d’Holbach, di Mmes

Geoffrin, Necker, de Boufflers, Boccage edi Mlle Lespinasse, dove incontra Diderot ed’Alembert, il cavaliere de Jaucourt (che glifa una pessima impressione), i soliti

Morellet e Marmontel, l’abbé Mably e «untal marchese di Condorcet […] coltissimonelle matematiche» (Gaspari, Viaggio, p.347); il giovane patrizio milanese, che haaccompagnato a Parigi Cesare Beccaria, cosìscrive al fratello Pietro il 25 ottobre 1766:

Mi strascinano da tutte le bande; l’Abate Morel-let è l’agente generale di tutte le cose nostre: iosono sensibile a tante finezze, ma mi dispiace ilnon avere un momento di quiete e l’avere fissa-ta sempre tre o quattro giorni antecedentemen-te la vita che devo condurre. Sono schiavo tra tan-te cortesie. Tengo la lista de’ pranzi e degliappuntamenti e mi rincresce di vedermi cosìlegate le ore e le settimane.[Gaspari, Viaggio, pp. 36-37]

Se l’iper-presenzialismo non penalizzaMorellet – ironia e sarcasmo lo rendonoindispensabile – gli altri devono graduare leloro presenze, alternandole con assenzeattentamente pianificate. Con l’esigentis-sima Mme Geoffrin, l’accorto Marmontel– che è anche suo inquilino – impara a pre-senziare in modo “mirato”:

J’avois d’ailleurs bien observé que, pour valoiraux yeux de Mme Geoffrin ce qu’on valoit réelle-ment, il falloit avec elle savoir tenir un certainmilieu entre la négligence et l’assiduité; ne lalaisser ni se plaindre de l’une, ni se laisser del’autre; et, dans les soins qu’on lui rendoit, nemanquer à rien, mais ne rien prodiguer. Lesempressemens la suffoquoient. De la sociétémême la plus aimable, elle ne vouloit prendreque ce qui lui falloit, à ses heures et à son aise. Jeme ménageois donc imperceptiblement l’avan-tage d’avoir des sacrifices à lui faire; et, en luiparlant de la vie que je menois dans le monde, jelui faisoit entendre, sans affectation, que letemps où j’étois chez elle j’aurois pu le passer fortdoucement ailleurs.[Marmontel, Mémoires, II, p. 137]

Salvo vedersi costretto a rallentare i rap-porti, quando il suo dramma “filosofico”

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Bélisaire viene censurato dalla Sorbonne (III,p. 109). Così, Mme Geoffrin che, pure, ave-va compianto il letterato dopo un breve sog-giorno alla Bastiglia (II, p. 179), ne prendeinvece le distanze per un componimento incui il protagonista – generale bizantino vit-torioso, accecato per ordine dell’imperato-re – sconta a caro prezzo l’ingratitudine diGiustiniano. Un re ingrato? Solo pensarlorasenta la lesa maestà e Mme Geoffrin, che infondo è restata una borghese arricchita (èlei la vera Verdurin, con buona pace di Fran-çois Bluche), non ama correre rischi. Mes-so alla porta dal giardino delle Esperidi– dove era entrato in contatto con la crèmedes philosophes – Marmontel può finalmen-te versare dell’acido nella ciotola a cui si erafino a quel momento abbeverato:

Il faut tout dire, cependant; il manquoit à lasociété de Mme de Geoffrin l’un des agrémensdont je faisois le plus de cas, la liberté de la pen-sée. Avec son doux voilà qui est bien, elle ne lais-soit pas de tenir nos esprits comme à la lissière;et j’avois ailleurs des dîners où l’on étoit plus àson aise.[Mémoires, II, p. 138]

Nei salotti, oltre a conversare, si legge inanteprima quanto si viene componendo inpoesia o prosa. Proprio grazie al felice esi-to di una lettura della sua Aristomène (tra-gedia oggi dimenticata), l’accademico Mar-montel riesce ad entrare nell’esclusiva cer-chia di Mme de Tencin. Lo ricorderà a mol-ti anni di distanza, senza nascondere l’e-mozione di aver avuto l’opportunità di leg-gere le sue pagine ad orecchie tanto illustri:

L’auditoire étoit respectable. J’y vis rassemblésMontesquieu, Fontenelle, Mairan, Marivaux, lejeune Helvétius, Astruc, je ne sais encore, tousgens de lettres ou savans, et au milieu d’eux unefemme d’un esprit et d’un sens profond, maisqui, enveloppée dans son extérieur de bonhomie

et de simplicité, avoit plutôt l’air de la ménagè-re que de la maîtresse de la maison. C’étoit-làMme de Tencin.[Mémoires, I, p. 299]

I salotti permettono salti sociali altri-menti inspiegabili e, soprattutto l’amplia-mento del giro di conoscenze. Mme Geof-frin, per esempio, persegue l’obiettivo di“intercettare” nel suo salotto tutti gli stra-nieri (illustri), di passaggio a Parigi, comei diplomatici napoletani abate Galiani emarchese Caracciolo. È sempre Marmontela raccontare:

Soit qu’il fût entré dans le plan de Mme Geoffrind’attirer chez elle les plus considérables desétrangers qui venoient à Paris, et de rendre par-là sa maison célèbre dans toute l’Europe; soit quece fût la suite et l’effet naturel de l’agrément et del’éclat que donnoit à cette maison la société desgens de lettres, il n’arrivoit d’aucun pays ni prin-ce, ni ministre, ni hommes ou femmes de nomqui, en allant voir Mme Geoffrin, n’eussent l’am-bition d’être invités à l’un de nos dîners, et ne sefissent un grand plaisir de nous voir réunis àtable. C’étoit singulièrement ces jours-là queMme Geoffrin déployoit tous les charmes de sonesprit, et nous disoit, soyons aimables.[Mémoires, II, pp. 120-121]

Dal finanziere La Poplinière il bel mon-do internazionale si alterna come se si fos-se trattato di dar vita a “quadri viventi”; loattesta un ospite abituale, Marmontel, chelì entra in confidenza con l’ambasciatoreaustriaco Kaunitz, futuro Cancelliere impe-riale; questi lo prende a benvolere e, a suavolta, comincia a invitarlo:

Chez [M. de La Poplinière] se succédoient, com-me dans un tableau mouvant, des personnagesdifférens de mœurs, d’esprit, de caractère. J’yvoyois fréquemment les ambassadeurs d’Europe,et je m’instruisois avec eux. Ce fut-là que je con-nus le comte de Kaunitz, alors ambassadeur de lacour de Vienne, et, depuis, le plus célèbre hom-

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me d’état de l’Europe. Il m’avoit pris en amitié;j’allois assez souvent diner chez lui, au palaisBourbon, et il me parloit de Paris et de Versail-les en homme qui les voyoit bien.[Mémoires, I, p. 339]

Però, il terreno per noi più fecondo sirivela quello pamphlétaire, dominato dainsinuanti e ambigui plumitifs come Brissoto da geniali declassati come il polemistaLinguet, in rotta praticamente con tutti. Eal quale l’abbé Morellet decide di dare unalezione, mettendolo «à sa place dans l’o-pinion» (cioè, diffamandolo), proprioquando il celebre polemista sta per essereradiato dall’albo degli avvocati:

[…] mais une circonstance importante se pré-senta, où je crus qu’il fallait essayer de mettre cepersonnage à sa place dans l’opinion publique.[Mémoires, I, p. 233]

Obiettivo che Morellet è costretto a dif-ferire di alcuni giorni, visto che il livorosofine “pedagogico” di condizionare l’opi-nione pubblica, maltrattandone un idolo,viene rallentato da un biasimo di Males-herbes in persona che riesce a procrasti-nare di alcuni giorni la distribuzione dellibello.

L’universo gazzettiere e pamphlétaire ciporta al cuore del problema. Chi scrive sipresenta quale portavoce di una opinioneche egli, al tempo stesso, sta anche for-mando o manipolando, a seconda che in luiprevalgano intenti pedagogici o intentistrumentali. Ne resta una traccia neipamphlets, fonte inesauribile di suggestio-ni e trabocchetti ermeneutici. Siano essifirmati, “attribuiti” o rigorosamente ano-nimi, i pamphlets vanno poi ulteriormentedivisi tra quelli scritti d’impulso proprio equelli commissionati a pagamento. Ma chedire di chi scrive a pagamento per diffon-

dere idee proprie? Come fanno, oggi, igiornalisti regolarmente stipendiati percontratto e, nel XVIII secolo, Mirabeau,Sieyès o l’abbé Morellet che mette la suapenna al servizio dei Rohan, dell’intenden-te Trudaine, dei Lieutenants de Police Sarti-ne e Lenoir, per confutare Necker o Galia-ni (Mémoires, I, pp. 27, 144, 191).

L’aspetto paradossale della vicenda èdato dal fatto che di quei quattro lustri didibattito riformatore, ben tre si collocasse-ro nella fase terminale dell’Antico regime,quando in base ai princìpi di diritto con-suetudinario all’epoca vigenti lo spazio pub-blico era monopolizzato esclusivamente dalmonarca sovrano – sola “persona pubblica”autorizzata a parlare e “volere” per la Nazio-ne – essendo, viceversa, formalmente vie-tato ai sudditi di occuparlo sia pur parzial-mente al fine di mettere in discussione lavigente forma di governo. Ma questo è potu-to accadere anche grazie alla ricaduta inter-na di una importante opzione di politicaestera che, trasformando la Francia di Lui-gi XVI nell’alleata del Congresso degli StatiUniti d’America, aveva inopinatamenteliberalizzato il dibattito politico transalpi-no, dando voce e argomenti all’opinion éclai-rée e alimentando una pubblicistica di altoprofilo teorico, a tutt’oggi non compiuta-mente esplorata in sede storiografica.

Nelle pagine che seguono, vedremo agrandi linee come grazie a questa “ipotecatransatlantica” si sia passati dall’opinionéclairée dei notabili d’Antico regime che,pure, in Francia, ha avuto modo di influen-zare in qualche misura lo sviluppo deglieventi, a qualcosa di più ampio, coinvol-gente settori sempre più vasti della Nazio-ne, tanto da adombrare in filigrana i trattidi una moderna opinione pubblica.

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7. Tra Antico regime e Indipendenza america-na: modi e luoghi dell’opinione

Una letteratura sterminata – valga per tuttiil riferimento a Mornet, Venturi, Darnton,Diaz, Moravia, Craveri – può aiutarci a com-prendere come si formasse l’opinione pub-blica e come poi la si “orientasse” nel Set-tecento riformatore. L’anno-chiave è il 1751che vede l’uscita del primo tomo dell’Ency-clopédie di Diderot e d’Alembert; ma, più inparticolare, soffermeremo la nostra atten-zione sui diciotto anni che vanno dal “colpodi Stato”, con cui il Cancelliere Maupeou(1771) tenta di liberarsi dei Parlamenti, allaconvocazione degli Stati Generali (1789). Sitratta di anni segnati da una presenza edi-toriale sempre più massiccia e in grado didialogare con un pubblico esigente, espres-so da una società civile ormai alfabetizzata al40%; dunque, lontanissima dai picchi dianalfabetismo che connotavano Spagna,Portogallo, Stati italiani e Russia.

Ancora una volta è la Francia in grado dileggere e scrivere e fare opinione; neidiciotto anni qui considerati l’opinione nonè sempre la stessa: espressione dei notabi-li éclairés – parlamentari, alti funzionari,avvocati, notai e medici – tra il 1751 e il 1771,poi sempre più “nazionale”, fino a identi-ficarsi con la massa dei contribuenti maschiil 24 gennaio 1789, giorno in cui fu pro-mulgata l’Ordinanza reale di convocazionedegli Stati Generali del Regno.

Questa “opinione” aveva suoi canalipara-istituzionali da più di un secolo; sep-pe quindi farne buon uso, piegandoli ad esi-genze in gran parte diverse da quelle che neavevano consentito il rodaggio. Accademieprovinciali – le stesse che negli anni Set-tanta e Ottanta del ’700 cominceranno abandire concorsi sulle riforme – salotti nel-

le città sedi di Parlamento e, particolar-mente, a Parigi, infine pamphlets politico-giudiziari costituirono un’articolata rete checopriva l’intera Francia, consentendole di“pensare alle stesse cose” anche se nonnecessariamente allo stesso modo. Se il 1789è stato uno spartiacque tra modernità isti-tuzionale e Antico regime, potremmo esse-re indotti ad immaginare che solo gli annisuccessivi, cioè quelli rivoluzionari, sianostati sottratti alla censura sulla stampa e,quindi, dominati ufficialmente dalla cartastampata; mentre, viceversa, gli anni pre-cedenti quello spartiacque sarebbero statiaffidati a quel veicolo pre-politico dell’in-formazione che erano salotti e pamphlets:strumento d’elezione per la formazione e ilcontrollo dell’opinione pubblica sin dalsecolo precedente, come attestano le Maza-rinades in voga durante la Fronda (1648-53).

Ma la Guerra Americana (1776-83), colsuo inesauribile contorno di pubblicisticapolitico-costituzionale riversatasi quasiimmediatamente sul vecchio continente, hain parte modificato questo quadro, obbli-gandoci a riposizionare le coordinate delnostro discorso. Charles Gravier, viscontedi Vergennes, uomo forte del Conseil du Roi,vede nell’alleanza con gli insorti nordame-ricani un modo per rimettere in gioco ladisfatta coloniale del 1763 che ha privato laFrancia del Quebec. Se l’alleanza franco-americana dovrà attendere ufficialmente il1778, il governo nel frattempo si muove dinascosto, autorizzando il commediografoBeaumarchais a coordinare il contrabban-do di guerra a beneficio degli Americani.

La loro è una causa “giusta”: lo pensaun’opinione pubblica attenta ai fatti d’Ol-treoceano e che, rispetto a pochi anni prima,ha rimpolpato i suoi ranghi. A chi tradizio-nalmente vi rientrava – parlamentari, alti

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funzionari, avvocati, notai e medici – bisognaora aggiungere inspecteurs des Manufacturesroyales e ingénieurs des ponts et chausses, gliufficiali delle armi “dotte” (artiglieria, genio,marina), la massa dei giudici regi disseminatiin centinaia di giurisdizioni intermedie (Pré-sidiaux, Bailliages, Sénéchaussées), negozian-ti, commercianti, librai, gestori di caffè («oncourtise les cafetières: toujours environnéesd’hommes», dirà Mercier, I, p. 152); senzatrascurare il clero della Francia profonda eun antico protagonista dallo status ancoraambiguo: il pamphlétaire semiprofessionale,oscillante tra esprit frondeur e sussidi mini-steriali. Un letterato talora declassato, condisordinati studi di diritto (Brissot) o dimedicina (Marat) alle spalle, in grado di allo-care la propria penna al miglior offerente, inattesa inconsapevole di trasformarsi in qual-cos’altro, il giornalista del 1789.

Il governo, da parte sua, decide di raffor-zare l’opinione che quella americana sia unacausa “giusta” e dispone dei mezzi per farlo.In men che non si dica la censura reale auto-rizza la traduzione immediata di tutti gli attiufficiali del Congresso continentale e delleAssemblee coloniali: la Dichiarazione d’In-dipendenza del 4 luglio poi, a ruota, Dichia-razione e costituzione della Virginia e così, diseguito, le Carte fondamentali dei nuovi Sta-ti, nati dalla metamorfosi dell’Americainglese in America indipendente. Se le gaz-zette, sempre più spesso, affiancano allenotizie sulla Guerra d’America delle vere eproprie “cronache costituzionali” – a cui nonsi sottraggono le «Annales politiques, civi-les et littéraires du Dix-huitième siècle» delpur diffidente Linguet – i documenti vengo-no poi ripresi, pubblicati e venduti a parte aun pubblico sempre più interessato che èpresto raggiunto anche da opere supple-mentari di commento.

Le persone più impensabili, osserva ilpolemista (nonché sociologo ante litteram)Sebastien Mercier, intervengono sull’indi-pendenza americana, pretendono di esse-re documentate, dicono la loro:

On ne sait par quelle transition rapide on passede l’examen d’une comédie, à la discussion desaffaires des Insurgens; comment on parle à lafois d’une mode & de Boston, de Desrues & deFranklin. L’enchaînure est imperceptible, maiselle existe aux yeux de l’observateur attentif […].[Tableau de Paris, I, p. 27]

Marmontel, segretario perpetuo dell’A-cadémie française, aggiunge che

l’exemple tout récent de l’Amérique septentrio-nale, rendue à elle-même par son propre coura-ge et par le secours de nos armes, nous étoit sanscesse vanté.[Mémoires, IV, p. 58]

Se dove regna sovrana la conversazione– nei salotti – l’America costituzionale è dicasa, non di meno l’argomento del giornosembra sfuggire alla tirannia di luoghi pre-stabiliti e deputati per guadagnare nuovispazi. Uno di questi è il caffè, luogo di socia-lizzazione che solo il giudizio controcorren-te del sulfureo Mercier può classificarecome «refuge ordinaire des oisifs, & l’asy-le des indigens» (Tableau de Paris, I, p. 149),salvo ribaltare il giudizio, per formularneuno del tutto positivo poche pagine dopo:

Un cafè néanmoins où se rassembleroient desgens instruits & aimables, seroit preferable parsa liberté & sa gaieté, à tous nos circles qui sontpar fois ennueyeux.[Tableau de Paris, I, p. 151]

Nella sola Parigi se ne contano circa set-tecento, tanto da far dire all’abate Galianiche la città poteva essere considerata «le

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cafè de l’Europe», secondo la testimonian-za resa dai Mémoires di Morellet (I, p. 132).Certo, non tutti raggiungono la fama delCafè Procope o dei tanti locali disseminatisotto i portici del Palais Royal, immortala-ti dai pennelli di Louis Le Cœur.

Al caffè, secondo Mercier, «on tientbureau académique, on y juge les auteurs, lespieces de theatre» (Tableau de Paris, I, p.149). È al Cafè Procope, «tribunal de la criti-que», che Marmontel si incontra con il com-mediografo Beauvin all’uscita dal teatro:

Nous nous donnions tous les soirs rendez-vousaprès la comédie, au cafè Procope, le tribunal dela critique et l’école des jeunes poètes, pour étu-dier l’humeur et le goût du public.[Mémoires, I, p. 190]

Egli ha però il torto di sottovalutarequesto tribunal de l’opinion e ne paga le con-seguenze; sempre attento a costruire lapropria reputazione senza dare l’impres-sione di voler imporre la propria presenza,Marmontel rallenta le sue visite al Cafè Pro-cope, quando l’improvviso successo di duesue rappresentazioni teatrali gli suggeriscedi ridurre le sue uscite pubbliche. Ma quel-lo è un tribunale sospettoso, che interpre-ta (giustamente) come contorta manifesta-zione di vanità l’astuta modestia dell’acca-demico:

Mais un ennemi plus terrible […] ce fut le cafèProcope. J’avois d’abord fréquenté ce cafè, lerendez-vous des habitués et des arbitres du par-terre, et j’y étois assez bien voulu. Mais après lesuccès de Denis et d’Aristomène, on m’avoit don-né le conseil imprudent de n’y plus aller, et j’a-vois suivi ce conseil. Une retraite si soudaine etsi brusque, attribuée à ma vanité, me fit le plusgrand tort; et autant cette espèce de tribunal m’a-voit été favorable, autant il me devint contraire.[Mémoires, I, pp. 321-322]

«Chaque cafè a son orateur en chef»,scrive Mercier (I, 151). Basta, quindi, cheun avventore cominci a leggere ad alta voceil «Courier de l’Europe», il «Journalhistorique et politique de Genève», le tregazzette olandesi – di Leyde, Amsterdam eUtrecht – o il «Mercure» perché, imme-diatamente, un capannello gli si formiintorno, rilanciando frasi e giudizi, altret-tante parole d’ordine per un’opinione pub-blica che comincia a interrogarsi sulla pos-sibilità di importare in Francia le novitàistituzionali americane. Il clima efferve-scente è reso in modo efficace anche da unosservatore scettico:

Nous ne pouvons à Paris ni parler ni écrire, &nous nous passionnons à l’excès pour la libertédes Américains, placés à douze cents lieues denous […].[Tableau de Paris, I, p. 47]

Le letture pubbliche avranno una cre-scente fortuna fino alla Rivoluzione in tut-te le sue fasi (costituente, terrorista, ter-midoriana, direttoriale); esse non eranostrettamente riservate ai periodici. Peresempio, nel 1784, i salotti parigini si deli-ziano alle letture in anteprima della prefa-zione del Mariage de Figaro, dove Beaumar-chais in persona difende i contenuti di unacommedia sovversiva che anticipa unamessa in discussione dei tradizionali rap-porti di deferenza (Petitfrère, Le Scandale,p. 15), ridicolizzando l’accademico Jean-Baptiste Suard, cognato del libraio Panc-koucke, trattato da

homme de bien, auquel il n’a manqué qu’un peud’esprit pour être un écrivain médiocre.[Œuvres, III, p. 58]

Della lettura nei salotti e nei caffè ave-va potuto beneficiare anche un testo tecni-

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co dai pregnanti risvolti politici come ilCompte-rendu au Roi di Necker. HenriGrange ci ricorda che il futuro ministro delDirettorio François de Neufchâteau, il 16marzo 1781, aveva organizzato a Mirecourtpubbliche letture del trattato neckeriano.

Ma che dire se un trattamento analogoveniva riservato a determinate polemichedi ambito parlamentare? Come la trattati-stica alla Le Paige – analizzata magistral-mente da Francesco Di Donato in L’ideolo-gia dei robins – oltre a Remontrances eMémoires justificatifs.

8. L’autorità giudiziaria, portavoce dell’opi-nione pubblica

Sarà sufficiente riflettere su un gruppo disei anni “caldi” (1771, 1774, 1776, 1781,1788, 1789) e su alcuni protagonisti mag-giori (Maupeou, Turgot, Necker) e minori(Malesherbes, Lamoignon) a partire da unapremessa di carattere generale che ci con-sente di abbracciare in una prospettiva uni-taria la crisi settecentesca.

Per molti aspetti il quarantennio pre-rivoluzionario aperto dalla pubblicazionedell’Encyclopédie è un tempo di crisi a spet-tro ampio (politica, istituzionale, economi-ca) che investe, soprattutto, l’autorità regia.Le fonti dell’epoca evocano un contrastoinsanabile che contrappone al re e ai suoiConsigli l’alta magistratura di rango parla-mentare che si autorappresenta quale“custode della costituzione”, unico giudicedel rispetto delle Lois fondamentales duRoyaume da parte del re e dei suoi strumentidi governo. Come non manca di ricordareMalesherbes a Luigi XV nelle Très humbles ettrès respectueuses Remontrances, presentate

dalla Cour des Aides, il 18 febbraio 1771, con-tro gli Editti Maupeou:

Il est aussi en France des Lois fondamentales;vous n’en disconviendrez pas, Sire, quand nousciterons pour exemple celles qui règlent la suc-cession à la Couronne, et qui l’ont conservéedans votre maison depuis tant de siècles; or cesLois si respectées, ces Lois si saintes, ces Loisauxquelles nous devons le bonheur de vous avoirpour Maître, et auxquelles vous devez celui d’a-voir les plus fidèles Sujets de la terre; ces Loisreputées jusqu’à present immuables, n’aurontplus de stabilité, si on laisse établir la maximeinouïe qu’un instant de faiblesse ou d’erreur suf-fit pour les renverser.[cit. da Badinter, Les “Remontrances”, pp. 157-158]

Nell’arco dell’intero XVIII secolo, dallaReggenza d’Orléans (1715-23) alla convoca-zione degli Stati Generali (1789), quel con-trasto può avere assunto forme e modi diver-si, trasmettendo di volta in volta ai contem-poranei la sensazione che uno dei conten-denti istituzionali avesse avuto il sopravven-to; ma senza che mai la Haute Robe di rangoparlamentare si dichiarasse piegata.

In genere, il culmine del contrasto eraraggiunto quando i Parlamenti erano chia-mati a trascrivere sui propri registri uffi-ciali la normativa regia (Ordonnances, Édits,Déclarations), al fine di renderla “pubbli-ca” nelle rispettive circoscrizioni. Il rifiu-to di registrazione – quasi sempre per sup-posta violazione delle Lois fondamentales duRoyaume – innescava un complesso rituale:aperto da un lit de justice (antenato baroccodella registrazione con riserva), tenuto allapresenza del re, e chiuso dalla presentazio-ne di Remontrances (o Représentations, nelcaso di semplici “riserve”), con cui le Cor-ti di giustizia protestavano contro quellaregistrazione coatta, vanificandone in par-te gli effetti.

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Ora, negli anni che qui ci interessano, leRemontrances – intese fino a quel momen-to come atti “a rilevanza interna” con cui leCorti di giustizia contestavano la politicagiudiziaria del sovrano – assurgono inveceal rilievo di pubbliche posizioni di censu-ra, tramite le quali l’autorità giudiziariaarrivava a sindacare la stessa legalità di attivoluti dal re in persona. A dire il vero, que-sto non lo si dice; anzi, per evitare il solosospetto di lesa maestà, si usa l’artificioretorico di attribuire l’«instant de faibles-se ou d’erreur» del re all’influenza di qual-che ministro.

Resta il fatto che tali posizioni diventa-no immediatamente pubbliche, divarican-do posizioni antagoniste in cerca di con-senso. Vale a dire, che il valzer delle Remon-trances segna il passaggio dal consenso vir-tuale – di cui si presume debba semprebeneficiare il sovrano regnante che, secon-do Luigi XV, formava corpo unico con laNazione – al consenso reale, effettivamen-te manifestato nei confronti della Corona edella sua politica. Poi, i «maîtres de l’opi-nion» di cui parla Sebastien Mercier entra-no in lizza per catturare il consenso, opera-zione difficile e affascinante che, ancorauna volta, come ai tempi della Fronda spac-ca il Paese.

Nel contesto appena evocato l’argomen-tazione scritta ambisce a presentarsi quale«expression de la raison universelle»,come ha scritto Mercier. Ma la raison uni-verselle poteva esprimersi in contradditto-rio, tramite due portavoce antagonisti? Èquello che accade a legisti ministeriali emagistrati, quando aprono le ostilità sullaregistrazione della normativa regia. I giuri-sti chiamati a redigere Editti ed Ordinanzepensano bene di anteporvi lunghi pream-boli scritti da collaboratori ad hoc – Turgot

si serviva delle penne di Du Pont deNemours e dell’abbé Morellet (Mémoires, I,p. 16) – a chiarimento della ratio legis; a det-ta di Necker, era quello un succedaneo del-la pubblicità realizzata a Londra tramitedibattito in Parlamento:

Les préambules d’édit sont une forme particu-liere au Gouvernement François: ailleurs, & sousl’empire du despotisme, on dédaigne d’instrui-re, ou l’on craint d’habituer les sujets à réfléchir& à raisonner; & dans les pays de liberté, tels quel’Angleterre, toutes les loix nouvelles étant dis-cutées dans une assemblée des députés de lanation, les peuples sont éclairés, ou censés l’ê-tre au moment où ces loix sont déterminées; &chacun peut en connoître les motifs dans lerecueil des débats parlementaires, ou dans lespapiers publics.Mais en France, où les assemblées nationalesn’existent point, & où les loix du Prince ontbesoin cependant de l’enregistrement des Courssouveraines; en France, où le pouvoir conservedes égards pour le caractere national, & où lesministres eux-mêmes sentent à chaque instantqu’ils ont besoin de l’approbation publique, l’ona cru essentiel d’expliquer le motif des volontésdu monarque, lorsque ces volontés se manife-stent aux peuples, ou par des édits, ou par desimples arrêts du conseil du Prince.[De l’administration des finances, I, pp. LXI-LXII]

Ma le Corti di giustizia non stanno aguardare. Esse utilizzano le proprie tipo-grafie per stampare le Remontrances, dif-fondendo migliaia di esemplari di quelloche in origine era destinato a restare uncontenzioso tecnico e “interno” tra il re e i“suoi” Parlamenti. Posta di fronte a dueposizioni alternative – che celano soprat-tutto due concezioni della sovranità e dellalegittimazione a governare – l’opinion sispacca e quella éclairée trova che l’esprit dusiècle parli il linguaggio delle Remontrances.Dopo di che, un re energico come Luigi XVpuò anche esiliare Malesherbes, Primo

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presidente della Cour des Aides, irritato perla pubblicità data alle Remontrances del 18febbraio 1771, ma in quello stesso momen-to quell’alto magistrato cessa di essere vistoquale collaboratore (in disgrazia) del sovra-no per essere, invece, percepito quale por-tavoce di un’opinione pubblica riformatri-ce che, per suo tramite, si sente colpita daglistrali di un monarca dispotico.

L’impressione di fermezza regia va peròattenuata. Tale fermezza ha due date-chia-ve, il 1771 e il 1788, ma in entrambi i casi ilbraccio di ferro si chiude con un nulla difatto. Comincia per primo Maupeou, Can-celliere di Francia con Luigi XV: di fronteall’opposizione parlamentare, egli pro-muove un provvedimento draconiano – l’e-silio in massa dei magistrati – che si accom-pagna alla sostituzione delle giurisdizioniriottose con una Corte di giustizia addome-sticata, immediatamente ribattezzata dal-l’opinione pubblica “Parlamento Mau-peou”, per comprometterne la credibilità.Una mancanza di credibilità che impedisceai giuristi più accreditati di accettare di far-ne parte, come non manca di rilevareMalesherbes nelle Remontrances del 18 feb-braio 1771:

On annonce que Votre majesté choisira un nom-bre d’Officiers suffisants et capables de compo-ser votre Parlement: nous osons vous attester,Sire, au nom de tous ceux qui se sont distinguésdans le Barreau, de tous ceux en un mot qui pour-raient inspirer de la confiance pour le nouveauTribunal, qu’on ne trouvera pour le remplir quede Sujets qui, en acceptant cette commission,signeront leur déshonneur. Les uns qui, parambition, voudront bien affronter la hainepublique; les autres qui ne tarderont pas à l’être.Et ne croyez point, Sire, que ceux qui entrerontdans cette magistrature de nouvelle érection,puissant mettre leur honneur à couvert en allé-guant qu’ils y ont été forcés.Tout le monde sait aujourd’hui que de pareils

ordres ne se donnent qu’à ceux qui les ont men-diés secrètement.[cit. da Badinter, Les “Remontrances”, p. 162]

Salito al trono nel 1774, il nuovo re Lui-gi XVI, interpretando gli auspici dell’opi-nione pubblica e spinto da Turgot, reinte-gra i Parlamenti nella speranza di vedernesmussata la riottosità. L’auspicio si rivelarapidamente infondato e nel maggio 1788lo stesso Luigi XVI avalla un nuovo provve-dimento anti-parlamentare, suggeritogliquesta volta dal Guardasigilli Chrétien-François Lamoignon de Basville (cugino diMalesherbes): tolta ai Parlamenti, la regi-strazione degli atti normativi regi vieneaffidata a una Cour plenière di nuova, quan-to effimera, istituzione. Letta immediata-mente in chiave di rafforzamento dell’au-torità regia – e, quindi, all’insegna deldispotismo più arbitrario – la “riformaLamoignon” è immediatamente censuratadall’opinione pubblica che difende i “suoi”Parlamenti, trasformando al tempo stesso iparlamentari nei portavoce della Nazione,in attesa di una imminente e auspicata con-vocazione degli Stati Generali. A Grenoble,sull’opposizione agli Editti Lamoignon ungiovane avvocato e futuro deputato allaCostituente, Antoine Barnave, costruirà lasua solida posizione di lucido opposant.

Eppure, almeno un aspetto della rifor-ma avrebbe dovuto raccogliere consensi:l’abolizione della question préalable – la tor-tura preliminare – micidiale pena supple-mentare travestita da mezzo istruttorioriservata dall’Ordonnance criminelle dell’a-gosto 1670 (Titre XIX, art. III) agli accusatigià condannati a morte, al fine di ottener-ne la rivelazione dei nomi dei complici. Manon fu così, vediamo di capire il perché.

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9. Un nuovo genere letterario: i Mémoires giu-diziari

Prima di centrare la nostra attenzione suun particolare aspetto della “questione giu-stizia”, quello penale, occorre dire che essofornì agli ultimi decenni del XVIII secolopre-rivoluzionario un nuovo genere lette-rario gradito al pubblico. Mi riferisco aiMémoires giudiziari, su cui rapidamentecrescerà l’effimera stella del presidente DuPaty del Parlamento di Bordeaux.

I Mémoires sono dei testi polisemici cheoffrono una pluralità di letture. Essi pre-sentano un caso giudiziario di forte impat-to emotivo, a partire dal quale si sviluppaun copione dall’esito atteso. Le regole pro-cedurali paralizzano la difesa; i giudici par-lamentari condannano alla pena capitale;un innocente sta per finire sul patibolo: ameno che un tempestivo intervento delConseil du Roi investito en cassation nonribalti la situazione. A ruoli rovesciati, glistessi protagonisti della querelle des Remon-trances si presentano di fronte all’opinionepubblica. Solo che questa volta l’esprit dusiècle sembra incarnato dall’autorità regiadisposta a cassare una sentenza inumana,piuttosto che dalle Corti parlamentari,arroccate nella difesa di vetuste regole pro-cedurali condannate dall’opinion.

10. Opinione pubblica e questione penale

Per inquadrare l’argomento, è d’obbligouna premessa articolata. Il processo pena-le d’Antico regime, retto in Francia dal-l’Ordonnance Criminelle dell’agosto 1670, sibasa sul più rigoroso segreto istruttorio enon prevede la presenza di un difensore che

assista l’accusato. Questi ha la possibilità dirivolgersi a un avvocato solo impugnandoalcune fasi del procedimento principale;come, per esempio, presentando appellocontro la sentenza istruttoria di applicazio-ne alla question, la tortura. Oppure, nei pro-cessi di falso quando è ammessa la presen-za di periti.

Giudice d’appello per tutti i processi incui in primo grado sia stata comminata lapena di morte è la Tournelle criminelle,sezione penale del competente Parlamen-to. Per impedire qualunque fuga di notizie– come avrebbe ricordato alla CostituenteFréteau de Saint-Just, già consigliere alParlamento di Parigi – si arrivava a rilega-re in unico fascicolo tutti i verbali istrutto-ri, al punto di rendere praticamente impos-sibile la stessa lettura dei documenti incamera di consiglio.

Nei decenni successivi alla pubblicazio-ne dell’Encyclopédie, questa esasperatasegretezza risulta antinomica rispetto all’e-sprit du siècle e viene censurata dall’opinio-ne pubblica, atterrita da alcuni clamorosierrori giudiziari, a cui i giuristi del côté rifor-matore suggeriscono come panacea proces-si pubblici all’inglese (cioè con una giuriadi cittadini) e un sistema di pene predeter-minato per legge che annulli la discreziona-lità sanzionatoria. Questo spiega anche ilclamoroso successo decretato all’opera diCesare Beccaria – Dei delitti e delle pene –rapidamente tradotta in francese dall’abateMorellet proprio su suggerimento di Males-herbes, come ci ricorda nei suoi Mémoires(I, p. 163). Ma l’interesse quasi morbososuscitato da noti errori giudiziari – gli affai-res Calas, de La Barre, Salmon, des trois roués– gestiti da importanti Parlamenti del Regnoaveva finito con lo spaccare la Haute Robe inamici e avversari delle Lumières giudiziarie.

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In questo contrasto si inserisce abil-mente il giurista Du Paty, président à mortieral Parlamento di Bordeaux, appellandosi altribunal de l’opinion per fare riaprire alcunidiscussi casi giudiziari.

Quindi, non sono solo le Accademieprovinciali ad incoraggiare l’emulazionedei riformatori, spingendoli a render pub-bliche ipotesi di riforma che purghino ilrito penale dai sanguinari interventi sulcorpo di un reo presunto che, sempre piùspesso, può rivelarsi innocente. Sono anchemagistrati di alto rango che impugnano lapenna per sollecitare riforme. Lo fannoServan e Du Paty. Ma gli stessi avvocati chescendono in lizza nel processo Beaumar-chais-Kornmann o in quello del collier diMaria Antonietta, sanno di avere dalla pro-pria parte l’opinione pubblica.

Riprendiamo il filo del discorso, ricor-dando che il clamore sollevato sui difettidel processo penale mette in gioco la stes-sa credibilità dei Parlamenti: quelli cheerano stati i beniamini dell’opinione pub-blica, grazie a Remontrances ed esili, ne per-dono invece il favore sul terreno concretodei processi. Come ho ricordato più volte,sulla questione penale la Haute Robe si spac-ca: la crème judiciaire (Malesherbes, DuPaty, Fréteau, Du Port, Le Peletier de Saint-Fargeau) si schiera a favore di una vera epropria codificazione che recepisca legaranzie processuali di matrice inglese;mentre, invece, il complesso dei Parla-menti coltiva l’illusione di rappresentare“virtualmente” la Nazione in assenza degliStati Generali del Regno. Quest’antinomiacontiene la ragione del progressivo affie-volimento dell’influenza parlamentare nel-la primavera 1789.

Evito di offrire un panorama generaledei grandi affaires giudiziari, preferendo

soffermare la mia attenzione sul presiden-te Du Paty e sull’affaire des trois roués. A par-tire dall’interrogativo su chi sia stato DuPaty e su cosa gli abbia conferito l’autoritàdi parlare all’opinione pubblica.

11. Il presidente Du Paty

Negli anni Ottanta del XVIII secolo Charles-Marguerite-Jean-Baptiste Mercier Du Patyè, secondo la suggestiva immagine di Voltai-re, «il Beccaria francese». Il personaggio,conosciuto oggi solo da un ristretto numerodi specialisti, nel triennio 1785-88 è invecedi notorietà europea e può essere conside-rato un protagonista assoluto del dibattitotardo-illuminista sulla riforma penale. Mol-to più del Voltaire sceso in campo per i Calas,molto più dello stesso Beccaria sopravvissu-to al successo del suo libro del 1764 e ormaiincapace di esprimersi su quel terreno.

Al pari dell’Avvocato generale Servan ecome i futuri costituenti Fréteau, Du Port eLe Peletier de Saint-Fargeau, Du Paty è diestrazione parlamentare e rappresenta inquel momento il punto di contatto tra laHaute Robe, l’opinion éclairée e le speranze dicambiamento dell’enorme massa di Fran-cesi a cui Necker darà la parola quali con-tribuenti interessati a intervenire sullariforma dello Stato. A tale scopo Du Paty hale carte in regola.

Nato a La Rochelle nel 1744, unisce nel-la sua formazione la cultura letteraria aquella giuridica addottorandosi in diritto. Ilregime di venalità degli uffici pubblici,allora in vigore, gli consente di acquistarela carica di Avocat général presso il Parla-mento di Bordeaux. Ha solo ventisette anniquando pronuncia una dura requisitoria

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contro gli Editti Maupeou del 1771. Colpitoimmediatamente da una lettre de cachet ecostretto all’esilio, egli condivide la sortedei parlamentari nel quadriennio 1771-74.Reintegrato nelle sue funzioni con tutti icolleghi dal Contrôleur général Turgot, entrain possesso dell’ambita carica di président àmortier al Parlamento di Bordeaux, scon-trandosi con i pregiudizi del Primo presi-dente Le Berthon che, illegalmente, rifiutadi ammettere ai vertici un magistrato i cuiantenati non siano stati di rango parla-mentare. La vicenda assume tratti grotte-schi e paradossali, giungendo al culminequando il giurista – pur considerato Lumiè-re de la Jurisprudence – sarà costretto adabbandonare la toga (cioè il concreto eser-cizio delle funzioni giurisdizionali), purconservando il diritto a fregiarsi del titolodi président au Parlement.

Uscito dalla cronaca periferica di unsussiegoso Parlamento di provincia, perentrare nella storia dell’Europa dei lumi,l’insigne giurista diventa da quel momen-to noto come il “presidente Du Paty”. Mol-to spesso basta limitarsi a dire “il presi-dente”, senza aggiungere altro, perché nelcontesto degli anni Ottanta del XVIII seco-lo tutti capiscano di chi si parli. Del presi-dente per antonomasia, di Du Paty. Comeera già accaduto negli anni Quaranta dellostesso secolo con Montesquieu e negli anniSessanta con l’erudito Hainault.

Grazie al cognato Fréteau de Saint-Just,consigliere al Parlamento di Parigi e zio diSophie de Grouchy (sposa di Condorcet),Du Paty entra in contatto con uno dei piùimportanti circoli riformatori parigini,fucina di scritti inneggianti all’Americacostituzionale nonché centro promotore diuna vasta campagna pubblicistica a favoredelle riforme. Solo apparentemente – nei

suoi scritti più tecnici e “mirati” – Du Patysi rivolge al Conseil du Roi per chiedere chevenga cassata una sentenza capitale. In real-tà, egli si rivolge alla

opinion publique, cette force invisible, qui sou-vent supplée aux autres, et qui tôt ou tard entriomphe.[Lettres sur l’Italie, I, p. 61]

Senza arrivare a una vera e propria “teo-ria dell’opinione”, Du Paty si rende contoche «cette force invisible» è un interlocu-tore necessario dei governi, può condizio-nare il processo riformatore, ed è ad essache le gens de lettres devono rivolgersi, invo-candone l’arbitrato. Ma non dovunque. Visono infatti degli Stati dove essa non contanulla; nella Lettre XVI, da Genova, scrive che«l’opinion publique […] est nulle ici» (I,p. 61) e a proposito di Napoli il presidenteosserva:

L’opinion publique ici ne retient pas pour le mal,ne seconde pas pour le bien: il n’existe pas enco-re ici d’opinion publique.[Lettres sur l’Italie, II, p. 225]

Con Du Paty siamo a un punto di svolta.Maître de l’opinion (nel senso utilizzato daSebastien Mercier) e, quindi, forgiatoredelle idee-guida in grado di focalizzare lasensibilità di Monsieur le Public, al tempostesso il presidente Du Paty se ne chiamafuori e ne invoca la “terzietà” di arbitro.L’opportunità gli viene offerta da un pro-cesso penale celebrato contro tre malvi-venti-contadini – Lardoise, Simare e Bra-dier – accusati di aver saccheggiato la casadei coniugi Thomassin, rendendosi ancheresponsabili di gravi violenze personali.

Il 12 agosto 1785 gli imputati, ricono-sciuti colpevoli, sono condannati alle gale-re a vita. Ma il successivo 20 ottobre la

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Chambre des vacations del Parlamento diParigi riforma la sentenza di primo grado econdanna a morte gli imputati, pronun-ciandosi per la colpevolezza con nove voticontro tre. Poiché i condannati sono diumile estrazione sociale, la procedura pre-vede che vengano messi a morte sulla ruo-ta (una specie di “albero della cuccagna”sanzionatorio): il boia disarticola i loro articon una pesante sbarra di ferro, poi li legaa una gigantesca ruota che viene successi-vamente issata in cima a un lungo palo; lafine della vita sopraggiunge a distanza digiorni, dopo atroci sofferenze. Da questomomento, per l’opinione pubblica europea,quello diventa l’affaire des trois roués.

Fra i giudici messi in minoranza vi è unoscrupoloso magistrato di formazione gian-senista, il consigliere Emmanuel-Marie-Michel-Philippe Fréteau de Saint-Just.Colpito dalle numerose irregolarità proce-durali che viziano l’istruttoria di primo gra-do, da lui inutilmente rilevate in camera diconsiglio, il consigliere Fréteau decide di

investire della questione il Conseil du Roi.Ma ha le mani legate: la procedura è segre-ta e non può essere resa pubblica. Ricorreallora all’espediente di far copiare clande-stinamente il dossier da persone di sua fidu-cia, per poi trasmetterlo a suo cognato DuPaty. Quando i condannati stanno per esse-re giustiziati, arriva un ordre de surséanceche blocca l’esecuzione e dispone il lorotrasferimento a Parigi.

Il presidente Du Paty ha le conoscenzegiuste; riesce a contattare gli imputati, par-la a lungo con essi, pubblica immediata-mente un corposo Mémoire justificatif. For-malmente, il Mémoire è un ricorso per cas-sazione indirizzato al Conseil du Roi, ma ilsuo vero interlocutore è, soprattutto, l’opi-nione pubblica, come non manca di rileva-re Seligman quando scrive che «en réalité,il passait par-dessus la tête des pouvoirsétablis pour déférer l’organisation crimi-nelle du pays à l’opinion publique» (Histoi-re, I, p. 100). Pubblicato anonimo inmigliaia di esemplari e venduto sotto ban-co per sostenere le spese processuali, ilMémoire a Parigi è letto ovunque, nei salot-ti, come nei caffè: la stessa regina MariaAntonietta, commossa, sottoscrive unasomma di denaro.

L’affaire des trois roués assurge a rilevan-za nazionale quale paradigma dei difetti delsistema processuale, basato sul segretoistruttorio totale. La pubblicità dibatti-mentale, almeno in sede di confronto con-traddittorio tra accusati e testimoni, avreb-be potuto impedire clamorosi errori divalutazione delle prove, nonché la violazio-ne delle stesse formalità processuali fissa-te dall’Ordonnance criminelle del 1670.

Du Paty sarebbe tornato sul punto in unasuccessiva opera, pubblicata anonima nel1787; la presenza del pubblico è risolutiva,

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Jean-Baptiste Mercier du Paty

il suo diventa «un tribunal souverain etsans appel»:

Mais lorsque c’est en présence même du publicque le procès est instruit et décidé, alors il n’estplus possible de lui en imposer. Il cite à son tri-bunal souverain et sans appel ceux qui viennentde juger les autres. La crainte du blâme et de lacensure est alors un frein pour les juges préva-ricateurs.[Lettres sur la procédure criminelle, p. 105]

Nel frattempo, sull’affaire si sviluppa undoppio percorso. Mentre, su requisitoriadel procuratore generale Séguier, il Parla-mento di Parigi fa bruciare dal boia gliesemplari anonimi del Mémoire, sequestra-ti dalla polizia a colporteurs e marchands delivres, il ricorso per cassazione fa il suo cam-mino. Il 30 luglio 1787, su parere favorevo-le del consigliere Blondel, il Conseil du Roicassa la procedura: le argomentazioni di DuPaty hanno fatto breccia, iscrivendo un’i-poteca riformatrice sulla “domanda pena-le” dei Cahiers de doléances e sullo stessocalendario legislativo della Costituente.

12. Tra riforme e “restaurazione”: i Ministeridi Turgot e Necker

La crisi “parlamentare” appena descritta siinscrive in una crisi di carattere più gene-rale che investe il Regno di Francia neiquindici anni che precedono la Rivoluzio-ne; ma parlarne al singolare può appariredeviante, dato che si tratta di un eventocomplesso che, al suo interno, racchiudeuna triplice crisi: fiscale, d’identità dei ver-tici degli apparati e di fiducia nel rapportotra strutture dello Stato e opinione pubbli-ca. Per venirne a capo Luigi XVI ha avviato

tre esperimenti riformatori, chiamando algoverno con il consenso dell’opinione pub-blica due statisti: Turgot nel 1774 e Neckernel 1776 e nel 1788.

Anne-Robert Turgot, economista discuola fisiocratica e intendente del Limou-sin, diventa Contrôleur général des Finances(in pratica, Primo ministro) nel 1774. Fau-tore di un vasto programma di riformebasato anche su un sistema di autonomielocali su scala provinciale, Turgot commet-te un primo errore quando avalla il richia-mo dall’esilio dei Parlamenti. Si tratta di unprovvedimento che ribalta la politica delCancelliere Maupeou – che viene conte-stualmente esiliato – e, pur venendo incon-tro ai desideri dell’opinione pubblica, nonsigla alcun armistizio tra la Haute Robe e ilConseil du Roi. Né, tanto meno, assicuraappoggi al Contrôleur général des Financesquando questi comincia a incontrare le pri-me difficoltà nel suo turbolento periodo digoverno. Turgot scivola sulla buccia dibanana della libera circolazione dei grani,caposaldo della Scuola fisiocratica, trasfor-mato in norma con Arrêt du Conseil del 13settembre 1774. Può essere incoraggiata lalibera circolazione del frumento, da unaprovincia all’altra del Regno, in congiun-ture sfavorevoli segnate da penuria e care-stia a macchia di leopardo in tutta la Fran-cia? Il Contrôleur général des Finances sem-bra non darsene pena, accingendosi a fron-teggiare i gravi disordini che un po’ ovun-que funestano la Francia.

Anche se i tumulti annonari che scop-piano nel maggio 1775 sono rapidamentesedati dall’energico ministro, che non silascia intimidire dalla “guerra delle fari-ne”, Turgot però perde rapidamente l’ap-poggio dell’opinione pubblica che chiede ilsuo allontanamento. Certo, il “partito di

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Corte” (personificato dal principe di Con-ti), rinforzato da fermiers généraux e “devo-ti”, ha incoraggiato la campagna di pamph-lets contro il ministro, giungendo al puntodi far filtrare la notizia (ovviamente falsa)che lo statista possa essere stato incautocontraente di un pacte de famine, teso lette-ralmente ad affamare gli strati più disagia-ti della popolazione. Ma a giudizio dell’ac-cademico Marmontel fu fatale a Turgot l’a-ver perduto l’appoggio del ministro dellaMarina Maurepas che, solo una ventina dimesi prima, ne aveva favorito l’ascesa:

Il commença par écouter, par encourager d’unsourire la malice des courtesans. Bientôt lui-même, il avoua que, dans les vues de Turgot, ilentroit plus de l’esprit de système que du solideesprit d’administration; que l’opinion publiques’étoit méprise sur l’habileté de ce prétendu sage;qu’il n’avoit dans la tête que des speculations etdes rêves philosophiques, nulle pratique desaffaires, nulle connoissance des hommes, nullecapacité pour le maniement des finances, nullesresources pour subvenir aux besoins pressans del’Etat; un système de perfection qui n’étoit pas dece monde et n’existoit que dans les livres […]. Ces confidences du vieillard, divulguées de bou-che en bouche, pour les faire arriver aux oreillesdu roi, avoient d’autant plus de succès, qu’ellesn’étoient pas absolument dénuées de vraisem-blance.[Mémoires, III, pp. 288-289]

Se, in un primo momento, allo statistariesce di silurare il Lieutenant de Police LeNoir – per non aver impedito il saccheggiodei forni – fallisce, invece, il suo tentativo didimostrare che il principe di Conti fosse lafonte dell’allarme annonario, sfociato nella“guerra delle farine”. L’uscita di scena diTurgot apre la strada al banchiere ginevrinoJacques Necker nominato Directeur généraldes Finances: dove la scomparsa del titolo diContrôleur consente di creare un ruolo ano-

malo che ne faceva un Primo ministro sen-za accesso al Conseil du Roi. In tal modo, sisarebbe evitato l’imbarazzo di farvi sedereun riformato calvinista. Al Directeur généraldes Finances sarebbe toccato il compito deli-catissimo di finanziare lo sforzo bellicofrancese durante la Guerra Americana, sal-vo vedersi giubilare nel 1781 da un re impos-sibilitato a volere le riforme.

Anche l’uscita di scena del Directeurgénéral des Finances passa per un attrito pro-lungato con l’anziano ministro Maurepas edha per oggetto l’entrée au Conseil. Discrimi-nato per motivi religiosi – «Qui? Vous, luidit-il, au Conseil, et vous n’allez point à lamesse», gli avrebbe sibilato Maurepas(Marmontel, Mémoires, III, p. 314) – Neckerha la fierezza di paragonarsi all’ugonottoSully, ministro con Enrico IV (1598-1610)e influente membro del Consiglio (ibidem,p. 317); poi, dopo un ultimo contrastatoincontro con il re, esce di scena.

Leggendo le pagine di Marmontel si haquasi l’impressione di partecipare aglieventi, tanto il ricordo è nitido. Aggiungoche mettendosi da parte il Ginevrino, a dif-ferenza di Turgot (in silenziosa e acida riti-rata), ha un colpo d’ala che rasenta il genio,facendoci comprendere che nella comuni-cazione politica la forma è spesso sostanza.

Necker si mette da parte appellandosi,al tempo stesso, al tribunale dell’opinionepubblica che, come ricorda Marmontel, gliera favorevole. Lo fa in modo dimesso, uti-lizzando quei margini di manovra che lostesso re sembra non avere la possibilità dinegargli: la pubblicazione del Compte-ren-du au Roi attraverso i torchi della Imprime-rie Royale. In pratica, Jacques Necker uti-lizza la stessa tattica delle Remontrances par-lamentari, rendendo pubblici documentidestinati a restare riservati. Del Compte-

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rendu au Roi – la cui attendibilità è statasempre oggetto di riserve anche eccessive –è possibile dare una lettura su più livelli. Èun documento contabile che dialoga con piùopinioni pubbliche (francese, internazio-nale); è un documento politico che segna-la alle Corti europee il fatto che a Luigi XVIsia venuta meno la collaborazione di unostatista di larghe vedute; è un testo politicoche colloca Jacques Necker en réserve de laRoyauté, in caso di necessità istituzionale.

Quello che ci interessa qui è il dialogocon l’opinione pubblica, anzi, con le opi-nioni. Quali? Accanto a quella francese,quella britannica. È Marmontel a indicarcila pista. Siamo nel 1781 e la Francia è anco-ra in guerra con la Gran Bretagna per difen-dere l’indipendenza americana, anche se leoperazioni militari dopo la vittoria franco-statunitense di Yorktown sono state prati-camente congelate, in attesa della firma diun trattato di pace. Mentre i negoziati pro-cedono a rilento, il Compte-rendu au Roi lan-cia un segnale forte: i conti pubblici france-si sono in ordine e registrano un attivo dibilancio di dieci milioni, modesto, ma suf-ficiente a spingere le banche internaziona-li a finanziare Versailles, vale a dire lo sfor-zo bellico francese. Il Gabinetto britannicone prende atto e nel 1783 sigla la pace.

Questa chiave di lettura che i Mémoires diMarmontel ammantano di certezze, non laritrovo in nessuno dei biografi di Neckerné, tanto meno, è stata rilanciata in sedestoriografica. Trovo però di grande interes-se ermeneutico che uno statista apparen-temente emarginato dai luoghi del poteretrovi la forza d’animo di cadere in piedi,redigendo un testo argomentativo che eri-ge l’opinione pubblica a giudice inappella-bile dell’opportunità di aver privato lo Sta-to di un servitore di tale livello.

13. Jacques Necker tra consenso e opinion

Il 1788 è un turbolento anno di attese. Con-tro il nuovo Contrôleur général des FinancesCalonne e i suoi tentativi di governare ildeficit, si leva un’opinione pubblica polifo-nica, che abbraccia interessi contrastanti,ma ha una sola parola d’ordine: “convoca-re gli Stati Generali!”. In rapida sequenza ilContrôleur général des Finances ha contro lasua politica un vasto schieramento: dallaHaute Robe che affossa la già ricordata“riforma Lamoignon”, agli Ordini privile-giati contrari a qualunque ipotesi di rifor-ma tributaria.

Nell’estate 1788, quando la crisi sembratoccare l’acme, ecco una notizia che riani-ma le principali Borse europee, infiamma icaffè parigini, eccita i salotti: il re ha richia-mato al potere Jacques Necker. «Ministreappelé par l’opinion publique», come luistesso avrebbe scritto (De la Révolution, I,p. 48), aureolato dal successo editoriale diopere che occupano ancora oggi un posto dirilievo nella storia dello Stato e dell’ammi-nistrazione pubblica, in quel momento ilGinevrino è in sintonia con la Nazione.

Ma cosa era l’opinione pubblica per ilNecker del 1788 (rivisitato nel 1795)? E,soprattutto, per il Ginevrino questa opi-nione con cui amava rapportarsi era rima-sta sempre la stessa, ovvero era essa cam-biata col mutare di contesti e circostanze?In altre parole, dal Compte-rendu au Roi del1781 al Règlement del 1789, nulla si eramodificato?

Per rispondere, seguiremo lo statistaattraverso le sue stesse pagine, azzerandoidealmente le superfetazioni ermeneutichedegli ultimi due secoli. Per nostra fortuna,si tratta di un autore elegante a cui nonriesce difficile coniugare lo style du siècle

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con l’analiticità della ricostruzione. Lepagine finali di questo mio saggio prendo-no quindi le mosse dal lungo incipit dedi-cato alla convocazione degli Stati Generalie che occupa un intero tomo.

L’opera, beninteso, è De la Révolution fran-çoise; composta nel tranquillo ritiro di Coppet,resta tuttora sottovalutata in sede storiogra-fica, con l’eccezione lodevole di Henri Gran-ge. Proprio in quelle pagine troviamo dellerisposte; nel crogiolo del 1788-89 l’opinionéclairée di matrice illuminista, già raccolta neicaffè e nei salotti e gridata nei pamphlets, èora diventata qualcosa di diverso.

De la Révolution françoise rappresenta untentativo di avviare una riflessione sull’e-sperienza politico-istituzionale degli anni1789-95, quando il dramma rivoluzionarioè ancora in corso; la parte che qui ci inte-ressa difende le modalità di organizzazionedelle elezioni per gli Stati Generali e i lar-ghi criteri di rappresentanza adottati. Laricostruzione è analitica, tende a chiarirel’assoluta incomparabilità della situazionedel 1789 rispetto a quella del 1614, sottoli-nea ripetutamente il rifiuto degli Ordiniprivilegiati ad avviare qualunque tipo dicollaborazione, passa in rassegna tutte lepossibili alternative istituzionali.

Con tutta evidenza, la “professione difede” prende le mosse da qualcosa chedoveva aver turbato l’anziano statista, tan-to da costringerlo non ad una semplicequanto orgogliosa autodifesa del propriooperato ministeriale ma, piuttosto, alla sot-tolineatura della ineluttabilità di sottosta-re a un “imperativo comportamentale” cheera il prodotto della crescita culturale del-la società francese e della complessivamaturità raggiunta in quegli anni da chi sisentiva ormai protagonista del dibattitosulla riforma dello Stato.

Di cosa si trattava? Ma, soprattutto,quali erano i fantasmi da esorcizzare nel1795-96 quando viene scritto, e immedia-tamente dato alle stampe, De la Révolutionfrançoise?

Raffinato homme de lettres, statistadeterminato ma non imprudente, costrut-tore attentissimo della propria immagine,artefice di abili quanto argomentate auto-celebrazioni, Jacques Necker sa tenere lapenna in mano riuscendo, quindi, a cattu-rare l’attenzione del lettore che si ritrovaavviluppato in una trama argomentativasimpatetica. Nomi l’autore non ne fa, qua-si a voler dare l’impressione di polemizza-re con seducenti categorie interpretative,relegando nel limbo della dimenticanza gliincauti corifei di tesi che egli avversava.

Quali tesi, dunque? È presto detto,quelle di chi riteneva che fosse stato unazzardo allargare le maglie della convoca-zione, fino a ricomprendervi una parte pre-ponderante dei maschi maggiorenni. Loavrebbe scritto l’abbé Morellet, dicendosiconvinto che la situazione francese nonavrebbe conosciuto derive rivoluzionarie seil governo avesse limitato il diritto di votoai soli proprietari fondiari:

[…] on a negligé d’organiser les assemblées pri-maires et la représentation elle-même sur leursvéritables principes, c’est-à-dire, de fonder lesdroits politiques qu’on rendait à la nation sur labase de la propriété, seul correctif puissant etefficace à l’introduction du Tiers [état] dans l’ad-ministration.[Mémoires, pp. 341-342]

Nei suoi Mémoires Morellet ritorna piùvolte sulla questione; è quasi certo chequelle fossero le sue opinioni anche nel1789, in linea con quanto la Scuola fisio-cratica era venuta eleborando riguardo alla

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partecipazione politica. È anche possibileche questo suo modo di vedere le coseMorellet lo avesse comunicato verbalmen-te allo stesso Necker di cui, come ho ricor-dato, era commensale abituale.

Ora, il primo tomo De la Révolution fran-çoise, sembra costruito proprio come confu-tazione dell’approccio “proprietario” allapartecipazione politica; in particolare, varicordato come Necker vi declini il tema del-la centralità dell’opinione pubblica in tutte lesue varianti. Espressioni quali «grande for-ce de l’opinion publique» (I, p. 6) «empire»[de l’opinion] (I, p. 8), «autorité de l’opi-nion publique» (I, pp. 15, 74), «pacte avecl’opinion» (I, p. 26), «puissance de l’opi-nion publique» (I, p. 34), «toute-puissancede l’opinion publique» (I, p. 227), «secoursde l’opinion publique» (I, p. 57), «l’opinionpublique étoit debout» (I, p. 67), «sceau del’opinion publique & de la volonté nationale»(I, p. 196), «soutien de l’opinion publique»(I, p. 211), «s’associer à l’opinion publique»(I, p. 214), ricorrono continuamente.

Senza spingermi oltre nel florilegio dicitazioni ricordo che Necker insiste su alcu-ni aspetti: la gravità di una crisi fiscale sen-za sbocco, la necessità di riforme politichedi tipo costituzionale, l’impossibilità di sot-tovalutare il peso crescente dell’opinionepubblica, quindi un’ampia convocazioneelettorale quale esito obbligato.

Comunicatore abilissimo abituato a dia-logare col Paese – e lo aveva già dimostratonel 1781, rendendo pubblico il Compte-ren-du au Roi – Necker prende in contropiede gliOrdini privilegiati appellandosi alla massadegli appartenenti al Terzo Stato, i cui depu-tati saranno «les Représentans du plusgrand nombre des Contribuables» (I, p.149). A loro fa balenare la possibile coge-stione di una riforma destinata a moderniz-

zare la Francia, mettendo fine agli abusi o,per meglio dire, agli anacronismi che neparalizzavano l’efficienza amministrativa.

Per mettere in moto un gigantesco son-daggio che non ha eguali nella storia, Neckerricorre a un espediente. Egli sostiene che siè persa ogni traccia delle modalità di tenutadegli Stati Generali: occorre quindi rivolge-re un appello ai dotti perché mettano a dis-posizione del governo le loro cognizioni. Èchiaramente un pretesto; gli archivi realisono fornitissimi, né mancano pubblicazio-ni erudite in materia. Quell’appello avrebbeprodotto una straordinaria fioritura di opu-scoli, pubblicati tra l’autunno 1788 e la pri-mavera 1789, vanificando nei fatti la censu-ra sulle pubblicazioni. Monsieur le Public, ilprotagonista collettivo evocato con lungimi-ranza da Sebastien Mercier diversi anni pri-ma che la crisi rivoluzionaria si profilasseall’orizzonte, prende dunque corpo.

Ai suoi critici – a Morellet vanno pro-babilmente aggiunti anche Edmund Burkee Jacques Mallet du Pan – Necker avrebbericordato la centralità del consenso nell’a-zione di governo, enunciando come massi-ma di alta politica l’impossibilità di gestireil potere supremo contro l’opinione pub-blica. Una massima non accolta da tutti,neppure in ambiente éclairé, tanto da fardire all’enciclopedista Marmontel, nei suoiMémoires, che il Ginevrino si era trasfor-mato nello zimbello dell’opinione pubbli-ca, «le jouet de l’opinion» (III, p. 294).

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in Idem, L’homme régénéré. Essais sur la Révolution fran-çaise, Paris, Gallimard, 1989, pp. 21-53;

Petitfrère (Claude), Le scandale du ‘Mariage de Figaro’. Pré-lude à la Révolution française? Paris, Éditions Comple-xe, 1989;

Picot (Georges), Histoire des Etats Généraux considérés aupoint de vue de leur influence sur le Gouvernement de laFrance de 1355 à 1614 [Paris, 1872], Genève, MégariotisReprints, 1979;

Retz (Jean-François-Paul de Gondi, Cardinal de), Œuvres[1717], Édition établie par Marie-Thérèse Hipp etMichel Pernot, Paris, Gallimard, 1984;

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Venturi (Franco), Settecento riformatore, Torino, Einaudi,1969-84.

Ricerche

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C’est une idée extraordinaire que celle d’un roi;il faut, tant qu’on la trouve bonne, l’environnerde l’opinion publique, de cette opinion qui luisert d’appui et qui, elle-même, a besoin d’ungrand ménagement et d’une soigneuse culture.[Necker]

Necker è noto per essere uno dei piùacuti analisti dell’opinione pubblica delXVIII secolo o, più esattamente del feno-meno designato in tal modo, con un voca-bolo in apparenza unificante ma tale darivestire in realtà significati diversissimi.Possiamo dire che nella sua opera si rin-viene un “concetto” di opinione pubblica?Se con ciò si intende una definizione uni-voca, derivabile dal contesto storico origi-nario e in grado di entrare in un sistemateorico o in una dottrina, non pare questoil caso, neppure per il testo più famoso,l’Introduzione a De l’administration desfinances de la France (1784).

È bene adottare alcuni accorgimentimetodologici se si vuole interpretare sultema il pensiero di Necker. In primo luogo,occorre portare attenzione al fatto che egli

ne parla in maniera pragmatica e non cometeorico. È l’uomo politico, come afferma luistesso, che si rivela in uno scritto successi-vo al primo ministero (1777-1781) e alladestituzione che ha dovuto subire: «Entretous ceux qui paraissent sur la scène dumonde, c’est surtout le ministre des finan-ces qui doit ménager avec le plus de soin l’o-pinion publique»1. Necker si riferisce dun-que alla sua esperienza, al successo ottenu-to pubblicando nel 1781 il Compte rendu auroi2, e al sostegno politico e finanziario chechiama nello stesso passaggio «considéra-tion» o «confiance»3. Il banchiere Neckerutilizzerà di nuovo questa leva politica efinanziaria nell’agosto 1788, nel momentoin cui – contro il parere della regina – vie-ne richiamato al potere «pour donner desgages à l’opinion publique», così come scri-verà sua figlia, Mme de Staël. Il secondoprofilo metodologico da considerare è che

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Tra concetto e idea-forza:l’opinione pubblica secondo Necker*

lucien jaume

giornale di storia costituzionale n. 6 / II semestre 2003

* Questo saggio apparirà in francese in L’avènement del’opinion publique. Concept, pratique et rhétorique politique(Euro-Amérique, XVII-XIXème siècle), sous dir. Javier Fer-nández Sebastián, Paris, l’Harmattan.

Necker vuole parlare dell’opinione in Fran-cia: in particolare della sociabilità e dellacultura politica di questo paese nel corsodella propria storia, come afferma in diver-si testi. Da qui deriva il passo che Habermasha reso celebre:

C’est ainsi que la plupart des étrangers […] ontpeine à se faire une juste idée de l’autorité qu’e-xerce en France l’opinion publique: ils com-prennent difficilement ce que c’est qu’une puis-sance invisible, qui, sans trésors, sans garde etsans armée, donne des lois à la ville, à la Cour, etjusque dans le palais des rois.[De l’administration des finances, p. LII]

Necker traccia anche una breve storiadelle condizioni nelle quali l’opinione pub-blica è sbocciata ed ha poi acquistato forzanell’ambito della monarchia francese. Sia-mo lontani da una teoria generale dell’opi-nione come elemento del governo rappre-sentativo o delle monarchie costituzionali:confrontandolo con l’Inghilterra, ed anchecoi governi repubblicani, Necker fa del casofrancese un caso specifico. Non si può direlo stesso della Théorie de l’opinion publique(questo è il titolo) che Roederer scriverà nel1797 (senza però pubblicarla) e che si pro-pone una valenza generale che, effettiva-mente, non è priva di fondamento: nonmancheremo di operare un confronto conquesto autore contemporaneo di Necker.

Pragmatico, legato al caso francese e incostante evoluzione, il pensiero di Neckerdeve essere contestualizzato per evitarecontrosensi e anacronismi. Converrà, anzi-tutto, precisare le condizioni nelle quali lamonarchia degli anni 1770-1789 vedenascere un “ricorso all’opinione pubblica”:il problema della rappresentanza dellasocietà riveste, come noto, una grandeimportanza, e i Parlamenti (corti giudizia-

rie) se ne impadroniscono con avidità. Suquesto terreno, Turgot e Necker scelgonouna via e un tipo di razionalità politica dif-ferenti. Entrambi sono riformatori,entrambi istituiscono delle assemblee pro-vinciali, entrambi infine sono sconfitti daiParlamenti; ma Necker scommette sull’o-pinione pubblica (come lui la intende),mentre Turgot ritiene di dover credereall’autorità monarchica rigenerata attra-verso il discorso della Ragione: il Mémoiresur les municipalités, scritto per Turgot daDupont de Nemours, confermerà la diver-sità di concezioni. Questo confronto saràcompiuto nella parte in cui esamineremole fonti, o modelli nel pensiero di Necker:la sovranità assolutista alla francese, lasociabilità così come Necker l’analizza e latraduce nella vita pubblica (esperienza deisalons, tra cui quello della moglie), l’attivi-tà finanziaria.

Infine, bisognerà evidenziare i silenziriscontrabili nel pensiero di Necker e ten-tare di indicarne le ragioni; il silenzio sul-l’individuo come essere partecipe dell’opi-nione, il silenzio sui meccanismi propria-mente sociologici, in una società stratifi-cata, e alla base della formazione di un’opi-nione maggioritaria comprovata come tale:questioni che non sono anacronistiche sedei contemporanei come Delolme o Roe-derer le hanno presenti.

1. Le circostanze dell’“appello all’opinione”nella monarchia francese

Secondo la tesi proposta da Henri Grangenella sua insostituibile opera su Necker (Lesidées de Necker, p. 383), poi ripresa, almenoin parte, da Keith Baker4, allorché Necker

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invocava l’opinione pubblica, egli pensavaa un surrogato del corpo rappresentativo. E,infatti, il grande problema della monarchiaassoluta francese è connesso all’ereditàlasciata da Luigi XIV in termini di istituzio-ni e di un certo modo di governare, mentre,durante i regni di Luigi XV e di Luigi XVI, lamonarchia è costretta a far riapparire, poi acombattere, ciò che Luigi XIV aveva elimi-nato al momento della presa del potere: lafacoltà di remontrance dei Parlamenti.Questi tendevano al tempo stesso ad usur-pare la capacità legislativa del sovrano e apresentarsi come un corpo intermedio tra ilsovrano e la nazione. Alla vigilia della Rivo-luzione francese, queste “corti sovrane” (unappellativo che Luigi XIV aveva loro negato)arrivano ad attribuirsi il titolo di “rappre-sentanti della nazione”, in assenza degli Sta-ti Generali, mai più convocati dopo il 1614.Dal 1753, rivolgendosi al re, il Parlamento diParigi sostiene di «représenter à vos sujetsla personne même de V.M. [et] représentervos sujets aux yeux de V.M.». Questa insi-stenza nel separare il sovrano dal corpo del-la nazione minava alla radice uno dei trattiessenziali della retorica e dell’immaginarioassolutisti: l’incorporazione al re della nazio-ne5. Così, nella seduta detta della Flagella-zione (1766), Luigi XV rivendica per sé «lesdroits et les intérêts de la nation dont on osefaire un corps séparé du monarque» (Flam-mermont, Tourneux, Remontrances du Parle-ment de Paris au XVIIIème siècle, t. 2, pp. 556-559)6. Egli afferma: «Mon peuple n’estqu’un avec moi».

L’immaginario assolutista è quello del-l’identità del re e della nazione, essendo talelegame identitario concepito al contempocome rappresentanza (il re vuole per lanazione) e come unità organica (il re “con-tiene” i suoi popoli che trasforma in una

totalità armoniosa, come nel Leviatano diHobbes). D’altronde, la retorica parlamen-tare sapeva, se del caso, giocare sulla falsa-riga di tale registro, qualora bisognasse, peresempio, combattere il Consiglio del rechiamato Gran consiglio. Nel 1755, il Parla-mento di Parigi descrive così la fusione delmonarca e del popolo:

Un souverain, mobile universel, âme de tous sesétats, qui seul agit partout, dont les moindresimpressions se portent avec rapidité dans toutel’étendue du corps politique et forment à l’in-stant même des mouvements proportionnés auxvues de leurs auteurs, mais des mouvements quisemblent naître dans les membres eux-mêmes.[27 novembre 1755, Remontrances, t. 2, p. 34]

Anche se la realtà amministrativa eradiversa e, in ogni caso, più complessa, sicomprende come questa visione ufficializ-zata abbia ostacolato i vari tentativi deiriformatori della monarchia francese.Come corrispondere alle domande dellasocietà – domande, tra l’altro, conflittuali,in una società di corpi e di privilegi – se l’i-deologia fondamentale del potere è che “l’i-stituzione della legge” non può discenderené dal concorso né dall’istanza della socie-tà? Le Assemblee di notabili, le ripetuterichieste (per esempio in Malesherbes) diriunione degli Stati Generali, i tentativi didare vita ad assemblee provinciali (idea allamoda negli anni ’70) infrangono il credoufficiale, ripreso ancora una volta da Mau-peou che fa parlare il sovrano:

Nous voulons rappeler à nos Cours les principesdont elles ne doivent jamais s’écarter: nous netenons notre couronne que de Dieu; le droit defaire des lois, par lesquelles nos sujets doiventêtre conduits et gouvernés, nous appartient ànous seul, sans dépendance et sans partage.[Preambolo dell’editto del dicembre 1770, in Badin-ter, Les « Remontrances », p. 54]7

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L’appello all’opinione pubblica saràdunque, in modo chiaro, una strategia dirottura col discorso classico, imposto a par-tire dall’epoca di Luigi XIV. Allo stessomodo Necker non ha timore ad affermareche «c’est l’ascendant de l’opinion publi-que qui, souvent, (…) oppose des obsta-cles, en France, aux abus de l’autorité» (Del’administration des finances, p. LIV)8. Siachiaro: non si parla certo dei Parlamenti, lacui lotta, apparentemente in favore dellanazione, conserva i privilegi (e i propriinteressi di ordine magistratuale), difendel’intolleranza e manda al rogo le opere diJean-Jacques Rousseau… Un po’ oltre,spiega che questo è il significato della prin-cipale differenza con l’Inghilterra: in Fran-cia, c’è bisogno che l’intenzione del legis-latore sovrano sia chiaramente esplicitata,per questa ragione ci sono «les préambu-les d’édit, [qui] sont une forme particuliè-re au gouvernement français»9. Mentre«dans les pays de liberté, tels que l’Angle-terre, toutes les lois nouvelles étant discu-tées dans une assemblée des députés de lanation, les peuples sont éclairés, ou censésl’être au moment où ces lois sont détermi-nées» (De l’administration des finances, p.LIX), e a ciò s’aggiunge il ruolo dei giorna-li, delle raccolte dei dibattiti parlamentari,delle riunioni dei club.

Necker sottintende forse che la Francianon è un «un pays de liberté»? Perlome-no, potrebbe diventare una “monarchiatemperata” (come afferma spesso), ed è ilsenso della perorazione a favore del matri-monio con l’opinione pubblica: la riformadello Stato non può trarre origine che da unministro avveduto (lo stesso Necker) postoall’ascolto di ciò che proviene dalla società(delle sue élites prima di tutto). «Sans dou-te, dans une monarchie telle que la France,

il est aisé de se faire obéir; mais une sou-mission éclairée détruit-elle le charme del’autorité?» (ibidem, p. LX). Ottenere la«soumission éclairée», sarebbe rivolgereall’opinione il linguaggio che essa puòintendere, senza cedere sul fatto che l’au-torità è «sans dépendance et sans parta-ge», come è stato ricordato quattordicianni prima. Ma è così sicuro? È conciliabi-le con ciò che Necker diceva poc’anzi: l’o-pinione è una «autorité», «une puissan-ce», essa «donne des lois à la ville, à laCour, et jusque dans le palais des rois»?Prudenza, equilibrio, o diversità delleimmagini che giungono a sollecitare unpensiero? Bisogna cercare di individuare imodelli che guidano l’argomentazione diNecker; l’opinione pubblica è per lui unaidea-forza, nel senso di Fouillée, piuttostoche un concetto10.

2. Le fonti d’ispirazione di Necker

a – Due sovrani allo stesso tempo?

Il testo forse più interessante, poiché rive-la la sorprendente (e oscura) complessitàdel volto dell’opinione in Necker, si trovanei Nouveaux éclaircissements sur le Compterendu au roi (in Œuvres complètes, 1820-1821)11, opera pubblicata nel settembre1788, in risposta a Calonne che aveva pub-blicato una memoria contro il Compte ren-du: Necker è stato richiamato al governo, siappresta a redigere il regolamento per laconvocazione degli Stati Generali, prima diessere nuovamente (11 luglio 1789) desti-tuito, e poi trionfalmente richiamato (let-tera regia del 16 luglio, con il ritorno a Pari-gi avvenuto il 30 dello stesso mese).

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Autentico manifesto del fenomeno cheNecker non definisce più autorità ma“potenza”, il testo tenta di rispondere ad unatriplice finalità: 1) valorizzare l’opinionepubblica, forte di tutto ciò che la sovranitàdel re (supportata dai ministri) non puòcompiere, 2) mostrare che questa entità nonè comunque una rivale del sovrano, 3) spie-gare perché, pur così potente, l’opinione puònondimeno essere disprezzata, soffocata,addirittura pervertita. Chiave di questa argo-mentazione (piuttosto tortuosa), è in effettiun bersaglio concreto: gli avversari di Nec-ker, come Calonne, i cattivi ministri che nonsanno – o non vogliono – amministraredinanzi e con l’opinione. L’intero testo o,piuttosto, l’allocuzione12 di Necker è pro-nunciata avendo presente il punto di vista delre: l’autore parla qui in quanto consiglieredel principe, la cui presenza si intuisce comeuditore o interlocutore silenzioso. Ma questoprincipe non è più il sovrano saggio, onni-sciente e dotato dell’Autorità, così come loimmaginava un Bossuet o un Massillon. Èpiuttosto qualcuno che sarebbe in grado diutilizzare l’opinione pubblica; perché questa“potenza” è uno strumento al servizio di altripiù che di sé stessa: si può «ménager sonassistance», la si può egualmente prenderecome « instrument de caprice ou de tyran-nie»; se essa si riveste dei simboli del pote-re, è comunque il principe che ne avrà il con-trollo: «si l’on venait à agiter son sceptre avecindifférence…». Essa ha la sua «corte»,possiede le sue «ricompense», serve a (diri-gere, ammorbidire gl’amministratori)…

La domanda che si pone l’oratore non èdunque “Che cos’è l’opinione pubblica?”,ma “Come utilizzarla?”. Bisogna saperlausare, per il bene, ma c’è anche chi sa ser-virsene per commettere il male. Di questaforza senza un vero soggetto (fonte o auto-

re), Necker fornisce un’immagine essen-zialmente pragmatica, poiché s’interessa,come ha osservato Marcel Gauchet, alla“governabilità” (Gauchet, «Necker»).Necker sottolinea anzitutto, per il re, l’usoche i cattivi ministri fanno dell’opinione:«ils emploient l’autorité du prince à le cir-conscrire lui-même dans un plus petitespace». Inoltre, mostrandoci ciò che eglivuol fare, ci fa comprendere, per mezzo dicorollari, i diversi elementi di insufficien-za e di debolezza della sovranità del re diFrancia: questa non è, come l’opinione,«constamment en harmonie avec nosmœurs et avec notre esprit social», e, comesi vedrà, è questo «esprit social», o «espritde société», ad essere la grande risorsafrancese. Essa non concede neppure lericompense che sono «préférables auxgrandeurs et à la fortune»: il credito d’opi-

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Jacques Necker

nione è divenuto un valore più potente deltradizionale onore aristocratico. La sovra-nità, infine, non possiede abbastanza risor-se da contrapporre all’arbitrario ammini-strativo: basti pensare alla critica rivolta agliintendenti da Necker stesso, e soprattuttopresente nell’opera di Malesherbes13.

Il potere sovrano non potrà dunque rea-lizzare i suoi obiettivi o riparare i suoi malisenza l’appoggio della potenza provenientedalla società, l’opinione pubblica: Necker siallontana così da tutto il discorso ufficialedella monarchia. Egli ha nei fatti assuntocome modello per l’opinione gli attributiclassici della sovranità: il sapere, la forza, ilcontrollo, il prestigio dell’autorità14. Deveanche dichiarare in sua difesa, a costo didinieghi abbastanza evidenti: «la seulepuissance qui ne soit pas la rivale du trône(…). Que les princes ne prêtent jamais l’o-reille à ceux qui (…). Qu’ils ne croientpoint…». Il re di Necker non è più il sovra-no dell’Antico regime francese, ma non èneppure – lo si capisce – il “Re in Parla-mento” dell’Inghilterra.

Che cos’è allora? Dovrebbe soprinten-dere al rapporto tra un buon governante e lanazione: ricordiamo che Necker è il primoad aver introdotto nella lingua francese iltermine politica di “responsabilità”. L’ideadi opinione pubblica a cui Necker crede(idea-forza più che concetto razionale)avrebbe per effetto la promozione di ungabinetto che governa in quanto ha la fidu-cia di tutto ciò che conta nella nazione. Insua assenza, «le trône des rois» (in Fran-cia) potrebbe un giorno ritrovarsi «commeau milieu d’un désert». La «seule puissan-ce» in grado di sostenere le riforme stadunque nella figura di colui che saprebbe(saprà?) maneggiarla: il ministro JacquesNecker.

Questo testo del 1788 è doppiamenteaudace: per la flessione dell’autorità delprincipe di cui mostra, sebbene in manieraindiretta, i caratteri, per l’inflazione delnuovo potere, ausiliario o concorrente, del-l’opinione, ch’egli mette in scena e di cuicomprende che gli uomini politici saprannosempre più sfruttare gl’effetti. Lo stessoNecker tenterà di farlo, ricevendone peròuna profonda delusione. Nel 1791, traccian-do un bilancio del suo fallimento, confessa lasua sorpresa: «Enfin, je ne sais trop pour-quoi, l’opinion publique n’est plus à mesyeux ce qu’elle était. Le respect que je lui aireligieusement rendu, ce respect s’est affai-bli, quand je l’ai vue soumise aux artificesdes méchants, quand je l’ai vue tremblerdevant les mêmes hommes qu’autrefois elleeût fait paraître à son tribunal pour les vouerà la honte, et les marquer du sceau de saréprobation» (De l’administration de M. Nec-ker par lui-même, 1791, cit. da Bredin, Unesingulière famille, p. 282; v. inoltre Id., Nec-ker et l’opinion publique).

La formula «esprit religieux» evocabene l’ispirazione che ha mosso Necker aimmaginare questa entità, potente, giustae ragionevole che, tre anni prima, chiama-va opinione pubblica. Non è lontano dalcredere che si tratti di un fantasma; ma,applicando le sue stesse categorie defini-torie, potrebbe comprendere che anche i“cattivi” sanno strumentalizzare l’opinionepubblica: è così pronto ad ammettere che lapopolarità politica non è un elemento per-manente, ma, come mostra l’Inghilterra,un indicatore provvisorio dei legami tra ilgoverno e la società, un sondaggio in ter-mini di legittimità, se così si può dire.Comunque, è significativo che, nello stes-so scritto del 1791, Necker faccia dellaRagione il suo nuovo idolo: «Quel temps! et

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quel spectacle se présente partout à nosregards! Jamais on ne voit un mélange detant d’idées factices et de tant de folies. […]Ô raison! céleste raison! image de l’espritqui forme le monde…» (ibidem, p. 296).

Nelle sue riflessioni successive, Neckerritornerà all’idea dell’opinione come forzasociale indivisa e promotrice del progres-so; gli oppone i regimi dispotici:

Deux époques favorables pour l’usage de la for-ce: l’une sous Richelieu, lorsque l’autorité de l’o-pinion publique n’était pas formée; l’autre, lors-que, par la fatigue de la Révolution, cette autori-té était détruite.[Manuscrits de M. Necker, p. 58]15

b – Turgot e Necker: politica della ragione epolitica dell’opinione

In sintesi, l’idea che guida Necker un annoprima della Rivoluzione, idea che non espri-me in maniera esplicita, è la seguente: “lasocietà sa, ma la società non può agire”. Nederiva un “sapere” che, paradossalmente, sirivela al tempo stesso debole (in quantomanipolabile) e potente (in quanto temibi-le per il politico di professione). Da ciòdiscende il progetto di Necker: l’uomo poli-tico che saprà capitalizzare il sapere presen-te nella società, ne avrà la sua riconoscenza,o, per usare le parole di Necker, un « tributd’opinion »16. È vero quindi che Neckerdescrive un aspetto del governo modernod’opinione (a tal punto che, oggi, anche l’e-conomia e la guerra si fanno con l’opinione).

Necker appare più vicino a noi di Turgot,altro riformatore dell’epoca. Questi, infatti,non si preoccupa affatto dell’opinione pub-blica; non nel senso che egli non vorrebberivolgersi ai governati – è l’esatto contrario–, ma nel senso che solo la razionalità deveanimare e organizzare la vita politica. Da

questo punto di vista, il Mémoire sur les muni-cipalités è un capolavoro di architettura uto-pica, alla Nicolas Ledoux. Nella vena fisio-cratica (benché se ne guardi), Turgot gioca lacarta del sovrano di autorità, che può tuttose identificato con la sovranità della ragio-ne18. In questo testo redatto nel 1775 (ma nonrimesso al re)19, l’autore afferma:

La plus grande de toutes les puissances est uneconscience pure et éclairée dans ceux à qui laProvidence a remis l’autorité.[…] V. M. peutdonc se regarder comme un législateur absolu etcompter sur sa bonne nation pour l’exécution deses ordres.[Mémoire sur les municipalités, p. 575]20

Secondo un sistema piramidale diassemblee (municipalità, assemblee di can-tone, assemblee provinciali, assembleagenerale), basate sulla proprietà della terra(il reddito dà diritto a un voto proporziona-le), i proprietari censiranno e ripartirannol’imposta alla luce dell’evidenza razionale; sistenderà «un état de la France» (catasto) inmodo che l’occhio del sovrano possa, in unbaleno, arrivare sino ai più reconditi puntidel territorio: «tellement que si l’on parlaitdevant Vous d’un village, Vous pourriez àl’instant, Sire, voir sa position, […] savoirquels sont les particuliers qui y ont du bien,quelle est la forme et quels sont les revenusde leurs métiers » (Mémoire sur les munici-palités, p. 620). Non c’è affatto bisogno quidi consenso o di negoziazione (preoccupa-zioni queste di Necker), ma soltanto di unpiano d’istruzione nazionale da realizzare inogni parrocchia (è ciò che fece Guizot: leggedel 1833 sull’istruzione primaria).

Niente negoziazioni in quanto non esi-stono “controforze” (nel significato fisio-cratico), niente resistenze in quanto venen-do meno il diritto dei privilegiati, esercite-

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rà una coazione e una sorveglianza recipro-che tra gli interessi individuali naturali eperciò veri. Librandosi al di sopra di questoedificio, l’autorità del sovrano sarà piena eintera: «Vous êtes forcé de statuer sur tout,et le plus souvent par des volontés particu-lières, tandis que Vous pourriez gouvernercomme Dieu par des lois générales»(Mémoire sur les municipalités, p. 576).

Il sovrano, così comparato al Dio diMalebranche, è agli antipodi del principedi Necker: egli accede da solo (una voltarealizzata la riforma) alla completa traspa-renza del territorio, degli interessi e del-l’unità del sistema sociale21. Non c’è biso-gno di opinione pubblica, mormoriosovente confuso e capriccioso, bensì di unabuona educazione degli spiriti22.

Mentre Necker vede il pericolo di un reche siede su un trono «au milieu d’undésert » in mancanza dell’appoggio dell’opi-nione, Turgot se lo rappresenta circondato daun coro di spiriti razionali, e inoltre, in casodi mancanza di consenso, «toujours maîtrede faire des réformes d’autorité, après avoirétabli leur utilité, dont, en général, chacunconviendrait» (Mémoire sur les municipalités,p. 619): il consenso finirà per apparire! Stu-pefacente faccia a faccia di due personaggi chedevono rispondere a un modello di autoritàstabilito dopo Luigi XIV e che giocano, l’unola carta dell’expertise e dell’autorità tecnica,l’altro quella del commerce des esprits e del cre-dito finanziario: sono infatti a queste due fon-ti che il pensiero di Necker trae alimento.

c – L’opinione, sovrana dei salotti

Se è bene non assegnare al pensiero di Nec-ker un significato troppo contemporaneo, èaltrettanto importante fare attenzione a ciò

che definisce, nei suoi diversi scritti,«esprit de société» e «esprit d’imitation»–, come fa in particolare nell’Introduzionea De l’administration des finances. Secondol’autore, l’«esprit de société»

règne dans toute sa force au milieu d’une nationsensible, qui aime également à juger et à paraître[…], chez une nation enfin, où, peut-être, unpenchant général à l’imitation prévient la multi-plicité des opinions et rend faibles toutes cellesqui sont isolées.[De l’administration des finances, pp. LII-LIII]

È probabile che qui Necker utilizzi allostesso tempo una sua esperienza (i salotti) euna pratica d’analisi che è quella dei filoso-fi scozzesi. L’imitazione come meccanismosociale è un tema ben conosciuto all’epoca eoccupa un posto fondamentale nella filoso-fia di Hume (teoria della “simpatia”)23.Aggiungiamo che l’«esprit de société» è unacaratteristica che Hume attribuisce esplici-tamente ai Francesi: «Ils sont en grandepartie les créateurs parfaits de cet art le plusutile et le plus agréable de tous, l’art de vivre,art de la société et de la conversation» («Dela liberté civile», in D. Hume, Essais moraux,p. 136). E precisamente, per Hume, il pro-blema è di sapere come sotto una monarchiaassoluta, cioé una società non libera, abbiapotuto formarsi e continui ancora una tale« floraison des arts et des sciences », pro-blema connesso a quello che Necker affron-ta nel suo testo. In effetti, Necker, qualcherigo prima, spiega come Luigi XIV ha al con-tempo reso possibile la nascita dell’opinio-ne pubblica (ha messo fine definitivamenteagli strascichi della Fronda), ne ha impedi-to la sua espansione24 e ha posto le condi-zioni per una ulteriore fioritura:

Louis XIV, et les hommes célèbres qui firent l’or-nement de son siècle, laissèrent après eux les traces

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du beau. […] La nation avait appris ce qu’elle devaitadmirer […]. De telles dispositions devaient néces-sairement préparer l’empire de l’opinion publique.

[De l’administration des finances, p. L]

Così, cio che Necker definisce «l’amourdes égards et de la louange», tutte cose chesono per lui la vita stessa dell’opinione pub-blica, il modo con cui essa sottopone a ungiudizio i personaggi più in vista25, rispon-de alla grande esperienza francese dei salot-ti, dominati dallo spirito aristocratico, comedimostra il libro di Benedetta Craveri (L’â-ge de la conversation, in part. cap. XIII: «L’e-sprit de société»). Questa esperienza della«conversation», che si trasmette (attraver-so diverse figure) fino al 1789, è una fontedel pensiero di Necker. Lui stesso – spiritoraffinato, capace di scrivere Le bonheur dessots, ma tutt’altro che a suo agio in pubblico– aveva sotto gli occhi un tipo preciso disociabilità (a cominciare dal salotto dellamoglie) che lo ispira quando descrive ciòche chiama opinione pubblica: «Cepen-dant, cette réunion d’opinions, cet esprit desociété, cette communication continuelleentre les hommes, doivent donner du prixaux suffrages des autres, et faire aimer par-dessus tout la considération, les égards, l’e-stime et la renommée» (De l’administrationdes finances, p. LII). Il salotto è il luogo nelquale i suffragi si incontrano, si confronta-no e stabiliscono il premio da assegnare, imeriti da incoronare: la «réunion d’opi-nions» (pluralità) diviene, grazie a una«communication continuelle», una opi-nione comune, unificata. Marmontel,Grimm, Voltaire o Fontenelle ci insegnanodunque ciò che bisogna intendere per«opinion» in Necker. È Voltaire, comeHume, ad aver scritto che «l’esprit de socié-té est le partage naturel des Français», èMme de Staël che dirà che «l’esprit de con-

versation a sérieusement développé chez lesFrançais l’esprit plus sérieux des négocia-tions politiques»; ma è anche la stessa Mme

Necker che mette a confronto il «gouver-nement d’une conversation» con il gover-no di uno Stato26.

Si comprende come l’opinione pubbli-ca di Necker presupponga un gruppo abba-stanza omogeneo, diversificato nei suoigiudizi, ma comunque sufficientementeunito per sentire un «penchant à l’imita-tion»; un gruppo capace d’imparzialità, direndere giustizia al merito, facendo taceremomentaneamente i mille amor-proprioche percorrono l’assemblea: l’opinionepubblica neckeriana si colloca tra l’accade-mia letteraria di provincia e la gazzetta deiPaesi Bassi. Si capisce anche come la delu-sione dovette essere grande; lo Stato nonpuò essere governato come una accademia.

Ripercorrendo l’analisi dei moralisti,tanto in termini d’amor proprio (i gianse-nisti) che in termini di simpatia sociale (gliScozzesi), Necker descrive i «biens de pureimagination»:

les richesses elles-mêmes sont converties parceux qui les possèdent en biens de pure imagi-nation: ces lambris dorés, des parures éclatantes,ce cortège de valets […], que feraient-ils au bon-heur sans le prix qu’on attache à l’impressionque pourront faire sur les autres ce luxe et cettevaine splendeur? […] Comment serait-on éton-né d’un empire plus noble et plus raisonnable, decelui de l’opinion publique?[De l’administration des finances, pp. LIII-LIV]27

d – L’opinione pubblica: «essere in credito»

Necker non fa che suggerirlo, quando parladelle «richesses» convertite dall’immagi-nazione: la sua esperienza di banchiere è laterza fonte del suo modo di vedere l’opinio-

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137

ne. «Avoir du crédit auprès de quelqu’un»,«être en crédit à la Cour», sono altrettanteformule che segnalano un rapporto di fidu-cia indispensabile sia nelle operazionifinanziarie che nel supporto dato a qualcu-no o a un potere sociale. Mme de Staël viinsisterà nelle Considérations sur la Révolu-tion française, laddove individua gli elemen-ti della carriera e le difficoltà incontrate dalpadre. In particolare, la figlia scrive che

peu de mois avant d’être nommé ministre [lapremière fois], M. Necker fit un voyage enAngleterre. […] Ce qu’il étudia particulièrement,c’est la grande influence de la publicité sur le cré-dit, et les moyens immenses que donne uneassemblée représentative pour soutenir et pourrenouveler les ressources financières de l’Etat.[Considérations sur la Révolution française, p. 87]

Un po’ oltre Mme de Staël spiega che, invia generale, un governo arbitrario, «soitrévolutionnaire soit despotique», non puòcapitalizzare una legittimità poiché, inevi-tabilmente, maltratta le fonti della ricchez-za, i circuiti dello scambio economico. E,facendo quasi parlare suo padre, enuncia laseguente tesi:

Le crédit est donc la véritable découverte moder-ne qui lie les gouvernements avec les peuples.C’est le besoin du crédit qui oblige les gouverne-ments à ménager l’opinion publique; et, demême que le commerce a civilisé les nations, lecrédit, qui en est une conséquence, a rendunécessaires des formes constitutionnelles quel-conques, pour assumer la publicité et les finan-ces et garantir les engagements contractés.[ibidem, p. 90]

Prosegue inoltre osservando che ilnome di suo padre «inspirait une telle con-fiance que, très imprudemment même, lescapitalistes de l’Europe ont compté sur luicomme sur un gouvernement, oubliant

qu’il pouvait perdre sa place d’un instant àl’autre».

Non svilupperemo qui i numerosi pas-saggi nei quali Necker fa un parallelo tra ilcredito finanziario e l’appoggio dato a ungoverno; si comprende che, per lui, il mini-stro delle finanze «doit ménager avec leplus de soin l’opinion publique» (come siè già visto), perché, se così si può dire, que-sto personaggio parla dell’oro! Avere unministro delle finanze che sia professio-nalmente un finanziere, significava a suoavviso cumulare la competenza dell’esper-to, il merito individuale (lo stesso di Nec-ker), il meccanismo dell’opinione legatoalla funzione ministeriale. Così diventava-no una sola cosa l’autorità (riferita allo Sta-to), il suffragio (secondo la pratica deisalotti) e l’expertise (il finanziere di Gine-vra): l’opinione pubblica è davvero l’ombracostante dell’idea che Necker aveva del-l’uomo politico in generale, e di un uomo inparticolare che il re di Francia doveva chia-mare, o mantenere, al potere.

Ciò significava tenere in scarsa consi-derazione i conflitti e le rivalità che un talearrivo “clamoroso” non mancava di pro-durre, ma la visione non era destituita difondamento se la confrontiamo con ciò che,molto più tardi, si definirà con l’espressio-ne «grandir chaque jour dans l’opinion».Questo alone di aspettative, speranze eammirazione mista a invidia, che è il desti-no dell’uomo politico democratico, Neckerl’ha percepito con finezza e intensità. Sor-prendente è che ciò che valeva per unasocietà segnata dalla cultura aristocraticadei salotti consente comparazioni e traspo-sizioni rispetto alla società del suffragiouniversale – riguardando anche la carrieradi un tale cavaliere d’industria, di un talefinanziere… I media hanno preso il posto

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dei salotti: essi distribuiscono i “suffragi”(nel significato proprio del XVIII secolo enon in quello del voto).

3. L’individuo, le masse e l’opinione: una pro-spettiva assente

È storicamente assurdo chiedere ad unautore di condividere le nostre aspettativee i nostri punti di vista in una società che èdifferente, a meno che i contemporaneiabbiano loro stessi evidenziato delle lacu-ne in un determinato modo di pensare adessi coevo. Noi possiamo notare quantoNecker sia poco sensibile alla diversitàsociologica delle fonti dell’opinione e alruolo che l’individuo vi può avere, sia comefonte che come bersaglio. Era troppo pre-sto per porre un certo tipo di questioni,bisognava piuttosto attendere l’analisi del-la sociabilità democratica compiuta da Toc-queville (1835-1840), all’interno del labo-ratorio americano? Alcuni contemporaneidi Necker sono andati tuttavia più avanti,che si tratti del compatriota Delolme o, inFrancia, di Roederer, durante il Direttorio.

Delolme28 intitola il capitolo XXI dellasua opera: «Droit de résistance», il cheindica con quale spirito studia le espres-sioni dell’opinione presso i governati, inInghilterra. Non c’è traccia di sovversionenell’opera del prudente Ginevrino29, ben-sì l’idea che è bene, per l’ordine sociale, cheil cittadino si senta parte attiva di un dibat-tito che, non soltanto si svolge sotto i suoiocchi, ma con la sua diretta partecipazio-ne; o, come elegantemente osserva l’auto-re, l’individuo acquista «une sorte d’im-portance législative bien plus efficace et bienplus utile que quelque droit formel qu’il pût

avoir de voter». È essenziale per la vitalitàdell’opinione pubblica che l’individuo per-cepisca se stesso in termini di azione e direazione con la totalità del corpo sociale:

Mais lorsque [les gouvernants] voient qu’il n’estaucune de leur action qui ne soit exposée augrand jour; que, par la vivacité avec laquelle toutse communique, la nation forme, pour ainsi dire,un tout irritable, dont aucune partie ne peut êtretouchée sans exciter un frémissement universel,ils sentent alors que la cause de chacun est la cau-se de tous; et qu’attaquer le dernier d’entre lepeuple, c’est attaquer tout le peuple.[Constitution de l’Angleterre, p. 246]

Fare in modo che la totalità sociale sia“rappresentata” nell’immaginazione delgovernante e nel giudizio del governato,questo è il segreto della vita politica e del-la sociabilità inglesi: siamo lontani dal suf-fragio dei salotti (in una società nella qua-le tuttavia l’aristocrazia gode di un elevatoprestigio). Benjamin Constant ne ricordala lezione e cita questo testo in uno dei suoiinterventi a favore della libertà di stampa(De la liberté des brochures, p. 1266). Nec-ker, malgrado la sua anglofilia, non puòamare questa irritabilità e questo «frémis-sement universel»; non è più opinionepubblica, è già plebaglia30.

Se ci rivolgiamo adesso verso un altrotema affrontato da un contemporaneo, Roe-derer, che conosce molto bene le opere diNecker31, è una teoria della genesi dell’opi-nione che troviamo32. La preoccupazionedell’autore è di rendere conto dei diversistrati sociali attraverso cui si fa strada unarivendicazione e un giudizio che, da un cer-to momento, si esprimerà come “maggio-ranza nazionale”, la quale deve essere tenu-ta distinta dalla “maggioranza legale” che sipronuncia nelle urne. Si tratta di una teoriadei «faiseurs d’opinion» (giornalisti, poli-

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tici, scrittori), che non possono avere uncerto potere se non riescono ad entrare insintonia con un «sentiment général» pre-sente negli strati popolari: «le sentimentgénéral et l’opinion publique sont les deux etles seules expressions de la majorité natu-relle; mais il ne faut pas les confondre»(Roederer, De la majorité nationale, in Jau-me, Echec au libéralisme, p. 99). La maggio-ranza legale fa la legge, ma «il importe aus-si que l’autre soit toujours observée, écoutée,consultée». Non rimane dunque che analiz-zare il meccanismo genetico dell’opinionepublica, ovvero come essa provenga, in ulti-ma analisi, dal sentimento generale.

Attraverso un’analisi dettagliata (chenon sarà qui riportata), Roederer mostracome il «premier cri» sale dallo strato piùbasso, e come, mediante “filtraggi” succes-sivi (è questa l’immagine utilizzata), attra-versando diversi ambienti sociali (cinquesecondo l’autore), il sentimento si traducegrazie agli «hommes de talent» in artico-lo di giornale, in discorso d’assemblea, inespressione letteraria:

L’homme de talent observe, médite, s’échauffe, etson opinion se forme. Il prend la plume; il expri-me énergiquement le sentiment général, il proposeses vues pour l’amélioration des affaires. Sonouvrage paraît; il confirme, justifie, approfondit lesentiment général et il commence l’opinion publique.[De la majorité nationale, in Jaume, Echec au libé-ralisme, p. 103]

Se dunque esistono «produttori d’opi-nione», Roederer insiste sul fatto che costo-ro non fanno altro che «avviare» l’opinio-ne pubblica: quest’ultima vive realmente nelseno dei vari ambienti sociali (distinti percondizioni di proprietà, mezzi di produzio-ne e istruzione), e delle famiglie, laddove ledonne, i bambini discutono appassionata-

mente dell’idea o della rivendicazione delgiorno: «en tombant dans l’esprit des fem-mes et des jeunes citoyens, elle y [rencon-tre], en quelque sorte, un sol élastique, qui,sans cesse, la renvoie vers sa source et la tienten action» (De la majorité nationale, in Jau-me, Echec au libéralisme, p. 104).

L’opinione pubblica propriamente det-ta si nutre dunque di questa reazione a cate-na tra il vertice della piramide sociale, chene elabora le formulazioni più importanti, ela base dell’edificio, che la rielabora di con-tinuo, in un processo di appropriazioneindividualizzata. Roederer, d’altronde, ha inseguito proposto a Bonaparte alcune tipo-logie d’inchiesta per professione, redditosociale e luoghi di sociabilità al fine diseguire lo stato de «l’esprit public»: «l’e-sprit public n’est autre chose que l’opiniondisposée à l’action», scrive in un testo del1797. Si capisce che un politologo contem-poraneo abbia visto in Roederer un precur-sore della teoria del «two step flow» (Blon-diaux, La fabrique de l’opinion, pp. 54-56).

In effetti, la dialettica del sentimentogenerale e dell’opinione plasmata dalle éli-tes può essere comparata con la situazionedi un pubblico che ricerca l’eco e l’oggetti-vazione delle sue impressioni nella lettura(o nell’ascolto) dei media: le sentiment d’exi-stence d’une majorité può allora essere gene-rato e coltivato; si tratta di una questionecapitale, che il pensiero di Necker non con-sente né di porre né di affrontare, anchedopo l’esperienza rivoluzionaria. In Roede-rer, l’uso dei club, la pratica giornalistica euna notevole attitudine teorica gli hannoconsentito di percepire quanto questo aspet-to diventasse importante per la coscienzamoderna, per gli individui liberi ed eguali.

Si può dunque affermare che esiste un’i-dea neckeriana di opinione, di cui si può

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140

misurare il significato e i limiti solo ricolle-gandola al contesto e ai modelli d’ispirazio-ne. Assegnandole una coerenza più sistema-tica di quanto non faccia il suo autore, l’opi-nione pubblica si può definire come uno spi-rito comune, legato ad una storia nazionalee a determinati usi, e tale da esercitarsi sul-l’apparenza dimostrata dall’attore politico.Il punto d’intersezione tra lo spirito comu-ne e l’apparenza individuale è ciò che Nec-ker chiama «considération». Egli identifi-ca spesso l’opinione con la considerazione,confermando così il fatto che a Necker inte-ressano più gli effetti prodotti dall’opinione

e dal suo uso, che le condizioni genetiche. LaRivoluzione dirà poi la sua sull’idea di“popolarità”, fenomeno che al contemporegistra e teme, come se, ai suoi occhi, soloun monarca potesse essere “popolare” inmaniera legittima come dimostrano i consi-gli prodigati da Mirabeau a Luigi XVI nellasua corrispondenza con la Corte: diventareveramente un “re della Rivoluzione”. Attra-verso l’immagine dell’“eroe”, personaggiooltre modo idolatrato dall’opinione, la Rivo-luzione teme l’arrivo di un Cromwell; e allafine arrivò Bonaparte.

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Appendice

JACQUES NECKER

Nouveaux éclaircissements sur leCompte rendu au roi en 1781(da Œuvres de Necker, éd. Auguste de Staël, 1821, t. II, pp. 599-602)

La situation présente des affaires, le mouve-ment général des esprits, la justice du monar-que, promettent à la nation française un nou-vel ordre de choses qui lui rendra son ancien-ne influence sur les grands intérêts de l’Etat.Le temps seul peut nous apprendre commentelle saura faire usage de cette influence, avecune indépendance et une intégrité soutenues;comment elle saura la conserver pure et sanstaches, au milieu des ambitions et des vani-tés qu’elle aime à satisfaire, et au milieu desmoyens de tout genre qui reposent entre lesmains du gouvernement et qui lui donnent lepouvoir de captiver les esprits par tant d’in-térêts divers. Le temps seul nous apprendraavec quelle sagesse, avec quelle tenue ces dif-férentes forces se concilieront et demeure-ront en équilibre; mais une vérité bien cer-

taine c’est que, dans toutes les circonstances(connues et inconnues) il importe à la nationfrançaise de prendre soin de l’opinion publi-que, d’entretenir son ascendant et de se sou-venir de ses bienfaits; mais pour ménager sonassistance, il faut bien se garder de fairejamais de l’opinion publique un instrumentde caprice ou de tyrannie; car si l’on venait àagiter son sceptre avec indifférence, si l’onvenait à décourager ceux qui la cultivent etceux qui honorent sa cour, on risquerait deperdre, on risquerait d’affaiblir la seule puis-sance qui sera constamment en harmonieavec nos mœurs et avec notre esprit social; laseule puissance avec laquelle on introduit desrécompenses préférables aux grandeurs et àla fortune; la seule avec laquelle on peut, aunom de la justice et de l’honneur, diriger lesadministrateurs et les assouplir, tôt ou tard, aujoug de la raison, quand il leur arrive de vou-loir s’en affranchir; la seule puissance enfinqui ne soit pas la rivale du trône, parce qu’el-le seconde les intentions bienfaisantes dusouverain, en faisant la garde pour lui autourde ceux qui cherchent à le surprendre.

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C’est encore l’opinion publique qui, enjugeant la conduite des gouvernements, saitfaire une juste répartition de ce qui revientaux conseils des ministres et de ce qui appar-tient aux dispositions naturelles et aux pre-miers sentiments du monarque; c’est elle qui,au milieu des règnes les plus agités, a prisl’empreinte des vertus des rois et l’a montréepartout à leurs sujets, afin qu’ils restassentfidèles à l’heureuse habitude de les aimer.Que les princes ne prêtent donc jamais l’o-reille à ceux qui voudraient desservir auprèsd’eux l’opinion publique, à ceux qui vou-draient la dégrader pour se venger de son ini-mitié. Qu’ils ne les croient point lorsque,souvent, ils leur entendront dire que l’opi-nion publique fut toujours importune à l’au-torité ; cette insinuation dangereuse n’a qu’u-ne lueur de vérité. Les facultés humaines nesauraient suffire à toutes les volontés que peutavoir un bon roi ; et ce n’est pas à son bon-heur, ce n’est pas à sa gloire qu’un pouvoirsans bornes est nécessaire; ce sont ses mini-stres qui jouissent du superflu. Ce sont euxqui s’en servent pour en imposer à leurs pro-pres censeurs et pour éloigner de la connais-sance du monarque ce qu’il lui importerait

de savoir. Ils emploient ainsi l’autorité duprince à le circonscrire lui-même dans unplus petit espace; car c’est être circonscrit,c’est être tenu dans une sorte d’esclavage quede ne pouvoir se saisir de la vérité, et d’êtreréduit à la recevoir sous la garantie d’un seulinterprète. Que si l’on rendait encore suspectle bruit sourd mais constant de l’opinionpublique, le trône des rois se trouverait com-me au milieu d’un désert ; et ce n’est qu’àDieu qu’il appartient de connaître seul, delui-même, et des bords de l’immensité, nosbesoins, nos vœux et nos pensées.

Cependant, s’il était vrai que les bornesmêmes de l’autorité souveraine aidassent lesprinces à connaître distinctement et à sentirpersonnellement l’action de leur puissance,l’enceinte que forme autour du trône l’opi-nion publique serait la moins gênante de tou-tes; et c’est en la ménageant cette opinion,c’est en la respectant, du moins dans les inté-rêts les plus délicats, que la France a présen-té longtemps le spectacle particulier d’ungouvernement où la prudence de l’admini-stration, et la généreuse confiance d’unenation, voilaient, pour le bonheur commun,les dernières limites de tous les droits.

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1 De l’administration des finances dela France, p. LV dell’Introduzione.Purtroppo, in almeno otto edizio-ni dello stesso anno, di cui non siconosce quella originale, la pagi-nazione mostra delle varianti: noipossediamo due diversi esemplari.

2 Si stima che in due settimanefurono venduti 30.000 esemplari,e successivamente altri 10.000.Quanto al De l’administration desfinances de la France, diffuso in tut-ta Europa, esso fu «le bestseller duXVIIIe siècle tout entier» (H.Grange, Les idées de Necker, p. 38).

3 Essendo una modalità di governoda opporre al «despotisme», lafiducia «féconde et développetous les moyens de force et derichesse» (De l’administration desfinances, p. LXIV).

4 In Au tribunal de l’opinion, Bakerdesigna come «cour d’appelabstraite» (p. 262) l’istanza invo-cata e celebrata da Necker. Si vedadi quest’opera la sezione intitola-ta «Entre liberté et despotisme»(p. 253 e ss.). Segnaliamo cheanche Mme de Staël ha suggeritol’accostamento: «La publicité duCompte rendu avait pour but desuppléer en quelque manière auxdébats de la Chambre des Com-munes d’Angleterre, en faisantconnaître à tous le véritable état

des finances» (Considérations surla Révolution française, p. 92).

5 Si diceva «La nation ne fait pascorps en France», per dire cheessa riceveva la sua unità dalla per-sona del re. Su questo modello,rielaborato da Hobbes, della«persona rappresentativa», v. ilnostro Hobbes et l’Etat représentatifmoderne. Sull’uso fattone poi dalGoverno dell’anno II, si veda inol-tre il nostro Le discours jacobin et ladémocratie, p. 350 e ss.

6 Tra i rimproveri che il re rivolge aiParlamenti del regno, c’è la prete-sa che «les parlements coopèrentavec la puissance souveraine dansl’établissement des lois».

7 Si tratta di espressioni da avvici-nare a quella di Luigi XIV nelle sueMémoires et instructions pour le dau-phin: «Cet assujettissement quimet le souverain dans la nécessitéde prendre la loi de ses peuples estla dernière calamité où puissetomber un homme de notre rang»(ed. 1816, t. 2, p. 26). Affermandodi «prendre la loi de ses peuples »,Luigi XIV pensava essenzialmenteall’Inghilterra, verso cui era moltocritico: «C’est le défaut essentielde cette monarchie que le princen’y saurait faire de levées extraor-dinaires sans le parlement, ni tenirle parlement assemblé sans dimi-nuer d’autant son autorité».

8 Un capitolo di quest’opera (cap. IVdel secondo tomo) è intitolato:«S’il est de l’intérêt des parle-ments de mettre des obstacles àl’établissement des administra-tions provinciales». Necker èfavorevole, certo, ad una buonaarmonia, grazie al rendiconto del-le sedute che sarà redatto nellevarie assemblee provinciali: «onn’y verrait point un rapport inspi-ré par l’autorité, mais un ouvrageoù l’opinion générale de la pro-vince […] serait nécessairementconnue». Le “corti sovrane” nonapprezzarono né la lezione né laproposta.

9 Preamboli che Turgot consideravaanche come un esercizio di stile,filosofico e politico, assolutamen-te capitale. Si vedano, per esem-pio, le celebri considerazioni sul-l’editto che abolisce le corporazio-ni, maestranze e giurande.

10 In Fouillée, una idea-forza è altempo stesso un fatto di «discer-nimento» intellettuale e una«preferenza » affettiva ed etica.L’idea-forza è dunque un invito adagire, che racchiude una concezio-ne della realtà. Essa mette insie-me l’essere e il dover essere,secondo una combinazione che èpresente in tutte le analisi necke-riane dell’opinione pubblica: A.

Ricerche

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Fouillée, L’évolutionnisme desidées-forces, 1890.

11 In appendice al presente saggioviene riprodotto questo testo sul-l’opinione pubblica (t. 2, pp. 599-602).

12 Lo stile del sermone è evidente, inparticolare nelle molteplici reite-razioni oratorie: «la seule puis-sance qui…» (ripetuto tre volte),« C’est encore l’opinion publiquequi… C’est elle qui…». Neckerpubblicherà anche un Cours demorale religieuse: si veda il DiscoursVII, «Devoirs des princes et desmagistrats suprêmes».

13 Si veda, in E. Badinter, Les« Remontrances » de Malesherbes,l’analisi di ciò che Malesherbes, nel1775, chiama «administrationclandestine» (p. 206) e «despoti-sme» (p. 202). «L’innocent -aggiunge - n’a point en sa faveur derecours à l’opinion publique, quiest un frein si puissant contre latyrannie des subalternes » (p.203).

14 Nella seduta della Flagellazione,Luigi XV affermava: «C’est en mapersonne seule que réside la puis-sance souveraine, dont le caractè-re propre est l’esprit de conseil, dejustice et de raison». Sono proprioquesti gli attributi che Neckerimputa all’opinione pubblica.

15 Queste riflessioni fanno parte di unparagrafo intitolato «La considé-ration». Necker scrive a questoriguardo, denunciando crudamen-te la debolezza in cui era caduto ilpotere regio: «On connaît alorstout le prix de la considération, decette distinction singulière, indé-pendante de la faveur du prince, etque l’opinion décerne à elle seule.On n’a jamais tant recherché laconsidération que sous les règnesde Louis XV et de Louis XVI; c’estque l’opinion était forte et lesmonarques faibles. La société avaitun tribunal plus redouté que l’au-torité du prince» (pp. 57-58).

16 La formula meriterebbe una ana-lisa specifica perchè il tributo è

l’imposta, cioè secondo Montes-quieu una contribuzione volonta-ria.

17 Si legga il bel saggio di PierreRétat, «Turgot réformateur».

18 Impieghiamo a bella posta l’e-spressione inventata da Guizot. Siveda il nostro lavoro, L’individueffacé, p. 167.

19 Il Mémoire fu pubblicato nel 1809da Dupont de Nemours, nelleŒuvres di Turgot. Noi citiamo dal-l’edizione seguente: Œuvres de Tur-got, 1913-1923. Il testo è nel t. 4,pp. 574-621.

20 Si ritrova in questa «consciencepure et éclairée» la «révolution dufor intérieur», così ben analizzatada Koselleck come forza motricedella Rivoluzione (Le règne de la cri-tique, in part. p. 130).

21 Per il momento, dice Turgot attra-verso il suo redattore, «il n’y apoint d’esprit public, parce qu’iln’y a point d’intérêt commun visi-ble et connu», occorre dunquecreare «un esprit d’ordre et d’u-nion» (Mémoire sur les municipa-lités, p. 578). Non si tratta, lo sinoterà, dell’opinione pubblica.

22 «Enfin, au bout de quelquesannées, V. M. aurait un peupleneuf, et le premier des peuples[…]. Il serait commun d’êtrehomme de bien» (Mémoire sur lesmunicipalités, p. 621). Turgot, chealcuni celebrano per il suo «libe-ralismo», sta in qualche modo traNicolas Ledoux e Lepelletier deSaint-Fargeau (di cui Robespierrepresentò alla Convenzione il pianototalitario d’educazione naziona-le). «Un peuple neuf », program-ma di rigenerazione montagnardoe giacobino, è anche una formuladi Lepelletier.

23 Per ulteriori sviluppi, si veda, sultema della simpatia, il confrontotra Hume, Locke e Adam Smith, nelnostro La liberté et la loi (chap. 5).

24 «Ce grand monarque attirait toutà lui, il voulait être seul à répondreà toutes les espèces d’encourage-ment et de gloire», spingeva i

grandi talenti ad «ambitionner[…] d’être aperçus par ce prince»(De l’administration des finances, p.XLIV e p. L).

25 In «un tribunal où tous les hom-mes qui attirent sur eux les regardssont obligés de comparaître» (Ibi-dem, p. XLIX).

26 Queste tre citazioni si leggono inB. Craveri, L’âge de la conversation,rispettivamente p. 275, p. 304 e p.382.

27 Questa pagina può essere compa-rata a Pascal e ad Adam Smith: èl’immaginazione che assegna ilprezzo alle cose (cf. P. Manent, Lacité de l’homme, pp. 142-148).

28 Citiamo dall’edizione originale(Constitution de l’Angleterre, 1771)che Delolme ha in seguito rivistae integrata.

29 Si vedrà il notevole studio di J.-P.Machelon, Les idées politiques de J.-L. Delolme. Contrario all’idealerousseauviano e repubblicano,Delolme scrive: «Il est contradic-toire que le peuple agisse et qu’ilsoit réellement puissant» (Consti-tution de l’Angleterre, p. 247).

30 Bisognerebbe commentare le pagi-ne nelle quali Necker difende lanecessità delle leggi frumentarieper i più poveri, e afferma che inInghilterra, «le peuple est moinspeuple» (Sur la législation et le com-merce des grains, cap. 24, p. 63).

31 Ne ha fatto diverse recensioni nel«Journal d’économie publique, demorale et de politique», da luifondato.

32 Col titolo: De la majorité nationale,de la manière dont elle se forme et desmoyens auxquels on peut la recon-naître, ou Théorie de l’opinion publi-que. Questo testo è nelle Œuvres ducomte Roederer, t. VI, pp. 376-382.Abbiamo pubblicato tale testo,assieme ad altri di Roederer, inappendice a Echec au libéralisme, el’abbiamo commentato (cap. III:«Opinion publique et légitimité»)nei termini di un protoliberalismocontrapposto al giacobinismo.

De la utilidad ó provecho comun el cosechero esel público, y el escritor se tiene como la mano delcolono. Pero, ¿quién es el público? De cada cienpersonas podemos asentar que las noventa y cin-co forman el público. Los lectores no se tienen niaun como tres á ciento; quiero decir que de cadacien personas apénas tres leen para instruirse.Por esta cuenta el público seria una cosa muydiminuta; pero no lo es; pues en esos tres lecto-res de cada ciento, se incluyen los que formanopinion por sí, y la hacen formar á los que noleen; y por tanto hacen subir la publicidad alnúmero de noventa y cinco... En este público sehallan todas las profesiones, todos los intereses,todas las miras y todas las necesidades del pro-greso. Semejante colección hace prontamentenacer una proposicion en el espectador.[Reflexiones sobre la utilidad, pp. 322-323]

Entre las numerosas metáforas ilustra-das, la empleada aquí por un anónimo arti-culista describe la peculiar relación entreopinión y público en la España diecioches-ca. En torno a 1785, el minoritario escritores colono de una tierra de letras de molde ypapel circulante, cuyo propietario último noes otro que la propia Monarquía, si atende-mos al cúmulo de instrumentos y reglas des-

tinados a supervisar el uso de la imprenta. Eldesarrollo de una censura previa encomen-dada a diversos órganos del poder civilemplaza al autor en un punto intermedio,capaz de definir unas nuevas coordenadasequidistantes, las de Estado y sociedad, yarticular entre ambas la “restricción”, laevitación de “los excesos”, la adopción de“el debido tono”1 en el cultivo literario. Retomemos la imagen de una dinámicadescendente, unidireccional, de formaciónde opinión, tal y como aparecía manifesta-da en 1727:

todo se consigue con las audiencias, escuchandoal mas humilde como á el mas grande... debe elRey, a imitación del Emperador Teodosio seramparo de la verdad, destierro del embuste, ypremio de los dignos “mas debe también difun-dir ideas” por boca de los inteligentes, y sus ecosson de los mas notables, y se imprimen en lascomarcas, ya cercanas, o ya remotas2.[Marqués de San Felipe, El arte de Reynar]

Esta definición sería rescatada por losilustrados de fin de siglo, inmersos ya enun proyecto panóptico e interventor, dis-

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Cultivar la opinión,una metáfora de la España ilustrada

esteban conde naranjo

giornale di storia costituzionale n. 6 / II semestre 2003

puesto a verlo (leerlo) todo y a valerse deun ejército de plumas, de arrendatarios dela palabra, para moldear formas de pensary de seguir hablando y escribiendo.

En esos años, “público” designa a “elcomun del pueblo” y al mismo tiempo adje-tiva “la potestad, jurisdiccion y autoridadpara hacer alguna cosa, como contrapuestoá privado”; consecuentemente, el hecho de“publicar un libro” significa «darle a laimprenta para el público, y que todos le pue-dan leer» (Diccionario, 1791), en virtudprecisamente de una gracia, de una “licen-cia” otorgada por la autoridad suprema delMonarca.

Reparemos con atención en esos térmi-nos entrecomillados, pues definen una pri-mera estrategia que se resistirá a desapare-cer y que censaba y censuraba, reclutaba yautorizaba nombres (esto es, “autores”),producía y silenciaba el discurso, a menudodesde posiciones rigoristas o puristas de«mochila al hombro»3: podía prohibirse lapublicación que no fuera nociva pero tam-poco necesaria, «no siguiendose ningunperjuicio al publico, de que salga, ó no»4.Evidentemente, este restrictivo criterioobedecía a una concepción inflexible de lalabor educadora de la Monarquía; masmuchos eran también los argumentos que,desde dentro, desde los mismos aparatos depoder, trataban de ensanchar filtros tantupidos.

De todos modos, una lectura apresura-da de ciertos mensajes ilustrados podríallevarnos a subrayar sin más tal relajación,acaso con interés anticipacionista. Aunque,partiendo de Kant, pueda Habermas aven-turar que «el pensar por sí mismo parececoincidir con el pensar en voz alta, exacta-mente igual que el uso de la razón equivalea su uso público» (Habermas, Historia, p.

138), haríamos bien en seguir leyendo aambos, antes de datar una precoz libertadde expresión infructuosamente contenida.Al margen de la fortísima autocensura quecabría atribuir al temor5, en una Españatodavía humeante con las quemas de libros,aún sujeta a penas infamantes, es funda-mental el control, mucho más sutil y tenta-dor, que ejerce la incesante institucionali-zación cultural de estas décadas, impensa-ble, a su vez, sin la imprenta y los mecanis-mos que la privilegian. El capital simbóli-co (v. Bourdieu, Las reglas) distribuido pornuevos cuerpos y sociedades, y expresadoen licencias y premios, establece necesa-riamente límites y reglas, los ejes de unhabitus progresivamente consolidado. Aellas parece referirse Jovellanos, en elámbito reservado de la correspondencia:

éste en suma es mi sistema, aunque confieso quele hubiera acercado mucho más al buen términosi hablase a mi nombre. Pero escribía a nombrede un cuerpo que entonces no hubiera adoptadomis ideas, que ahora no las aprobará sin dificul-tad, y cuya aprobación sin embargo es importan-te, no sólo para darles un peso de autoridad, sinoporque sólo así podrán esperar la luz pública yalguna aceptación.[Carta al Cónsul inglés Hardings, mayo 1794,recogido en Maravall, Notas, p. 424]

El célebre Jovellanos pertenece, endefinitiva, a aquel selecto cuerpo de agri-cultores de las letras, vanguardia del “pri-mer público de expertos” que Habermasdetecta entre antiguo y nuevo régimen:

allí donde el público se institucionaliza comogrupo fijo de interlocutores, éste no se equiparacon el público, sino que, en todo caso, reclamaser reconocido como su portavoz, incluso comosu educador, quiere actuar en su nombre, repre-sentarlo: tal es la nueva forma de la representa-ción burguesa. El público de la primera genera-

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ción se sabe, allí donde se constituye, como cír-culo especificable de personas, dentro de unpúblico mayor.[Habermas, Historia, p. 75]

Sin embargo, no conviene apresurarse:las élites no constituyen todavía sino piezasde un mecanismo regio, de un proyecto cui-dadosamente orquestado. A ello parecereferirse Kant en sus celebradísimas pági-nas sobre la ilustración6, cuya complejidadreside probablemente en la imposibilidadde hallar equivalencias en términos actua-les. Distingue el prusiano, como es sabido,entre uso privado y público de la razón,siendo aquél el que al individuo le es con-sentido en el ejercicio de una carga o fun-ción pública, y éste el que puede ejercitarcomo experto en una materia, als Gelehrter.La adjetivación aparece, en efecto, inverti-da. Pero además Kant describe prácticassometidas a importantísimas limitaciones;si el uso privado queda reducido en la mayorparte de las ocasiones al sometimiento alinterés común, a un mecanicismo que exi-ge pasividad, el uso público irá dirigido a undestinatario genérico del que el hablante sedistingue en su cualidad de experto, condi-ción otorgada por dispositivos, mecanismostambién, de legitimación discursiva: el sape-re aude puede no ser sino un imperativo des-de luego antirrevolucionario, y en todo casomediatizado y restringido7.

En la medida en que tales restriccionesexisten en altísimo grado, en que la enun-ciación pública del pensamiento dependede múltiples condicionantes, el ilustradoespañol parece de hecho no disponersiquiera del uso público de su razón, en tér-minos kantianos, inserto como está en esamaquinaria que es la policía de la impren-ta. O acaso será ésta misma la que calibra-damente permitirá a sus engranajes, habi-

tualmente destinados a la redundanteexpresión de la obediencia, la manifesta-ción ocasional de la duda, una alternativasiempre matizada por prólogos, notas oimportantes modificaciones textualesimpuestos por los censores, así como porla omnipresente llamada al respeto a losdogmas de fe, a las regalías y a las buenascostumbres. Estas insistentes matizacionesse demuestran, en cualquier caso, muy dis-tantes de la amplitud con que la dualidadindicada por Kant quedaba amparada porFederico el Grande: «¡Razonad cuanto que-ráis y sobre lo qué queráis, pero obedeced!»8.

En todo caso, precisamente bajo la inci-siva mirada de jueces moldeadores del pen-samiento, la España de entonces veníaexperimentando cambios esenciales: fren-te a una tradicional concepción de la opi-nión, que ante todo «se relaciona con elpundonor, y significa la buena o mala fama,la reputación o estimación en el conceptode las gentes, que un individuo tiene»(Glendinning, Cambios, pp. 159-160), pro-lifera a finales de siglo una opinión referi-da a “cosas” y no a personas, giro funda-mental que permite la reflexión abstracta,reformista pero moderada, y que es conve-nientemente articulada a través de censu-ras y prohibiciones9. Mas se trata todavía deun concepto equívoco: para llegar a ser “opi-nión pública” habrá de desplazarse no sólodesde los individuos a las ideas, sino tam-bién desde el «dictámen, sentir ó juicio quese forma de alguna cosa, habiendo razonpara lo contrario» (Diccionario, 1791)10, al«concepto que se forma de alguna cosa»11

que «se tiene corrientemente por cierta yverdadera, por asegurarlo casi todos»12.

El control tendencialmente exhaustivodel discurso impreso permitía, precisa-mente, asegurar públicamente (es decir,

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para todos y en virtud de autoridad) lo cier-to, construir, en definitiva, esa opiniónpública carente de definición académica13,mientras que al debate también públicopero de verdad suspendida quedaban des-tinados ciertos ámbitos y materias. Preci-samente se preguntaba un “crítico” en1793:

¿Por qué en una conversacion ó tertulia entreamigos, en que se ventilan asuntos de literatura,qualquiera confiesa sin rubor que se ha equivo-cado, que yerra: y en los papeles públicos los massostienen sus opiniones con ardor, con teson,con amargura, y tal vez con ofensas de su contra-rio?...Una opinion, mientras no se habia defen-dido públicamente no era mas que una opinion;esto es, un modo de pensar que podia ser falso,y que no tenia relacion alguna con el que la mira-ba como tal: despues de defendida, sino es hijalegitima del defensor es por lo menos adoptada,y la nota pública que se le ponga cae derecha-mente sobre el adoptante.[Carta critica, pp. 168-169]

Si bien es la posibilidad del enfrenta-miento de “opiniones” la que acaso permi-ta concebir una modernidad hoy reconoci-ble, no parece tratarse de una conquista,subversiva e incontrolada; antes bien, esestrategia calculada en el seno del poder14,en parte contaminada por la intensa reco-mendación otorgada por la imprenta al dis-curso autorizado. La prensa periódica,naturalmente adaptada al diálogo y la fuga-cidad, había de dar cabida, efectivamente,a una escritura provisional, “sin que paratomar este trabajo necesiteis estar asegu-rados del acierto...el tiempo y la medita-cion irán perfeccionando vuestras obras, ysobre todo la discusión irá aclarando losmedios de que la verdad llegue á conocer-se” (Discurso sobre el estudio de la Jurispru-dencia, p. 35).

Quien así exhortaba desde el Memorialliterario no se dirigía, sin embargo, a cual-quier plumífero arrogante, sino a cuerpos eindividuos específicamente dedicados a unajurisprudencia que, en esas mismas líneas,aparecía revestida de nobles – y novedosas– características. Es éste el primer nivel derarificación del discurso, limitado a deter-minados hablantes y condiciones:

se baten las ideas hasta tomar aquella forma queá la verdad es conveniente...precediendo unaconstante meditacion, y una crítica severa antesde emprender el publicarlos. Sobre todo, que enlos discursos brillen los nobles caracteres delpropio desinteres, del amor al bien de los hom-bres, del zelo finalmente por la mejora de suestado, únicas sendas que conducen al templo dela verdad y de la gloria.[Discurso sobre el estudio de la Jurisprudencia, p. 38]

Mas también reaparece necesariamen-te, tratándose de opiniones – en plural –sobre la legislación, un constante temor,origen de severas censuras por parte de

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Carlo III e i coloni della Serra Morena

quienes «creen que se falta al respeto de lapública autoridad en desear la reforma delas leyes, como si mientras esta no se lograse tratase de no hacer respetable su obser-vancia». Quien defiende la emisión de“juicios” sobre las leyes lo hace teniendoen cuenta una doble utilidad y una defini-tiva salvedad, segundo filtro del uso públi-co de la razón:

van á dexar expeditos los caminos para que ellasse reciban: acaso van á suministrar el pensa-miento de que sean promulgadas. Por fortuna sedesconoce entre nosotros la ley de Creta, queimpedia el hablar mal de las leyes de aquel pue-blo. Por el contrario, el espíritu de las leyes dePartida; la costumbre de algunos honrados Espa-ñoles muy bien recibida de parte del Gobierno;todo autoriza entre nosotros unos designios tanbenéficos. Mas si encerraran nuestros códigosuna regla semejante, yo no le daria otro sentidoque el que Sócrates hallaba en la de Creta. Ella(dice el sabio anciano) solo tiene por objeto elmantener la observancia de las leyes, prohibien-do la detraccion, quando se dirige al despreciode la patria ó de las personas que la rigen.[Discurso sobre el estudio de la Jurisprudencia, pp.36-37]

Parece difícil concebir la escritura fue-ra de esa amplísima maquinaria que abar-ca desde la censura previa hasta la críticaliteraria, pasando invariablemente porcolectivos que parecen servir indistinta-mente a una y otra labor, casi confundidas.En 1785, Juan Antonio Carrasco disertabaen la Academia de jurisprudencia teórico-práctica (o del Espíritu Santo) acerca de lanecesidad de una mesa o tribunal censoriode gran ambición, que entrase a valorartambién la utilidad de las obras. En esamisma dirección se venían extendiendo lascensuras encomendadas por el Consejo deCastilla, el Juez de Imprentas o las Secreta-rías, sedes habituales de una policía del

libro que no se limitaba a negar permisos oa recoger impresos, sino que sugería y per-feccionaba medios y mensajes. Mas no sólofaltaba todavía un órgano colegiado queagrupase a los revisores, vieja propuestasiempre retomada y siempre abandonada;Carrasco iba aún más lejos en su propues-ta, considerando que la mesa ideal debería«aun emplearse, en hacer y producir alpúblico el crítico juicio, que formasen delas obras que en todas facultades se hubie-sen dado á luz por nuestros Regnicolas des-de el establecimiento de la Imprenta»(«Memorial literario», IV, enero 1785).¿No es ésta acaso la empresa que asumiófinalmente una historia literaria patrióticay selectiva, impulsada desde los papeles ylos libros autorizados?¿No se tendía conella a descartar y ensalzar escritos, a impo-ner en definitiva una visión común auto-complaciente y sesgada que permitieraincluso la previsión del discurso futuro?

Poca duda cabía entonces sobre la cua-lidad intrínsecamente moldeable del públi-co, sobre su naturaleza precisamente ges-tada en esa acción de aculturación, impues-ta desde arriba a un vulgo amorfo por ile-trado. Otras acepciones resultaban, en con-secuencia, inaceptables:

se habla de la opinion pública como de un tribu-nal poderoso, cuyos decretos son irrefragables:que juzga por el gran principio de la utilidadduradera; y que él solo basta para inutilizar quan-tas leyes le chocan. Esto ultimo se prueba con unexemplo de Francia […] En España tenemosmuchos recientes exemplares, de que la opinionpública cede y varía con las disposiciones delMinisterio […] Por ultimo si como dice […] loque da mas poder al tribunal de la opinion públi-ca es la ilustracion acerca de sus verdaderos inte-reses […] las Sociedades Económicas, la fre-qüencia de libros que tratan de la necesidad de laindustria en qualquier Reyno, y de los medios de

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fomentarla, y sobre todo los discursos de indu-stria y educacion popular con sus apendices, quecon tanto acierto envió la Superioridad hasta álos pueblos mas pequeños, han difundido portoda España abundantes luces sobre sus verda-deros intereses en esta parte15. [Comercio, pp. 178-179, 183-184]

Cuando de reformas se trataba, porencima de las opiniones primaba la Opi-nión, en una dinámica colectiva y sincroni-zada que debía involucrar a todo patriota enel abono y labrado del correspondientecampo de cultivo. Metáfora y realidad podí-an curiosamente coincidir en uno de losmás importantes proyectos ilustrados:

La ley agraria debe ser preparada por estableci-mientos agrarios conducentes á un efecto feliz.Conviene que estos la hagan necesaria, quedescubran fisicamente á los ojos de todos su nece-sidad é importancia, su interes y utilidad: que laapetezca el público, y que clamen por ella loslabradores y los mismos que gobiernan […] eneste sentido considero yo la preparacion de la leyagraria tan esencial como la misma ley, en tantoque me atrevo á llamarla alma y vida de la ley.[Disertación patriotica, pp. 342-343, 345]

Las opiniones sólo podrían filtrarse porlos angostos resquicios abiertos entreengranajes, manifestarse en forma de chi-rridos de esas mismas piezas, no siempretolerados16: de hecho, en el ejército de plu-mas reclutado por el Monarca, en aquel pri-mer nivel de “público” artificialmente pro-movido, veían algunos el peligro, en partepor temor a su propia exclusión, en partepor detectar en él la irrupción de un dis-curso desatado y contraproducente, pese aque en ocasiones fuera por buenas y patrió-ticas razones.

En julio de 1794 el monje FernandoCevallos, marginado o visionario, alertabaen este sentido al ministro Godoy:

Tales principios […] van sostenidos por unosTeologos que con nombre de Jansenistas sonrebeldes a los oraculos de la Yglesia, y por unaturbe de Abogados, verdaderos Sansculotes, quepresumen medir los poderes a los Reyes, embi-diar á los ricos sus bienes, roer los Privilegios delos nobles, despreciar la profesion Eclesiastica,y ultrajar la Militar. El remedio fundamental deestos males está en reformar los estudios,poniendo las Universidades al cuidado de lossantos Obispos, y disipando una plaga de Acade-mias recientes, ó de Sociedades patrióticas, don-de la educación popular se reduce á unos entre-tenimientos inutiles, y á formar genios propiospara un govierno popular ó anarquico.[AHN, Estado, 3014]

Interesa desde luego leer a quienes, alparecer con tanta imprudencia, debatían enlas Academias, dotadas ellas mismas de suspropios “censores” y criterios relativa-mente afines a los empleados por los apa-ratos centrales de policía.

Por sucesivas instancias de enjuicia-miento textual pasó la “disertacion” escri-ta por Juan Pérez Villamil “sobre la multi-tud de abogados”, en respuesta a un pro-blema propuesto por la Real Academia dederecho patrio y público, o del Carmen17.Deseando imprimirla, acudió Villamil alConsejo de Castilla, quien decidió, ennoviembre de 1782, que el texto fuera revi-sado por los propios académicos. En apenasun mes, los “censores de disertaciones”extendieron su informe, digno exponentede los mecanismos de auto-censura apli-cados por quienes, en definitiva, emplea-ban gran parte de su tiempo en abrir inte-rrogantes jurídicos:

sencillamente se propone el discurrir sobre esteargumento, no como un Moderador que intentaarreglar las Leyes... si no como un Profesór quecon ingenuidad dice sus sentimientos a un cuer-po de que és Yndividuo... algunos de los pensa-mientos con que autoriza los medios de corregir

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el mal que supone como efecto de la libre multi-tud de Abogados, aunque en las actuales circun-stancias no seria facil ponerlos en planta, sinembargo no dañaria el comunicarlos al publico.Alguno con mas tiempo y sin la precision de ceñirsus reflexiones á los limites de un discurso Aca-demico, podra adelantar éstas ydeas hasta hacer-las enteramente utiles al Gobierno.

Esencialmente el parecer de los reviso-res quedaba reducido a esa “ingenuidad”pretendidamente inocua, limitada al verti-ginoso tiempo académico, mas abierta aca-so a un público que no podría ser acusadode querer «hacer Trono de su Bufete». Detodos modos, el disertar en coordenadastan declaradamente estrechas, «sin profa-nar los respetables fueros de la potestadsuprema», debía permitir, como en estecaso, el ejercicio de «las reglas que dicta larazon ayudada de la critica», evitando «lavana obstentacion que se suele afectar ensemejantes discursos» o las «ydeas vagas,informes, y opuestas entre si, que comohijas del capricho solo sirven de ofuscar elentendimiento llenandole de mas confu-sion, en vez de ylustrarle».

No resultaban idóneos esos ámbitos depráctica jurídica para exaltar, al margen deuna rutina más o menos desbordada, la uti-lidad de la confrontación pública. Era, encambio, notable el crecimiento de ciertaspolémicas que parecían ser asumidas en sufunción expresiva de lo que luego sólo seríaliteratura. Cuando ésta quedase reducida asus dimensiones decimonónicas pasaría adesignar los juegos autónomos, las letrasluminosas no ya por su capacidad para ilus-trar sino por el brillo que encerrasen, aje-no a estrictos criterios pedagógicos18. Así,con excepcional indulgencia Nicolás Fer-nández de Moratín aprobaba, a lo largo de1779, un diálogo colectivo e impreso en tor-

no a gatos y ratones; a falta de más datosacerca de la verdadera trascendencia deesos textos19, subrayemos que el coloquioque constituían, explícitamente imitadorde «algunos célebres escritores que osten-taron su erudición en asuntos humildes,esteriles, y en paradoxas de dificil prueva»,pareció al ilustre censor «una diversióninocente», pasatiempo de «particularmerito y gracia con artificio retorico»20.

No es descartable que semejantesmuestras de tolerancia, expresadas en ununiverso discursivo todavía indiferencia-do, al menos en su sometimiento global a lacensura previa, pudieran quebrantar lacoherencia, corroer la solidez de ese meca-nismo único otorgador de licencias. Elparecer del «juez artístico», con «algo deamateur», podía no ser más «que el juiciode un hombre privado entre todas lasdemás personas privadas (que no habrán

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Consulta del Consiglio di Castiglia

de admitir, en última instancia, que el jui-cio de nadie se les imponga como obligato-rio)» (Habermas, Historia, pp. 78-79).

La infección acaso se propagase lenta ysigilosamente desde esos juicios aparente-mente “profanos”, contagiando en primerlugar a quienes decidían «consagrarseenteramente á la critica»21. Es innegableque de la elección de los escritores, de lavigilancia sobre sus dictámenes impresos,dependía absolutamente que cundiese laacertada “opinión pública”, fruto del dicta-do, o, por el contrario, la enfermedad de lapluma enloquecida, la “manía de escribir”.

Lo que diferenciaba a esos críticos de loscensores de la Monarquía, sigiloso y primergrupo de revisores al que osadamente reme-daban, era precisamente la difusión a la quese verían expuestos sus aciertos o errores; deahí el doble filo que, como tantas otras per-misiones, presentaba ésta:

[la crítica] es sin duda la cosa mas necesaria enla republica de las letras; hace el mismo oficio enella que la politica en un pueblo: sin el justo fre-no que impone la buena critica, el mal gusto sepropaga, los defectos pasan por bellezas, la igno-rancia y el error triunfan impunemente: el tri-bunal de la critica hace justicia al merito desco-nocido ú oprimido por la intriga, reprime el furorinsolente del pedantismo, y castiga los excesosde la ignorancia y del mal gusto...Un buen criti-co que dedica sus tareas á mantener ilesos losbuenos principios, és acreedor al mayor aprecioy a la proteccion del Govierno contra las perse-cuciones de los escritores.

Quien así se expresaba no era otro deesos vehementes periodistas, sino el Con-de de Isla, Juez de Imprentas, que en 1803era designado por el ministro Pedro Ceva-llos para la revisión de un par de periódi-cos; de ahí que prosiguiera su informe conprudentes reflexiones:

para exercer debidamente el arduo empleo deJuez de este severo tribunal, se necesitan unosconocimientos tan extensos, un gusto tan delica-do, un juicio tan solido, y una imparcialidad tanabsoluta, que no ha habido, ni hay cosa mas raraen el republica literaria que un buen critico. Paracada mal escritor que nos fastidia, suele haver unmillar de criticastros que corrompen el gusto delpublico con sus censuras desatinadas...un malcritico, que con sus decisiones erroneas, dicta-das por la ignorancia, por la envidia, ó por lamalignidad, acobarda al hombre de merito,aumenta la osada presuncion del ignorante, y tra-storna la opinion publica sobre las bellezas odefectos de una obra, es como un envenenadorpublico, que deve ser reprimido con la mayorseveridad por la autoridad suprema22.

No parecerían, desde luego, acreedorasde protección las tentadoras invectivas per-sonales en las que se embarcaron dosmédicos a través de ataques y contraataquesimpresos, «confundiendolo, y revolvien-dolo todo, alterando los pasages, reprodu-ciendo las replicas a que se habia ya res-pondido solidamente, y añadiendo ciertosdichitos, cuentecitos, y coplitas con el fin dehacer ridiculos a los adversarios». Era ésteun «nuevo modo de criticar» que de no serprohibido haría «interminables las dispu-tas, y se perderia lastimosamente el tiem-po en cosas inutiles, y aun perjudiciales»;incluso el Monarca hubo de intervenir paradevolver a los doctores a sus oportunoslugares en la maquinaria:

conviene no se escriba mas sobre esta materiaque solo sirve de desazones y desavenencias entreunos Yndividuos que deben unicamente dedicarseal estudio y cumplimiento de su Profesion.[AHN, Consejos, 5565-13 (1802) y Estado, 3241-24]

Al silencio serían condenados igualmen-te unos Avisos politicos historicos y canonico-legales que Cesareo de Nava Palacio habíatraducido y presentado al Consejo en 1793;

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de nuevo el defecto hallado por los censores,aquí el cabildo de canónigos de San Isidro,era «un estilo demasiado fuerte, con expre-siones mui acres y algunas voces injuriosasal estado eclesiastico secular, y regular»,pese a que la obra, confesaban, era «de unaerudicion exquisita, y nada vulgar». Lalicencia fue finalmente denegada para evitar«eternas disputas, que necesariamentehabian de turbar la tranquilidad de nuestroReyno» (AHN, Consejos, 5559-56).

No sería admitida sin más la disputa enaquellos asuntos necesitados de rotundasafirmaciones; se mostraba equívoca la pro-pia licencia, ese sello real que en ocasionespodía venir a amparar dudas, a autentificarparadójicamente opciones contrapuestas, yque el importante Cabarrús se dedicaba ainvocar en 1789:

esta Obra que solo seria inutil, y ridicula, donde lalibertad de la imprenta deja las obras á la suerteque las prepara la opinion publica, por el Juizio quehaze de su merito, me parece perjudicial donde lasLeyes preocupan en algun modo esta opinion porla especie de aprobacion que supone el permiso deimprimirlas y publicarlas... no se debe consentirque se aumente aun la confusion que reina en estepunto que combiene tanto aclarar, y ilustrar23.

La “variedad de opiniones” que, enmateria de intereses mercantiles, tanto pre-ocupaba al director del Banco Nacional, sólopodía ser contrarrestada a través de la claraescritura; la pertinencia de una vaga y autó-noma opinión pública, preexistente a esalabor, debía ser rechazada, ante todo, por lamisma existencia de la censura y sus conse-cuencias sancionadoras. Mas se atisbaba supresencia, ligada a una supuesta libertad deimprenta, arraigada quién sabe dónde y conqué efectos, pero que podía ya aparecersecomo el alivio al excesivo desgaste que impli-caba la concesión del licencias. La moderna

curiosidad, el instinto viajero resultarían, eneste sentido, moderados por una prudentefilosofía atenta a las “circunstancias”; tanpropios del espíritu del siglo eran aquélloscomo ésta, y del encuentro brotaban com-paraciones que buscaban distanciar. En 1797exponía Fulgencio Palet al Secretario deEstado su amplia trayectoria exploradora, enabsoluto trivial para el déspota ilustrado,para, en todo caso, subrayar finalmente laidiosincrasia española:

En Alemania, Prusia y Dinamarca y otros Reynosdonde se proteje a los hombres de bien y a losverdaderos sabios no obstante la livertad que hayde leer toda especie de libros, de pensar y aun dehablar no hemos visto en ellas ni hay hasta aho-ra motibo para temer semejantes rebolucionesque en otros Payses han acarreado tantos dañosy calamidades... No se intenta inferir de lo dhoque combenga en qualquiera Monarquia conce-der en este punto semejante livertad; segun seasu constitucion, y segun sean las circunstanciasen que se halla se le han de señalar limites.

Su recomendación “para España” era elapoyo oficial, cauteloso e inicialmentesecreto, de los escritores (AHN, Estado3245 (I)-2). Admitiendo la existencia deciertas opiniones más o menos difusas, aéstos había de quedar encomendada laimportante labor de “desengañar” al vulgo,convenciéndole de «sus verdaderos inte-reses». A ello servían precisamente lasmodificaciones textuales impuestas por lacensura y tantos otros trucos literarios:

Por estas razones, y por los inconvenientes quepueda tener el dexar correr en la traduccion cas-tellana una opinion que favorece la vulgar de quela Ynglaterra tiene la soberania de los mares; opi-nion que no ha dexado de tener acogida en el publico,me parece, que V.A. podria mandar que el traduc-tor pusiera una nota en los referidos caps […]24.[AHN, Consejos, 5558-75]

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Semejante había sido la reflexión pro-vocada dos décadas antes por la importa-ción de las Memorias de Pombal. Los hechosque en ellas aparecían más o menos desfi-gurados eran, sin embargo, «tan publicos,tan recientes y tan proximos á nosotros»que, a ojos de Jovellanos, no cabía temerque afectasen el juicio de los coetáneos o dela posteridad: estaban, decía el ilustre cen-sor, «confirmados por la opinion publica».El Consejo de Castilla, en cambio, rehusótanto optimismo y, aunque permitiera laentrada del texto foráneo, optó por añadiral inicio de la obra una nota que advirtiesea los «lectores incautos», induciéndoles a«despreciar» tales falsedades [AHN, Con-sejos, 5553-114 (1785)].

Resultaba igualmente fundamental elpapel desempeñado por los diversos meca-nismos de silenciamiento discursivo25; parala formación de una opinión tendencial-mente común y como tal brillantementedifundida, era necesario imaginar un recep-tor genérico en el que practicar un cultivotextual y público y a quien negar, u obstacu-lizar al menos, el acceso a lecturas de impre-visible efecto. Precisamente porque eraconcebible una regla, resultaban necesariaslas excepciones, las diferenciaciones estra-tégicas. Entre los escritos de dificultosa vul-garización se contaban reiteradamente esosdebates y propuestas de reformas; y, sinembargo, las dudas eran sembradas regu-larmente con libros autorizados: paradojailustrada era ésta. La diversificación condu-cía necesariamente a la desacralización delmensaje, antes único.

Sabemos de la polémica ilustrada abier-ta en torno a la tortura, espoleada desde lasmás altas instancias, mas asimismo fuentede intensas contradicciones en los expe-dientes de censura. Quienes en julio de 1783

fueron designados para revisar la obra dePedro de Castro, defensor acérrimo de la tra-dición, tuvieron finalmente que entrar avalorar la controversia en que ésta quedabaincluida, y que reunía en el mismo incómo-do diálogo al Marqués de Beccaria o a Manuelde Lardizábal; el problema de fondo era éste,y un nuevo participante se demostraba per-judicial porque la propia disputa impresa loera. Para José Miguel de Flores, Juan PérezVillamil y José Ferrer semejante incertidum-bre respecto a leyes vigentes «podría ser utilà los Principes y Magistrados à cuio cargo estàel gobierno de los hombres, no à aquelloscuia principal gloria è interès consiste enovedecer sin discurrir» [AHN, Consejos,5547-100 (1784)]. Ésta parecía ser la idea de“público” que los tres censores defendían,en pulcra convivencia con otros postuladosque también asumían, ya plenamente“modernos”, y que a más de un valedor delpasado, en cambio, habrían repelido.

Las discrepancias internas, como unreflejo de aquellas otras que alrededor deltormento se divulgaban impresas, no ter-minaban aquí. Tras el dictamen de los cen-sores el Consejo, presidido por Campoma-nes, requirió el parecer del fiscal; la opi-nión emitida por éste, en noviembre de1784, parecía de género bien distinto:

para la satisfaccion o impugnacion a iguales dis-cursos se agita la havilidad y estudio de los hom-bres sutiles y de buen ingenio, y es el modo deque prosperen las ciencias y que los escritoresexaminen y funden con solidez qualquiera dis-curso, u obra que den al Publico.

Advirtamos, de todos modos, que contales argumentos simplemente se reco-mendaba dar traslado al autor de los repa-ros puestos por los censores, y no la conce-sión de la licencia26. Acaso no quepa ver en

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las palabras del fiscal sino la enésima con-vocatoria al diálogo reservado, a la escritu-ra compartida, a la búsqueda silenciosa dela «solidez pública»; tal vez convenga aten-der, por otro lado, a que esos mismos con-sejeros o fiscales dirigían y protegían para-lelamente algunas academias de jurispru-dencia, ámbitos instituidos para una “agi-tación” oral publicada sólo ocasional ymoderadamente27.

Otras muestras de una cierta toleranciahacia el debate impreso se demostrabanluego igualmente equívocas. Es el caso de laautorización sucesiva de dos textos referidosa las obras del Abate Fleuri y que, pese aestar originariamente ligados, despertaronactitudes sutilmente diversas. El último enobtener la licencia de impresión fue el pre-sentado en julio de 1802 en la Secretaría deEstado con el título de Defensa de la Critica alFleuri del Doctor Juan Marquetti, para desva-necer algunas objeciones que se le han hecho enAlemania y en Italia. El Conde de Isla revisóel escrito, concluyendo en que sería «muiutil su publicacion asi como parece lo hasido d[ic]ha Critica para desengaño de lasmuchas equivocaciones que padece el sr.Fleuri» (AHN, Estado, 3241-32).

La Critica a la que esa Defensa estabamaterial y formalmente vinculada había sidoautorizada por el Consejo un par de añosantes, en virtud de argumentos más com-plejos. Tras varias censuras frustradas y undictamen fiscal que pareció escaso, habíasido encomendada la obra al Oratorio de SanFelipe Neri. En enero de 1799, los nuevosrevisores introducían importantes maticesen su recomendación del texto; no era éstecontemplado simplemente como una medi-da de corrección de un discurso ya impre-so, el de Fleuri, no constituía mecanismoextemporáneo de intervención para el arre-

glo de una “opinión pública” antes defec-tuosamente construida:

como quiera, que estamos en un siglo, en queabunda tanto el espiritu de novedad, y no poconumero de semi-sabios, que con solo la circun-stancia de que la cosa esté impresa ya la graduanpor un dato de eterna verdad, convienen seme-jantes producciones literarias, para que los Lec-tores, libres del espiritu de Partido, estudien,mediten y disciernan con la mayor critica elmerito de las opiniones y pasages de la HistoriaEclesiastica28.[AHN, Consejos, 5560 (II)-94]

En este informe, asumido por el Conse-jo, reencontramos, aunque explícitamenteinvertido, el papel acreditativo de la licencia.Parece haber lugar para una crítica parcial-mente autónoma, para una opinión públicaque medita templadamente sobre los textosdivergentes que le ofrece la Monarquía. Yesa actividad sirve incluso para atemperardesde dentro, sin recurrir a una fantásticalibertad de imprenta, los efectos costosos ycontraproducentes de una estrategia exclu-sivamente asertiva, la que venía comprome-tiendo al poder, incomodando a los censo-res y confundiendo al lector.

Tímidamente aperturista en ese mismosentido había sido el parecer emitido en1786 por la Sociedad Económica madrileñasobre dos escritos de José del Campillo29.Su informe ya se demostraba diferente en lamedida en que no pretendía «comprome-ter el dictamen de la Sociedad acerca de lasmaterias sobre que recae la discusion, nimenos acerca de los medios que el autorpropone». Aunque tal inhibición no fueraabsoluta, pues el censor recomendaba, dehecho, una profunda alteración del texto,ya apuntaba a un giro fundamental, opor-tunamente concretado a continuación:

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parece conveniente no defraudar á ningun escri-tor de la justa, y prudente libertad de pensar, ymas quando sus clausulas no se han de graduarpor canones sino quedar reducidas unicamenteá la esfera de especulaciones filosoficas, de lasquales puede qualquiera aprobechar àquella par-te que estime mas util, sin adoptar la que nocoincida con sus maximas particulares.

A través de manifestaciones semejantes,expresadas durante décadas, aparece esbo-zada esa otra acepción de verdad, distinta a larotundamente autorizada y recomendada porel poder: opinión depurable públicamente,de carácter escurridizo, que se correspondeentonces con una más cautelosa actitud decensores y autoridades. Así, podía el Conse-jo conceder en 1784 la licencia de impresiónpara una obra cuyo autor, en opinión delColegio de Abogados, simplemente

propone las dificultades, y argumentos concer-nientes a la materia, abriendo camino para quese agite, y bien examinada, pueda acrisolarse laverdad. En este concepto, el de que no contienecosa contraria a Nuestra Santa Fee, buenas cos-tumbres, ni perjudica à las Regalias de S.M. nitampoco à tercero, cree el Colegio no hay ninguninconveniente, en que se conceda la licencia parala Ympresion30.[AHN, Consejos, 5548-71]

Es una verdad que ha de ser removida ydecantada, pero ya no en el mismo Consejoy sus procedimientos pseudojudiciales ysecretos, sino en un ámbito externo, el de lasopiniones, ya impresa y publicada la obra, asalvo siempre ese mínimo tradicional,inmutable y triple, aún cotejable por Argos,al que se añade ahora, en sintonía precisa-mente con el azaroso ingreso de polémicasy réplicas, el respeto a terceros, a los parti-culares. Precisamente por ello será nueva-mente desaconsejable la recomendaciónexplícita de los textos, sujeta también al

parecer del público, «que es el juez mas res-petable de los escritos»31; habrán de bastarlas licencias ordinarias para contrastar lanuclear conformidad del impreso, cedidoluego a juicios y aprobaciones ajenas.

Del público a quien dirigían algunos esaverdad entre interrogantes se esperaba lacorrespondiente respuesta, una actividad dereflexión que era en sí misma interesanteobjeto de análisis. Encontraban una nueva yabierta línea de desarrollo aquellas sigilosashipótesis que censores y ministros ideabany luego defendían prohibiendo, autorizan-do o modificando la escritura. La convicciónen la posibilidad de prever la lectura, decondicionarla desde el texto, parecía nece-sitar contrafuertes, auxilios procedentes deotras plataformas de observación. Desdeellas se atisbaba en el lector una capacidadhasta entonces quizás menospreciada, la defragmentar la unidad llamada libro o des-contextualizarla en combinaciones discur-sivas insólitas, la de bucear entre líneas oleer con anteojos distorsionantes.

El bibliotecario mayor, Pedro Silva,parecía atento en julio de 1801 a esa impro-visada realidad, quizá por su profesióninmerso en una textualidad tendencial-mente infinita; aunque sus argumentos nocarecen de los tradicionales límites, seincorporan a un diálogo autorreferencial degran interés, originado por la confronta-ción entre Valentín de Foronda y Simón deViegas en torno a «la igualdad de los talen-tos». A la respuesta de éste último se ate-nía la censura de Silva:

En quanto á la utilidad de esta obrita devo decir:que parece respuesta á alguna impugnacion hechacontra el autor; y esto solo la hace util, pues entodo govierno bien ordenado deve ser el hombredueño de defender sus opiniones puramentecientificas, y que nada se oponen a las verdades y

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reglas que devemos seguir. Pero ademas de estotengo por utiles los examenes y contextacionessobre el modo con que procede el entendimientohumano en sus operaciones, pues aunque la mul-titud de sistemas, que sobre esta materia hancomparecido en el mundo, no han podido demo-strar el verdadero progreso del entendimiento,sin embargo las continuas reflexiones de los hom-bres doctos y profundos, y sus mismas disputas,han producido conocidisimas ventajas en las cien-cias especulativas y en el modo de tratarlas32.[AHN, Consejos, 5564-65]

La censura ejercida por Silva ya forma-ba parte, en cierto modo, de esa «cienciaespeculativa» a la que contribuían cartas ydisertaciones impresas, abiertas a unpúblico que sería sujeto y objeto, como losescritores mismos, de un moderno sabersobre el «verdadero progreso del entendi-miento».

A este ámbito externo remitían igual-mente la búsqueda de la verdad otros cen-sores. Un público necesariamente restrin-gido, por tratarse de un texto latino, masmedianamente liberado era el que, segúnel informe del Colegio de Abogados, reci-biría con provecho la reimpresión que San-cha proponía de unos Commentaria in uni-versum ius ecclesiasticum; muchas eran suscualidades – claridad, sencillez, método –,mas a nosotros interesa ahora el carácterabierto de ciertas partes del texto:

en los puntos escabrosos raras veces toma parti-do, se contenta solo a manera de Historiadorimparcial con referir los fundamentos, y sen-tencias que ha havido sobre el particular, y dexaal Lector la libertad de pensar, y de inferir lasconsequencias que le parezcan; en todo guardauna suma prudencia, y sagaz moderacion33.[AHN, Consejos, 5544-11]

Dos escritos de Valentín de Forondapresentados en 1801 al Secretario de Esta-

do nos dan ocasión de concluir el segui-miento de ese giro sutil con testimoniosverdaderamente significativos, tanto por lapersonalidad de los hablantes, cuanto por lasólida heterodoxia de sus afirmaciones.

Quería imprimir Foronda una Carta enque se prueba que las deudas de España soninfinitamente mas pequeñas que las de laYnglaterra, que tenemos tantos recursos parapagar nuestra deuda, y que por consiguiente laGran Bretaña es pobre respecto de la España. Setrataba de un escrito propagandístico y vehe-mente, en forma de epístola y con un desti-natario universal, el lector. La censuracorrespondió a Miguel Cayetano Soler,Ministro de Hacienda, quien correspondió alas expectativas con extensísima respuesta.Aun descartando lo accesorio o redundante,el núcleo sigue siendo digno de traslado:

me parece que puede ocasionar graves conse-quencias a nuestro mismo credito, siempre quela mano del gobierno intervenga en su aprova-cion. Ymprima Foronda por si, y por medio delJuzgado de Ymprentas su obra, quede expuesta ála justa censura que hagan de ella las gentes, y sindexar de apreciar su celo, abandonesele a susuerte, sin tomar parte el Ministerio en las apro-vaciones o desaprovaciones del publico.

La revisión de Soler iba referida tanto ala labor de Foronda como, sobre todo, a laque, a través de escritores como él, veníadesde hacia un siglo promoviendo, equivo-cadamente en su opinión, la Monarquíaespañola:

Es bien sabido que en Ynglaterra, el Gobiernomantiene escritores dentro y fuera de la Ysla, quealaban sus providencias: mas rara vez se le vemezclarse directamente en la publicacion deestas obras; por que sobre perder la ilusion queintenta causar, daria á conocer la devilidad de susrecursos 34.[AHN, Estado, 3238-16]

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Otra obra de Foronda, la Colección demáximas, preceptos y consejos para los señoresIntendentes, Corregidores y Alcaldes, fue revi-sada en cambio por Miguel de Mendinue-ta, gobernador del Consejo; se le felicitaríamás tarde por sus «eruditos y prudentesinformes» (también en AHN, Estado,3238-16), que aquí conviene retomar. Trasaconsejar la supresión de un único pasajecuya divulgación consideraba inconvenien-te, pudo certificar el censor que en la obrano había (ya) cosa alguna opuesta a las leyeso a la religión; era, por el contrario, reco-mendable su impresión:

hallo gran copia de maximas utiles en muchosramos de policia respectivos al Govierno de losPueblos, tratadas filosofica y politicamente, lasquales publicadas en su corto volumen serviransin duda alguna para excitar ideas, y dar motivoá la curiosidad de los Magistrados, y de las demaspersonas aficionadas á la lectura, y capaces porsus conversaciones de ir formando el espiritupublico y disponerlo a novedades utiles.

Consideraba Mendinueta aceptable, yaun valioso, el juicio posterior y parcialmen-te autónomo del impreso, ejercitado por unprimer conjunto de intermediarios formadopor profesionales, mas también por incon-tables y simples “aficionados” que en laspequeñas dimensiones de la obra encontra-rían agradable estímulo. Pero además reco-mendó la oportuna inhibición del poder,insistiendo en la legitimación del público(público en todo caso restringido) para cons-truir en el libre debate su propia opinión:

Por ultimo juzgo que ni la Real autoridad, ni la deVE deben tomar mas parte en el curso de estaobra, y su publicacion, que la que merece otraqualquiera politica, esto es, la de dar licenciapara que se imprima y venda con el objeto de queel publico, si quiere, se entere de sus maximas,y hable como guste en pro, ó en contra de ellas,

lo qual sirve mucho para formar el espiritupublico.

La licencia fue concedida «de acuerdocon el dictamen», aunque en la práctica suúltima recomendación no fue adoptada; dehecho, sabemos que una obra que en talmedida contribuía a la necesaria formaciónde los servidores del Estado fue recibidacon optimismo, reimpresa y distribuidacon apoyo regio.

En vísperas del liberalismo la cuestiónfundamental era entonces la del grado deostentación y exhaustividad con que laMonarquía debía asumir el cultivo del pen-samiento. Difícilmente cabía discutir lacapacidad performativa del texto, la posibi-lidad de labrar la realidad sembrandoimpresos en tierra vacante, valiéndose paraello de una cuadrilla más o menos extensa,más o menos autónoma, de colonos. A unaamplísima masa de cosechadores iletradosse les relegaría, durante tantos años, a unalabor de mera recepción de grano, a ladigestión pretendidamente pasiva de unaopinión ya concluida, en el fondo ajena.

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Disertacion patriotica sobre la Agricultura experimental: prepa-racion de la ley agraria, y menoscabos y ventajas que resul-tan á las haciendas de los particulares, á las comunes delos pueblos, y á la Real de esta preparacion: por el DoctorDon Joseph Castellnou, en «Memorial literario», XVI,junio de 1797, parte primera, pp. 327-356;

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1 “Aquesta restriccion es una máxi-

ma recomendada en nuestras

leyes, y que por haberla descui-

dado algunos, no ha causado á la

República el bien que se propo-

nian...Nuestros mejores Autores

nacionales están libres de este

vicio; y no por eso dexan de ser

unos ingenios gigantes...han ilu-

strado la Nacion, sin que se note

en ellos cosa opuesta al dogma, ni

á la moral...es menester huir los

excesos, para ponerlos en el debi-do tono”, en Discurso sobre la nece-sidad de una Física, pp. 99-101.

2 Según Stiffoni, en estos pasajes,originariamente secretos perorecuperados por la Ilustración, seanuncia, en efecto, la aspiración a«un potere capace di coinvolgerel’opinione pubblica generale neisuoi piani di riforma, attraversola diffusione delle proprieidee...un potere capace di utiliz-zare gli intellettuali come stru-

mento del consenso» (StiffoniVerità, pp. 123-124).

3 Es parte de nuevo de las Reflexio-nes sobre la utilidad: «podemoshacer una comparacion del vulgocon un caminante vacío que vacantando; y de los rigidos de uti-lidad con un demandante, quelleva su mochila al hombro».

4 Así reflexionaba Isla, Juez deImprentas, en julio de 1801. Archi-vo Histórico Nacional, Madrid(AHN), Madrid, Estado, 3248.

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5 Son célebres – y jugosas para una“historiografía de la resistencia”– expresiones como las reserva-das por los ilustrados a sus dia-rios o a su más íntima correspon-dencia. Así, Jovellanos confesabaen 1800 que «la época presente,si buena para meditar y escribir,no lo es todavía para publicar»;junto a manifestaciones semejan-tes, es acogida por Maravall (Estu-dio, p. 436). Sea ésta también laocasión de subrayar la inexacti-tud – confesada por el autor – deltítulo del artículo, pues es a lalibertad de expresión – y no depensamiento – a la que esencial-mente atiende y atendemos aquí.

6 Kant, “Beantwortung der Frage:Was ist Aufklärung?”; se trata desu celebérrima participación aldebate iniciado en diciembre de1783 por Zöllner, desde las páginasdel Berlinische Monatsschrift, entorno al concepto de Aufklärung.

7 Tagliapietra refiere un episodiosignificativo: en torno a 1792 loscensores afirmaron que un escri-to de Kant, «come altri», queda-ba «destinato non a tutti i lettoriin generale, ma soltanto a dotticapaci di riflessione, di ricerca edi distinzione», «solo per costo-ro fruibile» (Che cos’è l’illumini-smo?, p. 25, n. 11).

8 Como es bien sabido, Kant repitehasta dos veces el que parece ver-dadero lema de la ilustración pru-siana: raisonniert, soviel ihr wolltund worüber ihr wollt; abergehorcht!

9 Este mismo cambio es apreciableen la lucha del despotismo finise-cular contra aquel género de sátirade “matiz personal”, “humor yamargura” y considerable fugaci-dad, que proliferaba a principios desiglo espoleada por el tradicionali-smo austracista (López, Opinión).

10 Voz “opinion”, primera acepción,en Diccionario de la lengua castel-lana (1791). Aún significa tam-bién «fama, ó concepto que seforma de alguno».

11 Voz “opinión”, segunda acepción,en Diccionario de la lengua castel-lana (1832).

12 «Pública voz y fama. Expr. conque se da á entender que algunacosa se tiene corrientemente porcierta y verdadera, por asegurar-lo casi todos. Vulgaris opinio inomnium ore», en Diccionario de lalengua castellana (1791).

13 En efecto, no aparece como tal nisiquiera en la edición de 1832.

14 Refiriéndose a las décadas cen-trales del siglo XVIII, dice EgidoLópez (Opinión pública, p. 35) que«la prensa en este momento apa-rece formadora y creadora de laopinión en vez de constituir unreflejo del sentir común».

15 Se refiere en concreto el escritoranónimo a la prohibición enEspaña de muselinas y demásgéneros importados. Como apun-ta el título, se trataba de la conti-nuación de un artículo publicadoel mes anterior.

16 Antonio Codorniu, Dolencias de lacrítica que, para precaución de laestudiosa juventud expone a la doc-ta madura edad y dirige al muy ilu-stre Sr. D. fray Benito Jerónimo Fei-joo, Oliva, Gerona, 1760, p. 21,citado en Lázaro Carreter, Lasidéas, pp. 237-238.

17 El modo de formular el problemaaparecía frecuentemente recogi-do por la prensa periódica: «Si esconveniente á la causa publica lalibre multitud de abogados; ó sifuese conveniente la reduccion deestos profesores, con que mediosi oportunas providencias sepodria executar», AHN, Consejos,5546-145.

18 Muy representativo, en mi opi-nión, de la sectorialización de laantigua y global “literatura” es larelajación del control sobre elteatro, que permite anticiparincluso el abandono de la censu-ra previa en este ámbito.

19 Es tentador, efectivamente,sospechar otras posibles lecturas,de mayor hondura y trascenden-

cia, especialmente a la luz delconocido texto de Darnton, Lagran matanza.

20 Los títulos enfrentados, todosellos finalmente autorizados,eran cuatro: Es menor mal sufrirratones que tener gatos, de DamianMaron y Rama, Oracion retorica endefensa de los gatos, de RamonAmad y Ramani, Disertación endefensa de los gatos, de MartínAnselmo de Olive, y Declamaciony sentimientos que hicieron los gatosde Madrid en el Consejo ò juntageneral que celebraron la noche deldoce de abril del año de 1779, conmotibo de haberse publicado en laGaceta de 3 de los mismos la Ora-cion en que se intenta persuadir quees menor mal tener Ratones quesufrir Gatos, de Pedro Trullench,AHN, Consejos, 5544-20, 45, 46 y105.

21 La lentitud de este proceso y elcarácter “literario” de sus prime-ros eslabones contrasta con eldesarrollo del periodismo inglés,caracterizado precoz y directa-mente como instrumento de crí-tica política, merced a la desapa-rición en 1695 de la censura pre-via y a pesar de la existencia deotros mecanismos de controlgubernativo entonces implanta-dos (Minuti, Giornali e opinionepubblica).

22 El Juez de Imprentas expresabacon estas dudas la necesidad develar estrechamente sobre lapublicación de El Regañon general,o Tribunal Catoniano de ciencias yartes, presentado por el Guardia deCorps Ventura Ferrer, igual que lohabía hecho poco antes para elAlmacén literario; AHN, Estado,3238-10. Parece que El Regañonsalió a la luz durante unos meses,entre junio de 1803 y agosto de1804, en un período plagado deiniciativas semejantes (AguilarPiñal, La prensa, p. 41).

23 Se refería el censor a la obra delbachiller Vicente del Seixo sobrePactos, convenciones y contratos

mercantiles, AHN, Consejos, 5554-106.

24 Parece ser éste el camino diecio-chesco para convertir la opiniónvulgar en opinión pública; esrecomendación expresada en 1793por Joaquín Cano y Calvo, cate-drático de derecho natural de losReales Estudios de San Isidro, enMadrid.

25 Es notable ejemplo la sigilosaprohibición ordenada por el Reyen 1818 del Diccionario Economi-co, Estadistico y de Hacienda deJosé Canga Argüelles, por tratar-se de una obra que podía «causarperjuicio á las personas incautasque la lean sin tener los princi-pios de una sana y juiciosa criti-ca», AHN, Consejos, 5569-70.

26 Tal vez sea demasiado aventuradocorroborar las peores sospechascon una última circunstancia:pronto se descubrió que el origi-nal de Castro había desaparecido,y un año después seguía siendoilocalizable.

27 Así, el consejero Blas de Hinoso-ja era en enero de 1785 “director”de la Academia de Jurisprudenciateórico-práctica del Espíritu San-to, y Santiago Ignacio de Espino-sa, fiscal del Consejo, “protector”en la misma fecha de la Real Aca-demia de derecho patrio y públi-

co de San Felipe Neri. En amboscasos se trataba de cargos distin-tos y antepuestos a los de «Presi-dente y fundador».

28 La obra había sido presentada en1795 como una traducción del ita-liano al castellano, con el título deCritica de la Historia Eclesiastica yde los Discursos del Abate ClaudioFleuri, con un apendice sobre sucontinuador del Dr. Juan Marcheti,AHN, Consejos, 5560(II)-94.

29 Se trataba de Lo que hay demas yde menos en España para que sea loque debe ser y no lo que és, y Españadespierta. Criticas e instructivasreflexiones correspondientes á variosé importantisimos asuntos para lamejor organizacion y regimen de laMonarchia Española. Su impre-sión fue finalmente excusada, yaunque su existencia había deconstar en cualquier historia de laliteratura política española, suliteralidad era así escamoteada,parcialmente omitida, AHN, Con-sejos, 5558-51.

30 El dictamen, emitido en julio de1784, iba referido a la Disertacionhistorico legal sobre la incapacidadde los Regulares para suceder abin-testato á los padres ó parientes,redactada «en los ratos de ocio»por el abogado Julian HilariónPastor, AHN, Consejos, 5548-71.

31 Tan rotunda afirmación del fiscalFita, en 1799, quedaba precisa-mente ligada a la debida inhibicióndel Consejo, en este caso ante lapetición de Aniceto de la Cruz deque una de sus obras, meramenteproyectada todavía, fuera “insinua-da” a las Universidades, AHN, Con-sejos, 11.283-25.

32 La “obrita” de Viegas era presen-tada como una «Carta á DonValentin Foronda con motivo deotra de este en que dice que todoslos entendimientos son iguales»;tras la lacónica censura del Vica-rio Eclesiástico, que por entoncesera obligatoria, se encomendó larevisión a Silva. La licencia deimpresión fue concedida.

33 La obra, compuesta por CarloSebastian Berardi, parecía dirigi-da, según los censores, a un«público literario y a los quesiguen la carrera de la Jurispru-dencia en estos Reynos». Lalicencia fue otorgada inmediata-mente, en octubre de 1779.

34 El informe de Soler era de 4 deseptiembre de 1801. Luego no con-sta resolución ni anotación alguna,si bien es previsible el fin queesperaría a esta carta; de hecho estemanuscrito, fechado en Vitoria a24 de julio de 1801, se halla hoyenlegajado junto al expediente.

Conde Naranjo

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L’opinion publique est un pouvoir de date récen-te, et qui s’est constitué en même temps que laliberté. Au temps où la société se divisait en cas-tes, dominée par le privilège, il ne pouvait pasexister d’opinion publique. […] Sans presse lib-re, sans tribune libre, sans droit de réunion etd’association, que devient l’opinion, et commentpeut-elle atteindre ce degré de puissance, qui luiest indispensable pour agir sur les gouverne-ments, et provoquer les réformes qu’elle a pourmission de faire mûrir.[Dollfus, Opinion publique, pp. 423-425]

Universalisée par la Déclaration desdroits de l’homme et du citoyen de 1789, dontl’article 11 sur la « libre communication despensées » s’inspire du Bill of Rights de l’É-tat de Virginie (12 juin 1776), la liberté depresse est le fruit du libéralisme des Lumiè-res. «Et à quoi peut servir de limiter laliberté de la presse?» demande en 1784 l’a-vocat et haut fonctionnaire prussien ErnstFerdinand Klein (1744-1810) en évoquantle paradoxe de la censure.

Ce que vous ne voulez pas laisser imprimer dansvotre pays continue-t-il, enrichit un éditeur du

voisinage à vos dépens. Si vous confisquez l’ou-vrage, il est recherché avec une ardeur redoubléeet lu, interprété, mal interprété.[De la liberté de penser et d’imprimer, p. 59]

Sous l’Ancien régime, limitée ou cen-surée par la justice dans les monarchiesabsolues et les républiques patriciennes1,légalisée entre la Révolution et la Restaura-tion, la “liberté d’imprimer” appartient àla liberté des modernes. Elle renforcel’espace perfectible de la démocratie miseà l’aune de la raison argumentée. SelonBenjamin Constant, partisan vers 1815 dela responsabilité juridique des auteurs pourlimiter la censure, la liberté de la presseéquilibre l’autorité politique qui aspire à«etendre sa surveillance sur la parole»(Principes de politique applicables à tous lesgouvernements représentatifs, pp. 563-572).Attachée à la «publicité» des faits, la liber-té de la presse renforce les « barrières civi-les, politiques, judiciaires ». Elle informel’« autorité quand elle est trompée».

La censure désigne le droit de contrôlerou d’interdire la communication au public

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Censure et opinion publiquedans la République de Genèveau siècle des Lumières

michel porret

giornale di storia costituzionale n. 6 / II semestre 2003

À Marc Neuenschwander

de paroles, d’imprimés, d’images voire demusiques qu’une autorité religieuse, poli-tique, administrative ou militaire détientlégalement ou applique autoritairement encriminalisant les écrits «dangereux»(Duruy, La Censure, 1995; Censure et culture,1995). Sanction morale, interdiction juri-dique, répression pénale: le sens du sub-stantif “censure” est complexe. Il vient dulatin censura qui désigne la charge publiqueattachée au contrôle des mots et des com-portements transgressifs. Marqué par le jusromanum (surveillance, correction desmœurs), le mot signifie longtemps “blâme”ou “mesure disciplinaire” dans le cadreecclésiastique.

Si dès le milieu du XVIIème siècle, la “cen-sure” désigne la condamnation d’une doc-trine par l’Église, le terme se sécularise len-tement pour qualifier la sanction judiciaireénoncée au terme d’un procès contre unaccusé. En outre, “censurer” évoque aussi lemécanisme du contrôle ecclésiastique et éta-tique des manuscrits et des imprimés. Incri-mination des libraires, imprimeurs ouauteurs, interdiction préalable des textes“illicites”, autodafé des imprimés “dange-reux”, “téméraires” et “séditieux”: sous l’An-cien régime, la censure dépend de la justicecriminelle. Sa motivation est souvent reli-gieuse, morale ou politique. Son organisa-tion est judiciaire comme le montre notam-ment l’article 110 du Code criminel de l’Em-pereur Charles V de 1532, qui légalise la«punition des écrits injurieux, et injures cri-minelles» contre les «écrits injurieux ouLibelles diffamatoires». En 1794, encoremarqué par la justice traditionnelle, le Codepénal du Valais ordonne que les «livres cont-re la Religion et les bonnes mœurs [soient]lacérés et brûlés» suite au réquisitoire duProcureur général contre les «Libelles

incendiaires et séditieux» (Code criminel […]appelé la Caroline […], Paris, Claude Simon,1734, pp. 172-173; Code pénal pour le Bas-Valais, Sion, 1794, p. 57, XLIV et XLV).

1. Le tribunal du public

Sous l’Ancien régime, la censure judiciairedes imprimés restaure publiquement lasouveraineté de l’État blessée par le libel-liste. En juin 1777, le Procureur général sub-rogé de Genève poursuit donc, au nom de laRépublique souveraine, l’auteur du «libel-le séditieux» Plaidoyer pour le Sieur DavidPons. Le pamphlet convoque le «Tribunalde l’opinion» pour «insulter les conseils[de la République] en les représentant com-me une assemblée d’âmes viles qui se per-mettrait les plus grandes injustices si ellen’était pas retenue par le cri public […]». Al’instar d’autres libellistes, le brochurierDavid Pons, natif, marchand horloger âgéde 35 ans, incrimine le despotisme desmagistrats genevois sur le «Tribunal dupublic» pour réparer un déni de justice(Porret, Au lendemain de l’‘affaire Rousseau’).

Citant le pénaliste français Daniel Jousseet l’Ordonnance royale du 10 mai 1728 (con-tre les libellistes perturbant l’ordre public),le magistrat réclame la prison contre le pam-phlétaire, ainsi que la combustion de sa bro-chure. L’autodafé guérira publiquement la«maladie d’écrire [qui] se propage étrange-ment chez nous», conclut le Procureur géné-ral dont le réquisitoire est exécuté pour inti-mider l’opinion publique (PC 12985, Conclu-sions du PG subrogé Pictet; Rivoire notice1654, puis 1649). Dès 1760, le problème de lacensure recoupe ainsi la nature de l’opinionpublique liée à l’homme de lettres ou du

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libelliste qui incarnent la conscience critiquede leur temps. Les «Gens de Lettres furent detout temps, les derniers Magistrats desNations corrompues», note en 1779 le poly-graphe rousseauiste Jean Dusaulx (1728-1799) qui rêve d’éclairer le prince et l’opinionpublique (De la Passion du jeu, p. 2).

Entre la paix de 1748 et la guerre de Septans, le néologisme d’“opinion publique”s’enracine progressivement dans le langageet la culture politique des Lumières. Il dési-gne l’ensemble des idées ou jugements par-tagés ou énoncés par un groupe social étroitou étendu (Ozouf, Le concept d’opinionpublique au XVIIIème siècle). De 1762 à 1765,lorsque Voltaire dénonce les scandales judi-ciaires pour écraser l’infâme – affaires Calas,Sirven, La Barre –, il présente au «publicquelques réflexions sur la tolérance, sur l’in-dulgence […]» (Traité sur la tolérance (1763),p. 104). Juge suprême de la vérité, l’opiniondu public devient ainsi l’opinion publique.Elle défie l’opinion du juge, soit la voix offi-cielle du tribunal. Pour Rousseau, l’opinionconstitue une «quatrième» loi, à côté des lois«civiles», «politiques» et «criminelles»,la «plus importante de toutes; qui ne se gra-ve ni sur le marbre, ni sur l’airain, mais dansles cœurs des citoyens». Selon l’auteur duContrat social, de l’«opinion» dépend le«succès de toutes les autres [lois]» (DuContrat social, 1762, II, xii, «Division deslois», pp. 393-394). Pour le magistrat gene-vois Julien Dentand – pénaliste lecteur deBeccaria – l’«opinion publique [résulte] desopinions particulières de la pluralité desindividus de l’État» (Essai de jurisprudencecriminelle, p. 56). Selon Jacques Peuchet en1789, l’opinion publique – «somme de tou-tes les lumières sociales» – pourra seuleendiguer le despotisme par la puissancemorale de la souveraineté populaire:

L’opinion publique diffère et de l’esprit d’obéis-sance qui doit régner dans un État despotique, etdes opinions populaires qui président aux déli-bérations républicaines. Elle se compose d’unefoule d’idées que l’expérience des hommes et leprogrès des lumières ont successivement intro-duites dans un État où le gouvernement ne permetpas à la liberté nationale l’énergie de son caractè-re […]. C’est l’arme qu’un peuple éclairé opposeen masse aux opérations précipitées d’un minis-tre ambitieux ou d’une administration égarée.[Discours préliminaire, pp. IX-X]

La force morale de l’«opinion généra-le» selon Condorcet culmine avant la Révo-lution avec la «propagation des lumières»qui illustre la «perfectibilité indéfinie del’espèce humaine». Forgeant l’«opinionpublique […] pour que la masse même dupeuple parût prête à se laisser diriger parelle et à lui obéir», les «publicistes» prô-nent la «liberté de penser et d’écrire» quiappartient aux «droits naturels». L’impactde l’opinion publique est donc politique:l’«autorité presque arbitraire [est] conte-nue par l’opinion, réglée par les lumières»(Esquisses d’un tableau historique des progrèsde l’esprit humain, pp. 215-217, 225, 229-231). Le pouvoir est ainsi tempéré par la«liberté civile». En 1798, le concept «opi-nion publique» entre dans le Dictionnairede l’Académie. Sous la Révolution et l’Empi-re, selon les Jacobins puis la police napo-léonienne, la «conscience publique» oul’«esprit public» désignent alors l’opinionpublique qui exprime celle de la Nation.Tocqueville affirme que l’opinion publiquedu siècle des Lumières désacralise peu àpeu la monarchie et prépare 1789:

Comme il n’existait plus d’institutions libres, parconséquent plus de classes politiques, plus decorps politiques vivants, plus de partis organiséset conduits, et qu’en l’absence de toutes ces for-ces régulières la direction de l’opinion publique,

Porret

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quand [elle] vint à renaître, échut uniquement àdes philosophes.[L’Ancien régime et la Révolution, III, 8, p. 314,nous soulignons]

Selon l’historien républicain Félix Roc-quain en 1878, «au XVIIIème siècle, le livreétait l’organe de l’opinion», matrice des«droits sacrés de la conscience». Enœuvrant pour la «fermentation de la pen-sée publique», l’homme de lettres obligealors le «gouvernement» à se défendre parla censure (L’Esprit révolutionnaire avant laRévolution, Préface, pp. V-XI; cf. Appendice:les livres condamnés, 1715-1789, pp. 489-535). Le public lettré devient alors l’auto-rité morale supérieure, à laquelle le “phi-losophe” s’adresse pour légitimer sadémarche critique. Vitalisée par les Lumiè-res, résultant du commerce libre des idées,l’opinion publique forge l’espace démocra-tique du débat politique.

Aisé comme Voltaire ou modeste à l’ins-tar de Rousseau, l’écrivain incarne sociale-ment l’autorité morale dont les écrits com-pensent l’autorité politique ou ecclésias-tique (Masseau, L’Invention de l’intellectuel,pp. 50-62; Reynié, Le Triomphe de l’opinionpublique, passim). Expression d’une souve-raineté collective, elle conteste la souverai-neté des magistrats qui «opinent secrète-ment». Elle soumet l’autorité (Église, roi,Parlement, conseils d’une république) et lesinstitutions ecclésiastiques, civiles et judi-ciaires à la critique publique qui vise l’uni-versalité du vrai en désignant la tyrannie,l’arbitraire et la liberté. La puissance de l’o-pinion publique provient de sa forme d’ex-pression abstraite. Voix impersonnelle quivalide des valeurs universelles dans l’espritde chacun, elle est la conscience indivi-duelle formulée au nom de la collectivité.En rendant un verdict sans appel, l’opinion

mène chaque individu à «entendre la voixde tous et donc la voix de personne; et croi-re ne la tenir finalement que de soi» (Ozouf,Le concept d’opinion publique, pp. 35-37).L’opinion publique dessine les horizonsd’attentes d’une société, elle en nourrit l’i-maginaire social. Les conflits entre la librai-rie et la censure illustrent les enjeux sociaux,politiques et culturels de l’opinion publiqueau temps des Lumières. Brochure, libelle,pamphlet: l’imprimé suscite, encadre etembrase l’opinion publique comme le mon-tre dès 1760 le cas genevois.

La République de Genève est souverainedepuis l’adoption de la réforme par leConseil général des citoyens le 21 mai 1536.Dès 1568, cet État populaire est gouvernéaristocratiquement sous les bâtons des qua-tre syndics. Jusqu’au XVIIIème siècle, l’endi-guement croissant de la souveraineté duConseil général des citoyens par les conseilssupérieurs (ou restreints) qui se cooptentpour gouverner l’État, institutionnalise sonrépublicanisme à l’ancienne. Le régime aris-to-démocratique qui en découle sépare ain-si le droit de la souveraineté des citoyens deson exercice confisqué par le Petit conseil(Fazy, Les Constitutions de la République deGenève; Tronchin, L’Etat du gouvernement pré-sent de la République de Genève [1721]).

«Rome protestante» protégée par sesfortifications et sa garnison de mercenai-res, la ville-État élabore un régime juridiquede censure pour contrôler tout ouvrageimprimé à l’adresse de la République. Exa-men de chaque manuscrit ou épreuvesd’imprimerie par les «Seigneurs Scho-larques» ou le Petit conseil, permission dela Seigneurie pour l’impression, dépôt légalà la Bibliothèque de l’Académie de«quelque livre que ce soit […] avant qu’enfaire aucune vente»: deux ordonnances de

Ricerche

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1560 et de 1580 formulent ainsi le régimelégal de la censure préventive qui ne varieguère jusqu’au XVIIIème siècle (Santschi, LaCensure à Genève au XVIIème siècle, pp. 9-24).Après 1750, selon les Edits de 1762, 1766,1781 et 1788, l’autorité des vingt-cinq mem-bres du Petit conseil se resserre sur la poli-ce du livre déléguée à la justice criminelle(auditeurs de justice, huissiers):

Nul ne pourra tenir une Imprimerie, que la per-mission ne lui ait été accordée par le Conseil. LesImprimeurs ne pourront imprimer aucun Livre enun lieu secret, ni tenir leurs Presses que là où ilsauront déclaré aux Seigneurs Scholarques que leurintention était de les placer. Les seuls Imprimeursautorisés par le Conseil pourront tenir des Pres-ses et des Caractères servant à imprimer ; défen-ses sont faites à toute autre personne d’en avoir, enquelque lieu et sous quelque prétexte que ce soit.[Règlement sur les Imprimeurs approuvé au Magni-fique conseil des Deux-Cent, le 22 avril 1788, art. I-III; Rivoire, notice 2938]

De même qu’en France, à Genève la cen-sure préventive ou répressive concerne tousles ouvrages, sauf les factums (mémoiresjudiciaires) rédigés par un avocat, impri-més puis distribués publiquement (Règle-ment sur les Imprimeurs, cit., art. V; Droin,Factums judiciaires genevois). L’Edit de 1791libéralise ensuite jusqu’à la période fran-çaise de Genève (1798-1814) le «droit d’im-primer, de faire imprimer et de publier tousles livres» en le soudant à la responsabilitéjuridique de l’imprimeur lorsque les textesmenacent l’«indépendance de l’Etat»(Kleinschmidt, Les Imprimeurs et libraires dela République de Genève, pp. 19-51; Rivoire,notices 707, 932, 2168, 2538, 3382 – Edits).

De la Réforme jusqu’à son «rattache-ment» au Directoire en 1798, la Républiqueest un centre éditorial européen grâce à sasouveraineté et au beau savoir-faire de ses

imprimeurs (Candaux, Lescaze, Cinq sièclesd’imprimerie genevoise). Ouvrages de théolo-gie, de droit, d’histoire et de science: l’édi-tion concentre la main d’œuvre spécialisée,les capitaux et le talent éditorial dans l’éco-nomie locale. Quelques monuments desLumières sortent des presses genevoises:L’Esprit des lois de Montesquieu (1748), l’En-cyclopédie de Diderot et d’Alembert, œuvresde Voltaire, ouvrages de Bonnet, la Biblio-thèque britannique dès 1796, (etc.).

2. La «brochuromanie»

En 1789, le publiciste et historien patrioteFrancis d’Ivernois inspiré par Rousseaurappelle sous le couvert de l’anonymat à ses“compatriotes” la nature despotique dugouvernement genevois qui recourt régu-lièrement aux armées d’États étrangers

Porret

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La ville de Genève en 1597

pour maintenir le régime aristo-démocra-tique contre l’intérêt de la République:

Citoyens de Genève! Cette coûteuse expériencevous apprendra qu’en moins d’un siècle, vosadministrateurs eurent quatre fois recours à desappuis étrangers. […] je ne vois qu’un moyend’en prévenir le retour ou les effets; c’est que l’und’entre vous se dévoue, s’il le faut, pour livrer dèsaujourd’hui à l’opinion publique et à votre sûretéfuture, trois importantes victimes, le Ministrequi vous opprima, et les deux hommes par les-quels il se laissa séduire.[Tableau historique et politique des deux dernièresrévolutions de Genèv, I, «Dédicace aux Genevois»,pp. IV-V]

Ainsi, l’imprimé défend ou critique en out-re le régime aristo-démocratique de laville-État. La contestation juridique oupolitique prolonge en brochures impri-mées le droit traditionnel de supplique ou“droit de représentation”.

Pacifiant la “guerre civile” qui opposedès 1734 une frange des citoyens “patrio-tiques” à l’aristo-démocratie des conseilssupérieurs (CC, Petit conseil), la Médiation(1738) de Versailles, Zurich et Berne recon-duit et renforce le droit de représentation:

Les Citoyens et Bourgeois conformément à l’Editde 1707 auront droit de faire telles Représenta-tions qu’ils jugeront convenables au bien de l’É-tat à Messieurs les Syndics ou Procureur Général;sous l’expresse défense de commettre aucune sor-te de violence, à peine de châtiment suivant l’exi-gence du cas.[Règlement de l’illustre Médiation pour la pacificationdes troubles de la République de Genève, Genève,1738, art. VII, p. 8; Rivoire, notice 405]

Manuscrites, jointes aux Registres duConseil jusque vers 1750, les «représenta-tions» sont ensuite imprimées. En débat-tant publiquement de la souveraineté bri-dée du Conseil général des citoyens, en

déplorant l’infériorité civique des natifs faceaux bourgeois et citoyens ou en fustigeantune décision judiciaire, les «représenta-tions» forgent l’opinion publique etcitoyenne de la cité. Au cours du XVIIIème

siècle, la fréquence des représentations aug-mente progressivement, comme le montrecette brève statistique qui illustre la chro-nologie des crises politiques et sociales deGenève (Rivoire, I, passim):

1734: cinq Représentations imprimées; 1763: une;1766: une; 1767: 2; 1768: 7; 1772: une; 1773: 4;1774: 3; 1775: une; 1776: 5; 1779: 6; 1780: 17; 1781:19; 1782: 13; en 1783 suppression du «droit dereprésentation» rétabli en 1790; 1791: 14; 1792: 6.

Aux représentations des “patriotes”genevois, attachés à la «Constitution» etinspirés du «célèbre Montesquieu», quidénoncent en 1763 le «jugement rendu parle Magnifique Conseil contre […] Rousseauet deux de ses ouvrages» (Représentations descitoyens et bourgeois de Genève au Premier syn-dic de cette République avec les réponses duConseil à ces Représentations, s.l. [Genève],1763, pp. 3, 9, 11), s’ajoutent les brochureset libelles imprimés jusqu’à la fin de l’An-cien régime. Ces textes forgent l’«espritpublic» des Genevois. Publiés notammententre 1770 et 1790, plus de 5000 titres signa-lent la culture juridique des républicains, lavitalité de la librairie locale et la “témérité”des pamphlétaires.

Édit, Ordonnance, extrait des registresdu Conseil, placard, «Avis au public», sen-tence criminelle, libelle, «Représenta-tion», «Mémoire», «Plaidoyer», «Let-tre», «Discours»: cette masse d’ouvragesofficiels ou privés contient notamment 1200brochures politiques imprimées entre 1781et 1791. Ce “débordement” pamphlétairepublicise la contestation littéraire du régime

Ricerche

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politique. «Monsieur et cher Ami. Je doispour faire cesser l’étonnement où vous êtes,commencer par vous mettre sous les yeux cequi a donné lieu à cette foule de petits écrits,connus sous le nom de brochure»: frappépar la vitalité de l’opinion publique dans un«petit État» comme Genève, un brochurierinconnu, de sensibilité représentante,publie en 1777 la Lettre d’un citoyen à un de sesamis, sur l’étonnement où il est de voir paraît-re un aussi grand nombre de brochures. Il raillela «fureur avec laquelle chacun s’empresseà donner au Public des balivernes souventrépétées» (Rivoire, notice 1566, pp. [1], 4).

Mince ou épaisse, la brochure exprimepourtant les conflits constitutionnels etsociaux de la République. Réclamant lapublication d’un “code” politique, incrimi-nant ou défendant les représentants ou lesnégatifs qui les combattent, attaquant les«magistrats despotiques», ce crescendoéditorial illustre la «brochuromanie». Son“fanatisme” suscite en 1781 l’ironie d’unpamphlétaire anonyme:

Vous n’avez pas dans votre tranquille séjour unemaladie épidémique appelée la brochuromanie.Ceux qui en ont le virus en sont tout d’un coupfrappés : dès qu’il paraît un ouvrage qui a singu-lièrement pour but le bien public. Ses symptô-mes s’annoncent d’abord par un dégoût singulierpour tous les honnêtes gens, les bons Patriotes.On voit dans les yeux du Brochuromane quelquechose d’extraordinaire, sa mine devient rouillée,livide, il devient hargneux […] à force d’agitationle malade transpire abondamment.[L’Observateur vigilant, censure de la brochuroma-nie et portrait du brochuromane [Genève, 1781], p.XX ; Rivoire, notice 2183]

Genève compte 25000 habitants vers1760 (27700 en 1789) (Perrenoud, LesRéalités humaines, p. 49): 1200 hommesenviron (Bourgeois, Citoyens) disposent

des droits de la citoyenneté qui les mène auConseil général pour délibérer «souverai-nement» des affaires publiques et désignerleurs magistrats promus par cooptation auxconseils supérieurs de la République. Juri-diquement divisée en Natifs, Habitants etEtrangers, formant pour les deux premiersrangs une classe moyenne économique-ment dynamique, le reste de la populationurbaine est sans droit civique. L’opinionpublique recoupe donc celle des Citoyenset Bourgeois, des Natifs politiquementengagés, ainsi que celle des membres actifset des «petits commissaires» de l’un desdouze «cercles» “patriotiques” ou conser-vateurs de la ville.

Cercle des Amis de Jean-Jacques, des Bar-rières, des Bons Ragoûts, de la Cloche, de l’E-galité, des Genevois, de la Grille, du SoleilLevant, de la Liberté (etc.) (Rivoire, II, pp.467-468; Gautier, Un Cercle deux fois cente-naire, pp. 7-37): peu étudiés, les cercles deGenève préfigurent le réseau serré des«clubs» (environ 30) qui dès 1793 partici-pent de manière radicale ou modérée à larévolution genevoise en régénérant l’opi-nion publique ou en fournissant une partiedu personnel révolutionnaire: Club des Amisde Jean-Jacques, des Amis de la Révolution, duBerceau de Jean-Jacques, de l’Egalité, desEgaux, Fraternels de Carouge, du Consistoire,Fraternel des Révolutionnaire, de la Grille, deGuillaume-Tell, des Montagnards sentinelles,de la Paix, des Sans-culottes de Plainpalais,etc. (Rivoire, II, p. 470). Dès la fin desannées 1770, creuset de la fermentationdémocratique et de la vigilance civique, lescercles exerceraient un gouvernement invi-sible selon l’anonyme Réponse à la premièrelettre adressée à un négatif modéré (1780)(Rivoire, notice 2004). Le 20 juillet 1782,après que trois armées coalisées – France,

Porret

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Sardaigne, Berne – aient restauré l’oligar-chie aristo-démocratique balayée par larévolution «représentante» de février1781, le gouvernement interdit les cerclespolitiques et encourage en décembre l’éta-blissement de “cafés publics” au rez-de-chaussée des immeubles pour faciliter leurcontrôle policier (De la part de nos Magni-fiques et très honorés Seigneurs […]. Donné le20 juillet 1782, Rivoire, notices 2519, 2520,ainsi que 2559 et 2560 [2 décembre 1782]).

Bien souvent, outre celle volatile de lacité, le brochurier vise donc l’opinion descercles pour renforcer sa légitimité poli-tique, acquérir leur suffrage ou les provo-quer. Editée le 1er mars 1780, la Lettre écritedu Purgatoire par Monsieur le colonel J. J. G**.à ses confrères les cent cinq, qui raille les«représentants», est notamment diffuséeaux cercles conservateurs de Montreal (dou-ze exemplaires) et du Grand Mézel (idem).Entre-temps, un garçonnet en dépose cin-quante exemplaires chez une revendeuse debrochures dont la boutique perquisitionnéepar un huissier – qui a déjà fouillé les impri-meries de la cité – recèle plusieurs brasséesde libelles «suspects» diffusés par colpor-tage (PC 13478, «Verbal»; Rivoire, notice1878). En 1777, le Roi des Oiseaux, bateleurcélèbre, est ainsi arrêté après s’être fournichez l’imprimeur Pierre Gallay pour avoirvendu dans les rues plusieurs douzainesd’exemplaires d’une «chanson séditieuse»intitulée Chanson nouvelle qui incrimine lesnégatifs (PC 12930, «Déclaration» du col-porteur François Miale; Rivoire, notice1654). Distribué ainsi sous le manteau oudans les cercles, vendu dans les rues ou lesboutiques par les colporteurs ou les épiciè-res, se réclamant de l’opinion publique, lepamphlet suscite la vigilance des autoritéslorsqu’il conteste la légitimité des institu-

tions républicaines. Nourrissant les pres-ses locales, l’écrivain séditieux est accuséd’enflammer l’opinion publique pour minerl’ordre social de la cité:

Ce dictionnaire, note le 30 octobre 1766 le Pro-cureur général Jean-Robert Tronchin qui récla-me le bannissement perpétuel du citoyen JosephLamande auteur du Dictionnaire des négatifs, n’estpas seulement un coupable recueil de médisan-ces hasardées et d’impostures calomnieuses, c’estun libelle séditieux dans lequel l’auteur s’efforced’aigrir les défiances, d’irriter les haines, d’a-charner ses Concitoyens les uns contre les aut-res, de les soulever contre le Gouvernement […].[PC 11516, Conclusions du PG, fol. 172 ; Rivoire,notice 940]

Entre 1750 et 1798, la police du livreappliquée à Genève illustre le lien entreopinion publique et censure. Sur près de7000 dossiers criminels, 128 délits sontqualifiés par une infraction littéraire. Laflétrissure des livres confisqués, lacérés etbrûlés devant la Maison de ville culmineentre 1760 et 1771, puis en 1777 et 1784(pics: 1765, 1767, 1770, 1777, 1780). Lachronologie de la censure correspond auparoxysme des crises sociales, politiques etconstitutionnelles qui menacent l’ordrepublic de la République. Pourtant, avec unemoyenne annuelle de quatre interdictionsentre 1760 et 1793, ce faible taux répressif(2.13%) ne signale que la criminalité appa-rente du “livre séditieux”. Ce chiffre igno-re les ouvrages illicites non poursuivis, ain-si que ceux détruits arbitrairement durantles perquisitions des imprimeries, librai-ries et boutiques de revendeurs de livres2.En 1777, traquant les pamphlets politiquesà travers la cité, l’auditeur de justice Cla-parède fouille l’atelier de Pierre Galay,rempli d’«estampes représentant dessujets […] infâmes». Gallay est un récidi-

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viste qui a été poursuivi en 1769 pour avoir«débité» la farce pornographique de Clau-de-François Lambert intitulée La NouvelleMessaline [1752], rééditée en 1768 chez DeFelice à Yverdon (PC 11843, «Verbal»; cf.Darnton, The Corpus of Clandestine Literatu-re, p.127, notice 470). Confisquant ramesde papier et pamphlets, brisant parfois lesplanches déjà composées, le magistratapplique ainsi une censure sommaire:

Nous avons observé que les ouvriers de l’Imprime-rie étaient occupés à imprimer un ouvrage, et nousétant fait représenter plusieurs feuilles de cetouvrage, nous avons vu que c’était un livre remplid’obscénités, nous avons fait enlever les planches,de même que les feuillets qu’on venait d’imprimer.[PC 12930, Verbal]

Le “libelle diffamatoire” qui déshono-re la vie privée et les mœurs d’un particu-lier est confisqué puis détruit à l’abri de l’o-pinion publique. En février 1780, diffama-toire dans le contexte d’une affaire demœurs instruite par la justice, L’Atténua-tion complète de l’exploit signifié à Sr. JeanPestre par la Dlle. Fontaine, au sujet d’unenfant que ladite Dlle. A fait en avril 1779 est«secrètement» lacérée durant une séancedu Petit conseil. Reconnaissant avoirenfreint la loi, le libraire Etienne Pestre aimprimé 500 exemplaires de la brochuredont il a détruit le manuscrit (PC 13452 ;Rivoire, notice 1855).

Globalement, le contentieux de la cen-sure genevoise (128 interdictions juridi-quement motivées entre 1750 et 1798)recoupe quatre catégories. En premier lieu,la justice censure 102 «libelles séditieux»envers l’État (78.9%) (Porret, Edition etcombustion: les circonstances de la censure àGenève au XVIIIème siècle). Lettre d’un solitai-re outrageant en 1765 le Conseil, Mémoire

instructif concernant les natifs donné àimprimer en juillet 1767 par le patrioterépublicain Jean-Pierre Bérenger, Lettrecirculaire des natifs sur la dernière révolutionde cette république du même auteur brûléepubliquement le 31 mars 1770, Mémoire jus-tificatif pour les citoyens de Genève pareille-ment lacérée et brûlée le 3 juillet 1770, ouencore Apologie des citoyens de Genève pourles natifs aussi calcinée le 12 juillet 1771, LePostillon de la liberté, ou le courrier américainet Les Vérités ou nouvelles philippiques quiconnaissent pareil sort le 27 mars et le 16juin 1780 (Respectivement, Rivoire, noti-ces, 827, 981, 1226, 1239, 1298, 1892, 1921):ainsi, les libelles hostiles à la constitution“aristo-démocratique” de la Républiqueviennent en tête de la censure des ouvragespolitiques avec 89 autodafés.

Conduite de sa Majesté du roi de Sardaigneenvers nous, mise en comparaison ou l’Escala-de du douzième décembre renvoyée au quinziè-me, chanson condamnée le 16 février 1768à être lacérée et brûlée, Recueil historique ouspectacle de la folie au pays des Grisons confis-qué pour insolences le 26 septembre 1767chez Gabriel Grasset, ou encore l’Histoire deGenève par Jean-Pierre Bérenger notée enaoût 1773 sur le livre des sentences: la jus-tice poursuit ensuite treize pamphlets quiinsultent un État souverain ou les «gouver-nements alliés» de la République – France,Berne, Fribourg3. Suivent encore douzeinterdictions d’imprimés (9.3%) qualifiésde « piétistes », téméraires, irréligieux ouathées, dont les Dialogues chrétiens ou préser-vatif contre l’Encyclopédie et le Dictionnairephilosophique de Voltaire brûlés respective-ment les 17 septembre 1760 et 25 septemb-re 1764, Émile, ou de l’éducation de Rousseauincinérés avec le Contrat social le 19 juin1762, ou encore Les Lettres écrites de la Mon-

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tagne (Rousseau) saisies en octobre 1765chez l’imprimeur Gabriel Grasset, ainsi quel’Histoire critique de Jésus Christ du barond’Holbach confisquée en janvier 1780 chezle même imprimeur – «prisonnier pouravoir donné à relier plusieurs exemplaires[de ce] livre impie».

Suspect habituel pour les autorités,Grasset paye cette fois une amende de 500florins (soit la somme équivalente au salai-re de 250 journées d’un ouvrier charpen-tier) (PC 13440, «Réponses personnellesde Gabriel, fils de Pierre Grasset», fol. 9).Finalement, les censeurs visent huit«libelles diffamatoires» contre des parti-culiers (6.25%), ainsi qu’une demi-dou-zaine d’imprimés «obscènes» (4.7%),dont le célèbre Gazetier cuirassé, ou anecdo-tes scandaleuses de la cour de France, publiésans nom par le libelliste libertin CharlesThéveneau de Morande (PC 12265, 1772,incrimination des libraires-imprimeursJacques-Benjamin Téron et Jacob Chirol;cf. Porret, Etouffer l’obscénité). La pratiquede la censure en montre la complexitérépressive. Souvent, l’incrimination d’unimprimé illicite repose sur un contentieuxhétéroclite, arbitrairement constitué.«Séditieux» envers le Petit Conseil accuséde «despotisme», un pamphlet peut aussi«diffamer» un particulier, le déshonorer,le menacer devant l’opinion publique.

3. Le Procureur général motive la censure

«Dans ces écrits» déplorant la prise d’ar-mes de février 1770 contre les natifs com-parée à une nouvelle Saint-Barthélémy, lesellier Antoine Bourseault «attaque l’Étaten général par ses sentences séditieuses»,

note en juin 1773 le Procureur généralGaliffe. Ayant brodé des paroles libertairessur des équipages de grenadiers, le polé-miste ne vise qu’à «entretenir l’animositédes natifs mal intentionnés [et] les exciterà la sédition»4. La censure judiciaire deslibelles manuscrits ou imprimés veut doncendiguer la «contagion» des idées subver-sives socialement répandues par les libel-listes. Pour les magistrats qui la motivent,la censure est donc un garde-fou social.Avocat général au Parlement de Paris de1755 à 1790, fustigeant les philosophes etl’Encyclopédie, Antoine Louis Séguier récla-me donc en 1770 l’autodafé de sept libelles«licencieux et impies». Leurs auteurs neplaident la «liberté de penser que pours’affranchir de toute espèce de dépendan-ce civile et politique»:

ne pouvons-nous pas aujourd’hui adresser lesmêmes paroles [sévères] aux écrivains de ce siè-cle, à la vue de cette espèce de confédération quiréunit presque tous les Auteurs, en tout genre,contre la Religion et le Gouvernement? Il n’estplus possible de se le dissimuler; cette ligue cri-minelle a trahi elle-même son secret. Son butprincipal est de détruire l’harmonie établie ent-re tous les ordres de l’État, et maintenue par larelation intime qui a toujours subsisté entre ladoctrine de l’Église et les lois politiques.[Séguier, Réquisitoire, pp. 2, 32, 34]

La censure à Genève est motivée, com-me à Paris, par le parquet qui défend l’au-torité de l’État. Alarmé par le «scandale»d’un imprimé qui «insulte la République»,le parquet demande au Petit conseil de fai-re «informer» sur les protagonistes du cri-me littéraire – imprimeur, réseau de dis-tribution, libelliste, acheteurs, témoins. Lepamphlet est ainsi incriminé pour être cen-suré au terme d’un procès légalisé par lesEdits, la jurisprudence locale ou française

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et la doctrine pénale. Information, enquê-te et perquisitions de la scène éditoriale(imprimeries, ateliers, librairies, dépôts,caves, greniers), confiscation des pièces àconviction (maculatures, épreuves, impri-més, correspondances, comptabilités, bal-lots parfois saisis aux portes de la ville),arrestation, incarcération, interrogatoiredes protagonistes du livre interdit (impri-meur, libraire, libelliste), expertise «typo-graphico-légale» de l’imprimé suspect(papier, filigrane, caractères, etc.) rédigéepar un maître imprimeur ou un fondeur decaractères (Porret, Expertises typographico-légales et censures des imprimés au XVIIIème

siècle: l’exemple genevois): ainsi instruite, laprocédure, via le Petit conseil, revient auProcureur général. Celui-ci lit et résume la« brochure séditieuse » pour qualifier lecorps du délit et motiver la peine réclaméecontre le délinquant littéraire.

Le «réquisitoire» fonde le «corps dudélit» qu’est le pamphlet incriminé. En1786, le Procureur général François-AndréNaville charge ainsi un anonyme libelle:«Une brochure intitulée Adresse à Messieursles Membres du CC et adjoints Par AbrahamBinet, Citoyen de Genève etc., et commen-çant par ces mots ‘Pour que le Peuple soitheureux’ et finissant par ceux-ci ‘la plusintègre équité’ est déféré par la procédureci-jointe, à Vos seigneuries et au ProcureurGénéral» (PC 15002, Conclusions du PG, fol.21; Rivoire, notice 2855). Ensuite, le magis-trat démontre que le «libelliste» viole la loiqui prohibe la publicité littéraire des affai-res politiques: «Je conclus, note en janvier1781 le même procureur, à ce qu’il plaise àVos Seigneuries de le déclarer [imprimeur]dûment convaincu, tant par les preuvescontenues au procès instruit contre lui quepar ses propres aveux, d’avoir imprimé ledit

libelle, et contrevenu par là non seulementà vos ordonnances générales, mais notam-ment à votre arrêt du 29 mars 1780»5.

L’enquête de l’auditeur dans le mondedu livre est cruciale pour le parquet. Eneffet, sous le régime arbitraire des délits etdes peines, la carence de lois exactes sur lasédition littéraire oblige le Procureur géné-ral à qualifier le délit d’imprimerie selonmaintes «circonstances» matérielles oumorales. Selon la typologie pénale6, les«circonstances» sont tirées de la matéria-lité éditoriale: anonymat ou pseudonyme,adresse typographique fausse ou absente,date non mentionnée ou fictive, impression«illicite» à Genève, contrefaçon des emblè-mes républicains ou des ornements typo-graphiques d’un imprimeur, commerciali-sation clandestine.

Ni «le papier, ni le caractère ne [peu-vent] donner aucun indice sur les impri-meurs de cet ouvrage», note en mai 1765 unauditeur qui compare la typographie de laRéponse à l’auteur de La Gazette d’Amsterdam,à la lettre qui lui fut adressée le 13 mars 1765 àcelles du Dictionnaire philosophique de Vol-taire et de la Réponse aux Lettres de la Campa-gne par d’Ivernois (Rivoire, notice 794), tousdeux imprimés chez Grasset. Ayant fait des«perquisitions fort exactes» dans lesimprimeries de la cité, le magistrat «infor-me» ici contre l’auteur, l’imprimeur et ledistributeur de cet «ouvrage destructif [du]gouvernement» de la République. Le publicl’achète à Carouge ainsi que chez les habi-tuels revendeurs genevois et «loueuses delivres» fréquentés par Rousseau adoles-cent7.

Les circonstances “morales” du crimelittéraire sont aussi nombreuses. Elles accu-sent les «brochures infâmes» que le Pro-cureur général de Genève lit pour les pour-

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suivre en pointant les valeurs «attentatoi-res»: apologie de la sédition armée, violen-ce verbale, «incitation à la haine sociale»,«diffamation» de magistrats ou de parti-culiers, volonté d’«aigrir» le peuple pourle dresser contre le gouvernement, démo-ralisation du «public», mépris des institu-tions républicaines comparées au «despo-tisme». Chargeant l’imprimeur et le librai-re, les circonstances de la sédition littérai-re motivent la censure. Ayant qualifié lecorps du délit éditorial, le Procureur géné-ral en motive la peine. Il requiert la flétris-sure publique du livre devant la Maison deville. À chaque fois, le libelle «séditieux»concernant Genève est ainsi «lacéré» puis«brûlé» par le bourreau. Les libelles diffa-matoires sont censurés discrètement àl’instar des écrits «obscènes».

La censure ne se borne pas à la théâtra-lisation de l’autodafé. Fidèle à la jurispru-dence locale, le Procureur général réclamel’amende contre le condamné en faveur del’État. En outre, il exige parfois la censure(suspension) de la «maîtrise» d’un impri-meur ou libraire, voire leur incarcération.

Finalement, il demande aussi que le pam-phlet déjà diffusé soit «rapporté en Chan-cellerie» par leurs propriétaires. En casd’infraction «atroce», lorsque la séditions’ajoute à l’injure, le Parquet demande lebannissement de l’imprimeur ou du libel-liste. En 1766, le Procureur général Jean-Robert Tronchin poursuit le pamphlétaireJoseph Lamande, auteur d’une «brochuredétestable, séditieuse [qui] tourne en ridi-cule 178 Citoyens». Pour réparer ce crimelittéraire contre l’État, ses magistrats etquelques particuliers, le libelle est brûlépubliquement. Fugitif, son auteur estcondamné en effigie au bannissement per-pétuel sous «peine de mort», après avoir étécensuré et demandé «pardon à Dieu et à laSeigneurie, genoux en terre, aux pieds duTribunal» et fait «amende honorable partoute la ville […], chemise blanche, tête nue,pieds nus, une torche ardente au poing»8.

L’autodafé peut scandaliser l’opinionpublique et provoquer la colère des«patriotes». Ainsi, en 1767, «Maître Pas-teur», bourreau, dépose plainte pourdénoncer le libelle manuscrit – orthogra-phié phonétiquement – qui le menace.Approuvant la censure des livres qui offen-sent la «Gloire de Dieu», le texte rappellel’«office infâme» du bourreau genevois enlui faisant «craindre pour ses jours» (PC11631, libelle, 1767). Au nom de l’opinionpublique, le libelliste patriote demande àPasteur de désobéir au Petit Conseil qui vaexiger de «brûler [un] ouvrage indigned’une telle fin»:

par ta conduite à ce sujet, note le libelliste, jeconnaîtrai si tes sentiments sont analogues à tafonction; si ils ne le sont pas, tu répondras har-diment que tu n’es pas fait pour brûler les droitsirrévocables de 12 milles bons, vertueux, braves ethonnêtes citoyens, mais pour punir les scélérats

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Gravure publiée dans Tableau historique et politiquedes deux dernières révolutions de Genève, Françoisd’Ivernois (1782)

et brûler des ouvrages séditieux, contraire à laGloire de Dieu et à la conservation de cet État [...] ;si tu le brûles, crains pour tes jours, Dieu veuilleque tu sois le dernier citoyen de ton métier.

Confiscation, amende, bûcher, empri-sonnement ou bannissement: l’arsenalpénal du Parquet contre la sédition litté-raire varie selon la nature de chaque délit.En opinant «secrètement» pour la censu-re après avoir ouï le réquisitoire du Procu-reur général suivi neuf fois sur dix dès 1738,le Petit conseil fustige la circulation socia-le des pamphlets qui fragilisent l’ordresocial en braquant l’opinion publique cont-re la République. Le Parquet limite ainsil’arbitraire du Petit conseil. Les objectifspolitiques de la censure sont légalementmotivés pour renforcer l’autorité de laRépublique et intimider l’opinion publiquepar l’autodafé du libelle.

4. Censure, curiosité publique

La poursuite judiciaire des pamphlets illus-tre l’enjeu politique de la censure étatiquequi réprime publiquement les libelles sédi-tieux légitimés par l’opinion publique. «Jene doute pas, note le 9 avril 1765 le Procu-reur général subrogé Rilliet qui réclame lacombustion d’un pamphlet, que Vos Sei-gneuries ne sentent l’importance d’arrêterenfin la licence de la presse» en flétrissantchaque brochure «téméraire, séditieuse,injurieuse contre le Magnifique Conseil etdestructive des Lois fondamentales de l’É-tat». Selon ce magistrat, le libelliste qui«inspire la défiance sur [les] premiersmagistrats de l’État» mérite le feu de la cen-sure. Celle-ci doit «prévenir le débit» dela sédition littéraire, souvent qualifiée com-

me un crime de lèse-majesté républicaine9.Pour le Procureur général Galiffe, le publi-ciste aspire à «fomenter les divisions et àtroubler la tranquillité». Appartenant à la«classe des crimes de lèse-majesté ausecond chef» son délit «mérite plus qu’au-cun autre la vigilance et la sévérité desmagistrats puisqu’il attaque la société entiè-re dont ils sont les gardiens» (PC 12456,1773, cit., Conclusions du PG, fol. 42).

Théâtralisé devant le tribunal face aupeuple réuni à son de trompe, l’autodafé dupamphlet combat la «fermentationpublique» de la pensée subversive. Inci-nérant le «libelle détestable, calomnieux,criminel», l’autodafé repousse la «conta-gion» littéraire de la contestation poli-tique. Non seulement la justice doit «flétrirde tels écrits», exige fin avril 1765 le mêmemagistrat qui obtient la combustion d’unlibelle séditieux, mais les autorités doiventen «prévenir le débit» en cherchant à«connaître les auteurs» subversifs pour lesincriminer10.

Selon les magistrats de Genève qui l’ap-pliquent au nom de la République souve-raine, la censure brisera l’opinion publiquelorsque celle-ci conteste l’autorité de l’État.Répandu durant la nuit du 20 au 21 novem-bre 1769 dans les estaminets du faubourgde Saint-Gervais, les rues de Genève ainsique sur le «banc» de la Résidence de Fran-ce, ce «libelle est d’un bout à l’autre un cripublic à la sédition et à l’émotion populai-re», souligne le Procureur Général JacquesMercier qui en réclame la combustionpublique. Ironisant en sept quatrains surl’inégalité des bourgeois et des natifsdevant la justice, la Chanson nouvelle sur l’airPour passer doucement la vie «calomnie l’in-tégrité du magistrat» (PC 11955, Conclu-sions du PG). Or, en incinérant le libelle

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pour rétablir la «tranquillité publique, lemaintien de la Constitution et l’honneur duGouvernement» (Procureur général subro-gé Rilliet en 1765), la censure embrase l’o-pinion publique. Devant le tribunal, lebûcher du livre la radicalise. Dès 1760, lacensure des imprimés disqualifie moins les«vues séditieuses» du libelliste qu’elleprouve la tyrannie étatique qu’il dénonce.Poursuivi en juin 1762 sur réquisitoire duProcureur général Jean-Robert Tronchinpour ses textes «téméraires, scandaleux,impies, tendant à détruire la Religion chré-tienne et tous les gouvernements» (Contratsocial, l’Emile), Rousseau, proclamé en jus-tice («contrainte de corps»), utilise le 12mai 1763 ce procès pour abdiquer à perpé-tuité son droit de bourgeoisie dans la répu-blique de Genève.

Transformant ainsi la publicité d’uncoutumier autodafé en un scandale poli-tique concernant l’opinion publique deGenève, il revendique pourtant l’«honneurdu bûcher» qui place ses écrits du côté dela liberté. La censure assure la publicité deslivres et l’avenir des idées «subversives»:«Mes Livres, quoi qu’on en fasse, porte-ront toujours témoignages d’eux-mêmes,et le traitement qu’ils ont reçu ne fera quesauver de l’opprobre ceux qui auront l’hon-neur d’être brûlés après eux» (Lettres écri-tes de la montagne (sixième lettre), in OC, p.812). A l’instar de Rousseau qui récupère laflétrissure de ses ouvrages pour légitimermoralement sa posture sociale d’écrivain,le libelliste voit son combat justifié par lacensure qui le réprime.

Dès 1760, certains procureurs générauxde Genève répètent, comme le chancelierMalesherbes responsable de la censure roya-le (Mémoires sur la librairie, 1758; Mémoire surla liberté de la presse, 1788), que l’autodafé du

livre séditieux est contre-productif. Nonseulement il suscite les contrefaçons et rui-ne la librairie officielle, mais il légitimemoralement l’auteur poursuivi. Rousseaumontre en effet que la censure tyranniquefonde la vérité littéraire. En outre, le bûchertransforme l’ouvrage interdit en best-seller.Incriminant en 1764 le Dictionnaire philoso-phique de Voltaire, Jean-Robert Tronchinénonce cette thèse en notant que le paradoxede la censure réside dans la publicité littérai-re que l’autodafé confère à un ouvrage «phi-losophique»: les «flammes auxquelles oncondamne un Livre allument [...] la curiosi-té publique; il était peu connu, de ce momentil va acquérir de la célébrité. Il y en avait peud’exemplaires, on en sera bientôt inondé; etau lieu d’étouffer dans sa naissance un poi-son contagieux, on en précipite le progrès etla circulation» (PC 11296, «Dictionnaire phi-losophique portatif», ainsi que RC, fol. 470).Puisqu’il vise à mobiliser l’opinion publique,un «misérable libelle» sera alors «aban-donné à l’oubli qu’il mérite», ajoute en 1765le même magistrat en réclamant la saisie dis-crète d’une brochure pamphlétaire de trei-ze pages intitulée Lettre d’un citoyen à Jean-Jacques Rousseau en mars 1765, laquelle«contient divers traits injurieux et calom-nieux» contre l’autorité du Procureur géné-ral de Genève (Registre du Conseil, 1765, 16novembre, fol. 509; Rivoire, notice 848).

Selon Tronchin, le mépris et le silencede la censure envers les imprimés illicitessuffisent à neutraliser silencieusement les«indignes brochures». Attiré par le scan-dale littéraire, le libelliste recherche lapublicité de l’autodafé qui accélère son suc-cès éditorial. Voulant rétablir l’intégrité desa souveraineté que blesse le pamphlet, l’É-tat censeur promeut publiquement le livreséditieux. Après 1750, quelques procureurs

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généraux signalent l’archaïsme politique dela justice qui brûle les ouvrages «indignes»pour écraser le «murmure» séditieux.Ainsi, visant à neutraliser la «publicité»11

obtenue par le libelliste, la censure ampli-fie la force morale de l’opinion publique.Plus forte dès 1760 à Genève commeailleurs en Europe, celle-ci délégitime l’au-todafé organisé sur le forum de la cité. L’ef-fet paradoxal de la censure réside dans lefait qu’elle renforce l’opinion publique quela censure veut étouffer pour contrer la«maladie d’écrire» du libelliste.

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Tocqueville (Alexis de), L’Ancien régime et la Révolution (1856),Paris, Gallimard (folio), 1967 (éd. J.-P. Mayer), III;

Tronchin (Antoine), L’Etat du gouvernement présent de laRépublique de Genève [1721], Genève, sans nom d’édi-teur, 1901;

Voltaire (Jean-Marie Arouet de), Traité sur la tolérance(1763), in Raymond Trousson (éd.), Voltaire et les droitsde l’homme. Textes sur la justice et la tolérance, Bruxelles,Centre d’Action laïque, 1994, p. 104.

Ricerche

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1 Déposés aux Archives d’État deGenève, les procès criminels utili-sés ici (dorénavant PC) concernentun ouvrage séditieux poursuivi parle Procureur général de Genève(dorénavant PG). Sur son rôlejudiciaire: Porret, Le Crime et sescirconstances. Pour identifier lesimprimés genevois cités ici (édits,brochures, pamphlets, libelles,etc.): Rivoire, Bibliographique histo-rique de Genève au XVIIIème siècle(dorénavant Rivoire).

2 PC 16562, 27 oct. 1791, «Verbal»de l’auditeur Diodati qui recher-che en vain (10 boutiques perqui-sitionnées) une «tragédie dusieur Desonnaz intitulée La Mortde Fati», ainsi que le Moniteurgenevois attribué au patriote Jac-ques Grenus; Rivoire notices3343 et 3364.

3 PC 14016, 1783, information surl’édition (genevoise?) d’une bro-chure intitulée Abrégé historiquedes révolutions de la ville de Fribourg(s.d.); PC 14031, 1783, idem surplusieurs libelles concernant legouvernement fribourgeois.

4 PC 12456, «Conclusions» du PGqui réclame cinq ans de bannis-sement contre l’inculpé dont un

libelle affirme « Nous sommestous etgaut ».

5 PC 13590, «Impression de libel-le», «Conclusions» du PG sub-rogé Naville contre le libraire etimprimeur Pierre Frémont (ditButini) accusé d’avoir impriméMes Vœux ou les Etrennes duMagnifique Petit Conseil à la Patriepour l’année 1780; Rivoire, notice2040.

6 Pierre-François Muyart de Vou-glans, Les Lois criminelles de Fran-ce dans leur ordre naturel, Paris,Merigot, 1780, p. 436: «livresimprimés sans permission […],sans nom d’Imprimeur, ni d’Au-teur, ni de la Ville où ils ont étéimprimés», «Livres sous un fauxnom d’Imprimeur» (etc.).

7 PC 11361, «Verbal»; Rivoire,notice 832; cf. Les Confessions,«Livre premier», Œuvres complè-tes, I, Paris, Gallimard, 1959, p.39; Rousseau fréquente la bouti-que de «La Tribu». Malgré les«censures» du «Vénérable Con-sistoire», elle attire la jeunessependant les catéchismes et lessermons pour vendre ses livres.

8 PC 11516, 1766, «Conclusions»du PG Jean-Robert Tronchin;

Rivoire, notice 940. Revenu àGenève en le 28 mai 1769, Laman-de est relaxé faute de preuves.

9 PC 11350, 1765, «Conclusions» duPG contre la Lettre d’un solitaire [15pp.], rédigée en faveur des repré-sentants, contre le «conseil légal,purement aristocratique» de laRépublique, débitée «de toutesparts» à Genève par la revendeu-se Noblet et brûlée le 10 avril versmidi; Rivoire, notice 827.

10 PC 11361, 1765, cit., «Conclu-sions» du PG contre la Réponse àl’auteur de La Gazette d’Amsterdam,à la lettre qui lui fut adressée le 13mars 1765 [7 pp.], plaidant à nou-veau la cause civique des repré-sentants, débitée à Carouge auLogis de la Ville de Genève et brû-lée le 4 mai; Rivoire, notice 832.

11 PC 14066, 1783, «Conclusions»du PG François-André Navillecontre le pasteur Jean-FrançoisPaulet, auteur de l’Essai chrétiensur les sources de nos erreurs mora-les (Neuchâtel, 1783) qui compa-re la vénérable compagnie despasteurs de Genève à une«assemblée de Dieux».

Itinerari

El único modo de conservar la libertad deimprenta, es que no haya leyes humanas relati-vas a ella.[J. Bentham, Carta al Conde de Toreno]*

I

La historia de la libertad de opinión e impren-ta1 es la historia también de paradojas queaún permanecen en nuestros días. Y lo esporque es también la historia de dos honras,la pública y la privada, la del Poder y la delindividuo. La historia de la opinión libre esla historia de la defensa del honor del poderreligioso o político (confundidos inextrica-blemente durante más de dos tercios de esahistoria), y la defensa de la reputación de laspersonas frente a quienes lo mancillabanponiéndolo en cuestión con sus críticas (enel más benévolo de los casos). Pero no nosdejemos confundir por las palabras, porquesi en apariencia la historia de la libertad deopinión lo es también de la defensa de aque-llas honras, tras dicha apariencia no hay sino

una historia de la lucha por el poder. Porquela honra de uno y otro, la honra del Estado ode la persona, no era sino la expresión de suauctoritas, que se defendía ejerciendo elimperium para perseguir a quienes median-te sus palabras, dichas o escritas, ponía enentredicho la autoridad moral del Estado, laIglesia o las personas honorables. Poner encuestión su autoridad quebrando su honrales restaba legitimidad, bien para ejercerjustamente aquel imperium, caso del Estadoy la Iglesia, bien para seguir siendo persona

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Historia de una paradoja:los orígines de la libertad de expresíon

ignacio villaverde

giornale di storia costituzionale n. 6 / II semestre 2003

* Cita tomada de Molinero, 1989, p.53. El presente artí-culo es un breve resumen de parte de la Ponencia que tuve elhonor de defender públicamente con el título «Introduc-ción histórica a las libertades de información y expresión»en las VII Jornadas de la Asociación de Letrados del Tribu-nal Constitucional, celebradas en octubre de 2001, cuyasActas han sido publicadas ya en el Centro de Estudios Polí-ticos y Constitucionales, Madrid, 2003. Debo agradecer a laDirección de dicha Asociación, y en particular a su Presi-dente Germán Fernández Farreres, su amable permiso parapublicar de forma separada este trabajo; así como a los ami-gos y compañeros que con sus observaciones y sugerenciasme han permitido mejorar este trabajo en su forma y fondo,muy en especial al ya citado Germán Fernández Farreres, aIgnacio Borrajo Iniesta y a Ignacio Fernández Sarasola.

digna de confianza y con autoridad, en par-ticular en el tráfico jurídico-económico pri-vado. Si el Estado o la Iglesia eran atacadosen su honra, se minaba su legitimación paramandar; si la persona era atacada en su hon-ra se le causaba un daño al hacerla desmere-cer en sus relaciones, en especial jurídicas yparticularmente económicas, con los otros.

Muy posteriormente, casi en las décadasmás recientes, es cuando la libertad de opi-nión e imprenta se piensa de otra forma.Cuando la defensa del honor del Estado pier-de su naturaleza personal, la propia en la quese estribaba el honor de las personas, yadquiere una dimensión pareja a la institu-cionalización y formalización del propioPoder público. Ya no se defiende el honordel monarca o de quienes encarnan a laReligión, sino las bases mismas de la legiti-midad del Estado: la paz jurídica, que escuestión de formas y procesos instituciona-lizados. Una cuestión preservada y conside-rada ajena a las cuestiones de mera opinión.

El Estado, entonces, perseguirá todaopinión que socave ese fundamento legiti-mador del nuevo Estado (las palabras que secreían provocadoras de actos violentos con-trarios a las condiciones propias que auto-rizaban el uso de la fuerza por el Estado -apología, propaganda, conspiración e ins-tigaciones -, o se consideraban ellas mis-mas violentas – lo que modernamentedenominamos fighting words y hate speech).En este estadio, lo jurídicamente relevanteno será el fundamento mismo de la restric-ción a la libertad de opinión e imprenta, elpor qué se pueden castigar ciertas opinio-nes, lo que resultaba evidente a la razónpara la época y sus pensadores; sino el pro-cedimiento a seguir para su persecución ycastigo; en fin, el cómo se pueden castigar.El Siglo XIX y buena parte del XX son las

épocas del due process of law para perseguirlas opiniones no toleradas en el Estadoliberal de Derecho.

También la defensa de la honra perso-nal sufre cambios con el tiempo. En esen-cia se espiritualiza, abstrayéndose del valorpatrimonial del daño que en el tráfico jurí-dico-económico sufre quien ha visto man-cillada su reputación. Ya no se defiende sólola honra con valor económico, también lahonra en su dimensión moral, de forma quela indemnización, mecanismo jurídicohabitual para castigar y/o reparar el dañosufrido, ya no compensa sólo debida y ade-cuadamente la lesión patrimonial probadapor el ofendido, sino también y además, esla forma civilizada (y quizá la propia ensociedades mercantilizadas como las detradición europea) de reparar en la medi-da de lo posible el daño moral sufrido.

Esta primera representación apresura-da de la Historia de la libertad de opiniónlo es también del proceso de laicización ydemocratización de las bases de la legiti-mación del Estado moderno. En efecto, ladesvinculación del honor del Estado del dela Religión, del de quienes forman parte delos órganos estatales, e incluso del ligado alos fundamentos mismos de su autoridad,fue un largo y tortuoso proceso de la tole-rancia religiosa al respeto y protección deldisidente político (siempre con un límitemás allá del cual la disidencia resultabainaceptable) anudado a la institucionaliza-ción y formalización de los sustentos de lalegitimación del Poder público. La protec-ción al crítico se incorpora a las bases de lalegitimación del Estado constitucional(opinión pública libre, libre discusión delas ideas, mercado libre de las ideas).

Sin embargo, esa misma libertad, queese mismo Estado propugnaba como uno

Itinerari

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de sus más sólidos e insoslayable pilar,constituía al tiempo una actividad de ries-go para su salud. Tal era así, que pronto sela sujetó a mecanismos más o menos suti-les de control y restricción para evitar quela opinión pública (reducida a mero fenó-meno privado y jurídicamente irrelevante)fuese la causa de la ruina, y acaso, de la pro-pia destrucción del Estado. Semejante tran-ce difícilmente podía soportarse sin para-dojas y perplejidades.

La mayor y más evidente paradoja con-siste en que cuanto más se proclamaba laradical consustancialidad de la libertad deopinión e imprenta para la subsistencia yfortalecimiento del nuevo Estado liberal,más normas se promulgaban para contenery refrenar los abusos de los que tan capitallibertad podía llegar a ser víctima. ElDecreto de 10 de noviembre de 1810, pro-mulgado por las Cortes de Cádiz, deseabagarantizar la libertad de opinión e impren-ta mediante el castigo de sus abusos. Lo queadquiere importancia es el modo en quedebe decidirse qué opiniones son abusivas.En suma, fijar el proceso legalmente debi-do del castigo de los abusos de la libertad deopinión e imprenta. Las leyes de prensa eimprenta eran leyes represivas del abuso dela libertad de opinar, y no normas garantesde dicha libertad. Lo que por otra partenada de extraño tiene. En el modelo Cons-titucional liberal la función de la Ley eraprecisamente fijar los límites de las liber-tades naturales de los individuos.

Al menos, en ese proceso, la defensa delEstado frente a la opinión disidente fueabandonando progresivamente la idea dedaño inflingido en la autoridad del Estadocomo fundamento de la prevención y cas-tigo de aquellas opiniones, sustituyéndolapor la de la defensa del bien común. En fin,

la prohibición y castigo de determinadasopiniones políticas irán progresivamenteligándose a la defensa de la colectividad,castigando aquellas palabras cuya difusiónlesione o ponga en grave riesgo el biencomún, cifrado éste en la erradicación dela violencia física y de su amenaza comomedio de cohabitación social. La últimafrontera irrebasable ya no será el honor delEstado, sino la defensa de los ciudadanosfrente a la coacción sutil de las palabras.

La libertad civil de opinión e imprenta,en tensión con la protección del honor dela persona, sigue caminos paralelos a lostransitados por la libertad política de opi-nión e imprenta. La inicial proposición,según la cual, el Estado no castiga las opi-niones privadas (en el sentido de no polí-ticas) sino el daño que con las mismas sehaga (proposición falaz a todas luces, puesclaro está que se castigan esas opinionesprivadas, sólo que la causa de su castigodebe buscarse en el daño que ocasionan yno en las palabras mismas) da paso a la sal-vaguardia de un bien distinto, el de el ase-guramiento de la pacífica convivencia entrepersonas garantizando que las ofensas depalabra se lavarán con la aplicación delcódigo penal y no recurriendo al dueloentre caballeros de honor.

La evolución de la libertad de opiniónno ha necesitado de grandes cambios ide-ológicos, ni ha requerido reemplazar lastécnicas jurídicas de composición de con-flictos y reparación de daños, que, en últi-mo término, han sido siempre los mismosen esa evolución histórica.

Pero esta Historia arrastra consigo,como no podía ser de otro modo, sus pro-pias, y en ocasiones insolubles, contradic-ciones e incógnitas. Así, aquélla evoluciónsufrida por la libertad política de opinión

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no ha resuelt o la paradoja que sigue pas-mando a los teóricos según la cual el Esta-do debe proteger opiniones en las que,indudablemente, puede estar, o más sim-plemente, contienen el germen de su pro-pia destrucción. ¿Hasta dónde debe llegarla protección de las opiniones crítica ofrontalmente contrarias con el Estado libe-ral-democrático de Derecho? Asegurarprotección a dichas opiniones políticaspuede que haga más democrático al Esta-do, pero también es posible que lo haga másdébil frente a sus enemigos.

Pero no sólo las paradojas provienen desu faz política. La libertad civil de opinióntambién es prisionera del proceso inversoal sufrido por su dimensión política. Si estadimensión política ha transitado de la pro-hibición y el castigo a la protección (eincluso sobreprotección), la civil ha vistocómo su contrario, el honor ajeno (y susaledaños, intimidad y propia imagen), enese proceso de progresiva espiritualizacióny abstracción de su estribo económico, seha alzado como un nuevo derecho funda-mental. Un derecho fundamental colocadoen pie de igualdad junto a la libertad de opi-nión en los sistemas constitucionales libe-ral-democráticos contemporáneos, reivin-dicando cada vez con más fuerza y convic-ción su lugar en los fundamentos del Esta-do democrático, como expresión de la dig-nidad del ser humano.

Pero esta Historia también puede sercontada de otro modo. También puede serla historia por la posesión de la verdad. Endefinitiva, quien defiende su honra, sea elEstado, la Iglesia o la persona privada, estádefendiendo una determinada verdadsobre sí mismo, y la verdad por definiciónes una y no se discute. Obviamente, siendoasí las cosas, poco espacio le queda a la libre

discusión de las ideas, cuando de discutirsobre las cosas verdaderas se trata (cosastales como la Religión, Dios, el Estado, elRey …, hasta la propia Constitución).

Sin embargo, quienes fueron persegui-dos por sostener otras verdades, o más sim-plemente, dudar de la verdad, clamaron porsu derecho natural a no serlo por sus opi-niones e ideas, con el argumento de quenadie, ni siquiera el Estado o la Iglesia eraninfalibles. Como afirmó Milton en su Areo-pagítica2, las opiniones no tienen por quéser verdaderas a priori, en ese caso la dis-cusión de las distintas opiniones dejaría deserlo para convertirse en una plural afir-mación del dogma con el que coincidan. Ladiscusión debe ser libre, decía Milton, por-que la ausencia de coacción en la disputagarantiza que la verdad es fruto de la discu-sión y no de la imposición de las opinionesconsideradas verdaderas ex ante por quiense tiene por infalible3.

La verdad se impone acallando al que ladiscute o la niega, porque la verdad, ese bienpreciado de la teoría política clásica, su bús-queda, descubrimiento y posesión, es la sus-tancia del Estado, y su luz alumbra a la Jus-ticia. Es la Ilustración la que mina esa pro-funda fe en la verdad única e indiscutiblepara todos los órdenes de la vida, y afirmaque en política no hay verdad, sino opinión;o mejor dicho, la opinión pública es la queestá en posesión de la verdad. La política noes lugar apropiado para hablar de verdades,porque quizá no las haya. Herencia bienadministrada por el Liberalismo. Quien aca-lla las voces de quienes opinan de forma dis-par, se arroga, como dejó dicho el ilustreliberal J.S.Mill recogiendo el legado Ilustra-do, una infalibilidad injustificada y obstru-ye el único medio idóneo para alcanzar lo quepuede acercarse, no a la verdad, sino a la

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decisión u opinión más correcta (y másbeneficiosa para el conjunto de la sociedad).Ese medio era la libre discusión de las dis-tintas opiniones. Un mercado en el que com-petirán unas con otras, siendo la correcta, lamejor, la más acertada por ser la más racio-nal, la que se alce victoriosa en esa disputa.Una vez más aparece en escena esa fe en quelo racional, por serlo, siempre triunfa. Nadiedebe interferir en ese mercado, como nadiedebe hacerlo en el económico, ni siquiera elEstado, ya que las leyes naturales de ambosmercados asegurarán el éxito de lo mejor.

II

El contexto histórico en el que ha deenmarcarse la reivindicación originaria dela libertad de opinión e imprenta es el de lalucha por la tolerancia religiosa y contra lacensura regia o eclesiástica, principal obs-táculo para una convivencia pacífica entrelas distintas Fés y para una disputa libreentre las diversas opiniones e ideas políti-cas o religiosas sin el temor a pagar con lapropia vida por ello, y que constituyó uno delos aspectos sobresalientes del proceso deformación del Estado liberal de Derecho.

La consecución de la ansiada paz civil (yjurídica) mediante el reconocimiento yprotección de las libertades naturales delindividuo, entre las que se contaba la de noser sancionado por sus ideas y creencias, ytampoco por expresarlas públicamente, queacompañaría, según sus teóricos y activis-tas, a la instauración del Estado (material)de Derecho, fue uno de los más eficacesargumentos contra la posesión de la «ver-dad» en la que el monarca absoluto pre-tendía estribar la legitimidad de su poder

en lo terrenal, y el de la Iglesia en lo espi-ritual, en la medida en que su fuerza demandar se quería derivada de una verdadrevelada única e indiscutible (Kamen, Naci-miento; Böckenförde, Die Entstehung, p. 42;Grimm, Recht, pp. 237, 242 y 243).

Si en el origen de esta libertad estuvo enla lucha por la tolerancia religiosa y la liber-tad de culto, será luego, como paso interme-dio en su evolución, la idea de los Ilustradosde una «libre comunicación de las luces», ysu empeño en atajar la ignorancia popular, elsegundo gran propósito de su vindicación.La ignorancia, pensaban aquéllos, hacíaimposible el uso de la razón, y, por ende, todacrítica racional (la duda cartesiana aplicadatambién a lo político), cosa que sin duda pro-piciaba la manipulación del Pueblo y contri-buía al establecimiento y mantenimiento deEstados arbitrarios y tiránicos (así lo desta-can Schmitt, Verfassungslehre, pp. 171-172;Bullinger, Freiheit, § 142, n. 10 y ss.; Hart-mann, Meinungsfreiheit, p. 96; Schneider,Eigenart, p. 16; Otto y Pardo, Derecho, p.132).

Así pues, las libertades religiosa y de opi-nión servían de protección al disidente en loespiritual y en lo terrenal, o al menos ese erasu objetivo: que quien pensara y expresarasu pensamiento no temiese al castigo por sudisidencia, ya que ésta, no era sino unamanifestación de su raciocinio, marca dis-tintiva de su ser natural.

Las primeras invocaciones propiamen-te dichas de la libertad de opinión eimprenta, concebida esta libertad como unfenómeno autónomo de la reivindicaciónde la tolerancia, tiene lugar cuando se ele-va a primer término la petición de libertadpara la discusión de las ideas políticas, unavez alcanzada (al menos en apariencia) latolerancia religiosa en el marco del Estadodespótico. Terminar con la censura estatal

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185

de las ideas políticas (y en menor medida dela eclesial, que constituía aún un residuoconfesional del Estado absoluto) será unode los objetivos prioritarios del Constitu-cionalismo. Sin embargo, este propósito delos pensadores y teóricos del Constitucio-nalismo no llego a contagiar la prácticapolítica y constitucional del Estado liberal,que mantuvo la censura como instrumentoútil para reprimir los “abusos” de la liber-tad de imprenta durante largo tiempo. ElRégimen absolutista apuntaló su lucha con-tra la disidencia política mediante la ins-tauración de férreos sistemas de censura,la instauración de monopolios estatalessobre las imprentas o el papel (al que sesolía someter a un régimen fiscal especial-mente gravoso), y con la promulgación dediversas normas de policía de imprenta.

Al igual que en otros ámbitos de las rela-ciones socio-jurídicas, la salvaguardia de lasalus publica en ese ámbito de la discusiónpolítica ofrecía al Monarca un título deintervención que se articulaba a través denormas de policía de imprenta que sujeta-ban la existencia de imprentas y la consi-guiente publicación de libros, panfletos ydemás escritos, a la obtención de una pre-via licencia regia, e incluso se establecía sunecesaria ubicación en ciertas ciudadesúnicamente, así como se prohibía la impor-tación de libros o cualquiera otra clase deescritos. No fue distinta la práctica del des-potismo Ilustrado, para el que la única opi-nión relevante era la del Monarca cuyasuperior “ilustración” le hacía ser el únicoidóneo para opinar y tomar decisiones4.

Sin embargo, los primeros textos nor-mativos en los que la libertad de opinión eimprenta se garantizaba expresamente, ade-más de tardío, anudaban dicha libertad a latolerancia religiosa o, allí donde la había, a

la actividad parlamentaria. En efecto, elPreußisches Allgemaines Landrecht de 1794,en su § 4 establecía que nadie podía ser per-seguido por sus creencias religiosas; y el art.9 del Bill of Rights inglés de 1689 establecíaque la libertad de palabra de los parlamen-tarios sólo podía ser perseguida o investiga-da por el propio Parlamento.

En suma, la libertad de opinión eimprenta, se positiviza como una faceta dela libertad religiosa o como un privilegio delfuero parlamentario. Los restantes aspectosde esa libertad, como la simple libertad depalabra o la de crítica políticas, se embebe-rán, en último término, en la invocacióngeneral de la libertad natural individual (losderechos innatos del hombre) frente alpoder del Monarca absoluto (o del déspotailustrado o del Parlamento soberano). Si esareivindicación perseguía sobre todo la segu-ridad jurídica de que se respetaría un deter-minado due process of law para restringir laslibertades naturales del individuo, comocobijo ante la arbitrariedad, idéntica pre-tensión anidaba en la invocación por losindividuos o los jueces de la libertad de opi-nión e imprenta en tanto dimensión de lalibertad natural de los primeros: que la per-secución o sanción por las opiniones políti-cas se hiciese con plena sujeción al due pro-cess of law: lo que puede explicar, en parte, laspeculiaridades procesales de la persecucióny sanción legal con ocasión de la divulgaciónde ciertas opiniones (v. Goring, Aüßerungs-freiheit, p. 61; Meyer, Die Enstehung).

Han sido las Declaraciones de Derechosnorteamericanas las primeras en garantizaren rigor la libertad de opinión e imprentade los ciudadanos, sin distinguir la clase deopinión protegida frente a su persecuciónpor el Poder público, y teniendo esa pro-tección como un pilar del nuevo Estado5. El

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salto cualitativo dado por estas Declaracio-nes es capital, ya que para el modelo norte-americano, la garantía de la libertad de opi-nión e imprenta no se reduce a la exigenciadel proceso legal debido, tan caro a la tra-dición británica.

Por su parte, los sistemas continentalesseguirán la senda británica hasta bien entra-do el Siglo XX. Ciertamente, la Declaraciónfrancesa de Derechos del Hombre y el Ciu-dadano de 1789 y las posteriores Constitu-ciones de 1791, 1793 y 1795 reconocieronaquella libertad en términos similares a losBill norteamericanos. Pero no es menoscierto que en Francia, y en definitiva en elContinente, el trato jurídico que en la prác-tica recibía la libertad de opinión e impren-ta se sujetaba a la ley que establecía sus lími-tes, conforme a las remisiones que a la mis-ma hacían a tal fin los distintos preceptosconstitucionales que reconocía dicha liber-tad; ley que instauraba diversas formas decontrol de la opinión política (y en algunoscasos, como el español, también religiosa).

En fin, la libertad de opinión e impren-ta era lo que el Legislador disponía en lasnormas de policía de imprenta y en los códi-gos civiles y penales, o en leyes específicasde prensa. Dicho en otras palabras, para-fraseando a Blackstone, subrayando así esaraigambre anglosajona del derecho conti-nental de la libertad de opinión e impren-ta, esta libertad comenzaba donde la ley quela regulaba callaba (Blackstone, Commenta-ries, pp. 136-138). En los estados Unidos deNorteamérica, por el contrario, y en parti-cular desde la promulgación de la PrimeraEnmienda de su Constitución federal en1791, esa misma libertad se erigía, sinembargo, en límite constitucional a la Ley.

Expresar libremente la opinión y lasideas se concebía por los liberales como el

fenómeno externo de una conciencia librey racional que sólo podía subsistir en liber-tad y que únicamente con ella, libre y racio-nal, se podía erigir y sostener un Estadojusto (esto es, regido por la razón)6. Su carosistema representativo era concebido como«el gobierno de la opinión», en palabrasde Bagehot (The English Constitution). Y,también, sólo un tipo de Estado podíagarantizarla, aquel que encuentra su justi-ficación en salvaguardia de esa libertad.Luchar por expresar con libertad lo que sepensaba era luchar por un tipo de Estadoque se diferenciaba de otros porque estosúltimos basaban su poder en la persecuciónde las ideas disidentes.

La clave de bóveda está en la paridad quedebía existir entre las distintas opinionespolíticas o religiosas; ninguna debía pesarmás que las otras. Para ello se despojaba aesa esfera de la pública discusión de ideasy opiniones de toda facultad de ejercicio de

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Frontispicio de Dos ensayos sobre el gobierno civil,John Locke

coacción directa o indirecta, física o sim-bólica, asegurando así la paz social y jurídi-ca sin necesidad de declarar como verda-dera una única opinión acallando a las res-tantes con la amenaza de la coacción, comohiciera el Estado absoluto. Sólo cuando conlo manifestado se afectaba el «biencomún», es decir, a la estabilidad mismadel Estado o se lesionaban otros bienesjurídicos individuales, se habilitaba al per-judicado (Estado o particulares) para actuarconforme a los procedimientos judicialesprevistos. Así, en apariencia, no se tratabade acallar o perseguir ninguna opinión,sino de castigar por igual a toda opinióncontraria a los fundamentos mismos delEstado liberal que propiciaban la pacíficadiscusión de las ideas y opiniones: el res-peto a los intereses civiles y al sistema jurí-dico que hacía posible ese respeto.

Una vez más, las diferencias con el Anti-guo Régimen en el modo de abordar idén-ticos asuntos, más allá del aparente reco-nocimiento de libertades individualescomo la que nos ocupa, está en las formas yprocedimientos: el bien común o los inte-reses civiles amenazados o perjudicadospor un abuso de la libertad de opinar(como, en definitiva, así era para el restode libertades) ya no se protegen al albur dela voluntad regia a través de procedimien-tos discrecionales y, en el mejor de loscasos, por medio de órganos administrati-vos especiales; sino mediante los procedi-mientos que fija la Ley, en la que se identi-fican por la comunidad los bienes comunese intereses civiles que deben protegersefrente al abuso; Ley que, además, debe apli-car un tribunal sujeto únicamente a su letra.

Así pues, la libertad de opinión eimprenta cumplía al tiempo con dos rele-vantes funciones para el nuevo Estado libe-

ral de Derecho: proteger la crítica del Poderfrente a los intentos de silenciarla desde elpropio Poder público; y asegurar la pazsocial evitando que la disputa ideológica oreligiosa se resolviese con el uso privado opúblico de la fuerza física primando unaopinión en detrimento de las restantes.

III

Cumple, pues, la garantía de la libertad deopinión e imprenta una doble función, a untiempo civil y política, propia de esa espe-cie de comunidad ideal en diálogo cuyaargumentación racional suministra el fer-mento legitimante del nuevo Estado liberal.Quien puede expresar públicamente sudisenso con los demás o con su Gobiernopodrá corregir el error ajeno o convencercon sus razones de la necesidad de un cam-bio político sin acudir al uso de la fuerzapara imponerse sobre los demás. Con lagarantía de la libertad de opinión e impren-ta se aseguraba al individuo un cauce deexpresión pacífica de su desacuerdo con lamayoría o con la ley. Y, en consecuencia,también se le garantizaba la posibilidad deque en el futuro su opinión llegase a ser lamayoritaria. De este modo se legitimaba elsistema en su conjunto y la obediencia a laley (la ley debía obedecerse, ya que sumodificación ya no pasaba necesariamen-te por la resistencia a su cumplimiento,sino que era posible a través de su críticasin estar bajo sanción por ello).

El concepto que ha venido a resumireste complejo entramado fue el de librediscusión de las ideas. Si el fin último dequien se expresaba era influir en los demás,lo realmente importante era que esos

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«demás» le pudiesen oír. Si se impedía laexpresión de opiniones contrarias se esta-ba presumiendo la existencia de una opi-nión o idea infalibles, aquellas que sí sepodían escuchar, y que como infalibles seimponían sin discusión. El medio de evitarese desequilibrio entre opiniones que aca-baría con la tolerancia no era otro que elque éstas concurriesen en un foro público,generando una discusión donde todas lasideas y opiniones estén en igualdad de con-diciones de ser discutidas. Y el medio jurí-dico para garantizar ese acceso era justa-mente la libertad de opinión e imprenta7.

Fijémonos ahora en la función políticade la libertad de opinión e imprenta.

IV

La principal función de la libertad de opi-nión e imprenta en el s.XVIII fue la de serexpresión del anhelo de asegurar frente a lacoacción estatal o privada un cauce de opo-sición burguesa al monarca absoluto y luegodespótico, y posteriormente de crítica al usodel Poder público por sus depositarios en elseno del Estado liberal. En ese contexto lasnociones libre discusión de las ideas y opi-nión pública tratan de resumir la funciónpolítica que en el Estado liberal cumplió lalibertad de opinión e imprenta. Una funciónque respondía a la fe ilustrada-liberal en ladiscusión libre y pública como fuente deracionalidad e instrucción públicas, dirigi-da al interés general, que era el interés úni-co que debía guiar los asuntos del Estado8.

La reivindicación de libertad de opinióne imprenta era una extensión natural de laidea de un individuo autónomo y racional,y de conciencia libre. Conciencia que debía

poder confrontarse con otras concienciassin que, como dijo Spinoza, la ley debainterferir en esa confrontación9. Si el Esta-do no es ninguna instancia competentepara decidir sobre la disputa entre diferen-tes conciencias, hechas externas a través dela opinión, la imparcialidad y neutralidaddel Estado en la materia debían imponersecomo principios de su modo de obrar en ellibre debate de las ideas. Estado de Derechoy reivindicación de libertad de opinión eimprenta sólo se explican en un momentohistórico en el que se evoluciona de unmodelo de sociedad donde la comunicaciónse limitaba a pequeños círculos privadoscuya posible crítica del Orden existente sereducía al círculo vital más privado.

La creciente insatisfacción burguesa conel orden político absolutista cobrará formaen la segunda mitad del s. XVIII en una ins-titución social que adquirirá peso específi-co en el entramado sociopolítico delmomento: la opinión pública. Una institu-ción social que obrará como tribunal socialy censor político del Estado ante la incapa-cidad de sus jueces para controlar las accio-nes de aquél y atajar sus arbitrariedades. Larespuesta estatal a la reivindicación de unalibertad de opinión e imprenta, con la quese trataba de dar sustento y amparo jurídi-co a aquella institución social, para asegurarla existencia de unas relaciones sociales enlas cuales pudiera originarse una comuni-cación pública sobre los problemas deorden político sin miedo a ser castigado porparticipar en ellas fueron las diversas medi-das de policía de imprenta, e incluso lareinstauración de la censura previa10.

La necesidad de una libre discusión delas ideas no fue, pues, un mero anhelo teó-rico. Constituía también una necesidad dela burguesía como medio para expresar su

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oposición al orden político existente queasfixiaba su desarrollo económico y social.A medida que su relación con el Poderpúblico se hacía más compleja, y más direc-tamente sufrían las decisiones de estePoder público en todo orden de asuntos,cobrando asimismo con el paso del tiempomayor conciencia de su protagonismosocial y político, la burguesía reclamaba suespacio en el debate y toma de decisionespolíticas y económicas. Si ellos soportabanlos costes de esas decisiones, también que-ría intervenir en su toma y ejecución. Y elprimer paso para hacerlo era, claro está,conocer cuáles eran esas decisiones y podersometerlas a su crítica opinión11.

Pero la reivindicación de la libre discu-sión de las ideas no sólo se hacía para dis-frutar de un espacio de libre critica alpoder. Esa libre crítica, que alimentaba unapujante opinión pública sobre los asuntosde Estado, en tanto estos concernían a lacolectividad formada por ciudadanos, y nopor simples súbditos del Rey, se conside-raba también un pilar irrenunciable delnuevo Estado. O para ser más preciso, deun Estado “justo”. La opinión era unamanifestación externa de la razón indivi-dual, autónoma y libre. Como tal, su expre-sión pública implicaba la manifestación yparticipación del ciudadano libre en diver-sos asuntos, gozando de capital importan-cia cuando ese asunto objeto de su opiniónera la cosa pública; esto es, todo asuntoreferido al bienestar de la comunidad a laque pertenecía en su condición de ciuda-dano, y sobre la que tenía todo el derecho aopinar en tanto lo que el Estado decidiesesobre ese particular la afectaba de formainmediata. Así pues, ese Estado estaba obli-gado a someterse a su “opinión”, a su “jui-cio” sobre toda medida que le afecte. Sólo

si la medida era consentida por los afecta-dos en una discusión pública, la medida eralegítima y, además, era la correcta12.

Ese opinar sobre los asuntos públicos,ese emitir un juicio sobre esos asuntos alque debía someterse el Estado, se articuló através de dos instituciones caras al Libera-lismo, y que manifestaban a la perfecciónaquella fe en la discusión pública entre indi-viduos libres como medio para alcanzar laverdad, al menos política: la representaciónparlamentaria y la formación de una opi-nión pública a través de la garantía de lalibertad de opinión e imprente13. Ambasimponían el aseguramiento jurídico de laindispensable libertad de expresión y deli-beración sobre las cuestiones de relevanciapolítica en el debate parlamentario y en laopinión pública. La diferencia, nada baladí,entre una y otra institución, Parlamento yOpinión Pública, esenciales para el Estadoliberal de Derecho radicaba, ya lo habíanseñalado Spinoza y Locke, en que la prime-ra creaba derecho a partir del debate, y lasegunda no, y lo que era aún más importan-te, no podía crearlo (v. Spinoza, Tratado, p.416; Locke, Two Treaties, § 3, p. 24).

Un gobierno sabio y racional tenía sufundamento en la libertad de opinión (v.Hume, Ensayos, p. 3 y ss.), a través de ellase sacaban a la luz los errores y las equivo-caciones del Estado, y sólo así era posiblealcanzar la verdad en los asuntos públicos.La libre discusión de las ideas se erigíacomo un “plebiscito” cotidiano sobre laacción del Estado14. El gobierno del Estadosigue apoyándose en la verdad para legiti-marse, como el monarca absoluto. Pero esaverdad tiene su origen en un punto biendistinto al de la iluminación sacra o al des-nudo ejercicio del poder omnímodo. Laverdad era y debía ser el resultado de una

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libre discusión pública, por tanto: accesiblea todos (pública), sin injerencias del Esta-do (libre) y consistente en el debate e inter-cambio de ideas y opiniones (discusión). Elreconocimiento por parte del Estado de lalibertad de opinión e imprenta se deriva dela capital importancia que la libre discusióntiene en el nuevo orden político. Su legiti-midad como Estado justo se cifraba, preci-samente, en la articulación de ambos siste-mas de libre discusión de ideas dotando alconjunto de la tan apreciada y anhelada“racionalidad”: el parlamentario y la opi-nión pública.

Cuando se ejercía la libertad de opinióne imprenta no se ejercía sólo una libertadcivil. También se estaba ejerciendo, siquie-ra indirectamente, una libertad política,por cuanto permitía al ciudadano partici-par mediatamente en la toma de decisionesdel Estado. Sólo a través de la libre expre-sión de sus ideas el hombre se transforma-ba en ciudadano, emancipándose de sucondición de súbdito y erigiéndose en suje-to político propiamente dicho, primerofrente al monarca absoluto que monopoli-zó en su día el foro público, y luego en elnuevo Estado liberal de Derecho (v.Grimm, Recht, p. 252; Fernández Sarasola,Representación; Id. Poder, passim).

Esa opinión pública operaba comonecesaria transposición de lo que sucedíaen los parlamentos, utilizando como mediode expresión habitual la prensa, para asíhacer partícipe de los asuntos públicos aquien no podía sentarse en las Cámaras.Hay un efecto de retorno entre el repre-sentante y el representado a través de esapublicidad para dar cumplimiento al prin-cipio consensual de que todo lo que afectea todos, por todos debe ser decidido. LaPrensa surge por tanto como «órgano de

actualización de la voluntad popular» y laopinión pública como «poder contragu-bernamental (v. Hellmuth, Zur Diskussion,p. 208), originándose un conflicto entrePrensa y Parlamento por disputarse la ver-dadera representación del interés general,pues ambos se conciben como foros políti-cos. Uno, el institucional, jurídicamenteregulado (orgánico); y el otro, el social,derivado de la libertad de los ciudadanoscuya garantía es el fin supremo del Estado.Parlamento y Prensa son ambos órganos dela “voluntad común” del Pueblo.

Pero este sustento teórico de la libertadde opinión e imprenta no debe llevarnos aengaño. El aparente valor democrático dela reivindicación de una libre discusión delas ideas en las que todos puedan participary coadyuvar en la formación de una opiniónpública que se proyectará mediante el votoy la crítica pública en el Parlamento, es eso,aparente. La indudable tendencia demo-cratizadora de los planteamientos teóricosen los que se sustentaba la vindicación de lalibertad de opinión e imprenta en el Cons-titucionalismo decimonónico (cuyo estri-bo era esa igual participación en el debatepúblico), siguió los mismos pasos que elsistema parlamentario de representaciónpolítica. En ambos, el germen democráticoserá convenientemente atajado. De un lado,negando toda relevancia jurídica a la opi-nión pública y separándola tajantemente desu dimensión cuantitativa, por cuanto laopinión pública no era la suma de las opi-niones individuales, sino una noción abs-tracta y cualitativa; y de otro, convirtiendoel concepto de ciudadano en una nociónselectiva. De ambos modos se desactivaba elpálpito democrático de una libre discusiónde las ideas en la que, en principio, podíaparticipar cualquiera. En efecto, en último

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término, el derecho a participar en esa dis-cusión finalmente se reconocería sólo a unselecto grupo de ciudadanos.

Al igual que en el ejercicio del voto opara acceder a cargos públicos sólo eranconsiderados ciudadanos unos pocos, lospropietarios, a los únicos a quienes se lesreconocía esa igual participación en losmecanismos de representación y decisiónpolítico-jurídica; para tener reconocida lalibertad de opinión e imprenta políticas y laparticipación en igualdad de condicionesen el libre debate de las ideas, también sedebía ser propietario. El paralelismo entreambas situaciones es evidente. Ambos eranmecanismos de participación en el Estado,y en ambos, como tales mecanismos, sóloquienes disfrutaban de ciertas condicionesmateriales y sociales podían ser considera-dos en rigor ciudadanos, únicamente pre-ocupados por el bien común. Aún más, noera nada extraño encontrar muy extendidala idea de que sobre las propias ideas y opi-niones se ejercía un derecho de propiedad,de modo que su divulgación no era más queuna transmisión de la propiedad. La liber-tad de opinión era un derecho a tenerla y ausarla, al igual que se tenían y usaban losbienes poseídos en propiedad (v. Fernán-dez Sarasola, Representación).

Condiciones de propiedad y fiscalidaddeterminaron en el Constitucionalismoeuropeo, incluida Gran Bretaña, quiénpodía poseer, una imprenta o editar unperiódico y quién no, a lo que debe sumár-sele la legislación penal que establecía losdenominados “delitos de imprenta”. Ya nosólo se reducía la libertad de opinión eimprenta a una actividad industrial regla-da, y sujeta a la policía administrativa; tam-bién era una “libertad censitaria” tanto enlo referente al quién y al qué15.

En consecuencia, ningún inconvenien-te había en restringir, incluso en imponerde nuevo la censura, a esa libertad cuandose politizaba; esto es, cuando se opinaba depolítica, al menos de cierta política. La opi-nión política tenía un único cauce jurídica-mente garantizado para expresarse, el voto y,mediatamente, el Parlamento. Fuera deambas instituciones, reducidas, además, aun grupo selecto de individuos, la opiniónpolítica tenía un cauce de expresión muyestrecho y siempre vigilado por el Estado,presto a impedir que esa opinión políticasupusiese un ataque a los fundamentos delsistema: la Corona (en la mayoría de loscasos), la Constitución y el Gobierno (yquienes estaban a su servicio). La Ley par-lamentaria, incluso la misma Administra-ción Pública habilitada por la Ley, eran quie-nes establecían los términos en los que cabíaopinar públicamente de política. La prensadejaba así de ser un efectivo cuarto poderporque se le privaba de su principal función:opinar sobre los asuntos públicos, opinarsobre política. A la persona y a la prensa sóloles cabía reclamar que esas restricciones, ylas consiguientes sanciones, se impusieranconforme a la legalidad vigente (v. Franken-berg-Rödel, Von der Volkssouveränität, pp.38y ss; Kriele, Einführung, pp. 192 y ss.).

Por otra parte, como ya hemos señala-do, se excluían ciertas materias políticas dela discusión pública, a saber, la crítica a laConstitución vigente, al sistema político, alRey y a su Gobierno, o a las Institucionesdel Estado. Estas exclusiones, recogidas porregla general en las leyes penales de sedición,eran el otro mecanismo de reducción“civil”, por oposición a “política”, de lalibertad de opinión e imprenta. La Historiajurídica de la Gran Bretaña, o de Europaoccidental, incluso la de los Estados Uni-

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dos de América, está jalonada de leyes desedición cuyo propósito era castigar conseveridad toda aquella opinión que pusie-se en cuestión los fundamentos mismos delEstado o la autoridad de sus instituciones(Levy, Emergence; Bailyn-Hench, The Press).

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1 Esta es la expresión con la quehistóricamente se denominabanlas modernas libertades de opi-nión e información. Véase Gor-nig, Aüßerungsfreiheit, pp. 57 y ss.,sobre todo p. 69; Grimm, Recht,pp. 232 y 255.

2 Véase Kendall, Cómo debe leerse,pp. 109 y ss.; interesante el deBlasi, Milton’s Areopagitica.

3 De ahí el carácter de libertad opo-sición con el que siempre se hacalificado a la libertad de opinióne imprenta, Spinoza, Tratado.Véase Hartmann, Meinungsfrei-heit, pp. 97 y ss.; Grimm, Recht,pp. 259 y 260.

4 Kant, ¿Qué es la Ilustración?, pp. 9 yss. y Fichte, Reivindicación. Sobreel particular, véase el magníficoresumen de la cuestión en Fernán-dez Sarasola, Poder, pp. 134 y ss.

5 Declaración de Virginia, 1796, art.12; o la de Massachussets, 1780,art. 16. Sobre el modelo Nortea-mericano sigue siendo una obra decita inexcusable el libro de LevyEmergence. Otra obra de suma uti-lidad es la colectiva Bailyn-Hench,The Press. Interesante también larecensión de Auerbach, FreeSpeech, pp. 487 y ss.

6 Así por ejemplo, paradójicamen-te Robespierre en su discurso de24 de agosto de 1789: «Si haylibertad de pensamiento, como seha dicho, debe haber tambiénlibertad para expresar ese pensa-miento». Cita tomada Muniesa,El discurso, pp. 25 y 28.

7 Como apuntó Mill negar la discu-sión era presumir que hay unaopinión infalible lo que suponíaromper con la tolerancia, pues esainfalibilidad no se traducía en laseguridad personal sobre las pro-pias convicciones sino en laobstrucción de la recepción deotras opiniones distintas y laimposición a otros de las propias;véase sobre todo Mill, On Liberty,pp. 80 y 85.

8 Este espíritu de las Luces se pue-de encontrar en una de sus for-mas más acabadas, en el opúscu-lo de Kant, ¿Qué es la Ilustracion?,pp. 9 y ss.

9 Para Spinoza la libre discusión delas ideas se regula espontánea-mente, negándole a la ley la posi-bilidad de dirimir la disputa. Perotambién pone de manifiesto quede la disputa no puede ser caucede creación de derechos. Librediscusión y representantes de lanación responden a funcionesdistintas. Véase Spinoza, Tratado,p. 416; véase Locke, Carta, p. 48.

10 Véase Bullinger, Freiheit, § 142 nº10 y ss; Grimm, Recht, p.232. Desumo interés resulta la lectura delos diversos artículos publicadospor Marx en el “Rheinische Zei-tung”: las series reunidas bajo lostítulos Debatten über Preßfreiheit yDas Verbot der “Leipziger Allgemai-nen Zeitung”, precedidos por el“Bemerkungen über die neuestepreußische Zensurinstruktion”,publicados entre 1842 y 1844, que

pueden consultarse en Marx-Engels, Werke, Bd. 1.

11 Grimm, Recht, pp. 237 y 238. Hayque hacer notar, como lo haceGrimm, que estos afanes no leeran ni evidentes ni urgentes a laburguesía del s. XVII y primeramitad del s. XVIII, que tan sólointentaba acomodarse al estado decosas existente. Son los pensado-res de finales del s. XVIII y princi-pios del s. XIX quienes repararonen estas cuestiones, y subrayaronsu radical trascendencia para elnuevo Estado en formación.

12 La Real Orden de 25 nov.1864dice: «Las personas de los Mini-stros importan poco en compara-ción de los altos objetos á que mehe referido; constitucionalmenteson sus actos al asunto forzoso delas públicas discusiones».

13 Sobre el nexo entre representa-ción parlamentaria y opiniónpública véase la sección terceradel artículo de Fernández Saraso-la, Representación.

14 Spinoza, Tratado, apunta las pro-fundas consecuencias políticasque tiene el que la verdad searesultado de la libre discusión.

15 Véase ya en Hume (Ensayos), pp.21 y ss. En ese opúsculo Humeestablece una ligazón entre lalibertad de opinar y la propiedad.Aún más claro en Locke, derivadode su concepto de propiedad yhombre libre, así Locke, Two Trea-tises, Cap. IV y Cap. V, §§ 85 (p. 67),87-89 (pp. 68-69), y 99 (p. 75).

Opinión Pública: El órgano de Móstoles. Comocada trompeta suena por distinto tono, los que lopulsan no oyen más que las tocatas que a ellos lesagradan; así es que al sonar el órgano se figuranunos que oyen la pitita y otros el himno de Rie-go. Para un periodista la opinión pública son lossuscriptores de su periódico, para el gobiernosus empleados, para un diputado sus electores.[J. Rico y Amat, Diccionario de los Politicos, 1855]

1. Introducción

En 1662, Blaise Pascal formulaba entre susPensamientos una máxima que habría de serpremonitoria para el futuro pensamientopolítico: «La opinión es como la reina delmundo, pero la fuerza es su tirano» (Pen-samientos, p. 209). Aun sin pretenderlo,Pascal había expresado metafóricamente lapostrera relación que el liberalismo iba aestablecer entre la Sociedad – ámbito de laopinión – y el Estado – terreno de la fuer-za pública –. Una relación en la que la auto-nomía de ambas esferas (Sociedad y Esta-

do) se disipaba mediante la opinión públi-ca, como medio a través del cual la Naciónconsolidaba sus libertades frente al poderpúblico.

Estas premisas liberales supusieron unaalteración de los postulados sustentadospor el Despotismo Ilustrado. Para este últi-mo, la opinión pública era, en principio,irrelevante, toda vez que el gobernante(ilustrado y asesorado por unas elites inte-lectuales, generalmente integradas en Con-sejos) era el único capacitado para inter-pretar el bienestar público y la prosperidadcomún. Incluso el engaño al pueblo queda-ba legitimado, si con ello se lograba la feli-cidad pública (Castillon, Es conveniente, p.69). Sin embargo, el propio programasocial ilustrado, orientado a instruir a laSociedad, llevaría implícito un cambio deesta situación, ya que acabaría otorgando alos ciudadanos una capacidad de crítica queles llevaría a superar su condición de merosgobernados. Por ese motivo, cuando Kant(y poco después Fichte) alzaba la voz con suSapere Aude! incitaba al individuo a aban-

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Opinión pública y «libertades de expresión»en el constitucionalismo español (1726-1845)

ignacio fernàndez sarasola

giornale di storia costituzionale n. 6 / II semestre 2003

donar su minoría de edad política, a deste-rrar las bases del Despotismo Ilustrado y aconvertirse en un sujeto activo de las rela-ciones políticas (Kant, Respuesta; Fichte,Reivindicación, p. 28).

El liberalismo acentuó este protagonis-mo del individuo en la vida pública, aun-que lo hizo sobre premisas bien distintas alas que sustentaría el futuro pensamientodemocrático. Para el liberalismo, lo rele-vante no era tanto convertir a los goberna-dos en gobernantes (mediante derechos departicipación) sino garantizar la esfera delibertades frente al Estado, hasta el puntode que los derechos políticos no serían másque instrumentos de defensa de los dere-chos de libertad.

El liberalismo trató de garantizar laautonomía social a través de técnicas deestructuración del poder, entre las que elprincipio de legalidad, y la sempiterna ideade la división de poderes ocuparon un lugarprivilegiado. Pero, aparte de estas técnicasorganizativas, utilizará otro instrumento: laopinión pública, como expresión de las ide-as de la Sociedad y, por tanto, como guía ycomo crítica de la actuación del poderpúblico. Así, la “reina del mundo”, la opi-nión expresada por la Sociedad, modularíala fuerza pública, evitando su tiranía.

Como se verá en este artículo, Españano es ajena a este creciente papel de la opi-nión pública. Su protagonismo en las rela-ciones políticas comienza a gestarse en elsiglo XVIII español, para consolidarse amediados del siglo XIX, momento en el quenadie duda de su relevancia y de la correla-tiva fuerza de aquellas “libertades de expre-sión” que le sirven de cauce y entre las quedestaca, pero no exclusivamente, la libertadde imprenta.

2. Opinión pública y libertad de imprenta enla Ilustración liberal y en el liberalismo predo-ceañista (1726-1810)

La primera aproximación al concepto deopinión pública en España suele imputar-se al ilustrado Benito Feijoo, quien en suobra Teatro Crítico Universal (1726) definió elconcepto de «voz del pueblo» o «vozcomún». Feijoo, que luchó con denuedo alo largo de toda su vida para desterrar lasmuy extendidas supersticiones populares,definía la «voz del pueblo» en un sentidocuantitativo, como la opinión más extendi-da. Este componente meramente numéri-co no le otorga, por sí, ningún valor intrín-seco, puesto que el número de voces no erasinónimo de celsitud. Ésta última sólo selograba con una adecuada instrucción, quepudiera reconducir las múltiples voces dis-cordantes e irracionales a una sola voz,racional y cualitativamente superior.

Partícipe de esta idea cuantitativa de lavoz pública fue el ilustrado vasco Valentínde Foronda quien, utilizando los conceptosde “opinión pública” o su sinónimo “opi-nión común”, consideraba que se tratabade una voz general que podía estar equivo-cada. Para lograr que la opinión públicafuese acertada, Foronda – a diferencia deFeijoo – no se centraba sólo en la instruc-ción, sino que conectaba ésta, ante todo,con libertad de imprenta. En Foronda,dicha libertad se hallaba al servicio de lainstrucción, de modo que, a través delintercambio recíproco de opiniones, sepudiera alcanzar una verdad asumible portoda la Nación. Precisamente porque lalibertad de imprenta cumplía este objetivoinstructor, se relegaba su posible papel deinstancia crítica (muy excepcional enForonda), y se sujetaba a determinados

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límites, por cuanto no eran opinables cues-tiones tales como la religión o ciertas máxi-mas de gobierno1.

La apertura hacia una concepción másliberal de la opinión pública y la libertad deimprenta la hallamos en autores como Caba-rrús, Jovellanos y, sobre todo, Calvo de Rozasy Flórez Estrada. Cabarrús consideraba quela libertad de opinar se fundamentaba en elestado de naturaleza y, por tanto, tenía uncarácter preestatal. Nacida la Sociedad y elEstado a partir del pacto social, ambas ins-tancias debían propiciar esta libertad de opi-nar. Así, la Sociedad debía fomentar la escri-tura y la lectura en sus componentes, en tan-to que el Estado debía garantizar la libertadde imprenta que cumpliría un doble come-tido, positivo (de orientación al poder públi-co) y negativo (de crítica a éste). Así pues, enCabarrús la libertad de imprenta no sólo sedirigía a fomentar la instrucción pública –de hecho, ésta era un cometido social, y unpresupuesto para el ejercicio de la libertad deimprenta – sino, sobre todo, a articular lasrelaciones de la Sociedad con el Estado (v.Cabarrús, Cartas, pp. 75-77).

Algo parecido sucede con Jovellanos,quien también atisbó el papel que debíanasumir la opinión pública y la libertad deimprenta para el adecuado ejercicio delpoder público (v. Fernández Sebastián, TheAwakening, p. 45; Rospir, La opinión, p. 100).Jovellanos consideraba a la opinión públicacomo una fuerza viva, cuyo poder se susten-taba en su número y en su extensión a lo lar-go de todo el territorio nacional. Esta opi-nión pública tenía una doble dimensión, porcuanto guiaba la conducta de los gobernan-tes (aspecto positivo) y los sujetaba a críticay exigencia de responsabilidad por su ges-tión (aspecto negativo). La capacidad deenjuiciar a los gobernantes convertía a la

opinión pública en un auténtico Tribunal (alque incluso se dirigió Jovellanos para queexculpara su conducta como miembro de laJunta Central), cuyo medio de expresión erala libertad de imprenta. Estas ideas, típica-mente liberales, se entremezclaban connotas propias del pensamiento ilustrado. Yes que Jovellanos, consciente del poder de laopinión pública, y de la imprenta como sumedio de difusión, también era temeroso deuna opinión mal dirigida. Por tal motivo,pretendía conseguir una opinión públicailustrada, razonable, convirtiendo, una vezmás a la instrucción como elemento medu-lar. Así pues, la libertad de imprenta, sinprevia instrucción, expresaría una opiniónirracional; era menester, pues, que la edu-cación precediera a la imprenta, introdu-ciéndose esta última de forma gradual (v.Fernández Sarasola, Idea, pp. 322 y ss.; Fer-nández Sarasola-Mateos, Estudio).

Llas dos posturas más claramente libe-rales en torno a la libertad de imprenta y laopinión pública corresponden por estasfechas a Lorenzo Calvo de Rozas y a ÁlvaroFlórez Estrada. En una propuesta hecha porel primero en 1809 a la Junta Central, la opi-nión pública no sólo se describe en su dobledimensión positiva y negativa, sino que sellega incluso a insinuar una identificaciónentre la opinión pública y voluntad general.La libertad de imprenta, por su parte, cum-ple con el doble objetivo de formar e ilustrara esa opinión pública a través del intercam-bio de luces, y de servirle de cauce de expre-sión (Calvo de Rozas, Proposición, pp. 35-37).

El asturiano Flórez Estrada siguió unospatrones muy similares, otorgando un prota-gonismo especial a la libertad de imprenta endos de sus escritos más sobresalientes de laGuerra de la Independencia: la Constituciónpara la Nación española, un interesantísimo

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proyecto constitucional, y las Reflexiones sobrela libertad de imprenta (1809). Este último tex-to había constituido, como en el caso de Cal-vo de Rozas, una representación dirigida a laJunta Central, publicado después por el autorconjuntamente con el proyecto constitucio-nal, al tratarse de un desarrollo del derechoque este último estipulaba en su art. 102. Ensu proyecto constitucional, Flórez Estradarecogía una Declaración de Derechos bajo eltítulo De los derechos que la Constitución decla-ra pertenecer a todo ciudadano y de los que ellales concede. No queda claro si la libertad deimprenta (art. 102) es “concedido” o “reco-nocido” por la Constitución, pero más bienparece esto último, ya que para Flórez Estra-da la libertad de expresión era un derechonatural, previo, por tanto, a la Constitución2.

Al teorizar sobre dicha libertad, FlórezEstrada cifra en ella el esplendor de gobier-nos como el de Inglaterra, precisamente por-que a su través se logra no sólo la educaciónde un pueblo, sino también la limitación delpoder público, merced a la capacidad de crí-tica que encierra. Con el político asturiano lalibertad de imprenta, en su dimensión nega-tiva, o de control del poder, alcanza sus másaltas cuotas: la misma existencia de la Cons-titución no le resulta tan imprescindiblecomo la propia libertad de imprenta puestoque, en presencia de ésta, todos los abusosquedarían sujetos a la feroz crítica del impar-cial tribunal de la opinión pública (FlórezEstrada, Constitución, pp. 335, 348-349). UnEstado liberal, por tanto, no necesitaría tan-to ser un Estado Constitucional, como con-tar con la libertad de imprenta.

Las opiniones de Flórez Estrada en tor-no a la opinión pública y la libertad deimprenta fueron secundadas por otro repu-tado liberal que, adscrito en esta época alpensamiento constitucional revolucionario,

cambiaría hacía posiciones más moderadasa partir de su estancia en Londres. Nos refe-rimos a Blanco-White, quien afirmaba en1808 que la misma revolución española teníasu soporte y principal baluarte en la opiniónpública y, por ende, en la libertad deimprenta que servía para expresarla (Sema-nario Patriótico, Prospecto, p. 3; SemanarioPatriótico, n° 19 (1 de junio de 1809), p. 79).Flórez Estrada y Blanco-White llevarían susafirmaciones al plano práctico, puesto queel primero editaría el interesante periódicotitulado El Tribuno del pueblo español, en tan-to que el segundo publicaría entre 1808 y1809 el periódico Semanario Patriótico, paraeditar ya en 1810 desde Londres El Español.

La importancia de la opinión pública sevio reconocida en el plano normativo a tra-vés del Decreto de la Junta Central, de 22 demayo de 1809, de convocatoria a Cortes, enel que se solicitaba a Instituciones y parti-culares que expresasen a la Comisión deConstitución las modificaciones que esti-masen pertinentes en las Leyes Fundamen-tales españolas. El conjunto de informesremitidos, conocidos como la «Consulta alPaís» y equiparados por algunos autores conlos cahiers de doléances franceses (Artola, Losorígines, vol. I, p. 329), no sólo permitierona las Instituciones del Antiguo Régimenexponer su perspectiva de las futuras refor-mas, sino también dar cabida a las opinio-nes de particulares, en un claro intento deprospectar la opinión pública nacional.

3. Opinión pública y libertad de imprenta enlas Cortes de Cádiz (1810-1814)

Durante los debates de las Cortes de Cádiz yen su principal resultado, la Constitución de

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1812, la opinión pública y la libertad deimprenta cobraron un protagonismo hastaentonces desconocido, convirtiéndose enuna de las principales enseñas del movi-miento liberal. Con el liberalismo gaditanola opinión pública alcanza definitivamenteese cometido positivo – de guía de los gober-nantes – y negativo – de crítica de la actuacióndel poder público – que ya había insinuado laIlustración más liberal. Ahora bien, el cons-titucionalismo gaditano ha sido, acertada-mente, definido (más allá de su cronología)como un constitucionalismo del siglo XVIII(Varela Suanzes, Las cuatro etapas, p. XXII) loque explica que los conceptos de opiniónpública y libertad de imprenta todavía cuen-ten con resabios del movimiento ilustrado.

El papel de la opinión pública en el libe-ralismo gaditano quedará marcado por eldogma de la soberanía nacional y por la pri-macía de las Cortes a la que éste condujo. ElParlamento cobra, entonces, una especialimportancia para formar y transmitir laopinión pública: por una parte, suminis-trando a los ciudadanos cuestiones políti-cas e informaciones que se someterán adebate; por otra, recibiendo después lasvoces de esos mismos ciudadanos y extra-yendo, de ellas, la verdadera opinión públi-ca que le conducirá a expresar la voluntadgeneral mediante la ley.

El resultado será la incardinación de laopinión pública en un proceso comunica-tivo instaurado entre los individuos (suje-tos activos de la opinión pública) y lospoderes estatales (sujetos pasivos de la opi-nión pública), en virtud del cual los prime-ros reciben información, la debaten y lacomunican después a los representantes yagentes públicos para guiar su conductapública o para reprochar sus actividades.Un proceso, éste, en el que se verían impli-

cados de una u otra forma institutos cons-titucionales como la representación, elmandato representativo o la existencia mis-ma de partidos políticos (Fernández Sara-sola, Representación).

3-1. Los sujetos activos de la opinión pública:los ciudadanos y el debate social

La formación de la opinión pública reque-ría dos presupuestos: información y deba-te. En el primero de ellos, las Cortes asu-mían un cometido crucial, puesto que,siendo representantes de los ciudadanos,se consideraban las más legitimadas parasuministrarles los datos necesarios paraimpulsar el debate público (Del Monte, DSn° 150, 26-01-1810, p. 585; Leiva, DS n°471, 17-01-1812, p. 2645; Ros, DS n° 709,25-11-1812, p. 4021). A tales efectos, lasCortes de Cádiz instauraron la publicidadde los debates parlamentarios3, aunque lapráctica entre 1810 y 1813 fue por derrote-ros bien distintos, acudiéndose con relati-va frecuencia a las Sesiones Secretas.

Pero el papel central que asumieron lasCortes extraordinarias en la política estataly en el proceso revolucionario impedía quese viera al Parlamento como un pasivosuministrador de información a los ciuda-danos. Antes bien, no faltaron diputadosliberales que defendieran que a la Asam-blea le correspondía, en realidad, dirigir laopinión pública e, incluso, interpretarla,hasta el punto de que sólo tenía la cualidadde “opinión pública” aquella que las Cortesconsideraban como tal4. Es más, en ausen-cia de las Cortes, su apéndice, la Diputa-ción Permanente, se consideraba a su vezcomo una salvaguarda, destinada a formarel espíritu público y a vigilar por la forma-

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ción de una opinión pública favorable a laConstitución (Argüelles, DS n° 370,7-10-1811, p. 2013).

El debate social se concebía, básica-mente, como un debate entre individuos,por cuanto la propia mentalidad liberalrevolucionaria recelaba de los cuerposintermedios. De hecho, la Constitución de1812 no reconoció el derecho de reunión yasociación, de modo que no se considera-ba que las agrupaciones de ciudadanos fue-sen idóneas para alcanzar la opinión públi-ca (Fernández Sarasola, Los partidos, §§ 23y ss; Id., La idea, pp. 89 y ss.). Ahora bien,tampoco existía unanimidad a la hora dedeterminar si todos los individuos eran, enesencia, capaces de participar en el debatepúblico. Un sector liberal más moderado, yheredero de la ideología ilustrada, consi-deró que sólo aquellos que contasen conuna instrucción adecuada podían ser partí-cipes del debate público; no debía confun-dirse, pues, la “opinión pública” con la«opinión de todos» (El Español, t. VII,diciembre 1812, p. 398), del mismo modoque Rousseau había diferenciado entre“voluntad general” y “voluntad de todos”. Elmovimiento liberal más radical, por el con-trario, entendió que todos los ciudadanospodían concurrir a la formación de la opi-nión pública, aunque identificaban ésta,exclusivamente, con la ideología revolucio-naria patriótica. Los partícipes del procesodiscursivo quedaban determinados, enton-ces, no tanto por razones instructivas, comoideológicas.

Al permitir a los individuos acceder a laimprenta y tomar parte en la formación dela opinión pública, en realidad, el libera-lismo instauraba una suerte de cauce par-ticipativo que ampliaba los derechos polí-ticos, a la sazón reducidos a los ciudadanos.

Bien entendido que la libertad de impren-ta no se consideraba como un derecho polí-tico, pero servía al menos para integrar una“voluntad social” que las Cortes debíaninterpretar y convertir en ley, y que el Eje-cutivo debía ver siempre como una “espa-da de Damocles” social capaz de desautori-zar sus actos. Así pues, aun sin ser un dere-cho político, sí podía tener una dimensiónpolítica, y por tal razón durante el régimende Cádiz se utilizaba el término de «liber-tad política de imprenta»5.

3-2. Los sujetos pasivos de la opinión pública:la orientación a las Cortes y la censura del Eje-cutivo

Los principales destinatarios de la opiniónpública eran los órganos del Estado, pero ladistinta posición que éstos ocupaban deter-minaba el influjo que iba a tener sobreellos. Las Cortes, en cuanto contribuían aformar la opinión pública, y representabanal sujeto soberano, tenían una vinculaciónmás laxa con ella, de modo que la opiniónpública se limitaba, en todo caso, a orientarsus decisiones (Pérez de Castro, DS n° 376,13-10-1811, p. 2063). Por tal motivo, la opi-nión pública desplegaba, respecto de lasCortes, su dimensión positiva, de guía yorientación6. Recibida la opinión pública(y por tanto social) por las Cortes, éstas seencargaban de someterla a un nuevo deba-te, ahora parlamentario, cuyo resultadohabría de ser la definitiva expresión de lavoluntad nacional en forma de ley. Así pues,en realidad la ley racional se alcanzaba através del doble debate – social y parla-mentario – en el que el intercambio recí-proco de luces acababa por descubrir lavoluntad de la Nación.

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Todo el proceso deliberativo de las Cor-tes se construía, por tanto, con el objetivode alcanzar esa racionalidad: la ausencia demandato imperativo, las incompatibilida-des y causas de inelegibilidad, la no pre-sencia de los agentes del Rey en las vota-ciones…, todo ello contribuía a garantizarla libertad de los representantes en el pro-ceso discursivo para interpretar la opiniónpública y convertirla en voluntad general.

La vinculación del Ejecutivo con la opi-nión pública era bien distinta. Configuradocomo un poder subalterno de las Cortes, elEjecutivo se veía constreñido por una opi-nión pública que actuaba para él, funda-mentalmente, como instancia crítica (Torre-ro, DS n° 23, 17-10-1810, p. 49). El Ejecu-tivo debía llevar a efecto fielmente las dis-posiciones de las Cortes, y un desvío de sucometido no sólo le podría suponer una exi-gencia de responsabilidad penal por el Par-lamento (acusando las Cortes y enjuiciandoel Tribunal Supremo de Justicia), sino lareconvención social, expresada a través dela opinión pública. Así pues, la opiniónpública actuaba como exigencia de una res-ponsabilidad difusa o “moral”, según la ter-minología de la época, que obligaba a losministros a dejar su cargo cuando, sin habercometido una infracción normativa, habíaactuado incorrecta o impolíticamente («ElEspañol», n° 8, 30 de noviembre de 1810,p. 145).

Este cometido crítico de la opiniónpública también acabó siendo absorbido porlas Cortes que, aun excepcionalmente,enjuiciaron a los ministros en términospolíticos, formulando votos de reconvencióndirigidos a que los agentes ejecutivos deja-sen su cargo. Esta nueva actividad de las Cor-tes – no reconocida constitucionalmente –resultaba perfectamente lógica si se recuer-

da que la Asamblea era la legítima intérpre-te de la opinión pública y que, en cuantorepresentante de la Nación, tenía una híbri-da naturaleza de órgano del Estado pero,también, de institución de la Sociedad (Fer-nández Sarasola, Idea, pp. 474 y ss.).

3-3. El instrumento de formación-expresiónde la opinión pública: la libertad de imprentay sus límites

Huelga decir que para los liberales de lasCortes de Cádiz la libertad de imprenta era,una vez más, el mecanismo dirigido a for-mar la opinión pública y a expresarla. Larelevancia de este derecho – cuya funda-mentación basaban los liberales en el ius-naturalismo7 – llevó a su inmediata regula-ción a través del Decreto IX, de 10 denoviembre de 1810, de Libertad política deimprenta, en vigor, pues, más de un añoantes de aprobarse la Constitución del 12.En esta Constitución, por supuesto, tam-bién se recogió la libertad de imprenta (art.371), permitiendo a todos los españoles(por tanto no sólo a los ciudadanos) escri-bir y publicar «sus ideas políticas».

Un detenido análisis del artículo cons-titucional y del previo Decreto IX muestracómo en Cádiz la ideología liberal todavíatenía reminiscencias ilustradas. En efecto,siguiendo las premisas liberales, se atribu-ía a la libertad de imprenta un doble come-tido, positivo y negativo, como mostraba elpreámbulo del Decreto IX: «la facultad delos ciudadanos de publicar sus pensamien-tos e ideas políticas es, no sólo un freno a laarbitrariedad de los que gobiernan, sino unmedio de ilustrar a la Nación en general, yel único camino para llevar al conocimien-to de la verdadera opinión pública». Sin

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embargo, es notable que todavía se men-cionase la vocación “ilustradora” de laimprenta, hasta el punto de que el art. 371de la Constitución, donde se reconocía estederecho, se hallaba incardinado en el Títu-lo IX: De la instrucción pública8.

La libertad de imprenta, guía del Legisla-tivo y freno del Ejecutivo, no había perdidotodavía su nexo ilustrado, puesto que servíapara formar a los ciudadanos. Debe notarseque, en realidad, la Constitución de Cádiz yel Decreto promulgado por las Cortes nogarantizaban sin más la libertad de expre-sión, sino sólo las manifestaciones escritas,porque sólo ellas podían ser más reflexivas ypodían cumplir el objetivo de ilustrar.

Ahora bien, el liberalismo gaditano noreconoció un derecho absoluto a la libertadde imprenta, sino que la sujetó a dos tiposde límites: los derivados de la colisión conotros derechos individuales, y los proce-dentes de principios estructuradores delEstado. En efecto, la libertad de imprenta,en primer lugar, no era compatible con«libelos infamatorios» ni «escritoscalumniosos», por cuanto supondrían unaviolación del derecho al honor. Pero, ade-más, la confesionalidad del Estado y la con-sideración de la Constitución como normaexpresiva de la voluntad soberana, tambiénactuaban de límites. El relativo a la confe-sionalidad estatal puede considerarse comoun límite relativo, cuya operatividad veníadeterminada por la obligación de que todoslos textos sobre materias religiosas se suje-tasen a censura previa por parte de Ordina-rios eclesiásticos, en franca contradiccióncon la idea de ausencia de censura previaque sostenían los propios liberales. El lími-te derivado de la naturaleza constitucionalera, sin embargo, absoluto. Como afirma-ban Villanueva, Argüelles o Guridi y Alco-

cer, lo que figuraba en la Constitución sehabía convertido en voluntad nacional y,por tanto, no era opinable (Villanueva, DSn° 379, 16-10-1811, pp. 2093 y DS n° 381,18-10-1811, p. 2104; García Herreros, ibí-dem, p. 2107; Aner, ibídem, p. 2108; Argüe-lles, ibídem, p. 2109; Guridi y Alcocer, DSn° 522, 16-03-1812, p. 2924). Por tal moti-vo, cualquier opúsculo considerado comosubversivo de la Constitución se reputabacomo ilegal, e incurría en un delito políti-co de imprenta.

El examen de estas infracciones corres-pondía a las Juntas de Censura. El DecretoIX preveía la existencia de una Junta Supre-ma de Censura, integrada por nueve indi-viduos elegidos por las Cortes, y de Juntasde Censura Provinciales, constituidas porcinco sujetos designados a propuesta de laJunta Suprema9. En una Constitución en laque faltaba uno de los elementos más valo-rados de Inglaterra, la institución del jura-do, se trató de ver precisamente a estas Jun-tas como una suerte de jurados. Sin embar-go, la confesionalidad del Estado seguíaincidiendo en la composición de este órga-no, por cuanto parte de sus miembros debí-an pertenecer necesariamente al estamen-to clerical.

4. La opinión pública en el pensamiento exal-tado-progresista y en el moderado-conservador(1820-1845)

Durante la Guerra de la Independencia losliberales habían logrado mantener una uni-dad, basada en unas ideas de filiación funda-mentalmente francófila y en una común opo-sición a los serviles y afrancesados. Las dife-rencias de talante no fueron lo suficiente-

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mente acentuadas para que su pueda hablar,entre 1810 y 1814, de una escisión liberal.

Sin embargo, a partir del Trienio Cons-titucional (1820-1823), el liberalismoespañol se divide en dos grupos: exaltadosy moderados. Los primeros, en ocasionespróximos al ideario jacobino, seguían man-teniendo el ideario revolucionario quehabía dado lugar a la Constitución de Cádiz,de modo que el texto de 1812 les parecía uncódigo satisfactorio que no debía alterarse.Los moderados, por su parte, se habíanfamiliarizado con otras doctrinas, en espe-cial con el liberalismo doctrinario, perotambién con el positivismo benthamiano, yhabían mudado sus posturas hacia unaanglofilia que les llevaba a someter la Cons-titución de Cádiz a críticas, en especial porla debilidad del poder regio, la ausencia debicameralismo y la preeminencia que reco-nocía de las Cortes.

Estas dos posturas – que, a partir de1822, es frecuente que se denominen como“partidos” (Fernández Sarasola, Los parti-dos, § 51 y ss.) – admitían en su seno toda-vía diversos matices y tendencias: así, elliberalismo exaltado se movió entre movi-mientos muy radicales, afines al republi-canismo y al pensamiento jacobino másacendrado, y posturas menos extremas,especialmente representadas por antiguosdiputados del 12. Entre los moderados, porsu parte, cabe apreciar la existencia de unsector más conservador (los redactores de“El Censor” o el denominado grupo de los“anilleros” fueron claros ejemplos), cuyoconservadurismo se acentuaría, por cierto,a medida que las posturas exaltadas másradicales fueron ganando terreno.

A partir de 1834 el liberalismo cobraforma a través de dos nuevos grupos: losprogresistas y los conservadores. Los pri-

meros entroncaron con el liberalismo exal-tado, especialmente con el menos radical,en tanto que los conservadores fueron losnaturales herederos del moderantismo de1820-1823. Bien es cierto que no cabehacer, sin más, una identificación exalta-dos-progresistas y moderados-conserva-dores, puesto que entre el liberalismo de1820 y el de 1834 existen notables diferen-cias (en buena medida motivadas por uncambio doctrinal derivado del exilio sufri-do durante la Ominosa Década) (VarelaSuanzes, El pensamiento, pp. 63 y ss.). Aho-ra bien, en el objeto de este estudio –la opi-nión pública – el pensamiento de los exal-tados y de los progresistas guarda una cla-ra continuidad, y otro tanto sucede con lasideas de los moderados y los conservadores.Por tal motivo, y a efectos de síntesis, setratará como unidad el pensamiento exal-tado-progresista, por un lado, y el modera-do-conservador, por otro.

4-1. La opinión pública y su función de con-trol en el pensamiento exaltado y progresista

A. Sujetos y funciones de la opinión pública

Con el pensamiento exaltado y progresistala opinión pública cobra un especial prota-gonismo, convirtiéndose en un actor polí-tico más10. La opinión pública – o “espíri-tu público”, como les gustaba designar, enun acercamiento a la terminología jacobi-na («El Espectador», n° 7, 21-04-1821, pp.27 y 28; v. también n° 510, 6-09-1822, p.594) – aparece como un sujeto activo, cons-tantemente vigilante y necesario para lasupervivencia y correcto funcionamientode todo sistema representativo.

La opinión pública a la que se refieren sedefine, por tanto, en términos no ilustra-

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dos, sino políticos. La opinión pública noaparece cualificada tanto por la formaciónintelectual de quienes la manifiestan, comopor los principios que representan y expre-san. Así, la opinión pública se identifica conel pensamiento liberal y, durante el Trie-nio Constitucional, incluso con el ideariorevolucionario. Un ideario que considera-ba que la revolución nacional no se habíaterminado con el pronunciamiento deRafael del Riego, sino que constituía unproceso en el que todavía estaba inmerso laNación española (Flórez Estrada, DS, n° 27,31 de julio de 1820, p. 341).

En este sentido, Alcalá Galiano – en sufase todavía exaltada – afirmaba que la opi-nión pública no equivalía a la «mayoríanumérica», sino a la «mayoría activa»,entendiendo que ésta incluía sólo a quienesparticipaban en la vida política (participa-ción electoral, servicio en las Milicias, inte-grantes de cuerpos municipales, miembrosde Sociedades Patrióticas…) y, en especial,a la clase media, como partícipe más cuali-ficado (DS, vol. II, n° 107, 24 de mayo de1822, p. 1517). El exaltado Romero Alpuen-te se manifestaba en términos muy seme-jantes. Definía a la opinión pública – iden-tificada con “espíritu público” – como eljuicio del pueblo (Romero Alpuente, Dis-curso, 1822, vol. II, p.24), pero, añadía,«pueblo es todo lo que tiene interés en laprosperidad del Estado […]. Se excluyen,pues, de la masa del pueblo todos los queno se proponen más que participar de susventajas […]. No siendo pueblo esta clasede hombres, su opinión es nula» (ibidem).

Esta actitud no es extraña, especial-mente durante el Trienio Constitucional,momento en que medró lo que llegó adenominarse como la «enfermedad de losadictos»11, es decir, la exigencia exaltada

de que todos los que desempeñasen cargospúblicos (y, por extensión, todo el quetuviese oportunidad de participar de algúnmodo en el Estado) debían ser adictos alsistema constitucional vigente. Por supues-to, durante la vigencia del Estatuto Real, losprogresistas no podían exigir una idéntica“adición” a la Constitución de 1834, que noles satisfacía, de modo que la lealtad se exi-gía a los principios liberales, que seguíanextrayendo, ante todo, del constituciona-lismo revolucionario francófilo.

Los exaltados y los progresistas otorga-ron a esa opinión pública el cometido posi-tivo – de orientación del Legislativo – ynegativo – de reprobación del Ejecutivo –,aunque prestaron especial atención a esteúltimo aspecto.

La función positiva de la opinión públi-ca llevó en ocasiones – una vez más – a esta-blecer un nexo entre ésta y la voluntad gene-ral; así, el diario exaltado El Espectador indi-caba que los órganos de la opinión pública(los periódicos) debían «ilustrar a los legis-ladores, y darles el resultado de la voluntadgeneral en escritos periódicos»12. Al con-vertir al pensamiento revolucionario en úni-co exponente de la opinión pública, y alidentificar ésta con la voluntad nacional, estegrupo acababa por considerar que la opiniónpública se hallaba por encima de cualquierpartido: frente a la opinión pública, generaly única válida, se alzaban los partidos, por-tadores de un ideario parcial y disgregador13.

Pero, además de servir como guía para lafutura producción normativa, la opiniónpública también desempeñaría un cometi-do positivo adicional, de índole interpreta-tiva. Los exaltados diferenciaron entre elespíritu y el texto de la ley, entendiendo queen ocasiones la literalidad normativa (el“enunciado”) podía verse desplazado por la

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verdadera intención y sentido de la norma.Y en la determinación del verdadero “espí-ritu” normativo también intervendría el“espíritu público”.

Sin embargo, exaltados y progresistasprestaron una mayor atención a la dimen-sión negativa y controladora de la opiniónpública. Ésta se convertía, ante todo, en sal-vaguardia de las libertades, de modo que losderechos, incardinados en la esfera social yconcebidos como libertades negativas, con-taban con un instrumento igualmentesocial para su protección: la opinión públi-ca. No es de extrañar, pues, que la libertadde imprenta, principal medio de expresiónde la opinión pública, acabara concibién-dose como un derecho-garantía, en el sen-tido de que, aparte de su contenido autó-nomo como libertad, servía para protegerotros derechos14.

A partir de esta construcción, exaltados yprogresistas convinieron en que no sólo elParlamento estaba habilitado para exigir res-ponsabilidad a los ministros y agentes eje-cutivos, sino que otro tanto podía hacer lapropia sociedad, expresando la opiniónpública. Las críticas del pueblo, y el descré-dito de un ministro ante los ojos de la opi-nión le supondrían una pérdida de fuerzamoral y, por consiguiente, una incapacidadde gobernar, al no contar con el apoyo de losgobernados. Junto a la responsabilidad legal,exigida por las Cortes en virtud de las dispo-siciones constitucionales, se admitía, enton-ces, la presencia de una “responsabilidadmoral” que diputados como Sancho o Rome-ro Alpuente no dudaban en considerar lamás importante de cuantas pesaban sobrelos ministros (Romero Alpuente, Discurso,1821, I, p. 462)15. Y es que esta responsabi-lidad permitía prescindir de algunos de losproblemas de la responsabilidad legal, a

saber, la imposibilidad de su exigencia fue-ra de los períodos de sesiones, los largos trá-mites a los que se sujetaba y la necesidad –en principio – de exigirse sólo por infrac-ciones normativas.

La responsabilidad moral, por el con-trario, operaba con rapidez, estuviesen o noreunidas las Cortes y permitía juzgar no yalas infracciones normativas, sino los actosimpolíticos de los ministros16. Es más, porcuanto se diferenciaba entre espíritu y tex-to de la ley, una fiel observancia de la dic-ción literal no impedía una exigencia deresponsabilidad moral si el pueblo enten-día que con ello se había vulnerado el “espí-ritu” de la norma.

B. Las libertades naturales y los medios de for-mación-expresión de la opinión pública

Tal y como se ha visto, para los exaltados-progresistas los sujetos “identificados” conel sistema liberal revolucionario eran losverdaderos portavoces de la opinión públi-ca. Y cualquier instrumento adecuado paraexpresar este ideario podía, por consiguien-te, convertirse en un vehículo de formacióny expresión de la opinión pública. Así, unade las características más sobresalientes delos exaltados-progresistas consistió, preci-samente, en considerar que existía una plu-ralidad de medios a través de los cuales laopinión pública se hacía explícita.

El instituto fundamental seguía siendo,por supuesto, la libertad de imprenta, perotambién el derecho de petición, los levan-tamientos populares y las SociedadesPatrióticas. Cada uno de los mencionadosmecanismos constituía el ejercicio de underecho: así sucedía, es obvio, con laimprenta y las peticiones, pero también conlos levantamientos (fundamentados en el

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derecho de resistencia) y con las Socieda-des Patrióticas (derivadas, como la impren-ta, de la libertad de expresión)17.

Hay que destacar, por otra parte, quefrente a la libertad de imprenta – de titula-ridad individual – algunos de estos dere-chos tenían un carácter colectivo, lo cualrepugnó al individualismo moderado-con-servador. Para los exaltados-progresistaslas provincias, como colectividad, estabanexpresando la opinión pública cuando senegaban a obedecer una orden injusta delGobierno18. Del mismo modo, las Socieda-des Patrióticas, que no dejaban de ser gru-pos, también exponían una opinión públi-ca cuando, tras deliberar, mostraban susresoluciones19. En fin, incluso el derechode petición se concebía en una dimensióncolectiva, puesto que no sólo estaban capa-citados para utilizarlo los individuos, sinotambién grupos y corporaciones.

Pero, sin lugar a dudas, la libertad deimprenta siguió siendo el derecho favoritopara expresar y formar la opinión pública.Para exaltados y progresistas consistía enun derecho natural (López, DS n° 8, 3-08-1834, pp. 20-21; Caballero, DS n° 29, 2-09-1834, p. 150; López, ibídem, p. 154; Domecq,DS n° 31, 5-09- 1834, p. 174; Torremejía,ibídem, p. 179), puesto que compartía laesencia de la capacidad de pensar y expre-sarse consustancial a todos los individuos(Flórez Estrada, DS n° 102, 14-10-1820, p.1642; Pizarro, DS n° 30, 4-09-1834, p. 167;Torremejía, ibídem, p. 165; López, DS n° 31,5-09-1834, p. 178).

Se trataba, por tanto, de un derecho pre-estatal, que el poder público podía restrin-gir sólo en la medida que resultase necesa-rio para garantizar la convivencia social20.Por tal motivo, en las Cortes constituyentesde 1836-1837, se llegó incluso a afirmar

que, puesto que esta libertad traía causa enel estado de naturaleza, y era derivaciónnecesaria de la libertad de expresión, debíacorresponder también a los extranjeros21.

Aparte de afirmar el carácter iusracionalde la libertad de imprenta, este sectorinsistió en la necesidad de su constitucio-nalización. Tal pretensión se materializódurante el Estatuto Real de 1834 que, comoes bien sabido, contenía la forma de gobier-no, pero carecía de una declaración dederechos. Los progresistas intentaron pordos veces el reconocimiento de la libertadde imprenta (y del derecho de petición): enprimer lugar, en la Contestación al Discur-so de la Corona, en la que trataron deincluir unas “bases” de la futura regenera-ción política que esperaban de la Regente,y entre las que figuraban ambos derechos.En segundo lugar, a través del derecho depetición parlamentaria: el diputado JoaquínMaría López presentó una auténtica “tablade derechos”, con la pretensión de incluir-la en el Estatuto Real, alegando que losderechos de los ciudadanos sólo quedaríansalvaguardados a través de su constitucio-nalización (López, DS n° 11, 6-08-1834, p.47; Dictamen de las Comisiones de CódigoCriminal, Milicia Urbana y de lo Interior,DS n° 24, 28-08-1834, p. 94; Bendicho, DSn° 28, 1-09-1834, p. 136; López, ibídem, p.139; Díez Gonzales, DS n° 29, 2-09-1834, p.153; López, ibídem, p. 155; Torremejía, DSn° 30, 4-09- 1834, p. 165 y DS n° 31, 5-09-1834, p. 180; Flórez Estrada, DS n° 31,5-09-1834, p. 178).

Aclarado el fundamento de la libertadde imprenta (iusracional) y la norma quedebía reconocerla (la Constitución), losprogresistas se dedicaron a exponer lanaturaleza y contenido de este derecho. Aeste respecto, concluían que la libertad de

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imprenta era un derecho-garantía, basán-dose en la distinción entre ambas categorí-as que había realizado Constant (De la liber-té de la presse, pp. 105 y ss.). En efecto, tal ycomo expondría Joaquín María López, lalibertad de imprenta no era tan solo underecho autónomo, sino que actuaba, almismo tiempo, como garantía para el res-to de derechos y libertades que, sin laimprenta, no podrían subsistir22. Estecarácter de derecho-garantía contribuía,por tanto, a reforzar la idea de que laimprenta servía, ante todo, para controlarel ejercicio del poder.

Por lo que se refiere al contenido sub-jetivo de esta libertad, esto es, al haz defacultades que comprendía, hay que seña-lar que a su amparo podían publicarse tan-to libros como prensa periódica. Esta afir-mación no resulta en absoluto ociosa, tal ycomo veremos al analizar el pensamientomoderado-conservador. El grupo exalta-do-progresista, en su idea de realizar unainterpretación extensiva de los instrumen-tos orientados a difundir la opinión públi-ca, consideraba que la publicación deperiódicos – y en especial la prensa políti-ca –, sin previa censura, era consustanciala la libertad de imprenta. A diferencia delos libros, cuya difusión era menor y cuyalectura exigía generalmente de una prepa-ración más acentuada, los periódicos llega-ban a todas las capas sociales y podían cum-plir mucho mejor su cometido de promo-ver, canalizar y exponer el debate social(López, DS n° 8, 3-08-1834, p. 25). Dichoen términos actuales, la prensa tenía unmayor componente “democrático” que laconvertía en el más digno objeto de la liber-tad de imprenta.

4-2. La opinión pública y sus limitaciones enel pensamiento moderado y conservador

a – Sujetos y funciones de la opinión pública

Los moderados y conservadores tambiénotorgaron una especial preeminencia a laopinión pública, aunque el papel de éstahabría de ser necesariamente más limitadoque en la ideología exaltado-progresista. Unalimitación que pesaba, sobre todo, en lossujetos que la expresaban – que analizare-mos en este epígrafe –, y en los medios paraexponerla – objeto del epígrafe siguiente –.

En efecto, los moderados y conservado-res restringieron más que los exaltados-progresistas en número y cualidad de lossujetos llamados a formar y expresar la opi-nión pública. Si el grupo exaltado-progre-sista había delimitado dichos sujetos ideo-lógicamente (identificándolos con los prin-cipios liberales revolucionarios), los mode-rados-conservadores atenderán, ante todo,al criterio formativo, entendiendo que sólolos individuos dotados de una ilustraciónconveniente se hallaban en condiciones deformar y expresar la opinión pública. No esdifícil percibir, por tanto, cómo este gruposeguía las premisas de la Ilustración.

Pero, además, los sujetos partícipes enla opinión pública debían ser individuos,basándose en la idea de que sólo el debateentre individuos libres e ilustrados podríaformar una voz unitaria y racional. Por estarazón, los moderados y conservadoresnegaron que los partidos expresasen la opi-nión pública, considerándolos, antes bien,como portadores de una opinión particulary disgregadora (Fernández Sarasola, Lospartidos; Id., Idea de partido, pp. 218 y ss.).En este punto existía, pues, una coinciden-cia con los exaltados-progresistas; pero, enrealidad, los moderados-conservadores

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iban más lejos, porque tampoco admitíanque las corporaciones y grupos (incluidaslas Sociedades Patrióticas) fuesen caucesválidos de opinión pública.

No obstante, y a igual que sucedía entrelos exaltados y progresistas, también estegrupo consideró que las Cortes podíanexpresar la opinión pública, de modo que,una vez más, opinión pública y voluntadgeneral acababan identificándose. Ahorabien, el problema residía en cómo articularlas relaciones entre dos hipotéticas opinio-nes públicas, la procedente de los ciudada-nos directamente, y la manifestada por lasCortes en sus decisiones. El intento más cla-ro de hallar una solución corresponde aldiario conservador «El Censor», publicadodurante el Trienio Liberal por los antiguos“afrancesados” Alberto Lista, Gómez Her-mosilla y Sebastián de Miñano. En él sediferenció entre la “opinión legal”, expre-sada por el Parlamento en sus normas, y la“opinión natural”, expuesta por los ciuda-danos. «El Censor» era consciente de queambas opiniones podían diferir en ocasio-nes, pero la primera exigía obediencia en elEstado de Derecho.

En todo caso, las discrepancias entre laopinión natural y la legal se limarían a tra-vés de un correcto funcionamiento del sis-tema representativo: las Cortes debíaninformarse, en primer lugar, de la opiniónnatural, esto es, de los deseos unitarios delos ciudadanos, y a partir de ahí debía ela-borar sus leyes, y opinión legal23. Dicho enotros términos, si el sistema se articulabatal y como acaba de describirse, la opiniónpública (social, y procedente de los ciuda-danos) podría aproximarse a la voluntadgeneral (normativa, expresada en la ley), demodo que la segunda no fuese sino unadepuración de la primera.

Las funciones que estaba llamada a des-empeñar esta opinión pública tan selectaeran, en principio, las mismas que para losexaltados y progresistas, a saber, una fun-ción negativa (de control) y otra positiva (deorientación), aunque con algunas diferen-cias, según veremos enseguida.

En su dimensión positiva la opiniónpública servía para orientar al poder públi-co, exponiéndole los deseos y necesidadesde la Nación («El Universal», n° 171, 18-11-1820, p. 711; «El Censor», n° 3, 19-08-1820, p. 221). Ahora bien, a diferencia de loque sucedía en los exaltados y progresistas,esta función orientadora no sólo se dirigíaal poder legislativo, sino también al propiopoder ejecutivo. La explicación de esta dife-rencia se halla en la articulación y diseñode los órganos estatales: para los exaltadosy progresistas la dirección política estatalle correspondía al Parlamento, en tanto queel Rey y su Gobierno se encargaban sólo deejecutar; para los moderados y conservado-res la dirección política era compartidaentre el Parlamento y el Rey y su Gobierno,por lo que también había que orientar a ésteúltimo a fin de que decidiese conforme alos deseos nacionales.

Pero la opinión pública también seguíamanteniendo su cometido negativo, delímite y control del Ejecutivo. Dicha fun-ción negativa resultaba tanto más impor-tante para algunos miembros del sectormoderado que consideraban que la res-ponsabilidad parlamentaria exigible alGobierno era exclusivamente penal. Así lascosas, la “responsabilidad ante la opiniónpública” se convertía en el complementoindispensable, dirigido a sancionar las con-ductas legales pero impolíticas del Gobier-no. Un Gobierno, por tanto, que quedaríasujeto a una doble responsabilidad: penal,

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ante el Parlamento, y política, ante la opi-nión pública. No obstante, hay que señalarque para la mayoría de los moderados yconservadores la responsabilidad políticatambién era exigible por el Parlamento, demodo que dicha responsabilidad contabacon dos cauces de expresión (v. FernándezSarasola, Poder, p. 588).

b – Los limitados cauces institucionales ysociales para formar y expresar la opiniónpública

Una de las diferencias más notables entrelos exaltados-progresistas y los modera-dos-conservadores residió en la distintavaloración de los medios lícitos para que laopinión pública se pudiera formar y expre-sar. Si, tal y como vimos en su momento, elprimer grupo optaba por ensanchar estosmedios, los moderados y conservadores,por el contrario, utilizaron criterios muchomás restrictivos.

Los cauces para expresar la opiniónpública eran de dos tipos: los resultantesdel ejercicio de derechos y los institucio-nales. Esta dualidad venía determinada porel hecho, ya señalado, de afirmar que tan-to los ciudadanos como el Parlamentoexpresaban la opinión pública.

Así, en primer lugar, la opinión públicase formaba y expresaba a través del ejerciciode unos derechos subjetivos muy concretosque los moderados y conservadores inter-pretaban, además, de forma limitada. Los tresderechos básicos que servían a este cometi-do eran la libertad de imprenta, el derechode petición y, con menor intensidad, el dere-cho de sufragio (v. «El Censor», n° 34, 24-03-1821, p. 272; íd., n° 50, 14-07-1821, pp.84-87; Id., n° 79, 2-02-1822, pp. 75-79).Nada de revolución, de Sociedades Patrióti-

cas ni de representaciones colectivas. Dehecho, la libertad de imprenta sustituía enlos moderados-conservadores a las Socieda-des Patrióticas, en tanto que los derechos depetición y sufragio eran la contrapartida delas representaciones colectivas y las insu-rrecciones defendidas por los exaltados-pro-gresistas.

En efecto, en primer lugar, los modera-dos-conservadores rechazaron frontalmen-te las Sociedades Patrióticas como cauce dela opinión pública («El Universal», n° 9,20-05-1820, p. 33). El único derecho cons-titucionalmente vinculado a la libertad deexpresión era la libertad de imprenta al con-siderar que las expresiones escritas eran lasúnicas reflexivas y dignas de protecciónjurídica. Una libertad de imprenta que, ade-más, tampoco se concebía con la laxitud deexaltados y progresistas.

La primera gran diferencia en la con-cepción de la libertad de imprenta se halla-ba en su mismo fundamento. Para losmoderados-conservadores no se trataba deun derecho natural, resultante de la liber-tad de expresión, porque, de hecho, nega-ban la existencia misma de libertades natu-rales. Seguidores del liberalismo doctrina-rio, combinado con el positivismo bentha-miano, los moderados-conservadores con-sideraban que en el Estado sólo podía afir-marse la existencia de derechos que hoydenominaríamos “positivos”, creados porlas normas que determinaban, por tanto,su titularidad, contenido y límites.

Privada la libertad de imprenta de sucarácter “iusracional”, perdía gran parte desu relevancia, y no es, pues, de extrañar queeste grupo señalara, con ironía, que habí-an existido pueblos libres antes de cono-cerse la imprenta (Toreno, DS, n° 62, 4-09-1820, p. 818; Santafé, DS, n° 29, 2-09-1834,

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p. 152). Por otra parte, a este grupo no lesresultaba ni tan siquiera necesaria la cons-titucionalización de este derecho, conside-rando que resultaba suficiente con incluir-lo en leyes particulares. De hecho, en 1834rechazaron la incorporación de cualquiertabla de derechos en la Constitución alentender que ésta debía regular sólo la fra-me of government, siendo los derechos ylibertades objeto propio de los CódigosCivil, Penal, de Procedimientos y deComercio (Santafé, DS, n° 28, 1-09-1834,p. 136; Martínez de la Rosa, DS, n° 11, 6-08-1834, p. 47; íd., DS, n° 28, 1-09-1834,p. 141; íd., DS, n° 29, 2-09-1834, p. 155;Torremejía, DS, n° 30, 4-09-1834, p. 165).

Cuestión más controvertida era determi-nar qué clase de derecho era la libertad deimprenta. La teorización más sólida al res-pecto correspondió a Alcalá Galiano (Leccio-nes, pp. 280-281, 284) quien, diferenciandoentre libertades civiles, políticas y mixtas,incluyó a la libertad de imprenta dentro deestas últimas. Su característica residía enparticipar de caracteres propios de los dere-chos civiles y de los políticos, sirviendo, a untiempo, como límites a la acción estatal(derecho civil o derecho-libertad) y comoinstrumentos de participación política(derecho político o de participación).

Finalmente, el contenido de la libertadde imprenta también se sujetaba a impor-tantes límites; algo perfectamente lógicopuesto que, siendo un derecho positivo, elEstado podía introducir cuantas limitacio-nes considerase oportunas para la salva-guardia del orden público. Entre las mássignificativas destaca la censura previa,defendida por los conservadores, así comola diferencia entre el régimen de la prensay los libros. Estos últimos contribuían a laformación intelectual del pueblo24, por lo

que su difusión debía ser menos restringi-da; sin embargo, la prensa era más irrefle-xiva, más propensa a excesos y, por tanto,debía someterse a mayores limitaciones25.No es difícil ver la huella de Madame deStaël en estas ideas (de Staël, Sobre las cir-cunstancias, pp. 133-135).

También el derecho de petición y elderecho de sufragio permitían exteriorizarla opinión pública. El primero, igualmenteconsiderado por Alcalá Galiano como “dere-cho mixto”, se concebía como una libertadde titularidad exclusivamente individual,negando, por tanto, las representacionescolectivas admitidas por exaltados y progre-sistas. En cuanto al sufragio, los resultadosde las elecciones se interpretaban tambiéncomo una exteriorización de la opiniónpública nacional que, con la designación delos representantes, mostraba sus preferen-cias políticas26.

El derecho de sufragio a Cortes nos per-mite conectar, precisamente, con los otrosmedios de expresar la opinión pública: los“institucionales”. Puesto que las Cortes tam-bién expresaban la opinión pública, losdiversos instrumentos jurídicos de organi-zación y funcionamiento del Parlamentopodían tener la virtualidad de manifestar esa“opinión legal”. Entre los mecanismos insti-tucionales más señalados habría que destacarel voto de censura, el bicameralismo y el vetoregio. Por lo que se refiere al voto de censu-ra, aun cuando contó con precedentes en lasCortes de Cádiz y, sobre todo, en el TrienioConstitucional, en realidad éste instrumen-to de exigencia de responsabilidad política seconsolidó a partir del Estatuto Real de 1834.

Ya se ha señalado que gran parte de losmoderados y conservadores compatibiliza-ron la responsabilidad “ante la opinión públi-ca” o “responsabilidad moral”, exigible por

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los ciudadanos directamente, con la respon-sabilidad que hoy llamaríamos “política”,“parlamentaria” o “institucional”, es decir, laque hacía efectiva el Parlamento mediante lamoción de censura. Si la responsabilidadmoral era expresión de esa “opinión natural”de la que hablaba «El Censor», la responsa-bilidad parlamentaria exponía la “opiniónlegal”, la voluntad del Parlamento. Una vezque un ministro era reprobado, el Rey debíaser consciente de que la opinión públicaexpresada por las Cortes le pedía que lo des-tituyese (v. Fernández Sarasola, Poder, p. 574).

En segundo lugar, los conservadorestambién consideraron que la misma orga-nización bicameral de las Cortes constituíaun mecanismo dirigido a formar la opiniónpública27. Según esta argumentación, la pre-sencia de una segunda Cámara, de reflexión,permitía someter a un sosegado debate lasdecisiones adoptadas por la Cámara Baja, yde esta doble deliberación surgía una autén-tica opinión pública racional (Sancho, DS,n° 59, 16-12-1836, p. 653). Hay que apre-surarse a señalar que esta idea la vertieronexclusivamente los conservadores a partirde 1834, no encontrándose referencias pre-vias de los moderados durante el TrienioConstitucional; algo, por otra parte, justifi-cable, ya que entre 1820 y 1823 la opción porel bicameralismo se veía como síntoma deexcesivo conservadurismo, por lo que, auncuando algunos moderados fuesen partida-rios de esta forma de organizar las Cortes,tendían a disimular su postura.

Por lo que se refiere al veto, como meca-nismo de opinión pública, se apoyaba en elmismo argumento que el bicameralismo: lalibre sanción regia permitía someter lasdecisiones legislativas a una nueva refle-xión, de la que tendría que resultar, nece-sariamente, la opinión pública, caracteri-

zada por su unidad y racionalidad (Castro,DS, n° 62, 19-12-1836, p. 702). Así, en rea-lidad, para los conservadores la opiniónpública se identificaba a través de diversosprocesos “depuradores”: de la libertad deimprenta ascendía hasta las Cortes la opi-nión pública “social”; ésta se sometía a undebate por las Cortes bicamerales, y de ladoble reflexión resultaba una criba de laopinión pública que pasaba, finalmente, alMonarca quien, con su sanción, acababadándole una forma definitiva.

Esta idea contó con la férrea oposiciónde los progresistas quienes argumentabanque si las Cortes representaban a la Nación,éstas eran las únicas habilitadas para inter-pretar su voluntad. Siguiendo la mismaargumentación que habían utilizado losliberales en 1812, los progresistas concluí-an que el veto absoluto permitía a un únicosujeto, el Rey, imponer su exclusiva volun-tad sobre la verdadera opinión pública, quemanifestaban los representantes (Dome-nech, DS, n° 62, 19-12-1836, p. 695.). Asípues, los progresistas no veían en el vetoregio un mecanismo más destinado a for-mar la opinión pública, sino la expresiónde una voluntad u opinión singular, quetrataba de imponerse a una voluntad u opi-nión general, la de la Nación.

5. A modo de corolario

El concepto de opinión pública surgió enEspaña de manos de la Ilustración, que lovinculó inevitablemente a su programa defomento de la instrucción pública. El objeti-vo era transitar desde la “voz del pueblo” (unavoz plural, irracional y definida sólo por sunúmero), hacia una “opinión pública ilus-

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trada”. La libertad de imprenta ayudaría aeste tránsito, pero sólo si se complementabacon una política educativa previa, ya que úni-camente los sujetos ilustrados se encontra-ban en disposición de utilizar la imprenta.

La ilustración liberal, sin embargo,comenzó a percibir la opinión pública entérminos políticos, en consonancia con elprogresivo alejamiento del DespotismoIlustrado y el incremento del protagonis-mo social, que acabaría conduciendo aldogma de la soberanía nacional. Por vezprimera, se atribuye a la opinión públicaverdaderas funciones políticas (de gobier-no), y no sólo sociales (o de instrucción):así, se le asigna un cometido positivo, deorientación del poder, y negativo, de con-trol de los gobernantes. La imprenta, queaún mantiene su cometido educacional, seconvierte también para este movimiento enel único instrumento dirigido a formar ytransmitir esa opinión pública.

El liberalismo revolucionario triunfan-te en las Cortes de Cádiz heredará estas ide-as, pero las pondrá al servicio de la divisiónde poderes, en un intento de trazar unpuente entre Sociedad y Estado. De estemodo, el cometido positivo de la opiniónpública quedará vinculado a las Cortes, des-tinatarias de la orientación social, en tantoque el cometido negativo o de control, porsu parte, se relacionará con el Ejecutivo,sujeto a la crítica social. Algo perfectamen-te lógico, puesto que las Cortes representa-ban a la Sociedad, en tanto que el Ejecuti-vo se percibía como su potencial enemigo.

A mediados del siglo XIX, el constitu-cionalismo español había convertido a laopinión pública en un actor político más,partícipe de la función de gobierno y de laexigencia de responsabilidad política. Lasdiferencias entre el constitucionalismo

exaltado-progresista y el moderado-con-servador residían, ante todo, en los caucespara expresar dicha opinión, interpretadosen un sentido más lato y preestatal, por losprimeros (superando, así, el carácter exclu-sivo de la imprenta), y bajo una concepciónestricta y positivista, por los segundos. Másallá de esta discrepancia, el liberalismodecimonónico había asentado el valor deeste nuevo sujeto político.

Pero existía otra nota común a ambosconstitucionalismos: su concepción unita-ria de la opinión pública, contraria a lospartidos, conducía a concebirla en térmi-nos cualitativos, lo que, en última instancia,motivaba su confusión con la “voluntadgeneral”, definida precisamente en estosmismos términos. Con ello se negaba unaconcepción de la opinión pública basada enel pluralismo, que sólo será posible con lairrupción de la ideología democrática y lavaloración en términos igualitarios de todaslas opiniones singulares, de la que deriva-rá una opinión pública definida en térmi-nos cuantitativos. La ratio liberal vendrá,entonces, a ser sustituida por la aritmética;y, con ello, los clásicos mecanismos de laopinión pública – libertad de imprenta,derecho de petición…– basados en el deba-te racional, empezarán a ser sustituidos porla geométrica precisión de la estadística queexpresan las encuestas.

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1 Sobre todas estas ideas de Foron-da, nos remitimos a FernándezSarasola (edit.), Valentin de Foron-da, pp. 101 y ss.

2 Así lo reconoce en Discurso conocasión de la reunión de las Cortes(1811), en Martinez Cachero, Álva-ro Flórez Estrada, p. 257. «El Tri-buno del Pueblo español», n° 8(27-11-1812), p. 98; y DS (Diariode las Sesiones de Cortes) n° 102(14-10-1820), p. 1642.

3 Art. 126 de la Constitución de 1812;Reglamento del Gobierno interiorde las Cortes, de 1810 (cap. I, art.9). El destacado diputado liberal,José María Queipo de Llano (Con-de de Toreno) reseñaría añosdespués que la publicidad de lassesiones era una de las grandesdiferencias entre las Constituciónde 1812 y el napoleónico Estatutode Bayona de 1808 (cuyos arts. 80y 81 proclamaban el secreto de las

deliberaciones parlamentarias).Conde de Toreno, Historia, p. 87.

4 Zorraquín, DS n° 362, 29-09-18811, p. 1953, Leiva; DS n° 471, 17-01-1812 p. 2645; Torrero, DS n°581, 4-06-1812, p. 3145-3146,Abargues, DS n° 73, 18-01-1814, p.343, quien llega a proponer que lasCortes publiquen un periódico ofi-cial para dirigir la opinión pública.

5 Una redacción, por cierto, quesometería a crítica años más tar-

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de Ramón Salas, al considerar quela literalidad parecía excluir elderecho a publicar obras relativasa otras materias. Vid. Lecciones1821, pp. 311-312.

6 Lo mismo pensaba Blanco-Whi-te desde su atalaya londinense:«La elección de representantesno es medio suficiente para ase-gurar a la nación de que no seharán leyes directas contra ella.Sólo la libertad de imprenta pue-de lograr esto. Sólo por ella pue-den saber los hombres buenosque se hallen en el cuerpo legis-lativo la opinión de la nación paraque formen según ella las leyes, ylos malos para que teman irdirectamente en contra. Losdebates del cuerpo legislativodeben dar tiempo a que la naciónse imponga en lo que se trata»,en «El Español», n° 8 (30 denoviembre de 1810), pp. 144-145.

7 «Es la libertad que recobra todoindividuo de la sociedad paraimprimir sin permiso de otro ylibremente sus opiniones y pen-samientos», en «El ConcisínMenor», n° 30, 20-10-1810, p.141.

8 Triple carácter, pues, de la opi-nión pública que expresaba muybien el diputado Pérez de Castroal afirmar que la opinión pública,apoyada en la libertad de impren-ta («su fiel barómetro»), ilustra-ba, advertía y era freno de la arbi-trariedad (DS n° 369, 6-10-1811,p. 1999).

9 Evidentemente, esto impedía quela libertad de imprenta pudieseconstituir una instancia crítica delas Cortes, puesto que la Asam-blea se aseguraba el control de laJunta Suprema de Censura. Blan-co-White proponía, entonces,que los miembros de estas juntasfuesen designados por el pueblodirectamente. «El Español», n°9 (30-12-1810), pp. 221-224.

10 Entre los exaltados es muy fre-cuente referirse a la opiniónpública como “reina del Mundo”,

en términos cartesianos. «ElEspañol Constitucional», n° 18,febrero de 1820, p. 108; «ElEspectador», n° 78, 1-07-1821, p.310; «El Amigo del Pueblo», vol.I, 1822, p. 122; «El Zurriago», n°53-56, 1822, p. 52; íd., n° 86-89,1822, p. 59.

11 Sebastián de Miñano, en «ElCensor», vol. V, n° 25, 20 de ene-ro de 1821, pp. 58 y 60; íd., en «ElCensor», vol. XVI, n° 91, 27 deabril de 1822, p. 58.

12 «El Espectador», n° 649, 23-01-1823, p. 96. Vid. también «ElEspañol Constitucional», n° 18,pp. 110, 112, 118-119. En esteperiódico se habla de la opiniónpública como «legislación inte-lectual».

13 Cfr. «El Conservador», n° 172,14-09-1820, p. 2; «El EspañolConstitucional», n° XVIII, febre-ro 1820, pp. 109-110; n° XIX,marzo 1820, p. 163. «El EspañolConstitucional» distinguía entrela «voz popular» (parcial y dis-gregadora) y la «opinión públi-ca» (racional y unitaria).

14 «La libertad de imprenta – decíael progresista Joaquín MaríaLópez – es a la vez un derecho yuna garantía de todos los demásderechos que el hombre puedeposeer»: López, Curso, p. 127. Enun sentido muy semejante sehabía pronunciado Salas, Leccio-nes, p. 64.

15 Sobre la importancia de laresponsabilidad moral, vid. tam-bién «El Amigo del Pueblo», vol.I, 1822, pp. 112-117; «El Zurria-go», n° 7, 1822, p. 8; íd., n° 19,1822, p. 1; íd., n° 22, 1822, pp. 3-4; íd. n° 47, 1822, pp. 1-3; íd., n°48, 1822, p. 4; íd., n° 49, p. 5; íd.,n° 86-89, 1822, pp. 57 y 59.

16 Las facultades discrecionales delGobierno, según Alcalá Galiano,quedarían siempre sujetas a lacensura pública. DS, vol. I, n° 17,20-10-1822, p. 243. Vid. tambiénDS, vol. I, n° 81, 21-10-1822, p.260. Entre la prensa exaltada,

estas ideas se expusieron con cla-ridad en «El Zurriago», n° 19,1821, p. 1; «El Zurriago», n° 49,1822, p. 5; «El Zurriago», 1822,n° 53, 54, 55 y 56 [sic], 1822, p.52; «El Zurriago», n° 66, 1822,pp. 6-7; «El Amigo del Pueblo»,n° 5, 1822, pp. 113 y 114; «El Ami-go del Pueblo», n° 13, p. 17; «ElAmigo del Pueblo», n° 11, 25-05-1821, p. 43; «El Espectador», n°23, 7-05-1821, p. 91; «El Espec-tador», n° 22, 6-05-1821, p. 86.

17 Tal y como hemos analizado condetalle en otra ocasión, los exal-tados defendieron denodada-mente las Sociedades Patrióticas,paro no se fundamentaron en elderecho de reunión o de asocia-ción – como parecería lógico –sino en la libertad de expresión.Vid. Fernández Sarasola, Los par-tidos, § 69 y ss.

18 Así lo expuso, durante el TrienioLiberal, Calatrava (DS, vol. II, n°80, 13-12-1821, p. 1254), seña-lando que las sublevaciones de lasprovincias de Cádiz y Sevilla eraexpresión de que los ministroshabían perdido su fuerza moral.Apoyó esta idea el periódico «ElEspectador», n° 231, 1-12-1821,p. 926 y n° 248, 18-12-1821, p.996. Durante las Cortes Consti-tuyentes de 1836-1837, los pro-gresistas todavía sostenían que lasprovincias y municipios podíanexpresar colectivamente la opi-nión pública. Vid. Olózaga, DS, n°62, 19-12-1836, p. 697. Vid. tam-bién «El Espectador», n° 74, 27-06-1821, p. 296.

19 Durante el Trienio Constitucional,en ausencia de expreso reconoci-miento constitucional de lasSociedades Patrióticas, éstas tra-taron de apoyarse en el art. 371 dela Constitución del 12, que reco-nocía la libertad de imprenta. Vid.Romero Alpuente, DS, vol. I, n° 62,4-09-1820, p. 817. No debe extra-ñar esta idea, si tenemos en cuen-ta la siguiente correlación quehacían los exaltados: la libertad de

Fernández Sarasola

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imprenta suponía reconocer lalibertad de expresión, y las Socie-dades Patrióticas, por su parte,eran ejercicio de esta última liber-tad. Vid. Lastarria, ibídem, p. 814;Flórez Estrada, DS, vol. II, n° 102,14-10-1820, p. 1642; La-Santa,DS, vol. II, n° 102, 14-10-1820, p.1647; Ruiz de la Vega, DS, vol. II,n° 101, 20-05-1822, p. 1447. Algúndiputado llegó a considerar a lasSociedades Patrióticas como elmedio más adecuado para exponerla opinión pública, por encima,incluso de la libertad de imprenta.Vid. Saavedra, DS, vol. I, n° 20, 23-10-1822, p. 291; Flórez Estrada,DS, vol. II, n° 102, 14-10-1820, p.1642 y Romero Alpuente, DS, vol.III, n° 103, 15 de octubre de 1820,p. 1661. Sobre el valor de estasSociedades para exigir responsa-bilidad al Gobierno, vid. MartínezMarina, Discurso, donde tambiénél afirmaba el carácter natural deeste derecho y su derivación de lalibertad de expresión y del dere-cho de resistencia.

20 El diputado Torremejía llegabamás lejos en las Cortes de 1834, alafirmar que, así como otras liber-tades tenían que ser recortadas al

constituirse la sociedad, no suce-día lo mismo con la libertad deimprenta. Torremejía, DS n° 31,5-09-1834, p. 179.

21 En un interesante discurso, eldiputado Gregorio García señalóque la libertad de imprenta notenía la consideración de derechopolítico, sino de derecho civil(derivado, pues, de un derechonatural) y que, por tanto, teníaque corresponderle también a losextranjeros. DS n° 152, 28-03-1837, pp. 2334-2335.

22 Vid. la cita de López, Curso, supra.Vid. también, sobre la libertad deimprenta como garantía de laslibertades: López, DS n° 8, 3-08-1834, p. 20; Secretario de las Cor-tes, DS n° 10, 5-08-1834, p. 43;Dictamen de las Comisiones deCódigo Criminal, Milicia Urbanay de lo Interior, DS n° 24, 28-08-1834, p. 94; Trueba, DS n° 28, 1-09-1834, p. 134; Alcalà Zamora,DS n° 30, 4-09-1834, p. 163.

23 «El Censor», n° 91, 27-04-1822,pp. 69-75. Vid. También id., n°10, 7-10-1820, p. 277; id., n° 58,8-09-1821, pp. 262-263, dondese identifica el gobierno de laopinión con el gobierno de mayo-

ría parlamentaria; así pues, lafuerza mayoritaria de las Cortesexpresarían la opinión pública.

24 Se seguía manteniendo, por tanto,la idea ilustrada de la función edu-cadora de la imprenta. Vid. «ElUniversal», n° 9, 20-05-1820, p.34.

25 Martínez de la Rosa, DS, n° 8, 3-08-1834, p. 27 y DS n° 31, 5-09-1834, p. 175. Sin embargo, a favorde igualar libros y prensa se habíapronunciado años antes el perió-dico moderado «El Censor», n°55, 18-08-1821, pp. 58-60.

26 «El Universal», n° 16, 27-05-1820, p. 59. Para este periódico, lalibertad de imprenta, por su par-te, complementaba la represen-tación parlamentaria, al incre-mentar el número de sujetos ilu-strados y, por tanto, capacitadospara ser diputados. «El Univer-sal», n° 98, 17-08-1820, p. 359.

37 En el Trienio Liberal, en ausenciade Senado, algunos moderadostrataron de convertir al Consejode Estado en órgano que podíaexponer al Rey la opinión públi-ca. «El Universal», n° 201, 20-07-1820, p. 1.

1. La vitalità del ceppo sociale su cui inEuropa si è innestata l’esperienza costitu-zionale dello Stato moderno, e sul qualehanno trovato sviluppo le istanze dell’opi-nione pubblica che, in un dato momentostorico, dovrebbero rappresentare la proie-zione più efficace dei caratteri preminentidell’ordine sociale, sotto il profilo dell’in-terlocuzione con il potere delle istituzioni,trova in territorio britannico una delle sueespressioni più elevate e ricche di articola-zioni. Tra i molti percorsi attraverso i qua-li il multiforme oggetto di questa ricostru-zione può essere indagato, la lettura costi-tuzionalistica può offrire elementi concre-ti. Considerato che ci si riferisce ad unarealtà animata da quello spirito pratico cheavrebbe indotto Walter Bagehot ad osser-vare che «of all nations in the world theEnglish are perhaps the least a nation ofpure philosophers». In territorio britan-nico a una società civile ricca di molteplicimovimenti interni corrisponde un edificiocostituzionale gradualistico ed evolutivo:società civile ed esperienza costituzionale,

in tal senso, si rispecchiano vicendevol-mente (Emden 1956).

La plurisecolare evoluzione del sistemacostituzionale in Inghilterra e quindi inGran Bretagna è in larga misura configura-bile nello sviluppo di un’istituzione (il Par-lamento) e di una giurisdizione (le corti digiustizia), nel loro legame organico con lamonarchia e in controbilanciamento con lacultura delle libertà e del diritto comune(Maitland 1908). Siano essi consideraticome entità separate o come istituzioni lega-te al potere della Corona o come dimensio-ni del potere in relazione tra loro (tutti que-sti aspetti in realtà non si escludono a vicen-da), Parlamento e corti si pongono in lucecome i due grandi motori dello sviluppo edel consolidamento, rispettivamente poli-tico e giuridico, dell’esperienza costituzio-nale inglese. Emersi dalle nebbie delmedioevo normanno come un corpo politi-co e un corpo giudiziario, il sistema parla-mentare e gli apparati della giurisdizionesono, in realtà, le due più potenti ipostasisociali della storia anglo-britannica.

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Le ipostasi costituzionalidella società civile britannica

alessandro torre

giornale di storia costituzionale n. 6 / II semestre 2003

Il concetto, che si può illustrare osser-vando che

le istituzioni rappresentative inglesi e le loro pre-rogative erano antiche come, o più antiche dellamonarchia – giacché – non erano un dono od unacreazione del re ma un indipendente possesso delpopolo inglese da tempo immemorabile[Burrows 1992]

pone in rilievo che in Gran Bretagna lasocietà civile è il genuino substrato su cui siè formata la costituzione evolutiva. Unacostituzione che non si impone sull’ordinesociale mediante astratte operazioni, ma siinsinua negli interstizi della fenomenolo-gia sociale e politica. In altri contesti, ogniscrittura di una carta costituzionale è unevento della storia che molto si basa suproiezioni astratte: le costituzioni formalisono infatti in varia misura permeate di ele-menti programmatici, e in quanto tali pon-gono più problemi per la futura azione del-le istituzioni, dei gruppi politici e sociali, edegli individui che si pongono sotto la loroautorità, di quanti effettivamente ne risol-vano al momento del constitution-making.

Non è un caso che nella seconda metà delXVIII secolo, ovvero nella grande fase dimodernizzazione della forma di governoparlamentare del neonato Regno Unito diGran Bretagna, si siano specificate proprioquelle nuove dimensioni della società civi-le – come appunto il concetto di public opi-nion che tanto corso avrà nella cultura pub-blica dei paesi di lingua inglese e che nellosviluppo della stampa periodica troverà unodei suoi mezzi di diffusione più tipici (Marr1923; Frank 1961).

2. Confluendo nell’edificazione di quelledue dimensioni della supremacy of Parlia-ment e della rule of law che secondo A.V.

Dicey hanno dato forma al sistema costitu-zionale di matrice inglese, le trasformazio-ni del Parlamento e delle corti hanno fedel-mente rispecchiato le tappe fondamentalidell’evoluzione della società anglo-britan-nica e il passaggio dallo Stato monoclasseallo Stato pluriclasse (Giannini 1986; Cas-sese 1994).

Da questo percorso costituzionale astruttura binaria non è consigliabile devia-re anche discorrendo della società civile. Adifferenza di quanto si è verificato in altrigrandi contesti nazionali europei, essa èinfatti un alveo primario del costituzionali-smo inglese e come tale è considerata dalladottrina (Hall 1995). Il che induce a consi-derare che, se trattando del sistema costitu-zionale britannico non si può mai separarelegittimamente la storia delle istituzioni edel diritto da quella dei gruppi sociali chene sono alla base, anche il contrario è vero.

Questa necessaria avvertenza innerva-va, per esempio, le riflessioni storiografi-che di due personalità intellettuali recipro-camente agli antipodi ma unite da un nes-so di contemporaneità che non va sottova-lutato, quali George Macaulay Trevelyan eWinston Churchill, e ha informato di sél’intero revival britannico degli studi di sto-ria sociale. E d’altronde, con i suoi rapso-dici e apparentemente incidentali riferi-menti alla storia delle istituzioni inglesi, lostesso Essay on the History of Civil Society delFerguson potrebbe essere considerato, aprima vista, come un’opera erudita il cuiscopo scientifico fosse lo studio del con-cetto storico di società civile secondo ilmedesimo metodo che era impiegato per lostudio della storia naturale. In realtà l’illu-minista di Edimburgo sviluppava, pur nel-l’apparente asetticità di un discorso desti-nato a porsi a fondamento della dottrina

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sociologica, una lucida e pragmatica anali-si delle tendenze che si erano storicamen-te determinate nel rapporto società-istitu-zioni in territorio britannico (Pocock 1975).Per chiarire il punto sarebbe sufficienterammentare alcuni frammenti dell’Essaynei quali risultano ben argomentate le spe-cificità di tale rapporto: ove, ad esempio, sirivela in qual modo il corpo vivo dellasocietà abbia concretamente fondato, pri-ma ancora che il costituzionalismo muo-vesse i suoi primi passi, la costituzione sto-rica, e come sia nella storia del popoloinglese e nel radicarsi della propria attivaconsapevolezza sociale, e non già nella meraenunciazione delle leggi, che vanno indi-viduate le premesse della sorprendentetenuta del diritto e delle istituzioni parla-mentari (Ferguson 1768).

Queste considerazioni generali sull’In-ghilterra vanno estese storicamente anchealla Scozia, terreno periferico ma non mar-ginale di sviluppo di una ben caratterizzataautonomia istituzionale e luogo di afferma-zione di una tradizione di società civileestremamente vitale, istituzionalmentesostenuta da distinti sistemi di autogover-no locale e di giurisdizione e ricca diimportanti apporti intellettuali destinati aripercuotersi sull’intero comprensorio del-le Isole britanniche.

Si potrebbe obiettare che qualsiasi siste-ma costituzionale è in fin dei conti il pro-dotto, oltre che di una cultura del diritto nel-la quale la dimensione del privato precedestoricamente quella del pubblico, del pre-valere di forze sociali ed economiche, espesso di forze sociali ed economiche dinuova definizione e promotrici di granditransizioni. Ma certamente, pur dovendotenere nel debito conto le radicali critichead essa rivolte, tra i molti, da Rousseau,

Kant, Bentham e Stuart Mill, la via anglo-britannica si staglia vistosamente sullo sfon-do di quegli emblematici percorsi europeinei quali le massime costruzioni costituzio-nali hanno seguito percorsi paralleli a quel-lo della società civile del paese, spesso sen-za toccarla o incontrandola solo saltuaria-mente e in modo sovente violento e costel-lato di soluzioni di continuità. In tali per-corsi, comunque, l’idea di nazione, quan-d’anche imperfettamente declinata rispettoall’archetipo francese (caso italiano e spa-gnolo), si è imposta come monolitico sur-rogato del ben più impegnativo concettopluralistico di società civile.

Per quanto riguarda infatti l’evoluzionedella storia costituzionale britannica, qual-siasi decisiva riforma delle istituzioni puòessere infatti interpretata, anziché comemero evento giuspubblicistico, come il pre-cipitato di nuove egemonie socioeconomi-che e delle urgenze da esse imposte al siste-ma, cosa che effettivamente avvenne con ilGreat Reform Act del 1832 e con il ParliamentAct del 1911.

3. Già in altra occasione s’è analizzato inmodo approfondito attraverso quali per-corsi interpretativi si possa condurre l’os-servazione della costituzione del RegnoUnito (Torre 1997). Si tratta, come è evi-dente, di un quadro nel quale, come in epo-che diverse e con differenti punti di vistahanno osservato Charles Howard McIlwaine Raoul van Caenegem, ha trovato il suo ori-ginario terreno di coltura la gran parte del-le componenti del costituzionalismo occi-dentale. Per dare un immediato fonda-mento al discorso sulle valenze costituzio-nali dell’opinione pubblica britannica edella società civile di cui essa è la più natu-rale ma anche la più indefinita espressio-

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ne, di tale complesso si può porre in risal-to il fatto che la grande particolarità ingle-se va ravvisata nell’intima simbiosi tra spa-zio sociale, politica attiva e radicamentodell’istituzione parlamentare e della com-mon law.

Secondo il grande interprete dellanascente società civile nell’epoca dellaseconda rivoluzione parlamentare, il Lockedei Two Treatises of Government (1690), èattraverso queste basilari connessioni che«la società civile tende a garantirsi la pro-pria razionalità giuridica, sia partecipandodirettamente al potere legislativo, siaponendo a questo come limite il diritto (o idiritti) naturale» (Matteucci 1997). Ma giàin epoca prerivoluzionaria, nella sua DeRepublica Anglorum (1583), Sir ThomasSmith aveva ragione di affermare, a propo-sito del parlamento sedente in Westminster,che «every English man is understood to bethere present…and the consent of Parlia-ment is taken to be every man’s consent».

Se si limita l’osservazione alla solaInghilterra, l’interscambio tra il camminodella società civile e il percorso delle istitu-zioni e del diritto si è progressivamentedeterminato attraverso le successive fasi diaffermazione non solo della funzione di rap-presentanza che era alla base dell’assembleadel regno e che già verso la fine del Duecen-to trovava, con gli statuti di Edoardo I e conla definizione (1297) della composizione del“Parlamento modello” la sua prima regola-mentazione: «two knights from each shire,two citizens from each city, and two burges-ses from each borough (all elected)» (Wil-ding, Laundy 1968). In tal modo l’istituzio-ne parlamentare, dopo i primi passi che damero strumento consultivo di governo del-la feudalità l’avevano affermata come inter-locutrice del potere monarchico secondo le

nuove consuetudini assembleari che eranotipiche della feudalità normanna, conosce-va la sua prima regolamentazione. Questa larendeva un organo, sebbene ancora legatoal potere della Corona, non solo sottrattoall’arbitrio del sovrano in quanto esponen-ziale di interessi autonomi, ma anche «thefirst fully representative assembly» nellastoria inglese.

Al delinearsi dell’embrione di quellache, nel giro di alcuni decenni, sarebbediventata la Camera dei Comuni non è estra-neo, infatti, il definitivo riconoscimentoregio delle autonomie dei boroughs,momento di specificazione istituzionale diuna fenomenologia dell’autoorganizzazionesociale nell’Inghilterra normanna e planta-geneta apparentemente caotica, in quantoarticolata in innumerevoli varianti. Ma inrealtà non priva di una sua coerenza inter-na, focalizzata intorno a quel basilare rap-porto tra sovrano e aggregazioni locali chetrovava forma scritta nei royal charters.

In altri termini, la simbiosi tra comuni-tà nazionale e istituzione costituzionale sirealizzava attraverso la mediazione dellecomunità locali organizzate in corporationsdi residenti e in corporations parrocchiali, ilcui riconoscimento era accordato dal sovra-no mediante uno statuto scritto. A questaessenziale piattaforma giuspubblicistica dinatura cartolare, alla quale si deve l’istitu-zionalizzazione dei rapporti tra gruppisociali e autorità del sovrano nell’Ancienrégime inglese (Merewether, Stephens1835), non si fa risalire solo la matricescritta di un sistema la cui costituzione si èpoi rivelata di prevalente natura conven-zionale. Ma anche una delle espressioni piùsignificative di quella sponsio tra potereistituito e comunità nazionale che Henry deBracton, magistrato del King’s Bench sotto

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Enrico III (v. De legibus et consuetudinibusAngliae, 1250-59) mostrava di considerarecome un patto tanto radicato nel dirittocomune da trascendere quell’originariolegame fra Corona e magnati del regno dalquale qualche decennio addietro era scatu-rita la Magna Carta Libertatum (Post 1968).

Se osservati dal punto di vista di unasocietà che non era ancora “civile” nel sen-so moderno del termine ma già trovava isuoi punti di raccolta nelle autonomiemunicipali e nella carta delle libertà, duemomenti costituzionali che rispettivamen-te aprirono e chiusero le importanti tra-sformazioni del XIII secolo rivelano unaanalogia di fondo. Ciò che gli statuti delPlantageneto avrebbero compiuto sul pia-no parlamentare, la Magna Carta Libertatumaveva da tempo realizzato sul versante del-le garanzie. Entrambi realizzando una sal-datura tra istanze sociali e sfera delle isti-tuzioni: l’introduzione delle regole di com-posizione dell’assemblea del regno per lasua parte “popolare” e, soprattutto, l’incar-dinamento della rappresentanza parla-mentare nella contribuzione fiscale (notaxation without representation), davanoavvio alla storia del parlamentarismo inInghilterra e nel mondo intero, ma ancheattribuivano visibilità politica alle organiz-zazioni sociali – corporazioni, parrocchie,sodalizi vari di residenti – che operavanoattraverso il sistema binario dei boroughs edelle contee. La Magna Carta Libertatum, insostanza, attraeva il corpo sociale nella sfe-ra dei diritti del regno e lo chiamava adesprimere un ruolo attivo nella difesa del-le garanzie fondamentali in diretta e noninnaturale sintonia con le aristocrazie feu-dale ed ecclesiastica.

In entrambi i casi, istituzioni che eranonate per l’assolvimento di funzioni tipiche

del sistema feudale si trasformavano in isti-tuzioni del moderno rapporto tra monar-chia e corpo sociale. Considerevoli, seosservate in questa prospettiva, si sarebbe-ro pertanto rivelate le energie sprigionatedalla Magna Carta, documento pattizio enon mero atto d’imperio, la cui osservanzarichiedeva necessariamente «la coopera-zione di tutte le classi» (Corwin 1928-29),e che già all’epoca della sua seconda confir-matio (1225) estendeva il suo raggio d’azio-ne ben oltre la sfera dei baroni in forza del-la clausola «tam populo quam plebi».

4. Dell’esistenza di un simile legame ori-ginario tra corpo sociale e corpo del sovra-no, essenza della sovranità medievale (Kan-torowicz 1957), si sarebbero ben rammen-tati, pressoché nel medesimo clima politi-co di avanzamento del potere parlamenta-re, sia i coloni americani – intrisi dellostesso puritanesimo che oltre un secoloaddietro in Inghilterra aveva dato forma allaribellione antiassolutistica – sia i protago-nisti delle prime combinations operaie cherimpiangevano con profonda nostalgia itrascorsi e rassicuranti legami paternalisti-ci tra sovrano e corporazioni sociali (Sal-vadori, Villi 1987). E, con questi, i vantag-gi di una cetualità che un tempo costituivaun potente cemento sociale ed un veicolodi promozione, e che sotto le pressioni del-la rivoluzione industriale era irrimediabil-mente votata al declino.

Entrambi, infatti, rievocavano la perdu-ta armonia (in larga misura idealizzata) cheuniva il corpo sociale e il vertice delle isti-tuzioni, e che un Parlamento ora non piùelemento di sintesi della società, ma ormainemico delle legittime istanze di una partemisconosciuta della società stessa avevairrimediabilmente distrutto. In quanto Par-

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lamento posto sotto il dominio di unaristretta oligarchia divisa in partiti, masostanzialmente resa omogenea dalla comu-ne corsa all’accaparramento della proprie-tà fondiaria.

E del resto, attingendo ad alcuni ele-menti del pensiero bractoniano, si puòaggiungere che, più ancora delle storicheposizioni del Parlamento, l’oggettivo inne-sto della monarchia nazionale nel corposociale aveva costituito il migliore antidotonei confronti dell’assolutismo; come sareb-be stato ribadito dall’anonimo pamphletti-sta che nel 1643 elaborava l’apostrofe TheSubject of Supremacie. In altri termini, per unsovrano che fosse espressione autentica del-la comunità, come di certo era il re feudale,sarebbe stato pressoché impossibile eser-citare un potere senza freni.

Nonostante il permanere di dottrine chesostenevano la necessità dell’instaurazionedi un supremo gubernaculum posto sotto lapotestà regia, nell’essere la monarchia unapreminente proiezione del corpo socialerisiedeva essenzialmente il presidio dellelibertà e del governo limitato. Questa ideaavrebbe avuto lungo corso nel pensiero deinuovi protagonisti della politica anglo-bri-tannica, per merito di Locke e del visconteBolingbroke autore dell’Idea of a Patriot King(1754, postumo): importante saggio in cui lamonarchia costituzionale è interpretata come«indissolubilmente collegata a quello “spiritof liberty” che nella comunità civile inglese haprevalso, …, sul conflitto tra fazioni ed inte-ressi particolari» (Capozzi 1997).

In seguito, la collocazione del monarcaai margini dell’ordine costituzionale avreb-be posto in secondo piano la questione del-la sua appartenenza o meno al corpo socia-le: impegnativa questione dalla qualedipendeva la definizione della natura del

potere monarchico. Già con le prime evo-luzioni del revolution settlement sanzionatecon l’Atto del 1701 e soprattutto con l’auto-ritario Septennial Act (1715) con cui il Par-lamento di Gran Bretagna si assicurava unaposizione di considerevole stabilità in unadelicata fase di avvicendamento dinastico,l’estraniamento del re dalla società civile sipoteva considerare un fatto compiuto. Lafigura del King in Parliament da manifesta-zione sostanziale del potere (di cui ilmonarca era, secondo la definizione di JohnSpelman del 1640, «the head … but a part»)si trasformava in una figura convenzionale.

Cessando nel Settecento di governareattivamente gli affari del regno, rispettoall’ordine sociale il monarca sarebbe statorelegato in una condizione non di totaleavulsione bensì di ultima e neutrale garan-zia esercitata attraverso la scelta del Primoministro e la dissolution parlamentare. Tan-t’è vero che dalla svolta d’inizio secolo nonsarebbe derivata l’espulsione del re dalquadro costituzionale, bensì la sua elezio-ne a supremo (ma gradualmente depoten-ziato) reggitore del paese. Così, la qualifi-cazione della Corona come soggetto terzo e,prospettivamente, marginale del circuitocostituzionale avrebbe controbilanciato lavitalizzazione della civil society e del parlia-mentary government, come anche delle lorocreature predilette, l’opinione pubblica ela Camera dei Comuni, che presto avreb-bero messo in opera infinite modalità dicomunicazione.

Sotto altro profilo, la collocazione mar-ginale della monarchia rispetto all’ordina-mento del potere politico avrebbe trovatouna sfera di compensazione nella creazionedi una idea nazionale basata su un radicatosenso di identificazione (si pensi al mito,tutt’altro che evanescente, dell’ “Inghilter-

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ra di Re Giorgio”, o al vittorianesimo) nel-la specificazione della moderna cittadinan-za basata sulla allegiance del suddito nei con-fronti della Corona. Se oggi la concezioneunitaria dell’identità nazionale è scompo-sta dalla devolution, tutt’altro che destruttu-rata nel Regno Unito, pur di fronte alle sfi-de della multiculturalità, resta la connes-sione tra senso civico, citizenship e perce-zione dell’appartenenza alla società civile.

Ma un’altra e ben più determinantecondizione di estraniamento si andava nelcontempo preparando, ossia quell’avulsio-ne dello stesso Parlamento di Westminsterdal corpo sociale che sarebbe stata dura-mente stigmatizzata, sulle due sponde del-l’Atlantico, dai coloni d’America e dai pro-tosindacalisti inglesi di fine Settecento. Larisposta dei primi sarebbe stata la guerraper l’indipendenza (Reid 1977) e la nascitadi un nuovo Stato (una risposta, pertanto,costituzionale e declinata socialmente inquella che Tocqueville avrebbe definito unsistema senza classi). La replica dei secon-di avrebbe assunto le sembianze di unasistematica denuncia delle condizioni diingiustizia economica e politica, attraversoforme di protesta sociale che gradualmen-te trasformarono l’informe mob settecen-tesco e le sue violente agitazioni (Rudé1964; Wahrman 1996) in un insieme diaggregazioni operaie dotate di maggiorcoerenza interna e capaci di influire sullasocietà britannica intesa nel suo comples-so (Hobsbawm 1964; Hammond, Ham-mond 1967). Questo mutamento, in epocaliberale, darà spazio alla grande vitalità del-le formazioni associative e, sul piano isti-tuzionale, alle rivendicazioni del Cartismo(Harrison 1971). In realtà, l’avulsione delParlamento dei whigs e dei tories dallacomunità nazionale era un fenomeno solo

apparente: sotto la spinta delle concezionidi una property sempre più marcata dall’in-dividualismo, il Parlamento dell’età di Wal-pole altro non avrebbe fatto in sostanza cherispecchiare il nuovo assetto sociale. Gliequilibri istituzionali sarebbero stati tra-sferiti dalla diffusa ma illusoria democra-ticità del periodo puritano alla sostanzialearistocratizzazione di un bipolarismo socia-le e politico d’élite, scaturito dal revolutionsettlement del 1688-89 e orientato trasver-salmente attraverso la forbice del sistemabicamerale.

L’impronta conservatrice del Parla-mento formerà un carattere dello scenariopolitico fino al Great Reform Act del 1832 che,a sua volta, sarà il riflesso di una nuovagrande transizione sociale: ma, nonostan-te la tendenziale oligarchizzazione delleistituzioni, l’elitarismo britannico, e ingle-se in particolare, resterà sempre aperto allamobilità e permeabile agli apporti di nuo-ve componenti sociali anche nelle fasi dimaggior irrigidimento della politica nazio-nale (Stone, Fawtier Stone 1984).

5. Certamente, molte cose sono mutatedall’epoca dei Plantageneti ad oggi e, comeosservava McIlwain «anche in Inghilterrauna disperata guerra civile ed una rivolu-zione costituzionale furono finalmentenecessarie, prima che adeguate sanzionifossero trovate, da aggiungere all’eredità delcostituzionalismo medievale». Ma del resto,considerando gli eventi della storia inglesedel Seicento, cos’altro sarebbero state laribellione puritana e la guerra civile se nonla più elevata e, sotto certi profili, la piùnobile forma di partecipazione sociale allavita politica? Ovvero una forma di prepo-tente irruzione del sociale nel politico, fon-damentalmente priva di tolleranza e non

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mediata dal diritto né dalle istituzioni, nel-la quale sui fronti contrapposti i singoli sog-getti ponevano a rischio, spesso perdendo-li, patrimonio, posizione sociale, affetti, edinfine la propria incolumità personale eperfino la vita.

In realtà, come la lunga fase preparatoriadella ribellione puritana ha ampiamentedimostrato in Inghilterra (Stone 2002), quelche, indipendentemente dagli esiti finali,distingue una rivoluzione da un colpo di Sta-to è proprio la presenza attiva di una basesociale più o meno ampia, dei suoi agenti edei suoi moventi, nonché del consenso chene può derivare rispetto alle azioni intra-prese, ai valori da affermare, ai nuovi equi-libri politici e istituzionali da stabilire.

Qualcosa di più può essere detto in argo-mento. Alla luce delle riflessioni che qui sistanno sviluppando, la guerra civile inglesepuò essere interpretata come un tentativodi ristabilire, seppur temporaneamente, l’i-dentità governanti-governati mediante l’af-fermazione delle rivendicazioni del movi-mento puritano e della gentry sulle oligar-chie aristocratiche e sulla monarchia asso-lutista. Ancor più che nella dimensione isti-tuzionale di un “lungo parlamento” desti-nato a diventare il simulacro di se stesso,l’autentico motore della guerra civile rivo-luzionaria e dell’instaurazione del poterepersonale di Cromwell va ravvisato dappri-ma nel quadro sociale, culla del pensieroutopistico contrapposto al realismo politi-co di molti sostenitori del monarca, ed inseguito nell’esperienza democratizzatricedella new model army.

Ma l’insorgere in Inghilterra deglieventi della guerra civile, sebbene questafosse un’alta manifestazione di vitalitàsociale, avrebbe costituito l’antitesi dellasocietà stessa; a tratti risospingendo gli

associati verso le condizioni di quello statodi natura che Hobbes considerava la nega-zione di ogni ordine sociale. Se, infatti, siconsidera il ruolo della gentry nell’anima-zione degli accadimenti della ribellioneantiassolutistica, la guerra civile fu espres-sione sociale di inarrivabile autenticità, main essa, secondo il punto di vista di ogniamante dell’ordinata e serena convivenza,si realizzò la patologia del sistema a frontedella fisiologia del buon ordine di unasocietà pacifica. Se è vero che in presenza dideterminate congiunture storiche la socie-tà civile può trovarsi nella condizione dirispecchiarsi nella militarizzazione delleistanze politiche che in essa si radicano, neconsegue che nel nitido e deformante spec-chio della guerra civile la società di un pae-se non intravede che il proprio volto con-traffatto.

L’essenziale autenticità sociale del con-flitto civile, ed in sostanza la sua stessasocialità, emergeva in Inghilterra dal fon-do oscuro dell’irrazionale. Gli antidoti a talecondizione di negazione della pacifica con-vivenza in agguato contro l’artificialità del-l’ordine costituito sarebbero stati essen-zialmente di due tipi: la creazione in formadrammatica di un benefico potere assoluto(in sostanza, il Leviathan); e la lockeanapacifica instaurazione di poteri costituiti,rispetto ai quali una società finalmente“civile” (Fine-Rai 1997) si collochi in unaposizione di permanente e contrattualeinterlocuzione, presupposto del riconosci-mento del legittimo e costituzionalizzatoesercizio di un potere sociale sulle istitu-zioni. Come Locke esponeva nei Two Trea-tises of Government, queste condizioni sonola libertà e l’eguaglianza degli individui, lacreazione della comunità politica comealveo di protezione dei diritti naturali per

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mezzo della rule of law, e un’autorità politi-ca basata sull’accordo originario governan-ti-governati e sulla stabilizzazione del con-senso. Su di esse si è fondato l’empowermentsociale che ha costituito la base pubblicadella “gloriosa rivoluzione” e che tanta par-te ha nella cultura anglofona della statuali-tà (Berger 1996; Mac Cormick 1982).

È proprio per via della mancanza dell’ir-razionalità di un’intera società che prende learmi, resa ormai desueta dal patto tra whigse tories, che la rivoluzione del 1688-89 sisarebbe proposta come snodo storico. Inesso l’Inghilterra, pur trovandosi sull’orlo diuna nuova guerra intestina, saprà evitare,come ha rilevato George Macaulay Trevelyan,«the shouting and the tumult» ed esaltareinvece «the still, small voice of prudence andwisdom» (Trevelyan 1938). Gli eventi di fineSeicento saranno quasi del tutto immunidagli spargimenti di sangue della ribellionepuritana, e in virtù di ciò la prima autenticarivoluzione costituzionale della storia delleIsole britanniche, espressione di una nuovae molto selezionata socialità, potrà essere aragione definita non solo glorious ma anchesensible: essa è stata descritta da Trevelyan,nel suo classico saggio, come «indeed ademonstration of the power of the landlordclasses, Whig and Tory alike».

Il prezzo pagato per tale condizione qua-si idilliaca di puro contrattualismo politico-costituzionale consisterà nell’emarginazio-ne di una parte molto consistente del cor-po sociale, la cui sopravvenuta esclusionedalla partecipazione politica diretta trove-rà compensazione nello sviluppo economi-co e nella costruzione di miti nazionali e diinerenti iconografie destinate ad impri-mersi nella percezione collettiva ben oltreil conseguimento del suffragio universale(Taylor 1992). Al corpo vivo di una società

ormai trasformata, tenuto in disparte dallavita istituzionale, non resterà che compen-sare la perdita pensando ed agendo in ter-mini di società civile: da qui il definirsi del-la nozione di pubblica opinione e della con-cettuale distinzione tra la ruling class comeespressione di un quadro sociale ristretto ela categoria del common people produttoredell’opinione generale (Brewer 1986).

Viene così aperta la strada ad un con-fronto sociale costituzionalizzato e moder-namente dotato di nuove forme di media-zione: stampa politica periodica, bipolari-smo degli schieramenti parlamentari, rela-tiva modernizzazione della rappresentanza,sviluppo della burocrazia, espansione dellacorruzione politico-finanziaria, espansionedella satira e della polemistica, nuoveespressioni iconografiche. In tal modo ilrevolution settlement fonderà il rapporto trale sfere di un’inedita realtà di società civilee di una rinnovata istituzione parlamenta-re, talché i sommovimenti giacobiti cheverso la metà del Settecento avranno comeatto finale lo scontro di Culloden, lungi dalriprodurre i caratteri della guerra civilegeneralizzata e della vasta mobilitazionesociale del periodo puritano, si sarebberoproposti come gli ultimi sussulti di compo-nenti sociopolitiche antisistema nostalgi-camente legate al passato e condannate allamarginalità.

Se gli eventi rivoluzionari di fine Sei-cento rappresentano una modalità nuova diaffermazione delle istanze sociali e delleloro metodologie di intervento sulla sferadel potere politico organizzato, un altroalveo sociale radicato nella tradizione plu-risecolare, ovvero il localismo, va a questopunto preso in considerazione.6. Nel suo immutato dualismo che si arti-cola tra municipalità e contea, il local govern-

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ment rappresentava già all’epoca del granderiformatore Edoardo I e rappresenta tutto-ra la struttura di base dell’autogoverno loca-le: fin dalle Poor Laws di Elisabetta I ope-rando quale responsabile primario dell’am-ministrazione di molti servizi sociali nonchécome alveo di una società civile dei cui valo-ri intrinseci è stato non solo il custode masoprattutto il creatore. Ciò è avvenuto met-tendo a frutto un’autonomia sociale che for-tunatamente, sotto il profilo dei nessi tracommunity mediation e partecipazione civi-le, non è stata intaccata dagli attentati anti-localistici del thatcherismo.

D’altra parte, le antiche corrispondenzetra enti locali e esercizio della rappresen-tanza parlamentare, dopo aver alimentatoper secoli la fenomenologia dei “borghiputridi” si eclissavano per effetto delleriforme elettorali dell’età liberale. Queste,introducendo nuove forme di conversionedel dato sociale in seggi parlamentari,costruiranno gradualmente una nuova for-ma di democrazia sempre meno dipenden-te dai notabilati locali ancora fortementeattestati nei local councils (Smellie 1968;Conacher 1971).

Non più rappresentativi di gruppi socia-li organizzati nelle corporations municipali enelle contee, coloro i quali occupano gliangusti e scomodi posti a sedere dell’aularettangolare dei Comuni rappresentano oggigrandi numeri di elettori periodicamenteridefiniti in base alla verifica di indici demo-grafici e di variabili socio-economiche. Non-dimeno, nel quadro dello Stato pluriclasse edel suo moderno successore, il welfare state,la rappresentanza resta comunque unagenuina espressione sociale, declinata attra-verso una fisionomia di società civile che èben diversa da quella dell’età vittoriana.

Trattasi pertanto di una socialità dell’e-

lettorato che ha definitivamente perso latradizionale omogeneità fondata sul suffra-gio selettivo e sulla deference per trasfor-marsi in qualcos’altro sotto le pressionidapprima di quella complessa fenomeno-logia che è stata definita “collettivizzazio-ne” della politica e dell’azione istituziona-le. Come anche delle forme di multicultu-ralismo che, in seguito all’avvicendarsi del-la grande decolonizzazione, delle trasfor-mazioni del Commonwealth e delle odiernecondizioni di destabilizzazione dell’ordineinternazionale, sempre più destano lepreoccupazioni delle classi dirigenti delpaese.

Ad antiche prassi civiche, del genere diquelle connesse all’esercizio della localoption, un tempo un efficace e tutto libera-le raccordo tra volizione parlamentare espazi autodeterminativi della società civile,si ispira oggi un particolare orientamentodel riformismo neolaburista. Esso si pro-pone di rivitalizzare le grandi regioni, lecontee e le municipalità inglesi che oggirischiano di essere poste ai margini dalladevolution (Torre 2003). D’altra parte, pro-prio lungo la complessa e tendenzialmenteframmentaria articolazione delle ammini-strazioni territoriali cosiddette “minori”, odelle autonomie locali propriamente defi-nite attraverso le municipalità, corre l’uni-co e spesso incerto punto di demarcazionetra ciò che è “statale” e ciò che è “sociale”.In tutta Europa, e nelle Isole britannichesecondo modalità particolari, le municipa-lità ed attraverso esse lo stesso senso pro-fondo della statualità hanno trovato origi-ne nelle istanze di autoorganizzazione del-le comunità locali corporativamente for-mate dai residenti nel medesimo territo-rio. Queste istanze hanno contribuito aprodurre ed a consolidare le due grandi

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componenti della costituzionalità: ovvero ilregime delle libertà e il potere dell’ammi-nistrazione inteso in senso lato, corrispon-denti nella loro versione moderna ai valo-ri della società civile e a quelli della demo-crazia o, se si vuole, alle loro utopie.

Espressione della vitalità britannicadelle comunità locali è pertanto l’esperien-za dei boroughs anglo-gallesi e dei burghsscozzesi: protagonisti di storici patti con ipoteri di monarchie in cerca di strumenti diaffermazione ed essi stessi interlocutoriprimari di un potere statale che vi si èriflesso attraverso le molte fasi di un’evo-luzione plurisecolare che giunge fino aigiorni nostri (Maitland 1898; Merewether,Stephens 1835). La base localistica dellarappresentanza parlamentare, conservataalmeno fino all’epoca del suffragio univer-sale all’inizio del Novecento, ha consegna-to alle formazioni sociali un potere moltoelevato sulla sfera delle istituzioni, non soloin quanto è al livello locale che si è storica-mente organizzata pressoché l’intera

amministrazione delle Isole britanniche.Sotto tale profilo il local government, luogoin cui originariamente si manifestano lenecessità della comunità, ha formato ilgrande conduttore degli impulsi del policy-making nazionale dalla cosiddetta “perife-ria” al cosiddetto “centro” (Davies 1968).

Per esempio, la pratica parlamentareregistra la circostanza che la massima partedei progetti di legge ascrivibili alla catego-ria dei private bills, ovvero dei progetti diapplicazione individuale, sia stata promos-sa da cerchie amministrative e da gruppiorganizzati locali nell’intento di ottenere laconcessione di strumenti legislativi supple-tivi di stretta applicazione locale e specifi-camente finalizzati all’espansione del pote-re localizzato di amministrazione (bye-laws). Alla radice di tali pratiche, che si tra-sfondono nell’esercizio del referendum, del-la petizione e di altri strumenti di democra-zia partecipativa diretta, si sono poste inva-riabilmente organizzazioni sociali antesi-gnane dei moderni pressure o interest groups.

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The political Plum-Pudding, vignetta satirica del 1840

7. D’altra parte è ben noto che, adden-trandosi ulteriormente a ritroso nella sto-ria della monarchia inglese, la Magna Car-ta, che nel 1215 stabiliva solennemente lelibertà del regno, aveva rappresentato unimportante momento di fondazione nonsolo dei diritti degli Inglesi, ma anche delrapporto tra potere istituzionale, giurisdi-zione e nuove istanze sociali organizzate cheproprio nella località trovavano il loro pri-mario terreno di coltura.

In primo luogo, da mero documentosanzionato nel corso di una rivendicazionefeudale essa si sarebbe trasformata nelmanifesto delle libertà del regno. La City diLondra, che in parte conserva tuttora alcu-ni residui dei suoi antichi statuti, sarebbestata l’antesignana delle comunità locali chenel corso di qualche decennio dopo la scrit-tura della Magna Carta avrebbero trovatoaccesso alla rappresentanza parlamentareed il cui consenso, in epoche di relativoindebolimento del potere regio, si sarebbein seguito reso necessario per fondare l’au-torità dei regnanti. Memorabile è quel pas-saggio shakespeariano del Riccardo III in cuiil Duca di Gloucester, convocati i rappre-sentanti dei borghesi di Londra ed il lorosindaco, ne guadagna con un’abile artificioil sostegno che varrà a rimuovere uno degliultimi ostacoli formali che ancora si oppon-gono alla sua agognata ascesa al trono d’In-ghilterra.

In secondo luogo, la periodica procla-mazione delle libertà sancite nella Carta perle maggiori città e contee costituiva unagaranzia di base della sopravvivenza deidiritti a fronte dei tentativi di oblio sovra-no, ma anche, un primo riconoscimentodella sfera pubblica nelle sedi in cui lacomunità degli uomini liberi si stava dandola propria organizzazione.

Del resto non era nelle città poste aiquattro angoli del regno che si soleva tra-sportare ed esporre al pubblico (secondo unprotocollo macabro ma altamente simboli-co) le parti del corpo di quei traditori cheavevano attentato all’unità del regno fomen-tando rivolte armate nei confronti dellaCorona? Quei corpi, dopo essere cerimo-niosamente squartati, venivano additati amonito per chiunque osasse imitarne legesta. È evidente che quel che rileva, in que-sto caso, è l’intuizione della funzione delpubblico come testimone dell’esemplaritàma anche come giudice morale: giudicedapprima del condannato ed indi, trasfe-rendosi in tempi meno crudeli, del potere.

In ogni caso, che si trattasse di riporta-re ufficialmente alla memoria gli impegniassunti dal re o di prendere atto del suppli-zio applicato ai traditori del regno qualinovelli parricidi, ossia di essere testimonedella fisiologia così come della patologia delpotere, l’embrione dell’opinione pubblicache già faceva mostra di sé nei borghi e nel-le contee si proponeva non per via di astra-zione bensì come coscienza collettivagarante, nello spazio e nel tempo, della lexAngliae e dei birthrights trasmessi senzasoluzione di continuità di generazione ingenerazione.

Su queste basi, nell’età liberale il par-rocchialismo inglese (Knight 1854) e l’a-zione dei gruppi sociali che in esso si iden-tificavano avrebbe costituito un argine neiconfronti della centralizzazione che in altristati unitari (Francia, Belgio, Italia) siandava affermando come diffusa prassi digoverno, fornendo nuove risorse all’espan-sione della democrazia partecipativa. Ele-mento caratterizzante di tale processo è laurban democracy, nuova edizione liberaledelle tradizionali prassi di locale “parteci-

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pazione dei contribuenti” e valida espres-sione del pluralismo britannico.

In diversi altri ambiti la società civilebritannica si sarebbe infine sviluppata conforme ed espressioni ulteriori, in parallelocon la modernizzazione dei costumi, con l’e-voluzione degli apparati culturali e religio-si, con gli sviluppi dell’economia indottidapprima dalla trasformazione capitalisticadell’agricoltura ed indi dall’industrializza-zione. Nondimeno, l’intrinseco collega-mento fra coscienza collettiva e birthrights, ela riscoperta della dimensione dell’imme-morabilità di tale connessione, restano ele-menti essenziali per interpretare l’autenti-ca natura della vitalità della società civile edell’opinione pubblica in territorio anglo-britannico. In tale quadro, che con il Bill ofRights del 1689 avrebbe raggiunto condizio-ni di stabilità sotto il duplice profilo dell’af-fermazione del potere parlamentare e dellaconferma delle libertà del regno, molti e benradicati sarebbero stati i legami fra corposociale e operatori del diritto, e in partico-lare i giudici (Chiti 1990).

Un altro momento di raccordo tra sferadella società e sfera delle istituzioni si collo-ca infatti nello spazio della giurisdizione, cheriveste importanza per l’identificazione del-le principali coordinate del ruolo pubblicoacquisito dalla società civile in Inghilterra.

8. Alla Magna Carta e, nel quadro di que-sto importante documento costituzionale,ad uno dei pochi frammenti che tuttora sipossono considerare ancora in vigore inquanto sopravvissuti ai molti rimaneggia-menti dei due secoli successivi alla scrittu-ra del documento, si ascrive l’origine deltrial by jury. Ma era in realtà il riconosci-mento sovrano di una prassi che, già datempo, operando a latere dell’attività delle

corti del re, aveva trovato diffusione nelregno. Si trattava di quel basilare procedi-mento di giurisdizione diffusa contenutonella formula per legale judicium parium suo-rum vel per legem terrae, trasposto nel Bill ofRights della grande rivoluzione parlamen-tare e nel sesto emendamento della Costi-tuzione statunitense.

Questo istituto, essenziale in un sistemagiuridico di common law, accostava il prin-cipio del giudizio dei pari (legale judiciumparium suorum) all’azione dei giudici depu-tati ad assicurare il rispetto della legge delregno (per legem terrae), elaborando una sin-tesi della lex Angliae o del diritto degli Ingle-si inteso come diritto di una comunitàsociale e non diritto di uno Stato. In talmodo, l’attività della giurisdizione, postasotto l’egida assoluta del dominio della leg-ge, includeva tra i suoi soggetti attivi leistanze sociali emergenti e le collocava tragli oracoli del diritto. Si rammenta a talriguardo l’ammirato giudizio di Ferguson,che nel rilevare l’analogia tra Roma e l’In-ghilterra, constatava come in entrambe ilgiudizio – sia esso civile o penale – fossel’oggetto di una socializzazione che nel con-tempo garantisce il singolo e la comunitàalla quale egli appartiene.

Nella giuria gli strati liberi e benestantidella società del regno istituzionalizzavanouna funzione di erogazione della giustiziaperiferica che, agendo in modo comple-mentare rispetto alle corti del re, avrebbedato prova di sé almeno fino alla grande rior-ganizzazione del sistema giudiziario ingleseattuato con i Judicature Acts del 1873-75 (Car-ter 1901). Questo ruolo, che saldava in ununico blocco il coinvolgimento nella contri-buzione fiscale (si pensi alla taxation by con-sent), la responsabilità nell’amministrazio-ne locale e nell’organizzazione dei servizi, le

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esigenze di difesa della proprietà e dell’or-dine e le connesse funzioni di polizia, la rap-presentanza parlamentare, l’amministrazio-ne della giustizia e le inerenti istanze garan-tiste afferenti al due process of law, moltoavrebbe contribuito all’elaborazione storicae culturale della classe dirigente inglese.

Questo processo si può considerarecompiuto nel XVIII secolo, epoca nella qua-le alla gentry di matrice puritana si sarebbesostituita una ben più stabile, coesa e selet-tiva, ma soprattutto meno dissidente, gentrydi piccola e media aristocrazia fondiaria. Ilsuccessivo sviluppo della ruling class britan-nica nella fase intermedia della rivoluzioneindustriale, nell’età liberale e nella prospe-ra stagione vittoriana e imperialista non saràaltro che una costante variazione sul tema.

Attraverso l’azione delle corti, gli orien-tamenti delle giurie e il consolidamento asistema della common law la giustizia delregno veniva così “socializzata”. Per le cor-ti regie, trascorsa la prima fase di impattoe di diffusione della giurisdizione comuneche consentì loro di attuare un generaleridimensionamento dei particolarismi giu-diziari locali e feudali (ed alla Corona diimporre inizialmente il suo potere in for-ma relativamente centralizzata e unitaria),giunse nel tardo medioevo la fase della isti-tuzionalizzazione. Tale processo si rese pos-sibile anche perché l’erogazione perifericadella giustizia e la preservazione dell’ordi-ne erano diventati interessi di una classe diuomini liberi e di proprietari che nelle cit-tà e nelle contee aveva saldamente acquisi-to il controllo della sfera pubblica.

Ed anche in questo processo è dato rav-visare una struttura fondamentalmentebinaria che a sua volta si articola su piùlivelli ma che vede i gruppi organizzati del-la società civile collocarsi su posizioni di

assoluto protagonismo. Da un lato, laresponsabilità del ripristino della giustiziao della riparazione degli abusi che nonrientravano nella sfera della “pace del re”(al cui mantenimento erano preposte lecorti) che competeva all’elemento socialeeretto ad organo giudicante. Dall’altro lato,la giurisdizione del re che si specializzava inrelazione ad altre situazioni giustiziabili e siavvaleva dell’operato di giudici professio-nisti, elaboratori di strumenti interpretati-vi altamente sofisticati.

Per altro verso, l’irruzione della societàcivile nella sfera della giurisdizione trovavaforma nella tecnica decisionale la cui tradi-zione si è elaborata attraverso il sistema deltrial by jury e nella comune osservanza dellalex Angliae. O di quella che in seguito, sullascia di Bracton, Glanvill e Fortescue, i gran-di common lawyers dell’età moderna e con-temporanea definiranno la law of the land.Una simile affermazione della giuria nelquadro della common law trova origine nel-la consapevolezza, nutrita dalla Corona eautorevolmente sostenuta dalle corti, dell’e-sistenza di una fonte naturale della giustizia,la cui radice è nella comunità sociale, rispet-to alla quale la funzione del diritto positivo sirisolve nella mera interpretazione.

Pertanto il giudice, configurandosicome agente dell’amministrazione del resecondo l’impianto proprio dell’edificiogiudiziario della monarchia normanno-angioina, esprimeva una funzione giurisdi-zionale sempre rispettosa della legge delpaese (ed anzi, spesso, sua creatrice) mageneticamente legata agli interessi delpotere istituzionalizzato. La vitalità dellegiurie avrebbe operato rispetto ad essacome un potente correttivo sociale. In talmodo il giudice, nel suo ruolo di collector ofverdicts delle giurie popolari, da assoluto

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protagonista del processo si sarebbe spes-so mutato in fiancheggiatore della giuria,alle incertezze di una concezione semprepiù sfumata di diritto naturale, era in gra-do di sostituire una razionalità giuridica,basata sul senso comune non meno che sul-l’applicazione di princìpi di diritto.

9. Sarebbe anche in virtù di questa storicacondizione di cross-fertilization tra giuria egiudici che, stando al commento di un emi-nente storico delle istituzioni inglesi,«unlike many other countries, England didnot need to introduce Roman law in orderto achieve legal uniformity» (Rhys Lovell1962). Una consapevolezza, questa, che duegrandi interpreti, ovvero il Matthew Haledella monumentale History of the CommonLaw of England (apparsa postuma nel 1713ma elaborata nella metà del secolo prece-dente) e il William Blackstone dei Com-mentaries on the Laws of England (1765-69),avevano manifestato attribuendo alla giuriapopolare un posto d’onore nel sistema giu-diziario inglese.

Sul ruolo della giuria (oggi sensibil-mente ridimensionato) si può fare riferi-mento alle visuali offerte da due protagoni-sti della cultura giuridica britannica il cuipensiero è separato da un secolo di evolu-zione costituzionale, ovvero Albert VennDicey e Neil MacCormick. Entrambi con-cordano nell’attribuire importanza al ruo-lo critico che la giuria popolare natural-mente esercita nel quadro di una ammini-strazione della giustizia criminale che risul-terebbe ancorata, se esclusivamentedemandata ai giudici, agli stilemi alquantorigidi della common law (Dicey); o, se pri-va di un elemento di temperamento socia-le, soggetta alle influenze politiche delpotere esecutivo (MacCormick).

Nella sua Introduction to the Study of theLaw of the Constitution il vittoriano Diceyriserva un illuminante cenno al trial by jury,invero riferendosi alla sua versione fran-cese della Terza Repubblica. Ma evidente-mente attingendo alla più antica esperien-za d’Inghilterra nel punto in cui rileva cometale forma di processo, che culmina nellaformulazione del verdetto, rischi di tra-sformarsi in un «very bad joke» per l’im-putato. E proprio la connaturata socialitàdella giuria che, a fronte di capi d’accusasocialmente odiosi e considerati tali in basealla percezione dominante (si pensi ai rea-ti contro la proprietà, ossia ai reati com-messi contro uno dei cardini della societàinglese) espone l’incriminato ad un giudi-zio che potrebbe rivelarsi molto più draco-niano di quello che verrebbe pronunciatoda un saggio e benevolo giudice, special-mente in tempi di strenua difesa dei valoridegli strati sociali dominanti: si pensi alleinusuali circostanze in cui venne approva-to ai Comuni il sanguinario Black Act del1723 (Thompson 1975), o alle severe legis-lazioni antisindacali del periodo di Pitt ilGiovane (Combination Acts del 1799 e 1800)o di Lord Liverpool (Six Acts del 1819).

L’argomento ha un suo concreto fonda-mento, ma è vero anche il contrario se siconsidera come circa un secolo addietro,ispirandosi ad una fugace suggestione black-stoniana, un convinto laudatore della costi-tuzione inglese, Jean-Louis de Lolme, nonmancasse di rilevare come il trial by jury,autentica espressione di libertà sociale,sovente rischiasse di attirare su di sé il dis-pregio di coloro i quali usavano anteporre leesigenze dell’ordre a quelle della humanité.

A fronte della visione non sempre rasse-renante della giuria che sembra emergere daalcune sfumature del discorso diceyano,

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un’ipotesi più favorevole si fa strada in alcu-ne recenti osservazioni di Neil MacCormick.L’ipotesi da cui muove l’osservazione delgiurista scozzese è che, se posta di fronte atalune congiunture costituzionali che trag-gono origine dall’antitesi fra interesse delloStato e interesse sociale e determinano unafrattura che potrebbe produrre effetti nega-tivi nei confronti delle istituzioni e tra l’opi-nione pubblica, la giuria popolare può tro-varsi nella condizione di operare comegarante ultima dell’interesse collettivosmentendo clamorosamente l’operato delleistituzioni di governo e dello stesso giudice.

Il memorabile caso giudiziario su cui si èinnestata di recente la riflessione di Mac-Cormick è R. v. Ponting. La giuria investitadel compito di emettere un verdetto sullaresponsabilità di un funzionario del Mini-stero della difesa (Clive Ponting) incrimina-to a norma del vigente Official Secrets Act peraver divulgato i contenuti di un dossier riser-vato inerente ad un controverso e grave epi-sodio della guerra delle Falkland (l’affonda-mento della nave da guerra argentina Belgra-no), disattese l’autorevole advice del giudice.La giuria rifiutò di sanzionare il comporta-mento del funzionario che aveva disobbedi-to ai suoi superiori e infranto la legge maoperato lealmente nei confronti del Parla-mento e della comunità nazionale da essorappresentata. In questo processo penale del1985 la giuria si discostò clamorosamente daiprincìpi di common law insistentementeasseriti dall’accusa, affermando contro ognievidenza giuridica – e in netto contrasto conl’advice insistentemente manifestato dal giu-dice McCowan – l’innocenza di Ponting.Questi, pur avendo oggettivamente violato ilsegreto di stato imposto con legittimità dal-l’esecutivo e pertanto essendo passibile dicondanna ai sensi della legge vigente, aveva

rivelato al Parlamento la condotta sostan-zialmente menzognera osservata dal mini-stro nel suo riferire in via ufficiale allaCamera dei Comuni.

Il caso Ponting è stato pertanto deciso daquello che tradizionalmente si definisce unperverse verdict: in questo caso la “perversità”o “deviazione” della pronuncia della giurianon si individua nell’ingiusto rigore dellapena applicata (e non è pertanto un concet-to morale, seppure socialmente declinato osocialmente legittimato) bensì in un delibe-rato abbandono di quella che, secondo icanoni della giurisdizione delle corti, si con-sidererebbe la retta via del diritto comune.

Il verdetto perverso, nella sua oggettivadevianza giuridica, configura in realtà un’e-strema forma di autoprotezione del corposociale, esercitata per l’occasione da una pic-cola e ben determinata unità di giurati, neiriguardi degli infingimenti e degli abusi delpotere costituito. La conclusione è che, seb-bene “deviato”, un verdetto di tal genereripristina il diritto sotto forma di un’estre-ma rivendicazione delle prerogative dellasocietà civile; ovvero, sotto altre formule,assicura il prevalere della giustizia sulla leg-ge. In quanto oppongono la ragione socialealla ragion di stato si può condividere l’opi-nione che «in a democratic society, perver-se verdicts should be issued from time totime» (MacCormick 2001). In tale ottica, laproclamazione dei diritti in territorio ingle-se è uno strumento di tutela della sfera socia-le nei confronti delle violazioni del potere,cioè della comunità concreta degli uominiliberi residente nel regno e dei gruppi in cuiessi declinano le proprie autonomie, tant’èvero che per secoli la questione dei dirittiresterà legata strettamente al concetto di cit-tadinanza. Né dapprima l’azione dei giudici,né più recentemente l’incorporation delle

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libertà “europee” attuata con lo HumanRights Act del 1998 hanno in qualche misuracontribuito a modificare e, almeno poten-zialmente, a scardinare, le coordinate stori-che del sistema tradizionale.

Sotto gli aspetti fin qui sommariamenteconsiderati, pertanto, la fisionomia iposta-tica delle corti di giustizia di common law(ma lo stesso si potrebbe dire per la separa-ta giurisdizione di Scots law, che al di là delVallo di Adriano esprime la cultura giuridi-ca di una società per secoli indipendente etuttora provvista di propri princìpi e di unafisionomia autonoma) non fa che rinviaread una più grande e potente ipostasi com-plessa. Rispetto ad essa l’azione dei giudici,delle corti e delle giurie rivela tutta la suanatura strumentale: tale la combinazionecommon law-Scots law, dimensione dellagiuridicità britannica caratterizzata da untecnicismo procedurale e interpretativoaltamente sofisticato, il cui senso socialeriposto non può essere immiserito attra-verso un aggregato di technicalities.

10. Per approssimarsi alla conclusione diqueste annotazioni, si può a questo puntotentare un riepilogo e, insieme, un rapidosalto in avanti fino alla contemporaneità.

In mancanza di una costituzione scrittaun intricato gioco delle parti ha caratteriz-zato, nel corso delle diverse fasi di svilup-po dell’esperienza costituzionale anglo-britannica, le reciproche posizioni dellaCorona, del Parlamento, delle corti di giu-stizia, delle amministrazioni territoriali afondamento corporativo, ed il quadrosociale in cui tali istituzioni, nella lorocomune qualità di fiduciari (trustees) dellacomunità, si sono sviluppate e poste in con-nessione. Rispetto a questa spesso inestri-cabile rete di interrelazioni, il bandolo del-

la matassa può essere efficacemente rap-presentato dal Parlamento.

Per quanto la dogmatica della sovranitàparlamentare mostri oggi numerose incrina-ture, è indubbio che a Westminster si èproiettata per secoli e, almeno per una partesostanziale, si proietta tuttora la comunitànazionale secondo forme rappresentative, lecui alterne vicende hanno infine realizzatonell’intero Regno Unito i valori della demo-crazia. Il processo di democratizzazione inGran Bretagna non è questione di mera for-ma costituzionale e non può essere realizza-to senza quella presenza della società civile, oalmeno delle sue componenti più attive esignificative, che a tale processo conferisco-no caratteri di sostanza. Tuttavia, affinché ciòsi realizzi, occorre che la società civile esistaed esprima vitalità: alla discrasia tra formeistituzionali basate sulla parlamentarizzazio-ne del confronto socio-politico e forme disocietà civile deboli, frantumate o semplice-mente diverse, si deve il fallimento del West-minster model come modello costituzionale“di esportazione” nella maggior parte deinuovi Stati della decolonizzazione.

Comunque si vedano le cose, il Parla-mento nazionale, insieme alle forme storichedel local government, è sempre stato la diret-ta manifestazione degli equilibri sociali pre-valenti. Lo stesso “modello” parlamentare diEdoardo I rispondeva ad evidenti criteriordinatori direttamente ispirati dallamonarchia ma anche esprimeva una sanzio-ne della diretta origine sociale dell’istituzio-ne rappresentativa ed un punto di “non ritor-no” rispetto alle arcaiche concezioni del par-lamentarismo feudale. Tuttavia, va posto inprimo piano il periodo che, successivamen-te allo scisma anglicano e alla nascita di unaclasse sociale di nuovo conio nata dalla fram-mentazione della proprietà fondiaria, vide la

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sostanziale identificazione della gentry con ilParlamento puritano e con le forze e le ideedella prima rivoluzione.

La stessa evoluzione del Parlamento nel-l’epoca hannoveriana, che fece seguito allerielaborazioni costituzionali del revolutionsettlement scaturito dagli eventi del 1688-89,si può considerare un momento altamenterappresentativo dei nuovi assetti sociali,caratterizzati – per l’effetto della Restaura-zione stuartiana e della svolta rivoluzionaria– dall’eclisse della gentry puritana, dall’ari-stocratizzazione della società politicamenteattiva e dal predominio di quei tories e whigsche erano i motori interni del processo digoverno scaturito dalla seconda rivoluzione(Kenyon 1990; Hill 1996).

In pieno periodo liberale, il compito diriallineare rappresentanza parlamentare enuovi equilibri sociali sarebbe stato poiaffidato alle leggi elettorali. Purtuttavia,prima che le energie sprigionate dalla rifor-ma del 1832 avviassero il moderno proces-so di democratizzazione e le importanti tra-sformazioni costituzionali del liberalismomaturo, nel rapporto tra società civile eParlamento non sarebbero mancate con-traddizioni molto evidenti e manifeste resi-stenze al nuovo, una volta giunti all’appun-tamento con la democrazia.

Alcuni momenti del pensiero aristocra-tico nell’epoca di Giorgio III non avrebbe-ro mancato di imprimere un impulsodeterminante al progresso politico delleistituzioni britanniche. È sufficiente ram-mentare in proposito quali elementi dipensiero fondamentalmente antiborghesie quali concezioni sociali elitarie infor-massero le opinioni di chi sosteneva che aipartiti parlamentari era consegnata la fun-zione di esprimere “aristocraticamente” lapropria identità piuttosto che “democrati-

camente” una più ampia base sociale for-mata dagli elettori.

L’apparente antisocialità della politicadell’epoca non escludeva l’avanzamento delsuffragio, purché da tale innovazione sor-tisse una rappresentanza più adeguata degli“uomini di qualità” attivi nella comunità.D’altra parte, da tale dicotomia e dalla stes-sa dichiarazione della necessità costituzio-nale del distacco tra rappresentante eletti-vo e suoi elettori, enunciata da Burke a Bri-stol nel corso della campagna del 1774, nonsarebbe infine nato il moderno concetto dirappresentanza politica? E la coincidenzasocietà civile-società borghese, soprattuttoattraverso la sintesi hegeliana, non sarà unmotivo dominante nella cultura europeadella successiva fase liberale? A fronte del-l’affermazione di questo concetto di fron-tiera della politica “new whig”, poco impor-tava del resto che il corpo vivo della societàsi allontanasse dell’istituzione parlamenta-re, purché la medesima istituzione potesseaffrancarsi dai legami particolaristici che nefrenavano gli slanci diventando finalmenteil Parlamento di una nazione.

Questa metamorfosi della “cultura socia-le” delle istituzioni rappresentative costi-tuirà una tappa vitale del processo dimodernizzazione dell’istituzione parlamen-tare iniziato fin dall’epoca della prima rivo-luzione (Cannon 1973) e sanzionerà il rico-noscimento concreto (e non già lockeana-mente teorico) della soggettività politicadella società civile. Come infatti la Cameradei Comuni, non più mera camera di regi-strazione delle frammentarie istanze diristretti circoli di elettori, potrà operaredefinitivamente come una «deliberateassembly» nazionale rappresentativa della«general reason of the whole»; così lasocietà a sua volta non sarà più la mera som-

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matoria di particolarismi centrifughi, ben-sì un’entità politicamente declinata attra-verso una rappresentanza rivelata a se stes-sa dal coraggioso statement di Burke e pro-tesa verso la grande riforma.

In questo reciproco riflettersi non è disecondaria importanza l’elemento, per cosìdire, psicologico. Idealmente svincolatodalle pretese particolaristiche e dai cliente-lismi dei gruppi sociali, il deputato e conesso il Parlamento – e segnatamente laCamera dei Comuni – guarderanno al cor-po sociale via via in misura minore come aduna remora interna sempre sul punto divincolarne il discernimento e l’attività conmandati imperativi ed altre forme di coer-cizione, e sempre più come ad un interlo-cutore unico, da considerare secondo nuo-ve forme di coesione politica. Ciò condur-rà, nel giro di poco meno di un secolo, allanascita dei primi partiti organizzati. A suavolta, il corpo sociale svilupperà una nuovapercezione del ruolo dell’istituzione suadiretta rappresentante e della fiducia che inessa andrà riposta, sviluppando forme dimaggior coordinamento nell’attività dipressione che necessariamente dovrà esse-re disimpegnata per condurre il Parlamen-to al decision-making legislativo, economico,sociale e costituzionale più adeguato alle esi-genze dei tempi. Si pensi ad esempio allaLega di Manchester o al Cartismo come adue tra i primi pressure groups politicamen-te organizzati, seppure su opposti versanti,secondo coerenti programmi culturali epropagandistici.

11. Sotto il profilo delle grandi interpreta-zioni culturali dell’evoluzione della societàcivile, si può pertanto dire che, a partire dal-l’originaria fondazione dei prerequisiti delconcetto che Locke ebbe a sviluppare nei

Two Treatises of Government, gli accenti diFerguson nelle aule universitarie scozzesi edi Burke nel vivo del dibattito politico ingle-se rappresentano due importanti contribu-ti di sintesi: il primo ponendo in risalto,della società civile, i caratteri sociologiciintrinseci, ed il secondo le proiezioni costi-tuzionali immediate e in divenire.

La realtà dei rapporti tra istituzioni esocietà civile tuttavia non sarà immediata-mente trasformata per effetto del mero dis-velamento dei propri elementi costruttivi edelle proprie promettenti potenzialità poli-tiche. Infatti, i localismi particolaristicicontinueranno per lungo tempo a condizio-nare la vita delle istituzioni nazionali e deglistessi partiti. Tuttora aperta è la questionedel rapporto tra rappresentanti istituziona-li e circoli settoriali o locali modernamenteriorganizzati in gruppi di pressione spessomolto potenti. Nondimeno, sarà sul bancodi prova di un’opinione pubblica dai carat-teri sempre più significativi che si oriente-ranno, nella seconda metà dell’Ottocento,le grandi discriminanti classiste (Cole 1955)e l’organizzazione dei partiti politici.

Dopo Burke, peraltro, il pensiero con-servatore non sarà più portatore di utili con-tributi al reale progresso del rapporto frasocietà e istituzioni verso il quale nutrirà unsenso di distacco. Il dialogo con la societàcivile – o meglio si direbbe la sua animazio-ne ab intra – diventerà prerogativa del movi-mento liberale, almeno fino a quando non siaffermerà in seno allo schieramento deitories la versione populista del conservato-rismo con portavoce Benjamin Disraeli(Blake 1985).

Bersaglio per elezione del “torysmo”pre-vittoriano sarebbe stato il concetto stes-so di opinione pubblica, considerato quasicome un’antitesi della società civile di loc-

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keana memoria. Ponendosi nella scia del-l’Atterbury che nel suo libello The Voice ofPeole, No Voice of God (1710) negava ognidignità all’opinione popolare, i tories edanche molti whigs ostentavano il medesimotipo di disprezzo per una voce generale spes-so diminuita al rango infimo di brusìo delmobile vulgus. Non va dimenticato che siste-maticamente il mob, come si rammenta nelcaso delle rappresaglie popolari che l’am-ministrazione di Pitt il Giovane incoraggiònei confronti dei giacobini inglesi, era uti-lizzato dal potere costituito o da uomini poli-tici aristocratici come «massa di manovraper il raggiungimento di fini politici spessoestranei ai propri interessi» (Salvadori, Vil-li 1987); dall’altro lato, la prevalenza di unapercezione scettica della società civile entra-va in aperto contrasto con le idee dei primifautori della riforma elettorale del genere diquel John Lambton (indi Lord Durham), ilquale esaltava con foga il ruolo vigile di un’o-pinione popolare « new Leviathan».

Questo entusiasmo, tipico del clima divivace contrapposizione che precedettel’approvazione del Great Reform Act, avreb-be trovato ampi riscontri nel dibattito poli-tico della prima età liberale. Lo dimostrauna fiorente pubblicistica attraverso la qua-le, tramontato quasi del tutto lo stile gior-nalistico risalente all’epoca walpoleana edominato dagli scrittori free lance prezzo-lati alternativamente da uomini politici toryo whig, i polemisti politici e i propagandi-sti del suffragio, così come gli oppositori adogni tipo di riforma, tornavano ad esporsiin prima persona lanciando convinti appel-li ai gruppi sociali più sensibili in favore ocontro la riforma elettorale e l’instaurazio-ne del libero mercato. Fra i molti dell’epo-ca, si rammenti il pamphlet di CharlesMaclean, The Triumph of Public Opinion:

Being a Standing Lesson to the Throne, the Par-liament, and the People, diffuso nel 1820.

Assistiamo al formarsi di una nozione diopinione pubblica più stabile e ricca di arti-colazioni organizzate secondo discriminan-ti di svariata indole: filantropiche, cultura-li, riformiste, mutualistiche, sportive, ed inseguito anche classiste con le trade unions.Il bipolarismo della contrapposizione par-lamentare ed indi anche organizzativa diconservatori e liberali, nonché più avantil’esordio del Labour Party con la varianteclassista, avrebbero impresso il propriomarchio ad un’epoca di rapide trasforma-zioni sociali, e pertanto anche di accelera-zioni costituzionali dalla cadenza semprepiù ravvicinata.

Per quanto ciò possa apparire parados-sale, in quanto riferito ad un convintodifensore della dogmatica parlamentare, diqueste nuove tappe accelerative si rendevaacuto interprete Albert Venn Dicey nel suosaggio Law and Public Opinion in England,importante scritto che si inserisce nel cir-cuito di un’ampia riflessione sulla meta-morfosi della tarda età vittoriana. Svilup-pando il concetto della sovranità politicadel corpo elettorale come connessa e noncontrapposta alla sovranità giuridico-costi-tuzionale del Parlamento, Dicey passerà inrassegna le diverse fasi dello sviluppo giu-ridico ed istituzionale del proprio paese nelcorso del secolo da poco concluso. Egliindividua tre stadi evolutivi cui corrispon-dono altrettante configurazioni della socie-tà civile (termine invero poco usato nell’o-pera, a favore del più aggiornato terminepublic opinion) e modalità di loro connes-sione con la sfera istituzionale.

Grosso modo coincidente con la tran-sizione di fine Settecento e con l’isolazio-nismo dell’epoca napoleonica, il periodo old

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tory, che in realtà di potrebbe anche defini-re dei “nuovi whigs” vede il protagonismointellettuale di Blackstone, Burke, Gold-smith, e quello politico, su piani antagoni-stici, di Bolingbroke e soprattutto di Pitt ilGiovane. Di contro ad un atteggiamentocomplessivo di relativa stasi legislativa,Dicey rileverà che, nei rari momenti in cuiil governo si rese promotore di significatividisegni di legge, tale presenza si era con-cretizzata in atti di statute law (come il Com-bination Act del 1800 e i Six Acts del 1819)lesivi di talune libertà fondamentali comequelle di associazione e di riunione.

La globale situazione di «incongruitybetween social condition and legal institu-tions» avrebbe quindi condotto a una nuo-va più avanzata fase dei rapporti tra societàe istituzioni del government nazionale elocale, dominata idealmente dal contribu-to di Bentham e dello stuolo di utilitaristiche diede impulso al liberismo. Anche sein realtà le prospettive utilitaristiche ben-thamiane, trasferite su un piano costituzio-nale, non ebbero mai gran seguito in terri-torio britannico; ben diversa sorte Diceyattribuisce invero ai risvolti sociali del ben-thamismo, soprattutto in termini di unamobilitazione sociale senza precedentifavorita dall’espansione della middle classcome conseguenza del Great Reform Act del1832 e dalla nascita di numerose formazio-ni associative impegnate nelle più dispara-te rivendicazioni e formanti, appunto, l’o-pinione pubblica nella sua accezione piùeloquente e combattiva.

Virtualmente scomparse le forme diviolenza che ancora formavano un residuodi tempi passati nella fase old tory, la pres-sione sociale sulle istituzioni, e segnata-mente sul Parlamento, si esprimerà pacifi-camente in modi espliciti, attraverso la

riforma elettorale; in modi impliciti, attra-verso le forze della pubblica opinione, il cuiruolo di ispiratore occulto delle opzioniriformatrici è in tal modo sintetizzato daDicey: «Nothing is effected by violence;every change takes place, and every changeis delayed or arrested by the influence, as itmay seem an irresistible influence, of anunseen power».

Questo clima di espansione delle liber-tà fondamentali e di attenzione alle riformesociali avrebbe prodotto i suoi effetti benoltre l’immediata sfera d’influenza dell’uti-litarismo di prima generazione; tant’è veroche Dicey ne valuta le conseguenze fino alterzo quarto del secolo, operando una sal-datura con la fase gladstoniana, che eglidenomina della collettivizzazione caratte-rizzata dalla «faith in benefit to be derivedfrom State intervention». In realtà, Law andPublic Opinion pone in diretto collegamen-to, rilevandone le intersezioni, l’azione deidue sovrani tra i quali si distribuisce il pote-re nell’ambito di una democrazia, la britan-nica, che alle soglie del suffragio universa-le stava realizzando le prove generali delproprio funzionamento. Il parlamento, tito-lare del potere costituzionale, si affianca allasocietà civile, titolare del potere dell’opi-nione, punto di confluenza tra i due essen-do il voto, espressione della politica.

Nella scarna osservazione sull’affac-ciarsi alla ribalta dell’interventismo stata-le, Dicey prefigura la stagione che condur-rà il Regno Unito verso le politiche socialidel periodo tardo-vittoriano, verso il wel-fare state, in un ampio quadro caratterizza-to dalla definitiva affermazione della for-ma-partito (ed anzi di quello che si può piùesplicitamente definire il party government).Caratterizzato inoltre dall’instaurazione diun dialogo sempre più diretto tra leaders-

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hips politiche sempre più personalizzate edun’opinione pubblica sempre più pronta adattivare autonomi punti d’accesso alla sfe-ra della decisione istituzionale, ed infinedalla trasformazione integrale dei princi-pali pilastri istituzionali della forma digoverno di derivazione liberale.

12. Dapprima separatamente in Inghilterrae in Scozia, terre di distinte tradizionicostituzionali e di separati bacini di socie-tà civile, ed in seguito anche nella GranBretagna unitaria, l’affermazione delle isti-tuzioni della governance ha qualitativamen-te preceduto la definizione giuridica dellastatualità e, in sostanza, ne ha decisiva-mente ostacolato la fortuna.

Una manifestazione abbastanza elo-quente di tale circostanza si ravvisa anchenel fatto che il Regno Unito non ha mai pro-dotto una propria costituzione scritta, e chei pur numerosi momenti di formalizzazionedel dato costituzionale attraverso i quali si èsnodata l’evoluzione dell’esperienza anglo-britannica hanno per lo più regolato ex postsituazioni che erano già ampiamente con-solidate nella realtà.

Non è casuale che la classe politica di unpaese come la Gran Bretagna, nel quale ilcomplesso corpo della società civile non hamai concesso il definitivo sopravvento alpotere delle istituzioni, non abbia prodot-to un’unica formalizzazione costituzionalené un concetto giuridico dello Stato comeentità superiore, e che oggi la governance siaconsiderata una delle più appropriatenozioni di sintesi del rapporto tra istituzio-ni e società civile. Non è casuale che le piùsolide nozioni giuridiche della personalitàdello Stato si siano affermate in quei paesiove meno efficaci o discontinuamenteapplicate, nonostante le solenni enuncia-

zioni, risultavano le garanzie poste a tuteladella separazione dei poteri, e nei quali lasocietà civile si è trovata ad occupare laposizione di interlocutore debole o nonaccreditato delle istituzioni di governo, o èstata fagocitata dal concetto di nazione, oha rischiato di soccombere nel quadro deldivario pluralistico fra verirà sociale e veri-tà della maggioranza politica.

E proprio nella trasformazione dell’es-senziale rapporto tra istituzioni del poterepubblico e società civile, alla base dell’o-dierna nozione di sussidiarietà, si ravvise-rebbe l’elemento caratterizzante la tran-sizione, nel Regno Unito, dalla dimensionedel government a quella della governance, veper tale si intenda un nuovo ordine, glo-balmente caratterizzato, in cui soggetti del-la comunità organizzata e formazioni socia-li di alto profilo condividano con le istitu-zioni costituzionali della rappresentanza edel governo, se non proprio il momentodella decisioni, almeno la fase della loroistruzione.

Questa considerazione generale è unparadigma anche per altri contesti di grandetrasformazione del settore pubblico o di biggovernment, specialmente nell’Europa comu-nitaria, complesso scenario nel quale accan-to ad esperienze di statualità giuridicamen-te “debole” come la britannica si registra lapresenza di tradizioni ad elevato tenore distatalismo; e nel quale tutte le tradizioninazionali sono soggette a poderose pressio-ni integrative. Tali tradizioni fanno frontealla temuta prospettiva che la costituziona-lizzazione dell’Unione, nella fase del declinodello Stato-nazione e per via dell’inesisten-za di un demos europeo, piuttosto che a uncommonwealth articolato in senso orizzonta-le/complementare, dia realizzazione a unsuperstato (MacCormick 2001).

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I nuovi sviluppi dell’esperienza digoverno nelle democrazie avanzate e la lorosintesi in un progetto costituzionale comu-ne che tenga presente l’elemento dellagovernance, in altri termini, implichereb-bero un nuovo bilanciamento tra istanzeaggregate della società e organizzazionepolitica dello Stato o comunque del settorepubblico ampiamente inteso come grandeambito distinto dal multiforme scenario delprivato. Il Regno Unito si pone in prima filanell’elaborazione di tali forme di bilancia-mento o, se si vuole, di compromesso traistituzioni e comunità, se è vero che, lascia-ti alle spalle gli arcigni atteggiamenti delthatcherismo, in epoca neolaburista il revi-val dell’autogoverno locale e della localoption, la concessione di ampi spazi di auto-determinazione alle comunità locali, la fre-quenza dell’attivazione di referendum e diconsultazioni locali, l’estensione delle pra-tiche di elezione diretta dei sindaci, e inbuona misura la stessa devolution, sembra-no operare nel senso dell’enfatizzazionedella governance.

Esiste tuttavia un’oggettiva antitesi fraStato e società: il primo, luogo semplifica-tore dell’imperio, della progettualità giuri-dicamente organizzata e del tentativo ordi-natore; la seconda, luogo pluralistico delleautonomie, delle situazioni di fatto e del-l’oggettivo disordine. Ovvero, riproponen-do la distinzione tracciata da Hume nel suoTreatise on Human Nature (1739-41), luoghirispettivi delle ipotesi dell’ought e dell’ef-fettualità dell’is. In questo si ravvisa infat-ti la maggiore differenza, che è politica ecostituzionale ma soprattutto culturale, frala tradizione anglo-britannica e quellaeuropeo-continentale, ovvero nel modo incui l’essenziale antitesi è stata declinataattraverso le epoche storiche fino a giun-

gere alla possibilità di formulare oggi quat-tro modelli di connessione tra Stato esocietà. Quattro “famiglie” e pertanto quat-tro tradizioni delle quali sono in variamisura tributarie le esperienze dell’interaEuropa occidentale: l’anglosassone, la ger-manica, la “napoleonica” e la scandinava.

Con questa sommaria catalogazione,queste riflessioni si possono considerareconcluse. È una ricostruzione interpretati-va su cui lo storico delle istituzioni può con-venientemente operare, accompagnata dal-la considerazione che, probabilmente, latradizione cosiddetta anglosassone, e labritannica in particolare, si declina in un’e-sperienza costituzionale in cui, tra le quat-tro indicate, la società civile è stata tenutamaggiormente in onore.

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Torre

241

1. La nazione come problema

L’ormai cospicua messe di studi relativi altema della identità italiana e alle origini delRisorgimento sembra porre con sempremaggior urgenza un problema – come maiesiste una nazione politica italiana? – chefino a una ventina d’anni fa era stato benraramente percepito. In realtà, la demoli-zione sistematica dei classici modelli espli-cativi dello sviluppo politico (a partire daquelli, a lungo imperanti, variamente cen-trati sul primato dell’economico, sulla dia-lettica delle classi e sul “romanzo della bor-ghesia”) ha aperto una curiosa falla nel con-tinuum della storia istituzionale italiana.

La storiografia più avvertita si è infattitrovata a prendere atto che la società italia-na di primo Ottocento – assai statica nellasua composizione e molto più “agita” che“agente” nei suoi comportamenti (l’espres-sione è in Banti, Ricchezza) – era così lonta-na dal modello classico borghese-capitalistada rendere incerta ogni correlazione tra lanascita dello Stato nazional-liberale ed una

ipotetica trasformazione socio-economicain senso moderno. E del resto un’analisidelle strutture produttive e dei flussi com-merciali dell’Italia preunitaria ha rivelatocome, contrariamente alla classica autorap-presentazione liberale, l’obbiettivo di costi-tuire un mercato unico nazionale avessepoco senso per una congerie di economieregionali scarsamente vocate a collegarsi traloro ed assai più naturalmente tendenti adintegrarsi, ciascuna per proprio conto, conquelle di altri paesi europei (v. Riall, Il Risor-gimento, cap. V).

Nel caso italiano, insomma, il rapportotra politica ed economia appare invertitorispetto ad una classica lettura del Nationbuilding alla Hobsbawm, per intenderci. Piùcredibile è sembrato dunque correlare larivoluzione risorgimentale a variabili ester-

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La crisi dell’ordine plurale. Nazione ecostituzione in Italia tra Sette e Ottocento*

luca mannori

giornale di storia costituzionale n. 6 / II semestre 2003

* Si ripubblica qui, con minime correzioni e aggiunte,un saggio già apparso nel volume collettaneo Ordo iuris. Sto-ria e forme dell’esperienza giuridica, Milano, Giuffrè, 2003,pp. 139-190. L’autore ringrazia l’amico Luigi Lacché, cura-tore di questo numero monografico del «Giornale», per averaccettato di ospitare il presente contributo nella rivista.

ne rispetto al contesto sociale strettamenteinteso, e tra tutte alla dinamica della cresci-ta statale. Come in tante altre parti del con-tinente europeo, anche in Italia il periodo acavallo tra la fine del XVIII e l’inizio del XIXsecolo si segnala come una fase di marcataburocratizzazione e di accelerato concentra-mento dei poteri pubblici nelle mani deisovrani. Ciò comportò la progressiva denun-cia dei vecchi patti costituzionali d’originequattro-cinquecentesca, in base ai qualierano state per tanto tempo regolate le rela-zioni fra i principi territoriali e le diverseélites regionali. Queste ultime, in sostanza,sentendosi sempre più emarginate ad ope-ra dei rispettivi governi, avrebbero matura-to nei loro confronti un atteggiamento dicrescente disagio, fino ad impegnarsi nellacreazione di uno Stato nuovo, di cui esseavrebbero detenuto finalmente l’esclusivocontrollo (per tutti v. Meriggi, Società).

Tale proposta, pur ricca di elementiinteressanti, rischia tuttavia di enfatizzareulteriormente il paradosso dell’unificazio-ne invece che risolverlo. Proprio ammet-tendo in via d’ipotesi che il Risorgimento siconfiguri come un moto di rigetto antista-tale, diretto a riaffermare la centralità diquei gruppi locali che la nuova statualità dimarca napoleonica tendeva ad emarginare,resta difficile spiegare come esso abbiapotuto sfociare nella costruzione di unoStato cinque o sei volte «più grande e piùrigido» di quelli preesistenti (Riall, Il Risor-gimento, p. 129), che tutto ha sacrificato sul-l’altare di una uniformità giuridico-ammi-nistrativa costituente l’esatto reciproco deipresunti desiderata di un’élite che avrebbeavuto gli occhi fissi al passato.

Poco per volta, dunque, si è giunti a rico-noscere la difficoltà di spiegare la rivoluzio-ne italiana attraverso schemi comporta-

mentali di tipo razionale, e ci si è volti inve-ce a cercarne le motivazioni più vere in quel-lo spesso sostrato di mitologie nazionalisteche ha accompagnato tutto il processo risor-gimentale assicurandogli un continuo rifor-nimento di carburante emotivo. Ne sonouscite analisi di notevole spessore, cheancora non risultano però immediatamen-te spendibili sul piano istituzionale. Siapure, come ha dimostrato Alberto Banti, cheil discorso retorico-letterario sul ruolo del-la patria abbia avuto la capacità di mobilita-re le élites risorgimentali con una forza supe-riore a qualsiasi altra motivazione d’ordineconcreto (Banti, La nazione).

Resta da dimostrare però (una volta chia-rito, per le ragioni viste di sopra, che queldiscorso non può più essere presentatocome la mera sovrastruttura ideologica diuna corposa nazione socio-economica già inmarcia verso i propri destini) in qual modoesso possa avere esercitato un tale effetto ditrascinamento. Ricostruirne l’economiainterna e rilevare la sua capacità di ripro-durre in chiave eroica i tratti di una societàestremamente tradizionale, com’era appun-to quella in cui l’élite italiana ancora in granparte si riconosceva, non basta a spiegarneil successo. Ciò che bisogna prima di tuttocapire, se vogliamo battere fino in fondoquesto sentiero, è per quali ragioni il dis-corso della nazione in sé abbia guadagnato,tra Sette e Ottocento, una tale influenza suicomportamenti politici da potersi candida-re a principale, autonomo vettore di unarivoluzione altrimenti inspiegabile.

Con gli appunti che qui presentiamovorremmo fornire qualche spunto ulterio-re per l’impostazione di questo problema,facendo leva su alcuni peraltro ben notimodelli esplicativi della genesi delle appar-tenenze nazionali. L’ipotesi di massima è

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che il tradizionale ordine plurale premo-derno (che ancora a fine Settecento nonlascia spazio, in Italia, ad alternative poli-tiche di sorta) perda gradualmente il con-senso delle élites a causa dell’emergere diuna nuova comunità sovracorporativa di cuiesse si sentono sempre più intensamente enecessariamente partecipi. Tale comunitàè in sostanza costituita dai consumatori dicarta stampata, dai lettori del giornale, dacoloro che hanno la possibilità di comuni-care tra loro tramite una parola scritta dive-nuta d’uso comune e attraverso la quale essicostruiscono un discorso collettivo «ten-de[nte] – secondo le parole di Kant – allapubblica esposizione della verità». Emer-so in forma autocosciente con l’illumini-smo, questo “pubblico raziocinante” rive-la già i caratteri di fondo di quella nazionepolitica ottocentesca che esso si senteimpegnato a produrre. D’altro canto, il suoavvento non necessita di essere agganciatoper forza ad una ipotetica avanzata dellaborghesia, ma è il semplice prodotto delladiffusione della lettura come esperienzaintima e “privata”: pratica, questa, compa-tibilissima con il permanere di una societàaristocratica e che si collega al tema dellosviluppo capitalistico solo in quanto libri egiornali, con il progresso dell’editoria com-merciale, tendono sempre più a divenireprodotti industriali di largo consumo(d’obbligo il rinvio ad Habermas, Storia e,in parallelo, Anderson, Comunità).

Nelle pagine seguenti cercheremoappunto di applicare all’Italia questa for-mula esplicativa, tentando soprattutto dicapire attraverso quali percorsi gli intellet-tuali del nostro paese abbiano percepito lapoliticità di questa platea di “individui leg-genti e ascoltanti” fino a trasformarli in ungrande popolo alla ricerca di un proprio

destino. Per rendere più comprensibilequesto tracciato, la sua scrittura sarà inter-calata da qualche richiamo alla parallelaesperienza francese, il cui sviluppo haorientato ed intersecato la crescita dellanazione italiana in misura sicuramentemaggiore delle altre vicende europee.

2. Le tre nazioni del Settecento.

«Che cos’è una nazione? Un corpo di asso-ciati che vive sotto una legge comune ed èrappresentato da uno stesso legislativo». Ladefinizione, tratta da Sieyès (Che cos’è il Ter-zo Stato?, p.8), è molto concisa (ancoraassente il riferimento ad una comune iden-tità storico-linguistica, così caratteristicodella futura ideologia ottocentesca), ma giàcapace di cogliere i caratteri formali del nuo-vo soggetto collettivo di cui ci dovremo occu-pare in queste pagine: una comunità di egua-li, titolare originaria della sovranità e capa-ce di esercitarla in concreto mediante unapropria rappresentanza unitaria. Univoca-mente monista – nel duplice senso che essanega in radice qualsiasi autonomia dello Sta-to rispetto a se stessa, mentre al propriointerno si presenta come una totalità assolu-tamente compatta ed omogenea – questanazione si dichiara figlia in tutto e per tuttodella grande novazione rivoluzionaria, pro-clamando alto e forte la sua estraneità rispet-to al precedente ideario settecentesco.

Ciò non significa, beninteso, che quel-l’ideario non contemplasse altri modelli diappartenenza che, per dimensioni e qualità,possono rivelare una qualche parentela conessa. Fin dal tardo medioevo esisteva adesempio una “nazione dei ceti”, intesa comela comunità di tutti i corpi gerarchicamente

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ordinati presenti entro un certo territorio,rappresentati congiuntamente tramite loro“stati” o parlamenti. Mentre a partire dallametà del Settecento, sotto la spinta di unoStato fiscale che tende ad erodere progres-sivamente i margini della vecchia società diordini, si consolida il profilo di una nuovanazione, composta tutta e solo da proprieta-ri contribuenti i quali rivendicano un dirit-to a concorrere all’amministrazione delloStato come corrispettivo della loro respon-sabilità fiscale.

Entrambi questi modelli si differenzia-no però da quello d’ascendenza rivoluzio-naria in quanto condividono una concezio-ne sezionale e articolata dell’ordine. E ciò èvero non solo per quella societas societatumche è la nazione cetuale, alla quale si acce-de solo in quanto membri di una qualchealtra comunità di base e perciò secondoruoli profondamente differenziati; maanche per una nazione fisiocratica che nonabbraccia certo «tutti quelli che hannoqualcosa di proprio, ché tutti ne hanno sinoa’ mendici», ma solo coloro «che posseg-gon fondi perennemente fruttiferi e chesecondo il comun linguaggio si dicono ave-re entrate» (A. Longo, Istituzioni, 1773, inVenturi, Riformatori, p. 272). Gli altri, i non-proprietari, come rilevava Le Trosne,«sono nella nazione, ma non fanno partedella nazione» e come tali «hanno da pre-tendere solo la perfetta immunità per leloro ricchezze e le loro attività» (Rosanval-lon, Fisiocratici, pp. 651-652).

Il paradigma di riferimento è semprequello di uno spazio politico composito eproprio per questo incapace di intestarsidirettamente una sovranità che, in mancan-za di una vera volontà unitaria, non sisaprebbe come esercitare. Nazione dei cetie nazione fondiaria stanno entrambe davan-

ti al principe, gli rappresentano i loro biso-gni e cercano d’imporgli le loro condizioni;ma né l’una né l’altra saprebbero prescin-dere dalla sua presenza, che risulta essen-ziale per garantire il loro equilibrio interno.

Assai più avanti ci conduce invece la ter-za tipologia di comunità nazionale che il Set-tecento registra nel proprio catalogo, e chequi per brevità chiameremo la “nazione deiliberi lettori”. Si tratta, in sostanza, di ciòche Habermas ha a suo tempo definito sferapubblica: ovvero, del complesso di tutti colo-ro che sono in grado di fare un uso pubblicodella propria ragione, partecipando a quelnuovo discorso critico collettivo che l’illu-minismo ha, insieme, fondato teoricamen-te e prodotto in concreto tramite la costitu-zione di una prima forma di pubblico dialo-gante e laicizzato.

Del tutto ignoto ad una società d’Anticoregime nella quale la parola scritta era sta-ta solo il veicolo di un discorso specialisti-co (e perciò non autenticamente “pubbli-co”), il pubblico moderno erompe sullascena verso la metà del Settecento, lascian-do subito intravedere i tratti di una socia-lità che anticipa quella della nazione con-temporanea1. Esso evoca infatti l’immagi-ne di una comunità “grande” ed imperso-nale, a cui si appartiene senza conoscersi esenza bisogno di condividere alcun inte-resse specifico; indiscutibilmente origina-ria, in quanto costituita immediatamenteda individui e non da altre società minori;alla quale si accede in virtù della propriacapacità critica e non di uno status; che pro-prio per questo presenta confini indefini-ti e potenzialmente onnicomprensivi; e cheper la stessa ragione si basa su una costitu-zione “democratica”, in quanto non v’èragione che i pareri dei suoi membri abbia-no un peso differenziato. Ma soprattutto, le

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public s’impone fin dall’inizio agli occhi deisuoi osservatori per la sua capacità di deci-dere qualsiasi questione gli venga sottopo-sta «con cognizione ed equità» (d’Alam-bert, Saggio, p. 15). Il suo carattere collet-tivo ed impersonale lo costituisce infatti inistanza assolutamente disinteressata edobbiettiva, candidandolo al ruolo di verosovrano del nuovo ordine individualista:

l’opinione pubblica – scriveva Necker nel 1775 – èpiù forte ed illuminata della legge; essa è più for-te perché è presente ovunque, perché esercita lasua autorità nella società e fino nel seno dellefamiglie; ed è più illuminata perché, se la leggepuò essere l’opera di un solo uomo che sbaglia,l’opinione è il risultato dei pensieri delle Nazionie dei secoli.[Tortarolo, Opinion publique, p. 13]

Il pubblico illuminista è insomma il luo-go «in cui si restaura ad altri livelli quellaparità fra gli individui propria della condi-zione di natura, dove ogni uomo è al tempostesso giudice e giudicato» (Brunetti, Intro-duzione, p. XV) e dove la volontà generalecessa di essere un’astrazione per acquisireuna sua corposa effettività. Da ultimo, l’e-guaglianza che regna nella comunità dei let-tori non esclude affatto che essa abbia i suoicapi, naturalmente impersonati da coloroche hanno la capacità di amministrare laparola scritta.

Di tutte le forme di dominio, quella delle personecolte, senza essere visibile, è la più estesa. Chi èpotente comanda, ma gli uomini colti governano,perché alla lunga essi formano l’opinione pubbli-ca, che presto o tardi soggioga o rovescia ogni for-ma di dispotismo.[Duclos, Considérations, I, p. 112]

Il nuovo spazio pubblico, proprio per-ché non gerarchicamente costituito, neces-sita per sua natura di essere guidato da

qualcuno che pur rispettandone l’autorità,ne orienti l’incedere. Le gens de lettres esco-no così una volta per tutte dalla penombradelle accademie e delle corti dei mecenatiper autocostituirsi in classe dirigente – edirigente non del solo pubblico criticante,ma anche di tutta l’informe massa dellapopolazione illetterata, che è immaginatacome l’inevitabile appendice del primo:

quando si parla di opinione, bisogna distinguer-ne tre specie: l’opinione degli uomini illuminati,che precede l’opinione pubblica e finisce per dar-le la legge; l’opinione la cui autorità trascina l’o-pinione del popolo; e infine l’opinione popolare,che resta quella della parte del popolo la più stu-pida e miserabile.[Condorcet, Réflexions, p. 140]

Gli intellettuali cominciano così a veder-si alla testa di una nazione intera, che si dis-pone tutta dietro di loro, anche se con gradidifferenziati di consapevolezza.

Con questa configurazione, in Francia lasfera pubblica si avvicina progressivamentealla politica militante a partire dagli anniCinquanta del Settecento: e ciò sviluppandoun «discorso della contestazione» (Baker,Politique) diretto contro le autorità tradizio-nali che definisce il suo ruolo in terminioppositivi rispetto al monarca. Alimentatain misura decisiva dall’eterno dibattito sul-la vera natura della antica costituzione delRegno, questa crescita conosce i suoimomenti di accelerazione decisiva in coin-cidenza con gli episodi di maggior frizionetra monarca e corti sovrane (dalle grandirimostranze della Cour des Aides parigina alcolpo di Stato di Maupeou), che portano l’o-pinione pubblica francese a baricentrarsisempre più verso l’interno rispetto all’oriz-zonte cosmopolitico che era stato propriodella primitiva République des Lettres.

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Con gli anni Settanta la lotta politicaacquisisce già una movenza manifestamen-te “parlamentare”, assumendo la forma diuna competizione per aggiudicarsi quelpubblico favore grazie al quale soltanto,ormai, è possibile conservare il potere. Diqui, le prime cripto-rappresentazioni dellanazione moderna come grande platea diindividui indifferenziati, continuamenteintenta a giudicare coloro che la governano.Malesherbes, in uno dei momenti più duridello scontro tra il sovrano e i grandi corpigiudiziari del regno, nota:

Si è costituito un tribunale indipendente da tut-te le autorità e che tutte le autorità rispettano,che giudica tutti i talenti, che si pronuncia su tut-te le persone di valore. E in un secolo illumina-to, in cui ogni cittadino può parlare alla nazioneintera per mezzo della stampa, coloro che hannoil talento per istruire gli uomini e il dono di com-muoverli, in una parola i letterati, stanno al cen-tro del pubblico disperso come stavano gli ora-tori di Roma e di Atene al centro del pubblicoradunato.[Malesherbes, Discours, p. 5]

Per il re, non si tratta ormai che di«imitare in questo Carlo Magno.. [e di]regnare alla testa di una nazione che saràtutta intera il Vostro Consiglio», come siesprime, sempre nel ’75, la Cour des Aidesdi Parigi in una rimostranza diretta a LuigiXVI (cit. in Baker, Politique, p. 57). La nazio-ne è già immaginata come una città anticaindefinitamente dilatata, i cui membri,seduti sui gradini di un gigantesco anfitea-tro, maturano le loro opinioni grazie allaparola degli scrittori.

Ciò non significa, beninteso, che già pri-ma dell’89 si pensi di conferire a questacomunità politico-culturale una veste isti-tuzionale nuova e specifica. Il progetto èpiuttosto quello di affidare la declaratoria

dell’opinion ora alla voce della nazione cetua-le (secondo la linea indicata da Montes-quieu) ora a quella della nazione fondiaria(giusto il progetto fisiocratico) o meglioancora – e più plausibilmente – ad una sor-ta di equilibrato mélange dell’una e dell’altra(si pensi, per tutti, alla voce Réprésentantsdell’Encyclopédie). La prospettiva prevalen-te è insomma quella di una riattivazione degliStati Generali come unica forma veramentelegittima di rappresentanza nazionale, darileggere però in una chiave proprietario-individualista che preluda più o meno davicino al voto per testa. È, in fondo, la stra-da inglese: che coniuga felicemente rispettodella tradizione, rilegittimazione dell’ari-stocrazia in veste proprietaria e riconosci-mento della public opinion. In definitiva, lalinea pare quella di una specie di conver-genza fra le tre “nazioni” del Settecento.

Chiedersi come mai questo compro-messo si sia rivelato alla fine impraticabileequivale ad interrogarsi sulle ragioni stes-se della Rivoluzione e travalica quindi l’e-conomia del nostro discorso. Certo è peròche quel fallimento si trovava già poten-zialmente annunciato dalla fortissima per-sonalità della nazione letteraria. Quest’ul-tima, pur collocandosi nominalmente su unterreno estraneo alla politica, aveva fonda-to uno spazio sociale egualitario all’internodel quale quelle segmentazioni in corpi cheper secoli erano sembrate far tutt’uno conl’ordine naturale dovevano rivelarsi perforza di cose sempre più pretestuose. L’im-provviso vuoto istituzionale aperto dal col-lasso della monarchia fece il resto, inne-scando d’un tratto quella rabbiosa tenden-za ad azzerare le differenze che costituisceil cuore della mentalità rivoluzionaria.

Il risultato fu l’abbandono di ogni gra-dualismo e la nascita del nuovo modello di

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appartenenza forgiato dall’Assemblea Costi-tuente, il cui profilo ricalca in modo presso-ché calligrafico quello della comunità dei let-tori. La nuova nazione, la “nazione dei citta-dini”, si configura infatti come l’insiemeonnicomprensivo degli individui forniti diragione, all’interno del quale ogni differen-ziazione di status è bandita. Nell’atto stesso,però, in cui cancella le vecchie separazioniper ceti, il nuovo ordine fa propria senzareticenze una nuova articolazione del socia-le, conforme al principio smithiano dellaspecializzazione del lavoro ed alla logica del-la moderna commercial society. Da un lato,infatti, sta la folla dei produttori manuali,vere e proprie «machines à travail» –secondo la cruda espressione sieyesiana –,esclusi dalle nuove forme di comunicazioneed oggettivamente inabili a prendere partead una vita politica che richiede saperi e con-sapevolezze incompatibili con la loro fun-zione economica; mentre dall’altro si collo-ca la circoscritta élite degli acculturati, chesola può realisticamente candidarsi a svol-gere gli impegnativi «travaux de la souverai-nété» (v. Halévi, La revolution, p. 69; Man-noni, La dottrina, p. 25).

La formula del governo rappresentativo –tanto lontana dalla democrazia tradizionalequanto lo è la produzione capitalistica dalleeconomie a schiavi dell’antichità – nasceappunto per conciliare la nuova cittadinan-za egalitaria ed universale con la necessità diriservare il potere a coloro soltanto che han-no realmente accesso alla comunità dei libe-ri intelletti.

I cittadini comuni, completamenteassorbiti dalle loro occupazioni economi-che, «nominano dei rappresentanti ben piùcapaci di loro di conoscere l’interesse gene-rale, e d’interpretare a questo riguardo laloro propria volontà» (Sieyès, Discorso sul

veto, in Opere, p. 441). E tali rappresentantisono a loro volta trascelti – tanto nel ’91quanto nell’anno III – attraverso un sistemaa due gradi, che riproduce fedelmente l’ar-ticolazione della sfera pubblica settecente-sca. Una base larga di cittadini “attivi”,costituita da tutti coloro che sono in grado diusare in modo autonomo il proprio intel-letto naturale, seleziona infatti i veri eletto-ri fra i soli titolari di un reddito elevato, cioè– si badi – non fra i ricchi in quanto pro-prietari, ma fra i ricchi in quanto unicimembri effettivi di quella società colta erealmente partecipe che è stata il pubblicodell’illuminismo (v. Gueniffey, Le nombre).

3. La crisi dell’illuminismo e le origini dellanazione in Italia

Il Settecento italiano ripropone anch’esso, asuo modo, la compresenza delle tre nazionipremoderne, benché con una diversa geo-metria ed un differente grado di consisten-za rispetto alla Francia. Intanto, di una nazio-ne cetuale o proprietaria è possibile da noiparlare solo all’interno dei confini dei variantichi Stati, ed anche qui non senza moltecautele. Com’è noto, la gerarchia delle appar-tenenze tradizionali tende per lo più a tron-carsi, in Italia, a livello cittadino o comunquedi “patria” locale, mentre lo Stato – scontan-do le note specificità che ne hanno segnatol’avvento – esaurisce per lo più la sua funzio-ne come semplice contenitore amministra-tivo, a cui non si affiancano in genere formeforti di rappresentanza sociale.

Di qui la difficoltà di immaginare unanazione “regionale”: e ciò sia nella vecchiaversione di un aggregato di ceti territorialiche in quella ammodernata di una pirami-

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de di comunità fondiario-contribuenti.Anche il modello fisiocratico della “comu-nità dei possessori”, infatti, che pure ispi-ra in Italia tanti importanti tentativi di rifor-ma tra gli anni Cinquanta e Settanta, vieneusato unicamente in rapporto ad una riscrit-tura degli spazi amministrativi locali (il pro-getto costituzionale toscano vagheggiato daPietro Leopoldo resta un unicum e, con leimbarazzate reazione che provoca nell’am-bito dello stesso establishment riformatore,serve a confermare quanto bizzarra appa-risse ancora l’idea di attribuire una vocepropria all’“universale” di uno Stato dasempre concepito come un grande collage diappartenenze municipali).

In definitiva, l’unica forma di apparte-nenza sovracittadina che i vecchi Stati italia-ni riuscirono talvolta a creare corrisponde aciò che potremmo chiamare – parafrasandoChabod – la “nazione degli officiali”: ovve-ro, la comunità degli aiutanti del principe edelle sue nobiltà di servizio, che acquisì uncerto rilievo nell’ambito di alcune esperien-ze (si pensi a quella piemontese) ma che cer-tamente restò confinata nell’orizzonte men-tale di categorie assai circoscritte.

In realtà, la percezione di una forte enti-tà collettiva di livello sovralocale fa tutt’uno,in Italia, con la formazione di un modernopubblico letterario accomunato dall’uso diuna medesima lingua scritta. Avviato – com’ènoto – nella seconda metà del Seicento, taleprocesso finì per generare anche da noi, nelgiro di un secolo circa, una embrionale sferapubblica, le cui autorappresentazioni richia-mano da vicino quelle della coeva culturad’oltralpe. Constatato infatti – rilevava Verri– che «secreti più non vi sono» e che «l’ar-te persino di governare i popoli […] ora stain mano a’ librai» (Verri, Meditazioni, p. 10;v. Capra, I “progressi della ragione”), anche gli

esponenti del nostro illuminismo potevanosciogliere il loro peana agli «uomini di lette-re», i quali «hanno maggior influenza neldestino delle generazioni venture di quantene abbiano i monarchi sugli stessi uominiviventi» (Verri, Memorie, in Scritti, II, p. 313).«La repubblica delle lettere sparsa per tuttal’Europa, […] per lo passato […] considera-ta come una società di curiosi che si occupa-vano di oggetti indifferenti per il ben esseredella società», si presenta ora come il moto-re di una nuova, diffusiva concezione dellaciviltà (Verri, Meditazioni sulla felicità, inScritti, I, p. 111). Per quanto

trascurati, contraddetti, perseguitati durante la lorovita, – i filosofi alla fine – determinano l’opinione;la verità si dilata; da alcuni pochi si comunica aimolti; da questi ai più; s’illuminano i sovrani e tro-vano la massa de’ sudditi più ragionevole e dispo-sta ad accogliere tranquillamente quelle novità chesenza pericolo non si sarebbero presentate fra letenebre dell’ignoranza. L’opinione dirige la forza ei buoni libri dirigono l’opinione, sovrana immor-tale del mondo.[Verri, Memorie, in Scritti, II, p. 314]

A sua volta, questa nuova, «universal cul-tura» ha creato un’altrettanto inedita «fra-tellanza … da uomo a uomo», basata su«quella onesta comunicazione fra gli uomi-ni, per cui tendono a rendersi vicendevol-mente la vita più dolce, più aggradevole, e piùfelice» (Verri, Lo spirito di società, in Il Caffè,p. 279).

Parimenti ignota tanto ai «nostri ruvi-di antenati» quanto ai fatui esponenti del-la società cortigiana, tutti impegnati «in uncontinuo dissipamento di sé», una talespecie di appartenenza tende appunto alocalizzarsi ad un livello intermedio tra levecchie solidarietà familistico-corporativee il vacuo legame che unisce tra loro queigenerici uomini di mondo pervasi dalla

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«sfrenatissima smania d’essere l’amicouniversale»(ibidem, p. 280). Un livello“nazionale”, appunto: la cui percezione siaffaccia già nel manifesto del «Caffè», incui si promette di rivolgersi al lettore conquella «onesta libertà degna di cittadiniitaliani» (ibidem, p. 5).

Dietro a queste solari rappresentazioni,tuttavia, si cela una sfera pubblica incom-mensurabilmente più gracile di quellafrancese, come prova una semplice occhia-ta alle cifre dei suoi circuiti giornalistici eeditoriali. Inceppata nel suo sviluppo dallapresenza pervasiva della Chiesa romana,dalle difficoltà delle comunicazioni e dallaoggettiva arretratezza socio-economica dimolte aree della penisola, la pubblica opi-nione italiana sconta ancor prima una cro-nica carenza di materia su cui opinare, datal’assenza di un grande centro statale attor-no al quale sviluppare un qualsiasi dibatti-to politicamente integrante.

Di qui, le sue specificità qualitative:costituite in primo luogo da un rapportocon lo Stato non risolto in termini di con-trapposizione, ma piuttosto d’integrazionecollaborativa, in continuità con la tradizio-ne giurisdizionalista-muratoriana dellaprima metà del secolo. Consapevole dellasua debolezza, la nascente sfera pubblicanon vede tanto nel potere costituito unpotenziale avversario quanto l’imprescin-dibile alleato della propria battaglia antio-scurantista. Del resto, è proprio quel pote-re che tiene a battesimo una stampa di tipomoderno, nel tentativo di assicurare unabase di consenso al suo programma diriforme (v. Landi, Il governo).

Contrariamente al paradigma di Haber-mas, siamo dunque di fronte ad un pubbli-co largamente eteronomo, che proprio peremergere come pubblico ed emanciparsi

dalla società tradizionale ha bisogno delsupporto statale. Proprio per questo, queifilosofi che secondo il solito paradigmadovrebbero assumere decisamente la guidadel pubblico moderno hanno invece gliocchi fissi sul principe, nell’ansiosa attesa diuna chiamata che dia loro l’occasione d’in-cidere sulla realtà mediante gli unici stru-menti ritenuti, in fondo, concretamenteefficaci – quelli burocratico-istituzionali.

Anche coloro che sembrano aver megliocompreso l’importanza della rivoluzionemediatica settecentesca restano ben lonta-ni dal prospettarsi un futuro da opinionmakers e (come dimostra la breve paraboladel «Caffè») puntano piuttosto a spende-re il prestigio acquisito con le loro penneper conquistarsi un ruolo all’interno del-l’apparato, giacché è solo da lì che sembra

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La redazione della gazzetta fiorentina«Notizie dal mondo»

possibile contribuire davvero allo svec-chiamento del sistema. Non stupisce per-ciò che l’immagine della sfera pubblicaprodotta dall’intellettualità italiana siaspesso colta da un punto di vista esterno adessa e vicino invece a quello dello Stato dacui quella intellettualità ambisce a farsicooptare: col risultato di relativizzare dimolto – contrariamente, ancora una volta,ai dettami del canone settecentesco – l’af-fidabilità dei giudizi collettivi.

Esemplari sono in proposito le celebripagine dedicate al nostro tema da GaetanoFilangieri, nelle quali si riafferma sì l’esi-stenza di un «tribunale […] invisibile, cheagisce di continuo; […] ch’è più forte de’magistrati e delle leggi, de’ ministri e de’re» e che «col fatto ci dimostra che lasovranità è costantemente e realmente nelpopolo»; ma dove si specifica anche che«in un popolo ignorante e corrotto, questotribunale sconosce i suoi interessi, e col-l’onnipotenza de’ suoi decreti perpetua ilmale ed impedisce il bene», sì che il primodovere del principe consiste appunto nelrenderlo «saggio e virtuoso» tramite unaopportuna pedagogizzazione legislativa (Lascienza della legislazione, 1782, in Venturi,Riformatori, IV, LII, p. 749).

Il pubblico italiano rivela dunque, nel-la percezione dell’élite, un profilo ambiva-lente, che lo colloca a metà strada tra la fal-lace opinione popolare d’Antico regime equella nuova del secolo dei lumi. Meglioancora: esso tende a sdoppiarsi in un pub-blico evoluto e moderno (quello dell’osser-vatore) ed in un altro gretto e arretrato, colquale è esclusa ogni possibilità di identifi-cazione. Anzi, questo secondo pubblico vie-ne guardato dall’intellettuale italiano conlo stesso distacco proprio di un forestiero,attingendo agli stereotipi che una lunga e

caustica tradizione letteraria straniera haapplicato agli italiani in genere, ed accet-tando in pieno di definire i propri conna-zionali «creduli», «ignoranti […] a talpunto che è raro che sappiano leggere oscrivere», sempre «allegri e gioviali» inquanto privi di vera dignità, «naturalmen-te docili al giogo che loro impone il gover-no» perché del tutto passivi, e via enume-rando (Baretti, Gl’italiani, pp. 5-6).

Insomma: nel momento stesso in cuianche in Italia comincia ad emergere una“nazione di lettori”, il suo perimetro è cosìstretto, e così grande la sua distanza da unanazione reale percepita attraverso il prismaobbligato della decadenza, che essa fatica ariconoscersi come “italiana”. Italiani sonoinvece di sicuro gli altri, quelli che vivonoancora prigionieri della subcultura premo-derna, ai margini di quella cosmopoli che èla sfera pubblica occidentale. Ciò per unverso pone già implicitamente le basi di unriscatto nazionale, di un “risorgimento”, delquale la riforma settecentesca costituisce laprima concretizzazione; ma per un altro rea-gisce sulla stessa morfologia formale dellanostra nazione, che fin dall’inizio sembrastrutturarsi su «due gradi di italianità»(Bollati, L’italiano, p. 960).

Proprio nel momento in cui inventa l’ita-liano, l’intellettuale settecentesco tende achiamarsi fuori da una comunità nazionaleche non riesce a definire se non in termini diritardo e di stagnazione, identificandosi inve-ce con quel pubblico europeo più avanzato dalui assunto come parametro per valutare i suoiconcittadini. Naturalmente anche in Francia– come s’è visto – viene registrata l’esistenzadi un corposo strato popolare del tutto inca-pace di accedere al livello del vero pubblicocriticante; ma ciò non incrina una rappre-sentazione sostanzialmente unitaria della sfe-

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ra pubblica, giacché per la coscienza d’oltral-pe è pacifico che una tale fascia inferiore siacomunque destinata a ricevere i contenutidella sua cultura dall’élite consapevole.

Al contrario, in Italia a trovarsi in ista-to di minorità intellettuale sono ancora glistessi ceti dominanti; ed è appunto nei loroconfronti, ben prima che in quelli dellemasse, che i nuovi intellettuali avvertonoun forte senso di estraneità.

La natura ha fatto di tutto perché noi fossimodistinti fralle più colte nazioni del mondo; maforse la troppo dolcezza del carattere di noi Ita-liani ci ha fatto con somma facilità piegare l’undopo l’altro al giudizio di pochi, i quali ci hanvoluto porre in ceppi, dirò così, l’anima, e ce nehanno pedanteggiato le facoltà.[Verri, Dell’onore che ottiensi dai veri uomini di let-tere, in Il Caffè, p. 205]

Tanto che, su mille letterati, si può direche solo dieci «coltiv[i]no l’ingegno perrendere se stessi internamente migliori»,mentre tutti gli altri lo fanno «per il pane»,«per non annoiarsi» o per reciproca gelo-sia (Verri, Saggio d’aritmetica politica, in IlCaffè, p. 143).

Man mano che il Settecento s’approssi-ma alla sua crisi finale, questo senso d’iso-lamento del nuovo letterato non fa cheacuirsi. Nel corso degli anni ’80, infatti, sisgretola quella fragile alleanza che lo aveva(più o meno immaginariamente) collocato afianco del principe fin dall’età muratoriana;ed egli si trova stretto tra uno Stato che gli vachiudendo le porte, una società in cui non siriconosce più ed una sfera pubblica troppoesile per sostenerne le legittime ambizioni.Tutto ciò in un ambiente segnato da unasempre più diffusa sottoccupazione intellet-tuale (effetto indiretto delle riforme, chehanno allargato l’accesso all’alta istruzione

senza garantire un parallelo assorbimentodei laureati da parte del pubblico apparato).

E tuttavia, col trascorrere degli anni gliuomini di penna non possono non persua-dersi sempre più che il nuovo ordine di cuiproprio il riformismo sta gettando le basiriserbi loro un grande futuro. Incrinata l’an-tica certezza nella naturalità delle gerarchiesociali e nella immutabilità dei correlatividestini, «il popolo – notava per tutti Fran-cesco Maria Gianni nel 1792 – vede adesso ilbene che ha ottenuto da certe operazioni digoverno, sicché, naturalmente ragionando,suppone che anche il male […] sia un’ope-ra del governo e che esso possa rimediarvi»(Le mie paure e disordini che temo dalle attua-li circostanze del paese, in Venturi, Illuministi,pp. 1076-1080). In questo stato «di granpericolo», non vi è «altro partito da elegge-re tra la resoluzione generosa d’illuminare ilpopolo o prepararsi a combatterlo». E perbattere la prima strada gli Stati non posso-no che associare al governo la «classe scel-ta […] di chi studia e di chi insegna», assi-curandosene la collaborazione prima che«non la poca plebe, ma il gran popolo apragli occhi, o trovi nella classe scelta chi lo illu-mini e lo ammaestri sopra gli oggetti chesino ad ora ha trascurati, o non conosciuti».

L’età dei lumi, insomma, ha iscritto lacomunicazione politica al primo posto nel-la sua agenda costituzionale, promettendo aidetentori dell’arte della parola un ruolo stra-tegico nella società del domani. Il guaio è chequanto più l’intellettualità italiana acquistacoscienza del proprio valore potenziale, tan-to più angusti si fanno i suoi spazi di mano-vra a causa del doppio ostracismo decretatonei suoi confronti da uno Stato sempre piùdiffidente e da una da una società civile soloapparentemente emancipata. L’Italia sem-bra rigurgitare sì di

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un’immensa classe […] di persone colte che fan-no versi, che intendono il latino, che sanno diantiquarie, che vantano buon senso, un gusto finoe delicato […] e che fanno da giornalisti spietatisopra quanto comparisce alla giornata. Eppure,chi lo crederebbe! In mezzo a tanti eruditi il com-mercio librario è nell’ultimo avvilimento; poichénon si trovano compratori.[Ristori, 1788, in Capra, Giovanni Ristori, p. 101]

Di qui, il senso di frustrazione che, avari livelli, serpeggia sempre più insisten-te fra le nostre élites intellettuali di fine Set-tecento; al quale esse reagiscono per unverso indulgendo ad un radicalismo semprepiù astratto e pessimistico e per un altroconfezionandosi quell’autoritratto eroico esdegnoso, assurto in breve a diffuso clichéletterario, che fa del loro isolamento il pro-dotto di una nobile scelta morale. «Unuomo che abitualmente ricerca la verità ela ragione – scriveva di sé Pietro Verri nel1788, quando da tempo si era consumato ilsuo divorzio con l’assolutismo asburgico –;di cui l’animo libero aborrisce ogni bassez-za; che ama la gloria e il proprio buon nome;che non crede di trovare la felicità se nonguidato da’ suoi principi; un tal uomo nondoveva in una dispotica monarchia averemai impieghi pubblici, se non per unaqualche combinazione straordinaria»(Verri, Sincera memoria sugl’impieghi ch’eb-bi e sulla cagione che me li fece perdere, 1789,in Memorie, p. 5).

D’altra parte, questa emarginazionedalla “nazione degli officiali”, loro tradi-zionale luogo d’elezione, non avvicina cer-to i nostri filosofi ai propri concittadini –quegli italiani che allo scoppio della Rivo-luzione apparivano allo stesso Verri del tut-to «immaturi e non ancora degni di viveresotto il regno della virtù», divenuti, «a for-za di voler esser furbi […] al pari de’ Gre-

ci il rifiuto dell’Europa dopo esserne statii maestri», «tutt’al più capaci, in caso dicontagio rivoluzionario, di rinnova[re] lesciagure de’ Guelfi e Ghibellini» (Alcunipensieri sulla Rivoluzione accaduta in Fran-cia, 1789, in Morandi, Pietro Verri, p. 537).Il risultato, alla fine, è quello di una “nazio-ne immaginata” dall’alto profilo etico, madal diametro ridottissimo, che coltivaorgogliosamente il senso della propriaidentità sospesa tra una società amorfa einsensibile e uno Stato deciso quantomenoa ignorarla.

Tra le varie formalizzazioni settecente-sche di questo immaginario, la più rappre-sentativa e fortunata è stata di sicuro quel-la alfieriana (benché la sua circolazione siacominciata davvero solo nel diverso conte-sto del triennio giacobino). Com’è noto,essa pone al centro della propria attenzio-ne «questa classe d’uomini […] insortadunque a poco a poco in Europa […], che siassume l’incarico, pensando e scrivendo,di far pensare gli altri» (Alfieri, Del princi-pe e delle lettere, 1778, in Scritti, p. 390); e sipropone di approntare per essa «un preci-so codice di comportamento» (Mauri, IlPiemonte, p. 842) movendo dal postulato(speculare rispetto all’universo illumini-sta) di una sua irriducibile antitesi rispet-to al sovrano. Obbiettivo ideale d’ogni prin-cipe è infatti, da sempre, «la totale cecità eignoranza dei sudditi tutti» (Alfieri, Delprincipe e delle lettere, 1778, in Scritti, p. 383),anche se nell’ambito dell’Europa modernatale programma viene perseguito tramite lasubdola strategia di asservire i letterati perdivenire, tramite loro, «signore dell’opi-nione» (ibidem, p. 436). Il discorso diAlfieri si indirizza dunque ai pochissimi,potenziali scrittori «sprotetti», indicaticome i «naturali e sublimi tribuni dei non

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liberi popoli» (ibidem, p. 443) ed alla cuiparola egli affida la missione di redimereuna nazione abbrutita dall’ignoranza e dauna decadenza plurisecolare. Il punto peròè che questa nazione non forma affatto unpubblico, ed è perciò praticamente irrag-giungibile dal vero letterato. Chi infatti leg-gerà la sua pagina liberatoria? Certo

non il popolo […] che sepolto nei pregiudizi,avvilito dalla servitù, fatto stupido dalla povertà[…] non ha tempo né mezzi né ajuti per impara-re a discernere i suoi propri diritti: ed egli pursolo potrebbe farli valer, conoscendoli. Leggonoadunque veramente nel principato i pochi uomi-ni rinchiusi nelle città; e fra questi, il minornumero di essi; cioè quei pochissimi, che nonbisognosi di esercitare arte veruna per campare,non desiderosi di cariche, non adescati dai pia-ceri, non traviati dai vizj, non invidiosi dei gran-di, non vaghi di far pompa di dottrina, ma vera-mente pieni di una certa malinconia riflessiva,cercano ne’ libri un dolce pascolo all’anima, e unbreve compenso alle umane miserie.[Ibidem, p. 386]

Un pubblico minuscolo, dunque, e persua natura intrinsecamente quietista, chenell’ambito della società italiana Alfieriidentifica senza incertezze in quei pochi«nobili che non sono contaminati di cor-te». Eppure è questa la nazione da cui biso-gna partire: costituendo poco per volta,all’interno di una nobiltà per lo più ignavae venduta, «una repubblichetta nel prin-cipato», «rimota affatto dal volgo profa-no» e cautelativamente formata solo da«letterati pensanti, leggenti, e non iscri-venti»; mentre gli scrittori – i veri produt-tori d’idee –, «come Decj della nasciturarepubblica», dovranno espatriare «percercar libertà dove essa si trova» e da lì, conle loro stampe, alimentare la «divina fiam-ma» della rivolta all’interno dello Stato(ibidem, pp. 436-437).

Tradotto in un linguaggio più descritti-vo, questo discorso constata che anche inItalia la sfera pubblica si sta autonomizzan-do dallo Stato; solo che la sua estrema esi-guità le impedisce di pensarsi come una veranazione. Diversamente da ciò che accade inpaesi culturalmente più evoluti e coesi, l’u-nica nazione italiana immaginabile è unasorta di libera comunità dei “diseguali”, di«repubblica di re»2, formata da quel limi-tatissimo numero di lettori realmente indi-pendenti che la società riesce ad esprimere,e che si reclutano essenzialmente tra i nobi-li (ovvero tra quegli «indipendenti ed agia-ti» che fanno corona al principe e che benconoscendone «il debole e il nulla» sonopiù in grado di emanciparsi dalla sua avvol-gente influenza).

La creazione dello spazio nazionale ècosì presentata come un processo laborio-so e di lungo periodo: dalle «nuove lettere»nasceranno forse «nuovi popoli», ma inun futuro così indeterminato da rendereinattuale lo sforzo di definire ogni ulterio-re strategia politica. Ciò non toglie, benin-teso, che quello di Alfieri sia un discorsopolitico – e lo sia anzi in un senso moltopregnante, perché con esso si tenta per laprima volta di dare appunto forma politicaa quell’esangue patriottismo letterariocostituente, fino ad allora, l’unica forma diappartenenza nazionale effettiva in Italia.

Alfieri assolutizza il problema del rap-porto tra opinione e potere fino a identifi-carlo con il problema politico tout court: ecosì facendo incendia il disagio dell’intel-lettuale italiano, trasformandolo in unacontraddizione intollerabile che può esse-re superata solo mediante una grande rivo-luzione nazionale. L’immagine dell’Italiafutura che è «per risorgere, magnanimalibera ed Una» (Alfieri, Il Misogallo, p. 3),

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erompe anch’essa per la prima volta dallesue pagine, in perfetta sincronia con larivendicazione di una piena emancipazio-ne del «libero scrittore». Naturalmente,però, così come la politica alfieriana è solouna politica delle lettere, la sua rivoluzioneè puramente mediatica e si risolve nella sfi-da di creare un primo germe di opinionepubblica nazionale all’interno di quei cetiaristocratici che sembrano i soli, nell’Italiatardo-settecentesca, a poter godere di unaqualche indipendenza culturale. L’appro-do alla politica vera, per la nazione dei let-tori, è ancora ben al di là da venire.

4. 1796-1799: le due Italie e il primo dibatti-to sulla costituzione nazionale

Tale è dunque, a un dipresso, la configura-zione della sfera pubblica italiana quando,a partire dalla primavera del 1796, la peni-sola viene rapidamente inglobata nell’areadi controllo francese.

Gli anni immediatamente precedenti laconquista hanno enfatizzato ulteriormente ledilacerazioni proprie dei ceti colti italiani.Da un lato, infatti, lo spettacolo della Rivolu-zione, avidamente seguito fin dai suoi esor-di, ha fornito loro la prova di quanto ampioed elevato potesse essere davvero il palco-scenico che il destino loro riservava. La stes-sa, grande macchina propagandistica con-trorivoluzionaria che gli Stati italiani aveva-no messo in piedi ex novo per contrastarel’offensiva ideologica francese dimostrava, amodo suo, come ormai non fosse possibilegovernare ignorando quella pubblica opi-nione che essi avevano tenuto a battesimo.

D’altra parte, la cappa della censura che,soprattutto a partire dal ’92, era calata per la

prima volta pesantissima sulla stampa italia-na, con conseguente chiusura o snaturamen-to di tutti i più noti periodici del paese, li ave-va brutalmente costretti a riconoscere l’e-strema fragilità di quella loro creatura, accen-tuando il senso di ingiusta deprivazione chericavavano dal confronto con i propri più for-tunati vicini. «Se fossi nato nell’Inghilterrao nella Francia io sarei un uomo come gli altri– annotava nel 1790 il solito Verri –; nato nel-l’Italia […] io non posso sfogare i miei pen-sieri se non collo scrivere», e con lo scrive-re solo ciò che non susciti in alcun modo«paura ed odio contro il suo autore» (Pensierisullo stato politico del milanese, 1790, in Capra,I “progressi della ragione”, p. 541). Gli altri, gliuomini comuni, sono ormai divenuti coloroche godono di quella libertà politica e diespressione che agli italiani continua adessere incomprensibilmente negata.

Non stupisce quindi che questa intellet-tualità abbia aderito in genere con entusia-smo al nuovo ordine proposto dai francesi,riconoscendo in esso una straordinariaopportunità di occupare quel posto centra-le nella vita pubblica a cui essa aveva comin-ciato a sentirsi segretamente vocata fin daglianni Sessanta. L’esplosione di una verastampa politica, la sùbita recezione del nuo-vo codice linguistico rivoluzionario, l’ado-zione delle nuove forme di sociabilità pro-prie del costume francese cambiarono radi-calmente, così, la fisionomia della sferapubblica, attribuendole un carattere este-riormente simile a quello d’oltralpe e can-didandola ad assumere quel ruolo di “popo-lo sovrano” a cui il nuovo sistema costitu-zionale naturalmente la destinava.

Il punto, però, su cui s’incentrò tutto ildibattito del Triennio fu proprio questo: eradavvero plausibile che un’élite così sottile ecosì lontana dal resto del corpo sociale da

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riuscire a definirsi solo in termini di alteri-tà rispetto ad esso, potesse autocostituirsiin nazione sovrana? Quale ruolo assegnare,all’interno di quello schema, a tutti coloroche restavano al di qua della nuova cultura;e soprattutto a quel popolo-plebe univer-salmente percepito come una presenzamassiva e incombente, nella cui rappresen-tazione enfaticamente primitivistica l’éliteproiettava fin troppo evidentemente le suestesse fragilità ed insufficienze? E poi: finoa che punto il modello della “nazione dei cit-tadini”, giocato tutto sul valore dell’integra-zione e dell’omogeneità sociale, era appli-cabile ad un paese la cui «trasmutazione»politica era avvenuta ad «opera di avveni-menti casuali» (Compagnoni, Saggio, p.482), senza che alcuna autentica rivoluzio-ne avesse provveduto a cancellare preventi-vamente le mille, vecchie identità propriedell’ordine plurale?

A queste domande, la pubblicistica del-l’Italia giacobina offrì in sostanza tre ordi-ni di risposte, intendendo con ciò non treideologie connotanti altrettanti schiera-menti o partiti, bensì tre posizioni menta-li destinate a convivere, a miscelarsi copio-samente e anche ad alternarsi nella visionedelle medesime persone, seguendo i cam-biamenti dei tempi e dei ruoli, fino a darluogo ad uno spettro di posizioni estrema-mente complesso.

La prima di esse è quella che adotta ilparadigma della nation nella sua classicaaccezione sieyesiana, e scommette sulla pos-sibilità di integrare tra loro le “due Italie”con l’assegnare alla prima – quella colta emoderna – il compito di rappresentare insenso “teatrale” la seconda. Certamentepresente, ma non dominante nel panoramadella nostra pubblicistica, questa è la rispo-sta di chi ha meglio compreso il significato

più vero del governo rappresentativo, comestrumento atto a trasformare l’élite cultura-le in élite politica nel quadro di una specia-lizzazione del lavoro che non mira ad attri-buire ruoli di primo piano alle classi infe-riori ma solo a garantire loro il diritto di far-si governare dai “più capaci”.

Un ottimo esempio di questa posizione èofferto dalla dissertazione presentata daMelchiorre Gioia al celebre concorso mila-nese del 1796.

La sovranità risiede essenzialmente nella univer-salità dei cittadini – osserva Gioia –. Ma parte diquesti, sparsi nelle campagne, è occupata a trarrele ricchezze dalla gleba, parte le modifica e le ren-de atte ai comodi della vita; altri le fanno circola-re per tutto lo Stato o le trasportano allo straniero;altri vegliano alle frontiere della patria […]; ondealla maggior parte de’ cittadini mancano il tempoe i mezzi per istruirsi a fondo negli oggetti di pub-blica istituzione […]. Queste ragioni dimostranoche il popolo dee scegliersi dei rappresentanti, loroconfidare la cura dei suoi affari politici, e mentrequesti meditano profondamente sulla formazionedelle leggi e sul modo di farle eseguire, il popolodee entrare ne’ solchi delle campagne, ne’ banchidi commercio, nel campo di Marte per alimenta-re la patria, vestirla e difenderla.[Gioia, II, p. 23]

Il sensualismo e l’arretratezza del popo-lo, il suo frequente confondere «la giustiziacolla crudeltà, la prudenza colla furberia, lamoderazione coll’avvilimento, l’umanitàcolla debolezza» (ibidem, p. 22), è in qual-che misura un dato strutturale di ogni socie-tà complessa, iscritto nella logica di una pro-duzione economica specializzata che assor-be integralmente l’energia di chi lavora e glipreclude di entrare a pieno titolo nel pub-blico consapevole. La democrazia deimoderni permette tuttavia di liberare lemasse dalle gabbie corporatiste in cui il vec-chio ordine le ha tenute segregate, attri-

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buendo loro una piena cittadinanza civile eanche politica a patto che esse accettino d’i-dentificarsi in quella minoranza abbiente edistruita costituente la vera nazione pensan-te: il che non potrà non realizzarsi se quellaminoranza aderirà compatta ai nuovi ideali,giacché, per un’osmosi naturale, «le infimeclassi della società si conducono ad imita-zione delle superiori» (ibidem, p. 94).

Per far ciò, è indeclinabile garantire alnuovo ordinamento una dimensione real-mente nazionale ed un carattere indivisibi-le. Il solo, vero luogo istituzionale dellamodernità è una nazione con gli stessi con-fini ampi e con la stessa densità interna diquel pubblico letterario che ha fatto pro-prio il nuovo discorso razionalista. Ognifrazionamento del corpo sociale in comu-nità più ridotte, ogni cedimento in senso“federalista” non potrà che restituire fiatoalle vecchie identità ad esso ostili e ricon-durre il paese a quella illusoria libertà degliantichi di cui esso ha già fatto una così lun-ga e triste esperienza a partire dal medioe-vo comunale.

L’Italia di Gioia, certo, rispetto ad altrenazioni parte svantaggiata in questa corsaverso l’emancipazione a causa di una totaleestraneità del popolo alle verità dell’élite (edi qui tutta una serie di cautele che egli sug-gerisce per non alienarsi l’appoggio dellemasse). Ma nell’economia del modernogoverno rappresentativo, la “moltitudine” ècomunque chiamata a svolgere una funzio-ne più tecnica che attivamente politica: adessa si richiede solo di selezionare, tramiteil voto, una classe dirigente trascelta nelseno della minoranza culturalizzata, allaquale viene lasciato in toto il compito – comescriveva Giuseppe Compagnoni nel ’97 – di«esplorare con maturo criterio quale sia lavolontà generale» (Elementi, p. 233). La

divaricazione tra élite e popolo non è un’a-nomalia del caso italiano, ma un trattocomune della contemporaneità: ed è pro-prio a comporre questa frattura che è desti-nato il nuovo strumento della democraziarappresentativa.

Diametralmente opposta è la posizionedi coloro che, sia pur con gradi diversi diconsapevolezza, rifiutano il paradigma del-la “nazione dei cittadini” o comunque loconsiderano inapplicabile all’Italia. Adaccomunare questa variegata famiglia diopinionisti è un’immagine ineluttabilmen-te plurale dell’ordine, che lo sviluppo dellasfera pubblica non solo non corregge masemmai aggrava ulteriormente aggiungen-dovi il nuovo dualismo identitario tra coltied incolti. Secondo questa prospettiva, qua-le che sia l’ispirazione politica del sistemacostituzionale esso non potrà non riprodur-re questa oggettiva complessità del sociale,giacché fingere d’ignorarla lo condurrebbea bloccarsi o, nel migliore dei casi, a perpe-tuare un odioso dominio fazionario.

Emblematico, in questo senso, è il testopresentato da Carlo Botta al solito concor-so del ’96. Seguendo un’ispirazione since-ramente democratica, Botta inizia a deli-neare una forma di governo rappresentati-vo più o meno simile a quella francese: fin-ché non si trova a prendere atto dell’esi-stenza della plebe.

La plebe è una spezie di tribù composta di buonagente, segregata dal resto della nazione, vivente aun di presso secondo i dettami della semplice natu-ra, servando ancora le sue leggi, costumanze e usiparticolari. Ella è l’istessa cosa, come se una tribùd’Ottentotti, quali da Vaillant ci vengono descritti,fosse ad un tratto trasportata a vivere in mezzo auna nazione composta di Re, di Nobili, di Prelati,di ricchi mercanti, di oziosi in genere. […] Esistequindi nell’istessa nazione una intestina divisioned’animi fra gli ottimati, i quali senza cerimonie si

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sono intitolati la parte migliore, e la plebe – dasempre vilipesa e conculcata nei suoi diritti.[Botta, Proposizione ai Lombardi d’una maniera digoverno libero, in Saitta, I, p. 38]

L’era della libertà non può che porre finea questo stato di cose: non però seguendo lastrada di un’impensabile integrazione isti-tuzionale tra «plebe» e «ottimati» (le dueclassi si trovano «per così dire in uno statodi guerra» non solo ineliminabile ma anchesalutare per la conservazione della pubbli-ca libertà) bensì riconoscendo alla primauna propria rappresentanza autonomaaccanto a quella patrizia, secondo il model-lo dell’antico Tribunato romano. Siamo cosìricondotti esplicitamente al vecchio model-lo del governo misto, cioè alla forma costi-tuzionale classica della “nazione dei ceti”(sia pur qui assunta nella sua variante citta-dino-repubblicana di derivazione machia-velliana tanto cara ai vecchi patriziati italia-ni). Al pluralismo del corpo sociale devonoper forza corrispondere una pluralità di rap-presentanze distinte: ed è proprio per que-sta via che ognuno perverrà a considerare sestesso non «quale persona segregata e iso-lata dagli altri, ma siccome un membroappartenente ad un tutto, che è la patriamedesima» (ibidem, p. 64).

Ed è appunto a una patria siffatta, rispet-tosa delle differenze e proiettata verso unalibertà certo più municipale che nazionale,che dovettero rivolgersi più o meno confu-samente gli sguardi di molte élites del Trien-nio: e non solo di quelle tutte assorte nelsogno restauratore di vecchi privilegi citta-dini o solidali con il patriottismo conserva-tore di cui fin da quegli anni il governo sub-alpino si veniva facendo apostolo.

Una visione vicina a quella di Botta siriscontra per esempio in altri membri nonsospetti del “partito patriota”, come Lancet-

ti o Ranza (quest’ultimo, fautore di un fede-ralismo sensibile alla suggestione america-na); e inizia anche a trovare una sua primaformalizzazione teorica nella segreta rifles-sione di un giovane profugo ginevrino giàallora affascinato dall’Italia e destinato adesercitare un’influenza incalcolabile su tuttoil successivo processo risorgimentale,Sismonde de Sismondi. Sismondi iniziafacendo propria la duplice premessa postaalla base del costituzionalismo dell’89 – cioèche «la sovranità appartiene alla nazioneintera, e non ad alcuna delle sue frazioni»,benché ogni nazione «uscita dalla barbarie»conti al suo interno certe «divisioni natura-li» indotte dalla specializzazione del lavoro,tra cui la più importante è quella che opponelavoratori del braccio e della mente, «igno-rans et savants», «coloro che pensano» e«quelli che sono impossibilitati a formarsiun’opinione su una questione astratta»3.Dalla ovvia superiorità dei pensanti suinon–pensanti, tuttavia, Sismondi non rica-va alcun naturale diritto dei primi a governa-re i secondi ma, al contrario, la necessità diassicurare ad entrambi i gruppi una egualepartecipazione al potere, «bilanciando que-ste due grandi classi della società l’una permezzo dell’altra»: il che è possibile solo tor-nando alla vecchia ricetta del governo misto.

Ricetta antica quanto il mondo, essa nonha perso niente della sua validità col tra-monto della società di ceti, ma mantieneanzi una netta superiorità sul nuovo gouver-nement représentatif, il cui unico merito è dipermettere il godimento di una certa liber-tà nell’ambito dei «grands empires». Illuogo della libertà vera, tuttavia – di quellalibertà a cui tutte le classi possono accede-re con ruoli diversi – tende a coincidere perSismondi con la piccola patria cittadina,dove la politica è fatta ancora, in certa misu-

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ra, di scelte semplici, non «abstraites», acui il «peuple» (inteso come ceto maggio-ritario e inferiore) può concorrere diretta-mente in parallelo all’élite. Una concezioneche prelude già a quella riscoperta delmedioevo comunale italiano che costituiràla grande fatica della maturità sismondia-na, ed alla base della quale sta una perples-sità di fondo sulla capacità reale del pubbli-co settecentesco di impersonare senza resi-dui la complessità della nazione moderna.

La stessa perplessità che troviamo, pur sediversamente declinata, in un altro futuroprotagonista della scena napoleonica e risor-gimentale non sospetto di nostalgie passati-ste, Giandomenico Romagnosi. Chi è mai indefinitiva – si chiede il Romagnosi di questianni, in un’opera assai importante anche sedestinata a vedere la luce solo dopo la mortedell’autore4 – questo pubblico che la tradi-zione illuminista ha promosso al rango di«giudice supremo» e contro le cui sentenze«non v’ha potestà a cui ricorrere»? Una vol-ta scremato (ovviamente) da femmine, fan-ciulli, vecchi, artigiani, operai, «gente diservizio», «soldati di professione», «mer-canti», dal «gran numero degli agricolto-ri», «ed inoltre generalmente [da] tuttiquelli che in forza del loro stato, della lorodignità, delle loro ricchezze, sono assogget-tati ad assidue preoccupazioni o dati in balìaa piaceri che riempiono gran parte delle lorogiornate», il «pubblico dei veri intenden-ti» si riduce ad un pugno di «pochi privati»,«costitu[ente] in mezzo alle popolazioni uncorpo, nelle cui operazioni il pubblico comu-ne non prende quasi parte alcuna» ed i cuiconfini coincidono in sostanza con quellidella vecchia «repubblica letteraria»(Romagnosi, Ricerche, XVII, p. 315).

Quest’ultima, dunque, non serve più –come nel discorso illuminista – quale meta-

fora di un luogo a cui tutti possono accede-re in quanto usino pubblicamente la lororagione, superando «i limiti della loro sfe-ra privata come se fossero dei dotti»(Habermas, Storia, p.130), ma si chiude inuna dimensione schiettamente corporativa,da addetti ai lavori. Il nostro autore può cosìconcludere tranquillamente, rovesciando ilteorema settecentesco, che ogni qual volta«un gran numero [di uomini] in comuneconvengono in una sola opinione», il lorogiudizio è da considerarsi presuntivamentesbagliato (Ricerche, p. 38). Un convinci-mento che porterà il Romagnosi della matu-rità a battere sentieri ben lontani dal clas-sico costituzionalismo francese e assai piùaderenti, invece, ad una rappresentazionecorporatista dell’ordine.

La terza risposta, infine, è quella di chivive come una contraddizione bruciante l’e-sistenza storica delle due nazioni e si senteimpegnato a cancellarla tramite una radica-le rigenerazione di entrambe, che porti all’e-mersione di un unico popolo accomunato dauno stesso sistema valoriale. Non sapremmodire se questa sia la posizione prevalente neldiscorso pubblico del Triennio; certo è quel-la che gli attribuisce quel timbro generosa-mente volontarista che resterà, anche nellamemoria successiva, la sua caratteristica piùsaliente. Essa consiste nel prendere alla let-tera, per così dire, l’«imperativo d’inclusio-ne» veicolato dal modello nazionale rivolu-zionario (Rosanvallon, Le sacre), impegnan-dosi a rovesciare tutti i diaframmi presentientro l’ambiente sociale premoderno fino aridurlo davvero ad uno spazio omogeneo, nelquale tutti possano convivere alle medesimecondizioni, partecipando paritariamente algoverno della cosa pubblica.

È in questo quadro che si collocano igrandi dibattiti sulla educazione popolare e

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sulla democrazia sociale, le conseguentiaperture verso una redistribuzione della pro-prietà, la simpatia per la democrazia direttaed insomma tutti quei temi che hanno a lun-go catalizzato l’attenzione della nostra sto-riografia, ansiosa di valorizzare al massimo itratti più propriamente “giacobini” (id est,secondo l’equazione gramsciana, più auten-ticamente progressisti) della rivoluzione ita-liana. In realtà, il nostro giacobinismo sem-bra aver poco in comune con quello france-se (che nasce e si sviluppa tutto sul terreno diuna lotta parlamentare di cui l’Italia di que-sti anni non ebbe che piccoli assaggi5) e mol-to invece con il problema italiano di un pub-blico ancora troppo poco coeso per sostene-re efficacemente un moderno governo rap-presentativo. Tale pubblico appare costitui-to in prevalenza – secondo una descrizionespesso ricorrente nella stampa – da unagrande «classe neutra», intermedia tra ipochi patrioti e il polo aristocratico, «il cuicarattere consiste nel non averne alcuno» eche sembra oscillare perpetuamente tra l’in-differenza e l’opportunismo («Gazzettanazionale genovese», 14 ottobre 1797, inFormica, Il concetto di popolo, p. 719). Di qui,la tendenza del “partito patriota” ad andarsia cercare un altro pubblico, più cosciente eleale, che esso immagina di poter reclutare inseno ad un ceto popolare «sempre e dap-pertutto buono per carattere e per principi»(Analisi dello spirito pubblico, in «Termome-tro politico», 2 luglio 1796, cit. da De Felice,Giornali, pp. 324-325) in quanto vicino alregno della natura e dell’innocenza.

Da questo riflesso d’isolamento nasce cosìquella “nazione dei giacobini” che compen-sa con la mistica popolare le insufficienzedella sfera pubblica positiva. Essa tende arifiutare la formula della rappresentanzamoderna e a trovare piuttosto il suo punto di

fuga in una democrazia egalitaria di agricol-tori poveri e costumati, basata sulla convin-zione che ogni significativa disparità di ric-chezze non possa che produrre una paralleladiversità di livelli culturali, e dunque unapericolosa frattura nel corpo politico. Il risul-tato è un modello dalle forti implicazioniarcaiche e coercitive insieme, che più cheguardare oltre il sistema rappresentativo e lesue implicazioni classiste sconta l’incapacitàdi concepire la democrazia al di fuori dellacornice canonica in cui essa era stata collocataper tanti secoli, quella della democrazia degliantichi e dell’umanesimo civico. Al confron-to con le sfide della modernità si finisce cosìcol preferire l’evasione verso quelle mitolo-gie classiciste ancora tanto radicate nel baga-glio della nostra cultura settecentesca.

5. La soluzione napoleonica: lo Stato che for-ma la nazione

Tre idealtipi, dunque, di organizzazionedello spazio politico, fondati su tre diverseproposte d’integrazione tra élite e “popo-lo”, pubblico colto e pubblico comune. Al dilà dei loro vari contenuti, ciò che le acco-muna è appunto la fiducia nella possibilitàdi questa integrazione, da realizzare uni-versalizzando uno stesso linguaggio razio-nale che dovrà permettere alla nazione,comunque concepita, di acquisire una pie-na coscienza di sé. Non più debitrice delsuo esistere al sostegno del principe, essaappare ai patrioti come titolare di unavolontà propria, affrancata da ogni tutela.

L’Italia del dopo-Marengo costituisce unambiente profondamente diverso da quellodi fine Settecento proprio per la definitivaeclissi di questa speranza in una composizio-

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ne autonoma, non esteriormente assistita, trale due Italie. Una tale speranza si era fatta viavia più flebile, beninteso, fin dall’inizio delTriennio. E ciò non solo per la sempre piùpalese irredimibilità di quelle masse che, aqualunque ruolo si volessero chiamare, sierano rivelate capaci – doveva ammettereGioia – di percepire la realtà solo «attraver-so d’un’acqua mobile e fangosa», tale dadeformare grottescamente qualsiasi messag-gio loro indirizzato (Saggio sui pregiudizi popo-lari, 1798, in De Felice, Giornali, p. 85).

Il fatto è che anche l’élite si rivelò benpresto, agli stessi occhi di molti dei suoiesponenti, inadeguata al compito che essa siera prefissa. «Altieri nelle parole, pusilla-nimi nelle condotte» (Quadro politico diMilano, 1798, in Gioia, Riflessioni, p. 29), ipatrioti avevano messo in scena – secondo leautocritiche più rigoriste una «vile parodia»della libertà a beneficio del padrone france-se, prostituendo «tutti i principî e tutte leforme della libertà costituita in una aberra-zione perpetua senza slancio, in uno statopermanente di follia fredda e stupida», cosìFrancesco Melzi in una lettera a Bonapartealla vigilia del 18 brumaio (in Da Como, IComizi, I, p. 9). Come scriveva ancora Gioia,invece che prepararsi a divenire classe diri-gente essi si erano gettati a corpo morto nel-la corsa agli impieghi, riproponendo senzavergogna tutti i vizi dell’uomo antico – dallacortigianeria alla «ferocità» – dietro loschermo del nuovo linguaggio abnegativo elibertario (Che cos’è patriottismo, 1798, inGioia, Riflessioni, pp. 145 ss.).

La testimonianza più vivida di questomancato incontro tra le due Itale è senzadubbio offerta dal contributo di Cuoco: la cuianalisi, condotta a partire dal caso parteno-peo, si dipana appunto dalla celebre presad’atto di una «nazione napoletana divisa in

due nazioni diverse per due secoli di tempoe due gradi di clima»: l’una cosmopolita,avanzata e coesa, l’altra ancora immersa nel-la pre-modernità e proprio perciò ulterior-mente suddivisa al suo interno «in tantediverse nazioni» quante erano le variecomunità subregionali del Regno (Saggio sto-rico, p. 324). Da questa constatazione, con-forme ad una sensibilità come s’è visto abba-stanza diffusa nel triennio, Cuoco desumetuttavia una indicazione operativa diversa daquella del pensiero democratico preceden-te. Invece che pretendere di «guadagnarel’opinione del popolo» aprendole lo scrignodei propri modelli politici, i rivoluzionariavrebbero dovuto proporre ad essa obbiet-tivi compatibili con la sua cultura e i suoisensi identitari tradizionali. Solo per mezzodi una strategia di questo tipo, infatti, lanazione inferiore avrebbe potuto accettare laleadership di quella superiore e seguirla lun-go il suo cammino.

«Ecco tutto il segreto delle rivoluzioni:conoscere tutto ciò che il popolo vuole efarlo; egli allora vi seguirà; distinguere ciòche vuole il popolo da ciò che vorreste voied arrestarvi subito che il popolo più nonvuole» (ibidem, p. 334). Vi è insomma «unvero per tutti, vi è un vero per molti, ve n’èuno per pochi. Tutti gli errori nostri di poli-tica son nati dall’aver voluto far divenireidee vere per tutti quelle che doveano esse-re vere per pochi» (Nuovi principi di ideolo-gia, 1803, in Cuoco, Scritti, I, p. 300). Se ècerto errato vedere in Cuoco il precursoredello storicismo e il padre del moderatismoconservatore risorgimentale – come puresi è fatto per tanto tempo (v. De Francesco)–, è anche evidente che egli inaugura unastagione politica nuova rispetto a quellagiacobina. La nuova nazione non si costrui-sce più estendendo a tutti la verità “vera”,

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ma manipolando il consenso collettivo(anche se “a fin di bene”) per assicurarestabilità ad un regime cui solo pochi parte-cipano fino in fondo (Di Ciommo, L’identi-tà). La struttura “a due piani” della nazio-ne italiana ha dato luogo ad uno sdoppia-mento istituzionalizzato del discorso poli-tico. Accanto al discorso della ragione set-tecentesca (che resta patrimonio esclusivodell’élite, se non proprio segreto, certoinaccessibile ai più) se ne consolida unaltro, questo sì destinato ad una fruizioneuniversale e pubblica, ma in realtà costrui-to ad arte dai «pochissimi savi» per con-durre gradualmente i «moltissimi stolti»verso quella modernità che questi ultimi,oggi, non sono in grado di accettare (Cuo-co, Platone, II, p 147).

Il risultato è la perdita di trasparenza e diautenticità dell’opinione pubblica, o megliol’archiviazione stessa del concetto nella suaoriginaria configurazione illuminista di agomagnetico della politica. Tale archiviazione,a sua volta, non può non travolgere tutto ilsistema rappresentativo, e con esso l’ideastessa di una legittimazione legal-razionaledelle istituzioni. Chi infatti chiamerà in con-creto a governare «quella parte [della nazio-ne] che per la superiorità della sua ragione èchiamata dalla natura a dirigerla»? (Cuoco,Saggio, p. 328). Evidentemente non i “mol-tissimi” di cui sopra, chiusi nell’orbita dellaloro piccole appartenenze, ai quali non si puòchiedere di comprendere il senso di unadimensione nazionale che li trascende com-pletamente. Per essi, la verità politica è almassimo quella dei vecchi “parlamenti” loca-li e dell’autogoverno comunale dei quali Cuo-co caldeggia il recupero nelle Lettere a Russo.Affinché al di sopra di questo livello paleo- emicro-politico possa prender forma una veranazione, bisogna introdurre un fattore ester-

no: ovvero, un potere già dato, illuminato elungimirante, che condivida il progettomodernizzante dei “savi” e fornisca loro lacattedra dalla quale esercitare la loro missio-ne pedagogica a beneficio di tutti gli altri.

Siamo così ricondotti ad uno scenarioanalogo a quello dell’assolutismo tardo-set-tecentesco: una società plurale ed inerte; unoStato “dato” e non “costituito” (in ultima ana-lisi, a fondamento carismatico-tradizionale);una élite partecipe sì dei valori della moder-nità, ma incapace di tradurli in atto senza lacomplicità statale. Il valore aggiunto dello Sta-to napoleonico consiste nel fatto che essoindividua come proprio fine non solo ungenerico svecchiamento sociale, ma soprat-tutto la costruzione di uno «spirito pubbli-co», di una «opinione comune predomi-nante»: intesa ora, nelle parole di FrancescoMelzi, come «quel consenso unanime nelsentimento della propria indipendenza che èprimariamente l’interesse sentito da tutti»6.

Contro questo sfondo prende dunqueforma la nazione napoleonica, articolatagrosso modo su tre fasce interne. La primadi esse corrisponde alla massa non accultu-rata «di chi campa col sudore della fronte»

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Palazzo Carignano, Torino

ed è perciò destinato «a non poter essergovernato che per sentimento»7. A questolivello l’integrazione si risolve – cuochiana-mente – in un progressivo e prudente disci-plinamento. Finita infatti la stagione delle«vuote frasi» e dei «palagi delle fate», èsoltanto ai «pochi che leggono» che si puòguardare come ai possibili fruitori imme-diati di un vero discorso politico8.

Ed è appunto questo pubblico di lettori,ancora incerto tra identità vecchie e nuove,che costituisce la fascia intermedia dellanostra nazione, quella che si tratta di «con-durr[e], quasi senza che se ne avved[a], alleidee che la [sua] nuova sorte richiede» permezzo della diffusione di una cultura pro-priamente italiana (Programma del GiornaleItaliano, in Cuoco, Scritti, I, p. 4). Infine, visono i depositari dei «veri principî socia-li», cui è affidato appunto, in collaborazio-ne con lo Stato, il compito di «risvegliarenegli animi de’ cittadini la dignità naziona-le da tanti anni […] avvilita» (Melzi, Memo-rie, I, p. 130), trasformando in «cittadini diuno Stato coloro che son nati abitanti di unaprovincia» (Cuoco, Programma).

Frutto di un ripensamento dell’espe-rienza rivoluzionaria che non merita il dis-prezzo per lo più riservatole dalla storio-grafia, questa costruzione sconta tuttavia inmodo evidente la contraddizione tra il biso-gno di una classe dirigente moderna e l’in-capacità di conferirle l’autonomia necessa-ria a dirigere alcunché. Il gruppo dei “savi”,infatti, non potendo appoggiarsi ad unasfera pubblica che attende di essere istitui-ta proprio da lui, è lasciato alla totale mer-cé dello Stato. Selezionato dall’alto, non permezzo della rappresentanza ma attraverso ilreclutamento burocratico, quel grupposconta la mancanza della condizione mini-ma per potersi accreditare come l’inter-

prete (e più ancora come l’istitutore) di unavera opinione nazionale: l’indipendenza dalpotere. Di qui, il dramma a cui va incontrola parte migliore dell’intellettualità italia-na negli anni napoleonici. Consapevole delformidabile valore agglutinante della paro-la scritta («più atta a diffondersi e perpe-tuarsi e immedesimarsi ne’ pensieri, nel-l’animo e nell’azioni d’ogni popolo […] diqualunque altra cosa terrena»), essa altempo stesso avverte acutamente la propriainadeguatezza ad amministrare una tale«facoltà onnipotente» a causa dell’ende-mico servilismo e spirito fazionale chesembra impregnare ogni suo comporta-mento9. La risposta è la fuga in un elitismosempre più esasperato, che rilancia edenfatizza – il riferimento a Foscolo è inevi-tabile – l’atteggiamento di sdegnoso rifiu-to alfieriano.

In conclusione. La nazione napoleonicanon può che vedersi nei termini di un uni-verso composito e frastagliato, incapace diesprimersi intelligibilmente con una voceunitaria. Essa è perciò costretta ad affidar-si alle cure di uno Stato concepito ancora alvecchio modo, come un altro da sé. A gran-di linee, è questo il profilo dello spazionazionale che emerge dalle costituzioni“ufficiali” del nostro periodo (le quali, purprive di ogni valore politico effettivo, assol-vono lo stesso ad una funzione importantenel quadro di quella pedagogia civile che ilpotere s’incarica di esercitare nei confron-ti dei propri sudditi).

Quei documenti, com’è noto, benché fra-seggiati in modo moderno, recepiscono tut-ti una rappresentazione neo-corporativa del-la nazione, in linea con gli spunti già emersiin tal senso nel corso del Triennio (e diver-samente dai coevi testi francesi, che restanofedeli, pur sotto la cappa della dittatura, ad

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un immaginario nazionale di tipo schietta-mente monista). Al contempo, però, la nostranazione avverte anche la parallela vocazionea porsi come un pubblico moderno, dialo-gante ed autoconsapevole. E sotto questo pro-filo essa non può non vagheggiare il proget-to di trasformarsi in un corpo politicamentedenso e omogeneo, capace di esprimere lasua autocoscienza politica attraverso i canalidi una vera rappresentanza. Per uscire dal-l’impasse, essa affida allo Stato la missione difar maturare questa sua embrionale identità,invitandolo ad aprire le porte dei suoi ufficia quegli “uomini dotti” in cui essa vede i pro-pri naturali istitutori. Una strategia forse sen-za alternative, ma certo spaventosamente fra-gile agli occhi dei suoi stessi ideatori. Dato unentropico pluralismo di base, escludente inradice «ogni specie di regime che suppongavolontà e concorso da parte della nazione»,è solo il carisma napoleonico che garantiscerealmente al paese «questa magica potenzadell’opinione» da cui esso attinge a sua vol-ta la propria provvisoria coesione10.

Popoli riuniti che non sono Nazione mai finché daun’altra dipendono, che non puonno sussisterein corpo di Stato senza l’appoggio esterno: appog-gio che non valutano perché non hanno né l’idea,né la volontà della propria sorte, e tutto ciò fon-dato sul pensiero di un uomo cui piacque che cosìfosse, garantito esclusivamente dall’esistenza d’u-na vita; e cos’è una vita?[Melzi]11

6. Verso il Risorgimento

La Restaurazione viene dunque a decretarela fine annunciata di una nazione che, nellastessa percezione delle élites, presentava unaconsistenza del tutto artificiale. Sotto questoprofilo, il progetto politico del 1814 – il

ritorno a un governo non solo senza costitu-zione, ma anche “senza pubblico”, cioè indi-sponibile a riconoscere un qualunque ruo-lo alla pubblica opinione – appare assoluta-mente ragionevole. D’altra parte, proprio laguerra aperta che gli Stati restaurati dichia-rarono all’opinione spinse quest’ultima adassumere (in controtendenza rispetto allesue naturali attitudini conciliatrici) unapostura sempre più contestativa rispetto alpotere, e dunque a scoprire poco per voltaquella nazione che essa recava in seno.

Com’è stato notato, in nessun momentodella storia d’Italia gli intellettuali si trova-rono così radicalmente emarginati dallo Sta-to come accadde nei decenni successivi allacaduta di Napoleone (Berengo, Intellettua-li). La drastica riduzione delle corpose buro-crazie francesi, e in certi casi lo smantella-mento d’intere capitali, riempì le città ita-liane di «migliaia d’impiegati ridotti a nonavere di che sfamarsi»12.

Di qui, non solo l’abbondante offerta diquella manodopera culturale a basso costoche assicurerà il decollo del mercato edito-riale italiano, ma anche la tendenza deinostri letterati a cercare rifugio nelle brac-cia di un pubblico al quale nel corso delperiodo precedente avevano guardato conassai maggior degnazione. L’«immensodesiderio di patria» che, come una «vampanel cuore»13, alimenta il nazionalismo del-le élites risorgimentali nasce probabilmen-te, prima che da ogni altro fattore, da que-sto bisogno d’integrarsi nel pubblico e disentirsi in comunione con esso nel momen-to in cui lo Stato rompe definitivamente ilpur ambiguo patto napoleonico, e chiude aiceti intellettuali ogni spazio di collaborazio-ne. È l’essenza stessa della Restaurazione,nel suo negare ogni valore al consenso razio-nale di derivazione rivoluzionaria, che

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costringe il pubblico ad intraprendere lafaticosa strada dell’emancipazione dallo Sta-to e a cominciare a vedersi come un attoreautonomo della politica.

E tuttavia, l’aver imboccato questo cam-mino non condurrà, ancora per molti anni,alla messa a fuoco di un modello di ordinedavvero alternativo rispetto a quello tradi-zionale. Per la Francia, gli anni dellaRestaurazione segneranno – pur nel con-testo di un dibattito teso e complesso – l’af-fermazione definitiva della nazione libera-le. La “paura del numero”, così tipica delclima del periodo, non impedirà di recu-perare in pieno il modello della nazionesovrana dell’89: precisando semmai unavolta per tutte che il vero sovrano non coin-cide con una somma casuale di volontàindividuali, ma col grande deposito della“ragione pubblica” giacente “in seno allasocietà”, di cui solo i più capaci sono i legit-timi scopritori ed interpreti (Rosavallon,Le moment). Nel coevo scenario italianomanca proprio, invece, la disponibilità ariconoscere la nazione come portatrice diun proprio, unitario volere. La pur pro-rompente affermazione emozionale diun’Italia naturale, «una d’arme, di lingua,d’altare», non si abbina per nulla, sul ter-reno costituzionale, ad una sua rappresen-tazione in chiave monista. Anzi, se c’è undato che sembra accomunare le maggiorifamiglie del nostro costituzionalismo pre-quarantottesco (eccezion fatta per quellamazziniana) è proprio la fedeltà ad unaconcezione plurale della nazione. Dai filo-napoleonici ai gaditani del ’20-’21, dai tan-ti filoni di anglofili a tutta la variegata tra-dizione neoguelfa, da Romagnosi a Rosmi-ni, da Santarosa a Balbo, la nazione è sem-pre pensata come un aggregato di altrecomponenti, siano esse gruppi cetuali,

assemblee di proprietari, corpi territorialio quant’altro.

«Unione di tutte le popolazioni che lacompongono» (come la definisce la costitu-zione napoletana del 1820), questa nazione èplurale, per forza di cose, anche nell’altrosenso, di non esprimere essa stessa lo Statoma di trovarlo di fronte a sé come una pre-senza originaria e già definita. Lo Stato pro-to-risorgimentale continua ad essere dato;non si incastra nel sociale, non nasce da esso,ma viene anzi presupposto come il necessa-rio puntello di una nazione mai davvero auto-sufficiente, e dunque mai autenticamentesovrana. Lo sguardo dei patrioti resta sempreansiosamente fisso sulla persona del sovra-no, «per scrutare e riconoscere nella suaopera i segni […] di un amico delle lettere edella libertà”(La Salvia, Il moderatismo, p.243). Di qui, non solo la scarsissima diffu-sione dell’ideologia costituente ma anche ilruolo attenuato della rappresentanza, a cui(secondo il lessico romagnosiano) si ricono-sce più la funzione di “assicurare” la confor-mità delle scelte statali alla varietà degli inte-ressi sociali che non quella di esprimere unavolontà politica primaria.

Un immaginario ambiguo, dunque,sospeso tra vecchie e nuove identità, e cheriflette fedelmente le debolezze stesse delpubblico che lo pensa. Se nei suoi manife-sti, infatti, l’intellettuale della Restaurazio-ne arriverà a contare “a milioni” i proprilettori emancipati, salutando in essi – colBerchet della Lettera Semiseria – il “popolo”della nuova nazione, la sua esperienza quo-tidiana è certo meglio testimoniata da chigli ricorda come «dell’opinione pubblicagl’Italiani […] non ne fa[cciano] alcun con-to», essendo loro quasi del tutto ignota ladimensione di quella «società stretta» (deicircoli e delle «conversazioni») che costi-

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tuisce invece lo specifico della nuova civil-tà europea (Leopardi, Discorso, p. 57). Illogoramento delle antiche fedi ha aperto leporte ad un individualismo esasperato chesembra addirittura spingere in una dire-zione opposta rispetto allo sviluppo di unanuova appartenenza nazionale; mentre ilgiornale stesso – simbolo universale dellasfera pubblica moderna – in Italia rischia diessere il veicolo di epidemiche «gelosie e dimiserevoli dissensioni provinciali»14.

In realtà, com’è noto, il pubblico italianoarriva a scoprirsi come potenziale attore diuna politica nazionale solo molto tardi, conl’inizio degli anni ’40 e l’avvio della grandeoffensiva moderata. La quale offensiva, peral-tro, si basa proprio sul progetto di renderecompatibile una moderna coscienza nazio-nale con il più scrupoloso rispetto del plura-lismo tradizionale della società. «Per avereil maggior appoggio possibile dell’opinionepubblica, era necessario adottare massimeche urtassero il minor numero possibile d’in-teressi» (D’Azeglio, Proposta, p. 5): ovvero,“massime” che consentissero d’integrareall’interno del nuovo pubblico-nazione il piùalto numero possibile delle vecchie apparte-nenze. Il problema delle “due Italie” vienequindi risolto sdrammatizzando quel conflit-to che aveva tanto angosciato le élites giacobi-no-napoleoniche, ed anzi denunciando ilcarattere illusorio del presunto dualismo illu-ministico tra modernità e tradizione. Senzaabdicare in niente al proprio carattere pro-gressista, la nazione dei liberi lettori sidichiara anche, allo stesso tempo, plurale elegittimista, cattolica e cetuale, localista eossequiosa delle gerarchie, fino a identifica-re l’essenza della italianità (secondo la dot-trina del Primato) in un’accettazione com-piaciuta delle proprie stesse arretratezze. Essaè uno spazio a cui si può accedere senza dover

lasciar fuori quasi niente di sé. Non più duenazioni, dunque, ma una soltanto: modernaperché finalmente autocosciente, ma per ilresto orgogliosamente antica e desiderosa diconservarsi il più possibile fedele a se stessa.

La nuova, esaltante scoperta della forzadell’opinione, che è la grande conquista delRisorgimento maturo, si combina così conuna sorta di agnosticismo istituzionale, chein definitiva identifica il tanto atteso riscat-to con la pubblica proclamazione dell’assio-ma per cui «l’opinione è oggi la vera padro-na del mondo: quando in una nazione tuttiriconoscon giusta una cosa e la vogliono, lacosa è fatta; e in Italia il lavoro più importan-te per la nostra rigenerazione si può far conle mani in tasca» (D’Azeglio, Degli ultimi casi,p.84). L’“essenza” dei governi liberi non stanell’una o nell’altra forma di governo, masemplicemente nella «pubblicità; e dovun-que sia questa essere a’ nostri dì libertà suf-ficiente» (Balbo, Delle speranze, p. 219).

Di qui, il miraggio di un Risorgimento cheavrebbe dovuto concludersi in un irenico tri-pudio di federalismi e di autonomie munici-pali, sotto lo sguardo di principi ansiosi sol-tanto di prestar ascolto ad un’eletta aristo-crazia di “scrittori ideali”(leggi: scrittori nondi fatti, ma d’idee), a loro volta capi ricono-sciuti della totalità dei loro concittadini. Invista della rinascita nazionale – rimarcavaGioberti nei Prolegomeni del Primato – «leconsulte e le ringhiere fanno meno a propo-sito degli scrittori accurati e profondi, chesogliono prevenire gli eventi, e penetrar col-lo sguardo assai più innanzi che gli altriuomini» (Gioberti, p. 260). Nel momento incui anche l’Italia giungeva così, alla fine, avedersi come una grande platea di lettoriintellettualmente autonomi, si riproponevadaccapo il vecchio mito settecentesco di unaopinione tanto forte ed univoca da imporre a

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tutti la propria naturale supremazia senzabisogno di alcun riconoscimento costituzio-nale. La nazione avrebbe potuto continuare avivere il proprio quotidiano nei mille luoghidella sua identità storica, lasciando che la suavolontà comune si decantasse nelle redazio-ni dei giornali, nelle pagine dei grandi pub-blicisti o – al massimo – in qualche ufficio dialta consulenza politica istituito a latere deltrono. La moderna sovranità del pubblico sisarebbe così sovrapposta senza traumi allaragnatela delle vecchie identità, senza met-tere in questione la natura intrinsecamenteplurale dell’ordine.

Il ’48 s’incaricò di sfatare questa facileillusione. Esso rivelò immediatamente comedietro alla metafora del “regno dell’opinio-ne” si nascondesse in realtà un bosco di opi-nioni confliggenti che la politica modernadoveva sforzarsi di ricondurre ad unità tra-mite l’unico strumento a ciò disponibile –quello costituzionale-rappresentativo –.

L’opinione pubblica avendo per unico reggitore ilgiornalismo non camminerà a lungo per la rettavia, sarà tratta spesso in errore, traviata da illu-sioni, spinta a pericolose esagerazioni […] – nota-va Cavour in un celebre articolo delle prime setti-mane dell’anno – Le grandi questioni politiche esociali, per essere chiaramente concepite, retta-mente intese dallo spirito pubblico, vogliono esse-re argomento di discussioni delle grandi istituzio-ni delle Stato, fatte poi di pubblica ragione.[da «Risorgimento», 15 gennaio 1848, inCavour, Gli scritti, I, p. 4]

A loro volta, tali istituzioni, per raggiun-gere il loro scopo, non potevano esser messeinsieme partendo da municipi e corpi pro-vinciali, alla maniera di quelle vecchie rap-presentanze cetual-proprietarie che costitui-vano ancora il modello pressoché esclusivodella pubblicistica prequarantottesca. Ciòavrebbe riprodotto al centro il caleidoscopio

dei particolarismi periferici, senza permette-re di distillare alcuna opinione veramentegenerale. La nuova nazione, in realtà, nonpoteva che esprimersi mediante un suffragioindividuale e diretto (ancorché così limitatoda sagomare un pubblico non molto più ampiodelle antiche aristocrazie cetuali); cioèmediante l’unico metodo che permette aipopoli di «esercitare tutti i diritti politici sen-za essere costretti a ricorrere al pericolosoespediente di dividersi in una moltitudine dipiccole associazioni» (da «Risorgimento»,12 febbraio 1848, in Cavour, Gli scritti, I, p.43). Per converso, tutti gli enti territoriali nonavrebbero più dovuto «costituire corpi poli-tici indipendenti», bensì pure e semplici arti-colazioni amministrative di un unico organi-smo istituzionale (ibidem). Improvvisamente,nel giro di pochi, brevissimi mesi, quellalibertà dei moderni che la cultura politica ita-liana aveva per tanto tempo o frainteso o con-sapevolmente espunto dal proprio orizzonte,si profilò così come la sola formula capace diospitare la nuova nazione autocosciente gene-rata dalla formazione della sfera pubblica.

Negli anni seguenti quella formula avreb-be dimostrato un’efficacia sbalorditiva,comunicando ai contemporanei la sensazio-ne che tutto lo sviluppo politico italiano simuovesse ormai lungo un piano fortementeinclinato; sensazione che ha poi contagiatoprofondamente la stessa storiografia istitu-zionale, inducendola a leggere anzi tutta l’e-sperienza risorgimentale, fin dai suoi esor-di, alla luce di un esito in qualche modo giàiscritto nelle sue premesse. La nostra velocecarrellata, in realtà, basta a dimostrare quan-to faticosa sia stata, in Italia, la marcia d’av-vicinamento alla nazione moderna e quantolegittimo sia lo sforzo di affrancare questonostro passato dall’ipoteca di ogni destinomanifesto. È anche vero però che, se il pro-

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cesso di costruzione nazionale riflette alme-no in parte quello della crescita del pubbli-co, la scelta cavouriana di istituzionalizzarel’opinione pubblica e di conferirle il postod’onore nell’ambito dello spazio costituzio-nale appare la più aderente alla logica inter-na di quel processo stesso. E ciò può aiutareforse a comprendere meglio il successo diuna politica che pure, osservata da altresponde, non cessa di lasciarci interdetti.

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Itinerari

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Mannori

271

1 La bibliografia sul tema è amplis-sima. Per un primo orientamen-to, L’opinion publique; Censer, TheFrench Revolution; Waquet, Qu’est-ce que; Chartier Les origines,cap.II; Farge, Dire; Gunn, Queen.

2 L’immagine, proposta nel Pareresull’Agide, definisce la repubblicaromana delle origini, ma evocaindirettamente anche l’immagi-ne della eroica comunità lettera-ria di cui Alfieri si sentiva inten-samente partecipe (Debenedetti,Vocazione, p.149 ss.)

3 Sismondi, Recherches, p.131. Iltesto a cui ci riferiamo (Recherchessur les constitutions des peupleslibres), destinato a rimanere ine-dito fino a noi, è stato commen-tato da Minerbi e Sofia.

4 Il cui titolo per esteso è Ricerchesulla validità dei giudicj del pubbli-co a discernere il vero dal falso; su diessa, Mannori, L’itinerario.

5 Il rapporto tra i due “giacobini-smi” attende ancora di essereadeguatamente ripensato – dopo

le tante pagine ad esso dedicate apartire dagli anni ’50 – alla lucedella ridefinizione della categoriaproposta dalla storiografia fran-cese (il rinvio d’obbligo è, natu-ralmente, a Jaume). Per un ripen-samento complessivo, invece,della storiografia sul giacobini-smo italiano, rinviamo a De Fran-cesco, L’ombra di Buonarroti.

6 Così nel messaggio della Consul-ta di Stato al Corpo Legislativodella neo-nata Repubblica Italia-na in occasione della prima con-vocazione di quest’ultimo, il 24giugno 1802 (Melzi, I Carteggi, II,pp.13-14).

7 In un appunto dei primi anni ’90che anticipa i noti atteggiamentidella maturità (Melzi, Memorie, I,p. 130).

8 Così nel 1803 Pietro Custodi, unodi quegli ex-giacobini che purenon rinnegarono mai la loro fedeoriginaria, nell’introdurre la suacelebre collana di classici dell’e-conomia (cit. in Criscuolo, Il gia-cobino, p. 344).

9 Così il Foscolo della Lettera apo-logetica, pp. 22-23. Lo scritto,composto negli anni ’20, riecheg-gia qui tuttavia il contenuto dellacelebre orazione pavese Dell’ori-gine e dell’ufficio della Letteraturadel 1809).

10 Lettera di Melzi a Talleyrand del16 maggio 1801, in Da Como, IComizi, I, p.152 e p.157.

11 Ancora Melzi, stavolta in unamemoria riservata dell’aprile1803 diretta a Marescalchi (Mel-zi, I carteggi, vol. IV, p.305; suldocumento ha attratto l’attenzio-ne Capra, La carriera, p.156).

12 Così il governatore austriaco diMilano Bellegarde nel 1816 (Spa-doni, Milano, I, p. 260).

13 L’espressione è di un Mazziniadolescente in una lettera a Ben-za del 1826 (Mazzini, Epistolario,I, p. 5).

14 U. Foscolo, La letteratura periodi-ca italiana, in Foscolo, Opere, XI,II, p. 368.

Come l’araba fenice

«Addotta talvolta come testimonio di fatto,talvolta come giudice, talaltra ancora comemaestra di verità, la pubblica opinione è unaautorità, di cui nessuno può facilmente defi-nire la vera competenza…. Tutti la invocano,ma ben pochi conoscono i segni e i caratte-ri per cui sicuramente riconoscerla…» (C. F.Gabba 1881, p. 25). Così l’“enciclopedico”Gabba, filosofo del diritto, civilista e “socio-logo” (v. P. Beneduce 1998, p. 821; S. Cinga-ri 2001, pp. 63-64) evidenzia – parlandodalla cattedra fiorentina del «Cesare Alfie-ri» – il carattere sfuggente di una “nuova”parola, di un concetto e di unacategoria-contenitore che a partire daglianni ’70 del XIX secolo ha iniziato ad attira-re l’attenzione di una composita schiera distudiosi italiani. Sulla stessa linea il costitu-zionalista Ignazio Brunelli – agli inizi delNovecento – afferma essere «non nuovo» iltema (1906, p. 8), offrendo un elenco di chil’ha già fatto oggetto di studî. «Ciò nonostante noi non sappiamo dire che cosa sia

realmente questa decantata pubblica opi-nione. Anzi ci è persino lecito chiederci serealmente essa esiste, o non sia piuttosto unnome vano al quale non corrisponda qualchecosa di concreto» (ibidem, p. 10).

Scipio Sighele, invece, trae dalla sostan-ziale indefinibilità del soggetto un motivoper spiegare lo scarso numero di analisi dis-ponibili (1899, p. 88). Nel 1895 AntonioTeso afferma che forse di nessun concetto siparla tanto quanto dell’opinione pubblica,divenuta ormai una vera parola “magica”, alpari di popolo, libertà, democrazia. Tuttaviase ne parla senza sapere bene cosa essa siae ciò «dipende […] dalla indeterminatezzadi significato delle parole del linguaggiopolitico, da cui proviene la varietà di sensiche ad esse si sogliono attribuire, ciò chenon può a meno d’esser causa di grandeconfusione» (1895, p. 6).

Questo dibattito italiano di fine secolo,sulle piste del moderno concetto di opinio-

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Per una teoria costituzionale dell’opinionepubblica. Il dibattito italiano (XIX secolo)*

luigi lacchè

giornale di storia costituzionale n. 6 / II semestre 2003

* Questo saggio anticipa, in forma embrionale, alcunidei temi che saranno oggetto di un lavoro monografico diprossima pubblicazione.

ne pubblica, non ha ricevuto finora unaparticolare attenzione. Pur non rivestendoun carattere di marcata originalità – anchese Franz von Holtzendorff (1880), peresempio, polemizza e dialoga a distanza conSaverio Scolari (1871) –, nondimeno indi-vidua una soglia concettuale assai stimo-lante per cogliere la complessa fenomeno-logia della pubblicità politico-rappresen-tativa in una fase di grande significato, tral’ottimismo della raggiunta istituzionaliz-zazione e i timori precoci per l’emergentedimensione della “crisi”. In tal senso, talestudio può offrire utili indicazioni di natu-ra anche metodologica in relazione aglioggetti e agli strumenti propri della storiacostituzionale (v. L. Lacchè 2003) e in par-ticolare al nodo essenziale che, attraversomille sfaccettature, consiste nel rapportotra la dimensione fluida del «linguaggiopolitico» e il difficile ma robusto cammi-no della formalizzazione giuridica.

Gli autori italiani fanno iniziare il loro“naturale” percorso ricostruttivo – quasisempre in maniera tralatizia – da scrittoricome Romagnosi o Sismondi. Senza doverriandare alle fonti inglesi e francesi del XVIIe XVIII secolo, se non per richiami indiret-ti e perlopiù stereotipati, recuperano più iltema settecentesco del “tribunale dell’opi-nione pubblica” che quello antico/modernodell’opinione ”regina del mondo” (v. W.Gunn 1995).

Attraverso Romagnosi si arriva più omeno consapevolmente a Filangieri e soprat-tutto alla fonte originaria, a Jacques Necker(v. L. Jaume 2003) e alla sua celebre rappre-sentazione di quel tribunale, consideratoanzitutto come figura retorica (v. K.M. Baker1993; S. Maza 1987), nel quale siede trion-fante l’opinione pubblica «invisibile ed ine-sorabile potenza, che senza tesori, senza

guardie e senza armate si fa ubbidire daimagistrati, dalle città, dalle nazioni, e giungea comandare persino nelle reggie» (G.D.Romagnosi 1849, p. 106). Non è casuale ilriferimento ai due autori citati: entrambi, purparadigmatici di due ben diversi approcci alproblema della monarchia costituzionale(rappresentativa), descrivono la fase di trans-izione dalla “retorica” dell’opinione pubbli-ca come istanza di giudizio propria dell’in-telligenza umana alla sua istituzionalizzazio-ne come “potere predominante” (di cui peròdiffidare in termini di validità) (Romagnosi;v. Mannori 2003), ma anche come fattorecivile, da far maturare e illuminare, e da met-tere in equilibrio con la «saviezza naziona-le», perché l’«…opinione instabile, passeg-gera e capricciosa, è un tiranno onde conviendiffidare non meno che d’ogni altro tiranno»(S. Sismondi 1839, p. 161).

Nella duplice analisi si intravedono ildover essere dell’opinione pubblica, fluidosenza il quale nessun governo costituziona-le, il governo dei moderni, può ben vivere eprosperare, ma anche i fattori concretissimidi degenerazione e di intrinseca relatività cherischiano di tramutarla in una inesorabilemacchina di conformismo se non di vero eproprio dispotismo della maggioranza. Nel-la seconda metà del secolo gli echi da JohnStuart Mill e da Tocqueville (v. J. Habermas2001, pp. 156 ss.; N. Matteucci 1980, p. 428)sono evidenti, ma saranno invece – lo sivedrà – autori come Bluntschli o Gneist adesercitare la più duratura e vasta influenza.

L’opinione pubblica sembrerebbe cosìbipartita, tra un’immagine razionale, colta,borghese, proto-liberale, omogenea eastrattizzante delle “origini” e una già criti-ca, segnata dalla rapida decadenza e dallacrisi incipiente dell’oggetto di analisi. C’èda chiedersi, tuttavia, quanto questa opi-

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nione pubblica – analizzata in Italia tra lametà dell’800 e gli inizi del ‘900 da autoritanto diversi per competenze e spessorescientifico – coincida, in che misura, inquali termini, con quali trasformazioni, conla public opinion o l’opinion publique diascendenza sei-settecentesca.

Come è stato giustamente osservato(G.Civile 2000) si rischia di passare da unasorta di “età dell’oro” (a sua volta ben lon-tana dal poter essere vista in termini di“unitarietà”) a quella di una rapida discesalungo il crinale della decadenza senza che sipossa ritrovare nei discorsi e nelle praticheun’accezione univoca di pubblico, o di sfe-ra pubblica (il modello liberale di una sferapubblica borghese), e tanto meno di opinio-ne pubblica (v. A. Cottereau, P. Ladrière1992; C. Calhoun 1996). «Nella nostra sto-ria preunitaria mancano tracce significati-ve di un fenomeno socialmente diffusocome in Inghilterra, politicamente dirom-pente come in Francia, o precocementeconcentrato sul tema della nazione come inGermania» (G.Civile 2000, p. 469).

Non si corre solo il rischio di leggere lavicenda italiana come inevitabilmente tardae “anomala”, ma anche di fare dell’opinionepubblica un fenomeno privo di valenza ana-litica. Recentemente il difficile rapporto tracostituzione e nazione, nel tramonto del-l’ordine plurale della “società di società” (acavallo tra il ’700 e i primi decenni dell’800),è stato acutamente osservato attraverso lalente offerta dalla nozione di pubblico (for-mato prevalentemente da lettori liberi eraziocinanti) e di opinione pubblica,mostrando le peculiarità, le impasses e certiparadossi della vicenda “italiana” (L. Man-nori 2003). Il Nachmärz nostrano imponeuna decisiva accelerazione – in termini dilinguaggi e di pratiche – ma non può che

muovere dall’enorme problema di ricon-durre il pluralismo delle “società” e delleopinioni entro un nuovo ordine, da legare inmaniera indissolubile ad un nuovo spaziopubblico costituzionale-rappresentativo,con al centro il ruolo cruciale, ma tutto dadefinire, di un’opinione pubblica nazionale.

A ben vedere il caso italiano, a partire dal-la metà dell’Ottocento – quando comincianoad essere riconoscibili elementi importantidi trasformazione (P. Pombeni 1994, pp. 82ss.) – senza poter essere caratterizzato da unfattore genetico “forte”, realizza un intrec-cio del tutto peculiare. La sua “opinione pub-blica” è al contempo problema di qualcheconsistenza sociologica, di sicura valenzapolitico-costituzionale e di indubbio rap-porto con il processo di Nation building. Nel-la formazione di una “sfera pubblica nazio-nale” convivono quindi elementi genetici efattori di transizione e di cambiamento.

Nel momento stesso in cui un’opinionepubblica “deve” prendere forma – comeautentica questione nazionale – identitàsociali e politiche, nuove rispetto al “model-lo classico”, si affacciano sulla scena, conspecifiche dimensioni pratiche e proprie retidi partecipazione e di controllo. Nella storiaitaliana, si potrebbe dire per semplificare,non c’è tempo per la piena esplicazione delmodello classico (individuato da Habermas),sia come mera trasposizione da un secoloall’altro, senza riconoscere cesure e muta-menti, sia come possibilità di universalizza-zione del modello.

In Italia convivono e si sovrappongonoquelle che in teoria potrebbero essere indi-viduate come singole “fasi”: la fase “ottimi-stica” dell’opinione pubblica intesa comeistanza “esterna” e superiore di giu-dizio-controllo; quella “interna” della rile-vanza “costituzionale” nell’ambito del siste-

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ma di governo rappresentativo (il cd. gover-no di opinione) (J.-Ph. Heurtin 1999); l’ul-tima, infine, che più rivela i fattori di ten-sione e di potenziale conflitto. Nei decenniindagati queste diverse caratterizzazioni for-mano un solo universo concettuale e coloroche ne fanno oggetto di studio ricorronospesso, non a caso, a differenti registri inter-pretativi, si tratti dell’osservazione sociolo-gica, dell’analisi politico-costituzionale, del-l’applicazione della teoria giuridica delloStato liberale, ecc.

È nel corso del XIX secolo che il discorsoacquista una vera dimensione europea,allorché il governo rappresentativo vienevisto naturaliter come governo di opinione ela libertà di stampa come strumento di pub-blicità, di trasparenza, di comunicazione edi controllo. «C’est dans l’art de conduirel’opinion, ou d’y céder à propos, que consi-ste la science de gouverner dans les tempsmodernes», aveva osservato Madame deStaël seguendo le orme paterne (1818, Chap.XIII, p. 174). Non bisogna però confonderel’idealizzazione politica del modello classico

dell’opinione pubblica con la storia stessadei modi, dei processi e dei circuiti di for-mazione e sviluppo della sfera pubblica inmomenti e contesti diversi. Certamente losviluppo ottocentesco di sistemi politici atendenza parlamentare contribuisce a ride-finire la soglia concettuale tra pubblico e pri-vato generalizzando le forme di articolazio-ne del rapporto tra lo Stato e la società civi-le. Il luogo del dibattito istituzionalizzatoperò si deve via via confrontare con nuovisoggetti, attori, parole d’ordine, discorsipolitici, pratiche sociali che rivelano unanozione più ricca di opinione pubblica.

Tentativi tipologici

L’assunto della indeterminatezza e dell’in-definibilità dell’opinione pubblica non solonon dissuade dal proporre definizioni maper certi versi finisce coll’alimentare unavera e propria “sfida” lessicologica. I variautori si provano a coglierne i contorniessenziali, non dopo aver discusso e ricu-sato le opinioni altrui. Se non è facile indi-viduare tipologie e modelli, sembra tutta-via utile cercare di raggruppare le varie tesiricostruttive sotto alcune “categorie” prin-cipali, senza ovviamente escludere che inmolti casi sarebbe possibile operare ulte-riori accostamenti se non riscontrare veree proprie sovrapposizioni.

Opinione illuminata/opinione mediocre. Ilvero e il fallibile.

Sotto questa dizione possiamo far rientrare,in realtà, vari atteggiamenti. Più che le soleradici illuministiche del XVIII secolo, si

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Redazione giornalistica, primi del Novecento

scorgono qui i caratteri dell’approccio libe-ral-aristocratico (per es. A. S. Kahan 2001).Il “discorso della capacità” – uno dei cardi-ni della cultura liberale ottocentesca su sca-la europea – è il principale metro di valuta-zione. Il pericolo del numero e il modo con-seguente di articolare e praticare la politicarappresentano gli spettri di un’opinionepubblica come potere delle masse. JohnStuart Mill, lettore di Tocqueville e di Wil-helm von Humboldt, parla di “governomediocre”, di spirito di conformismo e diuniformità, di un’Europa nata dalla diversi-tà di carattere e di cultura, che ora peròrischia di «diventare un’altra Cina» (1890,p. 67).

Questa opinione pubblica già governa lesocietà e si avvia a predominare nell’augu-sto recinto degli Stati. La fede nel progres-so e nella ragione sembra cedere all’imma-gine ossessiva della società polverizzata, ato-mistica, senza più legami e doveri di obbe-dienza. Il problema della maggioranza rap-presenta solo una faccia della medaglia: nel-l’altra c’è quello speculare delle minoranze.«Non vi sono più poteri abbastanza autono-mi ed indipendenti, che avendo il coraggiod’opporsi alla forza numerica delle maggio-ranze, possano prendere sotto il loro patro-cinio e la loro salvaguardia le opinioni e letendenze che sono in minoranza». «…ilcontrappeso e correttivo necessario di que-sta tendenza dovrebbe essere l’individuali-tà sempre più spiegata e decisa dei grandipensatori» (ibidem, pp. 61-62, 68-69).

I pericoli del governo di maggioranzasono presenti nella pubblicistica italiana (v.anche L. Fracassetti 1893, p. 6), basti pen-sare ancora una volta alla recezione dell’ul-timo Sismondi (l’opinione pubblica espri-me «più i sensi e le opinioni dell’aristo-crazia intellettuale, che quella della demo-

crazia», 1839, p. 110) o ai timori manife-stati da un Luigi Palma: a chi chiedere pro-tezione per le minoranze? «Alla stampa? Èdominata dalla maggioranza. All’opinionepubblica? È formata dalla maggioranza»(1885, p. 36). L’opinione pubblica è nondi-meno fondamentale per l’esistenza delgoverno rappresentativo. Ma – come avevaosservato il Bon-Compagni, in uno dei piùimportanti incunaboli del costituzionali-smo liberale italiano, – un conto era l’opi-nione “volgare” (le passioni non tempera-te dalla ragione e dalla riflessione sono vol-gari), apparente, licenziosa, un conto quel-la “vera”, imparziale, libera, illuminata,perseverante (1848, pp. 68 ss.). Se l’opi-nione pubblica e i partiti, in quanto feno-meni sociali, sono il risultato della coope-razione intellettuale di molte persone,«hanno però e devono necessariamenteavere il loro primo germe e il primo impul-so in pochi individui, e talvolta persino inuno solo». Anche nel campo politico l’opi-nione pubblica ha bisogno del concorso deimolti e dell’iniziativa dei pochi (C.F. Gab-ba 1881, pp. 89-90).

In tal senso, ritorna il problema del“governo delle opinioni”. L’uomo di Stato èspesso invocato come il migliore interpre-te dell’opinione pubblica. La posizioneinfluente di Gneist rafforza questa idea, sul-la scia di Hegel che lascia al politico il com-pito di riconoscere l’opinione, altrimentinon determinabile dallo scienziato chedovrà limitarsi ad additarne genesi, svilup-po, valore ed organi (v. la critica di L. Min-guzzi 1893, p. 30 e le osservazioni di I. Bru-nelli 1906, p. 23). Se gli scrittori inglesisono visti per lo più come fautori dell’opi-nione pubblica, «Tra i tedeschi, invece, especialmente tra i seguaci della teoria delcosì detto “governo giuridico”, annoveria-

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mo i più focosi avversarii» (I. Brunelli 1906,p. 34). Von Gneist in particolare mostra ditemere una società che difetta di “senso giu-ridico” (v. K. Luig 1992, pp. 23-24). Se lespinte egoistiche che guidano l’individuonella sfera privata venissero lasciate a sestesse ne nascerebbe un tale caos «che niu-no potrebbe supporre che un re od un mini-stro possa lasciare il Governo alla somma dicodeste idee, ossia all’opinione pubblica» (R.von Gneist 1891, p. 1277; v. le osservazioni diI. Artom 1891, p. 1135).

Se la società deve quindi organizzarsi edisciplinarsi mediante organi universal-mente riconosciuti dalla cultura liberalecome “fattori” dell’opinione pubblica(stampa, associazioni, elezioni, partiti poli-tici), nondimeno lo spettro della parzialità edel conflitto appare essere un ostacolo allapiena affermazione del Rechtsstaat. Lo “Sta-to giuridico”, specialmente nella sua vestedi Stato fondato sull’amministrazione, rap-presenta il più grande tentativo compiutodai giuristi europei (con importanti artico-lazioni italiane) per costruire un modello digoverno della società prevalentementeanti-democratico (nel senso ottocentescodel termine), riducendo al massimo attriti etensioni e salvaguardando una determinataidea di ordine politico-giuridico (per tuttiv. F. Tessitore 1988; M. Fioravanti 1979 e2001). Giorgio Arcoleo individua la debo-lezza dell’opinione pubblica nella sua stes-sa natura: essa obbedisce all’impulso,«manca di limiti, di responsabilità, di leg-gi…» (1907, pp. 121-122).

Il tema antichissimo della fallibilità del-l’opinione – che i filosofi contrappongonoa ragione – attraversa per intero questoindirizzo e dalle pagine di Gneist eBluntschli, pur con profonde differenze,s’afferma in Italia con echi e segni eviden-

ti. Se tuttavia l’opinione non è in sé infal-libile, se oscilla, se il suo giudizio è spessoformato senza che ci sia una vera cono-scenza delle cose, se può essere turbata dapassioni e condotta ad arte all’errore, restapur sempre un’importante forza morale conla quale fare i conti.

Bluntschli la considera «La più grandeforza extraufficiale, la di cui influenza finda un secolo nel mondo civilizzato è sicura-mente aumentato… Anche i suoi dispre-giatori non possono negare la sua potenza,e qualunque uomo di Stato moderno è nel-la necessità di dover calcolare questa “nuo-va grande forza”» (1879, p. 154). «Perciòl’uomo di Stato non deve dispregiare lapubblica opinione, quantunque non sem-pre l’approvi. Egli deve averle riguardo nonper la sua verità ma per la sua forza. Eglideve adoperarsi d’illuminare la pubblicaopinione quando gli è contraria per pre-giudizî, e correggerla quando è erronea»(ibidem, p. 156).

Proprio gli uomini politici, gli statisti,sono considerati “coefficienti” dell’opi-nione pubblica, come dimostrerebbero gliesempi relativi al barone von Stein in Ger-mania, a O’Connor in Irlanda, a Cavour inItalia (A. Teso 1895, p. 21). Anche quando lacriticano, i grandi ministri gli rendonoomaggio, come nel caso di un Peel e soprat-tutto di un Bismarck. Cavour ne sarebbeinvece il perfetto interprete, capace di pre-parare il terreno, di guidare l’opinione.«Lo stato costituzionale deve essere neces-sariamente in armonia colla pubblica opi-nione, senza alcuna cieca subordinazione,senza alcuna illimitata soggezione. Camil-lo di Cavour la tenne costantemente comela sua bussola, e la seguiva quando la sti-mava giusta od era necessario seguirla» (A.Brunialti 1896, p. 330).

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Cesare Balbo definisce i grandi uominidi Stato «macchinisti del sistema rappre-sentativo, i quali l’abbiano governatosapientemente a pro della nazionemostrandosi giusti e perspicaci estimatoridell’opinione pubblica e forti guidatori diessa» (1857, p. 245). Il governo di gabinet-to (allorché si realizza o pare realizzarsi),considerato dal punto di vista dell’opinio-ne pubblica, appare così come il tentativo dimediare tra la spinta “democratica” dellamaggioranza e la conservazione dell’indivi-duale, delle superiorità sociali, del princi-pio di designazione-selezione nel determi-nare l’inevitabile prevalenza dei migliori edei più capaci.

L’opinione e il ceto medio

Ma governare l’opinione significa perBluntschli aver coscienza del fatto che essanon è né l’opinione dei detentori del poterené quella dei sapienti. «Essa è principal-mente la opinione delle classi medie, le qua-li si permettono un giudizio indipendente ecomunemente lo esprimono. Essa si formanella società, nello scambievole commerciodegli uomini…» (1879, p. 155). Questa posi-zione però non va esente da critiche. Lo stes-so Bluntschli – secondo l’Holtzendorff –aveva sfumato la sua teoria in Die Politik alsWissenschaft (1876) rispetto alla voce pub-blicata nel 1862 nel Deutsches Staats-Wörter-büch diretto dallo stesso giurista zurighese eda Brater (vol.VII, pp. 345-347).

La classe media non appare il crogiuolo«in cui si fondono i sentimenti troppo raf-finati delle classi superiori con gli istintimateriali e rozzi dei ceti più umili, come ilpunto d’incontro che raccoglie i suoi ele-

menti da ambedue le parti, come la risultan-te meccanica di un sistema di forze» (L.Minguzzi 1893, pp. 24-25). Inoltre, cosìfacendo, Bluntschli non avrebbe fatto altroche spostare il centro di manifestazione del-l’opinione pubblica, trasportandolo dal cetodei dotti al ceto medio in quanto tale nonrappresentativo dell’intera società (I. Tam-baro 1904-1908, p. 851). Inoltre «mentre ilgiudizio dell’elemento dotto e intellettualedella società sarà generalmente obbiettivo espassionato, altrettanto non potrà dirsi delgiudizio del ceto medio che sarà animato dal-l’interesse proprio» (I. Brunelli 1906, p. 19).

Questa discussione – che rivela tra l’altrol’enorme difficoltà di dare una risposta ade-guata al problema della legittimazione delleclassi dirigenti – fa parte del tentativo italia-no, tipicamente eclettico, di ritrovare inmodelli stranieri, presunti o reali fattori diorganizzazione organica e coesiva nel rap-porto Stato/società. Si pensi per esempioall’insistenza – spesso con speculare inten-to polemico nei riguardi del “modello fran-cese” (L. Lacché 1998) – con la quale sirichiamano le forme di governo/controllodelle società locali in Inghilterra per operadella mitica gentry. O ancora al modello tede-sco della scienza (Deutsche Wissenschaft)come “fattore costituzionale” e al Bildung-sbürgertum come insieme di ceti chiamati adirigere i processi di edificazione e di svi-luppo nazionale (P. Schiera 1987; R. Gherar-di 1993; A. Mazzacane-C. Vano 1994).

Basti ricordare l’influente concezioneelaborata da Gaetano Mosca incentrata sul-l’immagine di una “classe media” colta, nuo-va “aristocrazia” capace di assumere attiva-mente la funzione egemonica di “classe poli-tica” e di rappresentanza istituzionale. Sel’opinione pubblica deve fondarsi sul con-senso più generale ed essere stabile, «deve

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avere [anche] per suo natural fondamento lacultura, la capacità a giudicare di una datacosa. Abbiamo troppo dimenticato la cultu-ra, la capacità, il sapere come fonte di dirit-to…» (G.A. Pugliese 1898, p. 10).

L’opinione e la tirannide borghese

La parzialità è anche l’argomento che spin-ge Pietro Ellero a parlare di un’opinionepubblica fittizia, strumento ulteriore dellatirannide borghese. Essa è l’opera di un ceto«sopraffattore», «non è già ispirata dalladottrina e dalla speranza de’ savi, che sonoda essa derisi; né sopra tutto manifesta ilsentimento intimo e reale della nazione, chene subisce il fascino senza parteciparvi»(1879, pp. 420-421). Attraverso il monopo-lio della stampa e in particolare del mezzosuo più efficace, il giornalismo politico, siattua la direzione del pensiero nazionale erisiedono qui «… gli autori dell’opinionepubblica; la cui genesi, se si volesse rintrac-ciare, non è altro, che un bisbiglio de’ croc-chi borghesi». In tal senso, la conquistadell’opinione «è una condizione essenzia-le di vita delle dominazioni borghesi e del-le monarchie costituzionali».

La folla, il pubblico e l’opinione

Per Scipio Sighele l’opinione pubblica siimpone anche quando non è formata dal con-senso più generale delle menti colte di unpaese (R. Bonghi 1873, p. 444; G. A. Puglie-se 1898); inoltre anche il pensiero dei savipuò essere figlio di un’impressione improv-visa, erronea o rettificabile (e adduce come

esempi l’influenza dell’opinione pubblicadopo la sconfitta di Adua e il mutato atteg-giamento nell’affaire Dreyfus). Ciò che con-ta è studiare il modo in cui essa si forma «eda quali strane e oscure leggi psicologiche ègovernata» (S. Sighele 1899, p. 93). Nel 1898Gabriel Tarde aveva pubblicato un saggio suLe Public et la Foule e in contemporanea (dis-putando però sul primato) Sighele (e l’ag-guerrita pattuglia di positivisti italiani) stu-diano in maniera analitica ogni forma dimanifestazione collettiva.

Per vari aspetti, un autore come Sighelesancisce il definitivo passaggio dell’opinio-ne dalle concezioni liberal-aristocraticheall’approdo “massificato”. Nell’antichità esi-stevano folle ma non pubblici. Era stata larivoluzione della stampa a far nascere unpubblico, ovvero individui legati, anche adistanza, da un’idea e da un sentimentocomuni, cioè da una invisibile coesionementale. Se per Sighele (1897) e per Gusta-ve Le Bon (1895) la loro è un’epoca contras-segnata dalle folle, per Tarde si dovrebbeparlare di un’«era dei pubblici». Se la follaè un organismo semplice, barbaro, atavico,il pubblico è una collettività civile e moder-na. Tuttavia secondo Sighele folla e pubbli-co in realtà convivono, potendo l’una ele-varsi, l’altra degenerare. E ancora una voltala stampa e il giornalismo possono sugge-stionare, plasmare, guidare il pubblico ver-so obiettivi e “oggetti d’odio” (caso Dreyfus).

L’opinione pubblica e la coscienza popolare

Per superare l’impasse rappresentata dalla“parzialità” di ogni concettualizzazione del-l’opinione pubblica, è nel riferimento allacoscienza popolare – e in buona misura al

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paradigma savigniano – che si cerca di tro-vare una via di uscita. Se la legge deve esse-re l’espressione organica della società, qua-le sarà l’organo universale capace di inter-pretare la coscienza giuridica della nazione?Per Saverio Scolari non potrà che essere latanto disputata opinione pubblica. Essa èinfatti di tutti e di nessuno allo stesso tem-po. «Né v’ha dubbio che concorrano a for-marla tutti i membri della società; perché,qualunque sia la coltura e la operosità di unindividuo, egli agisce sulla mente e sull’ani-mo di chi lo avvicina o gli sta d’intorno…»(1871, pp. 702-703). L’opinione popolare èquindi adattissima all’ufficio legislativo. Lalegge non può essere fatta ad arbitrio dell’u-na o dell’altra parte della società. «Dondel’avvertimento… che siano aperte tutte levie, tutti i modi consentiti e protette tutte leazioni, per le quali i cittadini possano con-tribuire alla formazione e allo svolgimentodi questo poderoso organo dell’autorità poli-tica» (ibidem, p. 705). Scolari individua trefattori legislativi (opinione popolare, ele-zione, deputazione) come momenti di unprocesso unico. Negli Stati liberi il Parla-mento non possiede la potestà legislativa maesercita piuttosto una speciale funzione.

Come è noto, è Vittorio EmanueleOrlando lo scrittore che in Italia elabora inmaniera compiuta la teoria dell’atto legisla-tivo come atto “esterno”. Il diritto nondipende da una mera manifestazione divolontà. Applicando l’insegnamento savi-gniano, Orlando ritiene il diritto una«manifestazione organica della vita deipopoli». Il diritto, che vive nella profondi-tà e nella dimensione temporale, è “popo-lare” o non è; esso è obiettivamente frutto diinvenzione, di scoperta, mai di “creazione”.Di conseguenza anche la legge in senso pro-prio non è che una “forma”, poiché il “con-

tenuto” «non è opera di alcuna assemblea,né di alcun altro potere politico» (V. E.Orlando 1886, p. 377. V. anche V. E. Orlan-do 1912, pp. 175 ss.). L’assemblea agiscecome organo dello spirito pubblico «ed èuna qualità che divide con le altre forme concui la “pubblica opinione” fa sentire la suavoce…» (ibidem, p. 378). Nell’ambito dellateorica della “resistenza legale” Orlandoconsidera l’opinione pubblica («come sidice con frase non bella ma oramai impostadall’uso») il principale mezzo morale diresistenza popolare. «Nel suo più alto signi-ficato, essa esprime la migliore e più genui-na manifestazione dello spirito pubblico;essa è la viva voce della comunità e cometale, forma l’inevitabile fondamento di ognigoverno, anche se rigorosamente dispoti-co» (V.E. Orlando 1890, p. 1110).

L’opinione pubblica è dunque unamanifestazione, pur discussa e discutibile,«dell’esistenza effettiva d’una volontàcomune» (V.E. Orlando 1905-06, p. 433).L’opinione, che «…risponde alla coscien-za politica ed alla teoria della sovranitàpopolare, si fa valere di per sé, indipenden-temente dalla elezione» (ibidem, p. 524). Laconcezione popolare della legge e il ruoloorganico dell’opinione pubblica comeespressione dello spirito pubblico, “inter-media” tra la coscienza popolare e l’inter-vento positivo della scienza (V.E. Orlando1886, p. 378) rappresentano, come vedre-mo, profili importanti nella costruzionegiuridica del governo rappresentativo (M.Fioravanti 2001, pp. 77 ss.).

L’Holtzendorff nel 1879 aveva criticato loScolari per aver ridotto ad una stessa cosa «laopinione del popolo e la sua coscienza giuri-dica» (S. Scolari 1892, p. 135). Secondo Sco-lari se una differenza esiste, essa concerne laforma attraverso la quale si manifestano ma

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non l’oggetto. «La teoria politica della opi-nione pubblica proietterà la sua luce su quel-la della coscienza giuridica del popolo; lequali teoriche si potranno distinguere bensìl’una dall’altra, ma sono intimamente legateper le sostanziali relazioni dei loro obietti»(ibidem, p. 172). Del resto il nesso tra con-suetudine e opinione pubblica viene egual-mente evidenziato. «La consuetudine rap-presenta la voce della coscienza popolarenella vita giuridica, l’opinione pubblica nel-la vita politica… Il diritto consuetudinariopuò trovare nella pubblica opinione in virtùdella stessa comunione di origine, un aiutopotentissimo, cioè la forza senza cui l’ideastessa di diritto è inconcepibile» (A. Longo1892, pp. 44-45). Non è un caso che la defi-nizione più ricorrente dell’opinione pubbli-ca sia quella tratta da Erskine May, si riferi-sca alla “mitica” costituzione inglese e in par-ticolare alla fondamentale condizione chedistingue la libertà inglese dalla democrazia:

La pubblica opinione è espressa non dal coro cla-moroso della moltitudine, ma dalle voci misuratedi tutte le classi, di tutti i partiti, di tutti gli inte-ressi. Essa è dichiarata dalla stampa, dalla borsa,dal mercato, dal circolo, dalla società intera. Essaè sottoposta ad altrettanti freni e contrappesi comela Costituzione medesima; e più che la volontàpopolare, rappresenta la coscienza nazionale. [1866, p. 294]

La ricerca di un’opinione pubblica gene-rale, stabile, nazionale, su fatti o personeche abbiano attinenza ad un pubblico inte-resse è alla fine il principale terreno diincontro (per es. C. Bon-Compagni 1848, p.78; G.D. Romagnosi 1849, p. 105; A. VillaPernice 1891, p. 189; L. Minguzzi 1893, p.30; A. Brunialti 1900, p. 845; I. Tambaro1904-08, p. 852). Si tratti della coscienzapopolare o della coscienza nazionale, ilrisultato non cambia in maniera decisiva.

Quel richiamo a Erskine May – a un’opinio-ne pubblica made in Great Britain, «che nonè il numero, che non è la legge, che non è laforza, ma l’assieme di tutto questo…» (A.Brunialti 1881, p. 363) – tuttavia rivela unaquestione dirimente: le eminenti qualitàpolitiche del popolo inglese, «che altripotranno imitare da lungi, ma giammai rag-giungere» (A. Brunialti 1886, p. XCIII).

Per una teoria dell’opinione pubblica nello Sta-to costituzionale

Un problema fondamentale è quello checoncerne la natura dell’opinione pubblica,ovvero in quale misura sia un fenomenosociale, politico o giuridico. Livio Minguzzisi ripromette di studiare l’opinione – ana-lizzata per lo più dalla scienza sociale – nel-l’ambito dello Stato costituzionale (1893, pp.6-7). Saverio Scolari, invece, a differenza deifilosofi, non considera l’opinione pubblicadal punto di vista del problema della com-petenza e della credibilità, bensì lo esaminacome forza politica, indifferente quindi alvero e al falso, al bene e al male (1892, p.135). In tal senso ritiene The American Com-monwealth di James Bryce (1888) il miglio-re esempio di analisi condotta secondo iprincipi della scienza politica (A. Laquièze2003).

Naturalmente i postulati del metodoorlandiano, della distinzione/armonizzazio-ne tra ordine giuridico e ordine politico,hanno nel frattempo lasciato il segno e unconcetto-soglia come quello di opinionepubblica non può non suscitare un partico-lare interesse. Il costituzionalista Minguzzicerca di “integrare” l’opinione pubblica nelsistema di governo rappresentativo. Non la

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si può considerare – come fa la «scuola delgoverno giuridico» e Gneist in particolare –l’antitesi del Rechtsstaat, sancendo l’assolu-to divorzio tra l’opinione e il governo delloStato. In realtà non c’è un’opposizioneinvincibile tra l’organismo costituzionale«ed un’equa prevalenza dell’opinione pub-blica. Il vero problema è fissare i limiti delpotere dell’opinione pubblica nel governocostituzionale» (1893, p. 54). Voler darecarattere e valore giuridico allo Stato costi-tuzionale è una tendenza «a noi venuta dal-la Germania, ove ha in certo modo un carat-tere di opposizione e di resistenza alle ideedemocratiche…» (ibidem, p. 135), e produt-trice di alcuni effetti benefici, ovvero reagi-re contro l’eccessiva indeterminatezza deiprincipi del governo costituzionale e l’illi-mitata ingerenza delle maggioranze. Tutta-via, identificando opinione pubblica evolontà nazionale, Minguzzi concepisce loStato costituzionale come diverso dallo Sta-to di diritto poiché si basa non solo sulla leg-ge ma anche sul consenso continuo dei cit-tadini. «…lo Stato costituzionale … per sod-disfare veramente e pienamente alla propria,deve rendere anche conto continuamente aicittadini dell’opera sua e meritarsene l’ap-provazione» (ibidem, p. 108). Se l’ opinionepubblica «non può entrare nell’ordine giu-ridico di uno Stato», non per questo deveessere esclusa «dagli elementi veri e propriidello Stato costituzionale» (ibidem, p. 133)che non esiste senza un vero regime di pub-blicità e di discussione.

Resta il problema dell’uso dei concettipolitici, che «non possono avere il rigoreche è proprio del diritto». Ma se non tuttii principî – si chiede Minguzzi – possonotradursi nel dato statutario, «cessano for-se per questo di essere veri e proprii ele-menti costitutivi del governo rappresenta-

tivo?». Forse che in ogni trattato di dirittocostituzionale non si prenda sul serio l’a-zione dei partiti? «Lo stesso avviene del-l’opinione, che sebbene incapace diespressione giuridica, non è meno per que-sto un vero e proprio elemento costitutivodello Stato costituzionale» (ibidem, p. 136).Il rapporto tra il governo e l’opinione nonpuò essere tradotto in determinazionilegislative, ma forma pur sempre un con-cetto dotato di un vero contenuto giuridicoe fonte di una norma necessaria e perma-nente (ibidem, p. 137).

L’opinione pubblica tra diritto e politica: pote-re, forza, influenza

L’opinione pubblica – è convinzione comu-ne – esercita una grande influenza, è indu-bitabilmente una forza politica, ma è, di più,un “potere”? L’approccio “materiale” dellascienza politica e la stessa opzione metodo-logica del diritto costituzionale tornano adaffrontarsi. Potere preponderante perRomagnosi, forza extra-ufficiale perBluntschli, potere di governo per Bryce, l’o-pinione pubblica sembra potersi conquista-re una posizione istituzionale.

Per Vittorio Emanuele Orlando, tuttavia,se è bene avere coscienza dell’opinione comeforza politica (e lo scrittore siciliano, specieagli inizi, è assai attento al concetto di forzaquale fattore istituzionale), come uno deimezzi morali di resistenza collettiva, nondi-meno è errato ritenere che possa annove-rarsi a vero potere dello Stato, giacché ciònecessita di organizzazione giuridica (1890,p. 1112). Altrimenti si annacqua «il concet-to di potere pubblico, la cui caratteristica è ilmanifestarsi in un pubblico istituto…» (1905,

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p. 75). Di diverso avviso – e non fa meravi-glia – è Attilio Brunialti. Per il costituziona-lista vicentino l’opinione pubblica è – acominciare dalla Gran Bretagna – «un veropotere dello Stato, che agisce in modo orga-nico al pari degli altri, e determina quell’in-tima unione tra il parlamento e il paese, cheè scarsa o manca nel continente d’Europa»(1896, p. 329). Il fatto che non possa assu-mere espressione giuridica non è decisivo; è,come dice il Minguzzi, «un vero e proprioelemento costituzionale ordinario». Il pas-so è breve per farne un potere dello Stato,insieme ai tre poteri classici e a quello elet-torale. Ignazio Tambaro, discutendo le tesidi Minguzzi e di Brunialti, nega infine talecarattere. «L’opinione pubblica, adunque,unitamente alla pubblicità e ai partiti politi-ci, costituisce il complesso degli elementicioè che hanno una base evolutiva, diretta adagevolare l’azione degli elementi giuridici,che sono, alla loro volta, costitutivi»(1904-1908, p. 853).

L’opinione pubblica nel regime rappresentativo

È stato probabilmente Benjamin Constantl’autore continentale che, nel XIX secolo, hameglio compreso l’essenza dell’opinionepubblica («pouvoir représentatif de l’opi-nion») nella teoria liberal-costituzionale,valorizzando il circuito pubblicità-libertà distampa-governo d’opinione. «L’opinionpublique est la vie des Etats. Quand l’opi-nion publique ne se renouvelle pas, les Etatsdépérissent et tombent en dissolution» (B.Constant 1806, p. 137). In Italia i primiscrittori costituzionali seguono tale viaidentificando l’ordine rappresentativo conla preponderanza del giudizio dell’opinione

pubblica in tutte le cose relative al governo(C. Bon-Compagni 1848, p. 65).

Il sistema costituzionale funziona quan-to più c’è equilibrio e sintonia tra le istitu-zioni e l’opinione pubblica. Come si è giàvisto, l’uomo di Stato non può ignorare i motidell’opinione, quali essi siano, anche se nondovrà riceverli passivamente. Il governocostituzionale è forte se procede in pienoaccordo e in armonia con l’opinione pubbli-ca (per es. P. Peverelli 1849, p. 88; D. Carut-ti 1852, p. 242; M. Minghetti 1881, p. 633; L.Minguzzi 1893, pp. 56 ss.). Romagnosi –ampiamente citato – ricordava il legame trala legge, il governo e l’opinione. «Quandol’opinione pubblica precede il governo, laesecuzion della legge riesce pronta e com-pleta» (1849, p. 108). Diversamente tra lalegge e la sua applicazione si produce unadistanza che deve essere riempita con «ideeintermedie». Nella pubblicistica italiana lospecchio nel quale gettare lo sguardo è lacostituzione inglese. Nell’isola l’enormeinfluenza dell’opinione «coincide col defi-nitivo prevalere del governo parlamentare(fine del secolo XVIII)» (V.E. Orlando 1890,p. 1113). Il governo rappresentativo è anzi-tutto «un governo a base di discussione e dipubblicità…» (1895, p. 449). Per Minguzzil’opinione pubblica (come coscienza pub-blica) è la trama sulla quale lo Stato costitu-zionale ordisce la sua opera quotidiana econtinua. «Perciò è presente in tutti i singolimomenti della sua operosità, involge,abbraccia, investe interamente il regimecostituzionale; non vi è parte, non vi è atto diesso in cui questo elemento non debbaentrare» (1893, p. 90). Se il sistema rap-presentativo può essere paragonato ad unamacchina – aveva osservato Cesare Balbo –,allora l’opinione pubblica ne rappresenta ilvapore (1857, pp. 244-245).

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La presenza dell’opinione pubblica nelgoverno costituzionale viene riscontrata indue ambiti principali: da un lato come«intervento legale… chiamata a terminarele contese de’ poteri costituzionali e adesercitare il suo legittimo impero» (L.Minguzzi 1893, p. 92), dall’altro comeinsieme di organi e di “fattori”. Le crisiparlamentari sono il principale terreno diintervento. Il canone costituzionale per cuinel Governo di gabinetto un ministro hadiritto di restare al potere, finché sia sor-retto da una maggioranza parlamentare, sifonda sulla presunzione che tale armoniatra l’esecutivo e il legislativo sia indizio del-l’adesione del paese. Che cos’è l’“appello alpopolo” se non una forma istituzionalizza-ta di appello all’opinione pubblica? Si entraqui nel sancta sanctorum del “governo diopinione”. Solo che dovrà essere la pubbli-cità, la discussione, la comunicazione a farpenetrare il “Paese” nei meandri di unadisarmonia, di uno scollamento, di un con-flitto che rappresentano dimensioni “ordi-narie” del sistema.

Naturalmente la vera questione diventa“chi fa chi”, ovvero chi è il massimo inter-prete dell’opinione pubblica, dei suoi movi-menti, dei suoi sentimenti? In tale contestoci si imbatte nell’ambiguità strutturale,genetica, della forma di governo e nella suaincompiutezza, approdo ricercato ma all’ap-parenza irraggiungibile. L’attribuzione e lagestione delle due prerogative-cardine delgoverno rappresentativo (scioglimento del-la camera eletta, dimissione dei ministri)diventano il terreno disputato del governmentby opinion.

Non è un caso che insistentemente, nel-le esemplificazioni, si richiamino le espe-rienze sia di capi di governo (Cavour,Bismarck, Palmerston, Peel, Disraeli, Gui-

zot…) – afferenti, per la verità, ad una gam-ma davvero ampia di contesti e di situazioniistituzionali – che di monarchi per la lorocapacità, vera o presunta, di interpretare eguidare l’opinione pubblica. Così, per esem-pio, al disastro di Guizot e Luigi Filippo nel’48 francese si contrappone l’azione saggiadei due primi Leopoldo del Belgio (1857,1871, 1884). È però soprattutto la figura delcapo dello Stato ad attirare l’attenzione deglistudiosi. Ritorna il tema – presente in tantariflessione costituzionale anglo-europea –della superiorità della monarchia sullarepubblica in ordine alla durata, stabilità,performance istituzionale del capo dello Sta-to ereditario. Anche in questo caso si trattadi cogliere gl’impulsi profondi, le ragionicostitutive della coscienza collettiva. Loschema della “monarchia popolare” (F.Mazzonis 1996; P. Colombo 1999; P. Colom-bo 2001) è perfettamente centrato sul rap-porto monarchia/opinione pubblica.

Nessuno meglio di Walter Bagehot auto-re di The English Constitution (1867) ha rile-vato – scrive Attilio Brunialti che dedica uncapitolo del suo trattato al problema del rap-porto tra capo dello Stato e opinione pub-blica – «questa influenza reciproca della

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Camera dei deputati, sala di scrittura, 1909

Corona e della pubblica opinione nellamonarchia costituzionale» (1900, p. 253).La nazione si divide in partiti, il Parlamen-to in gruppi e camarille, la società sulla basedi interessi economici e materiali: solo lamonarchia, simbolo visibile dell’unità e del-la potenza dello Stato-persona, «è al di fuo-ri e al di sopra di tutti, ordinariamentenascosta come un mistero, qualche voltasplendida agli occhi della folla» (ibidem, p.254). Il riferimento a una certa interpreta-zione della teoria constantiana del “potereneutro” (L. Lacchè 1999) è trasparente, malo sfondo reale è la crisi di fine secolo e leimpasses del sistema costituzionale italiano.Secondo Brunialti in nessun altra nazione,come l’Italia, il Re ha forse esercitato la suapersonale influenza sulla pubblica opinio-ne sino ad essere in parecchie occasioni«interprete fedele della pubblica opinione,che provocò, secondò, approvò l’opera sua,contro Gabinetti fiacchi, imprevidenti o col-pevoli, contro maggioranze servili e com-piacenti, in una parola contro tutti gli altripoteri dello Stato» (ibidem, p. 256).

Gli organi dell’opinione pubblica e il problemadella rappresentanza

Se esiste dunque un’opinione pubblica“costituzionale”, chiamata a svolgere unintervento “legale”, integrabile, in variamisura, nel gioco delicatissimo di equilibrie incastri tra legislativo ed esecutivo, nondi-meno irrisolto appare il problema del dupli-ce statuto: resta infatti apertissimo il pro-blema del ruolo di “fluido” costituzionale.Per certi aspetti, per riprendere uno spuntoiniziale, nell’Ottocento costituzionale italia-no ritroviamo le due dinamiche che, sem-

plificando, pervadono il Settecento inglese efrancese: in un caso la nascita e la prima evo-luzione del government by opinion (parla-mentare?) segnalano i cardini dell’opinionepubblica “governante”, nell’altro, invece, è ilprofilo retorico-discorsivo, di contestazionee di “tribunale”, a evidenziare la crisi delpotere legittimo. Questo secondo profilo nonscompare e passa, profondamente trasfor-mato, dall’età dell’oro a quella del dubbio checontrassegna l’età liberale.

Il pluralismo costituzionale ottocente-sco proprio del regime rappresentativo èinscritto in un discorso del potere (anchecon evidenti incrostazioni “assolutiste”) chescorge negli organi dell’opinione pubblica(pubblicità, stampa, associazioni, riunioni,partiti ecc.) potenziali e forti minacce e nel-lo stesso tempo non ignora il discorso del-la “contestazione” che fa dell’opinione pub-blica l’istanza alla quale anche le istituzionidevono rendere conto. La contraddizione èaltrettanto visibile nello statuto dell’assem-blea politica. Il parlamento è retoricamen-te e spesso convintamente inteso come are-na pubblica dove ricomporre le “parti” nel“tutto”, luogo di legittimazione poli-tico-costituzionale della classe dirigente edi dialogo-direzione permanente nel rap-porto Stato-società civile (F. Cammarano1990 e 1999; F. Soddu, 2001).

Eppure è altrettanto netta l’immaginedottrinale e reale che lo trasforma di signi-ficato e di valore. Da un lato la ricorrentediffidenza liberale verso le tentazioni “asso-lutistiche” delle assemblee e le derive fazio-narie. Proprio l’opinione pubblica può esse-re un freno nei confronti dell’«opinionelegale»: «A questo mirano e la libertà assi-curata ai cittadini di pubblicare le proprieopinioni, e di censurare gli atti sanciti dailegislatori, e la facoltà fatta al Principe di

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sciogliere i parlamenti elettivi» (C.Bon-Compagni 1848, p. 77). Dall’altro ope-ra il problema fondamentale della rappre-sentanza, vero e proprio casse-tête nella ten-sione politico-costituzionale presente nelcodice genetico del liberalismo. Questo sco-glio teorico e pratico non è facilmente aggi-rabile. «La rappresentanza presuppone laselezione dei capaci per affidar loro l’eser-cizio delle più alte funzioni della vita pub-blica. Meno questo presupposto è d’accor-do coi fatti, e più fa difetto la ragion d’esse-re di questo istituto; il quale così, per unafatale necessità, decade o si corrompe» (V.E. Orlando 1895, p. 456). In tal senso l’as-semblea politica “legislatrice” è solo unadelle forme di esercizio concreto dello spi-rito pubblico, dovendo anzi trovare elementidi rafforzamento, ma anche di limite, neidiversi organi dell’opinione pubblica.

E, in effetti, parlare dell’opinione pub-blica significa in concreto parlare dei suoi“organi”. Anche in questo caso si potrebbevedere come, a seconda degli autori, le ven-ga assegnato un certo grado di intervento. Aben vedere, però, c’è quasi unanimità nelfare della pubblicità, delle riunioni, delleassociazioni, dei partiti e soprattutto dellastampa i suoi “coefficienti” essenziali.

Tuttavia, nella vita concreta dello Statoliberale di diritto nessuna di queste artico-lazioni dell’opinione pubblica ha avuto vitafacile. La stampa – chi non lo afferma! – è ilpalladio assoluto delle libertà pubbliche, lalibertà delle libertà. Diventa anche «…l’i-nestimabile correttivo dell’onnipotenza par-lamentare che così facilmente diviene pre-potenza. Per essa le minoranze non rappre-sentate o imperfettamente rappresentate nelParlamento, impotenti davanti alle maggio-ranze governanti, possono fare appello allaragione pubblica, conquistare la opinione

pubblica…» (L. Palma, Corso 1885, p. 155).Ma Tocqueville, come è noto, ama la stampapiù per il male che impedisce che per i beniche produce: potenza straordinaria «cosìstranamente mescolata di bene e di male,senza la quale la libertà non potrebbe viveree con la quale l’ordine si mantiene a mala-pena» (Tocqueville 1835, p. 195). Venutomeno il regime di prevenzione, quellorepressivo non ignora tecniche che a faticaconvivono coi principî teorici del liberali-smo. I partiti politici (v. P. Pombeni 1992 e1994; G. Quagliariello 1990) diventano ilprincipale vettore della politica, nondimeno– in quanto soggetti “privati” volti ad acqui-sire crescente rilevanza “pubblica” – minac-ciano la cittadella fortificata (dai giuristi)dello Stato-persona, possono far degenera-re il governo di gabinetto in – è il caso di dire– “governo di partito”, rischiano inoltre ditrascinare la monarchia nell’arena politica.

Anche in questo caso lo Stato costituzio-nale, se non corre ai ripari, può venir presoin ostaggio dall’opinione pubblica che si tra-sforma in “Stato nello Stato”, in una parolaessere alla mercé di una società frammenta-ta e inorganica. Le associazioni, infine, nonhanno fondamento costituzionale e non dirado diventano lungo l’Ottocento una meraquestione di ordine pubblico e di politicadella sicurezza (v. G. Brunelli 1989; M.Meriggi 1992; F. Sofia 2001). Solo l’opinio-ne pubblica illuminata, istruita, capace,necessariamente elitaria, può in fondo aspi-rare ad un ruolo ordinatore nel contesto del-le sempre più complesse e conflittuali rela-zioni tra lo “Stato dei giuristi” e la “socio-crazia” annunciata dall’allargamento delsuffragio, allorché la linea separatrice trastatualità e socialità, tra pubblico e privato,ha perso gran parte della sua originariavalenza critico-razionale.

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Con queste credenziali non meravigliache l’opinione pubblica “costituzionale”,con l’ausilio dei suoi organi, rappresenti,quale concetto-soglia, un illuminante cam-po di tensioni tra politica e diritto, Stato esocietà, istituzioni liberali e istanze demo-cratiche. Nel 1895, un oscuro conferenzie-re, l’avvocato e poi deputato Antonio Teso,descriveva così il problema:

In Italia purtroppo l’opinione pubblica non saancora farsi valere adeguatamente, e ciò per lascarsezza di educazione politica che rende le clas-si popolari indifferenti e noncuranti degli inte-ressi generali dello Stato o schiave dei pregiudi-zi più strani ed eccessivi, per il disamore chespinge molta parte delle classi elevate a tenersifuori della vita pubblica, per la mancanza di unlogico e saldo ordinamento delle parti politiche,ma soprattutto perché la stampa periodica non viha ancora acquistata quell’autorità e quella dif-fusione che possiede in altri paesi.[1895, p. 32]

È una diagnosi che non manca, ancoraoggi, di sollecitare le nostre riflessioni.

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1. Introduzione storiografica

Il dibattito politico-giuridico sulla pubbli-cità delle sedute e dei dibattiti parlamenta-ri conobbe in Germania un rinnovatoimpulso soprattutto negli anni che prece-dettero la riforma del 1969 del regolamen-to (Geschäftsordnung) del Parlamentorepubblicano tedesco (Bundestag) del 6dicembre 1951. Con questa riforma fuaccordata alle commissioni (Ausschüsse),che sin dalle origini del moderno sistemarappresentativo si erano sempre riunite aporte chiuse e nelle quali si diceva essersiormai spostato il momento della decisionepolitica con grave pregiudizio della pubbli-cità dei dibattiti parlamentari garantita dal-l’art. 42 del Grundgesetz, la possibilità in sin-goli casi di riunirsi, discutere e votare pub-blicamente (Steiger, p. 143; Zeh, p. 454).

In concomitanza con il maturare di que-sta importante riforma si moltiplicarono inGermania i lavori tesi ad enucleare i termi-ni del mutamento funzionale incontratodalla pubblicità dei dibattiti parlamentari

nella storia parlamentare europea otto- enovecentesca e in particolare nelle moder-ne democrazie postbelliche, fondate sullacentralità dei partiti organizzati (Dechamps,Dieterich).

L’aula, l’assemblea plenaria (Plenum), silamentava in quegli anni, lungi dall’essere illuogo in cui attraverso la discussione ci siforma un’opinione o si approfondisce la pro-posta sottoposta all’assemblea, sarebbeormai diventata il luogo dove, oltre a votare,tutt’al più si rendono note e si spiegano all’o-pinione pubblica idee e posizioni maturatealtrove, soprattutto all’interno dei gruppiparlamentari (Fraktionen) e cioè dei partiti(Dieterich, pp. 98-99). Nel nuovo contestodello Stato pluralistico dei partiti, caratteriz-zato peraltro da una ineliminabile tendenzaalla consultazione non pubblica (Dieterich,pp. 54-56), la pubblicità parlamentaresarebbe così diventata più che altro un lorostrumento, sia dei partiti di maggioranza chedi quelli di opposizione, e non più un mezzodi comunicazione tra il Parlamento tutto edi cittadini in esso rappresentati (Dieterich,

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Pubblicità e organizzazione dellavoro parlamentare nella Germaniacostituzionale (1815-1918)

anna gianna manca

giornale di storia costituzionale n. 6 / II semestre 2003

pp. 87 ss.). Inoltre, mentre le discussioniplenarie nel Bundestag avrebbero perso ilcarattere di vere e proprie consultazioni, lafase dell’esame in commissione, prevista dalregolamento parlamentare tra la prima e laseconda lettura, sarebbe diventata quella incui, di fatto, si decide sulla forma ultima del-la legge (Dechamps, p. 104).

Si presero le mosse dalla constatazionedella oggettiva superiorità quantitativa equalitativa del lavoro non pubblico svoltodalle commissioni rispetto a quello svoltoin aula, sotto gli occhi dell’opinione pub-blica, nonché dal pragmatico riconosci-mento della difficoltà e inopportunità poli-tica di contrastare un fenomeno, la disloca-zione del lavoro parlamentare dall’aula nel-le commissioni, che pare essere intrinse-camente connesso al consolidarsi del siste-ma politico pluripartitico. Si cominciò apensare di superare la contraddizione tra lanecessità di avere un Parlamento funzio-nante ed efficiente, da un lato, e il principiodella pubblicità e trasparenza del processodi formazione della volontà politica dall’al-tro, attraverso una autoriforma dell’istitu-zione parlamentare che ne rinnovasse edesaltasse la dimensione della pubblicità,rendendo almeno in parte pubblico il lavo-ro delle commissioni (Dechamps, p. 77).

La critica all’assenza di pubblicità deilavori parlamentari in conseguenza dellospostarsi del momento decisionale dal pub-blico dibattito dell’aula nelle stanze oscuree “misteriose” delle commissioni e deigruppi parlamentari, è stata però tutt’altroche una specificità esclusiva della pubblici-stica politica e giuridica attenta al concre-to funzionamento del Bundestag tedesco.

Già Carl Schmitt nel 1923, come a suotempo non mancò di ricordare JürgenHabermas (Habermas, p. 244), aveva bolla-

to come patologica la perdita di pubblicità deilavori parlamentari. Nella vita politico-par-lamentare i partiti avrebbero ormai comple-tamente avocato a sé, nonostante che di essinon si facesse menzione alcuna nel testocostituzionale, quella importantissima fun-zione di mediazione e di integrazione politi-ca che la dottrina liberale voleva invece vederriconosciuta al Parlamento nel suo comples-so e al pubblico dibattito parlamentare del-l’aula. Si sarebbe così giunti ad una precocedegenerazione e obsolescenza non solo delmodello liberale di rappresentanza, maanche dell’istituzione parlamentare in sé eper sé e, addirittura, della forma parlamen-tare di governo tout court (Schmitt; Dieterich,pp. 73-83). Affermò testualmente Schmitt:

la attività vera e propria [del Parlamento] non sisvolge nei dibattiti pubblici dell’aula, ma incomitati più ristretti (Ausschüsse) e neanchenecessariamente in comitati infraparlamentari;decisioni fondamentali vengono prese in sedutedei capigruppo parlamentari (Fraktionsführer)sottratte alla pubblicità o addirittura in comita-ti che si riuniscono fuori dal Parlamento; sub-entra così un dislocamento della responsabilitàed anzi un suo dissolvimento, e in questo modol’intero sistema parlamentare è alla fine solo unacattiva copertura del potere dei partiti e dei rap-presentanti di interessi economici.[Schmitt, pp. 28-29]

Epperò, nemmeno la critica di Schmitt alParlamento (Reichstag) weimariano era deltutto originale. Peraltro, gli studi più recen-ti descrivono, quantomeno sino al 1928, piùcome un Arbeitsparlament che un Redeparla-ment, tutt’altro che defunzionalizzato e anzicon un grande carico di lavoro, più sovracca-ricato di aspettative che non realmente dele-gittimato (anche se forse ancora più attentoal dialogo con il governo che non a favorirequello tra maggioranza ed opposizione al suo

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interno) (Mergel, pp. 91-92, 178-181, 199,229, 399-401). Anche quella critica ripren-deva infatti, a ben vedere, i motivi ricorren-ti della critica antiparlamentare rivolta alReichstag imperiale (fondato sulla costituzio-ne del 1871) sin dall’inizio della sua vicendastorica. L’assemblea plenaria del Parlamen-to sarebbe stata ormai solo un luogo di rati-fica di decisioni prese nelle “camere oscure”dei partiti, un luogo insomma da cui la poli-tica si era volatilizzata e quindi privo di fun-zione; e il Parlamento nel suo complesso,come istituzione, sarebbe stato dilaniato dal-le disgreganti pressioni dei partiti e delleassociazioni di interesse, e quindi incapace dirappresentare tutto il popolo.

In un rapporto steso agli elettori sull’at-tività della rappresentanza popolare tedescanella sua prima legislatura (1871-1873) dalpartito operaio socialdemocratico (Sozialde-mokratische Arbeiterpartei), rapporto che erastato dato alle stampe il 2 settembre 1873 invista delle elezioni ormai prossime, nel con-testo di una argomentazione tesa a denuncia-re l’impotenza del Parlamento imperiale peril suo presunto potere solo “consultivo” («lerisoluzioni uscite dalle sue consultazionidiventano legge solo quando i governi [riuni-ti nel Bundesrat (v. sotto)] danno ad esse illoro consenso»), si denunciava infatti la tota-le assenza di trasparenza delle diverse fasi delprocesso legislativo. Si denunciava inoltre ilfatto che le decisioni vere e proprie fosseroprese non in Parlamento, ma dietro le quin-te della scena parlamentare da quelli che noioggi chiamiamo gruppi parlamentari (Frak-tionen), associazioni organizzate di deputatieletti, e in pratica quindi dai partiti:

Tutto, anche i progetti di legge più importanti,vengono esaminati con molta fretta e quasi al volo,cosicché la grande maggioranza dei deputati soloin rarissimi casi ha piena conoscenza di ciò su cui

ha votato [...]. Le singole Fraktionen si riunisconoregolarmente a porte chiuse, esaminano l’ordinedel giorno della prossima seduta, stringonoalleanze con coloro che sono più vicini alle loroidee, di regola stipulano accordi dietro le quinteanche con i ministri, e a questo scopo sostanzial-mente sono utilizzate le serate del sabato presso ilprincipe Bismarck, dove il vino è buono, la birrabavarese eccellente ed i sigari ottimi. Esse si pre-sentano quindi il giorno dopo in aula e davantiall’opinione pubblica con decisioni e leggi pre-confezionate. Ciò che nel Reichstag viene detto edeciso, è definito già da lungo tempo, è, per cosìdire, una commedia, rappresentata su un palco-scenico e a cui il popolo tedesco ha l’onore di poterintervenire come pubblico, godendo del diritto diapplaudire e... di pagare per assistervi. Perché ildivertimento costa caro, molto caro.[Die parlamentarische Thätigkeit, pp. 10, 12-13]

Il concetto espresso non cambiava nem-meno quando a riflettere sul funzionamen-to dell’istituzione parlamentare era, stavol-ta verso la fine dell’esperienza del Reichstagimperiale, un democratico come Hellmuthvon Gerlach, che certo non intendeva pren-der parte alla corrosiva critica antiparla-mentare della matura epoca costituzionalee che anzi continuava a vedere «ogni spe-ranza di uno sviluppo liberale della Germa-nia [poggiare] esclusivamente sul Reich-stag» (Gerlach, pp. 71, 96, 74-75).

Il sistema delle commissioni, a suo avvi-so ormai pienamente sviluppato in Germa-nia, avrebbe pregiudicato irrimediabilmen-te la funzionalità del Plenum, tanto che sisarebbe potuto parlare non solo di “superio-rità” (Übermacht ) delle commissioni, dei cuidibattiti non apparivano resoconti ufficialie le cui decisioni diventavano legge senza chel’opinione pubblica si fosse minimamenteresa conto di cosa si trattasse, ma addirittu-ra di loro “onnipotenza” (Allmacht). Nellestanze “riservate” (verschwiegenen) dellecommissioni sarebbero state concordate

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grandi opere legislative, sarebbe stata adesempio decisa e poi solo ratificata in aula lariforma finanziaria del 1906. Una volta che ipartiti della maggioranza si erano accordatiin commissione, i dibattiti della seconda eterza lettura sarebbero puntualmente degra-dati al livello di farsa, e la maggioranza nonsi sarebbe lasciata più coinvolgere in alcunadiscussione costruttiva. Non solo, giustifi-cate proposte di modifica della minoranzanon sarebbero state nemmeno prese in con-siderazione con la motivazione che ormai eratroppo tardi (Gerlach, p. 49). Particolar-mente sotto il cancellierato di Bismarck, ilnormale decorso del processo legislativosarebbe stato il seguente:

Nella prima lettura di un progetto di legge presen-tato dal governo si proclamavano ad alta voce gliideali liberali. In commissione si cercava quindi dicorreggere il progetto almeno in parte nel sensodegli ideali liberali. In occasione della seconda let-tura in aula Bismarck proclamava però puntual-mente la inaccettabilità di tutte le correzionisostanziali che si volevano apportare al progettogovernativo, e tra la seconda e la terza lettura si trat-tava alacremente tra i capi dei nazionalliberali e ifiduciari di Bismarck per salvare del liberalismociò che si poteva salvare. Alla fine veniva regolar-mente fuori che niente si poteva salvare. Bismarckconosceva solo il ‘o così… o così’, e si mantenevafermo sulle sue posizioni. Allora erano gli altri adammorbidirsi, e quando si arrivava alla terza lettu-ra rinnegavano tutto ciò che alla prima lettura ave-vano sostenuto in modo pieno e incondizionato egià alla seconda lettura invece ancora solo a metà.[Gerlach, p. 92]

Come si vede, dunque, anche del fun-zionamento del Reichstag imperiale i con-temporanei hanno sottolineato la assenzadi pubblicità dei lavori parlamentari, e lastoriografia costituzionale, per bocca delpiù grande allievo di Schmitt, Ernst RudolfHuber, non ha mancato di affiancarsi a

posteriori alla loro critica, sviluppandoanche in riferimento al Reichstag imperia-le quella tesi della «Öffentlichkeit alsessential der Repräsentation», che il suomaestro aveva coniato minando alla base lalegittimità del Parlamento di Weimar.

Huber, come Schmitt, prende le mosseda una assolutizzazione a tipo ideale dellaconcezione che potremmo definire libera-le classica della rappresentanza parlamen-tare, fondata cioè sulla figura del notabile(Honoratiorenparlament) e caratterizzata daun basso livello di sviluppo dello spirito edell’agire del deputato partiticamente vin-colato (Dieterich, pp. 73-83, in part. pp. 74e 80). Ma è una concezione di rappresen-tanza popolare di cui peraltro negli ultimidecenni è stata messa massicciamente indubbio la corrispondenza con un tipo par-lamentare realmente e storicamente esisti-to; Huber non esita a “retrodatare” alSecondo Impero la critica schmittiana sul-l’assenza di pubblicità nei lavori parlamen-tari del Reichstag, a motivazione e giustifi-cazione ideologica a posteriori dello scarsopeso politico del Reichstag nella concretavicenda storico-politico-istituzionale del-l’epoca imperiale. Per Huber, proprio comeper Schmitt, «senza pubblicità non c’è rap-presentanza» e solo la pubblicità avrebbereso il Reichstag un organo veramente rap-presentativo (Huber, III, pp. 886-887).

All’interno della storiografia costituzio-nale e del diritto costituzionale tedeschiancora oggi i pareri sembrano dividersi trachi si spinge sino ad affermare che vi è Par-lamento solo laddove esso agisce pubblica-mente e cioè nell’aula (Ellwein-Görlitz, p.242), e chi invece ribatte che una tale con-cezione del Parlamento, corrispondente aquella liberale classica, è però da sempre deltutto estranea alla realtà storica (Fuchs; Küh-

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ne, p. 100; Hauenschild, p. 38). Non man-cano tuttavia nemmeno tentativi di media-zione tra un’inequivocabile affermazionedella necessaria pubblicità dei lavori parla-mentari, da un lato, e una realistica ma nonrassegnata presa d’atto della realtà, dall’altro.

Uno studioso come Leo Kissler apre unsaggio su Parlamentsöffentlichkeit: Transpa-renz und Artikulation affermando che il “luo-go centrale”, il “cuore” della pubblicità par-lamentare, deve essere considerato “il Ple-num”, vale a dire l’aula. Poi però, nel porsi ladomanda se l’assemblea plenaria possa effet-tivamente essere considerata oggi un luogo dicomunicazione politica, egli si trova a nonpoter tacere l’impressione, invero assai con-solidata e diffusa, che «il Bundestag dibatte[anche] pubblicamente, ma soprattuttosegretamente», dato che «il lavoro parla-mentare si è spostato in numerosi organisminon pubblici», tra cui le commissioni, chesono tenute a rendere pubblico solo il risul-tato dei loro lavori, nonostante si vada pro-gressivamente rafforzando la propensione arendere pubbliche anche le loro sedute(Kissler, pp. 993, 1001-1002, 1005-1006).

Tutto questo ci dice che ancora oggi, aconferma dei tanti fili di continuità tra lastoria politico-istituzionale dell’epocacostituzionale e quella della nostra epocademocratico-parlamentare, la questione sucui ci si interroga è ancora sostanzialmentela stessa. Vale a dire se effettivamente lapubblicità e la trasparenza dei lavori parla-mentari del Plenum debbano essere valoriirrinunciabili, o se invece essi non possanoessere almeno in parte sacrificati, a vantag-gio sia dell’efficienza e della produttivitàdell’istituzione parlamentare, sia della qua-lità della sua attività legislativa.

Se questo è ancora attualmente lo statusquaestionis, allora ha senso chiedersi a che

punto della storia parlamentare europea, etedesca in particolare, abbia cominciato aprofilarsi la questione; soprattutto, di con-tro a quelle posizioni storiografiche che inuna presunta progressiva perdita di pubbli-cità dei lavori parlamentari hanno visto l’i-nizio della obsolescenza dell’istituzione par-lamentare. Ha senso chiedersi se la questio-ne dello spostamento del lavoro parlamen-tare dalla pubblicità dell’aula alla segretezzadelle commissioni parlamentari, non siasorta con l’istituzione parlamentare stessa econ il suo strutturarsi in partiti più o menoorganizzati. Quando cioè le forze politicheche credevano nella soggettività politica delParlamento, e quelle liberali per prime, han-no pragmaticamente ricercato momenti nonpubblici di organizzazione della attività isti-tuzionale del Parlamento per assicurare lasua capacità di sintesi politica e accrescerel’effettività e la produttività dei suoi lavori.

2. La pubblicità parlamentare nella Germa-nia costituzionale

Con pubblicità dei lavori parlamentari, sindall’inizio della moderna epoca rappresen-tativa, si sono intese tre cose: il libero acces-so alle tribune per tutti; il diritto della stam-pa alla pubblicazione dei protocolli parla-mentari; il diritto di fare a mezzo stamparesoconti liberi dei dibattiti (Mohl 1860, pp.304-312; Dieterich, p. 48).

Essa fu sempre ritenuta, nella riflessionepolitico-costituzionale dei liberali tedeschidella prima metà dell’Ottocento, come unprincipio organizzativo-strutturale irrinun-ciabile, in una moderna costituzione rappre-sentativa, per la capacità dell’istituzione par-lamentare di affermarsi pienamente nel pro-

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cesso di formazione della volontà politica e inparticolare nel processo di legislazione. Solola pubblicità dell’attività del Parlamentopoteva sia garantire che le leggi da esso vara-te fossero realmente in sintonia con l’opi-nione pubblica (di cui il Parlamento eranientemeno che l’istituzionalizzazione) e chela rappresentanza popolare svolgesse quindiquella funzione di integrazione della nazio-ne che gli era intrinseca, sia rassicurare ilpopolo e gli elettori sul fatto che la loro rap-presentanza, all’interno delle mura del Par-lamento, effettivamente svolgeva l’altra suafunzione primaria (oltre alla produzione del-le leggi) di controllare il governo (Dieterich,pp. 23-50, in part. p. 26).

Determinazioni affermanti il principiodella pubblicità dei dibattiti delle secondeCamere e la facoltà per le stesse di pubbli-care i resoconti delle loro sedute, laddoveinvece le prime Camere si riunivano solita-mente a porte chiuse tranne che nel Baden(Botzenhart, p. 474), erano presenti innumerose costituzioni tedesche prequaran-tottesche. Con lo stesso termine si indica-vano tuttavia spesso cose diverse o livelliassai differenti di pubblicità. Poteva ancheaccadere, però, che il principio della pub-blicità fosse introdotto non direttamentedalla costituzione ma solo dai regolamentiinterni delle rappresentanze popolari.

La pubblicità delle sedute delle dueCamere era stabilita ad esempio dall’art. 167della costituzione del Württemberg del 25settembre 1819. Anche se questo articolo nonimplicava che fossero pubblicati dei reso-conti stenografici (Stenographische Berichte)fedeli alla lettera dei dibattiti dell’aula, eanche se l’art. successivo, il 168, che saràmodificato solo nel 1874, riconosceva ancheal monarca o a suoi emissari (oltre che ad unnumero non inferiore a dieci di deputati), il

diritto di chiedere che le sedute fossero tenu-te segretamente (Botzenhart, p. 475).

Al contrario della costituzione appenacitata, quella del Granducato dell’Assia del17 dicembre 1820 (art. 99) aveva affermato ilprincipio che i dibattiti delle due Cameredovessero essere resi noti a mezzo stampa;ma non riconosceva alle Camere il diritto ditenere pubblicamente le sedute, diritto chefu riconosciuto loro solo con la legge diintroduzione del regolamento parlamentaredel 10 ottobre 1849 (Huber (ed), 1, p. 234).Resoconti stenografici riportanti fedelmen-te e senza censure il corso del dibattito par-lamentare non venivano pubblicati neanchenel Baden, la cui costituzione del 22 agosto1818 aveva affermato, all’art. 78, la pubblici-tà delle sedute delle due Camere; anche ilregolamento parlamentare (§ 74) consenti-va solo, genericamente, che fosse pubblica-to del materiale relativo alle sedute.

Nella costituzione della Baviera del 26maggio 1818, infine, non si diceva niente sul-la pubblicità delle sedute parlamentari, ma al§ 68 del regolamento si consentiva alle Came-re di pubblicare i loro protocolli, senza peròche ciò costituisse per loro un obbligo. Lapossibilità di tenere sedute a porte chiuse solocon il consenso della maggioranza dei depu-tati fu introdotta dal nuovo regolamento(Gesetz, den Geschäftsgang des Landtags betref-fend del 25 luglio 1850) che le Camere si die-dero sull’onda dei rivolgimenti quarantotte-schi (Botzenhart, pp. 475-476, 505-507).

Il modo e la misura in cui la pubblicitàdei lavori parlamentari era garantita nellaGermania prequarantottesca, profonda-mente segnata dall’ineliminabile dualismosu cui poggiavano i sistemi monarchico-costituzionali, erano insomma molto diffe-renti da Stato a Stato. Nel complesso eranoritenuti dai liberali, come si evince dal qua-

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dro della situazione offertoci da Carl Welc-ker nella voce Öffentlichkeit dello Staatslexi-kon (redatta molto probabilmente primadello scoppio della rivoluzione del 1848), deltutto insoddisfacenti.

Basti dire che nei singoli Stati territo-riali tedeschi di cui si componeva la Confe-derazione germanica, in genere i ministri oi loro rappresentanti potevano inserirsi inqualsiasi momento nei dibattiti parlamen-tari, inaugurando una prassi che si è man-tenuta sino ad oggi (Kühne, p. 90; Steiger,p. 94). E che il monarca, oltre al potere discioglimento, chiusura e aggiornamento delParlamento, che in epoca costituzionale erasempre nelle sue mani, aveva anche ingenere a sua disposizione, particolarmentenegli Stati divenuti costituzionali per primi,il diritto di chiedere in qualsiasi momentola segretezza delle sedute parlamentari(Kühne, pp. 90-91), di condannare cioè difatto alla non esistenza insieme al Parla-mento anche la sfera dell’opinione pubbli-ca. Per giunta in decenni, come quelli delVormärz o dell’immediato Nachmärz , in cuifurono continuamente all’ordine del giornopesanti limitazioni e addirittura prolunga-te sospensioni della libertà di stampa, diriunione e di associazione.

In Prussia, che com’è noto fu uno degliultimi Stati tedeschi a divenire costituziona-le, sarà proprio sull’onda della rivendicazio-ne della pubblicità dei lavori delle Diete pro-vinciali che entrò progressivamente in unacrisi irreversibile l’intero sistema rappre-sentativo cetuale. Le leggi istitutive dei Pro-vinziallandtage prussiani del 1823 si eranolimitate a riconoscere loro il diritto di ren-dere noti attraverso la stampa solo “il risul-tato” e il “deliberato” finale (Abschied) deiloro dibattiti, ed i regolamenti interni di talu-ni di questi ceti provinciali addirittura impo-

nevano ai deputati il silenzio sui lavori a cuiavevano partecipato (Obenhaus, pp. 201-203,250-251, 390-391, 400-419, 568-571).

La moderna costituzione rappresenta-tiva che entrò in vigore in Prussia il 31 gen-naio 1850 garantì invece in modo comple-to, insieme a più moderne relazioni politi-co-rappresentative e al diritto di ogniCamera di «regolare il corso dei suoi lavo-ri e la sua disciplina attraverso un regola-mento» (art. 78), il carattere pubblico deilavori delle due Camere (art. 79) (Huber(ed), 1, 510), mentre la libertà di dare amezzo stampa resoconti dei dibattiti parla-mentari fu garantita dal § 38 della leggeprussiana sulla stampa del 12 maggio 1851(Hatschek 1922, pp. 504-505).

Nella loro sostanza le innovazioni intro-dotte dalla costituzione prussiana erano sta-te però già riconosciute, sempre nel corsodella terza ondata costituzionale del1848/49, dalla costituzione di Francoforte,che tra l’altro lasciò all’autonoma e sovranadecisione del Parlamento di definire nelrispetto di quali criteri l’assemblea potessedecidere di tenere segretamente le suesedute (§ 111) (Huber [ed], 1, p. 387 e Hat-schek 1922, p. 492).

La assicurazione piena e incondizionatanella costituzione e nel regolamento dellarappresentanza popolare della pubblicità deisuoi dibattiti non era però allo stesso tempo,come invece ritenevano i teorici liberali del-la prima metà del secolo, garanzia certa ditrasparenza del processo legislativo. La con-cretizzazione di questo principio dipendevainfatti notevolmente, come si avrà modo divedere, da come la rappresentanza popolareaffrontava di fatto, spesso allontanandosinotevolmente da quanto previsto nel regola-mento interno o addirittura in contraddi-zione con esso, sia la preparazione (Vorbera-

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tung) del progetto di legge o della risoluzio-ne che avrebbe dovuto essere oggetto dellapubblica discussione dell’aula, sia l’esamevero e proprio del progetto o della propostache avrebbe dovuto essere infine oggettodella votazione.

Sin dai loro primi tempi di vita, lemoderne istituzioni rappresentative si tro-varono sostanzialmente ad optare tra duediversi tipi di regolamenti parlamentari checon il tempo erano andati cristallizzandosi.

Quello francese suddivideva l’assembleain tante sezioni (in Germania dette gene-ralmente Abteilungen, ma anche meno spes-so Sectionen), numericamente uguali eindifferenti alla composizione politica del-l’assemblea. Ad esse l’aula, data l’ovvia dif-ficoltà di lavorare all’interno di un organi-smo troppo numeroso e quindi allo scopo diraggiungere una più alta e migliore capaci-tà di lavoro entro un organismo più ristret-to, “delegava”, come a suoi sottoorganismi,la preparazione della materia oggetto dellesedute plenarie, riconoscendo dunque loroun grado di autonomia relativamente altoma sottraendo una fase importantissima delprocesso legislativo alla pubblicità.

Quello inglese, che a differenza del fran-cese non era completamente scritto e pog-giava, almeno in parte, sulla consuetudine(come del resto la gran parte del diritto costi-tuzionale inglese), privilegiava invece l’aula,l’assemblea plenaria, in cui i rapporti di mag-gioranza e minoranza erano in ogni momen-to chiaramente percepibili, come luogo cen-trale dei dibattiti parlamentari e foro deci-sionale per eccellenza, garantendo dunqueun più elevato livello di pubblicità. Secondoil diritto regolamentare inglese solo nell’au-la, alla quale pervenivano in prima battutatutti i progetti di legge o altre proposte, sipoteva decidere come procedere oltre, e cioè

se l’oggetto avrebbe dovuto essere affidato aduna commissione o invece tolto dall’ordinedel giorno, e soprattutto, nel primo caso, sel’aula avrebbe dovuto trasformarsi essa stes-sa per intero in una commissione (quella chein Inghilterra prendeva il nome di committeeof the whole house) per esaminarlo. In questocaso si sarebbe consentito a tutti i deputati divenire a conoscenza in egual misura di quel-lo che sarebbe successivamente stato ogget-to del pubblico dibattito e delle deliberazio-ni dell’aula (Mittermaier, pp. 649-650); evi-tando da un lato quella frammentazione spe-cialistica delle conoscenze dei deputati tipi-ca dei membri delle commissioni, che peral-tro conferiva loro una certa superiorità con-tribuendo ad una loro autonomizzazione dalresto dell’assemblea; dall’altro, favorendodecisamente la trasparenza del percorsodecisionale seguito nel processo legislativo.

In linea di massima le moderne istitu-zioni rappresentative tedesche si orienta-rono verso il modello francese, ad eccezio-ne dell’Hannover, non senza tuttavia qual-che concessione al modello inglese (Kühne,pp. 94-95).

Già nell’Assemblea Nazionale di Franco-forte, in particolare attraverso la sua Geschäft-sordnung (GO) del 29 maggio 1848, fu rece-pito, prendendo le distanze dalla proposta diRobert von Mohl (Mohl 1848) e certo in con-siderazione sia delle dimensioni dell’assem-blea, sia del fatto che molti deputati all’ini-zio non si conoscevano affatto tra di loro, ilsistema francese di dividere l’assemblea inAbteilungen; per estrazione a sorte ne furonoformate 15 di circa trenta deputati ciascuna.

Queste sezioni avevano il compito, oltreche di verificare la validità delle elezioni, diintraprendere un primo esame delle propo-ste che sarebbero state oggetto del dibattitoparlamentare, quindi di eleggere ognuna un

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suo rappresentante da inviare nella commis-sione centrale (Zentralausschuss) o nelle com-missioni che avrebbero potuto essere inse-diate ad hoc per singole questioni e che avreb-bero dovuto avere carattere non permanen-te, contrariamente anche stavolta a quantoconsigliato nelle “Proposte” di Mohl. Solo insede di commissione, in cui ovviamente sisarebbe discusso a porte chiuse, sarebberoinfine dovute emergere chiaramente le posi-zioni della maggioranza e della minoranza,posizioni che avrebbero dovuto essere rap-presentate all’aula da un relatore (Botzenhart,pp. 482-493; Dechamps, pp. 57, 93, 132).

Il regolamento dell’Assemblea Nazio-nale di Francoforte tuttavia, lungi dall’es-sere sempre fedelmente applicato e segui-to alla lettera, fu ben presto sottoposto nel-la prassi quotidiana, come del resto peròaccadeva e accade spesso ai regolamentiparlamentari, a numerose modifiche, prin-cipalmente in conseguenza del peso pre-ponderante ben presto acquisito nell’orga-nizzazione interna del Parlamento dalleFraktionen. Ad esse però non si faceva alcuncenno nel regolamento dell’aula, inaugu-rando una tradizione giuridico-positiva chesi rivelò assai dura a morire (Demmler, pp.150-151), e non solo in Germania.

Con il quasi immediato strutturarsi del-l’assemblea in gruppi parlamentari, datostorico che evidentemente entra in contrad-dizione con la tesi secondo cui Francofortesarebbe stato, più che altro, un Honoratio-renparlament (critico già Boldt, pp. 18), leAbteilungen cessarono ben presto di svolge-re la funzione più importante loro assegna-ta dal regolamento dell’aula (e cioè il primoesame del materiale da sottoporre all’aula),mantenendo solo quella di eleggere i mem-bri delle commissioni: funzione nel cui svol-gimento peraltro dovettero ben presto

accettare di subire l’influsso determinantedei “partiti”. La preparazione dei dibattitiplenari passò così di fatto nelle mani dellecommissioni da un lato e di questi ultimidall’altro (Botzenhart, pp. 489).

Sulla base del regolamento dell’Assem-blea Nazionale di Francoforte fu modellatoanche quello adottato dalla Seconda Came-ra prussiana il 28 marzo 1849 (Plate, pp. 4ss.), regolamento che restò formalmenteimmodificato sino al 1862.

A differenza di quello di Francofortequest’ultimo prevedeva tuttavia, innovazio-ne importantissima, che i progetti di leggeprovenienti dal governo, dall’altra Camera,o anche dagli stessi deputati, potesseroancora eccezionalmente essere esaminatidalle Abteilungen e dalla commissione cen-trale (Zentralausschuss), ma dovessero “diregola” essere esaminati dalle commissio-ni, nella cui composizione doveva natural-mente essere rispecchiata proporzional-

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Stanza per le sedute delle sezioni, delle commissioni edei gruppi parlamentari del Parlamento imperiale

mente la forza numerica dei singoli gruppiparlamentari (Plate, pp. 57). A questo sco-po furono insediate, oltre a quella che sidoveva occupare delle Petitionen, sette com-missioni permanenti, e da questo momen-to furono queste a svolgere la cosiddetta Vor-beratung, e non più, a differenza di quanto sidiceva nel regolamento, le Abteilungen (Pla-te, pp. 4-5, 25, 50; Botzenhart, p. 501).

Quindi anche in Prussia, come già aFrancoforte, la suddivisione egualitaria del-l’assemblea in sezioni indifferenti alla com-posizione politico-partitica dell’assemblea,era stata ben presto superata dal potere sem-pre maggiore acquisito dai gruppi parla-mentari. Le sezioni non cessarono di esiste-re, ma, accanto al compito di effettuare laverifica dei poteri (Wahlprüfung) (§§ 3 e ss.della GO del 1849), rimase loro solo formal-mente la funzione di eleggere i membri del-le commissioni (§19 GO del 1849). Se infat-ti nel regolamento della Seconda camera nonsi giunse certo al riconoscimento ufficialedell’influenza dei gruppi parlamentari sullacomposizione delle commissioni, la cresci-ta del loro potere si evince anche dal fattoche furono ulteriormente ristrette le possi-bilità di azione autonoma dei singoli depu-tati nel momento in cui fu aumentato ilnumero delle firme necessarie a sostegnodella presentazione in aula di una proposta(Botzenhart, p. 502).

Ben presto però la possibilità espressa-mente prevista in via residuale dal regola-mento prussiano del 1849, che nel caso nonci fossero state commissioni permanentiimmediatamente interessate all’oggetto diun progetto di legge, il suo esame prelimina-re avrebbe potuto essere assunto dalle apar-titiche Abteilungen, fu cancellata anche for-malmente dalla riforma a cui il regolamentofu sottoposto nel 1862. Erano questi i tempi

in cui ancora più forte di prima si fece sen-tire presso la maggioranza liberale dellaCamera la necessità di dare maggiore visibi-lità all’opposizione da essa condotta in aulasulla riforma militare voluta dal governo;oltre all’esigenza di razionalizzare maggior-mente il corso dei lavori parlamentarilasciando meno spazio ai tempi morti e allacasualità, vi era anche l’urgenza di stabilireun collegamento più diretto e immediato congli elettori e l’opinione pubblica nel suoinsieme (Manca, pp. 249-250, 359 ss.).

La modifica della GO del 1862, propostadall’allora deputato della Fortscrittspartei Maxvon Forckenbeck, riprendendo sostanzial-mente una precedente proposta di modificaavanzata nel 1861 dal liberale Eduard Sim-son, anch’egli come Forckenbeck futuropresidente del Reichstag imperiale. Si stabi-lì che l’aula potesse decidere sin dall’iniziodi trasmettere preliminarmente parte delsuo carico di lavoro direttamente alle com-missioni, alle quali fu inoltre concessa lapossibilità di relazionare all’aula non soloper iscritto ma anche oralmente. In questomodo le commissioni venivano ad assume-re anche formalmente quella funzione dierste Vorberatung dei progetti di legge che sinqui il regolamento aveva continuato a rico-noscere alle sezioni; a queste, per contro,veniva ormai tolta anche formalmente qual-siasi possibilità di entrare nel merito deiprogetti di legge, mentre fu ancora confer-mato loro il compito di eleggere le commis-sioni, nonostante che nella prassi ciò nonaccadesse più da lungo tempo (Plate, pp. 10-11, 50; Dechamps, pp. 57, 59).

Accanto alla soppressione anche forma-le della possibilità di effettuare la Vorbera-tung nelle sezioni, di cui si è appena detto,un’altra importantissima modifica appor-tata al regolamento della Camera prussiana

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nel 1862, fu l’introduzione della possibilitàdella cosiddetta Vorberatung im ganzen Haus:una istituzione tipica del diritto regolamen-tare del Parlamento inglese, che prevedevacome preliminare alla discussione in aula(Plenardebatte) e accanto alla ormai divenu-ta obbligatoria Vorberatung in Kommission,anche un primo esame in aula, e quindipubblico, del progetto di legge.

La modifica si era resa necessaria – cosìle motivazioni addotte dai proponenti dellariforma – quando, dopo che si era impostasenza eccezioni la Vorberatung in commis-sione con l’obbligo della relazione scritta,avevano preso il sopravvento “le formeburocratiche” e il dibattito in aula avevaperso praticamente qualsiasi “vivacità”. Sualcuni importanti progetti di legge la Came-ra doveva, al contrario, conservare la possi-bilità di pronunciarsi chiaramente subito.Addirittura la responsabilità dell’esplosio-ne del conflitto costituzionale (1862-1866)era da far ricadere sulla commissione mili-tare: se l’aula avesse avuto l’occasione dipronunciarsi sul principio sottostante allariforma militare, immediatamente dopo lapresentazione dei progetti di legge sull’e-sercito, forse la situazione non si sarebbetrascinata così a lungo (Plate, pp. 12, 51).

Il regolamento della Camera dei deputa-ti prussiana, modificato nel 1862, valorizza-va notevolmente la dimensione della pub-blicità del lavoro parlamentare presente neldibattito in aula. Lungi dal restare confina-to nella sua applicazione al solo Stato prus-siano, il regolamento fu adottato anche, dal-la Confederazione della Germania del Nordnel 1866, con solo qualche modifica, peral-tro non significativa, introdotta dal Parla-mento imperiale costituente tedesco del1867; questo, infatti, nella fretta di dare unacostituzione alla neonata Confederazione,

non poteva certo permettersi di inoltrarsi inuna riforma del regolamento.

Sulla base del regolamento della Cameradei deputati prussiana, così come modifica-to nel 1862, fu quindi varata anche la costi-tuzione della Confederazione della Germaniadel Nord (Norddeutscher Bund): in appena seisettimane ed esclusivamente attraversodibattiti in seduta plenaria (Plenardebatte),senza cioè ricorrere all’attività preparatoriadi una commissione costituzionale (Verfas-sungskommission), quale aveva invece ope-rato anche a Francoforte nel 1848/49.

Al lavoro preparatorio di una tale com-missione, i nazional-liberali, ormai partitocentrale della coalizione di maggioranza,preferirono rinunciare non solo per con-sentire, come amavano proclamare, un mag-gior coinvolgimento della nazione nei pub-blici dibattiti sulla costituzione, ma certoanche per sfuggire al rischio che in commis-sione il progetto governativo, sottoposto aduna riflessione più meditata e approfondita,potesse essere stravolto. O anche per evita-re che, proprio prendendo spunto da quan-to sarebbe inevitabilmente trapelato dailavori di una tale commissione, la stampaliberal-progressista berlinese cogliesse l’oc-casione di far pesare la sua influenza.

Certo è ad ogni modo che la rinunciaall’esame in commissione, su cui insistette-ro particolarmente i nazional-liberali, ebbecome condizione e conseguenza allo stessotempo una impennata del peso dei gruppiparlamentari all’interno della rappresen-tanza popolare tedesca; su di essi si riversòdi fatto tutto il lavoro di Vorberatung cheavrebbe dovuto svolgere un’eventuale com-missione. Ai contatti informali tra i capi-gruppo fu evidentemente lasciato quel pre-liminare scambio di opinioni e le irrinun-ciabili trattative che solitamente avevano

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luogo in commissione (Pollmann, pp. 189,192-193).

A costituzione ormai approvata, il rego-lamento già adottato in via provvisoria unaprima volta, fu confermato anche dal Parla-mento tedesco ordinario il 10 settembre1867. Già nei mesi che seguirono, tuttavia,importanti proposte di modifica formale delregolamento furono avanzate da due depu-tati nazional-liberali, Eduard Lasker e KarlTwesten, senza però che nel 1867 approdas-sero a nulla (Hatschek 1915, pp. 62-63).

La riforma del regolamento del Parla-mento della Confederazione della Germaniadel Nord sarà tuttavia condotta a buon ter-mine nell’anno immediatamente successivoe sarà definitivamente varata il 12 giugno1868. Nel regolamento del Reichstag dellaConfederazione, che costituì il primo nucleoforte del (Secondo) Impero tedesco, furonocosì introdotti forti elementi innovativi – ele-menti a cui il regolamento della Camera deideputati prussiana rimase invece estraneo –miranti ad avvicinarlo ancora più decisa-mente al regolamento in uso nel Parlamentoinglese. Il riferimento è qui in particolare aquel sistema delle tre letture per l’esame deiprogetti di legge che è rimasto una caratteri-stica fondamentale del diritto regolamenta-re della moderna rappresentanza popolaretedesca, ma non solo, sino ai nostri giorni.

Fino al 1868 nell’esame dei progetti dilegge, sulla base del percorso largamenteconsolidatosi nella Camera dei deputatiprussiana, veniva seguita la seguente pro-cedura: 1) dibattito in aula su come sisarebbe dovuti procedere nella trattazionedel progetto (geschäftliche Behandlung),2)Vorberatung in commissione o, in viaeccezionale, Vorberatung im ganzen Haus oaddirittura nessun esame preliminare,infine, 3) discussione plenaria finale

(Schlußberatung im ganzen Haus), nel corsodella quale si tornava sia sui principi fon-damentali della proposta di legge, sia suisingoli articoli, per chiudere, infine, con ilvoto (Hatschek 1915, pp. 65-66).

Con il sistema delle tre letture introdottonel 1868 «il centro delle consultazioni,secondo quanto dichiarò lo stesso Twesten,si [sarebbe spostato] dalle commissioni, lacui Vorberatung sino ad allora aveva rappre-sentato la regola, nell’aula» (Hatschek 1915,pp. 63-64; Plate, pp. 14-15). In particolare,la prima lettura avrebbe dovuto consistere inun pubblico dibattito generale in aula suiprincipî fondamentali del progetto, le suemotivazioni, la sua attualità e attuabilità, non-ché, in conclusione, sul modo in cui si vole-va procedere. Tra la prima e la seconda lettu-ra si inseriva il lavoro a porte chiuse dell’esa-me in commissione, e nella seconda letturasi tornava a discutere pubblicamente in aulasui singoli articoli del progetto sulla base,prevalentemente, del lavoro svolto dalla com-missione. Infine nella terza lettura, che ave-va luogo dopo che il progetto di legge era sta-to organicamente ricomposto nella forma cheaveva assunto in seguito alla seconda lettura,si ridiscuteva di nuovo sui suoi principî ispi-ratori e le sue finalità, per passare poi a votar-lo, prima articolo per articolo, poi nel suoinsieme, e si decideva quindi definitivamen-te se vararlo o no nella forma che aveva nelfrattempo assunto (Hatschek 1915, pp. 66;Rönne, pp. 285-286; Jekewitz, pp. 548-549).

In questo modo, effettivamente, i pub-blici dibattiti dell’aula (Debatten im ganzenHaus) avrebbero dovuto acquistare un ruo-lo assai maggiore rispetto a prima, e il Par-lamento sarebbe stato maggiormente coin-volto nelle diverse fasi del processo legis-lativo; mentre alle commissioni venivaassegnato un posto più definito ed un ruo-

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lo più circoscritto nel processo legislativosolo tra la prima e la seconda lettura.

Sulla GO del Reichstag della Confedera-zione tedesco-settentrionale del 1868, chesarà adottata con poche modifiche anche dalReichstag imperiale del 1871, restando perquesta via, con il suo caratteristico sistemadelle tre letture, anche alla base della GO delBundestag repubblicano (Jekewitz, p. 548),il grande giuspubblicista liberale Ludwig vonRönne scriverà nel 1876:

Il nuovo regolamento ha completamente abban-donato l’idea che stava alla base dei precedentiregolamenti, e cioè di spostare il fulcro dei dibat-titi nelle sezioni e nelle commissioni, dandoinvece ai dibattiti plenari il carattere di arringapreparatoria. Esso parte invece dall’assunto chel’assemblea plenaria sia da considerarsi il porta-tore naturale e a ciò votato della consultazione edella risoluzione legislativa, e che perciò i prin-cipali punti di vista per ogni questione non deb-bano essere ricavati nelle sezioni e nelle com-missioni, ma debbano invece maturare diretta-mente nella manifestazione di opinioni e neldibattito della totalità; ciò che si deve trovare è lavolontà della maggioranza, con partecipazioneattiva e interazione reciproca di tutti i membri enon per mezzo di una articolazione burocratica especialistica. Le commissioni devono continua-re ad esistere solo come eccezione per riuscire acurare il dettaglio legislativo.[Rönne, p. 284]

Con la modifica a cui era stato sottopo-sto il regolamento del Reichstag nel 1868, inazional-liberali volevano dunque riporta-re in primo piano il Plenum come luogoprincipale della comunicazione con l’opi-nione pubblica e la nazione; nonché, parti-colarmente, riaprendo a tutto campo il pub-blico dibattito sul progetto di legge dopo laseconda lettura, rivalutare il Reichstag nelsuo complesso come luogo della mediazio-ne e del compromesso politico. Tutto ciò

doveva però naturalmente passare per ildrastico ridimensionamento del rilievoacquisito negli ultimi tempi, evidentemen-te ritenuto eccessivo, dal lavoro parlamen-tare svolto nelle commissioni: organismiche si voleva ridurre ad un ruolo secondarioe subordinato, a mero strumento. Da esse,non da ultimo per la loro difficoltà a riflet-tere fedelmente le maggioranze incerte eoscillanti che, come vedremo, caratterizze-ranno la vicenda politico-parlamentareimperiale (Pollmann, pp. 359, 361-362), siriteneva dovercisi attendere soprattutto uneccessivo protrarsi dei lavori parlamentari.

Tuttavia, già negli ultimi tempi del Nord-deutscher Bund divenne ben presto assaichiaro che, di fatto, ad avvantaggiarsi diquesta drastica riduzione del ruolo dellecommissioni non era stata la seduta plena-ria: peraltro, spesso, data la mole di lavorolegislativo che le veniva riversata addosso,si trovò a lavorare ai limiti delle sue possi-bilità, lasciando spesso alquanto a deside-rare riguardo alla qualità della redazionetecnica delle leggi.

Ad acquisire in peso funzionale furonopiuttosto le Fraktionen, i loro vertici e i comi-tati interpartitici, non solo, come già in Prus-sia, nella definizione della composizione del-le commissioni, ma anche nell’appronta-mento della lista degli interventi per il dibat-tito in aula. Sempre con la riforma del 1868era infatti stato soppresso l’istituto di origi-ne francese della Rednerliste, che solitamen-te veniva rigidamente fissata ancora primache iniziasse il dibattito e non era modifica-bile per alcun motivo, indipendentementedal corso che prendeva il dibattito. Al suoposto fu invece introdotta, anche se solo nel-la prassi, la consuetudine inglese del presi-dente che chiamava i deputati ad interveni-re secondo il suo arbitrio (Hatschek 1915, pp.

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666-667), confidando tacitamente nellapossibilità del presidente di collaborare conil Seniorenkonvent, una specie di conferenzadei capigruppo che radunava i fiduciari ditutti i gruppi parlamentari e che si era impo-sto in Prussia già verso la metà degli anniSessanta (Plate, p. 229; Hauenschild, p. 33),ma di cui ancora per alcuni anni non si faràmai parola (Pollmann, p. 365).

Di questo Seniorenkonvent, che venneben presto ad assumere di fatto funzioniimportantissime – come la pianificazionedel lavoro parlamentare, la fissazione del-l’ordine degli interventi in aula, la distri-buzione degli uffici della Camera e la defi-nizione della composizione delle commis-sioni (Franke, p. 46-50; Hauenschild, p.34) – non si faceva infatti alcun cenno,come del resto delle Fraktionen, nel regola-mento del Reichstag appena modificato.

3. La pubblicità nel processo di legislazionetra Bundesrat e Reichstag

Il regolamento del Reichstag della Confede-razione della Germania del Nord, uscito dal-la riforma del 1868, fu adottato come si è det-to, con qualche leggerissima modifica voltaessenzialmente a perfezionare il sistema del-le tre letture, anche dal primo Reichstag del-l’appena fondato (Secondo) Impero tedescoil 21 marzo 1871, e fu poi nuovamente con-fermato all’inizio di ogni legislatura.

Il regolamento del Parlamento imperiale,tacendo clamorosamente sull’esistenza del-le Fraktionen e del Seniorenkonvent, nella real-tà i motori principali della vita politico-par-lamentare ed i luoghi in cui effettivamentevenivano prese le decisioni, certo contribuìnon poco con la sua reticenza ad alimentare

le critiche di coloro che, prima di CarlSchmitt e prima che in Germania fosse intro-dotto il sistema parlamentare di governo,cominciarono ad indicare nell’aula solo ilteatro di una ben studiata rappresentazionescenica (Mergel, pp. 295 ss., 401; Biefang,pp. 86-100; Blackbourn). Allo stesso temponon si prendeva atto di come solo l’esistenzadelle tanto deprecate stanze degli organismidei partiti fosse in grado di far funzionare unParlamento moderno, fondato non più solosul libero mandato del deputato ma anchedemocraticamente eletto e su cui quindi gra-vavano pesanti ipoteche di legittimazione.

Com’è noto, il sistema politico-costitu-zionale imperiale era caratterizzato dallaoriginale compresenza di un diritto eletto-rale altamente moderno e democratico, conun sistema di elezione dei deputati oltre chegenerale, anche segreto e diretto, con unsistema di governo monarchico-costituzio-nale fondamentalmente dualistico, pog-giante sull’assicurazione costituzionalmen-te garantita della preponderanza dell’ese-cutivo (consiglio federale [Bundesrat], can-celliere, imperatore) sul legislativo e sulReichstag in particolare.

In un sistema politico in cui ad unademocratizzazione reale anche se volutasoprattutto dall’alto non seguì mai una par-lamentarizzazione compiuta e formale(Schönberger, pp. 633 ss., 650; Ritter, pp.85-90; Zwehl, pp. 96, 101-105; Ullmann, p.71), era certo assai concreto per la rappre-sentanza popolare il pericolo che si levas-sero dalla sfera dell’opinione pubblica edagli elettori pesanti dubbi sulla sua legit-timazione funzionale e politica: dubbi cheeffettivamente diventarono assai pressan-ti soprattutto dopo il 1878. In questomomento entrò infatti in crisi l’alleanzaparlamentare tra liberali e conservatori

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moderati che aveva sin qui fattivamentesupportato il governo imperiale nel porre lebasi giuridico-amministrative del nuovoStato federale tedesco fondato sulla Reich-sverfassung (RV) del 16 aprile 1871 (Huber(ed), 2, pp. 384-402), e la mediazione poli-tica tra Parlamento e governo imperiale,nonché tra le forze politico-parlamentaritra di loro, diventò ancora più laboriosa.

All’interno del Parlamento, le maggio-ranze parlamentari che si susseguirono neltempo divennero sempre più incerte e oscil-lanti. Il più nutrito dei gruppi parlamentari,i nazional-liberali, arrivò a contare nel suomomento di maggiore forza 150 membri, equindi non raggiunse mai da solo la maggio-ranza (circa 199 voti); d’altro canto la mag-gioranza relativamente solida tra liberali econservatori-liberali che aveva retto sino al1878, dovette essere sempre nuovamentericontrattata. A questo bisogna poi aggiun-gere che le differenze tra i gruppi parlamen-tari di opposizione erano troppo grosse per-chè essi riuscissero a sfruttare quella com-plessiva maggioranza numerica che pure rag-giunsero dal 1881 al 1887. Si può così dire chenel Parlamento imperiale, se si prescinde dalcosiddetto Kartellreichstag (1887-1890), veree proprie coalizioni non ce ne furono, e a benvedere le Fraktionen finirono effettivamentecon lo sviluppare più capacità di mediazioneverso l’esecutivo imperiale che non tra di loro(Ullrich, pp. 64, 92).

Nel nuovo Impero la generalità del dirit-to di voto, oltre a raggiungere lo scopo percui era stata introdotta da Bismarck, l’inte-grazione in uno Stato federale unitario di tut-to il popolo tedesco proveniente da espe-rienze storiche e statali differenti, ebbeanche come effetto che i partiti giunsero gra-datamente ad acquistare una forza primasconosciuta. Sia dentro il Parlamento, dove

sin dall’inizio della moderna vita parlamen-tare essi, o meglio le Fraktionen, ebbero unruolo catalizzatore decisivo per il funziona-mento dell’istituzione parlamentare; sia fuo-ri dal Parlamento, dove gli stessi furonocostretti a darsi una organizzazione più soli-da e articolata soprattutto per l’organizza-zione delle campagne elettorali (Ullrich, pp.76-84; Nipperdey, pp. 22, 24). In Germania,tuttavia, in genere e soprattutto tra i libera-li è sempre stato il gruppo parlamentare adassumere la guida del partito nel paese e non,viceversa, il partito a guidare la sua rappre-sentanza in Parlamento (Ullrich, p. 80; Nip-perdey, pp. 139, 145, 158).

Il rafforzarsi del sistema dei partiti,caratteristico dell’epoca imperiale, misecomunque definitivamente in crisi la con-cezione liberale classica dell’istituzione par-lamentare, formata essenzialmente da nota-bili (Honoratiorenparlament). Una concezio-ne che certo è stata generosamente alimen-tata dal sistema maggioritario vigente, cheda un lato spingeva i deputati ad essere piùattenti agli interessi del proprio collegioelettorale che non a quelli dell’intero popo-lo e dall’altro li rendeva particolarmenteriottosi in Parlamento a qualsiasi discipli-na di partito (Fraktionszwang) (Ullrich, pp.33, 70, 74; Nipperdey, pp. 163, 174), e chesottostava a ben vedere alla consuetudine,sempre rigidamente rispettata dai regola-menti parlamentari tedeschi sino a Weimar,di ignorare del tutto l’esistenza dei partitiall’interno del Parlamento.

Le Fraktionen furono ufficialmente rico-nosciute per la prima volta, a livello dei sin-goli Stati tedeschi, dal regolamento dellaSeconda Camera del Württemberg del 12agosto 1909, laddove si parlava dell’impor-tanza delle «associazioni di membri» delParlamento per l’elezione delle commissio-

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ni; mentre, a livello imperiale, il loro primoriconoscimento si ebbe solo con il regola-mento del Reichstag weimariano (§§ 7-9 del-la Geschäftsordnung für den Reichstag del 12dicembre 1922 [Tschucke, pp. 19-20]), incui pure si assegnava ad esse il compito diformare le commissioni (Demmler, p. 154;Hauenschild, p. 21).

Se in genere si è sottolineata alquantoacriticamente la sostanziale continuità rin-tracciabile tra i regolamenti delle rappre-sentanze popolari tedesche dagli inizi delmoderno parlamentarismo ad oggi(Kretschmer, pp. 290-291; Trossmann, p.125), proprio su questo punto, e cioè sulpersistente disconoscimento della struttu-razione in partiti dell’istituzione parla-mentare, e quindi sullo iato tra diritto rego-lamentare positivo e funzionamento realedell’istituzione parlamentare (Reichstag-swirklichkeit) che ne conseguiva, non si puònon ammettere che la continuità fu perlo-meno imbarazzante.

Il principio della pubblicità dei lavori par-lamentari, inteso come garanzia che esternipotessero assistere ai dibattiti del Parlamen-to e che dei lavori di quest’ultimo fosse datanotizia all’opinione pubblica a mezzo stam-pa, era solennemente affermato sia nell’art.22 della già citata costituzione imperiale(Huber [ed], 2, p. 390) che nell’art. 36 dellaGeschäftsordnung für den Reichstag (Huber(ed), 2, p. 429). L’art. 26 della costituzioneimperiale, inoltre, a ulteriore garanzia dellapubblicità dei lavori del Reichstag, protegge-va quest’ultimo da arbitrarii aggiornamentida parte dei vertici dello Stato.

Nel processo di legislazione imperiale(art. 5 della RV), a cui erano chiamati a con-correre con pari diritti il Bundesrat (Consi-glio federale, ovvero la rappresentanza deimonarchi e/o dei governi dei singoli Stati),

con funzioni sia di governo sia di legisla-zione e presieduta dal Cancelliere imperia-le, e il Reichstag (Rönne, pp. 13 ss.), il livel-lo di pubblicità dei lavori non era semprecostante. Esso dipendeva infatti non solodal necessario alternarsi nel Reichstag deilavori dell’aula a quelli delle cosiddette“camere oscure” delle commissioni, maanche dal fatto che l’altro fattore della legis-lazione, il Consiglio federale, potesse pra-ticamente in ogni momento ritirarsi adibattere “privatamente” a porte chiuse, equindi sottrarsi alla dialettica aula-com-missioni, salvo poi rientrarvi e far qui vale-re il suo potere di veto.

In particolare, il livello di pubblicità delprocesso legislativo era maggiore quando ilprogetto di legge partiva dal Parlamento enel corso del suo esame; mentre eraalquanto ridotto quando esso partiva dalBundesrat, il che però era ciò che accadevadi regola, dato che da esso muoveva solita-mente l’iniziativa legislativa. In questo casoi progetti di legge (o le proposte, le petizio-ni, le interpellanze) erano discussi primaal Bundesrat in sedute rigorosamente nonpubbliche, coerentemente con la naturadell’organo, e solo successivamente veni-vano trasmessi al Reichstag perché li esa-minasse. O meglio, venivano trasmessi alpresidente di quest’ultimo dal Cancelliereimperiale che presiedeva il Bundesrat (Ull-rich, pp. 16, 101-103; Huber, III, p. 852).

Il Consiglio federale, nonostante si fos-se dotato anch’esso di una Geschäftsordnungfür den Bundesrat (Huber (ed), 2, pp. 417-422) che definiva un percorso ben determi-nato per l’esame dei progetti di legge e pre-vedeva l’instaurazione di ben undici com-missioni permanenti per la loro preparazio-ne, partecipava dunque alla legislazione manon era né una seconda Camera, come ten-

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ne a precisare Laband (Laband, p. 307), néin alcun modo parte del Parlamento (Ullrich,pp. 21, 23, 102-103; Huber, p. 853). Nella suacollegialità esso rappresentava, piuttosto, ilpolo monarchico-governativo nella forma digoverno monarchico-costituzionale che aben vedere vigeva anche a livello imperiale,oltre che nei singoli Stati territoriali tede-schi, e in quanto tale non poteva essere tenu-to a discutere pubblicamente.

Insomma, nella realtà costituzionaleimperiale la pubblicità dei lavori parlamen-tari non coincideva affatto con la pubblici-tà dell’intero processo di legislazione. Nonsolo, dei due organi designati dalla costitu-zione a fattori della legislazione, l’organoche teneva segretamente le sue sedute e dicui quindi di solito non si occupava diretta-mente né la stampa né l’opinione pubblica,il Bundesrat, i cui membri non erano nem-meno continuamente esposti (come inveceaccadeva ai membri del Reichstag) alla cor-rosiva critica che parlassero «zum Fensterhinaus», era anche l’organo che nella costi-tuzione deteneva “la posizione dominante”(Deuerlein, p. 20).

È perciò solo logico che all’interno delParlamento ci si sia interrogati da subito sela pubblicità in sé e per sé agisse effettiva-mente da moltiplicatore della forza e dell’in-fluenza politica del Parlamento, come ave-vano ritenuto i liberali tedeschi della primametà del secolo, o se invece in certe circo-stanze l’obbligo della pubblicità non minac-ciasse di trasformarsi in un fattore di debo-lezza. E questo ancora di più qualora si pren-desse definitivamente atto che a dover anda-re al confronto e alla contrattazione con ilBundesrat per far funzionare la macchina del-la legislazione era solo apparentemente tut-to il Reichstag, in realtà invece una frazione diesso, generalmente la sua maggioranza.

L’interesse soprattutto della maggioran-za parlamentare a varare le leggi e quindi acercare nel merito un accordo con il Bunde-srat, dato anche che la RV (come in genere lekonstitutionelle Verfassungen) non aveva affat-to previsto cosa dovesse succedere nel casoche i due fattori della legislazione nonriuscissero a trovare un accordo, richiedevacomprensibilmente tanta più riservatezzaquanto maggiore si prospettava già in par-tenza la distanza e la disomogeneità politicatra le due Camere. Già il solo fatto che il diva-rio politico-ideologico e politico-program-matico tra governo imperiale e Reichstag nelsuo complesso andò progressivamenteaumentando dopo il 1878, e che contempo-raneamente divenne più alto il livello di con-flittualità interna al Parlamento imperiale,in particolare con il progressivo rafforzarsidel partito socialdemocratico, lascia intuirequanto vitale potesse apparire per la opera-tività, la funzionalità e la produttività stesse

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Sala delle sedute plenarie del Reichstag imperiale, 1894

del Parlamento imperiale la individuazionedi momenti non pubblici di mediazionepolitica.

È evidente che a questo scopo si presta-va eccellentemente ad essere utilizzato illavoro non pubblico delle commissioni. Alleloro consultazioni solitamente prendevanoparte con voto non deliberativo anche rap-presentanti governativi o loro commissari,secondo quanto previsto dal § 29 della GOdel Parlamento imperiale, ed in cui tutti ipartiti dovevano essere rappresentati pro-porzionalmente alla loro forza elettorale. Alcontrario, i pubblici dibattiti in aula, chepure erano stati particolarmente valorizzatidal regolamento vigente, rischiavano, se nonadeguatamente preparati, o di ridursi adospitare un dibattito politico tanto conflit-tuale e lacerante quanto sterile e improdut-tivo (come del resto già era accaduto duran-te gli anni del conflitto costituzionale inPrussia), oppure di rivelarsi assolutamentesuperflui qualora si cedesse alla tentazioneopposta di spostare tutto il lavoro parlamen-tare vero e proprio dalle assemblee plenarienelle commissioni.

Il verificarsi di questo secondo caso eradel resto tanto poco negli auspici e nelleintenzioni del Cancelliere quanto il verifi-carsi del primo, dato che il Reichstag rischia-va comunque di perdere quel ruolo di inte-grazione politica della nazione tedesca, quelruolo di «luogo di cristallizzazione dellacoscienza imperiale», che era il motivoprincipale per cui egli aveva voluto chevenisse eletto democraticamente e che appa-risse come il «fattore politico determinan-te della politica imperiale», laddove invecenella costituzione era «la parte più deboledel corpo legislativo» (Deuerlein, p. 20).

Il Reichstag, a cui la costituzione impe-riale (art. 27) aveva assicurato il diritto di

decidere sugli interna corporis e quindi l’au-tonomia regolamentare (Arndt, pp. 33-34),acquistava la sua struttura attraverso tuttauna serie di uffici e di organismi. Essi in par-te servivano alla mera amministrazione dellavoro parlamentare (presidenza, ufficio,segretari e questori, sezioni); in parte aveva-no influsso diretto sulla legislazione, come lamaggior parte delle commissioni; in parte,infine, avevano entrambe le funzioni, comenel caso del presidente, dei gruppi parla-mentari, e del già incontrato Seniorenkonvent.Alcuni di questi organismi, come si è giàvisto, erano previsti dal regolamento parla-mentare, altri, e cioè le Fraktionen, il Senio-renkonvent o le Freie Kommissionen (sempli-ci unioni di deputati senza alcun mandato) sisvilupparono al di fuori dello stesso.

Tra le commissioni, di cui trattavano i§§ 26 e ss. del regolamento del Reichstag, cene potevano essere sia di permanenti, sia dicostituite ad hoc per esaminare e discutereproposte legislative ben determinate; inquesto secondo caso erano destinate imme-diatamente a sciogliersi alla conclusionedell’esame del progetto di legge per cui era-no state insediate.

Nel Reichstag imperiale non si sviluppòtuttavia un sistema di commissioni perma-nenti: delle sole 6 commissioni permanentipreviste dal regolamento (regolamento, peti-zioni, commercio e attività produttive, finan-ze e dogane, giustizia, bilancio dell’Impero)non tutte furono sempre presenti. Il fatto chefossero trascurate le commissioni perma-nenti non significa però che si rinunciasseall’esame in commissione; in realtà furonocreate sempre nuove cosiddette Fach o Son-derkommissionen (Dechamps, pp. 58-59).

Ai lavori delle commissioni del Reichstagpotevano prendere parte con voto consulti-vo, come si è già accennato, anche i membri

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del Bundesrat ed i loro commissari. Il gover-no imperiale fece uso di questa possibilità einviò un suo rappresentante permanente inalcune commissioni, cosa che gli consenti-va di seguire in tempo reale l’andamento deidibattiti delle commissioni del Reichstag. Siadell’inizio dei lavori che della materia deiloro dibattiti, le commissioni dovevano darenotizia al Cancelliere imperiale (§29 GO).Non diventò invece mai una rispettata con-suetudine che il Reichstag fosse messo al cor-rente in tempo ragionevole e utile delle pre-se di posizione del Bundesrat sulle propostetrasmessegli. Dopo che inizialmente que-st’ultimo aveva negato sussistesse per essoqualsiasi obbligo di informare il Parlamen-to sulle sue risoluzioni, nel 1872 il Parla-mento decise di inviare al Cancelliere impe-riale la richiesta che gli fossero comunicateper iscritto al più tardi all’inizio di ogni ses-sione le risoluzioni prese dal Consiglio fede-rale in merito alle proposte o ai progetti dilegge pervenutigli.

Il Consiglio federale, che pure in un pri-mo momento accolse senza replicare larichiesta del Parlamento imperiale, inau-gurando nel 1873 la prassi, diligentementeosservata sino al 1918, di inviare un pro-spetto con le informazioni richieste all’i-nizio della sessione, cominciò però benpresto ad inviarle con tale ritardo da risul-tare inutilizzabili per gli scopi informativiche dovevano soddisfare, e lasciando quin-di pressoché inalterato il livello di riserva-tezza non solo dei suoi dibattiti ma anchedelle sue risoluzioni (Trossmann, p. 137).

Nelle commissioni, il cui numero dimembri doveva essere eguale a 7 o a suoimultipli sino a 28, ad indicare alle singoleFraktionen quanti rappresentanti potesseroinviare in esse, era nella prassi il Senioren-konvent, che anche nel Parlamento imperia-

le si affermò abbastanza rapidamente, al dilà del fatto che nel § 26 del regolamento par-lamentare si dicesse che i membri dellecommissioni erano eletti dalle Abteilungen.Solo la formazione delle commissioni attra-verso il Seniorenkonvent poteva infatti garan-tire che esse rappresentassero uno “spec-chio veritiero” del Plenum, praticamenteuna assemblea plenaria in dimensioniridotte, e che fosse di conseguenza possibi-le al loro interno una prima trattativa utilesul progetto di legge in discussione.

Principî fondamentali della attività del-le commissioni erano, oltre alla loro forma-zione in rappresentanza proporzionale deigruppi parlamentari, lo scambio di opinio-ni con gli organi governativi, la non pubbli-cità delle sedute, la loro indipendenza dal-l’aula. Particolarmente queste due ultimecaratteristiche delle commissioni, la riser-vatezza delle sedute e la relativa autonomiarispetto all’aula, consentivano ai deputati diesprimersi con maggiore libertà; al lorointerno assai meno sentiti erano anche i vin-coli al gruppo parlamentare di appartenen-za. Fermamente vincolato alle decisionifinali della commissione era per contro ilrelatore incaricato di riferire all’aula sull’e-sito dei lavori (Ullrich, pp. 44-46). La con-cezione giuridica dell’autonomia delle com-missioni si è mantenuta sino ad oggi(Dechamps, p. 95).

La dovizia di particolari con cui nelregolamento del Parlamento imperiale ci sisoffermava non solo sulle commissioni, sulmodo in cui dovevano essere composte esul modo in cui dovevano lavorare, maanche sulle sezioni, e cioè su entrambi gliorgani “ufficialmente” preposti alla prepa-razione dei lavori parlamentari dell’aula,colpisce ancora di più se si pensa a comeinvece nello stesso regolamento si tacesse

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del tutto, come si è già accennato, su que-gli organismi, quali i gruppi parlamentari eil Seniorenkonvent, in cui prima ancora chenelle commissioni di fatto si svolgeva laVorberatung dei progetti di legge. La stessapossibilità che l’aula potesse all’occorren-za riversare parte più o meno consistentedel suo lavoro nelle commissioni avevacome premessa, e conseguenza allo stessotempo, una relativamente stabile struttu-razione dell’aula in gruppi parlamentari.

Del resto, anche i rapporti del Parla-mento con gli organi esecutivi dell’Imperopassavano per la mediazione dei gruppiparlamentari, nel senso che gli esponentidell’esecutivo, e Bismarck per primo, cer-cavano preferibilmente il dialogo con i par-lamentari che potevano trattare in nome diun gruppo parlamentare relativamente fol-to o influente. Particolarmente nelle cosid-dette parlamentarischen Soireen Bismarckcercava i contatti con i parlamentari e inqueste occasioni furono spesso annunciatinuovi progetti legislativi.

L’epoca di estensione dei dibattiti plena-ri e con ciò anche del trionfo della pubblici-tà e della trasparenza dei lavori parlamenta-ri a cui tendeva la lettera del regolamentoimperiale, in effetti durò assai poco. Ben pre-sto il lavoro svolto in commissione tra la pri-ma e la seconda lettura andò acquistandopeso sempre maggiore e soprattutto maggio-re autonomia, mentre per contro la prima ela terza divennero sempre più formali. Nellaseconda lettura, che era per l’appunto quellache avveniva sulla base del lavoro svolto sulprogetto di legge all’interno della commis-sione, il progetto veniva discusso in ogni suaparte e ogni deputato poteva proporre modi-fiche su ogni punto del progetto in esame.

Se in seconda lettura l’aula rigettava ilprogetto in ogni sua parte, non era ammessa

una terza lettura. Anche nel corso della terzalettura del progetto di legge i singoli deputa-ti potevano proporre modifiche, ma, diver-samente che nella seconda lettura, le propo-ste di modifica dovevano essere sostenute daalmeno trenta deputati. Con la possibilitàprevista dal regolamento del Reichstag di inse-rire l’esame in commissione in ogni fase delprocesso legislativo (§21 della GO), e soprat-tutto con la centralità assunta dalla secondalettura, e cioè del lavoro svolto in commis-sione, si andò di nuovo irrimediabilmenteinquinando di tratti caratteristici del model-lo francese quella purezza del modello ingle-se a cui invece Twesten e Lasker avevano volu-to avvicinarsi ulteriormente nel 1868; presecosì forma sempre più definita la cosiddetta“variante tedesca” del modello inglese diregolamento parlamentare (Jekewitz, p. 549).

Il livello relativamente alto di pubblicitàdel lavoro parlamentare “imposto” dal rego-lamento si rivelò ben presto tanto più inso-stenibile quanto evidentemente parziale,poggiando acrobaticamente sulla rimozionedella ineliminabile presenza sulla scena par-lamentare dei suoi protagonisti primi, i par-titi ed i loro organismi. Del Seniorenkonventaddirittura, che si impose ben presto sulpresidente dell’assemblea anche nella fissa-zione della Rednerliste, che a partire dal 1872fu presentata direttamente da esso, e non piùdal presidente in seguito agli accordi presicon esso (Ullrich, p. 51; Dechamps, p. 94),non si fece a lungo parola alcuna non solonel regolamento parlamentare, ma nemme-no nelle sedute plenarie e nelle memorie deideputati (Ullrich, pp. 41-44).

Particolarmente dall’esempio rappre-sentato da questo organismo, che presesuccessivamente il nome con cui è ancoraoggi noto, vale a dire quello di Ältestenrat, ela cui importanza fu a lungo inversamente

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proporzionale solo alla sua debolezza giuri-dico-positiva, si può intuire quanto grandefosse la differenza tra norme giuridiche fis-sate per iscritto e la costituzione materialedell’Impero, quella stessa distanza che cor-reva tra un regolamento parlamentare chelasciava apparire le pubbliche sedute del-l’aula come il fulcro dei lavori parlamenta-ri e invece una dialettica politico-istituzio-nale che premiava, come ancora oggi delresto, più i contatti informali e le trattativesvolte nella segretezza degli organismi deipartiti che non la pubblicità incondiziona-ta e la trasparenza dell’agire politico.

4. Alcune riflessioni conclusive

La storia costituzionale comparata è ladisciplina cui forse spetta per così dire isti-tuzionalmente di verificare se un dato feno-meno politico-costituzionale, in questocaso il restringersi della pubblicità e il venirmeno della trasparenza dei lavori parla-mentari in conseguenza della cosiddetta«Verlagerung der parlamentarischenArbeit in die Ausschüsse» (Dechamps, pp.1-2), sia o sia stato in relazione con la sta-tica e/o la dinamica del sistema politicoentro cui storicamente si manifesta o si èmanifestato. Proprio per questo appareoggi tutt’altro che privo di senso tornare ariflettere sulla questione in termini aggior-nati sia rispetto a come essa era stata impo-stata ormai mezzo secolo fa da BrunoDechamps, sia soprattutto alla luce degliultimi sviluppi del dibattito storico-costi-tuzionale tedesco (ma che è ormai europeo)sui differenti tempi e modi della parla-mentarizzazione dei sistemi monarchico-costituzionali, nonché sui tratti caratteri-

stici della forma parlamentare di governoanche nei nostri Stati democratici di oggi.

Si può ancora oggi ritenere, come sostie-ne Dechamps, che quando la pubblicità deilavori parlamentari effettuati nell’auladovette essere sacrificata a vantaggio dellamaggiore precisione, razionalità e comple-tezza dei lavori parlamentari svolti nellecommissioni, ciò si realizzò in termini tan-to più radicali quanto più stretto era il lega-me tra Parlamento e governo, quanto piùinsomma il governo si presentava come ilcomitato esecutivo, politicamente respon-sabile, della maggioranza parlamentare, nonda ultimo perchè così veniva a ricadere sulParlamento un carico di lavoro maggiorerispetto a quello che vi ricadeva in un siste-ma politico monarchico-costituzionale?

Non richiederebbe forse oggi questa tesidi essere rivisitata alla luce delle nuove ipo-tesi di ricerca affermatesi negli ultimi decen-ni, secondo cui in Germania, dove pure nonsi arrivò alla parlamentarizzazione, il Reichstagdi epoca imperiale, non meno di quello del-la Confederazione della Germania del Nordche lo aveva preceduto (Pollmann, pp. 17, 20,357, 514) e di quello di Weimar che lo seguì(Mergel, pp. 91, 178-179), lavorò sempreintensamente, assiduamente e con grandirisultati, lasciando segni indelebili della suaintensissima attività di legislazione e acqui-sendo per tale via, indirettamente, un influs-so crescente ed un peso da non sottovaluta-re nel governo dello Stato?

Particolarmente rispetto all’argomenta-zione sviluppata da Dechamps nella Germa-nia dei primi anni ’50, che vide anche la sto-riografia strenuamente impegnata a ricer-care le cause e le ragioni profonde, possibil-mente politico-strutturali, del Sonderwegtedesco, siamo in grado oggi, certo più cheallora, di riflettere sul basso tasso di coin-

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volgimento diretto del Parlamento nell’ef-fettivo governo dello Stato, che gli avrebbefatto assumere quel suo tratto caratteristicodi mero Diskussionsforum e Bewilligungspar-lament (Dechamps, p. 57).È un dato da cuiDechamps fa discendere un presunto scar-so carico di lavoro del Parlamento tedesco,ergo una necessità proporzionalmente ridot-ta di riversare il lavoro parlamentare dal-l’aula nelle commissioni, ergo, strettamentecorrelato a ciò, il mancato sviluppo di unsistema stabile di commissioni permanenti(Dechamps, p. 75). Ma questa non fu affattouna caratteristica esclusiva del sistema poli-tico e di governo della Germania di epocacostituzionale; fu invece, a ben vedere, undato comune alla maggior parte dei sistemimonarchico-costituzionali dell’Europa con-tinentale, anche quando quei sistemi, comead esempio quello italiano, passavano nomi-nalmente per parlamentari (Martucci).

A caratterizzare la vicenda tedesca non futanto la presenza di un Parlamento chiama-to solo a ratificare decisioni assunte prece-dentemente altrove, particolarmente nellesedute segrete del Bundesrat, e principal-mente in questo senso mutilato nella dimen-sione della pubblicità, quanto piuttosto losviluppo, assai precoce e del tutto originalenell’articolazione interna, di un sistema dipartiti relativamente stabile nella sua croni-ca instabilità. Nella Germania di epoca costi-tuzionale si può cioè osservare un fenome-no esattamente opposto a quanto successe inFrancia o in Italia, dove ad un Parlamentoesteriormente forte faceva da contraltare unaforma-partito ancora fondata essenzialmen-te sul ruolo preminente dei notabili.

In Germania, principalmente in conse-guenza della relativamente precoce demo-cratizzazione del diritto di voto (1867),infatti, il sistema dei partiti non solo si con-

solidò indipendentemente dal parlamenta-rizzarsi del sistema di governo, ma si con-solidò facendo leva, non tanto sull’associa-zionismo politico che solitamente nellasocietà prepara o segue da vicino il proces-so di costituzionalizzazione formale di unoStato, ma invece proprio su quello che anchein seguito, per tutta l’epoca costituzionale eanche oltre, si confermò essere il nucleofondamentale del moderno partito politicotedesco, la parlamentarische Fraktion.

Proprio su questo punto della persi-stente centralità del ruolo della Fraktionnella vita politico-costituzionale, la vicen-da tedesca è in grado di esibire una parti-colarità la cui considerazione però, a benvedere, può essere fatta pesare non solo perisolare il caso tedesco da quella che, secon-do Dechamps, sarebbe stata la regola neisistemi parlamentari maturi di Francia eInghilterra (e cioè la «Verlagerung der par-lamentarischen Arbeit in die Ausschüsse»per far fronte al sovraccarico di lavoro del-l’aula con conseguente drastica riduzionedella pubblicità e trasparenza dei lavoriparlamentari). Ma anche nel tentativo dievidenziare il modo particolare in cui laGermania partecipò concretamente allamedesima vicenda politico-costituzionaledegli altri Stati costituzionali europei, unavicenda che è indubitabilmente segnatadalla riduzione della pubblicità e traspa-renza dei lavori parlamentari.

In questa prospettiva, bisogna anzitut-to sgombrare il campo dall’assioma per cuiil non consolidarsi in Germania sino a Wei-mar di un sistema di commissioni perma-nenti, sarebbe già di per sé indice incon-trovertibile del relativo permanere dellacentralità del Plenum nella conduzione deilavori parlamentari. Una tale impostazioneinfatti non rende ragione della innegabile

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tendenza, documentabile già in epocacostituzionale e non solo quindi da Weimarin poi, del progressivo ma inesorabilerestringersi della pubblicità e della traspa-renza dei lavori parlamentari a favore dellavoro non pubblico delle commissioni.

Per cogliere il livello reale del grado dipubblicità sottratto ai lavori parlamentaridal lavoro delle commissioni, bisogna peròanche mettere a nudo l’artificiosità di unmetodo interpretativo che pretende di por-re al centro dell’indagine la considerazionedi un organo, per quanto relativamenteautonomo, del Parlamento, e cioè le com-missioni, senza di fatto tenere nella dovutaconsiderazione che dietro anche solo la purae semplice esistenza delle commissioni cifurono storicamente ed immancabilmentein Germania i gruppi politici parlamentari,i partiti. Come ha intuito anche Dechamps,senza tuttavia trarne tutte le possibili con-seguenze, furono i partiti e più precisamen-te le Fraktionen a mantenere saldamentenelle loro mani in Germania la decisionepolitica, mentre le commissioni furono aben vedere solo i luoghi in cui queste si con-frontavano tra di loro (Dechamps, p. 108).

Alla ricerca del momento preciso in cui ilParlamento tedesco ha pragmaticamentecominciato a cedere di fatto quote semprepiù significative della pubblicità dei suoilavori, non deve perciò suscitare meravigliache già per il Secondo Impero assai frequentisiano le testimonianze dei contemporaneinon solo del già avvenuto svuotamento delPlenum a favore delle commissioni (Hauen-schild, p. 37), ma anche del superiore livel-lo di sviluppo raggiunto in Germania dalsistema delle commissioni proprio in con-seguenza del fatto che qui, a differenza che inFrancia o in Inghilterra, esse fossero forma-te dal Seniorenkonvent (von Gerlach, p. 49).

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Itinerari

314

Parlamento e opinione pubblica nel governorappresentativo

Sebbene la parola parlamentum abbia origi-ni lontane (è nota almeno dalla fine dell’XIsecolo), l’accezione ottocentesca prende lemosse probabilmente dal parlamentum cosìcom’è inteso dal tardo Medioevo, quando iltermine si precisa, anche da un punto di vistagiuridico, per designare semplicementeun’assemblea rappresentativa dei sudditi.

Se il Parlamento “è un’epoca”, nell’Ot-tocento assume la fisionomia d’arengo poli-tico-oratorio (d’altronde Parlamento riman-da anzitutto all’atto del parlare); nella formapuò anche paragonarsi agli antichi parla-menti, ma non per lo «spirito da cui sonoanimati i governi rappresentativi moderni.Questi sono fondati sull’idea di eguaglianza,laddove quelle antiche assemblee furonofondate sui privilegi dei varii ordini di citta-dini» (C. Bon-Compagni 1848, p. 93).

La profonda innovazione risale alleRivoluzioni settecentesche, quando ci sicomincia a riferire a cittadini titolari di

diritti, allorché muta il presupposto dellarappresentanza nel Parlamento. L’Ottocen-to contribuisce con un’ulteriore evoluzione:è il luogo dove si forma il pensiero politiconazionale, si delinea cioè come «strumen-to, luogo, occasione, modo di esprimersidella dialettica politica e giuridica e comeentità» (Ferrara 2001, p. 1166).

L’istituzione parlamentare aspira adessere espressione del moderno Stato libe-rale; già Palazzo Carignano ambiva ad esse-re «il simbolo della libertà e con esso del-la nazione stessa italiana. Da questo feno-meno di pubblica opinione […] ci pare chetraesse forza e irrevocabilità l’inclinazionea un regime di assemblea nel Piemonte e inItalia» (Caracciolo 1960, p. 9).

Questo Parlamento è davvero organo nuo-vo, strumento per realizzare i principi dellaCarta costituzionale, dovendo anzitutto armo-nizzare la sua politica con la volontà popola-re in accordo col regime monarchico-rap-presentativo (art. 2 Statuto albertino), ovve-ro una forma di governo che non «potrebbevivere senza il concorso dell’opinione», sen-

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L’originalità dell’informazione politicaitaliana: pubblicità parlamentare eopinione pubblica nel XIX secolo

monica stronati

giornale di storia costituzionale n. 6 / II semestre 2003

za cioè «il costante appoggio dell’opinionepubblica» (Minguzzi 1893, pp. 55-59).

Lo Statuto, tuttavia, non suggerisce lemodalità che permettano di conciliare ilprincipio della rappresentanza con quellomonarchico. Un’indeterminatezza, questa,destinata a durare: è il nodo costituzionaleche impegnerà la dottrina costituzionalisticaper tutta la vigenza dello Statuto e che anchenella pratica non troverà una soluzione defi-nitiva segnalando, piuttosto, una tendenzaalla parlamentarizzazione della forma digoverno parallelamente alla costituzionaliz-zazione del Monarca e delle sue prerogative.

Un fattore primario in grado di risolvereil problema costituzionale appare essere l’o-pinione pubblica; variamente designata«potenza», «influenza», «giudizio»,«pensiero», «spirito», «bussola», «pote-re», «forza politica», addirittura «organo»dello Stato. Non è un caso se i costituzionali-sti figurano tra i protagonisti più consapevo-li in questa ricerca d’una definizione d’opi-nione pubblica (v. Lacchè 2003); impegnaticome sono nella costruzione giuridica delloStato, non possono evitare di dare concretez-za all’«anima dei governi rappresentativi».

L’opinione pubblica è un elemento fon-damentale nell’architettura costituzionale:l’elemento che concilia l’inconciliabile«riducendo a concordia la podestà eredita-ria, e la podestà elettiva» (Bon-Compagni1848, p. 99). Lo stesso valore della Monar-chia rappresentativa dipende dal fatto che«in tutte le cose di governo sia preponde-rante il giudizio dell’opinione pubblica»(ibidem, p. 65) e la questione non riguardasolo la tendenza ad una rappresentanzademocratica poiché l’opinione pubblica nonè solo l’opinione legale, quella dei «conses-si elettivi». Semmai l’autorità dell’opinionepubblica legale – espressa dal Parlamento –

dipende dal grado con il quale rispecchia l’o-pinione pubblica che invece «è uno spiritoche non può vincolarsi ai partiti di un’as-semblea, ai voti di una classe, ai pensieri diun uomo, ma che anima tutta una nazione»(ibidem, p. 78).

La dottrina è sostanzialmente concordenell’escludere che l’opinione pubblica siagiuridicamente un potere dello Stato. Perquanto influente non ha «un giuridicoordinamento onde la sua attività e la suafunzione […] possono restare giuridica-mente inefficaci»; tuttavia di fatto è assi-milabile ad un vero e proprio potere, tantoche «se anche ci fosse la certezza che il suocontenuto fosse errato, sarebbe egualmen-te necessario […] che lo statista se necurasse» (Brunelli 1906, pp. 36-37). L’o-pinione pubblica manca d’organizzazionegiuridica, pertanto non ha «diritto di agi-re in maniera diretta ed ordinata sull’indi-rizzo della cosa pubblica.» (Brunialti 1896,p. 331); è cioè «incapace d’espressione giu-ridica […] non può ritenersi un vero e pro-prio elemento costitutivo dello Stato costi-tuzionale» (Tambaro 1904-1908, p. 853).L’opinione pubblica è però giudizio «nelquale i cittadini consentono rispetto allecose concernenti al governo dello Stato»(Bon-Compagni 1848, p. 66); dev’essere ungiudizio che «emendi e corregga, quandopure non valga a prevenire gli errori»(Minguzzi 1893, p. 71).

L’opinione pubblica è pensiero, ovveroè «puramente rappresentativa dello spiri-to pubblico» e dunque, in questo senso, èuna forza passiva che solo in momenti ecce-zionali si trasforma in azione; in ogni casonon è originale, non ha capacità creativa, èsemmai «la sintesi delle idee, dei senti-menti, delle impressioni della maggioran-za di un paese» (ibidem, p. 47). Inoltre, il

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suo carattere impulsivo, quasi irrazionalela pone in «antitesi al governo giuridico»,che non tollera altro al di fuori dell’obiet-tività e del rigore delle regole giuridiche(ibidem, p. 47). Tuttavia lo Stato non è ridu-cibile alle sole leggi, al contrario

la direzione politica, che non potendo per pro-pria natura piegarsi a regole giuridiche, non solonon esclude, ma anzi ammette e domanda illegittimo influsso della pubblica opinione, comeinflusso dell’intelletto e del sentimento dellanazione su gli affari che la riguardano.[Ibidem, p. 49]

Il giurista è in difficoltà perché l’opi-nione pubblica non sembra provenire dalproprio universo, come mostra la storiacomplessa ed incerta della locuzione: inItalia si afferma solo dalla seconda metà delSettecento, è di origine francese ma docu-mentata solo dal 1757, quindi non si posso-no «trarre definitive conseguenze sulla suafiliazione» (Cortellazzo, Zolli 1980).

Il significato d’opinione pubblica, nelSeicento, è prossimo a quello di reputazio-ne, non nel senso di pre-giudizio, né dimera opinione soggettiva; l’opinione-repu-tazione è quella già selezionata dalla societàe non ha accezione negativa. Opinion, ininglese e in francese, assume il significatodel latino opinio, cioè di opinione o giudizioincerto, non pienamente dimostrato; inquesto senso l’opinione-reputazione è «lafama, la considerazione, quello che si rap-presenta nell’opinione degli altri. Opinion,nel senso di opinione non garantita, chedeve ancora sostenere la prova della verità,si lega a opinion nel senso di reputazione, infondo problematica, presso la moltitudine»(Habermas 1971, pp. 111-112).

Dalla fine del Settecento opinion publi-que, public opinion si riferisce «all’attività

razionale di un pubblico capace di giudi-zio»; non è più l’opinione opinabile, né lareputazione, perché entrambe «si contrap-pongono a quella ragionevolezza che l’opi-nione pubblica pretende» (ibidem, p. 112).

L’Ottocento contribuisce potenziandouno specifico attributo: l’aggettivo pubbli-ca; creando lo strappo definitivo con l’idead’opinione. In realtà la dimensione pubbli-ca è già presente nel Settecento, tuttavia èancora un’opinione pre-politica, cioè asso-ciata all’idea dell’individuo capace di giudi-care in quanto capace di ragionare. La con-trapposizione opinione pubblica/Stato è unachiave di lettura suggestiva, benché parzia-le. Essa prende le mosse dall’osservazionedell’esperienza francese, quando la borghe-sia s’appropria d’uno spazio pubblico –intermedio tra Stato e popolo – nel qualediscute e sostanzialmente critica lo Statoassoluto. Nell’Ottocento l’opinione pubbli-ca è da osservare soprattutto tenendo contodell’effettiva forma di governo dello Stato.

Ad una prima analisi sembra potersi affer-mare che l’opinione pubblica – nel governorappresentativo – sia una «forza concorren-te all’attività dello Stato» (Belloni 1939, p.152) che, cioè, non entra a far parte delle isti-tuzioni pubbliche, piuttosto si propone comeluogo d’incontro tra Stato e società in “con-trapposizione”, ma è una deduzione che ori-gina dal presupposto, non dimostrato, dell’e-sistenza d’una sola opinione pubblica e del-l’effettiva separazione Stato/società.

L’opinione pubblica, del pubblico: è “ditutti” ed è “sul pubblico”, cioè sulla politi-ca del Governo; l’aggettivo pubblico indicaun’opinione che si forma attraverso unconsenso non privato, non individuale, macomune; inoltre indica che il suo oggetto èpubblico, ovvero esprime giudizi di valoresulla vita politica (v. Matteucci 1980, p.

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421). In effetti il Parlamento sembra avereuna doppia natura: non è solo la tribunadell’oratoria politica; al suo interno acco-glie la tribuna dell’opinione pubblica; unadoppiezza che corre parallela all’altra: ilpubblico (del Governo e “di tutti”).

Il teatro parlamentare: la tribuna del pubblico

La tribuna è anzitutto «Il luogo dove si col-locano gli oratori nelle assemblee politiche,per essere meglio veduti e uditi», ma laCamera italiana non ne fa uso: «Ogni depu-tato parla al suo posto, e i ministri al lorobanco». C’è invece un’altra tribuna: «allaCamera si dicono tribune anche le loggieposte in alto della sala, destinate al pubbli-co, o a categorie speciali di persone, e allequali si accede mediante regolare bigliettod’entrata rilasciato dalla presidenza dellaCamera» (Dizionario Politico-Parlamentare,1887). In Italia «fin dall’inizio, col regola-mento del 1848, il principio della pubblici-

tà fu largamente e con la massima libertàattuato» (Santangelo Spoto 1906-1910, p.280), è un principio talmente scontato – inuna Monarchia rappresentativa – che il Con-siglio di Conferenza non esprime alcunaosservazione a riguardo; è tanto importanteda prevedere la necessità di una domandascritta – di dieci membri – per richiedere ladeliberazione segreta che la Camera ha facol-tà e non obbligo di concedere.

Dal 1871, con Roma capitale, s’inizia a pen-sare ad un luogo stabile e funzionale ai lavoriparlamentari. A questo fine, per esempio, vie-ne costruita l’aula Comotto, che ben prestomostrerà la sua inadeguatezza. Tra le altre coseè carente nell’acustica, e questo – come anchequello degli spazi disponibili per il pubblico –è un aspetto fondamentale della vita istituzio-nale e non solo, ovviamente, perché l’acusti-ca deve consentire ai parlamentari di comu-nicare la loro parola. È un punto determinan-te per ottemperare al dettato costituzionaleche sancisce il principio della pubblicità degliatti: «Le sedute delle Camere sono pubbli-che» (art. 52 Statuto albertino). La previsio-ne statutaria mira anzitutto alla stessa soprav-vivenza del Parlamento:

La pubblicità dei dibattimenti legislativi nelle dueCamere è l’anima del sistema costituzionale […].L’esperienza ha anche dimostrato che le assem-blee senza pubblicità perdono ogni importanza efiniscono per annullarsi.[Peverelli 1849, p. 111]

La presenza del pubblico, prima d’esse-re una misura di conoscenza, è essa stessauna forma di pubblicità (Meloncelli 1988,p. 1032); così l’Aula Comotto metteva a dis-posizione, tra posti in piedi e a sedere, ben745 posti destinati al pubblico, 81 dei qua-li non riservati. I posti riservati sono dis-tribuiti tra diverse categorie:

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La macchina “Michela” in uso al Senato dal 1880 al 1980

I posti in tribuna tendono nel tempo adiminuire (prima 600,dei quali 54 pubbli-ci; poi 440, dei quali 60 pubblici), ma soloparallelamente all’impegno nel prevedereuna pronta e completa pubblicità dei dis-corsi parlamentari.

In questo senso la pubblicità del Parla-mento consiste nella conoscibilità, nell’in-formazione sull’attività di governo, ovverosostanzialmente nel rendere il potere pub-blico. Il potere è pubblico quando non èprivato; quando non è segreto, cioè quan-do è manifesto e conoscibile da tutti (v.Meloncelli 1988, pp. 1028-1029). Que-st’accezione della pubblicità – come corol-lario della conoscenza – ha la tendenza adassumere una indiscutibile valenza positi-va: conoscere tutto e da parte di tutti nonpuò che essere un bene.

In passato la miglior arte – l’unica for-ma possibile – di governare era legatainscindibilmente alla segretezza; il mito

della conoscenza, e poi dell’informazione,ha solo apparentemente rovesciato l’ideadell’arte di governare, perché la pubblicitànon sembra essere la risposta ad una neces-sità della politica – d’essere visibile – quan-to piuttosto un modo per garantire un cer-to grado di visibilità della società. Pubbli-cizzare la politica in effetti genera un pub-blico il quale può farsi opinione pubblicache, alla fine, nella sua emersione dall’in-distinto può essere illuminata, indirizzata,in qualche modo anche “controllata”. Per-ché se è vero che la pubblicità sottopone ilGoverno al “tribunale dell’opinione pub-blica”, è anche vero che i poteri costituiti«con la pubblicità spargono a loro volta nelpopolo quell’influenza educatrice che sgor-ga dall’abitudine e dalla responsabilità degliaffari […]. La pubblicità può giustamentequalificarsi come una grande educazione eduna grande tutela» (Racioppi, Brunelli1909, p. 55).

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TRIBUNA POSTI A SEDERE POSTI IN PIEDI TOTALE

SENATO CAMERA SENATO CAMERA SENATO CAMERA

PUBBLICA 24 51 80 30 104 81

RISERVATA alle signore - 34 - 20 - 54

“ agli uomini - 34 - 30 - 81

“ alla R. Casa 6 17 - 10 6 27

“ ai senatori - 48 - 30 - 78

“ ai deputati 50 - - - 50 -

“ alla stampa 22 66 - 40 22 106

“ alla Presidenza - 65 - 40 - 105

“ al Corpo diplomatico 50 48 - 30 50 78

“ alla Magistratura 95 34 6 20 101 54

“ all’esercito 25 34 95 20 120 54

“ ai Ministeri 16 17 3 10 19 27

288 465 184 280 472 745

La pubblicità, si dice, è anzitutto un’of-ferta al popolo sovrano perché eserciti uncontrollo sull’operato dei poteri pubblicicome nella democrazia; questa ha le sueradici nel principio della trasparenza e del-la conoscibilità della politica e «il segretonon trova più luogo, e tutto ciò che interes-sa il popolo dev’essere fatto alla gran lucedel giorno». Se la pubblicità sotto il regi-me assoluto «è contrastata dai governantiper sottrarsi al controllo della coscienzanazionale», in un regime libero invece«costituisce naturalmente e necessaria-mente l’atmosfera entro cui debbono ope-rare e vivere tutti quanti i poteri dello Sta-to» (ibidem, p. 55). È un’idea che, in fon-do, prescinde dalla forma di governo demo-cratica e riguarda piuttosto qualsiasi Statoretto da una costituzione – a maggior ragio-ne da una forma di governo rappresentati-vo – perché «si fonda non solo sulla legge,ma sul consenso continuo dei cittadini»(Minguzzi 1893, p. 108).

L’oratoria parlamentare italiana

La visibilità della tribuna parlamentareimpone il rispetto d’un galateo; si tratta diregole morali come, per esempio, stare acapo scoperto; serbare il silenzio; nonfischiare né fare esclamazioni; non leggeregiornali né scrivere lettere; effettivamenteinfluenti sono le norme parlamentari, peresempio nel discorso l’oratore non deveallontanarsi dalla questione in argomento; innessun caso dovrebbe riferire l’opinionepersonale del Principe, né fare riferimentoad atti e documenti che non siano stati comu-nicati all’Assemblea; o citare scritti e discor-si di altri oratori al fine di confutarli, ecc.

Al di là delle regole del discorso, l’ora-toria parlamentare costituisce una lingua disettore: il discorso parlamentare è anzitut-to parte del linguaggio politico, cioè un lin-guaggio, a sua volta speciale, caratterizzatodal particolare rapporto della lingua con ilcontesto in cui si esplica: «nella relazioneche intercorre tra il soggetto enunciatore ele particolari condizioni sociali di produ-zione e recezione» (Giuliani 2001, p. 861).L’oratoria liberale ottocentesca si distin-gue per lo stile persuasivo; la logica del dis-corso «mira a persuadere per via dimo-strativa» (ibidem, p. 867); attraverso lachiarezza lessicale, adottando un’oratoriaattenta e richiamando temi suggestivi sivuole consolidare l’ordinamento esistente.In Parlamento l’oratore s’avvale del lin-guaggio politico «che ha sempre comeobiettivo la creazione del consenso» (ibi-dem, pp. 860-861), pertanto costruisce ildiscorso secondo le regole dello stile per-suasivo compiendo scelte di contenuto emodalità di presentazione che incidonoanche sulla sintassi.

La stessa forma di governo costituziona-le orienta verso un discorso persuasivo:«governanti ed opposizione» si trovano adover «spiegare le proprie idee, a guada-gnarsi l’opinione pubblica, a porre la ragio-ne dalla propria parte. Far pervenire colladissuasione parlamentare le ragioni delGoverno agli avversari, quelle dell’Opposi-zione al Governo» (Palma 1877-1880, p. 16).

I discorsi assumono così un andamentorazionale ed argomentativo: esplicate le cau-se s’illustrano gli effetti, la persuasioneinfatti si fonda sull’adesione ai contenuti.Cavour è l’archetipo dell’oratore parlamen-tare italiano: adotta uno stile di persuasioneargomentata e dimostrata con la forza dellaragione «davanti al paese, di cui diviene così

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il grande educatore politico» (ibidem, p. 16);d’altronde l’opinione pubblica è una «forzapsichica» che non può essere «subordina-ta coattivamente», ma è influenzabile soloattraverso «il ragionamento, la persuasio-ne» (Minguzzi 1893, p. 66).

La persuasione razionale è appropriatadi fronte ad un pubblico in qualche modoselezionato, sia esso il collega parlamenta-re o il lettore dei giornali che divulgano iresoconti parlamentari, comunque un pub-blico in qualche modo partecipe della vitapolitica e chiamato ad esprimere un pro-prio orientamento. Ma quello della tribunadovrebbe essere qualcosa di più ampio, ilpubblico “indistinto”, che entra in aula eascolta, quello di cui l’istituzione rappre-sentativa abbisogna ai fini della sua legitti-mazione. Controllo e consenso diventanonodi strategici: lo Stato moderno ha tra isuoi organi una «legittima forza del gover-no libero», l’opinione pubblica, che dà ilproprio assenso o dissenso prima ancorache lo Stato operi. Nel nuovo contesto sta-tuale ogni disegno politico necessita del-l’assenso dell’opinione pubblica:

Nei governi liberi ciò che è contrario allacoscienza pubblica, non è legittimo; quindi igrandi atti politici, prima che nella pratica deb-bono essere realizzati nella coscienza pubblica.[Minguzzi 1893, p. 72]

L’oratore parlamentare deve quindi per-suadere preventivamente l’opinione pub-blica, ma i politici italiani non sembrano deltutto adeguati alle esigenze dell’eloquenzaparlamentare moderna; l’oratoria italiana,prendendo le mosse da quella romana, è«meno spontanea, meno semplice, piùpomposa, più rotonda, più rettorica in som-ma che non la greca» (Balbo 1857, pp. 383-384). Caratteristica comune a tutte le

Assemblee italiane è lo splendore dellaparola: «le più eloquenti, le più notevoli perfacilità e splendore di parola furono le sici-liane e napolitane, poi le toscane e roma-ne», fa eccezione il Piemonte dove preval-gono «la stentatezza, la esitanza, la rozzez-za, e direi quasi la barbarie dei discorsi; etuttavia non credo che niuno dica essere sta-to ultimo né penultimo né anche inferiorea nessuno il parlamento piemontese».Ingredienti necessari ad ogni eloquenzapolitica sono «sodezza e semplicità», ancorpiù necessari in quella parlamentare; lo sti-le piemontese presenta questi caratteri e«quanto meno pretenderà agli splendori,quanto più manterrà la semplicità, la aridi-tà, la serietà delle sue discussioni; dalle qua-li od anche dalla stessa rozzezza, più facil-mente che non dalla troppa ricercatezza»raggiungerà l’autentica eloquenza parla-mentare moderna (ibidem, p. 388).

La sobrietà dei discorsi parlamentari –sostengono alcuni – sarebbe in antitesi conla presenza del pubblico nell’Assembleaperché «il desiderio della popolarità sug-gerisce a certi membri dell’assemblea pro-posizioni pericolose: l’eloquenza coltivataper il pubblico, è una eloquenza piuttosto diseduzione che non di persuasione, quelladi un tribuno della plebe piuttosto chequella di un legislatore» (Santangelo Spo-to 1906-1910, p. 279).

In un primo periodo si verificano epi-sodi che fanno pensare ad un’effettiva cor-rispondenza diretta tra parlamentari e pub-blico: a Palazzo Carignano la pubblicità«non era così ordinata ed era offerta inmodo piuttosto rudimentale; poche eranole tribune riservate; ma in tutte si sentiva ilpalpito della vita nazionale, e tra di esse e irappresentanti si determinava una corren-te continua di aspirazioni e di propositi. La

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distanza era facilmente superata» (Manci-ni, Galeotti 1887, p. 112).

Originariamente la tribuna politicaospitava “spiriti turbolenti” tanto da dover-si prendere provvedimenti per non mette-re a rischio la libertà di parola. I primiaccorgimenti s’introducono nel Regola-mento provvisorio (20 dicembre 1848): «ladistribuzione delle tribune in sezioninumerate, l’obbligo degli intervenuti distare a capo scoperto ed in silenzio e diastenersi da ogni segno di approvazione e didisapprovazione, e la facoltà del presiden-te di far uscire chiunque turbi l’ordine»;tuttavia «Il primo effetto delle nuove dis-posizioni fu uno scoppio di urli e fischiassordanti e di grida: “Abbasso i codini!”»(ibidem, p. 113).

Anche la tribuna politica dei giornalistisubisce “il rigore della disciplina”: vienefatta sgomberare il 24 gennaio 1850, poi il22 dicembre 1867, ma «Da quel giorno nonsi ebbero più dalle tribune che manifesta-zioni rare ed isolate; qualche grido, qualchestampato o qualche proiettile lanciato nel-l’aula; sicché bastò, a ristabilire la quiete, laespulsione o l’arresto del disturbatore od alpiù lo sgombero d’una sezione della tribu-na» (ibidem, p. 115). L’8 maggio 1855 il pre-sidente del Senato osserva che non tutte lemanifestazioni del pubblico sono d’ostaco-lo alla discussione, d’altronde gli applausi«non sempre sono segno d’approvazionedelle opinioni espresse» piuttosto «un tri-buto giustamente prestato allo splendoredell’eloquio ed al modo con cui un oratore,anche di partito opposto, può dar risalto allesue opinioni». Semmai sono i segni di dis-approvazione a turbare: «quando le tribu-ne si fanno lecito di disapprovare; questo èun vero atto turbativo della libertà delle dis-cussioni» (ibidem, p. 114).

Anche la resocontazione stenograficadelle discussioni può solleticare «l’amorproprio degli oratori a pronunziare infini-te parole, per il gusto di vederle raccoltenegli atti ufficiali e distribuirle poscia aglielettori ed amici»; la tentazione è tale chesi racconta del caso «d’un rappresentantedella nazione che inserì di proprio arbitrionel resoconto ufficiale un suo poemetto cuinon aveva potuto trovare altro editore». Unrischio escluso nel Parlamento italiano perla «tradizionale oculatezza con cui gli uffi-ci di presidenza invigilano affinché gli ora-tori, nel correggere le bozze dei loro dis-corsi, non tocchino alla sostanza di quantorealmente si è fatto o si è detto nell’assem-blea» (Racioppi, Brunelli 1909, p. 61).

Agli oratori italiani, in ogni caso, man-cano i secoli d’esperienza degli inglesi, iquali hanno acquisito un preciso frasarioparlamentare, ovvero quella «forma corte-se e corretta che i deputati hanno obbligo diosservare gli uni verso gli altri, anche nellepiù vive e ardenti discussioni; forma dallaquale però qualche volta si discostano»(Dizionario Politico-Parlamentare, 1887). Nonè tutto, gli italiani non hanno le due qualitàfondamentali del buon oratore parlamenta-re: «la rettitudine e la semplicità», cioè lacapacità di discorrere semplicemente, aven-do una solida preparazione culturale, in par-ticolare «l’istruzione legale» (Balbo 1857,pp. 395-396). A fronte di pochi uomini che«hanno parola facile e spedita», i più,«Moltissimi ed ignorantissimi facili e spe-dite abborracciano loro gargagliate (veroflusso, e riflusso di aria dal laringe alle lab-bra!)» (Castagna 1861, p. 286).

Il Parlamento italiano, però, sembraattento ad evitare che l’apparato teatraleinebri l’oratore, tanto da fargli assumere ilruolo d’attore parlamentare alla ricerca

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della celebrità e del consenso della tribunapiù che l’interesse dello Stato (Heurtin1999, pp. 108 ss.). La soluzione non è evi-tare il contraddittorio; i pubblicisti sostan-zialmente concordano sulla necessità dinon stravolgere la natura della discussioneparlamentare: la discussione dev’esserelibera, non può mancare il contraddittorio,quindi è opportuna l’oralità e non la rap-presentazione di discorsi precostituiti.Semmai è utile condizionare la presenza delpubblico al rispetto di norme e regole chelo rendano distante, invisibile, muto: lospazio parlamentare è sì spazio pubblico,purché rimanga separato dal pubblico:«l’espace parlementaire, de propriété“particulière”, ne pourra être considérécomme espace public qu’au prix d’uneabstraction du peuple-société. La configu-ration de la publicité ne sera plus celle de laprésence vivante du public, mais une con-struction politique, celle de l’opinionpublique» (ibidem, p. 29). La presenza delpubblico-società è di per sé una forma dilegittimazione dell’istituzione, una sorta dicollaborazione col potere che prescinde eprecede la circostanza d’essere, in teoria,anche forma di conoscibilità.

L’informazione politica: i giornali

Il pubblico del dettato costituzionale, tribu-na del Parlamento, rappresenta un pubblico,il più vasto possibile: né limitato solo a chi hacapacità elettorale, né alle sole persone chel’Aula può accogliere. Quel pubblico è lanazione intera: «La nazione che giudica inultimo grado della bontà degli atti delle pote-stà governatrici» (Carutti 1861, p. 179); nona caso tra gli organi dell’opinione pubblica

viene annoverato il diritto di petizione: undiritto pubblico, e non politico – cioè cheprescinde dalle capacità (Rossi 1992, pp.155-156) – spettante ad ognuno purché mag-giore d’età (art. 57 Statuto albertino).

Diversi sono gli organi dell’opinionepubblica, ma nessuno ne è l’espressione,non «la manifestazione isolata di unosolo», bensì «dovrebbe considerarsi sem-pre tale la loro concorde esplicazione»(Brunelli 1906, p. 66). Principale organodell’opinione pubblica è la stampa; l’adem-pimento del dettato costituzionale «siottiene principalmente per via della stam-pa e della libertà ad essa garantita» perché«alle adunanze delle assemblee legislative[…] non può assistere che un numero mol-to ristretto di persone» e se questa limita-zione si rende necessaria «perché l’ordinepubblico venga mantenuto e le discussionie la trattazione degli affari procedano concalma e moderazione», è ancora più neces-sario sopperire con la libertà di stampa

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Seduta al Senato, 1893

«che diffonde nel paese le più ampie e par-ticolari notizie su quanto in dette assem-blee e corpi è avvenuto, e così ogni cittadi-no è in grado di formarsi un concetto esat-to riguardo ai pubblici negozî» (Ugo 1899-1903, p. 660).

Si può parlare d’opinione pubblica insenso moderno solo con l’evoluzione dellastampa: come in Inghilterra dove la stampa«rompendo i vincoli legali che le inceppa-vano il libero movimento, divulgò fino ailimiti dello Stato i dibattiti delle assembleelegislative», la conoscenza di questi rag-giunge il «grandissimo numero di perso-ne»; da questo momento si fondono inte-ressi particolari ed utilità comune che siriproducono in Parlamento attraverso glioratori chiamati ad esprimere non più sem-plicemente «l’avviso proprio e particolare,ma attraverso di esso facevano sentire e vale-re la pubblica opinione» (ibidem, p. 660).

In particolare è la stampa politica perio-dica che «ormai costituisce uno dei mezzipiù potenti con cui da un lato l’opinionepubblica si manifesta, e dall’altro si puòsull’opinione pubblica influire: può farequindi grandissimo bene e grandissimomale» (Orlando 1894, p. 244). Eppure pro-prio l’Inghilterra mostra un atteggiamentoambiguo verso la pubblicità dei discorsiparlamentari, giacché vige il divieto di pub-blicazione delle discussioni; divieto piùvolte ribadito nel tempo ed anzi i Comunihanno in diverse occasioni deliberato «chenessun scrittore di giornali debba, nelle suecorrispondenze, o nei fogli che egli diffon-de, presumere di interporsi nella discus-sione o negli altri atti di questa Camera».Viola inoltre i privilegi della Camera lo«stampatore o editore di giornali stampa-ti» che inserisce «in tali fogli le discussio-ni, e gli altri atti della Camera, o dei suoi

comitati» o che «una persona, qualunqueessa sia, presuma di dare in giornali scrit-ti o stampati, qualsivoglia resoconto o rela-zione delle discussioni e degli altri atti»(May 1888, pp. 72-73).

La ratio del divieto va ricercata nellaprotezione del privilegio della libertà diparola, «per cui ogni pubblica relazionedelle discussioni ritiensi ignorata dal Par-lamento [...]. Ciò che vien detto in Parla-mento considerasi come non conosciutoaltrove, e non può essere fatto noto senzaincorrere nella violazione del privilegio»(ibidem, p. 98). Quella di parola è una liber-tà che concerne non tanto il membro delParlamento quanto l’istituzione parlamen-tare e dunque va difesa, ancor prima che daigiornalisti, dagli stessi membri impedendoloro d’usare la tribuna in danno dell’istitu-zione: infatti se un membro pubblica un suodiscorso «le sue affermazioni stampate siavranno come pubblicazioni separate edistinte da qualunque atto del Parlamen-to» (ibidem, p. 98).

Anche in Italia è sancita l’insindacabili-tà dell’opinione e dei voti espressi nelleCamere (art. 51 Statuto albertino), ma qui lapubblicità funge da «supremo freno e con-trollo» affinché il diritto alla libertà diparola «non traligni in pericoloso ed odio-so privilegio» (Racioppi, Brunelli 1909, pp.56-57). Il principio della pubblicità è postoa garanzia dei cittadini nei confronti dell’i-stituzione parlamentare (i parlamentarisanno d’essere costantemente di fronte altribunale dell’opinione pubblica); più pro-babilmente, però, la pubblicità ha lo scopod’attribuire autorevolezza e solidità al Par-lamento e a ciò che rappresenta. Per esem-pio lo Statuto non precisa se «l’immunitàaccordata ai discorsi pronunziati ed ai votidati dai senatori e deputati nelle Camere, si

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estenda anche alle relazioni parlamentari edagli altri documenti pubblicati per ordinedelle Camere stesse»; la legge sulla stampa(art. 30) colma la lacuna: «non potrannodar luogo ad azione penale la pubblicazionedelle relazioni o di qualunque altro scrittostampato per ordine del Senato o dellaCamera dei deputati» (Mancini, Galeotti1887, p. 565). In definitiva l’ufficialità del-le pubblicazioni italiane non diminuisce diper sé la libertà di parola.

L’Inghilterra comunque non rinunciaall’opinione del pubblico, tanto che i divie-ti «sono da lungo tempo caduti in desuetu-dine. Delle discussioni parlamentari si fan-no giornaliere relazioni; si costrussero gal-lerie perché i reporters vi stiano a loro bel-l’agio; nominaronsi Commissioni perchéprovvedessero loro maggiori facilità: e nelledue Camere si fecero spesse volte reclamiperché le relazioni della discussione nonerano abbastanza complete» (ibidem, p. 73).In effetti il Parlamento inglese (fino al 1803i Comuni, fino al 1807 i Lord) ammette ireporters, ma senza riservar loro alcun postoe fermo restando il divieto di prendereappunti costringendo i giornalisti «a racco-gliere furtivamente le notizie sulle discus-sioni parlamentari, e a riferirle come avve-nute in assemblee fantastiche, sostituendonomi immaginarii a quelli dei diversi ora-tori» (Racioppi, Brunelli 1909, p. 57).

L’opinione pubblica mantiene il suodiritto ad essere informata, perché di fattoil Parlamento consente la divulgazione deidiscorsi parlamentari, purché avvenga nonufficialmente e resti un servizio giornali-stico. La divulgazione giornalistica è tolle-rata, o meglio incoraggiata rispetto allapubblicazione ufficiale: l’opinione pubbli-ca è indirizzata dai giornali e passando peril filtro dei partiti politici – dei quali il gior-

nale è espressione – è sottoposta a control-lo. Una conseguenza è l’ideazione di unpubblico, poi opinione pubblica, in qual-che modo prevedibile: d’altra parte è inte-resse dei governanti conoscere l’indirizzodell’opinione pubblica: «Sotto il reggi-mento della pubblicità nulla è più facile aconseguirsi. Si metta il pubblico nello sta-to di formare giudizio con cognizione dicausa, e sarà agevole di segnare il corso delsuo giudizio» (Bentham 1848, p. 21).

In Inghilterra l’opinione pubblica sem-bra aver effettivamente guidato il governo:

le credenze o le impressioni che hanno guidatol’evoluzione del diritto nel diciannovesimo seco-lo hanno coinciso esattamente con la pubblica opi-nione, dal momento che si è trattato dei desiderie delle idee sulla legislazione condivisi dal popo-lo inglese o, per essere più precisi, dalla maggio-ranza di quei cittadini che in un dato momentohanno preso attivamente parte alla vita pubblica.[Dicey 1997, p. 77]

Originalità dell’informazione politica italia-na: il sistema stenografico Michela

Al di là delle intenzioni, rendere concreta lapubblicità delle discussioni è anche proble-ma tecnico. I dibattiti italiani sono troppovivaci: «così vivi, così concitati, così com-plicati ed incrocicchiati» (Balbo 1857, p.359), da rendere impensabile poter fare unasintesi giusta ed imparziale dei discorsi. Èpreferibile la scelta inglese: «nemmeno unfoglio uffiziale, non rendiconto dato per uffi-ziale in nessun luogo; serbasi l’uffizialità olegalità per ciò solo in che ella è material-mente possibile, cioè per gli atti. Di nuovo esempre e in tutto verità, esatta verità, nullache non sia verità» (ibidem, p. 359).

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La pubblicità della discussione si com-pie anzitutto «con la verbalizzazione dellediscussioni e la pubblicazione dei resocon-ti» (Santangelo Spoto 1906-1910); le sedu-te italiane in effetti si aprono con la lettu-ra del processo verbale, ovvero «il reso-conto esatto di ciò che è stato detto in unadiscussione» (Dizionario Politico-Parla-mentare, 1887).

La prassi viene talvolta considerata«noiosa ed inutilitissima» e «non ascolta-ta da nessuno» (Balbo 1857, p. 358); nonsolo il processo verbale, a differenza che inInghilterra, contiene anche la sintesi dellediscussioni che «non sono, non possonoessere esatte niun sunto è tale.» (ibidem, p.359), ma sul verbale può chidere la parola«ognuno che creda di potervi o dovervi farequalche osservazione o correzione oaggiunta» (ibidem).

La pratica di «suscitare una discussio-ne estranea all’ordine del giorno» com-porta anche gravi inconvenienti e s’arrivaperfino a degenerare nel tumulto (sedutadel 21 marzo 1890): «Nacque quindi l’ideadi non leggere più il processo verbale einvece di affiggerlo con facoltà in ogni sin-golo deputato di rilevarne le imperfezioni ele lacune nel giorno successivo», anche sepoi tale proposta non giunse alla Camera(Mancini, Galeotti 1887, p. 19).

Inizialmente le discussioni vengono rac-colte in resoconti stenografici con il siste-ma Taylor-Bertin, adattato da Filippo Del-fino alla lingua italiana, sistema inadeguatoai ritmi dell’oratoria, cosicché i resocontirisultano incompleti e discontinui. Tali ren-diconti pubblicati sulla «Gazzetta Piemon-tese» non sono ufficiali, né si distinguonodal servizio degli altri giornali del Regno peresattezza e sollecitudine: «che cosa si sape-va nel pubblico delle discussioni del Parla-

mento, se non dai resoconti che si stampa-no, molti giorni dopo, nella «Gazzetta Uffi-ciale», e che perciò nessuno legge» (Jacini1879, p. 71). E non può essere sufficientel’opera d’integrazione nell’informazione dei«monchi estratti dei giornali, i quali, qua-si sempre per ignoranza delle materie trat-tate, talvolta anche per ispirito di parte,sogliono svisare affatto il senso delle cosedette» (ibidem, pp. 71-72).

Per quanto efficiente possa essere l’o-pera dei giornali, essa rimarrebbe comun-que limitata al proprio ufficio di serviziogiornalistico e quindi, per definizione, par-ziale: il giornalista assiste in tribuna con leorecchie e gli occhi del proprio giornale. Ilgiornalista «che fa la Camera», ovverocolui che s’occupa del rendiconto dellesedute parlamentari, deve saper «prende-re l’intonazione precisa del giornale, per ilquale scrive». Per averne la prova bastaleggere «per esempio, il resoconto di unaseduta in qualche giornale ministeriale, epoi andate a rileggerlo nelle colonne d’unfoglio dell’opposizione. Sentirete che iltema è lo stesso: ma quanti cambiamenti ditono, quanti smorzi, quante variazioni,quante puntature e quanta diversità dicadenze!» (Collodi 1995, p. 232).

Così descrive Collodi un’ordinaria gior-nata alla Camera:

Figuratevi d’essere alla Camera. Ha la parola unavversario del Ministero.Durante il “discorso antiministeriale” qualchedeputato alza la mano per mandar via un’impor-tunissima mosca, incaponita a volergli misurarea passi geometrici la lunghezza del naso. Quel-l’alzata di mano un po’ vivace e concitata, è pre-sa subito a volo da qualche rendicontista d’ungiornale ministeriale, il quale apre subito unaparentesi, e scrive: “mani per aria e vivissimisegni d’impazienza sopra molti banchi dellaCamera”.

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Intanto il “discorso” contro il Ministero continua,e va per le lunghe: anche troppo per le lunghe.Allora si sente una voce dalla tribuna pubblica chegrida: – Bene! Bravo! – (è la voce del domesticodell’oratore, il quale vuol far capire al suo padro-ne che l’ora comincia a farsi tarda, e che il risot-to patisce).Il presidente dà un’occhiataccia in su, ma i ren-dicontisti dell’opposizione, cogliendo a frulloquel Bene! e quel Bravo! piovuti dalla piccionaia,aprono anch’essi una parentesi, scrivendo in let-tere sottolineate – “sensazione profonda nellaCamera e nelle tribune”.[Ibidem, p. 233]

Al di là della satira, gli stenografi uffi-ciali, per quanto preparati, non possonodare una garanzia di verità, mancando distrumenti tecnici adeguati: anzitutto unavelocità di registrazione prossima al parla-to e la possibilità di seguire con gli occhi ciòche accade in Aula. La pubblicità si vuoleinfatti completa di «commenti, interruzio-ni, gesti, applausi, espressioni di approva-zione o di riprovazione» (Bertolini 1992, p.145), impossibile col sistema stenograficoin uso. Sarà il Parlamento italiano a dare unapporto originale in grado di rivoluzionarela pubblicità parlamentare: nel dicembredel 1880 fa la sua apparizione in Senato lamacchina stenografica Michela, per mezzodella quale la scrittura raggiunge finalmen-te la velocità della parola: pubblicità e docu-mentazione sono realmente possibili.

L’invenzione della macchina Michela,un sistema stenografico di scrittura veloce,è in realtà un «risultato collaterale», giac-chè Antonio Michela Zucco, impegnato nel-la ricerca d’un «modo universale di espres-sione grafica basato sui valori fonici comu-ni a tutte le lingue», solo accidentalmenteinventa l’apparecchio che darà inizio ad unnuovo sistema stenografico (ibidem, p. 7).La macchina è in realtà un bel mobile in

legno pregiato. Con tre gambe smontabili,non solo è trasportabile all’esterno, mapermette allo stenografo di portarsi accan-to all’oratore e sopperire alla mancanzad’una tribuna e risolvere quindi i problemid’acustica. I tasti d’avorio – bianchi e neriche ricordano la tastiera del pianoforte –hanno una corsa breve per ridurre i tempidi scrittura; la stessa digitazione fa avanza-re il rullo, posto sotto la carrozzeria, con lastriscia di carta larga quattro centimetri elunga circa trecento metri, per garantire datre a sette ore di digitazione.

L’invenzione è davvero innovativa, tan-to che nel 1878 – anno in cui la macchinaviene presentata all’Esposizione Universa-le di Parigi – si brevetta un nuovo sistemastenografico: il Parlamento italiano propo-ne un sistema originale e tecnicamenteall’avanguardia per rendere effettiva l’in-formazione parlamentare che, poi, coinci-de sostanzialmente con l’informazione poli-tica. Non si tratta del mero perfezionamen-to d’una tecnica: l’invenzione consente disostituire, nella pubblicità parlamentare,alla logica giornalistica quella dello storico,ed è possibile pensare che la “rivoluzione”non sia poi così casuale. I criteri di raccoltadel resoconto parlamentare ufficiale, a dif-ferenza della stampa politica, sono l’inte-gralità e l’imparzialità. Lo asserisce già Avig-dor – relatore della Commissione parla-mentare istituita nel 1851 – descrivendo latecnica dei reporters inglesi, che hanno lacapacità di «trasformare il discorso senzacambiarlo»; cioè l’integralità e la fedeltà delresoconto non stanno tanto nella trascrizio-ne fonografica di tutto il detto e soltanto ditutto ciò che è stato detto.

La capacità della stampa inglese è dav-vero notevole:

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I giornali inglesi sono vere memorie pubblicatenel momento stesso in cui gli eventi han luogo, ein essi si rinvengono tutte le discussioni parla-mentari, tutto ciò che concerne gli attori del tea-tro politico, tutti i fatti liberamente esposti eliberamente dibattuti.[Bentham 1848, p. 23]

Soprattutto si coglie un altro aspettodavvero importante dell’esperienza ingle-se: a partire dal 1803 lo storico inglese Wil-liam Cobbet raccoglie le discussioni delParlamento inglese per scrivere la storiacostituzionale dell’Inghilterra: il suo pun-to d’osservazione non era quello del gior-nalista, bensì quello dello storico (Bertoli-ni 1992, p. 139). La tradizione iniziata dalCobbett viene proseguita poi da ThomasCurson Hansard, a partire dal 1812: «lacompletezza, l’integralità, l’obiettività e lacontinuità dei resoconti Hansard – pur fraalti e bassi, luci e ombre – fecero di questiil prototipo e il modello del documento chesarebbe dovuto essere, e sarebbe stato poidavvero, il resoconto stenografico, comedocumento parlamentare modernamenteinteso» (ibidem, p. 139).

Il resoconto stenografico, di per sépotenzialmente completo, necessita comun-que d’altri accorgimenti prima di poter esse-re reso noto e «Per quanta sollecitudine sisia posta nella pubblicazione del resocontostenografico, non riuscì sempre di averloentro le ventiquattr’ore prescritte dal Rego-lamento interno; di maniera che esso giun-geva qualche volta troppo tardi per dare unanotizia esatta e completa delle cose dette nel-la tornata» (Mancini, Galeotti 1887, p. 115).

Il sistema pubblicitario è carente anco-ra nel 1890: il 17 febbraio il Presidente del-la Camera viene sollecitato «a provvederead una più spedita pubblicazione dei reso-conti». La Camera in effetti sta valutando il

problema e il 3 marzo il Presidente delConsiglio con una lettera avverte «che iministri si erano accordati nel ritenere suf-ficienti quattro giorni per la correzione deiloro discorsi». Il Presidente proponeanche una mozione: «La Camera deliberache i resoconti ufficiali stenografici sienocorretti dagli oratori entro quattro giorni,compresa la seduta alla quale si riferiscono;e che, passato detto termine, sieno pubbli-cati anche senza le correzioni degli oratori,sì e come risultano dai manoscritti steno-grafici, i quali non potranno mai essereasportati dall’ufficio di revisione» (ibidem,p. 19). Su questa mozione però la Cameranon si pronuncia. Il disagio è notevole, ci sipuò affidare solo alla stampa che, tuttavia,spesso per «ragioni foniche» diffonderesoconti inesatti.

Farini, allora Presidente della Camera,suggerisce una soluzione: un resoconto som-mario, cioè un altro tipo di resoconto chenon ambisce a riportare la discussione inte-gralmente ma una sua sintesi immediata, alloscopo d’informare tempestivamente lastampa ed evitare travisamenti. La prassi delParlamento italiano accoglie la tradizioneinglese del full report, cioè del resoconto ste-nografico sostanzialmente letterale e nonstrettamente letterale. Affinché il resocon-to del discorso parlamentare sia integrale efedele deve tener conto non solo delle paro-le pronunciate, ma anche dei comporta-menti, e dei gesti, cioè «altrettanti passag-gi, aspetti, fasi della discussione e della deli-berazione parlamentare, talora tanto salien-ti da essere proprio essi a dare all’andamen-to dei lavori la sua vera “fisionomia”» (Ber-tolini 1992, p. 144).

Lo stenografo si fa «carico di registrareanche ogni altro aspetto che ha inciso sul-l’andamento del dibattito, assumendo di

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questo la qualità di vero testimone-inter-prete» (ibidem, p. 145); inoltre opera unatrasposizione: nel passaggio dall’oralità allascrittura compie una ricostruzione sintatti-ca, logica e testuale; deve ricorrere al pro-prio bagaglio culturale tanto che fin dal rego-lamento del Senato del 1849 si richiede aglistenografi una preparazione culturale supe-riore (gli studi classici), la frequenza di cor-si di diritto costituzionale, di economia poli-tica e diritto internazionale, oltreché le eser-citazioni di tecnica stenografica.

A ben vedere il resoconto sommario,sebbene non riporti tutto il parlato, ha ilrequisito dell’integralità perché riferiretutto ciò che è stato detto non corrispondenecessariamente a fedeltà ed integralità; aben vedere anche la traduzione del discor-so orale in discorso scritto non dovrebbeconsiderarsi una riproduzione fedele.

La corretta comprensione delle paroledette in Aula richiede anche l’annotazionedei fatti (acta) che costituiscono il dibattitoche «non è fatto solo di parole pronunciate(i c.d. dicta): nello schema di una procedu-ra – come quella parlamentare – impronta-ta al principio dell’oralità e della immedia-tezza, il dibattito comprende anche un certonumero di comportamenti “non parlati”»(ibidem, p. 144). Gli acta riportano le formeattraverso le quali s’è adottata una delibera-zione, e ciò fa del resoconto non solo un«mezzo di pubblicità, (pubblicità-notizia)ma anche documento e atto (della procedu-ra), e come tale appartiene […] all’insiemedegli adempimenti che integrano il com-plesso processo della deliberazione parla-mentare» (ibidem, p. 136). Il resocontosommario (introdotto nel 1879 alla Camerae nel 1882 al Senato), esce nelle prime ore delgiorno successivo alla discussione, con loscopo d’essere «per quanto possibile, uno

specchio fedele della discussione»; addirit-tura i giornalisti lo ricevevano in bozze nonancora corrette durante la seduta, affinché«potessero attingere quella parte della pub-blica discussione che non fosse loro riusci-to di raccogliere esattamente» (Mancini,Galeotti 1887, p. 115). È un documento chepur provenendo dalle Camere non è peròufficiale, anzitutto perché la redazione è affi-data a funzionari che non hanno capacitàd’attribuire pubblica fede al documento;inoltre il resoconto non è sottoposto all’ap-provazione delle Camere (che approvanosoltanto il processo verbale delle sedute) econtiene solo l’oggetto della discussione e inomi degli intervenuti; solo indirettamentedà autorevolezza al resoconto sommario per-ché quest’ultimo sta alla base del processoverbale (v. Ciaurro, Problematiche giuridiche).

In ogni caso i resoconti sono documen-ti fondamentali ai fini della conoscenzamateriale dei lavori delle Camere, inoltre

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L’aula Comotto del palazzo di Montecitorio, 1875

svolgono una funzione di documentazionestorica, oltre ad essere fonte d’informazio-ne imparziale ed esauriente (v. Ciaurro,Cos’è la resocontazione). L’originalità del-l’invenzione italiana non viene adeguata-mente apprezzata e rimane confinata a lun-go alla sola esperienza nazionale. Questasembra confermare l’idea che

l’identità italiana è stata (ed è tuttora) fabbricata econcettualizzata sulla base di un confronto […] conil resto d’Europa, in specie con Francia e Inghil-terra […]. È il paragone con l’Europa che ci abbas-sa e ci schiaccia, facendo emergere per l’appunto,nella nostra storia, i molti motivi di “ritardo” e di“assenza”, i quali poi concorrono a formare la com-plessiva inadeguatezza italiana nel campo della sta-tualità e della vita collettiva organizzata.[Galli della Loggia 1998, p. 114]

L’Italia viene rappresentata con tutti idifetti ascrivibili ad una esperienza costitu-zionale troppo recente e soprattutto all’in-dole stessa degli italiani: «Ingegno, spirito,calore, immagini, e massime passioni, nonci mancano per certo; ci fa difetto solamen-te un po’ di solidezza […] non è lo splendo-re, non lo stesso ingegno, è quello che sichiama buon senso e la sodezza che servo-no in politica» (Balbo 1857, pp. 381-382).

Eppure nell’ambito della pubblicità par-lamentare, cioè dell’informazione politica,l’Italia si presenta all’avanguardia forse pro-prio perché nuova all’esperienza delleAssemblee rappresentative e dunque bendisposta a trovare nuovi sistemi di resocon-tazione all’altezza del principio costituzio-nale. C’è una ragione dietro l’originalità del-l’esperienza italiana: lo Stato ha bisogno dirafforzare una sfera pubblica troppo fragilee frammentata e proprio «Le rapport exi-stant entre la constitution d’une nation et lamise en place de systèmes d’informa-tions…» può portare «… à l’existence d’u-

ne “sphère publique”» (Brice 2001, p. 53).Da questo punto di vista si comprende

l’entusiasmo mostrato dalle Commissioni(del Senato e della Camera) chiamate a rife-rire il proprio giudizio sul nuovo sistema ste-nografico, dopo trent’anni dalla sua inven-zione: un sistema che in qualunque temposarà leggibile, un sistema perenne. La logi-ca della pubblicazione ufficiale delle discus-sioni sembra essere quella di legittimare l’i-stituzione parlamentare, di «pérenniser laprise de parole» (ibidem, p. 53), non tantoinformare l’opinione pubblica, quanto piut-tosto creare le basi per un’identità italiana.Non a caso i progetti legislativi vengono ela-borati nel “segreto”degli Uffici, o delle Com-missioni; qualche oratore propose che «leloro riunioni non fossero segrete, ma il pub-blico ne venisse tenuto informato con lepubblicazioni di sommarii resoconti»(Mancini, Galeotti 1887, p. 30). Tuttavia laquestione non si direbbe legata al principiodella pubblicità, piuttosto all’ottimizzazionedei lavori di preparazione legislativa.

In questo contesto si verifica un feno-meno paradossale ma decisivo: la produ-zione delle norme è considerato ufficiointerno ai lavori parlamentari, un momen-to delicato che non può subire le interfe-renze né del pubblico, né dell’oratoria del-l’Assemblea. La tendenza è quella di«espellere dal parlamento la determina-zione legislativa del diritto a beneficio delpotere esecutivo» (Petit 2001, p. 12).

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1. In corte d’Assise. Lo spettacolo dell’udienza

L’aula giudiziaria, che appare nel dipinto Incorte d’Assise di Francesco Netti, suggeriscea un immaginario visitatore un deciso spo-stamento del punto di vista. È come un bre-ve racconto visivo che richiede uno sguar-do non frontale né descrittivo ma pro-grammaticamente secondario sul proces-so. Si comporta come un testo indiziarioche si allontana dal centro della scena perrendere visibili i suoi margini. Gli effettiteorici di questo salutare spaesamento del-l’osservatore che si accosta al tema dellarappresentazione sono numerosi.

In primo piano, si vede un pubblico,prevalentemente di donne, in abiti elegan-ti e dai colori vivaci. La mano è inguantata,agita un ventaglio oppure è mollementeabbandonata sui bordi della balconata.Stanno guardando quanto avviene in bassosul palcoscenico dell’udienza.

La superficie restante del quadro sembradipendere per intero da questo luminoso eattraente primo piano. Gli attori principali

della causa in corte d’assise – che per defi-nizione riguarda reati gravi e dispone di unaritualità che intreccia l’elemento tecnico del-la magistratura a quello popolare dei giurati(Marongiu 1962) – sembrano fuori fuoco.Restano scandalosamente assenti oppureinquadrati da lontano. Gli stessi dettagli del-la scena, i volti dei protagonisti, gli arredi ele suppellettili del palazzo di giustizia, ven-gono ritagliati da uno sfondo in graduale dis-solvenza da destra a sinistra. Le teste piuma-te dei carabinieri, la figurina dell’imputatoalla sbarra, l’avvocato in toga, il crocefisso, ilbanco dei giudici – vuoto proprio dalla par-te che si offre alla vista – hanno contorni sfu-mati. L’iscrizione uguale per tutti, incisa suuna delle pareti, è priva dell’espressione lalegge, nascosta com’è quest’ultima parola dalcappellino vezzoso di una signora.

Il trionfo dell’opinione pubblica nei pro-cessi – che irrompe d’autorità con l’istitu-zione per legge dei giudici popolari ma quinel quadro entra più dolcemente attraversoi volti femminili, fissi sul teatro della giusti-zia – è sottolineato da un’ulteriore particola-

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Cause in vista. Racconto e messa in scenadel processo celebre

pasquale beneduce

giornale di storia costituzionale n. 6 / II semestre 2003

re pittorico, che si scorge nella sua interezzasoltanto in un istante successivo e ad unosguardo più attento. Sono quattro tavole inmarmo, incorniciate nel muro verso il sof-fitto, e dunque più in alto rispetto al piano delpubblico assiepato nei palchi. Si leggonoscolpite altrettante scritte in latino. Quellapiù visibile, in primissimo piano, quasi adiscendere sull’intera rappresentazione,riguarda l’eloquenza: eloquentia animorumdominatrix. Dal fondo silenzioso e quasi inombra del dipinto si distingue così lenta-mente il suono della voce. La parola in pub-blico delle requisitorie e delle arringhe, ilcontrappunto delle testimonianze, lo stessobrusio di chi osserva la scena, si dispieganoin uno spazio originario e concentratissimoche costituisce il vero asse prospettico delquadro. Tutti i colori impiegati, le lineeimmaginarie dei corpi e degli oggetti, leenergie sociali delle storie che entrano nel-l’aula si riportano così a questo nuovo centro.

La logica della fonte che ho presentatoconsiste in un vero e proprio “pensiero figu-rato” sulla giustizia (v. Douzinas, Nead1999). Esige pertanto il ricorso ad una sin-

tassi pienamente visuale, all’altezza dellospettacolo dell’udienza1. Da questa ipotesipossono discendere a mio avviso tre enun-ciati: a) il mistero della giustizia, della suarappresentabilità nel moderno, si manifestasotto forma di una apparenza e di una cele-brità necessaria; b) tuttavia quanto più ilmistero della giustizia viene teatralmentemostrato e i suoi corpi eloquenti (v. Bene-duce 1996) riverberano una luminosità cheriempie tutta la scena della causa celebre,tanto più esso resta nascosto, si sottrae, inaf-ferrabile alla vista; c) per queste ragioni,l’apparenza necessaria della causa celebredeve incrociare uno sguardo non frontale nénaturalistico, ma laterale e indiretto sull’og-getto, una visualità paradossale che lo rendapresente per sottrazione e per assenza.

2. La celebrità messa in scena

Il dispositivo dell’esposizione di persone edoggetti sul teatro del giudicare muove l’ideastessa della celebrazione. Come è noto, il ter-

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Francesco Netti, In Corte d’Assise, 1882

mine richiama in primo luogo una sfumaturadi ufficialità e di gravità, che sono gli ingre-dienti necessari ad ogni antropologia del ritogiudiziario. Riguarda storie e discorsi cheafferrano l’attenzione del pubblico, da inten-dere a sua volta come parte della messa in sce-na. Alla lettera, partecipa alla celebrazione unamoltitudine di persone. In questo senso, lacelebrazione è sempre una solennità che sisvolge con un concorso di persone in un luo-go, raggiungibile in ogni momento dall’occhioe dall’udito di coloro che vi appartengono.

La messa in scena della giustizia produ-ce allora un circuito di sguardi fra corpi elo-quenti: quelli del magistrato, dell’avvocato,delle parti e del pubblico. Chiama in causaun’altra potenza simbolica che Pascal defi-nisce «immaginativa». La giustizia èun’arte immaginaria che si compone di unamessa in mostra ininterrotta di corpi elo-quenti e di oggetti luminosi. A differenzadegli uomini di guerra il cui agire sostan-ziale è governato dalla forza, l’abito degliuomini di giustizia è immaginario, una“seconda natura” che invoca l’organo dellavista e la complicità del pubblico:

ci basta semplicemente vedere un avvocato in sot-tana e con il tocco in testa per farci un’opinionefavorevole delle sue capacità. […] I nostri magi-strati hanno ben compreso questo mistero. Letoghe rosse, gli ermellini in cui si avvolgono cometanti gatti impellicciati, i palazzi dove rendono giu-stizia, i fiordalisi, tutto quell’augusto apparato èpiù che necessario. E se i medici non avessero sot-tane e babbucce, e i dottori berrette a quattro spic-chi e vesti quattro volte più larghe del bisogno nonriuscirebbero a gabbare la gente incapace di resi-stere a quella pompa così autentica.[Pascal 1669, pp. 109-110]

Tale apparato immaginario è dunqueuna potenza reale, la verità della giustizia, lasua cifra più autentica e insidiosa: «se i

magistrati conoscessero la vera giustizia e imedici l’arte di guarire non saprebbero chefarsene di berrette a quattro spicchi. Lamaestà della loro scienza sarebbe rispetta-bile per se stessa. Ma possedendo soloscienze immaginarie, sono costretti a ricor-rere a quegli artifici vani per colpire l’im-maginazione con cui hanno a che fare, ecosì si attirano infatti il rispetto» (ibidem).

Un passaggio del Leviatano di Hobbesaffronta il tema da altra prospettiva ma conuna simile retorica visuale. Le figure dell’au-torità si riconoscono per la loro evidenza: l’au-torità deve sempre essere mostrata (to beshown). Con una insistita sottolineatura, Hob-bes ne ambientava le manifestazioni in unospazio propriamente teatrale, i due luoghisomiglianti del palcoscenico e del tribunale,dove gli sguardi e le voci si incrociano, sosten-gono ciascuno a suo modo la recita: «chi rap-presenta un altro sostiene la sua persona erecita in suo nome» (Hobbes 1651, p. 265).

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Frontespizio della rivista «Causes Célèbres»

L’autorità aspira a muoversi come unattore sulla scena. Si manifesta e comunicaattraverso persone – maschere e viso ad untempo per l’ambigua etimologia del termine– che rappresentano un autore di parole e diazioni. In un elenco dove vengono accostatescabrosamente professioni pubbliche assaidifferenti, gli avvocati e gli attori, i delegatie gli imputati, i luogotenenti e i vicari, siscambiano disinvoltamente l’uno l’abito del-l’altro. Essi si fanno carico dei discorsi e del-l’opera di un soggetto (l’autore) che vive sul-la scena pubblica, nelle conversazioni e neiteatri, come nelle aule giudiziarie: «in que-sto senso Cicerone scrive unus sustineo trespersonas, mei, adversarii et judicis , io sosten-go tre persone, la mia, quella dell’avversarioe quella del giudice» (ibidem).

Il segreto della giustizia sta nuovamentein questo ostentato mostrarsi. In tale sensoogni causa è per natura celebre, esposta cioèallo sguardo, al consenso vigile dell’altruiimmaginazione che tinge con i suoi coloriattori e oggetto della recita. Propongo dueesempi. Primo. Il dispositivo dell’immagi-nazione, per riprendere il testo di Pascal,procura rispetto, dispensa reputazione e puòinfluenzare il corso stesso del processo. Conaccenti non dissimili, sebbene in un altrocontesto temporale e logico, Gioja scriveràcon grande suggestione che il desiderio difama e riconoscimento, il “desiderio dirinomanza” da parte di un filosofo o di unpubblico funzionario, consiste essenzial-mente nel desiderare di essere «oggettodegli altrui sguardi, pensieri, discorsi»(Gioia 1818, p. 186; v. Id. 1821, I, p. 98).

Nel teatro dei discorsi come nello spet-tacolo dell’udienza, un magistrato potreb-be ritenere per esempio «tolti a sé queglisguardi» dell’opinione pubblica che sidirigessero verso altri autori, rendendo

improvvisamente pallide e sfocate le ragio-ni stesse del giudicare (v. Gioia 1818, p.186). Si potrebbe concludere su questopunto che la richiesta di rispetto, e il “desi-derio di rinomanza” trasmigrano invaria-bilmente dal corpo della professione al luo-go immaginario dell’opinione pubblica chene accoglie o ne respinge le aspirazioni.

Secondo. La rivista di Fouquier «Causescélèbres» della seconda metà dell’Ottocen-to3 riproduceva sul frontespizio, in tutte lesue pubblicazioni, il delitto celebre pereccellenza. Caino, che ha appena ucciso, fug-ge nella notte, mentre le tenebre avvolgonotutte le cose e nubi sempre più cupe rico-prono il disco lunare. Impugna ancora il col-tello e ha gli occhi pieni di orrore fissi sulcorpo senza vita di Abele, al centro in primopiano. Dentro la scena di morte irrompe dal-l’alto una giustizia alata, nella mano destrala spada, in quella sinistra una bilancia. Alsuo fianco l’angelo della pena squarcia il buiocon una torcia mentre con l’altro braccio staper afferrare l’assassino per il capo.

La messa in scena del delitto produceallo stesso modo la sua celebrità e l’eter-nizzazione del paradigma del giudizio.Quell’evento lasciava le pagine del testosacro, alle origini del mondo, per immagi-nare un’antropologia circolare della rottu-ra e del ritorno dell’ordine, lo schemaatemporale del crimine e del suo inevitabi-le processo in pubblico, all’interno di unaininterrotta storia del presente.

3. “Perdere di gravità”. Immagini del grotte-sco giudiziario

Se questo “mostrarsi” della giustizia è neces-sario alla sua pensabilità, è proprio talemistero del processo, la singolare ostenta-

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zione in piena luce della sua messa in scena,che può indurre all’improvviso effetti colla-terali indesiderati: da un lato l’eccesso e ilgrottesco, dall’altro la dispersione perma-nente, l’errare della verità giudiziaria e deisuoi cerimoniali verso altri campi discorsi-vi. A spiegare la funzione conoscitiva delgrottesco tornano utili al nostro tema alcu-ne riflessioni tratte da Ejzenstejn e da Fou-cault, ad alta densità teorica e visuale. Ejzen-stejn, in una delle sue famose lezioni di regia,aveva dato una nozione spiccatamente visua-le del grottesco, letterario ed artistico. Talemeccanismo consisteva in una costruzionedel racconto per serie discontinue e squili-brate di punti di vista differenti, in una giu-stapposizione di piani del discorso che resta-vano disuniti e privi di sintesi, con l’alter-narsi per esempio di fatto ed immaginazio-ne, di realtà e di fantasticheria (Ejzenstejn1993, pp. 265, 280, 370-371).

Ancora, in un altro testo, dedicato alproblema della messa in scena, Ejzenstejn fauna serie di affermazioni che debitamenteforzate possiamo impiegare per la nostraipotesi. L’autore scriveva che è dentro lamessa in scena, davanti ad una persona cheguarda, che si manifesta una peculiaredrammaturgia scandita dal montaggio e dalcontrappunto audiovisivo. Ciò che accadenello sguardo dello spettatore è la “scom-posizione” dei legami esistenti, della veritàdell’ordine reale delle cose, in nome di nuo-vi legami, di altre possibili combinazioni econfronti che così vengono disvelati. Il grot-tesco è allora per molti versi l’immagineesatta di questa scomposizione.

Dal canto suo, Michel Foucault in uno deisuoi corsi al Collège de France, ragionando suisoggetti e i saperi dell’istituzione giudizia-ria, attribuiva al grottesco la virtù di«mostrare pubblicamente» i meccanismi di

un potere, di rendere evidente la sua inevita-bilità, la razionalità violenta dei suoi dispo-sitivi e nel contempo la sua «infamia», lacifra ridicola (Foucault 2000, pp. 21-25).

Nei due autori, con accenti e motivazio-ni differenti, il grottesco chiama in causauna specifica drammaturgia, l’esercizio diuno sguardo pubblico fisso sulla gravità esul mistero della giustizia per rischiarare latrama segreta della sua messa in scena. Pro-pongo due esempi.

L’“immaginativa” del pubblico – con l’e-spressione di Pascal – dispensa reputazio-ne, rispetto e venerazione a vantaggio degliuomini di giustizia. Al tempo stesso proprioqui è in agguato lo sconcerto dell’eccesso edel grottesco. È infatti a partire dall’abito, daquei segni distintivi della funzione che in unaltro passaggio dei Pensieri si spostanoinquieti fra due professioni pubbliche pereccellenza, quella del giudice e del predica-tore, scuotendo entrambi dalla loro gravità,che il rispetto può rovesciarsi improvvisa-mente nella caricatura e nell’inconcludenza:

chi di noi non direbbe che quel magistrato la cuiveneranda canizie ispira reverenza ad un interopopolo, si conduca sempre con una ragione puraed elevata, e giudichi le cose secondo la loro natu-ra, senza arrestarsi a quelle apparenze vane checolpiscono soltanto l’immaginazione. Guardate-lo recarsi alla predica, tutto pieno di zelo devoto,avvalorando la solidità della sua ragione con l’ar-dore della sua carità. Eccolo pronto ad ascoltarecon rispetto esemplare. Compare il predicatore:se la natura gli ha dato una voce roca o una fisio-nomia bizzarra, se il suo barbiere lo ha rasatomale, se per di più si è casualmente imbrattato,per quanto grandi verità dica, scommetto che ilnostro magistrato non tarderà a perdere la gravità.[Pascal 1669, 235, p.109]

Suggerisco un altro esempio di rappre-sentazione attraverso il grottesco. Condan-nato a morte per aver attentato al re Luigi

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XV, Damiens viene giustiziato nel 1757 aParigi sulla piazza di Grève. Il supplizio èstato descritto da Foucault nell’esordio ter-ribile ed emozionante di Sorvegliare e puni-re. Il fatto accadeva, secondo Foucault, allesoglie di un passaggio epocale della cerimo-nia penale. Più tardi, a partire dall’abolizio-ne nel 1791 dell’infamante confessionepubblica, la punizione cesserà a poco a pocodi essere spettacolo, divenendo la parte piùsilenziosa e nascosta del processo. Al suoposto, si potrebbe aggiungere, si imporràsempre più un altro spettacolo, quello del-l’udienza e dell’aula giudiziaria. D’ora in poispariranno i supplizi, l’esposizione dellasofferenza, ma resterà il corpo del condan-nato, la sua “ostentazione” sul teatro dellagiustizia (Foucault 1993, pp.5-8, 16-21).Sopra di esso si eserciterà una nuova atten-zione da parte degli Stati. Si sostituirà gra-dualmente – come scrive Foucault – un’e-conomia dei diritti sospesi, una certasobrietà punitiva, che continua tuttavia adesercitarsi sul corpo, esposto sulla scena delprocesso, insieme a quello dei suoi giudici.Nel racconto, compaiono i funzionari dellamacchina del supplizio: i confessori, il boiae i suoi aiutanti, il curato, il cancelliere, ilsottoufficiale di cavalleria, tutti operai eofficianti del rito dell’esecuzione.

Vi è anche posto per il pubblico che appa-re brevemente due volte: è in primo luogo lavoce narrante della «Gazette d’Amsterdam»del 1 Aprile 1757, che ricostruisce lo spetta-colo del supplizio in ogni suo raccapriccian-te dettaglio, e una seconda volta sotto formadi una annotazione dello stesso giornale, cheriferisce dei sentimenti del pubblico: «glispettatori furono tutti edificati dalla solleci-tudine del curato di San Paolo, che malgra-do la sua tarda età non lasciava un momentodi consolare il paziente»(ibidem, p. 5).

Qui termina il racconto di Foucault. Main quel giorno sulla piazza di Grève, c’èanche un’opinione pubblica per così dire disecondo grado, che osserva appartata e condistacco la scena del supplizio. Lo spettato-re di riguardo che la incarna e su cui tace ilresoconto di Foucault è Giacomo Casanova.Nuovamente, secondo la nostra ipotesi, èsoltanto ricorrendo ad un altro punto divista – che sceglie dichiaratamente i margi-ni della messa in scena e non il suo più fre-quentato centro di gravità – che si può rag-giungere finalmente un’ulteriore effetto diconoscenza sullo spettacolo del processo.

Il riferimento all’esecuzione di Damiensè sulle prime indiretto e per linee seconda-rie. Quando Casanova ne scrive, sono passa-ti forse più di trent’anni dall’avvenimento. Iltesto ha un forte impatto visivo e, come spes-so accade per la scrittura di Casanova, è ric-co di immaginazione giuridica e istituziona-le (Beneduce, Funzionari, 2002, pp. 61-62).Nelle pagine precedenti, l’autore si era sof-fermato infatti su avvocati e matrimoni, sul-l’istituto della dote, conversando inoltreamabilmente, con ambasciatori e intenden-ti, di spesa pubblica, finanza e del suo pro-getto di lotteria (Casanova 1984, cap. VII).

I ricordi affiorano lentamente nelleparole dell’autore, come per il fantasma del-la “gran folla” che si raccoglieva via via inplace de Grève. Camaleontica e spietata,appariva adesso in pena per le “scalfitture”procurate al monarca dal “mostro” Damiense tutta presa d’amore per il suo re, mentre dilì a pochi anni sarebbe divenuta giudice espettatrice del suo assassinio. La memoria sifa poi stranamente precisa nel descrivere itermini di un contratto. Casanova si riferi-sce all’accordo con il quale aveva affittato neigiorni precedenti una finestra sulla piazzaper consentire a lui, all’amico Tiretta e a tre

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signore, Melle de La M…re, di cui Casanovaè innamorato, la Lambertini, zia della ragaz-za, e una misteriosa Mme X, di assistereall’orrendo spettacolo: «mi bastò un quartod’ora ad affittare per tre luigi una buonafinestra all’ammezzato, in mezzo a due sca-le. Pagai e mi feci dare la ricevuta con unimpegno di disdetta per seicento franchi»(ibidem, p. 182).

D’ora in avanti abbonderanno nella nar-razione figure, sinonimi e luoghi del vede-re. Tutto il discorso è assoggettato ai dispo-sitivi di uno sguardo imperturbabile, chemisura lo spazio pubblico di una funzione. Èlo spettacolo del giudizio che mentre si cele-bra può ripetersi e raddoppiarsi improvvi-samente su versanti insospettabili.

Di buon mattino, dopo colazione, Casa-nova va a prendere i suoi amici e li accom-pagna in place de Grève. Raggiunta la fine-stra, gli spettatori si dispongono secondocomplicate strategie visuali e sentimentali:

appena arrivammo, le signore si sistemarono tut-t’e tre alla finestra, stringendosi ed appoggiando-si al davanzale per non impedire a noi di vedere.Alla finestra si accedeva con due gradini, le signo-re stavano sul secondo, e noi anche però alle lorospalle, perché se ci fossimo messi sul primo nonavremmo visto nulla. Se mi fermo su questo par-ticolare, ho […] i miei bravi motivi.[Ibidem, p. 186]

Come per le modalità di affitto della fine-stra – che ricalcano l’istituto del diritto di pal-co nei teatri – così l’intero immaginario del-l’episodio si muoverà su analogie insistite conil gioco di una rappresentazione davanti adun pubblico curioso ed esigente. Nei suoiistanti più insostenibili, scrive Casanova,nessuno dei suoi ospiti, tranne lui stesso, dis-toglierà gli occhi dall’orrore delle mille mor-ti che stanno martoriando il corpo diDamiens. E ancora: «lo spettacolo si pro-

trasse per quattro ore filate e noi trovammola pazienza di seguirlo tutto» (ibidem).

È a questo punto che sorprendentemen-te si sovrappone alla prima un’altra scrittu-ra e una seconda verità della messa in sce-na. Accanto allo spettacolo dell’esecuzioneirrompe dai margini del luogo della ceri-monia, esattamente da una finestra al limi-te della piazza, uno spettacolo parallelo especulare che mentre mostra in piena lucealtri corpi e sguardi, li dissimula e li sottraealla vista: «quando Damiens uscì in un urlobestiale dovetti volgere lo sguardo. La Lam-bertini e Mme X invece non voltarono nep-pure gli occhi, e non per crudeltà». Ma laverità non è quella che dichiarano subito ledue signore, l’odio per l’assassino e l’amo-re per Luigi:

la verità è invece che Tiretta tenne così strana-mente occupata durante tutta l’esecuzione Mada-me X, che fu forse solo a causa sua se lei non osòmuoversi né volgere il capo. Infatti standoleincollato alle spalle, Tiretta le aveva sollevato laveste per non calpestargliela con i piedi, e questoandava bene. Ma poi, sbirciando, notai che glie-l’aveva sollevata un po’ troppo, allora per noninterrompere il lavoro del mio amico e per nonmettere nell’imbarazzo la signora mi sistemaidietro la mia adorata in maniera da dare a sua ziala sicurezza che né io né lei potevamo vedere ciòche Tiretta le faceva. Per due ore intere fu tutto unfruscio di vesti e poiché la cosa era molto diver-tente io rimasi tutto il tempo immobile.[Ibidem, p. 187]

Una strana ufficialità si comunica dal-l’una all’altra messa in scena. Quest’ultimanon cessa mai di illustrare a suo modo, maesattamente, la prima. Infatti sembra evo-care tutti i tratti caratteristici di una cele-brazione: la gravità dei volti e dei corpi, laloro indicibile esposizione nel corso dellafunzione, la soggezione assoluta al tempo ealle regole del gioco. Musicalità e orrore,

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erotismo e gravità occupano in questo modotutti gli angoli della place de Grève e inter-rogano tutti insieme il mistero di questadoppia cerimonia che ipnotizza lo sguardodel narratore: «solo alla fine, terminata chefu la funzione, quando vidi Madame X sol-levarsi, anch’io mi voltai» (ibidem).

4. Ambiguità del ritratto giudiziario

La visualità paradossale della celebrità – uneccesso di esposizione inversamente pro-porzionale alla reale conoscibilità del temamesso in scena – segna allo stesso mododegli esempi precedenti la tradizione delritratto giudiziario. Quest’ultimo può vanta-re una permanenza di tratti espressivi, diregole compositive e di usi sociali che lo ren-de un vero e proprio sottogenere all’internodella complessa storia del ritratto (Pommier2003; Nancy 2002).

La messa in mostra di corpi eloquenti –il volto e l’abito dei giuristi, il profilo di avvo-

cati e magistrati a mezzo busto o a figura pie-na, ospitati in sontuosi medaglioni – è sem-pre un gesto memoriale. Si intende cioèricordare e rendere presente (Nancy 2002,pp. 11 ss., 29 ss.) la persona assente, cele-brandone le qualità professionali e le virtùcivili. Ogni dettaglio del ritratto, comprese leiscrizioni e le didascalie che incorniciano osostengono la base del dipinto, dichiaranoun’ulteriore sintassi visiva altrettanto espli-cita, costituendo vere e proprie risorse,provviste di segni al servizio del volto. Sonocaratteristici ritratti di funzione (ibidem, p.30) per uso pubblico, di omaggio e di rico-noscimento dell’opera e dei saperi di cuisono portatori i giuristi.

Le figure dei magistrati e degli avvocati simostrano preferibilmente di profilo. Cerca-no lo spettatore con uno sguardo laterale. Sitratta di riproduzioni mai esattamente reali-stiche e naturalistiche del personaggio rap-presentato. Sono piuttosto il mostrarsi diun’assenza, la vita interiore dello status e del-la funzione pubblica, la peculiare proiezionevisiva dell’habitus del giurista (v. Bourdieu1984, 1986; Hespanha 1989). Eppure dentroquesta retorica serena della funzione, i ritrat-ti dichiarano spesso sconfinamenti e aporie.Certificano a un tempo più e meno della fun-zione del giudizio o della difesa. Convocanoaltre possibili vocazioni intellettuali, pro-pongono in definitiva la figura inquieta di unautore (v. Beneduce Cetaacei), come nel casodell’immagine enigmatica dell’avvocato PaulArcis. Seduto al tavolo da lavoro, la giacca – ola toga – aperta sulla camicia bianca, l’uomoè ritratto in una sorta di sospensione tempo-rale e di senso. Il volto è in piena luce, sem-bra guardare pensoso di fronte a sé. Con gestoteatrale la mano sinistra gli sorregge il capoleggermente reclinato, il gomito è puntatosullo scrittoio. Come se Arcis avesse appena

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Ritratto di Paul Arcis

smesso di vergare il foglio, la mano destrapoggia pesantemente sul tavolo, le dita sem-brano aprirsi piano intorno alla penna, per-pendicolare alla carta.

Il testo in corso d’opera potrebbe diveni-re, nell’immaginario dello spettatore cheosserva Arcis, un’arringa o un racconto, unasentenza o un disegno di legge. Ancora, l’u-niverso stabile del tavolo da lavoro, icona fis-sa della professione intellettuale e dell’au-tore, è turbato qui dalla dispersione deglioggetti che lo ingombrano, fermagli, cala-mai, cartelle. In particolare sopra la parte piùesterna si scorge un gruppo di fogli in pre-cario equilibrio, quasi nell’atto di scivolarevia in basso, inghiottitti dal fondo buio deldipinto. Nella sala della Maison des Avocatsdove è custodito, il ritratto di Arcis conosceuna curiosa metamorfosi. È la sua singolareduplicazione e rinascita, nel volto e nellosguardo di un altro giurista, di una genera-zione successiva, il magistrato Gerard Khe-naffou, fissato nella piccola foto posta allabase della cornice, e che lo spettatore puòscorgere soltanto se guarda vero il basso.

L’effetto moltiplicatore e di rispecchia-mento che ne risulta – comprendendo nel-lo stesso campo visuale i due personaggi –produce un gioco di rassomiglianze e un dis-positivo di ripetizione della funzione nelcorso del tempo. Di questa continuità tem-porale e tra differenti punti di vista sul pro-cesso, è complice la postura e il gesto del giu-dice, quasi identici a quelli di Arcis. Sedutoal tavolo da lavoro, ha lo sguardo pensoso inuna tesa immobilità. Una mano gli sostienegravemente il capo, l’altra tiene la pennapuntata sul foglio, con la sola differenza chealle spalle del magistrato si nota, rispetto alfondale dipinto nel ritratto di Arcis, il riqua-dro realistico degli scaffali ricolmi di libri. Ivolti non ci restituiscono soltanto l’identità

di due corpi eloquenti, implicati nella fun-zione del giudizio della difesa. Si può rico-noscere anche nell’insieme il ritratto ine-quivocabile di un autore al lavoro.

La galleria dei ritratti dei giuristi france-si dell’Antico regime4, a volte riproposti nel-le riedizioni ottocentesche delle loro opere,è un buon campo di verifica per queste pre-messe di metodo, una sorta di deposito ori-ginario degli stili di rappresentazione delmondo forense. Etienne Pasquier segue congli occhi l’osservatore – a un tempo il pitto-re che lo dipinge e il futuro spettatore – chesi pone davanti al ritratto. Un abito sontuo-so ne avvolge il busto. Nella scritta conse-gnata a una elegante pergamena che chiudein basso l’immagine si legge dopo i dati ana-grafici che è stato poeta latino e francese eavvocato generale. Più in basso una quartinaallude poeticamente alla lex Cincia che inter-diva agli avvocati romani di ricevere unaretribuzione per i loro servigi.

Di Simon Nicolas Henry Linguet, cheguarda di lato oltre l’ovale, si scorge appena la

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ÉtiennePasquier

linea delle spalle. Una iscrizione con il nome,il luogo e la data di nascita (Reims 1716)descrive un semicerchio sui bordi superioridel ritratto. Fuori dall’ovale, sparsi sullasuperficie della base, ingombra di penne d’o-ca, nature morte floreali e serpenti che siallungano fra le carte, si aprono i volumi del-le raccolte di Playdoyers e Mémoires, delle ope-re di Platone, Bodin, Grozio, Montesquieu, edi Henry François D’Aguesseau.

Il ritratto di Pierre-Jean-Baptiste Ger-bier, ancora di profilo, avvocato nel parla-mento di Parigi, contiene un’altra iscrizionenuovamente in rima. Vi si celebra il suo talen-to incantatore e il desiderio di verità, e si alle-stisce una breve geografia dei sentimenti del-l’eloquenza e della difesa, custodite rispetti-vamente nell’animo e nel cuore dell’autore.

Il volto di Henry François d’Aguesseau5

appare più volte tra Sette e Ottocento nelleedizioni francesi delle sue opere e nelle suc-cessive traduzioni italiane. Leggermente dilato, il viso è fissato in un lieve sorriso e por-ta il segno – secondo i differenti ritratti chelo dipingono e gli rassomigliano – delle

diverse età della vita. D’Aguesseau si mostrain un’ampia toga dove sono appuntate leonorificenze e si indovina tra le pieghe del-l’abito tutta la distinzione della funzione: lagravità sacerdotale del portamento, i meritie le imprese, la gloria civile della professio-ne di avvocato e di magistrato.

Come nei casi precedenti, il gioco delledidascalie e delle iscrizioni – sobrie all’in-terno del ritratto, più argomentate nel bre-ve testo dell’Elogio della sua vita che accom-pagna tutte le edizioni dell’opera – si mani-festa con una scrittura sempre visuale eimmaginaria e adempie al compito di atte-stare e illuminare la verità del volto custodi-to nell’ovale. Da qualunque parte si spostil’osservatore, il volto magnetico di D’Agues-seau esige la sua attenzione, conquista il cen-tro dello sguardo dell’osservatore. Il ritrattocelebre immagina e produce così in perma-nenza la sua opinione pubblica che può visi-tare il passato di un autore altrimenti irrag-giungibile e proiettarlo nella posterità.

Intorno al ritratto di D’Aguesseau si costi-tuisce anche un campo di memoria affidatoad altre iscrizioni, che in questo caso leggia-mo dalla prima versione italiana, sotto formadi notazioni degli editori di Parigi, oppure di“avvertimenti” del traduttore. Tutti questisoggetti moltiplicano la capacità di presenzadell’autore nell’opinione pubblica. Il buontraduttore, scrive per esempio uno di loro,esige dal lettore una costante “riconoscenza”che si assume il compito di ricreare il librolontano dall’autore, nelle mani di chi lo rice-ve, iscrivendolo contemporaneamente in uncampo di memoria e di celebrità.

In ciascuna qualità civile dell’autore – ilcatalogo è interminabile: filosofo, legislato-re, amministratore e poi giudice, avvocato,oratore, poeta – si può allora intravedere vol-ta a volta il ritratto di un eroe culturale del-

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Simon Nicolas Henri Linguet

l’antichità che gli “rassomiglia”. Così si leg-ge per esempio nella didascalia del ritrattodel 1746: «Illi lingua potens Demosthenis,ars Ciceronis, pectus Aristis, mensque Plato-nis erat; et Cato censura, responsis Papinia-nus, consiliis Nestor, legibus ipse Solon».

Il volto di d’Aguesseau si presenta alloracome un testo visuale, nel quale rivivono letracce di altri talenti: la tecnica e il coraggiocivile di Papiniano, la capacità di legislazio-ne di Solone, il rigore di Catone, l’eroismomilitare di Aristide, lo stile di Demostene, lapotenza di pensiero di Platone, l’arte di Cice-rone, la fedeltà e i buoni consigli dell’eroegreco Nestore nei confronti di Agamennone.

Tuttavia a causa di questo pericolosodecentramento dell’autore, che si moltiplicae quasi si perde fra i monumenti del passato,seguiva nello stesso testo dell’iscrizione unprovvidenziale movimento inverso. Un veroe proprio principio di unità restituiva final-mente al suo tempo attuale il corpo eloquen-te di d’Aguesseau: «Verior virtus animolabrisque fidebat; etiam scripta nunc quoquevisa loqui». L’universo delle citazioni, il cata-logo eccessivo dei nomi e delle virtù del mon-do classico, potevano disporsi così in buonordine, saldandosi intorno alla più vera dellequalità dell’autore. La capacità di parola e discrittura di d’Aguesseau piegava quegli argo-menti all’idea di una ininterrotta tradizionedel presente, inteso come il luogo privilegia-to del ripetersi all’infinito dello spettacolodella giustizia.

Questo doppio movimento del ritrattogiudiziario si riproduce per molti versi neicanoni della letteratura forense. La testuali-tà dell’arringa presenta a suo modo una stes-sa traiettoria di dispersione dell’autore. Ciòaccade attraverso il dispiegamento – senzaapparente gerarchia – di argomenti di diver-sa natura, a cui soltanto la parola eloquente,

pronunciata nell’aula giudiziaria, provvedea dare una direzione e un principio di unità,letteralmente discutibile davanti al giudice eal pubblico. Su questo tema mi limito a pro-porre una lettura esclusivamente indiziaria.

Traggo alcuni spunti da una memoria del-l’avvocato veneto Marco Piazza in difesa diGiovanni Pietro Cotin (Piazza 1855). Que-st’ultimo, figlio di ex schiavi africani approdatiin America sulla foce dell’Orinoco, nativo diSanto Domingo, poi naturalizzato italiano, eraimputato di aver tentato di uccidere la propriapadrona Marianna Panfilio. Nel suggestivoracconto dell’avvocato, scandito da una tramaavvincente e da ripetuti colpi di scena, ildomestico è improvvisamente preso d’amo-re per la donna, ma ne è subito respinto. Cadeallora in un delirio melanconico, una malat-tia misteriosa che si aggrava con la “nostalgiadel ritorno” impossibile nella patria lontana.Finirà per cercare il suicidio con un colpo dipistola che per fortuna non andrà a segno.

L’arringa include una serie di fonti,documenti e referti, ricchissimi per nume-ro e varietà. È un catalogo ridondante e cen-trifugo al servizio dell’illustrazione retoricadel “punto di diritto”. Si presenta come unimpasto riuscito di testi d’autorità e di scrit-tura narrativa, una drammaturgia barocca,dell’ostentazione e della meraviglia, con unasistematica messa in mostra degli argomen-ti più disparati che incrociano sapiente-mente ad ogni istante quelli di natura tecni-co-giuridica. Così per esempio i paragrafi 1-4 del codice austriaco, i libri di medicinalegale, le deposizioni dei testimoni, i refer-ti del chirurgo e del medico curante, le con-clusioni del pubblico ministero si alterna-vano ai testi biblici – l’Ecclesiaste, i Prover-bi, il Libro di Giobbe, l’Apocalisse, i Vange-li – ai classici dell’antichità – Seneca, Cesa-re, Marziale – alla storia delle religioni e alle

Beneduce

343

cronache dei viaggiatori, alle opere di Pascale dei giusnaturalisti, ai romanzi sentimenta-li e ai trattati sulla melanconia, come quellodi Robeck De morte volountaria, o le osserva-zioni di Deslandes «sopra i grandi uominiche si ammazzarono scherzando».

L’autore, che era sembrato quasi scom-parire nel testo, ritorna attraverso il suo cor-po eloquente nello spettacolo dell’udienzaper ridurre a unità la scrittura aperta e debor-dante della difesa. Non per caso l’esordio,dedicato a una lunga interlocuzione nei con-fronti dei magistrati e dei confratelli avvoca-ti, terminava con l’elogio del teatro del pro-cesso e della voce in scena dei suoi attori.

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Pommier (E.), Il ritratto. Storia e Teorie dal Rinascimentoall’Età dei Lumi, Torino, Einaudi, 2003.

Itinerari

344

1 Sul tema delle rappresentazioni

del processo cfr. gli atti di pros-

sima pubblicazione del Convegno

Storie di cause celebri. Racconto e

messa in scena della giustizia,

organizzato da P. Beneduce e A.

Romano a Messina 19-21 Giugno

2003. Segnalo che presso la Cat-

tedra di Storia del diritto italiano

del Dipartimento di Scienze giu-

ridiche dell’Università di Cassi-

no ho costituito un laboratorio di

storia e antropologia del proces-so e del racconto giudiziario(www.autoredelittodiritto.it).Sull’autoriflessione del magistra-to cfr. Luminati 2002.

3 Mi riferisco alla rivista diretta daA. Fouquier, continuatore del’«Annuaire Historique (1843-1855), Causes Célèbres», LebrunEditore, Parigi.

4 Per questi temi debbo moltissi-mo alla generosità di CatherineFillon che ha messo a mia dispo-

sizione una preziosa documenta-

zione in suo possesso.5 Su d’Aguesseau (1658-1751),

autore dei tre celebri Discorsi agli

avvocati, per l’apertura delle

udienze del Parlamento, e delle

diciannove “Mercuriali” dedica-

te ai giudici, nel loro complesso

un testo sull’habitus del buon giu-

rista, rinvio alla mia introduzione

alla ristampa anastatica dell’ope-

ra, di prossima pubblicazione.

Cronache italiane

CESARE BALBO

Dell’eloquenza parlamentare.

[…] Quindi prima e più essenziale di tuttele preparazioni è senza dubbio lo studio del-le leggi del proprio paese. Sotto i governiassoluti, questo studio non è guari necessa-rio né utile, se non agli avvocati ed ai magi-strati. Ogni altro cittadino e suddito non hache fare; e tra noi Piemontesi correva que-sto curioso modo di dire, che quelli solo iquali si destinavano alla carriera legale efacevano il loro corso all’università, dice-vansi aver studiato, e tutti gli altri no. All’in-contro sotto il governo rappresentativo, lostudio delle leggi (le quali vi sono il veroprincipe assoluto) diventa utilissimo a qua-lunque cittadino possa essere consigliereprovinciale, o comunale, od elettore, o giu-rato, o scrittore, o membro di società poli-tiche, cioè a quasi tutti i cittadini dello Sta-to; ma si fa poi necessario a qualunque pre-tenda alla carriera parlamentare e tanto piùalle alte cariche della Corona, cioè insomma

a chiunque abbia quell’ambizione chedicemmo nobilissima in ogni paese libero,di servire lo Stato. – Che più? In tutti i pae-si nuovamente parlamentari si può osser-vare questo fatto costante: che gli avvocati,i magistrati, i giurisperiti in generale, inco-minciano ad essere i migliori, e talora i solioratori, anzi i soli uomini politici possibili.È in ogni paese nuovo così, una prima etàche si potrebbe chiamare degli avvocatiesclusivamente: per le due ragioni che essisono non solamente i più avvezzi a parlare inpubblico, ma i soli che abbiano in mente lematerie di che parlare.

Abbiamo tutti conosciuti parecchiuomini naturalmente facondissimi già nel-le conversazioni private, ed ultimamentepoi nelle piazze e nei circoli, e che, trovati-si poi ne’ parlamenti, o non vi potevanoaprir bocca mai, o nol facevano se non nel-le materie più generali, e dove bastasse l’in-gegno e la facondia naturale senza cogni-zioni speciali. E i più sinceri fra questi,interrogati perché non parlassero più fre-quentemente, rispondevano che avrebbero

347

Avvocati in Parlamento,centocinquant’anni orsono…

cesare balbo, luigi palma

giornale di storia costituzionale n. 6 / II semestre 2003

così fatto molto volentieri, se avesserosaputo di che parlare, ma nol sapevano. – Equindi pure si poté notare un grave erroredelle nostre prime leggi elettorali, le qualiper gelosia democratica fissando un nume-ro ristretto di magistrati o d’impiegati chepotessero sedere nelle Camere, restrinse-ro così il numero degli oratori utili nellediscussioni. Conceduto un quarto del tota-le a questi, rimasero i tre quarti agli orato-ri declamatori e vuoti. – I quali poi furono,per vero dire, da compatire e non più; era-no innocenti della loro involontaria igno-ranza od inabitudine. Ma fu per certo gra-vemente colpevole verso la patria e verso séstesso, chiunque entrato nei nostri parla-menti con ricco corredo di cognizioni lega-li e di naturale facondia non seppe o nonvolle abbandonarsi se non a questa, erinunciò involontariamente ed in mal pun-to a quell’altra qualità sua, la quale avrebbepotuto fare di lui un oratore parlamentare

compiuto, e quindi un uomo politico o diStato, potente sui destini della patria:rinunciò a questa nobilissima e durevolepotenza, per un po’ di quella volgare ed effi-mera su qualche centinaio di uditori den-tro o fuori del parlamento.

Passata quella prima età che chiamammodegli avvocati (perché avvezzi a parlare piùche i magistrati, ebbero il vantaggio anchesu questi), essi gli avvocati hanno poi unosvantaggio loro speciale; che avvezzi a nonconsiderare le questioni se non da un sololato, a difenderle e perorarle anziché giudi-carle dai due lati e nella loro totalità, reca-no questo vizio gravissimo nelle pubblichedeliberazioni che sono all’incontro sempregiudizi. – E n’hanno parimenti un altro: cheavvezzi a cercare con acume, troppo fino tal-volta, ciò che chiamiamo i mezzi di difesanegli affari privati minutissimi talvolta,recano nella discussione parlamentare que-sta medesima minutezza o finezza, la qualecade poi sovente in sofisticheria. – E n’han-no un terzo ancora: che avvezzi a dire tuttele ragioni buone, men buone, od anche cat-tive della lor parte per persuadere i loro giu-dici buoni o cattivi, essi recano questo modonelle assemblee numerose e politiche, nel-le quali non solamente è più utile ed effica-ce, ma più bello, od anzi solo lecito, addur-re le ragioni vere, virtuose ed opportune. –E so che mi si obbietterà doversi qui pure,qui principalmente persuadere i cattivi,tener conto delle umane passioni; ma iorispondo che quei cattivi si voglion pure essipersuadere con buone e giuste ragioni, edominare, non servire le passioni umane.

Dinnanzi a un tribunale privato, vinta lacausa, tutto è finito per l’avvocato; ma in unparlamento e consiglio nazionale, è taloramen male perdere anche una buona causa,un affare particolare, che aver messo in

Cronache italiane

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Gruppo di avvocati, litografia di Henri Daumier (1845)

campo una cattiva ragione, un falso princi-pio, il quale può essere seme che cresca adanno fatale della patria. E si potrebberocitare non pochi di simili esempi. – In bre-ve, pensi l’avvocato entrando in parlamen-to, ch’ei non vi debb’essere più avvocato magiudice; e correggendo così tutti insieme ivizi provenienti di sua professione, vi potràserbare sempre i vantaggi pure speciali egrandi di essa […].

[in Della monarchia rappresentativa in Italia. Sag-gi politici, Firenze, Felice Le Monnier, 1857, vol. II,cap. 7, pp. 389-393]

LUIGI PALMA

Dell’ordinamento dei poteri pubblici

[…] Presentemente è sorta in Italia un’altraquestione in fatto d’incompatibilità, quelladegli avvocati esercenti. Essi, in parte perchéappartengono ad una classe di uominisoprammodo attivi, ambiziosi e destri, e aduna professione che procura loro molte ade-renze, li pone davanti agli occhi del pubbli-co, e fa loro attribuire molta riputazione diattitudine parlamentare, specialmente inservizio dei privati, i cui affari e interessi fanprofessione di trattare e difendere; in parteper le ineleggibilità ed incompatibilità deipubblici ufficiali che più potrebbero con essigareggiare nella riputazione di capacità e dipubblica fiducia; riescono evidentementetroppo numerosi nella camera. Essa, in talguisa, anziché essere la rappresentanza veradella Nazione, nei suoi vari elementi, minac-cia di diventare una palestra di avvocati; chepretendono di saper di tutto, che parlanoindifferentemente ed interminabilmente ditutto, che cavillano su tutto; e che dopo aver

sollecitato i voti degli elettori per mettersimeglio in vista della cittadinanza, per ren-dersi più autorevoli ed oltrepotenti negliuffici pubblici e nelle Corti, e coll’autorità dideputati raccogliere, a danno dei loro menofelici rivali, clienti e quattrini; continuanoed allargano come onorevoli rappresentan-ti gratuiti della Nazione l’esercizio della loroprofessione di avvocati, facendosi difensoripiù caramente retribuiti presso i Ministeri,presso il Governo, e se occorre o giova per-sino nel Parlamento, degli affari e degli inte-ressi privati. In ogni caso sta sempre prontala scusa che se difendono un privato inte-resse, e se ne fanno pagare, lo fanno legitti-mamente come avvocati non come deputati.

Il male è grave, e le lagnanze comincianoad essere alte e stridenti. Quale il rimedio?

In verità non parrebbe possibile esclu-derli, dichiarando incompatibile l’ufficiodi deputato coll’avvocatura. Si opporebbetroppo, sebbene diverso tanto dalle condi-

Cronache italiane

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Gambetta alla tribuna della Camera

zioni odierne, il fatto della vecchia Inghil-terra del 1404, sotto Enrico IV; quando ilLord Cancelliere Beaufort, avendo pre-scritto che non si eleggesse alcun legale, ilParlamento che ne risultò, conforme all’u-so di quella età, cui piaceva distinguere iprincipi e le assemblee dalle loro più spic-cate qualità, è rimasto famoso per ilsoprannome, di Parliamentum indoctum(The lack learning Parliament). Sarebbeun’offesa troppo grave alla libertà deglielettori e della eleggibilità, forse anche, nonostante tutti i difetti degli avvocati, allacapacità della Camera stessa di adempiereai suoi vari uffici.

Parrebbe invece sorridere a molti lalimitazione del loro numero, e molte ragio-ni in favore si potrebbero allegare, népotrebbe ragionevolmente obbiettarsi laviolazione della libertà degli elettori. Se lalegge, per esempio, lasciasse eleggere libe-ramente, ufficiali pubblici, magistrati, pro-fessori, militari, ecclesiastici, sindaci e cosìvia seguendo si comprenderebbe la liberaed illimitata elezione anche degli avvocati.Ma quando la legge vuole ottenere lamiglior composizione della Camera, eall’uopo stabilisce tante altre incompatibi-lità, le quali riescono praticamente a farloro più largo campo, essa, nell’interessedella migliore rappresentanza, è intitolata

a limitare il loro soverchio numero. Tuttavia io non credo, per ora almeno,

accettevole un tal partito. Oltre alla impos-sibilità che una Camera così piena di avvo-cati voti una legge simile, non parrebbebene, benché così si faccia cogli ufficialipubblici, abbandonarsi alla cieca sorte; laquale molto facilmente metterebbe fuori ipiù illustri ed onesti e terrebbe dentro i piùoscuri, inetti ed affaristi.

Oggi a me parrebbe provare, se bastinoquesti provvedimenti: 1° Vietare, sotto lasanzione di decadenza, ai deputati al Parla-mento di difendere lo Stato come avvocati:mezzo troppo evidente di corruzione parla-mentare; 2° Proibire assolutamente, sotto lasanzione del pari di decadenza, che i depu-tati avvocati assumano il patrocinio di cau-se contro lo Stato. L’influenza loro dipen-dente da due cagioni: da una parte dalla loroabilità personale, dall’altra dal prestigio edalla potenza di membri del Parlamento, chenon può esser lecito rivolgere contro lo Sta-to stesso. Farebbe anche d’uopo rinvigorirel’autorità e l’indipendenza dei magistrati,come lo stato degli ufficiali amministrativi,per tutelarli dalla oltrepotenza dei deputatie dello stesso Governo; ma ciò è obbietto dialtre parti del nostro diritto.

[in Corso di diritto costituzionale, Firenze, Pellas,1884, vol. II, parte II, pp. 167-169]

Cronache italiane

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