STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE Prof. Scuccimarra
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Voltaire, Il secolo di Luigi XIV
Si è visto che una repubblica letteraria si era insensibilmente stabilita in Europa,
nonostante le guerre, e le diversità di religione. Tutte le scienze, tutte le arti
hanno così goduto di scambievoli aiuti; le accademie han creato tale repubblica.
La letteratura ha unito l’Italia colla Russia; gl’inglesi, i tedeschi, i francesi
andavano a studiare a Leida. Il celebre medico Bourhave veniva consultato a un
tempo e dal papa e dallo zar. I suoi migliori allievi attiravano allo stesso modo
gli stranieri, e son diventati in certa guisa i medici delle nazioni: i veri
scienziati, in ogni ramo del sapere, hanno stretto i legami di quella grande
società degli spiriti, dappertutto diffusa, e dappertutto indipendente. Tale
carteggio dura ancora, ed è una delle consolazioni dei mali che l’ambizione e la
politica procurano all’umanità
Voltaire, Dizionario filosofico
Il teista è un uomo fermamente convinto dell’esistenza di un Essere supremo
altrettanto buono che potente, che ha formato tutti gli esseri estesi, vegetanti,
senzienti e pensanti; che ne perpetua la specie, ne punisce senza crudeltà le colpe e
ne ricompensa con bontà le azioni virtuose. (…) Il teista non segue alcuna setta,
consapevole che tutte si contraddicono. La sua religione è la più antica e la più
diffusa di tutte, perché la semplice adorazione d’un Dio precedette tutti i sistemi del
mondo. Egli parla una lingua che tutti i popoli capiscono, mentre essi non
s’intendono affatto tra loro. Ha fratelli da Pechino sino alla Caienna e considera
come suoi fratelli tutti gli uomini saggi. Stima che la religione non consista né nelle
opinioni d’una metafisica inintelligibile né in vani apparati, ma nell’adorazione e
nella giustizia. Fare il bene, ecco il suo culto; esser sottomesso a Dio, ecco la sua
dottrina. Il musulmano gli grida: «Guai a te se non farai il pellegrinaggio alla
Mecca!»; e il recolletto lo ammonisce: «Sventura a te se non ti rechi alla Madonna di
Loreto!». Egli ride della Mecca e di Loreto; ma soccorre il misero e difende
l’oppresso.
Encyclopédie, Voce Humanité
L’umanità è un sentimento di benevolenza
per tutti gli uomini che si accende solo in
anime grandi e sensibili. Questo nobile e
sublime entusiasmo soffre per le pene degli
altri e per il bisogno di alleviarle; vorrebbe
percorrere l’universo per abolire la
schiavitù, la superstizione, il vizio e
l’infelicità
P.T. d’Holbach, Systeme social ou principes naturels
de la morale et de la politique
L’umanità, questa virtù distintiva dell’uomo così sovente calpestata da esseri che si
dicono ragionevoli, è una branca dell’equità. Essere umano significa essere disposti a
rendere giustizia, a prestare soccorso, a fare del bene indistintamente a tutti gli individui
della specie di cui facciamo parte. Questa disposizione così lodevole è fondata sulla
ragione, l’esperienza, la riflessione che ci dimostrano che, come uomini, come esseri
sensibili e deboli che hanno bisogno ad ogni istante di soccorso, dobbiamo prestare il
nostro a tutti quelli che ne hanno bisogno, se vogliamo essere in diritto di esigere quello
dei nostri simili. È sufficiente essere uomini, per avere dei diritti sull’uomo. L’umanità è
un nodo fatto per legare invisibilmente il cittadino di Parigi a quello di Pechino. È un
patto che impegna egualmente tutti i membri della grande famiglia, di cui i differenti
popoli del mondo non sono che gli individui sparsi. Questo patto è la salvaguardia della
nostra razza; esso mette ciascuno di noi in diritto di reclamare la giustizia, la pietà, i
benefici di ogni essere sensibile, di qualunque paese, di qualunque religione, di
qualunque condizione egli sia. La guerra, la crudeltà, le conquiste, l’intolleranza, la
durezza sono cose contrarie all’umanità.
C. S. de Montesquieu, Pensieri
Se io sapessi d’una cosa utile alla mia
nazione che fosse dannosa ad un’altra
non la proporrei al mio principe, perché
io sono uomo prima d’essere Francese,
o, meglio, perché sono necessariamente
uomo, e Francese solo per caso…
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Ho dapprima studiato gli uomini e sono giunto alla
convinzione che, in quell’infinita diversità di leggi e di
costumi, essi non siano guidati esclusivamente dalle loro
fantasie. Ho posto dei principi e ho veduto i casi
particolari conformarvisi quasi spontaneamente e li ho
veduti operanti nelle storie di tutte le nazioni; ho
compreso infine come ogni legge particolare sia legata a
un’altra o dipendente da una legge più generale
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Parecchie cose governano gli uomini: il clima, la
religione, le leggi, le massime del governo, gli
esempi delle cose passate, i costumi e le maniere.
Da tutto questo risulta uno spirito generale. A
seconda che in ogni paese una di queste cause
agisce con maggior forza, le altre fanno sentire in
proporzione una forza minore…
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
La legge in generale è la ragione umana, in quanto
governa tutti i popoli della terra e le leggi politiche e
civili di ogni nazione non debbono essere che i casi
particolari in cui questa ragione umana viene applicata.
Esse debbono essere talmente adatte al popolo per cui
sono state fatte, che solo eccezionalmente le leggi di una
nazione possono convenire a un’altra; e debbono
conformarsi alla natura e al principio del governo
stabilite o che si deve stabilire…
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Esse debbono essere corrispondenti alla natura fisica
del paese; al clima gelido, torrido o temperato; alla
qualità del terreno, alla sua situazione ed estensione;
al genere di vita dei popoli, agricoli, cacciatori o
pastori, debbono esser conformi al grado di libertà
che la costituzione concede; alla religione degli
abitanti, alle loro inclinazioni, alle loro ricchezze, al
loro numero, al loro commercio, ai loro costumi, ai
loro modi di vita.
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Infine, esse hanno rapporti reciproci; ne hanno
con la loro origine, con il fine del legislatore, con
l’ordine di cose su cui si fondano. Bisogna
dunque considerarle sotto tutti questi punti di
vista. Tale è lo scopo che perseguo in questa mia
opera. Esaminerò tutti questi rapporti: essi
costituiscono nel loro insieme ciò che viene
chiamato lo spirito delle leggi.
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
La teoria delle forme di governo:
Repubblica
Democrazia Aristocrazia
Monarchia
Dispotismo
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Il governo repubblicano è quello in cui tutto il
popolo, o soltanto una parte di esso, detiene il
potere sovrano; il monarchico, quello in cui
governa uno solo, ma per mezzo di leggi fisse
e stabilite; mentre nel dispotico uno solo,
senza legge e senza regola, trascina tutto con
la sua volontà e i suoi capricci. Ecco quello
che io chiamo la natura di ogni governo…
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Fra la natura del governo e il suo
principio c’è questa differenza, che la sua
natura è ciò che lo fa essere quello che è,
e il suo principio ciò che lo fa agire. L’una
è la sua struttura particolare, e l’altro le
passioni umane che lo fanno muovere.
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Forma di governo Principio
Democrazia Virtù
Aristocrazia Moderazione
Monarchia Onore
Dispotismo Paura
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Non ci vuole molta probità perché un governo monarchico
o un governo dispotico si mantenga o si sostenga. La forza
delle leggi nell’uno, il braccio del principe sempre alzato
nell’altro, regolano e tengono a freno tutto. Ma in uno stato
popolare ci vuole una molla in più che è la VIRTU’.
(…) Gli uomini politici greci ,che vivevano in un governo
popolare, non riconoscevano altra forza che potesse
sostenerli, se non quella della Virtù. Quelli di oggi non ci
parlano che di manifatture, di commercio, di finanze, di
ricchezze e perfino di lusso.
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Quando tale virtù cessa, l’ambizione entra nei cuori che
possono riceverla, e in tutti entra l’avarizia. I desideri
cambiano oggetto; quello che si amava, non lo si ama
più; si era liberi con le leggi, si vuol essere liberi contro
di esse; ogni cittadino è come uno schiavo fuggito dalla
casa del padrone. (…) Un tempo i beni dei privati
formavano il tesoro pubblico; ma ora il tesoro pubblico
diventa il patrimonio dei privati. La repubblica è un
guscio vuoto; e la sua forza non è più che il potere di
alcuni cittadini e la licenza di tutti…
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Il governo aristocratico ha di per sé una certa forza che
la democrazia non ha. I nobili vi formano un corpo che,
per la sua prerogativa e il suo interesse privato, esprime
il popolo: basta che vi siano delle leggi, perché vengano
messe in esecuzione a tale scopo.
Ma per quanto questo corpo è altrettanto facile reprimere
gli altri, quanto è difficile reprimere se stesso. La natura
di questa costituzione è tale, che sembra mettere le stesse
persone sotto la potestà della legge , e insieme sottrarle
ad essa.
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Ora un corpo siffatto può reprimere se stesso in due
modi soltanto: mediante una grande virtù, che faccia
sì che i nobili si trovino in qualche modo uguali al
popolo, il che può formare una grande repubblica; o
mediante una virtù minore, cioè una certa
moderazione, che rende i nobili perlomeno uguali a
se stessi, il che fa la loro conservazione.
L’anima di questi governi è dunque la
moderazione…
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Il governo monarchico presuppone (…) delle
preminenze, dei ranghi e perfino una nobiltà
originaria. La natura dell’onore è di richiedere
preferenze e distinzioni; dunque, per la cosa stessa, è
al suo posto in questo governo.
L’ambizione è perniciosa in una repubblica. Produce
buoni effetti nella monarchia; dà la vita a questo
governo; e offre questo vantaggio, che in esso non è
pericolosa perché può esservi continuamente repressa.
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Si direbbe che avvenga come nel sistema dell’universo, dove una
forza allontana senza posa dal centro tutti i corpi e una forza di
gravità ve li riporta. L’onore fa muovere tutte le parti del corpo
politico, le leggi con la sua azione stessa, e accade che ognuno va
verso il bene comune, credendo di andare verso i propri interessi
particolari.
E’ vero che, da un punto di vista filosofico, è un falso onore quello
che guida tutte le parti dello Stato; ma questo falso onore è
altrettanto utile al pubblico lo sarebbe quello vero ai privati che
potessero averlo. E non è già molto obbligare gli uomini a
compiere le azioni difficili, e che richiedono forza, senza altra
ricompensa che la risonanza di quelle azioni?
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Come in una repubblica ci vuole la virtù, in
una monarchia l’onore, così in uno stato
dispotico ci vuole la PAURA: quanto alla
virtù, non vi è necessaria, e l’onore vi
sarebbe pericoloso
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
E’ vero che nelle democrazie, il popolo sembra fare ciò
che vuole: ma la libertà politica non consiste affatto nel
fare ciò che si vuole. In uno Stato, cioè in una società dove
vi sono delle leggi, la libertà può solo consistere nel fare
ciò che si deve volere, e nel non essere costretti a fare ciò
che non si deve volere. Occorre avere ben presente che
cosa sia l’indipendenza e che cosa sia la libertà. La libertà
è il diritto di fare tutto ciò che le leggi permettono: infatti,
se un cittadino potesse fare tutto ciò che esse proibiscono,
non avrebbe più libertà, poiché anche gli altri
acquisterebbero un tale potere…
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
La libertà politica, in un cittadino, consiste in
quella tranquillità di spirito che proviene
dall’opinione nutrita da ciascuno circa la
propria sicurezza; e perché si abbia questa
libertà, occorre che il governo sia tale che un
cittadino non debba temere un altro cittadino.
C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi
Un’esperienza di secoli mostra come qualsiasi uomo
che si trovi ad avere il potere, sia portato ad
abusarne, finché non gli vengano posti dei limiti. Chi
lo direbbe! Persino la virtù ha bisogno di limiti:
perché non si possa abusare del potere, bisogna che,
per la disposizione delle cose, il potere argini il
potere. Una costituzione può essere tale che nessuno
sia costretto a fare le cose a cui la legge non lo obbliga
e a non fare quello che la legge permette…
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
Le caratteristiche dell’uomo naturale:
1) Amor di sé, ovvero un impulso costante a
preservare la propria vita;
2) Pietà, ovvero la compassione per le
sofferenze degli altri membri della stessa
specie
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
Le caratteristiche dell’uomo naturale:
3) Perfettibilità, ovvero la capacità non solo
di cambiare le sue qualità essenziale, ma
anche di migliorarle;
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
Le caratteristiche dell’uomo civilizzato:
Amor proprio, ovvero una preoccupazione
per se stesso, mediata dal confronto con gli
altri;
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
Mettendo (…) da parte tutti i libri scientifici che ci insegnano solo a
vedere gli uomini come si son fatti, e riflettendo sulle prime più
semplici operazioni dell’anima umana, io credo di scorgervi due principi
anteriori alla ragione: di questi, uno suscita in noi vivo interesse per il
nostro benessere e la nostra conservazione, l’altro ci ispira una
ripugnanza naturale a veder morire o soffrire ogni essere sensibile e in
particolare i nostri simili. Mi pare che dal concorso e dalla
combinazione che il nostro spirito può fare di questi due principi senza
dover ricorrere a quello della socievolezza scaturiscano tutte le norme
del diritto naturale; norme che in seguito la ragione è costretta a
ristabilire su altri fondamenti, quando per i suoi successivi sviluppi, è
giunta al risultato di soffocare la natura… (Prefazione)
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
(…) Per decreto di una provvidenza molto saggia le
facoltà che [l’uomo] aveva in potenza dovevano
svilupparsi solo con le occasioni di esercitarle, perché
non lo gravassero anzitempo di un peso superfluo per
divenire inutili e tardive al momento del bisogno. Nel
solo istinto aveva tutto ciò che gli occorreva per vivere
nello stato di natura; in una ragione coltivata ha solo ciò
che gli occorre per vivere in società…
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
Sembra a prima vista che gli uomini, in questo stato, non
avendo tra loro rapporti morali di nessuna specie o
doveri riconosciuti, non potessero essere né buoni né
cattivi, né avere vizi o virtù a meno di assumere questi
termini in senso fisico chiamando vizi nell’individuo le
qualità che possono ostacolare la sua conservazione e
virtù quelle che possono contribuirvi...
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
(…) Soprattutto non finiamo col concludere con Hobbes che l’uomo, non avendo alcuna
idea di bontà, sia naturalmente cattivo, che sia vizioso perché non conosce la virtù, che
rifiuti sempre ai suoi simili dei servizi che non crede di dover loro, e che ritenendo a
ragione di aver diritto alle cose di cui ha bisogno, immagini follemente di essere il solo
padrone di tutto l’universo. Hobbes ha visto molto bene il difetto di tutte le definizioni
moderne del diritto naturale, ma le conseguenze che ricava dalla sua definizione
dimostrano che le dà un senso non meno falso di quello delle altre. Ragionando sui
principi da lui fissati questo autore doveva dire che lo stato di natura, essendo quello in
cui la cura della nostra conservazione è meno suscettibile di recar pregiudizio alla
conservazione altrui, era, di conseguenza, il più adatto alla pace, il più conveniente al
genere umano. Mentre dice precisamente il contrario per avere introdotto
inopportunamente nella cura della conservazione dell’uomo selvaggio il bisogno di
soddisfare una molteplicità di passioni che sono opera della società e che hanno reso
necessarie le leggi.
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
(…) Ma c’è un altro principio di cui Hobbes non si è accorto, un
principio che dato all’uomo per raddolcire in certe circostanze la ferocia
dell’amor proprio, o prima che questo amore nascesse, l’istinto di
conservazione, tempesta l’ardore che nutre per il suo benessere con
un’innata ripugnanza a veder soffrire il proprio simile. Non ho alcun
timore di cadere in contraddizione accordando all’uomo la sola virtù
naturale che sia stato costretto a riconoscergli il detrattore più spinto
delle virtù umane [Mandeville]. Parlo della pietà, disposizione che ben
si adatta a esseri così deboli e soggetti a tanti mali come siamo noi; virtù
tanto più universale ed utile all’uomo in quanto precede in lui qualunque
riflessione; così naturale che anche le bestie ne hanno talvolta segni
tangibili…
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
(…) E’ assolutamente certo che la pietà è un sentimento naturale, volto a
moderare in ciascun individuo l’attività dell’amor di sé contribuendo così alla
mutua conservazione dell’intera specie. La pietà ci porta a soccorrere senza
riflettere quelli che vediamo soffrire; la pietà tiene luogo, nello stato di natura,
di leggi, di costumi e di virtù, con questo vantaggio: che nessuno è tentato di
disobbedire alla sua dolce voce; la pietà distoglierà ogni selvaggio robusto, che
appena creda di poter trovare altrove il proprio cibo, dal portar via a un debole
fanciullo o a un vecchio malato quello che si è procurato con fatica; è la pietà
che, invece della massima sublime di giustizia razionale, fai agli altri ciò che
vuoi sia fatto a te, ispira a tutti gli uomini quest’altra massima di bontà naturale,
molto meno perfetta, ma forse più utile della precedente: fai il tuo bene col
minor male possibile per gli altri… (Pt. I).
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
(…) Finché gli uomini si contentarono delle loro capanne rustiche, finché si
limitarono a cucire le loro vesti di pelli con spine di vegetali o con lische di pesce, a
ornarsi di piume e conchiglie, a dipingersi il corpo con diversi colori, a perfezionare
o abbellire i loro archi e le loro frecce, a tagliare con pietre aguzze canotti da pesca
o qualche rozzo strumento musicale; in una parola, finché si dedicarono a lavori che
uno poteva fare da solo, finché praticarono arti per cui non si richiedeva il concorso
di più mani, vissero liberi, sani, buoni, felici quanto potevano esserlo per la loro
natura, continuando a godere tra loro le gioie dei rapporti indipendenti; ma nel
momento stesso in cui un uomo ebbe bisogno dell’aiuto di un altro, da quando ci si
accorse che era utile a uno solo aver provviste per due, l’uguaglianza scomparve, fu
introdotta la proprietà, il lavoro divenne necessario, e le vaste foreste si
trasformarono in campagne ridenti che dovevano essere bagnate dal sudore degli
uomini, e dove presto si videro germogliare e crescere con le messi la schiavitù e la
miseria.… (Pt. I).
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
(…) Questa grande rivoluzione nacque dall’invenzione di due arti:
la metallurgia e l’agricoltura. (…) Da quando ci fu bisogno di
uomini per fondere e forgiare il ferro, ci vollero altri uomini per
dar da mangiare a questi. Più il numero degli operai si veniva a
moltiplicare, mentre erano le mani impiegate a fornire il
sostentamento comune, senza che ci fossero meno bocche a
consumarlo; e poiché gli uni avevano bisogno di derrate in cambio
del loro ferro, gi altri scoprirono alla fine il segreto di impiegare il
ferro per moltiplicare le derrate. Ne nacquero da un lato l’aratura e
l’agricoltura, dall’altro l’arte di lavorare i metalli e di
moltiplicarne gli usi… (Parte II)).
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
Il primo che, avendo cinto un terreno, pensò di
affermare: questo è mio, e trovò persone abbastanza
semplici per crederlo, fu il vero fondatore della società
civile. Quanti delitti, guerre, omicidi, quante miserie ed
orrori non avrebbe risparmiato al genere umano colui
che, strappando i pioli e colmando il fossato, avesse
gridato ai suoi simili: 'Guardatevi dall'ascoltare questo
impostore; siete perduti se dimenticate che i frutti sono
di tutti, e che la terra non è di nessuno!’…
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
Giunte le cose a questo punto, è facile immaginare il resto. (…) Ecco tutte
le nostre facoltà sviluppate, la memoria e l’immaginazione in gioco, l’amor
proprio risvegliato, la ragione resa attiva e lo spirito portato quasi al
culmine della perfezione che può attingere. Ecco tutte le qualità naturali in
azione, la posizione sociale e la sorte di ogni uomo stabilite non solo in
base alla consistenza dei beni e alla possibilità di servire o di nuocere, ma
anche allo spirito, alla bellezza, alla forza o alla destrezza, al merito o ai
talenti, ed essendo queste qualità le sole che potevano attirare la
considerazione, bisognò ben presto possederle o simularle. Bisognò, nel
proprio interesse, mostrarsi diversi da ciò che si era in realtà. Essere e
parere diventarono due cose del tutto diverse, e dalla distinzione
scaturirono il fasto imponente, l’astuzia ingannatrice e tutti i vizi che ne
formano il corteo….
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
D’altro lato, ecco l’uomo, che prima era libero e indipendente,
assoggettato, per così dire, a tutta la natura da una quantità di nuovi
bisogni, e soprattutto assoggettato ai suoi simili di cui diventa in certo
senso schiavo, perfino quando ne diventa il padrone: ricco ha bisogno
dei loro servizi, povero ha bisogno del loro aiuto, e la mediocrità non lo
mette in grado di non farne conto. Bisogna dunque che cerchi senza
posa di cointeressarli alla sua sorte, facendo in modo che, di fatto o in
apparenza, trovino il loro utile a lavorare per il suo utile; ciò lo rende
astuto e ipocrita con gli uni, imperioso e duro con gli altri e lo costringe
ad ingannare tutti quelli di cui ha bisogno, quando non può farli temere
e quando non trova il proprio tornaconto a servirli utilmente...
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
Infine l’ambizione che lo divora, l’assillo di elevare la propria
relativa fortuna, non tanto per un vero bisogno quanto per
collocarsi al di sopra degli altri, ispira a tutti gli uomini una
cupa inclinazione a nuocersi a vicenda, una segreta gelosia,
tanto più pericolosa in quanto, per fare il suo colpo con più
sicurezza si maschera spesso da benevolenza; in una parola,
concorrenza e rivalità da un lato, conflitto di interessi dall’altro,
e sempre il desiderio nascosto di fare il proprio interesse a
spese degli altri. Tutti questi mali sono il primo frutto della
proprietà e il corteo inseparabile della diseguaglianza
nascente...
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini(…) Quando i beni ereditari si furono accresciuti in numero ed estensione fino al
punto da coprire l’intero suolo e da essere tutti confinanti tra loro, gli uni non
poterono più ingrandirsi se non a spese degli altri, e quelli che non erano del
numero perché debolezza o indolenza avevano impedito che, a loro volta,
conquistassero una sostanza, diventati poveri senza aver perduto nulla in quanto,
mentre tutto mutava intorno a loro, loro soli non erano mutati, furono costretti a
ricevere o a strappare il loro sostentamento dalle mani dei ricchi; di qui
cominciarono a nascere, a seconda dei diversi caratteri degli uni e degli altri, la
dominazione e la schiavitù, o la violenza e le rapine. I ricchi dal canto loro, avevano
appena gustato il piacere di dominare quando, affrettandosi a disprezzare tutti gli
altri e servendosi degli antichi schiavi per sottometterne di nuovi, pensarono solo ad
assoggettare i loro vicini e ad asservirli; come quei lupi affamati che, se hanno
assaggiato una volta la carne umana, rifiutano ogni altro nutrimento e vogliono solo
divorare uomini..
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
(…) A questo modo, i più potenti o i più miserabili considerando
la loro forza o i loro bisogni come una specie di diritto ai beni
altrui, diritto equivalente, secondo loro, al diritto di proprietà, la
rottura dell’uguaglianza fu seguita dal più spaventoso disordine;
così, le usurpazioni dei ricchi, il brigantaggio dei poveri, le
passioni sfrenate di tutti, soffocando la pietà naturale e la voce
ancora debole della giustizia, resero gli uomini avari, ambiziosi e
malvagi. Si levò tra il diritto del più forte e quello del primo
occupante un perpetuo conflitto che andava sempre a finire in
duelli e uccisioni. La società in sul nascere fece posto al più
orribile stato di guerra...
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
Privo di ragioni valide per giustificarsi e di forze sufficienti per
difendersi; capace di schiacciare agevolemente un singolo, ma
schiacciato lui stesso da torme di banditi; solo contro tutti, non
potendo unirsi, per via delle scambievoli gelosie, con i suoi pari
contro dei nemici uniti dalla speranza del comune saccheggio, il
ricco, incalzato dalla necessità, finì con l’ideare il progetto più
avveduto che mai sia venuto in mente all’uomo; di usare cioè a
proprio vantaggio le forze stesse che lo attaccavano, di fare dei
propri avversari i propri difensori, di ispirare loro altre massime e
di dar loro altre istituzioni che gli fossero favorevoli quanto il
diritto naturale gli era contrario..
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uomini
In questa prospettiva, dopo aver esposto ai suoi vicini l’orrore di una situazione
che li armava tutti gli uni contro gli altri, che rendeva i loro possessi altrettanto
onerosi dei loro bisogni, dove nessuna condizione, né povera né ricca, offriva
sicurezza, inventò facilmente speciose ragioni per trarli ai suoi scopi.
«Uniamoci, disse, per salvaguardare i deboli dall’oppressione, tenere a freno gli
ambiziosi e garantire a ciascuno il possesso di quanto gli appartiene; stabiliamo
degli ordinamenti di giustizia e di pace a cui tutti, nessuno eccettuato, debbano
conformarsi, e che riparino in qualche modo i capricci della fortuna
sottomettendo senza distinzione il potente e il debole a doveri scambievoli. In
una parola, invece di volgere le nostre forze contro noi stessi, concentriamole in
un potere supremo che ci governi con leggi sagge, proteggendo e difendendo
tutti i membri dell’associazione, respingendo i comuni nemici e mantenendoci
in un’eterna concordia».
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uominiCi volle molto meno dell'equivalente di questo discorso per trascinar
uomini rozzi, facili a sedurre, che d'altra parte avevan troppi affari da
sbrogliar fra loro per poter fare a meno d'arbitri, e troppa avarizia ed
ambizione per poter a lungo fare a meno di padroni. Tutti corsero
incontro alle loro catene, credendo assicurarsi la libertà: perché, avendo
abbastanza ragione per sentir i vantaggi d'una costituzione politica, non
avevano abbastanza esperienza per prevederne i pericoli...Tale fu o
dovette essere l'origine della società e delle leggi, che diedero nuove
pastoie al debole e nuove forze al ricco, distrussero senza scampo la
libertà naturale, fissarono per sempre la legge della proprietà e della
disuguaglianza, d'una accorta usurpazione fecero un diritto irrevocabile,
e, per il vantaggio di qualche ambizioso, assoggettarono ormai tutto il
genere umano al lavoro, alla servitù e alla miseria.
J.-J. Rousseau, Sull’origine della
disuguaglianza tra gli uominiE' qui l'ultimo termine della disuguaglianza, e il punto
estremo che chiude il circolo, e tocca il punto da cui siamo
partiti: qui tutti gli individui tornano uguali, perché non son
più nulla, e non avendo più i sudditi altra legge che la
volontà del padrone, né il padrone altra regola che le sue
passioni, le nozioni del bene e i principi della giustizia
svaniscono di nuovo: qui tutto ti riporta alla sola legge del
più forte, e in conseguenza a un nuovo stato di natura,
differente da quello da cui abbiamo preso le mosse, in quanto
quello era lo stato di natura nella sua purezza, e quest'ultimo
è il prodotto di un eccesso di corruzione
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
Chi affronta l’impresa di dare istituzioni a un popolo
deve, per così dire, sentirsi in grado di cambiare la
natura umana; di trasformare ogni individuo, che per se
stesso è un tutto perfetto e solitario, in una parte di un
tutto più grande da cui l’individuo riceve, in qualche
modo, la vita e l’essere; di alterare la costituzione
dell’uomo per rafforzarla; di sostituire un’esistenza
parziale e morale all’esistenza fisica e indipendente che
tutti abbiamo ricevuto dalla natura.
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
…Trovare una forma di associazione
(association) che protegga e difenda con tutta la
forza comune la persona e i beni di ciascun
associato, mediante la quale ognuno unendosi a
tutti non obbedisca tuttavia che a se stesso e resti
libero come prima.
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
Queste clausole, bene intese, si riducono tutte a
una sola: cioè l'alienazione totale di ciascun
associato, con tutti i suoi diritti, a tutta la
comunità; perché, in primo luogo, se ciascuno si
dà tutto intero, la condizione è uguale per tutti; e
se la condizione è uguale per tutti, nessuno ha
interesse a renderla onerosa per gli altri.
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
Di più, facendosi l'alienazione senza riserve, l'unione è
perfetta per quanto può essere, e nessun associato ha più
niente da rivendicare; perché, se restasse qualche diritto
ai singoli, non essendoci alcun superiore comune, che
potesse pronunciarsi fra loro e il pubblico, ciascuno,
essendo su qualche punto il proprio giudice,
pretenderebbe ben presto di esser tale su tutti; sicché lo
stato di natura persisterebbe, e l'occasione diverrebbe
necessariamente tirannica o vana.
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
Infine ciascuno, dandosi a tutti, non si dà a
nessuno; e siccome non c'è associato, sul quale
non si acquisti lo stesso diritto che gli si cede su
noi stessi, si guadagna l'equivalente intero di ciò
che si perde, e più forza per conservare ciò che si
ha.
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
Ciascuno di noi mette in comune la sua
persona e tutto il suo potere sotto la suprema
direzione della volontà generale; e noi,
come corpo, riceviamo ciascun membro
come parte indivisibile del tutto.
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
Immediatamente, in cambio della persona privata di ciascun
contraente, quest'atto di associazione produce un corpo
morale e collettivo, composto di tanti membri quanti voti ha
l'assemblea; il quale riceve da questo stesso atto la sua unità,
il suo io comune, la sua vita e la sua volontà. Questa persona
pubblica, che si forma così dall'unione di tutte le altre,
prendeva altra volta il nome di città e prende ora quello di
repubblica o di corpo politico, il quale è chiamato dai suoi
membri Stato, in quanto è passivo, sovrano in quanto è attivo,
potenza nei confronti coi suoi simili
J.-J. Rousseau, Il contratto socialeIn realtà ogni individuo può, come uomo, avere una volontà
particolare contraria o dissimile dalla volontà generale, che egli ha
come cittadino; il suo interesse privato può parlargli in modo del tutto
diverso dall'interesse comune; la sua esistenza assoluta, e
naturalmente indipendente, può fargli considerare ciò che deve alla
causa comune, come una contribuzione gratuita, la cui perdita
sarebbe meno dannosa agli altri, di quanto il pagamento ne sia
gravoso a lui; e considerando la persona morale, che costituisce lo
Stato come un emte di ragione, poiché questo non è un uomo, egli
godrebbe dei diritti di cittadino senza voler compiere i doveri di
suddito; ingiustizia, il cui progresso cagionerebbe la rovina del corpo
politico.
J.-J. Rousseau, Il contratto socialeAffinché dunque il patto sociale non sia una vana formula, esso
deve racchiudere tacitamente questo impegno, il quale solo può
dar forza agli altri: che chiunque rifiuterà di obbedire alla
volontà generale, vi sarà costretto da tutto il corpo; ciò non
significa altro se non che lo si costringerà ad essere libero;
perché tale è la condizione che dando ogni cittadino alla patria,
lo garantisce da ogni dipendenza personale; condizione che
forma il meccanismo e il funzionamento della macchina
politica, che sola rende legittime le obbligazioni civili, le quali
senza di ciò sarebbero assurde, tiranniche, e soggette ai più
enormi abusi.
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
Quando tutto il popolo delibera su tutto il popolo,
esso non considera che se stesso; e se una
relazione allora si costituisce, è dell'oggetto
intero, considerato sotto un certo aspetto, con
l'oggetto intero, considerato sotto un altro aspetto,
senza alcuna divisione del tutto. Allora l'oggetto
su cui si delibera è generale, come la volontà
deliberante. Quest'atto io chiamo una legge.
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
Dico dunque che la sovranità, non essendo che l'esercizio della
volontà generale, non può mai alienarsi, e che il sovrano, che non
è se non un ente collettivo, non può essere rappresentato che da
se stesso; può bensì trasmettersi il potere, ma non la volontà.
Infatti, se non è impossibile che una volontà privata si accordi su
qualche punto con la volontà generale, è impossibile almeno che
quest'accordo sia durevole e costante; perché la volontà singola
tende di sua natura alle preferenze, e la volontà generale
all'uguaglianza. E' più impossibile ancora che ci sia un garante di
tale accordo, quando pure sarebbe necessario che sempre
esistesse...
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
Per la stessa ragione che la sovranità è
inalienabile, essa è indivisibile; perché o la
volontà è generale o non è tale; essa o è quella
del corpo popolare o solo d'una parte. Nel primo
caso questa volontà dichiarata è un atto di
sovranità e fa legge; nel secondo non è che una
volontà particolare...
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
La sovranità non può essere rappresentata, per la ragione
stessa che non può essere alienata; essa consiste
essenzialmente nella volontà generale, e la volontà non
si rappresenta; o è se stessa, ovvero è un'altra non c'è
via di mezzo. I deputati del popolo non sono dunque, né
possono essere i suoi rappresentanti; non sono che i suoi
commissari: non possono concludere nulla in modo
definitivo. Ogni legge che il popolo in persona non
abbia ratificata, è nulla; non è una legge.
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
Credo di poter fissare come principio incontestabile che
solo la volontà generale può dirigere le forze dello Stato
secondo il fine della sua istituzione che è il bene
comune…
Ora, poiché la volontà tende sempre al bene dell’essere
che vuole, e la volontà particolare ha sempre per oggetto
l’interesse privato, mentre la volontà generale si propone
l’interesse comune, ne consegue che solo quest’ultima è,
o deve essere, il vero motore del corpo sociale.
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
Governo =
un corpo intermediario istituito tra i sudditi e il
corpo sovrano per la loro reciproca
corrispondenza, incaricato dell’esecuzione delle
leggi e del mantenimento della libertà sia civile
che politica.
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
Se il sovrano vuol governare, o se il magistrato
vuol dare leggi, o se i sudditi rifiutano
l’obbedienza, alla regola succede il disordine
(désordre), l’azione della forza e quella della
volontà non si accordano più, e lo Stato
dissolvendosi va così a finire nel dispotismo o
nell’anarchia .
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
L’ordine migliore e il più naturale si ha quando i più
saggi governano la moltitudine, purché si abbia la
certezza che la governeranno per il suo vantaggio e non
per il loro.
(…) Non è bene che chi fa le leggi le esegua, né che il
corpo del popolo distolga la sua attenzione dalle vedute
generali per volgerla agli oggetti particolari.
J.-J. Rousseau, Il contratto sociale
Se ci fosse un popolo di dei si governerebbe
democraticamente.
Un governo tanto perfetto non conviene agli
uomini.
J.-J. Rousseau, Discorso
sull’economia politica
Non basta dire ai cittadini: «Siate buoni»; bisogna
insegnar loro ad esserlo; e l’esempio stesso, che è sotto
questo rispetto la prima lezione, non è il solo mezzo che
va impiegato: l’amore della patria è il più efficace; infatti
(…) ogni uomo è virtuoso quando la sua volontà
particolare è conforme in tutto alla volontà generale; e
noi vogliamo di buon grado ciò che vogliono quelli che
amiamo...
J.-J. Rousseau, Discorso
sull’economia politica
Volete che gli uomini siano
virtuosi? Cominciamo, dunque, col
fare in modo che amino la patria
J.-J. Rousseau, Emilio
Ogni patriota è rigido cogli stranieri: essi non sono che
uomini e non sono niente agli occhi suoi. Questo
inconveniente è inevitabile, ma è debole. L’essenziale è
di essere buoni verso quelli coi quali vivamo. Lo
Spartano all’esterno era ambizioso, avaro, iniquo, ma
nelle sue mura regnavano i disinteresse, l’equità, la
concordia…
J.-J. Rousseau, Progetto di
costituzione per la Corsica
Ogni popolo ha o deve avere un
carattere nazionale; se gli manca,
occorre cominciare col dargliene uno…
Diderot, Voce Enciclopedia
Vi sono teste ristrette, anime malnate, indifferenti alle sorti del genere
umano e talmente immerse nella loro piccola cerchia, che non sanno
veder nulla al di là dell’interesse di questa. Costoro vogliono esser
chiamati buoni cittadini, ed io sono d’accordo; purché mi consentano di
chiamarli uomini malvagi. A sentire loro, si direbbe che un’enciclopedia
ben fatta o una storia generale delle arti dovrebbe essere null’altro che un
gran manoscritto gelosamente custodito nella biblioteca del re,
inaccessibile ad occhi che non siano i suoi; libro di Stato, non di popolo.
A che scopo divulgare le conoscenze della nazione (…)? Non è forse a
ciò ch’essa deve una parte della sua superiorità sulle nazioni rivali e
circonvicine? (…) Non si rendono conto che occupano un punto solo
della terra, e vi dureranno un solo momento: e che a tale punto e
momento sacrificano la felicità dei secoli futuri e dell’intera specie…
Fenelon, Dialogues des Morts
Ogni uomo deve infinitamente di più al genere
umano, che è la grande patria, che alla patria
particolare nella quale è nato; è dunque
infinitamente più pernicioso violare la giustizia da
popolo a popolo, che da famiglia a famiglia
all’interno dello Stato. (…) Tutte le guerre sono
guerre civili; perché è sempre l’uomo che sparge
il suo sangue…
Enciclopedia, Voce Patria
Il retore poco logico, il geografo che si occupa solo della
posizione dei luoghi, e il lessicografo volgare prendono
la patria per il luogo di nascita, quale che sia; ma il
Filosofo sa che la parola viene dal latino pater, che
rappresenta un padre e dei figli e, per conseguenza,
esprime il significato che noi leghiamo a quelle di
famiglia, di società, di Stato libero, di cui siamo membri,
e le cui leggi assicurano la nostra libertà e la nostra
felicità. Non vi è patria sotto il giogo del dispotismo…
Voltaire, Dizionario filosofico, voce Patria
Una patria è un composto di più famiglie; e, come ordinariamente si
sostiene la propria famiglia per amore di sé, quando non ci sia un
interesse contrario, così si sostiene, per lo stesso amor proprio, la
nostra città o il nostro villaggio, che chiamiamo la nostra patria. (…)
Chi arde dall’ambizione di diventare edile, tribuno, pretore, console,
dittatore, protesta di amare la propria patria, ma ama solo se stesso.
Ognuno vuol essere sicuro di poter dormire tranquillo a casa sua
senza che un altro si arroghi il potere di mandarlo a dormire altrove;
ognuno vuol esser sicuro dei suoi beni e della sua vita. E, poiché
tutti nutrono gli stessi desideri, ne viene che l’interesse particolare
diventa l’interesse generale: quando facciamo voti per la repubblica,
li facciamo in realtà per noi stessi.
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino (1789)
Art. 1:
Gli uomini nascono e restano liberi ed
eguali nei diritti. Le distinzioni sociali non
possono essere fondate che sull’utilità
comune.
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino (1789)
Art. 2:
Il fine di ogni associazione politica è la
conservazione dei diritti naturali ed
imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti
sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la
resistenza all’oppressione.
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino (1789)
Art. 3:
Il principio di ogni sovranità risiede
essenzialmente nella nazione. Nessun corpo,
nessun individuo può esercitare un’autorità
che non emani espressamente da essa.
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino (1789)
Art. 4:
La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non
nuoce ad altri; così l’esercizio dei diritti naturali
di ciascun uomo ha come limiti solo quelli che
assicurano agli altri membri della società il
godimento di quegli stessi diritti. Questi limiti
possono essere determinati soltanto dalla legge.
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino (1789)
Art. 5:
La legge ha il diritto di vietare solo le azioni
nocive alla società. Tutto ciò che non è
vietato dalla legge non può essere impedito,
e nessuno può essere costretto a fare ciò che
essa non ordina.
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino (1789)
Art. 6:
La legge è l’espressione della volontà
generale. Tutti i cittadini hanno il diritto
di concorrere personalmente o
attraverso i loro rappresentanti alla sua
formazione.
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del
cittadino (1789)
Art. 16:
Qualsiasi società nella quale la garanzia dei
diritti non sia assicurata, e la separazione dei
poteri non sia determinata, non possiede una
costituzione.
E.-J. Sieyès, Che cos’è il Terzo
stato
Nella prima epoca «vi è un numero più o meno
considerevole di individui isolati che vogliono unirsi tra
loro. Per questo solo fatto, essi già formano una nazione:
ne hanno già tutti i diritti; non resta che esercitarli.
Questa prima epoca è caratterizzata dal gioco delle
volontà individuali. L’associazione è opera loro. Esse
sono all’origine di ogni potere».
E.-J. Sieyès, Che cos’è il Terzo
statoLa seconda epoca è caratterizzata dall’azione della volontà
comune. Gli associati vogliono dare consistenza alla loro unione;
vogliono adempierne lo scopo. Per questo si riuniscono, e si
accordano fra loro sui bisogni pubblici e sui mezzi per
provvedervi. Il potere qui appartiene alla comunità. Le volontà
individuali ne sono sempre la fonte, e ne costituiscono gli elementi
essenziali; ma considerate separatamente non avrebbero alcun
potere. Il potere risiede esclusivamente nell’insieme. La comunità
ha bisogno di una volontà comune; senza una unità di volontà essa
non arriverà mai a costituire un tutto che vuole ed agisce. E’ anche
certo che questo tutto non ha nessun diritto che non appartenga alla
volontà comune.
E.-J. Sieyès, Che cos’è il Terzo
stato
La terza epoca si distingue dalla seconda in quanto non è più
la reale volontà comune ad agire, ma una volontà comune
rappresentativa. Sono due (…) i caratteri indelebili che le
sono propri: 1° Nel corpo rappresentativo tale volontà non è
piena ed illimitata; essa rappresenta solo una parte della
grande volontà comune nazionale. 2° I delegati non la
esercitano affatto come se si trattasse di un diritto proprio, si
tratta di un diritto che appartiene ad altri; la volontà comune è
presente in loro solo a titolo di procura.
E.-J. Sieyès, Che cos’è il Terzo
stato
La Nazione esiste prima di ogni cosa, essa è
l’origine di tutto. La sua volontà è sempre
conforme alla legge, essa è la legge stessa. Prima
di essa e al di sopra di essa non c’è che il diritto
naturale.
E.-J. Sieyès, Discorso sul veto
regioLa Francia non è, e non può essere una democrazia; non deve
assolutamente divenire uno Stato federale, composto da una
moltitudine di repubbliche, unite da un qualunque legame
politico. La Francia è e deve essere un tutt’uno, sottomesso in
ogni sua parte ad una legislazione e ad una amministrazione
comuni. Poiché è evidente che cinque o sei milioni di
cittadini attivi, ripartiti in più di venticinquemila leghe
quadrate non possono assolutamente riunirsi, è certo che essi
possono aspirare solo ad un sistema legislativo per
rappresentanza.
E.-J. Sieyès, Discorso sul veto
regio…Dunque i cittadini che nominano dei rappresentanti
rinunciano e devono rinunciare a fare essi stessi
direttamente la legge: non hanno quindi nessuna volontà
personale da imporre. Ogni influenza, ogni potere
appartengono loro esclusivamente nella persona dei
mandatari. Se imponessero delle volontà questo Stato
non sarebbe rappresentativo; sarebbe uno Stato
democratico
E.-J. Sieyès
Un deputato è deputato della Nazione tutta, tutti i cittadini sono i
suoi committenti. (…) Dunque non esiste, non può esistere per un
deputato altro mandato imperativo o voto positivo, che quello
della Nazione; egli non è tenuto a tener conto dei consigli dei suoi
diretti committenti, se non nella misura in cui questi consigli
saranno conformi al voto nazionale. Questo voto dove può essere,
dove può esprimersi se non nell’ambito della stessa Assemblea
nazionale? (…) In questo caso non si tratta di compilare uno
scrutinio democratico, ma di proporre, ascoltare, accordarsi,
modificare il proprio personale parere, fino a formare una volontà
comune…
E.-J. Sieyès, Osservazioni sul rapporto del
Comitato di costituzione…Le classi infime, gli uomini più poveri, sono ben più lontani, per
intelligenza e sensibilità, dagli interessi dell’associazione, di quanto non
potessero esserlo i cittadini meno stimati degli antichi Stati liberi. Esiste
dunque fra noi una classe di uomini, cittadini di diritto, che non lo sono
di fatto. Spetta senza dubbio alla Costituzione e alle buone leggi di
ridurre il più possibile il numero degli appartenenti a questa classe. Ma è
comunque vero che vi sono uomini per altro fisicamente validi, che,
estranei a qualunque idea sociale, non sono in grado di assumere un
ruolo attivo nell’ambito della cosa pubblica. Non ci si deve permettere
di discriminarli in quanto persone, ma chi oserà trovare ingiusto che
vengano in qualche modo esclusi, non, lo ripeto, dalla protezione della
legge e dall’assistenza pubblica, ma dall’esercizio dei diritti politici?
E.-J. Sieyès, Preliminari alla costituzione
Tutti gli abitanti di un paese debbono godervi dei diritti di cittadino
passivo: tutti hanno diritto alla protezione della propria persona, della
proprietà, libertà, ecc., mentre non tutti hanno diritto di esercitare un
ruolo attivo sulla formazione dei pubblici poteri, non tutti sono
cittadini attivi. Le donne, per lo meno nella condizione attuale, i
bambini, gli stranieri, coloro che non contribuiscono minimamente a
sostenere il sistema delle pubbliche istituzioni, non devono avere
un’influenza attiva sulla cosa pubblica. Tutti possono godere dei
vantaggi della società, ma solo coloro che fanno parte del sistema
delle pubbliche istituzioni rappresentano i veri azionari della grande
impresa sociale, solo loro sono i veri cittadini attivi, i veri membri
dell’associazione
E.-J. Sieyès
Farsi/lasciarsi rappresentare è l’unica fonte della
prosperità civile… Moltiplicare gli strumenti/poteri per
soddisfare i nostri bisogni; godere di più, lavorare di
meno, questo è il naturale accrescimento della libertà
nello stato sociale. Ora, questo progresso della libertà
segue naturalmente l’istituzione del lavoro
rappresentativo
E.-J. Sieyès
Tutto è rappresentanza in uno stato sociale. Essa
è presente ovunque, nell’ordinamento privato
come nell’ordinamento pubblico; essa è la madre
dell’industria, della produzione e del commercio,
come pure di ogni progresso liberale e politico.
(…) Essa si confonde con l’essenza stessa della
vita sociale.
Necker
Questi eletti sono il vostro equivalente, con perfetta
esattezza. Il loro interesse, la loro volontà sono le vostre,
e nessun abuso di autorità, da parte di questi nuovi
menecmi vi sembrerà possibile. Che credulità. Che fede
per degli uomini in grado di pensare e di riflettere! Ed è
sempre la parola rappresentante che provoca una simile
cieca fiducia! Questo termine dà l’idea di un altro se
stesso.
Robespierre
Ovunque il popolo non eserciti la sua autorità e
non manifesti la sua volontà in prima persona, ma
tramite dei rappresentanti, se il corpo
rappresentativo non è puro e non s’identifica
completamente con il popolo, la libertà è
annientata.
Robespierre
La fonte di tutti i nostri mali è costituita dallo stato di
assoluta indipendenza in cui i rappresentanti si sono
posti da se stessi nei confronti della nazione senza averla
consultata. Non erano, per loro stessa ammissione, che
mandatari del popolo e si sono fatti sovrani,ovverosia
despoti. Il dispotismo non è altro che l’usurpazione del
potere sovrano.
Robespierre, Sui principi del governo
rappresentativo (1793)Per fare una costituzione occorre in primo luogo stabilire questa
massima incontestabile:
“che il popolo è buono e che i suoi delegati sono corruttibili; che è
nella virtù e nella sovranità del popolo che bisogna cercare una
difesa contro i vizi e i dispotismi del governo. (…) Un popolo i
cui mandatari non devono dar conto a nessuno della loro gestione,
non ha una costituzione; poiché infatti dipenderà soltanto da
costoro tradirlo impunemente o lasciarlo tradire da altri. E se
questo è il senso che si attribuisce al governo rappresentativo,
confesso che impigherò tutti gli anatemi pronunciati contro di esso
da Jean-Jacques Rousseau”.
Robespierre, Sui principi di
morale politica (1794)Qual è lo scopo cui tendiamo? Il pacifico godimento della libertà e
dell’uguaglianza; il regno di quella giustizia eterna le cui leggi
sono state incise non già sul marmo o sulla pietra, ma nel cuore di
tutti gli uomini, anche in quello dello schiavo che le dimentica e
del tiranno che le nega. Vogliamo un ordine di cose nel quale ogni
passione bassa e crudele si incatenata, nel quale ogni passione
benefica e generosa sia ridestata dalle leggi; nel quale l’ambizione
sia il desiderio di meritare la gloria e di servire la patria; ove le
distinzioni non nascano altro che dalla stessa uguaglianza; nel
quale il cittadino sia sottomesso al magistrato, e il magistrato al
popolo, e il popolo alla giustizia; .
Robespierre, Sui principi di
morale politica (1794)
Un ordine di cose nel quale la patria assicuri il
benessere a ogni individuo, e nel quale ogni individuo
goda con orgoglio della prosperità e della gloria della
patria; nel quale tutti gli animi si ingrandiscano con la
continua comunione dei sentimenti repubblicani, e con
l’esigenza di meritare la stima di un grande popolo; nel
quale le arti siano gli ornamenti della libertà che le
nobilita, il commercio sia la fonte della ricchezza
pubblica e non soltanto quella dell’opulenza mostruosa
di alcune case. .
Robespierre, Sui principi di
morale politica (1794)Noi vogliamo sostituire, nel nostro paese, la morale all’egoismo,
l’onestà all’onore, i principi alle usanze, i doveri alle
convenienze, il dominio della ragione alla tirannia della moda, il
disprezzo per il vizio al disprezzo per la sfortuna, la fierezza
all’insolenza, la grandezza d’animo alla vanità, l’amore della
gloria all’amre del denaro, le persone buone alle buone
compagnie, il merito all’intrigo, l’ingegno al bel esprit, la verità
all’esteriorità, il fascino della felicità al tedio del piacere
voluttuoso, la grandezza dell’uomo alla piccolezza dei “grandi”; e
un popolo magnanimo, potente, felice a un popolo “amabile”,
frivolo e miserabile; cioè tutte le virtù e tutti i miracoli della
repubblica a tutti i vizi e a tutte le ridicolaggini della monarchia. .
Robespierre, Sui principi di
morale politica (1794)
Noi vogliamo, in una parola, adempiere
ai voti della natura, compiere i destini
dell’umanità, mantenere le promesse
della filosofia, assolvere la provvidenza
dal lungo regno del crimine e della
tirannia.
Robespierre, Sui principi di
morale politica (1794)La democrazia non è uno Stato in cui il popolo –
costantemente riunito – regola da se stesso tutti gli affari
pubblici; e ancor meno è quello in cui centomila frazioni del
popolo, con misure isolate, precipitoso e contraddittorie,
decidono la sorte dell’intera società. Un simile governo non è
mai esistito, né potrebbe esistere se non per ricondurre il
popolo verso il dispotismo. La democrazia è uno Stato in cui
il popolo sovrano, guidato da leggi che sono il frutto della sua
opera, fa da se stesso tutto ciò che può far bene, e per mezzo
dei suoi delegati tutto ciò che non può fare da se stesso.
Robespierre, Sui principi di
morale politica (1794)
Se la forza del governo popolare in tempo di
pace è la virtù, la forza del governo popolare in
tempo di rivoluzione è ad un tempo la virtù e il
terrore. La virtù, senza la quale il terrore è cosa
funesta; il terrore, senza il quale la virtù è
impotente. (…) Il governo della rivoluzione è il
dispotismo della libertà contro la tirannia.
Sieyès, Opinione sul progetto di costituzione
(2 termidoro anno III)
I poteri illimitati sono un mostro in politica e un grave errore del
popolo francese. In avvenire esso non lo commetterà più. Voi gli
svelerete ancora una volta una grande verità troppo misconosciuta
fra noi, e cioè che esso non detiene tutti questi poteri, tutti questi
diritti illimitati che i suoi adulatori gli hanno attribuito. Quando
un’associazione politica si costituisce, non si mettono mai in
comune tutti i diritti che ogni individuo apporta alla società, tutta
la potenza della massa intera degli individui. Si mette in comune il
meno possibile sotto il nome di potere pubblico o politico e
unicamente quanto è necessario a mantenere ogni individuo
nell’ambito dei propri diritti e dei propri doveri…
Sieyès, Opinione sul progetto di costituzione
(2 termidoro anno III)
Una simile parte di potere è ben lungi dal rassomigliare alle idee
esagerate di cui si è amato abbigliare ciò che si chiama la
sovranità; e notate bene che è precisamente della sovranità del
popolo che parlo, giacché, se ve ne è una, è proprio quella. Se
questo termine ha assunto una dimensione così colossale
nell’immaginazione della gente, è solo perché lo spirito dei
Francesi, ancora colmo di superstizioni monarchiche, si è sentito
in dovere di dotarlo dell’eredità intera dei pomposi attributi e dei
poteri assoluti, che hanno fatto lo splendore delle sovranità
usurpate…
Sieyès, Opinione sul progetto di costituzione
(2 termidoro anno III)
E io dico che quando luce sarà fatta, ci saremo lasciati dietro i
tempi in cui si è creduto di sapere, in cui non si faceva che volere,
la nozione di sovranità rientrerà nei suoi giusti limiti; poiché,
ripeto ancora una volta, la sovranità del popolo non è affatto
illimitata, e molti di quei sistemi vantati e onorati, compreso
quello verso il quale si è persuasi ancora di avere le più grandi
obbligazioni, altro non parranno che concezioni monacali, dei
mediocri progetti di re-totale piuttosto che di re-pubblica,
ugualmente funesti per la libertà e rovinosi per la cosa pubblica
come per la cosa privata.
E. Burke, Reflections on the Revolution in
France(1790)
La critica dei diritti naturali:
«Questi diritti astratti, quando si introducono nella vita pratica, si
comportano come quei raggi di luce che penetrando in un mezzo denso,
vengono, per legge di natura, riflessi, ma deviati dal loro diritto cammino.
Così a contatto di un mezzo denso quale la complicata ed enorme massa
delle passioni e degli interessi umani, i diritti originari dell’uomo
subiscono una tale varietà di riflessioni e rifrazioni, che diviene assurdo
parlare di essi come se ancora mantenessero tutta la semplicità della loro
primitiva direzione. La natura dell’uomo è intricata, ed i fini della società
estremamente complessi: e quindi un potere organato semplicemente sarà
del tutto insufficiente al proposito di dirigere la natura umana, o la qualità
dei suoi affari»
E. Burke, Reflections on the Revolution in
France(1790)
L’elogio della politica empirica:
«La scienza che insegna a costruire uno Stato o a rinnovarlo o a riformarlo è una
scienza sperimentale, e come tale non si può insegnare a priori. Né basta una
breve esperienza a renderne edotti, perché gli effetti reali di cause morali non
sono sempre immediati. (…) Negli Stati esistono spesso delle cause oscure e
latenti, di poca importanza a prima vista ma da cui, a ben guardare, dipendono
essenzialmente la prosperità o la rovina dello Stato medesimo. Se la scienza di
governo è quindi una scienza pratica e volta a fini pratici, se richiede grande
esperienza, più esperienza di quanta l’uomo anche più sagace e più cauto possa
acquistare nel breve giro di una singola vita, con quanta circospezione l’uomo
dovrà accingersi al compito di abbattere un edificio, che attraverso i secoli è
servito, sia pure in modo solo passabile, ad attuare i comuni propositi di una
società!»
E. Burke, Reflections on the Revolution in
France(1790)
L’ «antica costituzione di governo»:
«È impossibile non osservare come, dalla Magna Charta fino alla
Dichiarazione dei Diritti, sia stata politica uniforme della nostra
costituzione esigere ed asserire le nostre libertà come inalienabile eredità
trasmessa a noi dai nostri antenati, e trasmissibile alla nostra posterità,
come proprietà appartenente in modo speciale al popolo di questo regno,
senza alcun riferimento a qualsiasi diritto più generale o antecedente. In
questo modo la nostra Costituzione preserva unità pur nella grande
diversità delle sue parti. Abbiamo una Corona ereditaria, un’aristocrazia
ereditaria, ed una Camera dei Comuni ed un popolo eredi di privilegi,
franchigie e libertà derivanti loro da antichissimi antenati»
E. Burke, On (…) the State of the Representation of
the Commons in Parliament (1782)
L’elogio dell’ «antica costituzione» inglese:
«La nostra costituzione è una costituzione prescrittiva; è una
costituzione la cui sola autorità consiste nel fatto di esistere da
tempo immemorabile. (…) La prescrizione è il più solido di tutti i
titoli, non solo per la proprietà, ma anche per ciò che assicura la
proprietà, per il governo. (…) E’ una presunzione in favore di ogni
schema di governo stabilito contro qualsiasi progetto non
sperimentato il fatto che una nazione abbia vissuto a lungo e sia
fiorita sotto di esso. E’ un presupposto migliore anche della scelta di
una nazione, di gran lunga migliore di ogni assetto subitaneo o
temporaneo dovuto ad una vera e propria elezione…»
E. Burke, On (…) the State of the Representation of
the Commons in Parliament (1782)
L’elogio dell’ «antica costituzione» inglese:
«Perché una nazione non è soltanto un’idea di portata locale e un momentaneo
aggregato di individui; ma è un’idea di continuità, che si estende tanto nel tempo
quanto nel numero e nello spazio. E questa non è la scelta di un giorno o di una
parte del popolo, non una scelta tumultuaria e casuale; è un’elezione deliberata di
epoche e generazioni; è una costituzione fatta di ciò che è diecimila volte
migliore della scelta, fatta da circostanze peculiari, da occasioni, temperamenti,
disposizioni e consuetudini morali, civili e sociali del popolo, che si rivelano solo
in un lungo spazio di tempo. E’ un vestito che si adatta al corpo. La prescrizione
del governo non si forma su pregiudizi ciechi e privi di senso – perché l’uomo è
un essere a volte saggio e a volte no. Un individuo è stolto; la moltitudine, in un
dato momento, quando agisce senza deliberazione è stolta; ma la specie è saggia,
e quando le si concede tempo come specie agisce sempre giustamente»
B. Constant, Discorso sulla libertà degli antichi
paragonata a quella dei moderni (1819)
Chiedetevi innanzi tutto, Signori, che cosa intendano oggi con la
parola libertà un inglese, un francese, un abitante degli Stati Uniti
d’America. Il diritto di ciascuno di non essere sottoposto che alle
leggi, di non poter essere né arrestato, né detenuto, né messo a
morte, né maltrattato in alcun modo a causa dell’arbitrio di uno o
più individui. Il diritto di ciascuno di dire la sua opinione, di
scegliere la sua industria e di esercitarla, di disporre della sua
proprietà e anche di abusarne; di andare, di venire senza doverne
ottenere il permesso e senza render conto delle proprie intenzioni
e della propria condotta…
B. Constant, Discorso sulla libertà degli antichi
paragonata a quella dei moderni (1819)
Il diritto di ciascuno di riunirsi con altri individui sia per
conferire sui propri interessi, sia per professare il culto che
egli e i suoi associati preferiscono, sia semplicemente per
occupare le sue giornate o le sue ore nel modo più conforme
alle sue inclinazioni, alle sue fantasie. Il diritto, infine, di
ciascuno di influire sulla amministrazione del governo sia
nominando tutti o alcuni dei funzionari, sia mediante
rimostranze, petizioni, richieste che l’autorità sia più o meno
obbligata a prendere in considerazione…
B. Constant, Discorso sulla libertà degli antichi
paragonata a quella dei moderni (1819)
Paragonate ora a questa libertà quella degli antichi.
Essa consisteva nell’esercitare collettivamente ma direttamente
molte funzioni dell’intera sovranità, nel deliberare sulla piazza
pubblica sulla guerra e sulla pace, nel concludere con gli stranieri i
trattati di alleanza, nel votare le leggi, nel pronunciare i giudizi;
nell’esaminare i conti, la gestione dei magistrati, nel farli
comparire dinanzi a tutto il popolo, nel metterli sotto accusa, nel
condannarli o assolverli. Ma se questo era ciò che gli antichi
chiamavano libertà, essi ritenevano compatibile con questa libertà
collettiva l’assoggettamento completo dell’individuo all’autorità
dell’insieme…
B. Constant, Discorso sulla libertà degli antichi
paragonata a quella dei moderni (1819)
Non trovate presso di loro alcuno dei godimenti che abbiamo visto
far parte della libertà dei moderni. Tutte le azioni private sono
sottoposte a una sorveglianza severa. Nulla è accordato
all’indipendenza individuale né sotto il profilo delle opinioni, né
sotto quello dell’industria, né soprattutto sotto il profilo della
religione. (…) Nelle cose che a noi sembrano più utili l’autorità
del corpo sociale si interpone e impaccia la volontà degli
individui. (…) L’autorità si intromette anche nelle relazioni più
intime. (…) Le leggi regolano i costumi e poiché i costumi
concernono tutto non v’è nulla che le leggi non regolino.
B. Constant, Discorso sulla libertà degli antichi
paragonata a quella dei moderni (1819)Così presso gli antichi l’individuo, sovrano quasi abitualmente negli
affari pubblici, è schiavo in tutti i suoi rapporti privati. Come cittadino
egli decide della pace e della guerra; come privato è limitato, osservato,
represso in tutti i suoi movimenti; come parte del corpo collettivo
interroga, destituisce, condanna, spoglia, esilia, manda a morte i suoi
magistrati o i suoi superiori; come sottoposto al corpo collettivo può a
sua volta essere privato della sua condizione, spogliato delle sue
dignità, bandito, messo a morte dalla volontà discrezionale dell’insieme
di cui fa parte. Presso i moderni, al contrario, l’individuo, indipendente
nella sua vita privata, persino negli Stati più liberi non è sovrano che in
apparenza. La sua sovranità è limitata, quasi sempre sospesa; e se, a
epoche fisse ma rare nelle quali è pur sempre circondato da precauzioni
e ostacoli, esercita questa sovranità, non lo fa che per abdicarvi.
B. Constant, Discorso sulla libertà degli antichi
paragonata a quella dei moderni (1819)(…) Noi non possiamo più godere della libertà degli antichi che si
fondava sulla partecipazione attiva e costante al potere collettivo. La
nostra libertà deve fondarsi sul pacifico godimento
dell’indipendenza privata. La parte che nell’antichità ciascuno aveva
nella sovranità nazionale non era affatto, come lo è oggi, una astratta
supposizione. La volontà di ciascuno aveva un’influenza reale:
l’esercizio di questa volontà era un piacere vivo e ripetuto. Di
conseguenza gli antichi erano disposti a fare molti sacrifici per
conservare i loro diritti politici e la loro partecipazione
all’amministrazione dello Stato. Ciascuno sentiva con orgoglio tutto
quello che valeva il suo suffragio e trovava, in questa coscienza
della sua personale importanza, un ampio consenso.
B. Constant, Discorso sulla libertà degli antichi
paragonata a quella dei moderni (1819)Questo compenso non esiste più oggi per noi. Perduto nella
moltitudine, l’individuo non avverte quasi mai l’influenza che esercita.
Mai la sua volontà si imprime sull’insieme, niente prova, ai suoi occhi,
la sua cooperazione. L’esercizio dei diritti politici ci offre dunque ormai
soltanto una parte dei godimenti che vi trovavano gli antichi e in pari
tempo i progressi della civiltà, la tendenza commerciale dell’epoca, la
comunicazione dei popoli fra loro hanno moltiplicato e variato
all’infinito i mezzi della felicità privata.
Ne segue che dobbiamo essere attaccati assai più degli antichi alla
nostra indipendenza individuale; perché gli antichi, quando
sacrificavano questa indipendenza ai diritti politici, sacrificavano il
meno per ottenere il più; mentre facendo lo stesso noi daremmo il più
per ottenere il meno.
B. Constant, Discorso sulla libertà degli antichi
paragonata a quella dei moderni (1819)
Il fine degli antichi era la divisione del potere
sociale fra tutti i cittadini di una stessa patria: era
questa che essi chiamavano libertà. Il fine dei
moderni è la sicurezza dei godimenti privati; ed
essi chiamano libertà le garanzie accordate dalle
istituzioni questi godimenti…
I. Kant, Metafisica dei costumi (1797)
Lo stato di natura:
Lo stato di pace, fra uomini che vivano l’uno accanto
all’altro, non è uno stato di natura; questo è invece uno stato
di guerra, anche se non sempre comporta lo scoppio delle
ostilità ma piuttosto la minaccia di esse. Lo stato di pace deve
dunque essere istituito, infatti l’astenersi dalle ostilità non è
ancora sicurezza, e se tale sicurezza non viene garantita a un
vicino dall’altro (ciò che può accadere solo in uno stato in cui
vi siano leggi), quello può trattare questo, al quale ha
richiesto tale garanzia, come un nemico.
I. Kant, Metafisica dei costumi (1797)
Lo stato di natura:
Se prima dell’entrata nello stato civile nessun acquisto si volesse
riconoscere anche solo provvisoriamente come legittimo, allora quello stato
stesso sarebbe impossibile. Perché, secondo la forma, le leggi nello stato di
natura contengono intorno al ‘mio’ e al ‘tuo’ le stesse condizioni prescritte
dalle leggi nello stato civile, in quanto esso sia pensato unicamente secondo
concetti puramente razionali; tutta la differenza è che nello stato civile sono
indicate le condizioni che assicurano l’esecuzione (conformemente alla
giustizia distributiva) delle leggi dello stato di natura. Se dunque non ci
fosse nemmeno provvisoriamente un ‘mio’ e un ‘tuo’ esterni nello stato di
natura, non ci sarebbero neppure doveri giuridici riguardo ad esso, né quindi
ci sarebbe alcun comando che imponesse di uscire da quello stato.
I. Kant, Metafisica dei costumi (1797)
Il postulato del diritto pubblico:
E’ dunque proprio dal diritto privato nello stato
naturale che scaturisce il postulato del diritto
pubblico: tu devi, in base al rapporto di
coesistenza che si instaura tra te e gli altri uomini,
uscire dallo stato di natura per entrare in uno stato
giuridico, vale a dire in uno stato di giustizia
distributiva.
3I. Kant, Sul detto comune (1797)
Lo stato civile:
Lo stato civile, considerato solo in quanto stato
giuridico, è fondato sui seguenti principi a priori:
1. La libertà di ogni membro della società, come
uomo;
2. L’eguaglianza di ogni membro con ogni altro,
come suddito;
3. L’indipendenza di ogni membro di un corpo
comune, come cittadino.
Martin Wight, International Theory. The Three Traditions
1) La tradizione realista: Hobbes
2) La tradizione razionalista: Grozio
3) La tradizione rivoluzionaria: Kant
Alle origini del modello «cosmopolitico»
I progetti di pace perpetua:
1) Il Grand Dessein di Enrico IV (1598);
2) William Penn, An Essay Towards the Present
and Future Peace of Europe (1693);
3) Abbè de Saint-Pierre, Projet pour rendre la
paix perpétuelle en Europe (1713);
4) Immanuel Kant, Zum ewigen Frieden (1795)
Saint-Pierre, Projet pour rendre la paix perpétuelle
en Europe (1713)
1) I sovrani che aderiscono si garantiscono
reciprocamente una sicurezza totale contro i
grandi mali delle guerre esterne e delle guerre
civili;
2) Ogni alleato contribuirà alle spese comuni
della grande alleana in proporzione alle
entrate attuali e delle spese del suo Stato;
Saint-Pierre, Projet pour rendre la paix perpétuelle
en Europe (1713)
3) Gli alleati rinunciano alla voce delle armi e
convengono di prendere la strada della conciliazione
attraverso la mediazione di un’assemblea generale
perpetua, la Dieta generale d’Europa;
4) Se la potenza condannata non ottempererà,
l’alleana si armerà e agirà contro di essa in modo
offensivo per contrastarla;
5) Queste disposizioni non possono essere modificate
se non con il consenso unanime di tutti;
I. Kant, Per la pace perpetua:
Articoli preliminari:
1. Nessun trattato di pace deve considerasi tale,
se è stato fatto con la tacita riserva di pretesti
per una guerra futura;
I. Kant, Per la pace perpetua:
Articoli preliminari:
2. Nessuno Stato indipendente (non importa se
piccolo o grande) può venire acquistato da un
altro per successione ereditaria, per via di
scambio, compera o donazione;
I. Kant, Per la pace perpetua:
Articoli preliminari:
3. Gli eserciti permanenti (miles perpetuus)
devono col tempo scomparire interamente;
I. Kant, Per la pace perpetua:
Articoli preliminari:
4. Non si devono contrarre debiti pubblici in
vista di controversie fra Stati da svolgere
all’estero;
I. Kant, Per la pace perpetua:
Articoli preliminari:
5. Nessuno Stato deve intromettersi con la
forza nella costituzione e nel governo di un
altro Stato;
I. Kant, Per la pace perpetua:
Articoli preliminari:
6. Nessuno Stato in guerra con un altro deve
permettersi atti di ostilità che renderebbero
impossibile la reciproca fiducia nella pace futura:
come, ad esempio, l’assoldare sicari ed avvelenatori,
la rottura della capitolazione, l’istigazione al
tradimento nello Stato al quale si fa la guerra, ecc…
I. Kant, Per la pace perpetua:
La guerra è (…) solo il triste mezzo necessario allo stato
di natura (dove non esiste tribunale che possa giudicare
secondo il diritto) per affermare con la forza il proprio
diritto, non potendo in tale stato esser considerata
nemico ingiusto nessuna delle due parti (perché ciò
presuppone già una sentenza giudiziaria) e decidendo
solo l’esito del combattimento (come nel cosiddetto
giudizio di Dio) da quale parte stia il diritto:
I. Kant, Per la pace perpetua:
ma tra due Stati non è concepibile una guerra punitiva
(bellum punitivum) poiché tra essi non sussiste un rapporto di
superiore ad inferiore. Ne segue che una guerra di sterminio
in cui la distruzione può colpire contemporaneamente
entrambe le parti ed ogni diritto venire soppresso, darebbe
luogo alla pace perpetua unicamente sul grande cimitero del
genere umano. Una simile guerra, e con essa l’uso dei mezzi
che vi conducono, dev’essere pertanto assolutamente vietata.
I. Kant, Per la pace perpetua:
Primo articolo definitivo:
“La costituzione civile di ogni Stato
dev’essere repubblicana”
I. Kant, Per la pace perpetua:
La costituzione fondata in primo luogo secondo i
principi della libertà dei membri di una società
(in quanto uomini), della dipendenza di tutti da
un’unica legislazione (in quanto sudditi), in terzo
luogo dell’uguaglianza di tutti (in quanto
cittadini) è quella repubblicana
I. Kant, Per la pace perpetua:
Secondo articolo definitivo:
“Il diritto internazionale deve
fondarsi su un federalismo di liberi
Stati”
I. Kant, Per la pace perpetua:
I modelli di unione internazionale:
Lo «Stato di popoli (Völkerstaat)» o
«Civitas gentium»
I. Kant, Per la pace perpetua:
«Per gli Stati, nel rapporto tra loro, è impossibile
pensare di uscire dalla condizione di della mancanza di
legge, che non contiene altro che la guerra, se non
rinunciando, esattamente come fanno i singoli individui,
alla loro libertà selvaggia (senza legge), sottomettendosi
a pubbliche leggi costrittive e formando uno Stato dei
popoli (civitas gentium), che dovrà sempre crescere, per
arrivare a comprendere finalmente tutti i popoli della
terra»
I. Kant, Per la pace perpetua:
I modelli di unione internazionale:
La «federazione di pace» o
«federazione di popoli (Völkerbund)»
I. Kant, Per la pace perpetua:
«Questa federazione non si propone la costruzione di
una potenza politica, ma semplicemente la
conservazione e la garanzia della libertà di uno Stato
preso a sé e contemporaneamente degli altri Stati
federati, senza che questi si sottomettano (come gli
individui nello stato di natura) a leggi pubbliche e alla
costrizione da esse esercitate »
I. Kant, Per la pace perpetua:
Per gli Stati che stanno tra loro in rapporto reciproco
non può esservi altra maniera razionale per uscire dallo
stato naturale senza leggi, che è soltanto stato di guerra,
se non rinunciare, come i singoli individui, alla loro
libertà selvaggia (senza leggi), consentire a leggi
pubbliche coattive e formare così uno Stato di popoli
(civitas gentium) che si estenderebbe sempre più ed
abbraccerebbe infine tutti i popoli della terra.
I. Kant, Per la pace perpetua:
Ma poiché essi, secondo la loro idea del diritto
internazionale, non vogliono ciò affatto e rigettano quindi in
ipotesi ciò che in tesi è giusto, così, in luogo dell’idea
positiva di una repubblica universale (e perché non tutto
debba andare perduto) rimane soltanto il surrogato negativo
di una lega permanente e sempre più estesa, come unico
strumento possibile che ponga al riparo dalla guerra e arresti
il torrente delle tendenze contrarie al diritto, sempre però con
il continuo pericolo che queste erompano nuovamente
I. Kant, Per la pace perpetua:
Terzo articolo definitivo:
“Il diritto cosmopolitico dev’essere
limitato alle condizioni dell’universale
ospitalità”
I. Kant, Per la pace perpetua:
…Ospitalità significa che il diritto che uno straniero ha
di non essere trattato come un nemico a causa del suo
arrivo sulla terra di un altro. Questi può mandarlo via, s
ciò non mette a repentaglio la sua vita, ma fino a quando
sta al suo posto non si deve agire verso di lui in modo
ostile. Non è un diritto di accoglienza a cui lo straniero
possa appellarsi (…) ma un diritto di visita, che spetta a
tutti gli uomini…
A. De Tocqueville, La democrazia in America
Il graduale sviluppo dell’uguaglianza delle condizioni è (…) un
fatto provvidenziale; e ne ha i caratteri essenziali: è universale,
duraturo, si sottrae ogni giorno alla potenza dell’uomo; tutti gli
avvenimenti, come anche tutti gli uomini, ne favoriscono lo
sviluppo. Sarebbe quindi saggio credere che un movimento
sociale, che ha così lontane origini, potrà essere arrestato dagli
sforzi di una generazione? C’è forse qualcuno che può pensare
che la democrazia, dopo aver distrutto il feudalesimo e aver vinto
i Re, indietreggerà poi davanti ai borghesi e ai ricchi? E’ possibile
che si arresti proprio ora che è divenuta tanto forte e i suoi
avversari tanto deboli?
A. De Tocqueville, La democrazia in America
(…) Ecco che i ranghi si confondono, che le
barriere innalzate tra gli uomini si abbassano; si
dividono le proprietà, si divide il potere, la civiltà
si diffonde, le intelligenze si uguagliano;
l’assetto sociale diviene democratico e l’impero
della democrazia si stabilisce infine facilmente
nelle istituzioni e nei costumi.
A. De Tocqueville, La democrazia in America
E’ nell’essenza stessa dei governi
democratici che il dominio della
maggioranza sia assoluto; poiché, fuori
della maggioranza, nelle democrazie, non
vi è nulla che resista…
A. De Tocqueville, La democrazia in America
I principi avevano, per così dire, materializzato la
violenza; le repubbliche democratiche dei nostri giorni
l’hanno resa del tutto spirituale, come la volontà umana
che essa vuole costringere. Sotto il governo assoluto di
uno solo, il dispotismo, per arrivare all’anima, colpiva
grossolanamente il corpo; e l’anima, sfuggendo a quei
colpi, s’elevava gloriosa al di sopra di esso; ma nelle
repubbliche democratiche, la tirannide non procede
affatto in questo modo: essa trascura il corpo e va diritta
all’anima.
A. De Tocqueville, La democrazia in America
Individualismo è un termine recente, originato da un’idea
nuova. I nostri padri non conoscevano che l’egoismo.
L’egoismo è un amore spassionato e sfrenato di se stessi,
che porta l’uomo a riferire tutto soltanto a se stesso, e a
preferire sé a tutto. L’individualismo è un sentimento
ponderato e tranquillo, che spinge ogni singolo ad
appartarsi dalla massa dei suoi simili e a tenersi in disparte
con la sua famiglia e i suoi amici; cosicché, dopo essersi
creato una piccola società per conto proprio, abbandona
volentieri la grande società a se stessa.
A. De Tocqueville, La democrazia in America
Immagino sotto quali nuovi aspetti il dispotismo potrebbe
prodursi nel mondo: vedo una folla innumerevole di uomini
simili ed uguali che non fanno che ruotare su se stessi, per
procurarsi piccoli e volgari piaceri con cui saziano il loro
animo. Ciascuno di questi uomini vive per conto suo ed è
come estraneo al destino di tutti gli altri: i figli e gli amici
costituiscono per lui tutta la razza umana; quanto al resto dei
concittadini, egli vive al loro fianco ma non li vede; li tocca
ma non li sente; non esiste che in se stesso e per se stesso, e
se ancora possiede una famiglia, si può dire per lo meno che
non ha più patria.
A. De Tocqueville, La democrazia in America
Al di sopra di costoro si erge un potere immenso e tutelare, che si
incarica di assicurare loro il godimento dei beni e di vegliare sulla loro
sorte. E’ assoluto, minuzioso, sistematico, previdente e mite.
Assomiglierebbe all’autorità paterna se, come questa, avesse lo scopo di
preparare l’uomo all’età virile, mentre non cerca che di arrestarlo
irrevocabilmente all’infanzia; è contento che i cittadini si svaghino,
purché non pensino che a svagarsi. Lavora volentieri alla loro felicità,
ma vuole esserne il solo agente ed il solo arbitro; provvede alla loro
sicurezza, prevede e garantisce i loro bisogni, facilita i loro piaceri,
guida i loro affari principali, dirige la loro industria, regola le loro
successioni, spartisce le loro eredità; perché non dovrebbe levare loro
totalmente il fastidio di pensare e la fatica di vivere?
A. De Tocqueville, La democrazia in America
E’ così che giorno dopo giorno esso rende sempre
meno utile e sempre più raro l’impiego del libero
arbitrio, restringe in uno spazio sempre più
angusto l’azione della volontà e toglie poco alla
volta a ogni cittadino addirittura la disponibilità
di se stesso. L’uguaglianza ha preparato gli
uomini a tutto questo: li ha disposti a sopportarlo
e spesso anche a considerarlo come un vantaggio
A. De Tocqueville, La democrazia in America
Le nazioni moderne non possono evitare che le
condizioni diventino uguali; ma dipende da loro
che l’uguaglianza le porti alla schiavitù o alla
libertà, alla civiltà o alla barbarie, alla prosperità
o alla miseria.
J. Stuart Mill, On Liberty (1859)
Il male più temibile non è il violento conflitto tra parti diverse della
verità, ma la silenziosa soppressione di una sua metà; finché la gente
è costretta ad ascoltare le due opinioni opposte c'è sempre speranza ;
è quando ne ascolta una sola che gli errori si cristallizzano in
pregiudizi, e la verità stessa cessa di avere effetto perché l’
esagerazione la rende falsa. E poiché poche qualità mentali sono più
rare della facoltà che permette di giudicare intelligentemente tra due
visioni contrapposte di una questione, di cui una sola ha un
difensore, le probabilità di vittoria della verità sono proporzionali
alla misura in cui ciascun suo aspetto, ciascuna opinione che ne
esprima una pur minima parte, non solo trova chi la difende, ma
viene attivamente difesa e ascoltata.
J. Stuart Mill, On Liberty (1859)
Il male più temibile non è il violento conflitto tra parti diverse della
verità, ma la silenziosa soppressione di una sua metà; finché la gente
è costretta ad ascoltare le due opinioni opposte c'è sempre speranza ;
è quando ne ascolta una sola che gli errori si cristallizzano in
pregiudizi, e la verità stessa cessa di avere effetto perché l’
esagerazione la rende falsa. E poiché poche qualità mentali sono più
rare della facoltà che permette di giudicare intelligentemente tra due
visioni contrapposte di una questione, di cui una sola ha un
difensore, le probabilità di vittoria della verità sono proporzionali
alla misura in cui ciascun suo aspetto, ciascuna opinione che ne
esprima una pur minima parte, non solo trova chi la difende, ma
viene attivamente difesa e ascoltata.
J. Stuart Mill, Considerations on Representative
Government (1861)
La parola democrazia evoca due idee assai diverse. Nel primo senso, la
parola democrazia è sinonimo di eguaglianza di tutti i cittadini e
rimanda all’idea pura secondo la quale democrazia significa, secondo la
sua stessa etimologia, governo di tutto il popolo esercitato attraverso
eguali rappresentanze. Nella seconda accezione, democrazia vuol dire
governo di privilegi a vantaggio della maggioranza nunmerica che
domina lo Stato. Questa sarebbe la inevitabile conseguenza del modo
con il quale oggi si contano i voti. Il conteggio avviene escludendo
completamente la minoranza. (…) In una democrazia in cui i cittadini
sono uguali ogni parte dovrebbe raccogliere una rappresentanza
proporzionale alla sua reale forza. (…) Uomo per uomo, la minoranza
deve essere rappresentata per intero come accade alla maggioranza. Se
questo manca il governo non postula l’uguaglianza, ma il privilegio e
l’inuguaglianza…
J. Stuart Mill, Considerations on Representative
Government (1861)
La civiltà moderna e il governo rappresentativo tendono
naturalmente a scivolare nel piano inclinato della
mediocrità. Le esclusioni legate al diritto elettorale
accrescono questa tendenza. Il loro effetto è infatti
quello di attribuire il potere a persone incapaci e inferiori
a quelle provviste di cultura. Certo gli ingegni superiori
sono qualitativamente pochi. E’ comunque importante
che anche la loro voce venga ascoltata. E’ falsa una
democrazia che non dà rappresentanza a tutti ma solo
alle maggioranze locali e cancella dal parlamento ogni
spazio riservato alla minoranza colta del paese…
J. Stuart Mill, Considerations on Representative
Government (1861)
Il voto plurimo:Ogni soggetto che non versi in una condizione di tutela ed è direttamente
interessato ai problemi, ha diritto di esprimere il proprio voto. Non è possibile
negare questo diritto se non quando il suo esercizio urta con la sicurezza della
collettività. Completamente diversa è la questione se tutti debbano vantare un
voto e un voto uguale. Quando due soggetti interessati nella stessa controversia
portano differenti opinioni, è giusto che le due vedute siano considerate di
valore eguale? Nel caso di pari virtù morali, e una è superiore all’altra per
cultura e intelligenza, o quando sono di eguale intelligenza ma l’una è superiore
all’altra per vortù, l’opinione della persona che dal punto di vista intellettuale e
morale scavalca l’altra deve prevalere sulla convinzione espressa dall’altra.
Sanciscono una assurdità le istituzioni che conferiscono alle due opinioni lo
stesso valore. La persona dotata di qualità superiore ha diritto ad esercitare una
influenza superiore. Il problema sta nell’accertare chi in concreto meriti questo
diritto…
J. Stuart Mill, Considerations on Representative
Government (1861)
Il voto plurimo:
Le persone la cui opinione merita maggiore attenzione
devono disporre di un voto più pesante. I soggetti che
dispongono di un voto meno influente non dovrebbero
sentirsi irritati per questo. La completa esclusione dal
voto è una cosa. Concedere un voto più pesante ai
soggetti più colti e aperti agli interessi comuni è un’altra.
Non si tratta di una differenza di grado, ma qualitativa.
(…) Occorre soltanto assicurarsi che questa superiore
influenza attribuita alle persone capaci venga attribuita
sulla base di motivi giusti e comprensibili…
G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito
(1806-7), Prefazione:
…Secondo il mio modo di vedere che dovrà giustificarsi soltanto
mercé l’esposizione del sistema stesso, tutto dipende
dall’intendere e dall’esprimere il vero non come sostanza, ma
altrettanto decisamente come soggetto (…), ciò che è poi lo stesso,
è l’essere che in verità è effettuale, ma soltanto in quanto la
sostanza è il movimento del porre se stesso, o in quanto essa è la
mediazione del divenir-altro-da-sé con se stesso (…). Il vero è il
divenire di se stesso, il circolo che presuppone e ha all’inizio la
propria fine come proprio fine, e che solo mediante l’attuazione e
la propria fine è effettuale.
G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito
(1806-7), Prefazione:
(…) Il vero è l’intero. Ma l’intero è soltanto
l’essenza che si completa mediante il suo
sviluppo. Dell’Assoluto si deve dire che esso è
essenzialmente risultato, che solo alla fine è ciò
che è in verità; e proprio in ciò consiste la sua
natura, nell’essere effettualità, soggetto o divenir-
se-stesso.
G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito
(1806-7), Prefazione:
(…) Che il vero sia effettuale solo come sistema,
o che la sostanza sia essenzialmente Soggetto, ciò
è espresso in quella rappresentazione che enuncia
l’Assoluto come Spirito – elevatissimo concetto
appartenente all’Età moderna e alla sua religione.
G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche
in compendio (1817):
Aufheben ha nella lingua un doppio senso: quello di conservare e
quello di far cessare, di porre un termine. Conservare ha
d’altronde un significato negativo, cioè per conservare qualcosa
bisogna che gli si tolga la sua immediatezza, che gli si sopprima la
sua esistenza, così che essa è sottomessa alle condizioni esterne.
In questo modo ciò che viene soppresso è nello stesso tempo
conservato, avendo perso solo la sua esistenza immediata, senza
essere per questo annientato. Sul piano semantico, le due
determinazioni di aufheben possono essere considerate significati
della stessa parola. E’ sorprendente che una lingua sia giunta a
usare una sola parola per due significati opposti.
G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche
in compendio (1817):
(…) Una cosa è soppressa (superata) nella
misura in cui essa è realizzata in unità con il
suo opposto: in questa determinazione, la
Cosa superata appare come riflessa e può
essere designata come «momento»…
G.W.F. Hegel, Scienza della logica (1812-16):
(…) La contraddizione (…) è la radice di ogni movimento e
vitalità; qualcosa si muove, ha un istinto e un’attività, solo in
quanto ha in se stesso una contraddizione. (…) La comune
esperienza riconosce che si dà una quantità di cose
contraddittorie, di contraddittorie disposizioni, ecc., la cui
contraddizione non sta semplicemente in una riflessione esteriore,
ma in loro stesse. E la contraddizione non è poi da prendere
semplicemente come un’anomalia che si mostri solo qua e là, ma è
il negativo nella sua determinazione essenziale, il principio di ogni
muoversi, muoversi che non consiste se non in un esplicarsi e
mostrarsi della contraddizione…
Il sistema filosofico di Hegel:
Logica Idea in sé e per sé=
Puro pensiero (tesi)
Filosofia della natura Idea fuori di sé=
Natura (antitesi)
Filosofia dello spirito Idea che ritorna in sé=
Spirito (sintesi)
Il sistema filosofico di Hegel:
Logica Dottrina dell’essere
Dottrina dell’essenza
Dottrina del concetto
Filosofia della natura Meccanica
Fisica
Organica
Il sistema filosofico di Hegel:
Filosofia dello Spirito
Spirito soggettivo Antropologia
Fenomenologia
Psicologia
Spirito oggettivo Diritto
Moralità
Eticità
Spirito assoluto Arte
Religione
Filosofia
G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto (1821):
Lo Stato non esiste per i cittadini: si potrebbe dire
che esso è il fine, e quelli sono i suoi strumenti.
Peraltro tale rapporto generale di fine a mezzo
non è in questo caso adeguato. Lo Stato non è
infatti una realtà astratta che si contrapponga ai
cittadini; bensì essi sono momento come nella
vita organica, in cui nessun membro è fine e
nessuno è mezzo, (§ 258 A)
G.W.F. Hegel, Epistolario:
Gli avvenimenti più universali (…) mi suscitano le più universali
considerazioni, che mi riportano nella sfera del pensiero i particolari singoli
e prossimi, per quanto questi possano interessare il sentimento. Io considero
che lo Spirito del mondo ha dato al tempo la parola d’ordine di avanzare;
un tale comando è obbedito; questo essere si avanza irresistibile come una
falange corazzata, in ordine chiuso, e con il movimento impercettibile del
sole, attraverso ogni ostacolo; innumerevoli truppe leggere si muovono
nell’uno e nell’altro senso, e la maggior parte di esse non sa neppure di che
si tratta e non fa che incassare colpi che provengono come da una mano
invisibile. Tutte le millanterie temporeggiatrici (…) a nulla servono; (…) Il
partito più sicuro (interiormente ed esteriormente) è quello di osservare
questo gigante che si avanza
G.W.F. Hegel, Lezioni di filosofia della storia:
La bandiera dello spirito libero (…) è la bandiera sotto cui
serviamo e che teniamo alta. Il tempo, da allora fino a noi,
non ha avuto e non ha altra opera da compiere all’infuori di
quella di incorporare questo principio nel mondo (IV, 151)
…Sembra che allo spirito del mondo sia ora riuscito di
sbarazzarsi da ogni essenza estranea e oggettiva, e di
cogliersi infine come Spirito assoluto, di generare da sé ciò
che gli diviene oggettivo e, comportandosi con calma, di
tenerlo in suo potere.
G.W.F. Hegel, Lezioni di filosofia della storia:
…Sin qui è giunto lo spirito del mondo. L’ultima
filosofia è il risultato di tutte le precedenti; nulla
è perduto, tutti i principi sono conservati. Questa
idea concreta è il risultato degli sforzi dello
spirito attraverso quasi 2500 anni (…) del suo più
serio lavoro per diventare oggettivo a se stesso e
per conoscersi: Tantae molis erat se ipsam
cognoscere mentem (parafrasi virgiliana).
G.W.F. Hegel, Filosofia del diritto (1821), Prefazione:
La filosofia, poiché è lo scandaglio del razionale,
appunto per ciò è l’apprendimento di ciò ch’è presente e
reale, non la costruzione di un al di là, che sa Dio dove
dovrebbe essere, - o del quale di fatto si sa ben dire
dov’è, cioè nell’errore di un vuoto, unilaterale
raziocinare…
Ciò che è razionale è reale:
e ciò che è reale è razionale.
G.W.F. Hegel, Filosofia del diritto (1821), Prefazione:
Quel che importa allora è conoscere, nella parvenza di ciò
ch’è temporale e transeunte, la sostanza che è immanente
e l’eterno che è presente. Poiché il razionale, che è
sinonimo dell’idea, allorché esso nella sua realtà entra in pari
tempo nell’esistenza esterna, vien fuori in un’infinita
ricchezza di forme, fenomeni e configurazioni, e circonda il
suo nucleo con la scorza variopinta nella quale la coscienza
dapprima dimora, che soltanto il concetto trapassa, per
trovare il polso interno e pur nelle configurazioni esterne
sentirlo ancora battere…
G.W.F. Hegel, Filosofia del diritto (1821), Prefazione:
…Così, dunque, questo trattato, in quanto contiene la
scienza dello Stato, dev’essere null’altro, se non il
tentativo d’intendere e presentare lo Stato come cosa
razionale in sé. In quanto scritto filosofico, esso deve
restare molto lontano dal dover costruire uno Stato come
dev’essere; l’ammaestramento che può trovarsi in esso
non può giungere a insegnare allo Stato come deve
essere, ma, piuttosto, in quale modo esso deve esser
riconosciuto come universo etico.
G.W.F. Hegel, Filosofia del diritto (1821), Prefazione:
…Intendere ciò che è, è il compito della filosofia,
poiché ciò che è, è la ragione. Del resto, per quel che
si riferisce all’individuo, ciascuno è, senz’altro,
figlio del suo tempo; e anche la filosofia è il proprio
tempo appreso col pensiero. E’ altrettanto folle
pensare che una qualche filosofia precorra il suo
mondo attuale, quanto che ogni individuo si lasci
indietro il suo tempo, e salti oltre…
G.W.F. Hegel, Filosofia del diritto (1821), Prefazione:
Ciò che sta tra la ragione come spirito autocosciente, e la ragione come
realtà presente, ciò che differenzia quella ragione da questa ed in essa
non lascia trovare l’appagamento, è l’impaccio di qualche astrazione,
che non si è liberata, e non si è fatta concetto. Riconoscere la ragione
come la rosa, nella croce del presente, e quindi godere di questa – tale
riconoscimento razionale è la riconciliazione con la realtà, che la
filosofia consente a quelli, i quali hanno avvertito, una volta, l’interna
esigenza di comprendere e di mantenere, appunto, la libertà soggettiva
in ciò che è sostanziale, e al modo stesso, di stare nella libertà
soggettiva, non come in qualcosa di individuale e di accidentale, ma in
qualcosa che è in sé e per sé
G.W.F. Hegel, Filosofia del diritto (1821), Prefazione:
(…) Del resto, a dire anche una parola sulla dottrina di come dev’essere
il mondo, la filosofia arriva sempre troppo tardi. Come pensiero del
mondo, essa appare per la prima volta nel tempo, dopo che la realtà ha
compiuto il suo processo di formazione ed è bell’e fatta. Questo, che il
concetto insegna, la storia mostra, appunto, necessario: che, cioè, prima
l’ideale appare di contro al reale, nella maturità della realtà, e poi esso
costruisce questo mondo medesimo, colto nella sostanza di esso, in
forma di regno intellettuale. Quando la filosofia dipinge a chiaroscuro,
allora un aspetto della vita è invecchiato, e, dal chiaroscuro, esso non si
lascia ringiovanire, ma soltanto riconoscere: la nottola di Minerva inizia
il suo volo sul far del crepuscolo.
K. Marx, Tesi su Feuerbach (1845):
Undicesima tesi
I filosofi hanno solo interpretato il
mondo in modi diversi; si tratta però
di mutarlo.
K. Marx, L’ideologia tedesca (1846)
I presupposti da cui muoviamo non sono arbitrari, non
sono dogmi: sono presupposti reali, dai quali si può
astrarre solo nell’immaginazione. Essi sono gli individui
reali, la loro azione e le loro condizioni materiali di
vita, tanto quelle che essi hanno trovato già esistenti
quanto quelle prodotte dalla loro stessa azione. Questi
presupposti sono dunque constatabili per via puramente
empirica.
K. Marx, L’ideologia tedesca (1846)Il primo presupposto di tutta la storia umana è naturalmente l’esistenza di
individui umani viventi. Il primo dato di fatto da constatare è dunque
l’organizzazione fisica di questi individui e il loro rapporto, che ne consegue,
verso il resto della natura. Qui naturalmente non possiamo addentrarci
nell’esame né della costituzione fisica dell’uomo stesso, né delle condizioni
naturali trovate dagli uomini, come le condizioni geologiche, oro-idrografiche,
climatiche, e così via. Ogni storiografia deve prendere le mosse da queste basi
naturali e dalle modifiche da esse subite nel corso della storia per l’azione degli
uomini.
Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la
religione, per tutto ciò che si vuole; ma essi cominciarono a distinguersi dagli
animali allorché cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza, un
progresso che è condizionato dalla loro organizzazione fisica. Producendo i
loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa
vita materiale.
K. Marx, L’ideologia tedesca (1846)
Il modo in cui gli uomini producono i loro mezzi di sussistenza
dipende prima di tutto dalla natura dei mezzi di sussistenza che
essi trovano e che debbono riprodurre. Questo modo di
produzione non si deve giudicare solo in quanto è la riproduzione
dell’esistenza fisica degli individui; anzi, esso è già un modo
determinata dell’attività di questi individui, un modo determinato
di estrinsecare la loro vita, un modo di vita determinato. Come gli
individui esternano la loro vita, così essi sono. Ciò che essi sono
coincide dunque con la loro produzione, tanto con ciò che
producono quanto col modo come producono. Ciò che gli
individui sono dipende dunque dalle condizioni materiali della
loro produzione.
K. Marx, Critica del diritto pubblico hegeliano (1843)
Per la Germania, la critica della religione nell'essenziale è compiuta, e
la critica della religione è il presupposto di ogni critica. (…) Il
fondamento della critica irreligiosa è: l'uomo fa la religione, e non la
religione l'uomo. Infatti, la religione è la coscienza di sé e il
sentimento di sé dell'uomo che non ha ancora conquistato o ha già di
nuovo perduto se stesso. Ma l'uomo non è un essere astratto, posto
fuori del mondo. L'uomo è il mondo dell'uomo, Stato, società. Questo
Stato, questa società producono la religione, una coscienza capovolta
del mondo, poiché essi sono un mondo capovolto. (…) La lotta contro
la religione è dunque mediatamente la lotta contro quel mondo, del
quale la religione è l'aroma spirituale...
K. Marx, Critica del diritto pubblico hegeliano (1843)
La miseria religiosa è insieme l'espressione della miseria reale e la
protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della
creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così
come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l'oppio del
popolo.
Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol
dire esigerne la felicità reale. L'esigenza di abbandonare le illusioni
sulla sua condizione è l'esigenza di abbandonare una condizione
che ha bisogno di illusioni. La critica della religione, dunque, è, in
germe, la critica della valle di lacrime, di cui la religione è
l'aureola...
K. Marx, Critica del diritto pubblico hegeliano (1843)
Il compito della storia, una volta scomparso l’al di là della
verità, consiste quindi nello stabilire la verità dell’al di
qua. Compito della filosofia, che è al servizio della storia, è
lo smascheramento, dopo che la figura sacra
dell’estraneazione dell’uomo è già stata smascherata,
dell’autoestraneazione dell’uomo nelle figure non-sacre.
La critica del cielo si trasforma quindi nella critica della
terra, la critica della religione nella critica del diritto, la
critica della teologia nella critica della politica.
K. Marx, Critica del diritto pubblico hegeliano (1843)
Il lato più profondo di Hegel sta nel fatto di
aver sentito come un contrasto la
separazione della società civile da quella
politica. Negativo è peraltro il fatto che egli
si accontenti di avere apparentemente
dissolto questo contrasto.
K. Marx, La questione ebraica (1844)
L’elevazione politica dell’uomo al di sopra della religione partecipa di tutti i difetti e i pregi
dell’elevazione politica in generale. Lo stato in quanto stato annulla, ad esempio, la proprietà
privata, l’uomo dichiara soppressa politicamente la proprietà privata non appena esso abolisce
il censo per l’eleggibilità attiva e passiva come è avvenuto in molti stati nordamericani. (…)
Tuttavia, con l’annullamento politico della proprietà privata non solo non viene soppressa la
proprietà privata, ma essa viene addirittura presupposta. Lo stato sopprime nel suo modo le
differenze di nascita, di condizione, di educazione, di occupazione, dichiarando che nascita,
condizione, educazione, occupazione sono differenze impolitiche, proclamando ciascun
membro del popolo partecipe in egual misura della sovranità popolare, senza riguardo a tali
differenze, trattando tutti gli elementi della vita reale del popolo dal punto di vista dello stato.
Nondimeno lo stato lascia che la proprietà privata, l’educazione, l’occupazione operino nel loro
modo, cioè come proprietà privata, come educazione, come occupazione e facciano valere la
loro particolare essenza. Ben lungi dal sopprimere queste differenze di fatto, lo stato esiste
piuttosto soltanto in quanto le presuppone, sente se stesso come stato politico, e fa valere la
propria universalità solo in opposizione con questi suoi elementi.
K. Marx, La questione ebraica (1844)
Lo Stato politico perfetto è per sua essenza la vita generica dell’uomo in
quanto specie, in opposizione alla sua vita materiale. Tutti i presupposti
di questa vita egoistica continuano a sussistere al di fuori della sfera
dello Stato, nella società borghese, ma come caratteristiche della società
civile. Là dove lo Stato politico ha raggiunto il suo vero sviluppo,
l’uomo conduce non soltanto nel pensiero, nella coscienza, ma nella
realtà, una doppia vita, una celeste e una terrena, la vita nella comunità
politica nella quale egli si considera come ente comunitario, e la vita
nella società borghese nella quale agisce come uomo privato, che
considera gli altri uomini come mezzi, degrada se stesso a mezzo e
diviene trastullo di forze estranee…
K. Marx, La questione ebraica (1844)
Lo Stato politico si rapporta alla società civile nel modo
spiritualistico con cui il cielo si rapporta alla terra. Rispetto ad essa si
trova nel medesimo contrasto, e la sovrasta nel medesimo modo in
cui la religione sovrasta la limitatezza del mondo profano, cioè
dovendo insieme riconoscerla restaurarla e lasciarsi da essa
dominare. Nella sua realtà più immediata, nella società civile, l’uomo
è un essere profano. Qui, dove per sé e per gli altri vale come
individuo reale, egli è un fenomeno non vero. Viceversa, nello Stato,
dove l’uomo vale come ente generico, egli è il membro immaginario
di una sovranità immaginaria, è spogliato della sua reale vita
individuale e riempito di una universalità irreale…
K. Marx, La questione ebraica (1844)
(…) L’emancipazione politica è certamente
un grande passo in avanti, non è però la
forma ultima dell’emancipazione umana in
generale, ma è l’ultima forma
dell’emancipazione umana entro l’ordine
mondiale attuale. S’intende: noi parliamo qui
di emancipazione reale, pratica.
K. Marx, La questione ebraica (1844)
I droits de l’homme, cioè i diritti dell’uomo, sono come tali distinti dai droits du citoyen,
cioè dai diritti del cittadino. Ma chi è l’homme distinto dal citoyen? Nessun altro fuorché il
membro della società borghese. Perché dunque il membro della società borghese diventa
un uomo, l’uomo semplicemente, è perché i suoi diritti sono chiamati diritti dell’uomo?
Come ci spieghiamo questo fatto? Certo in base al rapporto tra Stato politico e società
borghese, cioè in base alla natura dell’emancipazione (soltanto) politica.
(…) Nessuno dei cosiddetti diritti dell’uomo oltrepassa (…) l’uomo egoistico, l’uomo in
quanto membro della società civile, cioè l’individuo ripiegato su se stesso, sul suo
interesse privato e sul suo arbitrio privato e isolato dalla comunità. Ben lungi dall’essere
l’uomo intesi in essi come ente che appartiene alla specie, la stessa vita della specie, la
società, appare piuttosto come una cornice esterna agli individui, come limitazione della
loro indipendenza originaria. L’unico legame che li tiene insieme è la necessità naturale, il
bisogno e l’interesse privato, la conservazione della loro proprietà e della loro persona
egoistica.
K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844
Dalla critica dell’alienazione politica
alla critica dell’alienazione economica
L'operaio diventa tanto più povero quanto maggiore è la ricchezza
che produce, quanto più la sua produzione cresce di potenza e di
estensione. L'operaio diventa una merce tanto più vile quanto più
grande è la quantità di merce che produce. La svalorizzazione del
mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del
mondo delle cose. Il lavoro non produce soltanto merci; produce se
stesso e l'operaio come una merce, e proprio nella stessa
proporzione in cui produce in generale le merci…
K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844
Questo fatto non esprime altro che questo: l'oggetto che il lavoro produce, il prodotto del
lavoro, si contrappone ad esso come un essere estraneo, come una potenza indipendente
da colui che lo produce. Il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, è
diventato una cosa, è l'oggettivazione del lavoro. La realizzazione del lavoro è la sua
oggettivazione. Questa realizzazione del lavoro appare nello stadio dell'economia privata
come un annullamento dell'operaio, l'oggettivazione appare come perdita e asservimento
dell'oggetto, l'appropriazione come estraniazione, come alienazione.
La realizzazione del lavoro si presenta come annullamento in tal maniera che l'operaio
viene annullato sino a morire di fame. L'oggettivazione si presenta come perdita
dell'oggetto in siffatta guisa che l'operaio è derubato degli oggetti più necessari non solo
per la vita, ma anche per il lavoro. Già, il lavoro stesso diventa un oggetto, di cui egli
riesce a impadronirsi soltanto col più grande sforzo e con le più irregolari interruzioni.
L'appropriazione dell'oggetto si presenta come estraniazione in tale modo che quanti più
oggetti l'operaio produce, tanto meno egli ne può possedere e tanto più va a finire sotto la
signoria del suo prodotto, del capitale.
K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844
Tutte queste conseguenze sono implicite nella determinazione che l'operaio si viene a
trovare rispetto riprodotto del suo lavoro come rispetto ad un oggetto estraneo. Infatti,
partendo da questo presupposto è chiaro che: quanto più l'operaio si consuma nel
lavoro, tanto più potente diventa il mondo estraneo, oggettivo, che egli si crea dinanzi,
tanto più povero diventa egli stesso, e tanto meno il suo mondo interno gli appartiene.
Lo stesso accade nella religione. Quante più cose l'uomo trasferisce in Dio, tanto meno
egli ne ritiene in se stesso. L'operaio ripone la sua vita nell'oggetto; ma d'ora in poi la
sua vita non appartiene più a lui, ma all'oggetto. Quanto più grande è dunque questa
attività, tanto più l'operaio è privo di oggetto. Quello che è il prodotto del suo lavoro,
non è egli stesso. Quanto più grande è dunque questo prodotto, tanto più piccolo è egli
stesso. L'alienazione dell'operaio nel suo prodotto significa non solo che il suo lavoro
diventa un oggetto, qualcosa che esiste all' esterno, ma che esso esiste fuori di lui,
indipendente da lui, a lui estraneo, e diventa di fronte a lui una potenza per se stante;
significa che la vita che egli ha dato all'oggetto, gli si contrappone ostile ed estranea.
K. Marx, L’ideologia tedesca (1846)
La divisione del lavoro:
La divisione del lavoro offre anche il primo esempio del
fatto che fin tanto che gli uomini si trovano nella società
naturale, fin tanto che esiste, quindi, la scissione fra
interesse particolare e interesse comune, fin tanto che
l’attività, quindi, è divisa non volontariamente ma
naturalmente, l’azione propria dell’uomo diventa una
potenza a lui estranea, che lo sovrasta, che lo soggioga,
invece di essere da lui dominata.
K. Marx, L’ideologia tedesca (1846)
Cioè appena il lavoro comincia ad essere diviso ciascuno ha un
sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e
dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, pescatore, o pastore, o
critico, e tale deve restare se non vuol perdere i mezzi per vivere,
laddove nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera
di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a
piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal
modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani
quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la
sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien
voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né
critico.
K. Marx, L’ideologia tedesca (1846)Questo fissarsi dell’attività sociale, questo consolidarsi del nostro proprio
prodotto in un potere obiettivo che ci sovrasta, che cresce fino a sfuggire al
nostro controllo, che contraddice le nostre aspettative, che annienta i nostri
calcoli, è stato fino ad oggi uno dei momenti principali dello sviluppo
storico. Il potere sociale, cioè la forza produttiva moltiplicata che ha origine
attraverso la cooperazione dei diversi individui, determinata nella divisione
del lavoro, appare a questi individui, poiché la cooperazione stessa non è
volontaria ma naturale, non come il loro proprio potere unificato, ma come
una potenza estranea, posta al di fuori di essi, della quale essi non sanno
donde viene e dove va, che quindi non possono più dominare e che al
contrario segue una sua propria successione di fasi e di gradi di sviluppo la
quale è indipendente dal volere e dall’agire degli uomini e anzi dirige
questo volere e questo agire…
Marx, Il Capitale (1865)
Il feticcio della merce:
Di dove sorge dunque il carattere enigmatico del prodotto di lavoro
appena assume forma di merce? Evidentemente proprio da tale
forma. L’eguaglianza dei lavori umani riceve la forma reale
dell’eguale oggettività di valore dei prodotti del lavoro, la misura
del dispendio di forza-lavoro umana mediante la sua durata
temporale riceve la forma della grandezza di valore dei prodotti del
lavoro, infine i rapporti fra i produttori, nei quali si attuano quelle
determinazioni sociali dei loro lavori, ricevono la forma di un
rapporto sociale dei prodotti del lavoro.
Marx, Il Capitale (1865)
L’arcano della forma merce consiste dunque semplicemente
nel fatto che tale forma, come uno specchio, restituisce agli
uomini l’immagine dei caratteri sociali del loro proprio
lavoro, facendoli apparire come caratteri oggettivi dei
prodotti di quel lavoro, come proprietà sociali naturali di
quelle cose, e quindi restituisce anche l’immagine del
rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo,
facendolo apparire come un rapporto sociale fra oggetti
esistente al di fuori di essi produttori. Mediante questo quid
pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, cose
sensibilmente soprasensibili, cioè cose sociali.
Marx, Il Capitale (1865)
Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica
di un rapporto tra cose è soltanto il rapporto sociale
determinato che esiste fra gli uomini stessi. Quindi, per
trovare un’analogia, dobbiamo involarci nella regione
nebulosa del mondo religioso. Quivi, i prodotti del cervello
umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che
stanno in rapporto tra loro e in rapporto con gli uomini. Così,
nel mondo delle merci, fanno i prodotti della mano umano.
Questo io chiamo il feticismo che s’appiccica ai prodotti del
lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è
inseparabile dalla produzione delle merci (I, I, 4)
Marx, Il Capitale (1865)
In genere, la riflessione sulle forme della vita umana, e
quindi anche l’analisi scientifica di esse, prende una strada
opposta allo svolgimento reale. Comincia post festum e
quindi parte dai risultati belli e pronti del processo di
svolgimento. Le forme che danno ai prodotti del lavoro
l’impronta di merci, e quindi sono il presupposto della
circolazione delle merci, hanno già la solidità di forme
naturali della vita sociale, prima che gli uomini cerchino di
rendersi conto, non già del carattere storico di queste forme,
che per essi anzi sono ormai immutabili, ma del loro
contenuto (Vol. I, p. 107)
Manifesto del Partito comunista (1848):
La teoria delle classi:
La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi. Liberi e
schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni,
in breve, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e
condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con
una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi
in lotta.(…) La società civile moderna, sorta dal tramonto della società feudale, non ha
eliminato gli antagonismi fra le classi. Essa ha soltanto sostituito alle antiche, nuove
classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta. La nostra epoca, l'epoca
della borghesia, si distingue però dalle altre per aver semplificato gli antagonismi di
classe. L'intera società si va scindendo sempre più in due grandi campi nemici, in due
grandi classi direttamente contrapposte l'una all'altra: borghesia e proletariato
Manifesto del Partito comunista (1848):
La teoria delle classi:
Fra tutte le classi che oggi stanno di contro alla borghesia, il proletariato
soltanto è una classe realmente rivoluzionaria. Le altre classi decadono e
tramontano con la grande industria; il proletariato è il suo prodotto più
specifico. (…) Le condizioni di esistenza della vecchia società sono già
annullate nelle condizioni di esistenza del proletariato. Il proletario è senza
proprietà; il suo rapporto con moglie e figli non ha più nulla in comune con il
rapporto familiare borghese; il lavoro industriale moderno, il soggiogamento
moderno del capitale, identico in Inghilterra e in Francia, in America e in
Germania, lo ha spogliato di ogni carattere nazionale. Leggi, morale, religione
sono per lui altrettanti pregiudizi borghesi, dietro i quali si nascondono
altrettanti interessi borghesi.
Manifesto del Partito comunista (1848):
La teoria delle classi:
Tutte le classi che si sono finora conquistato il potere hanno cercato di garantire la
posizione di vita già acquisita, assoggettando l'intera società alle condizioni della loro
acquisizione. I proletari possono conquistarsi le forze produttive della società soltanto
abolendo il loro proprio sistema di appropriazione avuto sino a questo momento, e per
ciò stesso l'intero sistema di appropriazione che c'è stato finora. I proletari non hanno da
salvaguardare nulla di proprio, hanno da distruggere tutta la sicurezza privata e tutte le
assicurazioni private che ci sono state fin qui. Tutti i movimenti precedenti sono stati
movimenti di minoranze, o avvenuti nell'interesse di minoranze. Il movimento proletario
è il movimento indipendente della immensa maggioranza. Il proletariato, lo strato più
basso della società odierna, non può sollevarsi, non può drizzarsi, senza che salti per aria
l'intera soprastruttura degli strati che formano la società ufficiale.
Manifesto del Partito comunista (1848):
La teoria delle classi:
I comunisti lottano per raggiungere i fini e gli interessi
immediati della classe operaia, ma nel movimento
presente rappresentano in pari tempo l'avvenire del
movimento. (…) Il partito comunista non cessa
nemmeno un istante di preparare e sviluppare fra gli
operai una coscienza quanto più chiara è possibile
dell'antagonismo ostile fra borghesia e proletariato.
Per la critica dell’economia politica (1859):
Forze di produzione e rapporti di produzione:
Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti
determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di
produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro
forze produttive materiali. (…) A un dato punto del loro sviluppo, le forze
produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di
produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto
l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse.
Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in
loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il
cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente
tutta la gigantesca sovrastruttura.
Per la critica dell’economia politica (1859):
(…) Una formazione sociale non perisce finché non si siano
sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e
superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che
siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali
della loro esistenza. Ecco perché l’umanità non si propone se non
quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose
dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le
condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno
sono in formazione. A grandi linee, i modi di produzione asiatico,
antico, feudale e borghese moderno possono essere designati
come epoche che marcano il progresso della formazione
economica della società.
Marx, Il CapitaleIl vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso, è questo: che
il capitale e la sua autovalorizzazione appaiono come punto di partenza e
punto di arrivo, come motivo e scopo della produzione; che la produzione è
solo produzione per il capitale, e non al contrario i mezzi di produzione
sono dei semplici mezzi per una continua estensione del processo vitale per
la società dei produttori. I limiti nei quali possono unicamente muoversi la
conservazione e l’autovalorizzazione del valore-capitale, che si fonda
sull’espropriazione e l’impoverimento della grande massa dei produttori,
questi limiti si trovano dunque continuamente in conflitto con i metodi di
produzione a cui il capitale deve ricorrere per raggiungere il suo scopo, e
che perseguono l’accrescimento illimitato della produzione, la produzione
come fine a se stessa, lo sviluppo incondizionato delle forze produttive
sociali del lavoro.
Marx, Il Capitale
Il mezzo – lo sviluppo incondizionato delle forze
produttive sociali – viene permanentemente in conflitto
con il fine ristretto, la valorizzazione del capitale
esistente. Se il modo di produzione capitalistico è quindi
un mezzo storico per lo sviluppo della forza produttiva
materiale e la creazione di un corrispondente mercato
mondiale, è al tempo stesso la contraddizione costante
tra questo suo compito storico e i rapporti di produzione
sociali che gli corrispondono (Vol. III, p. 303).
Marx, Il Capitale
La legge di caduta tendenziale del saggio del profitto:
Dato che la massa di lavoro vivo impiegato diminuisce
costantemente in rapporto alla massa di lavoro oggettivato da essa
messo in movimento (cioè ai mezzi di produzione consumati
produttivamente) anche la parte di questo lavoro vivo che non è
pagato e si oggettiva in plusvalore, dovrà essere in proporzione
costantemente decrescente rispetto al valore del capitale
complessivo impiegato. Questo rapporto tra la massa del
plusvalore e il valore del capitale complessivo impiegato
costituisce però il saggio del profitto, che dovrà per conseguenza
diminuire costantemente (Vol. III, p. 261).
Il Capitale, I, III:
La crisi di sistema:Con la diminuzione costante del numero dei magnati del capitale che usurpano
e monopolizzano tutti i vantaggi di questo processo di trasformazione, cresce la
massa della miseria, della pressione, dell’asservimento, della degenerazione,
dello sfruttamento, ma cresce anche la ribellione della classe operaia che
sempre più s’ingrossa ed è disciplinata, unita e organizzata dallo stesso
meccanismo del processo di produzione capitalistico. Il monopolio del capitale
diventa un vincolo del modo di produzione, che è sbocciato insieme ad esso e
sotto di esso. La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione
del lavoro raggiungono un punto in cui diventano incompatibili col loro
involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato. Suona l’ultima ora della
proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati. (…) La
produzione capitalistica genera essa stessa, con l’ineluttibilità di un processo
naturale, la propria negazione. E’ la negazione della negazione.
K. Marx, L’ideologia tedesca:
Il comunismo per noi non è uno stato di
cose che debba essere instaurato, un ideale
al quale la realtà dovrà conformarsi.
Chiamiamo comunismo il movimento reale
che abolisce lo stato di cose presente. Le
condizioni di questo movimento risultano
dal presupposto ora esistente.