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STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO Docente Prof. Scuccimarra Lezione n. 12 II SEMESTRE A.A. 2013-2014

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STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO

Docente Prof. Scuccimarra

Lezione n. 12 II SEMESTRE A.A. 2013-2014

Herbert Marcuse, Prefazione a Cultura e società:

Una cosa (…) non era incerta per l’autore di questi saggi e per i suoi amici dell’Istituto: il

riconoscimento del fatto che lo stato fascista era la società fascista, che il potere totalitario e la

ragione totalitaria provenivano dalla struttura della società esistente, che era allora sul punto di

lasciarsi alle spalle il suo passato liberale e di annettersi la sua negazione storica.

Herbert Marcuse, La lotta contro il liberalismo nella concezione totalitaria dello Stato (1934):

La totalità sociale, intesa come realtà autonoma e primaria rispetto agli individui diventa, semplicemente in grazia del suo carattere di

totalità, anche un valore autonomo e primario: la totalità è, in quanto totalità, il vero e l’autentico. Qui non viene posta la

questione se ogni totalità non debba prima di tutto legittimarsi di fronte agli individui, e in che misura le loro possibilità e necessità siano in essa superate e conservate. Spostando la totalità all’inizio anziché alla fine, si sbarra la via alla critica teorica e pratica della

società, che porta appunto a questa totalità. La totalità viene mistificata in maniera programmatica

Carl Schmitt, Teologia politica (1922):

Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione. Infatti ogni ordine riposa su una decisione e

anche il concetto di ordinamento giuridico, che viene acriticamente impiegato come qualcosa che si spiega da sé, contiene in sé la contrapposizione dei due diversi elementi del dato giuridico. Anche l’ordinamento giuridico, come ogni altro ordine,

riposa su una decisione e non su una norma.

Carl Schmitt, Teologia politica (1922):

(…) L’eccezione è ciò che non è riconducibile; essa si sottrae all’ipotesi generale, ma nello stesso tempo rende palese in assoluta

purezza un elemento formale specificamente giuridico: la decisione. Nella sua forma assoluta il caso d’eccezione si verifica solo allorché si deve creare la situazione nella quale possano avere efficacia norme giuridiche. Ogni norma generale richiede una strutturazione normale dei rapporti di vita, sui quali essa di fatto deve trovare applicazione e

che essa sottomette alla propria regolamentazione normativa. La norma ha bisogna di una situazione media omogenea. Questa

normalità di fatto non è semplicemente un «presupposto esterno» che il giurista può ignorare; essa riguarda invece direttamente la sua

efficacia immanente.

Carl Schmitt, Teologia politica (1922):

Non esiste nessuna norma che sia applicabile ad un caos. Prima dev’essere stabilito l’ordine: solo allora ha un senso

l’ordinamento giuridico. Bisogna creare una situazione normale, e sovrano è colui che decide in modo definitivo se

questo stato di normalità regna davvero. Ogni diritto è «diritto applicabile ad una situazione». Il sovrano crea e

garantisce la situazione come un tutto nella sua totalità. Egli ha il monopolio della decisione ultima. In ciò sta l’essenza

della sovranità statale, che quindi propriamente non dev’essere definita giuridicamente come monopolio della

sanzione o del potere, ma come monopolio della decisione…

Carl Schmitt, Teologia politica (1922):

L’eccezione è più importante del caso normale. Quest’ultimo non prova nulla,

l’eccezione prova tutto; non solo essa conferma la regola: la regola stessa vive

solo dell’eccezione. Nell’eccezione, la forza della vita reale rompe la crosta di

una meccanica irrigidita nella ripetizione…

Carl Schmitt, Il concetto di «politico»

La specifica distinzione politica alla quale è possibile ricondurre le azioni e i motivi politici, è la distinzione di

amico (Freund) e nemico (Feind). Essa offre una definizione concettuale, cioè un criterio, non una definizione esaustiva o

una spiegazione del contenuto. (…) Il significato della distinzione di amico e nemico è di indicare l’estremo grado

di intensità di un’unione o di una separazione, di un’associazione o di una dissociazione; essa può sussistere teoricamente e praticamente senza che, nello stesso tempo, debbano venir impiegate tutte le altre distinzioni morali,

estetiche, economiche o di altro tipo.

Carl Schmitt, Il concetto di «politico»

Non c’è bisogno che il nemico politico sia moralmente cattivo, o esteticamente brutto; egli non deve

necessariamente presentarsi come concorrente economico e forse può anche apparire vantaggioso concludere affari con lui. Egli è semplicemente l’altro, lo straniero (der Fremde) e

basta alla sua essenza che egli sia esistenzialmente, in un senso particolarmente intensivo, qualcosa d’altro e di

straniero, per modo che, nel caso estremo, siano possibili con lui conflitti che non possano venir decisi né attraverso

un sistema di norme prestabilite né mediante l’intervento di un terzo “disimpegnato” e perciò “imparziale”.

Carl Schmitt, Il concetto di «politico»

Solo chi vi prende parte direttamente può por termine al caso conflittuale estremo; in particolare solo costui può decidere se l’alterità dello straniero nel conflitto

concretamente esistente significhi la negazione del proprio modo di esistere e perciò sia necessario difendersi e combattere, per

preservare il proprio, peculiare, modo di vita.

Carl Schmitt, Il concetto di «politico»

Nemico non è il concorrente o l’avversario in generale. Nemico non è neppure l’avversario privato che ci odia in base a

sentimenti di antipatia. Nemico è solo un insieme di uomini che combatte almeno virtualmente, e che si contrappone ad un altro

raggruppamento umano dello stesso genere. Nemico è solo il nemico pubblico, poiché tutto ciò che si riferisce ad un simile

raggruppamento, e in particolare ad un intero popolo, diventa per ciò stesso pubblico. Il nemico è l’hostis, non l’inimicus in

senso ampio. (…) La contrapposizione politica è la più intensa ed estrema di tutte e ogni altra contrapposizione concreta è tanto più politica quanto più si avvicina al punto estremo, quello del

raggruppamento in base ai concetti di amico-nemico…

Carl Schmitt, Il concetto di «politico»

Nel concetto di nemico rientra l’eventualità, in termini reali, di una lotta. Questo termine va impiegato prescindendo da tutti i mutamenti casuali o dipendenti dallo sviluppo storico della tecnica militare e delle

armi. La guerra è lotta armata fra unità politiche organizzate, la guerra civile è lotta armata all’interno di un’unità organizzata (che

proprio perciò però sta divenendo problematica). L’essenza del concetto di arma sta nel fatto che essa è uno strumento di uccisione

fisica di uomini. Come il termine di nemico anche quello di lotta dev’essere qui inteso nel senso di un’originarietà assoluta. Esso non

significa concorrenza, non la lotta «puramente spirituale» della discussione, non il simbolico «lottare» che alla fine ogni uomo in

qualche modo compie sempre, poiché in realtà l’intera vita umana è una «lotta» ed ogni uomo un «combattente».

Carl Schmitt, Il concetto di «politico»

I concetti di amico, nemico e lotta acquistano il loro significato reale dal fatto che si riferiscono in modo

specifico alla possibilità reale dell’uccisione fisica. La guerra consegue dall’ostilità poiché questa è

negazione assoluta di ogni altro essere. La guerra è solo la realizzazione estrema dell’ostilità. Essa non ha

bisogno di essere vista come qualcosa di ideale o di desiderabile: essa deve però esistere come possibilità reale, perché il concetto di nemico possa mantenere il

suo significato…

Carl Schmitt, Il concetto di «politico»

Allo Stato, in quanto unità sostanzialmente politica, compete il jus belli, cioè la possibilità reale di

determinare, in dati casi e in forza di una decisione propria, il nemico e di combatterlo. E’ poi indifferente con quali mezzi tecnici la guerra verrà condotta, quale

organizzazione militare esista, quante probabilità vi siano di vincere la guerra, purché il popolo

politicamente uno sia pronto a combattere per la sua esistenza ed indipendenza: nel che esso determina, in

forza di decisione propria, la sua indipendenza e libertà.

Carl Schmitt, Il concetto di «politico»

(…) Lo Stato come unità politica decisiva ha concentrato presso di sé una competenza immensa: la possibilità di far la guerra e quindi spesso

di disporre della vita degli uomini. Infatti il jus belli contiene una disposizione di questo tipo; esso comporta la duplice possibilità di

ottenere dagli appartenenti al proprio popolo la disponibilità a morire e ad uccidere, e di uccidere gli uomini che stanno dalla parte del nemico. Il compito di uno Stato normale consiste però soprattutto nell’assicurare all’interno dello Stato e del suo territorio una pace stabile, nello stabilire «tranquillità, sicurezza e ordine» e di procurare in tal modo la situazione normale che funge da presupposto perché le norme giuridiche possano aver vigore, poiché ogni norma presuppone una situazione normale e

non vi è norma che possa aver valore per una situazione completamente abnorme nei suoi confronti

Carl Schmitt, Il concetto di «politico»

Se uno Stato combatte il suo nemico politico in nome dell’umanità, la sua non è una guerra dell’umanità, ma una guerra per la quale un determinato Stato cerca di impadronirsi, contro il suo avversario di un concetto universale per potersi identificare

con esso (a spese del suo nemico), allo stesso modo come si possono utilizzare a torto i concetti di pace, giustizia, progresso,

civiltà, per rivendicarli a sé e sottrarli al nemico. L’umanità è uno strumento particolarmente idoneo alle espansioni imperialistiche

ed è, nella sua orma etico-umanitaria, un veicolo specifico dell’imperialismo economico. A questo proposito vale, pur con

una modifica necessaria, una massima di Proudhon: chi parla di umanità, vuol trarvi in inganno.

Carl Schmitt, Il concetto di «politico»

Se uno Stato combatte il suo nemico politico in nome dell’umanità, la sua non è una guerra dell’umanità, ma una guerra per la quale un determinato Stato cerca di impadronirsi, contro il suo avversario di un concetto universale per potersi identificare

con esso (a spese del suo nemico), allo stesso modo come si possono utilizzare a torto i concetti di pace, giustizia, progresso,

civiltà, per rivendicarli a sé e sottrarli al nemico. L’umanità è uno strumento particolarmente idoneo alle espansioni imperialistiche

ed è, nella sua orma etico-umanitaria, un veicolo specifico dell’imperialismo economico. A questo proposito vale, pur con

una modifica necessaria, una massima di Proudhon: chi parla di umanità, vuol trarvi in inganno.

Carl Schmitt, Il concetto di «politico»

Proclamare il concetto di umanità, richiamarsi all’umanità, monopolizzare questa parola: tutto ciò potrebbe

manifestare soltanto – visto che non si possono impiegare termini del genere senza conseguenze di un certo tipo – la

terribile pretesa che al nemico va tolta la qualità di un uomo, che esso dev’essere dichiarato hors-la.loi e hors-l’umanité e quindi che la guerra deve essere portata fino

all’estrema inumanità. Ma al di fuori di questa utilizzazione altamente politica del termine non politico di

umanità, non vi sono guerre dell’umanità come tale

Carl Schmitt, Il concetto di «politico»

[La] necessità di pacificazione interna porta, in situazioni critiche, al fatto che lo Stato, in quanto unità politica, determina da sé, finché esiste, anche il «nemico interno». In tutti gli Stati esiste perciò in qualche forma ciò che il diritto statale delle repubbliche greche conosceva come dichiarazione di polemios e il diritto statale romano come dichiarazione di hostis: forme cioè più o meno acute, automatiche o efficaci solo in base a leggi speciali, manifeste o celate in prescrizioni generali, di bando, di proscrizione, di estromissione dalla comunità di pace, di collocazione hors la loi, in una parola di dichiarazione di ostilità interna allo Stato. Questo è il segno, a seconda del comportamento di colui che è stato dichiarato nemico dello Stato, della guerra civile, cioè del superamento dello Stato come unità politica organizzata, pacificata al suo interno, chiusa territorialmente e impenetrabile ai nemici. Il successivo destino di questa unità sarà poi deciso dalla guerra civile…

Carl Schmitt, Dottrina della costituzione

Intesa nel suo senso assoluto, costituzione significa «il concreto modo di esistere che è dato spontaneamente con ogni unità politica esistente». «Lo Stato non ha una costituzione, conforme alla quale si forma e funziona una volontà statale, ma lo Stato è la costituzione, cioè una condizione presente conforme a se stessa, uno status di unità e ordine. Lo stato cesserebbe di esistere se questa costituzione, cioè questa unità e ordine, cessasse. La costituzione è la sua «anima», la sua vita concreta e la sua esistenza individuale» (p. 17).

Carl Schmitt, Dottrina della costituzione

Intesa in senso positivo, la costituzione è la decisione fondamentale circa la forma e la specie dell’unità politica . Essa «vige in forza della volontà politica esistente di chi la pone». «Potere costituente è una volontà politica il cui potere o autorità è in grado di prendere la decisione concreta fondamentale sulla specie e la forma della propria esistenza politica, ossia di stabilire complessivamente l’esistenza dell’unità politica. Dalle decisioni di questa volontà si fa discendere la validità di ogni ulteriore disciplina legislativa costituzionale».

Carl Schmitt, Dottrina della costituzione

Stato è un determinato status di un popolo, e precisamente lo status dell’unità politica. Forma di Stato è la specie particolare della struttura di questa unità. Soggetto di ogni determinazione concettuale dello Stato è il popolo. Lo Stato è una condizione, e precisamente la condizione di un popolo.

Herbert Marcuse, La lotta contro il liberalismo nella concezione totalitaria dello Stato (1934):

…L’esistenziale in quanto tale viene dispensato da ogni razionalizzazione e da ogni inquadramento normativo che lo trascendano; esso è a se stesso norma assoluta e non è accessibile a nessuna critica e giustificazione razionale. In questo senso gli stati di cose e le relazioni politiche vengono ora definiti come i rapporti «che decidono» dell’esistenza nel senso più pregnante, E, all’interno dei rapporti politici, tutte le relazioni sono a loro volta orientate al verificarsi del «caso estremo»: alla decisione sullo «stato di eccezione», su guerra e pace. Il vero depositario del potere politico si definisce al di là di ogni legalità o legittimità: «sovrano è chi decide sullo stato di eccezione»; la sovranità si fonda sul potere effettivo di prendere questa decisione (decisionismo). La relazione politica per eccellenza è la «relazione di amico-nemico»; il suo caso estremo è a sua volta la guerra, che va fino all’eliminazione fisica del nemico. Non c’è nessuna relazione sociale che in caso estremo non si capovolga in una relazione politica: dietro a tutti i rapporti economici, sociali, religiosi, culturali c’è la politicizzazione totale. Non c’è nessuna sfera dell’esistenza privata o pubblica, nessuna istanza giuridica e razionale che si possa opporre a questa politicizzazione…

Herbert Marcuse, La lotta contro il liberalismo nella concezione totalitaria dello Stato (1934):

L’attivizzazione e la politicizzazione totale strappano ampi strati sociali alla neutralità che li paralizzava, e creano nuove forme di lotta politica e nuovi metodi di organizzazione politica su tutto un fronte che ha una larghezza e profondità finora sconosciute. Viene abolita la separazione di Stato e società, che il XIX secolo nel suo liberalismo aveva cercato di metter ein atto: lo Stato fa sua l’opera di integrazione politica della società. E in seguito all’esistenzializzazione e totalizzazione della politica, lo Stato diventa anche il portatore delle possibilità autentiche dell’esistenza stessa. Non è lo Stato che deve rispondere all’uomo, ma l’uomo che deve rispondere allo Stato: l’uomo è alla mercè dello Stato.

Herbert Marcuse, La lotta contro il liberalismo nella concezione totalitaria dello Stato (1934):

Kant era convinto che ci fossero dei diritti «inalienabili» degli uomini, a cui «l’uomo non può rinunziare, nemmeno se vuole». (…) Kant aveva legato l’uomo al dovere che questi dà a se stesso, alla libera autodeterminazione in quanto unica legge fondamentale; l’esistenzialismo sopprime questa legge fondamentale e vincola l’uomo «al Führer e al movimento che a questi si è votato in maniera incondizionata» (Heidegger). Altra era stata la fede di Hegel: «Ciò che nella vita è vero, grande e divino, lo è grazie all’idea… Tutto ciò che tiene insieme la vita umana, che ha un valore e come tale viene considerato, è di natura spirituale, e questo regno dello spirito esiste soltanto grazie alla coscienza della verità e del diritto e alla comprensione delle idee». Oggi l’esistenzialismo la sa più lunga: «Le regole del vostro essere non siano dottrine e “idee”. Il Führer in persona, ed egli soltanto, è la realtà tedesca odierna e futura e la sua legge» (Heidegger).

Herbert Marcuse, La lotta contro il liberalismo nella concezione totalitaria dello Stato (1934):

(…) L’esistenzialismo, che una volta si considerava l’erede dell’idealismo tedesco, ha rigettato la massima eredità spirituale della storia tedesca. Non con la morte di Hegel, ma soltanto adesso ha luogo la «caduta dei Titani» della filosofia classica tedesca. Allora le sue conquiste più importanti erano state salvate e accolte nella teoria scientifica della società, nella critica dell’economia politica. Incerto è oggi il destino del movimento operaio, in cui si era conservata l’eredità di questa filosofia.

Carl Schmitt, Il Nomos della Terra

I grandi atti primordiali del diritto restano (…) localizzazioni legate alla terra. Vale a dire: occupazioni di terra, fondazioni di città e fondazioni di colonie. (…) Un occupazione di terra istituisce diritto secondo una duplice direzione: verso l’interno e verso l’esterno. Verso l’interno, vale a dire internamente al gruppo occupante, viene creato con la prima divisione e ripartizione del suolo il primo ordinamento di tutti i rapporti di possesso e proprietà. (…) Verso l’esterno, il gruppo occupante si trova posto di fronte ad altri gruppi e potenze che occupano la terra e ne prendono possesso. Qui l’occupazione di terra rappresenta un titolo di diritto internazionale…

Carl Schmitt, Il Nomos della Terra

La guerra diventa ora una “guerra in forma”, une guerre en forme e ciò solo in conseguenza del fatto che essa diviene guerra tra Stati europei con superfici chiaramente delimitate, confronto tra unità spaziali rappresentate come personae publicae che sul comune suolo europeo formano la “famiglia” europea degli Stati e pertanto sono in grado di considerarsi reciprocamente come justi hostes.

Carl Schmitt, Il Nomos della Terra

La discriminazione del nemico quale criminale e la contemporanea implicazione della justa causa vanno di pari passo con il potenziamento dei mezzi di annientamento e con lo sradicamento spaziale del teatro di guerra: Il potenziamento dei mezzi tecnici di annientamento spalanca l’abisso di una discriminazione giuridica e morale altrettanto distruttiva. (…) Il bombardiere o l’aereo di attacco a volo radente usano le proprie armi contro la popolazione nemica verticalmente, come San Giorgio usava la sua lancia contro il drago. Nella misura in cui oggi la guerra viene trasformata in azione di polizia contro i turbatori della pace, criminali ed elementi nocivi, deve anche essere potenziata la giustificazione di questo police bombing. Si è così costretti a spingere la discriminazione dell’avversario in dimensioni abissali…

STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO

Docente Prof. Scuccimarra

Lezione n. 13 II SEMESTRE A.A. 2013-2014

Walter Benjamin, Sul concetto di storia

1. Si dice che ci fosse un automa costruito in modo tale da rispondere, ad ogni mossa di un giocatore di scacchi, con una contromossa che gli assicurava la vittoria. Un fantoccio in veste da turco, con una pipa in bocca, sedeva di fronte alla scacchiera, poggiata su un’ampia tavola. Un sistema di specchi suscitava l’illusione che questa tavola fosse trasparente da tutte le parti. In realtà c’era accoccolato un nano gobbo, che era un asso nel gioco degli scacchi e che guidava per mezzo di fili la mano del burattino. Qualcosa di simile a questo apparecchio si può immaginare della filosofia. Vincere deve sempre il fantoccio chiamato «materialismo storico». Esso può farcela senz’altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi, com’è noto, è piccola e brutta, e che non deve farsi scorgere da nessuno.

Walter Benjamin, Sul concetto di storia

2. «Una delle caratteristiche più notevoli dell’animo umano, - scrive Lotze, - è, fra tanto egoismo nei particolari, la generale mancanza di invidia del presente verso il principio futuro». La riflessione porta a concludere che l’idea di felicità che possiamo coltivare è tutta tinta del tempo a cui ci ha assegnato, una volta per tutte, il corso della nostra vita. Una gioia che potrebbe suscitare la nostra invidia, è solo nell’aria che abbiamo respirato, fra persone a cui avremmo potuto rivolgerci, con donne che avrebbero potuto farci dono di sé. Nell’idea di felicità, in altre parole, vibra indissolubilmente l’idea di redenzione. Lo stesso vale per la rappresentazione del passato, che è il compito della storia. Il passato reca con sé un indice temporale che lo rimanda alla redenzione. C’è un’intesa segreta fra le generazioni passate e la nostra. Noi siamo stati attesi sulla terra. A noi, come ad ogni generazione che ci ha preceduto, è stata data in dote una debole forza messianica, su cui il passato ha un diritto. Questa esigenza non si lascia soddisfare facilmente. Il materialista storico lo sa.

Walter Benjamin, Sul concetto di storia

6. Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo «come propriamente è stato». Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo. Per il materialismo storico si tratta di fissare l’immagine del passato come essa si presenta improvvisamente al soggetto storico nel momento del pericolo. Il pericolo sovrasta tanto il patrimonio della tradizione quanto coloro che lo ricevono. Esso è lo stesso per entrambi: di ridursi a strumento della classe dominante. In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla. Il Messia non viene solo come redentore, ma come vincitore dell’Anticristo. Solo quello storico ha il dono di accendere nel passato la favilla della speranza, che è penetrato dall’idea che anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere.

Walter Benjamin, Sul concetto di storia

8. La tradizione degli oppressi ci insegna che lo «stato di emergenza» in cui vivamo è la regola. Dobbiamo giungere a un concetto di storia che corrisponda a questo fatto. Avremo allora di fronte, come nostro compito, la creazione del vero stato di emergenza; e ciò migliorerà la nostra posizione nella lotta contro il fascismo. La sua fortuna consiste, non da ultimo, in ciò che i suoi avversari lo combattono in nome del progresso come di una legge storica. Lo stupore perché le cose che viviamo sono «ancora» possibile nel ventesimo secolo è tutt’altro che filosofico. Non è all’inizio di nessuna conoscenza, se non di quella che l’idea di storia da cui proviene non sta più in piedi.

Walter Benjamin, Sul concetto di storia

9. C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo progresso, è questa tempesta.

Paul Klee, Angelus Novus

Walter Benjamin, Sul concetto di storia

14. La storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è il tempo omogeneo e vuoto, ma quello pieno di «attualità» (Jetztzeit). Così, per Robespierre, la Roma antica era un passato carico di attualità, che egli faceva schizzare dalla continuità della storia. La Rivoluzione francese s’intendeva come una Roma ritornata. Essa richiamava l’antica Roma esattamente come la moda richiama in vita un costume d’altri tempi. LA moda ha il senso dell’attuale, dovunque esso viva nella selva del passato. Essa è un balzo di tigre nel passato. Ma questo balzo ha luogo in un’arena dove comanda la classe dominante. Lo stesso balzo, sotto il cielo libero della storia, è quello dialettico, come Marx ha inteso la rivoluzione.

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

L’illuminismo, nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata splende all’ insegna di trionfale sventura.

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

Il programma dell’illuminismo era di liberare il mondo dalla magia. Esso si proponeva di dissolvere i miti e di rovesciare l’immaginazione con la scienza. (…) D’ora in poi la materia dev’essere dominata al di fuori di ogni illusione di forze ad essa superiori o in essa immanenti, di qualità occulte. Ciò che non si piega al criterio del calcolo e dell’utilità, è, agli occhi dell’illuminismo, sospetto. E quando l’illuminismo può svilupparsi indisturbato da ogni oppressione esterna, non c’è più freno.

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

Alle sue stesse idee sui diritti degli uomini finisce per toccare la sorte dei vecchi universali. Ad ogni resistenza spirituale che esso incontra, la sua forza non fa che aumentare. Ciò deriva dal fatto che l’Illuminismo riconosce se stesso anche nei miti. Quali che siano i miti a cui ricorre la resistenza, per il solo fatto di diventare, in questo conflitto, argomenti. rendono omaggio al principio della razionalità analitica che essi rimproverano all’illuminismo. L’illuminismo è totalitario.

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

Gli uomini si distanziano col pensiero dalla natura per averla di fronte nella posizione in cui dominarla. Come la cosa, lo strumento materiale, che si mantiene identico in situazioni diverse, e separa così il mondo – caotico, multiforme e disparato – da ciò che è noto, uno ed identico, il concetto è lo strumento ideale, che si apprende a tutte le cose nel punto in cui si possono afferrare

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

Gli uomini pagano l’accrescimento del loro potere con l’estraneazione da ciò su cui lo esercitano. L’illuminismo si rapporta alle cose come il dittatore agli uomini: che conosce in quanto è in grado di manipolarli. Lo scienziato conosce le cose in quanto è in grado di farle. Così il loro in-sé diventa per-lui. Nella trasformazione l’essenza delle cose si rivela ogni volta come la stessa: come sostrato del dominio.

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

L’umanità ha dovuto sottoporsi a un trattamento spaventoso, perché nascesse e si consolidasse il Sé, il carattere identico, pratico, virile dell’uomo, e qualcosa di tutto ciò si ripete in ogni infanzia. Lo sforzo di tenere insieme l’io appartiene all’io in tutti i suoi stadi, e la tentazione di perderlo è sempre stata congiunta alla cieca decisione di conservarlo.

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

(…) La specie umana, comprese le sue macchine, i suoi prodotti chimici, le sue forze organizzative (…), è, in quest’epoca, le dernier cri dell’adattamento. Non solo gli uomini hanno superato i loro predecessori diretti, ma li hanno estirpati così radicalmente come di rado una specie più recente ha fatto con la specie anteriore, non eccettuati i sauri carnivori. Di fronte a ciò sembra quasi un capriccio voler costruire la storia universale, come ha fatto Hegel, in funzione di categorie come libertà e giustizia. Esse derivano, infatti, dagli individui marginali, da quelli che, considerati dal punto di vista del corso complessivo, non significano nulla, se non in quanto contribuiscono a introdurre condizioni sociali transitorie in cui si producono, in quantità particolarmente grandi, macchine e prodotti chimici per il rafforzamento della specie e la sottomissione delle altre.

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

Dal punto di vista di questa storia seria tutte le idee, i tabù, le religioni, le fedi politiche, interessano solo nella misura in cui, sorte da casi molteplici, aumentano o diminuiscono le possibilità naturali della specie umana sulla terra o nell’universo. La liberazione dei borghesi dall’ingiustizia del passato feudale e assolutistico è servita, attraverso il liberalismo, a scatenare la produzione meccanica, come l’emancipazione della donna finisce nel suo addestramento come arma speciale. Lo spirito, e tutto ciò che vi è di buono, è . nella sua origine e nella sua esistenza – irretito senza scampo in questo orrore. Il siero che il medico somministra al bambino malato , è dovuto all’aggressione a una creatura inerme.

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

(…) La funzione storica della cultura è tutta nel suo effetto di ritorno su questa organizzazione, che essa potenzia e sviluppa ulteriormente. Onde il pensiero autentico, che se ne libera, la ragione nella sua forma pura, assume tratti di follia, rilevati da sempre dagli autoctoni. (…) La parte svolta dalla ragione è quella di uno strumento di adattamento, e non di un sedativo della volontà, come potrebbe sembrare dall’uso che ne ha fatto a volte l’individuo. La sua astuzia consiste nel fare, degli uomini, belve di raggio sempre più vasto, e non nel produrre l’identità di soggetto e oggetto…

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

Pur avendo osservato da molti anni che nell’attività scientifica moderna le grandi invenzioni si pagano con una crescente decadenza della cultura teoretica, credevamo pur sempre di poter seguire la falsariga dell’organizzazione scientifica, nel senso che il nostro contributo si sarebbe limitato essenzialmente alla critica o alla continuazione di dottrine particolari. Esso avrebbe dovuto attenersi, almeno nell’ordinamento tematico, alle discipline tradizionali: sociologia, psicologia e gnoseologia. I frammenti raccolti in questo volume mostrano che abbiamo dovuto rinunciare a quella fiducia.

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

Se l’attento studio ed esame della tradizione scientifica (…) è un momento indispensabile della conoscenza, è entrata d’altra parte in crisi, nel presente sfacelo della civiltà borghese, non solo l’organizzazione, ma il senso stesso della scienza. Ciò che i fascisti di ferro ipocritamente lodano e i docili esperti di umanità ingenuamente eseguono, l’autodistruzione incessante dell’illuminismo, costringe il pensiero a vietarsi fin l’ultimo candore verso le consuetudini e le tendenze dello spirito del tempo. Se la vita pubblica ha raggiunto uno stadio dove il pensiero si trasforma inevitabilmente in merce e la lingua in imbonimento della medesima, il tentativo di mettere a nudo questa depravazione deve rifiutare obbedienza alle esigenze linguistiche e teoretiche attuali, prima che le loro conseguenze storiche universali lo rendano del tutto impossibile

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

(…) In contrasto con i suoi amministratori, la filosofia rappresenta – fra le altre cose – il pensiero che non capitola di fronte alla vigente divisione del lavoro e non si lascia prescrivere da essa i propri compiti. L’esistente non costringe gli uomini solo con la violenza fisica e gli interessi materiali, ma anche con la strapotenza della suggestione. La filosofia non è sintesi, base o coronamento della scienza, ma lo sforzo di resistere alla suggestione, la decisione della libertà intellettuale e reale.

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

(…) In contrasto con i suoi amministratori, la filosofia rappresenta – fra le altre cose – il pensiero che non capitola di fronte alla vigente divisione del lavoro e non si lascia prescrivere da essa i propri compiti. L’esistente non costringe gli uomini solo con la violenza fisica e gli interessi materiali, ma anche con la strapotenza della suggestione. La filosofia non è sintesi, base o coronamento della scienza, ma lo sforzo di resistere alla suggestione, la decisione della libertà intellettuale e reale.

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

La divisione del lavoro, come si è formata sotto il dominio, non viene per questo ignorata. La filosofia non fa che penetrare la menzogna per cui sarebbe inevitabile. Non lasciandosi ipnotizzare dalla strapotenza, le tiene dietro in tutti gli angoli del meccanismo sociale, che – per prima cosa – non deve essere rovesciato né diretto ad altri fini, ma compreso al di fuori dell’incantesimo che esercita. [La filosofia] non riconosce norme o fini astratti, che si presterebbero ad applicazione in contrasto coi fini e con le norme vigenti. La sua libertà dalla suggestione dell’esistente consiste proprio in ciò che essa accetta – senza starci troppo a pensare – gli ideali borghesi: quelli che sono ancora proclamati – e sia pure in forma alterata – dagli esponenti dell’attuale stato di cose, o quelli che sono ancora riconoscibili come significato oggettivo delle istituzioni, tecniche e culturali, a dispetto di ogni manipolazione.

Horkheimer e Adorno, Dialettica dell’Illuminismo

Essa crede che la divisione del lavoro esiste per gli uomini e che il progresso conduce alla libertà: e proprio per questo entra facilmente in conflitto con la divisione del lavoro e col progresso. Essa presta una voce alla contraddizione di credenza e realtà e si attiene così strettamente al fenomeno temporalmente condizionato. Per essa il massacro su scala colossale non conta, come per il giornale, più della liquidazione di alcuni ricoverati. Essa non antepone l’intrigo dell’uomo politico che si mette d’accordo coi fascisti a un modesto linciaggio, i turbini di réclame dell’industria cinematografica all’intimo annuncio di un cimitero. Non ha nessuna particolare inclinazione per ciò che è «grande». Essa è ad un tempo estranea all’esistente e capace di comprenderlo intimamente. La sua voce appartiene all’oggetto, ma senza che questo lo voglia; è la voce della contraddizione, che, senza di essa, non si farebbe udire, ma trionferebbe muta.

Theodor W. Adorno

La filosofia che una volta sembrò superata, si mantiene in vita perché è stato mancato il momento della sua realizzazione.

STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO

Docente Prof. Scuccimarra

Lezione n. 14 II SEMESTRE A.A. 2013-2014

J. Habermas, Sul concetto di partecipazione politica (1958)

L’analisi si attiene alle regole della teoria critica che è libera proprio perché «accetta gli ideali borghesi, siano essi quelli ancora coltivati (seppure in senso distorto) dai rappresentanti della borghesia, o quelli in cui occorre riconoscere, a dispetto di ogni manipolazione, il significato oggettivo delle istituzioni tecniche e culturali.. Essa espone la lingua alla contraddizione tra fede e realtà e ciò facendo riflette un fenomeno del tempo».

J. Habermas, Sul concetto di partecipazione politica (1958)

La fede nella libertà politica e nell’influenza politica del cittadino viene contrapposta alla realtà della situazione attuale. Non si può avere più alcun dubbio sulla ristrettezza dello spazio in cui è stata confinata la partecipazione politica del cittadino medio. Questa partecipazione può concretizzarsi, una volta ogni due anni circa, nel processo elettorale in parte preformato in parte manipolato (oppure nella astensione elettorale). Nei libri destinati all’educazione politica e persino in molti dibattiti delle scienze politiche la «partecipazione» si condensa in un valore in sé, mentre l’espressione del voto e l’interesse politico diventano un feticcio. Questa reificazione rispecchia appunto una buona parte della realtà deformata.

J. Habermas, Sul concetto di partecipazione politica (1958)

D’altro lato, il senso obiettivo delle istituzioni esistenti nel nostro paese è in contraddizione con lo sviluppo concreto. Sul piano giuridico il popolo è ancora e sempre sovrano mentre su quello politico continua a disporre, nel parlamento, di una istituzione fornita di tutti gli auspicabili crismi costituzionali. Ci si può chiedere dunque se anche oggi un’autentica partecipazione dei cittadini alla vita politica, seppure non effettiva, non sia per lo meno possibile…

J. Habermas, Sul concetto di partecipazione politica (1958)

Occorre (…) stabilire fino a che punto una società riesca a trasformare il dominio in autorità razionale e cioè a dare equamente al lavoro ciò che spetta al lavoro e all’esperienza ciò che spetta all’esperienza, nell’interesse della collettività e sotto il suo controllo; e inoltre, fino a che punto essa riesca a superare la separazione fra il potere politico e la riproduzione apparentemente privata della vita. A parte il suo carattere molto (e forse troppo) generale questa formulazione indica la via di un possibile sviluppo storico sul quale noi crediamo oggi di poter fondatamente misurare il valore della coscienza politica…

Hannah Arendt, The Human Condition

Lavoro

Opera

Azione e discorso

Hannah Arendt, The Human Condition

Lo spazio pubblico o spazio dell’apparenza «si

forma ovunque gli uomini condividano le modalità dell’azione e del discorso, e quindi

anticipa e precede ogni costituzione formale della sfera pubblica e delle varie forme di governo, le

varie forme cioè in cui la sfera pubblica può essere organizzata».

Hannah Arendt, The Human Condition

…Una vita spesa nell’esperienza

privata, di “ciò che è proprio” (idion), fuori dal mondo comune, è idiota per

definizione

Hannah Arendt, The Human Condition

La peculiarità dello spazio pubblico è che diversamente dagli spazi che sono opera delle nostre mani, non sopravvive alla realtà del movimento che lo crea, ma scompare non solo con la scomparsa degli uomini – come nelle grandi catastrofi, quando il corpo politico di un popolo viene distrutto – ma con la scomparsa e la fine delle loro stesse azioni.

Hannah Arendt, The Human Condition

«Il potere è ciò che mantiene in vita la sfera pubblica, lo spazio potenziale dell’apparire tra uomini che agiscono e parlano»

J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica (1961)

I fondamenti strutturali della «sfera pubblica borghese»:

1) sistematica astrazione dalle disuguaglianze di

status 2) assenza di limiti al processo di

problematizzazione riflessiva 3) assoluta apertura verso l’esterno

J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica (1961)

La «sfera pubblica borghese» come luogo di

una libera discussione razionale fondata sulla sola autorità dell’argomento migliore, una determinazione cooperativa del bene comune, non distorta da alcun interesse di parte

J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica (1961)

La sfera pubblica borghese può essere concepita in un primo momento come la sfera dei privati riuniti come pubblico; costoro rivendicano subito contro lo stesso potere pubblico la regolamentazione della sfera pubblica da parte dell’autorità, per concordare con questa le regole generali del commercio nella sfera – privatizzata in linea di principio, ma pubblicamente rilevante – dello scambio di merci e del lavoro sociale. Peculiare e storicamente senza precedenti è il tramite di questo confronto politico: la pubblica argomentazione razionale

J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica (1961)

(…) I borghesi sono privati; come tali non «dominano». Le loro rivendicazioni contro il pubblico potere si indirizzano perciò non contro la concentrazione del dominio che dovrebbe essere «spartito»; ma piuttosto attaccano il principio del dominio vigente. Il principi del controllo contrappostogli dal pubblico borghese, la pubblicità appunto, mira a modificare il dominio stesso. La rivendicazione di potere così come si viene delineando nell’argomentare pubblico, quella rivendicazione che eo ipso rinunci alla forma di una pretesa di dominio, se si realizzasse dovrebbe portare a qualcosa di più che a una mera sostituzione della base di legittimazione di una sovranità conservatesi in linea di principio

J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica (1961)

(…) Il processo con cui il pubblico di privati che discutono una funzione critica si appropria della sfera pubblica autoritariamente regolata e con cui questa viene istituita come momento della critica al pubblico potere, si compie con la ristrutturazione delle funzioni di quella sfera pubblica letteraria già dotata di istituzioni quali il pubblico e le relative piattaforme di discussione. Tramite questa mediazione, tutto il contesto delle esperienze dell’ambito privato riferito al pubblico penetra anche nell’ambito di una sfera pubblica politica.

J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica (1961)

(…) Con la nascita di una sfera del sociale, per la cui regolamentazione l’opinione pubblica si batte contro il potere pubblico, il tema dell’ambito pubblico moderno, paragonato a quello antico, si sposta dai compiti propriamente politici di una cittadinanza che agisce com’unitariamente (giurisdizione all’interno e autodeterminazione verso l’esterno) ai compiti prevalentemente civili di una società che discute pubblicamente (garanzia dello scambio di merci). La funzione politica dell’elemento pubblico borghese consiste nel disciplinare la società civile (civil society, société civile, in contrapposizione a res publica); con le esperienze di una sfera privata intimizzata alle spalle, essa tiene fronte all’autorità monarchica stabilita; in questo senso, sin dall’inizio, essa ha carattere insieme privato e polemico.

J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica (1961)

(…) I criteri di universalità e astrattezza che contrassegnano la norma giuridica dovevano avere peculiare evidenza per i privati che, nel processo di comunicazione della dimensione pubblica letteraria, si accertano della loro soggettività, derivata dalla sfera dell’intimità. Infatti, in quanto pubblico, essi sono già sottoposti a quella legge non formulata che codifica la parità degli uomini colti, legge la cui astratta universalità è sola a garantire che gli individui sussulti in modo parimenti astratto sotto di essa come «puri e semplici uomini» vengano liberati nella loro soggettività proprio per tale via. I clichè di «eguaglianza» e «libertà», irrigiditi nelle formule della propaganda borghese rivoluzionaria, conservano qui ancora il loro nesso vivente: il dibattito pubblico del pubblico borghese si compie, in linea di massima, prescindendo da tutti i ranghi sociali e politici precostituiti, secondo regole universali che garantiscono un campo d’azione al dispiegamento letterario nella loro intimità, dal momento che restano, in quanto tali, assolutamente esteriori agli individui;

J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica (1961)

(…) Contemporaneamente, ciò che in tali condizioni risulta dal pubblico dibattito, richiede raziocinio; secondo tale idea, un’opinione pubblica nata dalla forza dell’argomento migliore aspira a quella razionalità moralisticamente pretenziosa che cerca di far coincidere giustezza e giustizia. L’opinione pubblica deve corrispondere alla «natura della cosa». Perciò le «leggi» che essa vorrebbe stabilire ora anche per la sfera sociale, possono pretendere, oltre ai criteri formali di generalità e astrattezza, anche quello materiale della razionalità. In questo senso i fisiocratici spiegano che soltanto l’opinion publique conosce e rileva l’ordre naturel perché il monarca illuminato lo possa porre a base del suo agire nella forma di norme generali. Il potere deve essere portato per questa via a una convergenza con la ragione.

J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica (1961)

Come privato il borghese è due cose in una: proprietario di beni e persone, e uomo fra gli uomini: bourgeois e homme. Questa ambivalenza della sfera privata è anche l’ambivalenza della sfera pubblica, a seconda cioè che i privati si intendano tra loro nel dibattito letterario e cioè da uomini che discutono sulle esperienze della loro soggettività, o che si intendano fra loro nel dibattito politico, su come regolare la loro sfera privata, cioè da proprietari. I componenti di queste due specie di pubblico non sempre coincidono perfettamente (…).

J. Habermas, Storia e critica dell’opinione pubblica (1961)

La pubblicità manipolativa: «La dimensione pubblica viene, per così dire, dispiegata dall’alto per procurare a certe posizioni un’aura di good will. Originariamente essa garantiva il nesso del pubblico dibattito delle idee tanto con la fondazione legislativa del dominio quanto con il controllo critico del suo esercizio. Ma ormai essa rende possibile la specifica ambivalenza di un dominio esercitato sul potere dell’opinione non-pubblica: essa serve alla manipolazione del pubblico e insieme alla legittimazione di fronte ad esso. La dimensione pubblica critica è soppiantata da quella manipolativa».

J. Habermas, Conoscenza e interesse (1965)

Una scienza sociale critica si sforza «di controllare quando le proposizioni teoriche formulino regolarità invarianti dell’agire sociale in generale e quando invece rapporti di dipendenza ideologicamente irrigiditi, ma in principio modificabili. Nella misura in cui ciò accade, la critica dell’ideologia, come del resto la psicanalisi, conta sul fatto che l’informazione sulle connessioni normative mettano in moto un processo di riflessione nella coscienza dell’interessato stesso. In tal modo il livello di coscienza irriflessa, che fa pare delle condizioni iniziali di tale leggi, può essere modificato. Un sapere nomologico criticamente mediato può così tramite la riflessione se non togliere vigore alla legge, almeno sospenderne l’applicazione».

J. Habermas, Conoscenza e interesse (1965)

…Ciò che ci distingue dalla natura è l’unico dato di fatto che possiamo conoscere per sua natura: il linguaggio. L’emancipazione è posta per noi già con la sua struttura. Con la prima proposizione viene espressa inequivocabilmente l’intenzione di un consenso universale e non imposto.

J. Habermas, Conoscenza e interesse (1965)

Certamente la comunicazione potrebbe dispiegarsi soltanto in una società emancipata, che avesse realizzato la maturità dei suoi membri fino a diventare il dialogo sottratto al dominio di tutti con tutti, dal quale deriviamo pur sempre tanto il modello di un’identità dell’io formata nella reciprocità, quanto l’idea del vero accordo. In questo senso la verità di una proposizione si fonda sull’anticipazione della vita riuscita. L’apparenza ontologica di una teoria pura, dietro cui scompaiono gli interessi guida della conoscenza, rafforza la finzione che il dialogo socratico sia possibile universalmente e in ogni momento…

J. Habermas, Conoscenza e interesse (1965)

La filosofia ha supposto che l’emancipazione posta con la struttura del linguaggio sia non solo anticipata, ma già reale. Proprio la teoria pura, che vorrebbe derivare tutto da se stessa, diventa preda dell’esterno rimosso e diventa ideologica. Solo quando la filosofia scopre nel corso dialettico della storia le tracce della violenza, che deforma il dialogo continuamente tentato, continuamente spingendolo fuori dai binari di una comunicazione senza coazione, porta avanti il processo, di cui altrimenti legittima la stasi: il progresso del genere umano verso l’emancipazione. (…) L’unità di conoscenza e interesse si verifica in una dialettica che ricostruisca l’elemento represso a partire dalle tracce storiche del dialogo represso.

J. Habermas, Tecnica e scienza come ideologia (1967)

Con «lavoro» o agire razionale rispetto allo scopo, intendo o agire strumentale o scelta razionale oppure una combinazione di entrambi. L’agire strumentale è organizzato secondo regole tecniche, che si basano su un sapere empirico. Esse implicano in ogni caso prognosi condizionali su eventi osservabili, fisici o sociali; tali prognosi possono rivelarsi esatte o non vere.

J. Habermas, Tecnica e scienza come ideologia (1967)

Con agire comunicativo intendo una interazione mediata simbolicamente. Essa è organizzata in base a norme vigenti in modo vincolante, che definiscono aspettative reciproche di comportamento e che devono essere comprese e riconosciute da almeno due soggetti agenti. Le norme sociali sono rese effettive tramite sanzioni; il loro senso si oggettiva in una comunicazione nel linguaggio quotidiano. Mentre la validità di regole tecniche e strategie dipende dalla validità di proposizioni empiricamente vere o analiticamente esatte, la validità di norme sociali è basata solo sull’intersoggettività dell’intendersi in base a intenzioni ed è garantita dal riconoscimento generale di obbligazioni

J. Habermas, Teoria dell’agire comunicativo (1985)

La teoria dell’agire comunicativo è intesa a mettere in luce un potenziale razionale insito nella stessa prassi comunicativa quotidiana. Con ciò essa spiana contemporaneamente la strada a una scienza sociale dal procedere ricostruttivo, che identifica in tutta la loro estensione i processi di razionalizzazione culturale e sociale, ripercorrendoli anche oltre la soglia della società moderne; allora non si avrà più bisogno di ricercare potenziali normativi solo in una formazione specifica di un’epoca. L’obbligo di stilizzare le singole espressioni prototipiche di una razionalità comunicativa incarnata nelle istituzioni viene a cadere in favore di un intervento empirico, che allenta la tensione del contrasto astratto tra norma e realtà.

STORIA DEL PENSIERO POLITICO CONTEMPORANEO

Docente Prof. Scuccimarra

Lezione n. 15 II SEMESTRE A.A. 2013-2014

Michel Foucault, L’archeologia del sapere

Potrei definire la mia ricerca come «un’analisi di fatti culturali che caratterizzano la nostra cultura e, in tal senso, si tratterebbe di qualcosa come una etnologia della cultura a cui apparteniamo. Infatti, cerco di situarmi all’esterno della cultura a cui apparteniamo, di analizzarne le condizioni formali, per farne, in una certa misura, la critica, non però nel senso di ridurne i valori, ma per vedere come si sia potuta effettivamente svolgere. Inoltre, analizzando le condizioni stesse della nostra razionalità, metto in causa il nostro linguaggio, il mio linguaggio, di cui analizzo come sia potuto sorgere».

Michel Foucault, L’archeologia del sapere

Questa prospettiva si trova davanti «tutto un campo d’indagine. Un campo sterminato, ma definibile: è costituito infatti dall’insieme di tutti gli enunciati effettivi (sia parlati che scritti), nella loro dispersione di avvenimenti e nell’istanza propria a ciascuno di loro. Prima di occuparsi, con piena certezza, di una scienza, o di romanzi, o di discorsi politici, o dell’opera di un autore oppure di un libro, il materiale che si deve trattare nella sua originaria neutralità è costituito da tutta una folla di avvenimenti nello spazio del discorso in generale. Si delinea in tal modo il progetto di una descrizione pura degli avvenimenti discorsivi come orizzonte per la ricerca delle unità che vi si formano».

Michel Foucault, L’archeologia del sapere

Compito dell’analisi dei discorsi è quello di considerare questi ultimi come «delle pratiche che formano sistematicamente gli oggetti di cui parlano. Indubbiamente i discorsi sono fatti di segni, ma fanno molto di più che utilizzare questio segni per designare delle cose. E’ questo di più che li rende irriducibili alla langue e alla parole. E’ questo di più che bisogna mettere in risalto e bisogno descrivere…» (p. 67).

Michel Foucault, L’archeologia del sapere

Il «discorso» può essere definito: insieme degli enunciati che appartengono a uno stesso sistema di formazione; in questo modo potrò parlar di discorso clinico, di discorso economico, di discorso della storia naturale, di discorso psichiatrico… Le «regole» del discorso «definiscono» «il regime degli oggetti»

Michel Foucault, L’archeologia del sapere

L’archeologia, mostra che le le regole di formazione di un discorso «si

collocano non nella “mentalità” e nella coscienza degli individui, ma nel discorso stesso,

conseguentemente, e secondo una specie di anonimato uniforme, si impongono a tutti gli individui che incominciano a parlare in quel

campo discorsivo» (p. 83).

Michel Foucault, L’ordine del discorso

Il soggetto è una figura del discorso

Michel Foucault, La volontà di sapere

La genealogia del potere: Con il termine potere mi sembra che si debba intendere innanzitutto la molteplicità dei rapporti di forza immanenti al campo in cui si esercitano e costitutivi della loro organizzazione; il gioco che attraverso lotte e sconti incessanti li trasforma, li rafforza, li inverte; gli appoggi che questi rapporti di forza trovano gli uni negli altri, in modo da formare una catena o un sistema, o, al contrario, le differenze, le contraddizioni che li isolano gli uni dagli altri.

Michel Foucault, La volontà di sapere

La genealogia del potere: In ogni punto del corpo sociale, tra un uomo e una donna, nella famiglia, tra maestro ed allievo, tra colui che sa e colui che non sa, passano delle relazioni di potere che non sono la proiezione pura e semplice del grande potere sovrano sopra gli individui; esse sono piuttosto il terreno mobile e concreto su cui quello si ancora, le condizioni necessarie affinché possa funzionare.

Michel Foucault, La volontà di sapere

Il potere è ovunque «non perché avrebbe il privilegio di raggruppare tutto sotto la sua

invincibile unità, ma perché si produce in ogni istante, in ogni punto o piuttosto in ogni relazione fra un punto ed un altro. Il potere è dappertutto;

non perché inglobi tutto ma perché viene da ogni dove».

Michel Foucault, La volontà di sapere

Non voglio dire che lo Stato non sia importante; quel che voglio dire è che i rapporti di potere e di conseguenza l’analisi che se ne deve fare deve andare al di là del quadro dello Stato. Deve farlo in due sensi:

innanzitutto perché lo Stato, anche colla sua onnipotenza, anche con i suoi apparati, è ben lungi dal ricoprire tutto il campo reale dei rapporti

di potere; e poi perché lo Stato non può funzionare che sulla base di relazioni di potere preesistenti. Lo Stato è sovrastrutturale in rapporto a

tutta una serie di reti di potere che passano attraverso i corpi, la sessualità, la famiglia, gli atteggiamenti, i saperi, le tecniche, ecc. (…) Questo metapotere con funzioni di interdizione non può realmente aver

presa e non può reggersi che nella misura in cui si radica in tutta una serie di rapporti di potere che sono molteplici, indefiniti, e che sono la

base necessaria di queste grandi forme di potere negativo.

Michel Foucault, Sorvegliare e punire

La microfisica del potere:

L’ambito argomentativo dell’analisi del potere è costituito allora dalle relazioni d’azione che «non sono univoche, ma definiscono

innumerevoli punti di scontro, focolai di instabilità di cui ciascuno comporta rischi di conflitto, di lotte e di inversioni, almeno transitorie,

dei rapporti di forza. Il rovesciamento di questi “micropoteri” non obbedisce dunque alla legge del tutto o niente, né è conseguito una volta

per tutte da un nuovo controllo degli apparati o sa un nuovo funzionamento o da una distruzione delle istituzioni; in cambio, nessuno dei suoi episodi localizzati può inscriversi nella storia, se non attraverso

gli effetti che induce su tutta le rete in cui è preso».

Michel Foucault, La volontà di sapere

L’Occidente ha conosciuto a partire dall’età classica una trasformazione molto profonda di questi meccanismi di potere. Il «prelievo» tende a non esserne più la forma principale, ma solo un elemento fra gli altri che hanno

funzioni di incitazione, di rafforzamento, di controllo, di sorveglianza, di maggiorazione e di organizzazione delle forze che sottomette; un potere destinato a produrre delle

forze, a farle crescere e ad ordinarle piuttosto che a bloccarle, a piegarle o a distruggerle

Michel Foucault, La volontà di sapere

Concretamente, questo potere sulla vita si è sviluppato in due forme principali a partire dal XVII secolo; esse non sono

antitetiche, costituiscono piuttosto due poli di sviluppo legati da tutto un fascio intermedio di relazioni. Uno dei poli, il primo

sembra ad essersi formato, è stato centrato sul corpo in quanto macchina: il suo dressage, il potenziamento delle sue attitudini,

l’estorsione delle sue forze, la crescita parallela della sua utilità e della sua docilità, la sua integrazione a sistemi di controllo efficaci ed economici, tutto ciò è stato assicurato da meccanismi di potere

che caratterizzano le discipline: anatomo-politica del corpo umano.

Michel Foucault, La volontà di sapere

Il secondo, che si è formato un po’ più tardi, verso la metà del XVIII secolo, è centrato sul corpo-specie, sul corpo attraversato dalla meccanica del vivente e che

serve da supporto ai processi biologici: la proliferazione, la nascita e la mortalità, il livello di salute, la durata di vita, la longevità con tutte le condizioni che possono

farla variare; la loro assunzione si opera attraverso tutta una serie di interventi e di controlli regolatori: una bio-

politica della popolazione.

Michel Foucault, La volontà di sapere

«Non c’è (…), rispetto al potere, un luogo del grande Rifiuto (…) ma esistono resistenze, e di svariati tipi: possibili, necessarie, improbabili,

spontanee, selvagge, solitarie, concertate, striscianti, violente, irriducibili, pronte al compromesso, interessate o sacrificali; per definizione non possono esistere che nel campo strategico delle

relazioni di potere. (…) Come la trama delle relazioni di potere finisce per formare uno spesso tessuto che attraversa gli apparati e le istituzioni

senza localizzarsi esattamente in essi, così la dispersione dei punti di resistenza attraversa le stratificazioni sociali e le unità individuali. Ed è probabilmente la codificazione strategica di quei punti di resistenza che

rende possibile una rivoluzione, un po’ come lo Stato riposa sull’integrazione istituzionale dei rapporti di potere».

Michel Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione (1977-78)

« Con la parola «governamentalità» intendo tre cose: primo, l’insieme di istituzioni, procedure, analisi e riflessioni, calcoli e tattiche che permettono

di esercitare questa forma specifica e assai complessa di potere, che ha nella popolazione il bersaglio principale, nell’economia politica la forma privilegiata di sapere, e nei dispositivi di sicurezza lo strumento tecnico

essenziale. Secondo, (…) la tendenza, la linea di forza che, in tutto l’Occidente e da lungo tempo, continua ad affermare la preminenza di

questo tipo di potere che chiamiamo governo su tutti gli altri – sovranità, disciplina –, col conseguente sviluppo, da un lato di una serie di apparati specifici di governo, e di una serie di saperi. Infine, per governamentalità bisognerebbe intendere il processo, o piuttosto il risultato del processo,

mediante il quale lo stato di giustizia nel Medioevo, divenuto stato amministrativo nel corso del XV e XVI secolo, si è trovato gradualmente

governamentalizzato.”».