STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE Prof. Scuccimarra

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Lezione n. 23 II SEMESTRE A.A. 2018-2019 STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE Docente Prof. Scuccimarra

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Lezione n. 23

II SEMESTRE

A.A. 2018-2019

STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHEDocente Prof. Scuccimarra

Voltaire, Il secolo di Luigi XIV

Si è visto che una repubblica letteraria si era insensibilmente stabilita in Europa,

nonostante le guerre, e le diversità di religione. Tutte le scienze, tutte le arti

hanno così goduto di scambievoli aiuti; le accademie han creato tale repubblica.

La letteratura ha unito l’Italia colla Russia; gl’inglesi, i tedeschi, i francesi

andavano a studiare a Leida. Il celebre medico Bourhave veniva consultato a un

tempo e dal papa e dallo zar. I suoi migliori allievi attiravano allo stesso modo

gli stranieri, e son diventati in certa guisa i medici delle nazioni: i veri

scienziati, in ogni ramo del sapere, hanno stretto i legami di quella grande

società degli spiriti, dappertutto diffusa, e dappertutto indipendente. Tale

carteggio dura ancora, ed è una delle consolazioni dei mali che l’ambizione e la

politica procurano all’umanità

Voltaire, Dizionario filosofico

Il teista è un uomo fermamente convinto dell’esistenza di un Essere supremo

altrettanto buono che potente, che ha formato tutti gli esseri estesi, vegetanti,

senzienti e pensanti; che ne perpetua la specie, ne punisce senza crudeltà le colpe e

ne ricompensa con bontà le azioni virtuose. (…) Il teista non segue alcuna setta,

consapevole che tutte si contraddicono. La sua religione è la più antica e la più

diffusa di tutte, perché la semplice adorazione d’un Dio precedette tutti i sistemi del

mondo. Egli parla una lingua che tutti i popoli capiscono, mentre essi non

s’intendono affatto tra loro. Ha fratelli da Pechino sino alla Caienna e considera

come suoi fratelli tutti gli uomini saggi. Stima che la religione non consista né nelle

opinioni d’una metafisica inintelligibile né in vani apparati, ma nell’adorazione e

nella giustizia. Fare il bene, ecco il suo culto; esser sottomesso a Dio, ecco la sua

dottrina. Il musulmano gli grida: «Guai a te se non farai il pellegrinaggio alla

Mecca!»; e il recolletto lo ammonisce: «Sventura a te se non ti rechi alla Madonna di

Loreto!». Egli ride della Mecca e di Loreto; ma soccorre il misero e difende

l’oppresso.

Encyclopédie, Voce Humanité

L’umanità è un sentimento di benevolenza

per tutti gli uomini che si accende solo in

anime grandi e sensibili. Questo nobile e

sublime entusiasmo soffre per le pene degli

altri e per il bisogno di alleviarle; vorrebbe

percorrere l’universo per abolire la

schiavitù, la superstizione, il vizio e

l’infelicità

P.T. d’Holbach, Systeme social ou principes naturels

de la morale et de la politique

L’umanità, questa virtù distintiva dell’uomo così sovente calpestata da esseri che si

dicono ragionevoli, è una branca dell’equità. Essere umano significa essere disposti a

rendere giustizia, a prestare soccorso, a fare del bene indistintamente a tutti gli individui

della specie di cui facciamo parte. Questa disposizione così lodevole è fondata sulla

ragione, l’esperienza, la riflessione che ci dimostrano che, come uomini, come esseri

sensibili e deboli che hanno bisogno ad ogni istante di soccorso, dobbiamo prestare il

nostro a tutti quelli che ne hanno bisogno, se vogliamo essere in diritto di esigere quello

dei nostri simili. È sufficiente essere uomini, per avere dei diritti sull’uomo. L’umanità è

un nodo fatto per legare invisibilmente il cittadino di Parigi a quello di Pechino. È un

patto che impegna egualmente tutti i membri della grande famiglia, di cui i differenti

popoli del mondo non sono che gli individui sparsi. Questo patto è la salvaguardia della

nostra razza; esso mette ciascuno di noi in diritto di reclamare la giustizia, la pietà, i

benefici di ogni essere sensibile, di qualunque paese, di qualunque religione, di

qualunque condizione egli sia. La guerra, la crudeltà, le conquiste, l’intolleranza, la

durezza sono cose contrarie all’umanità.

C. S. de Montesquieu, Pensieri

Se io sapessi d’una cosa utile alla mia

nazione che fosse dannosa ad un’altra

non la proporrei al mio principe, perché

io sono uomo prima d’essere Francese,

o, meglio, perché sono necessariamente

uomo, e Francese solo per caso…

C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi

Ho dapprima studiato gli uomini e sono giunto alla

convinzione che, in quell’infinita diversità di leggi e di

costumi, essi non siano guidati esclusivamente dalle loro

fantasie. Ho posto dei principi e ho veduto i casi

particolari conformarvisi quasi spontaneamente e li ho

veduti operanti nelle storie di tutte le nazioni; ho

compreso infine come ogni legge particolare sia legata a

un’altra o dipendente da una legge più generale

C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi

Parecchie cose governano gli uomini: il clima, la

religione, le leggi, le massime del governo, gli

esempi delle cose passate, i costumi e le maniere.

Da tutto questo risulta uno spirito generale. A

seconda che in ogni paese una di queste cause

agisce con maggior forza, le altre fanno sentire in

proporzione una forza minore…

C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi

La legge in generale è la ragione umana, in quanto

governa tutti i popoli della terra e le leggi politiche e

civili di ogni nazione non debbono essere che i casi

particolari in cui questa ragione umana viene applicata.

Esse debbono essere talmente adatte al popolo per cui

sono state fatte, che solo eccezionalmente le leggi di una

nazione possono convenire a un’altra; e debbono

conformarsi alla natura e al principio del governo

stabilite o che si deve stabilire…

C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi

Esse debbono essere corrispondenti alla natura fisica

del paese; al clima gelido, torrido o temperato; alla

qualità del terreno, alla sua situazione ed estensione;

al genere di vita dei popoli, agricoli, cacciatori o

pastori, debbono esser conformi al grado di libertà

che la costituzione concede; alla religione degli

abitanti, alle loro inclinazioni, alle loro ricchezze, al

loro numero, al loro commercio, ai loro costumi, ai

loro modi di vita.

C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi

Infine, esse hanno rapporti reciproci; ne hanno

con la loro origine, con il fine del legislatore, con

l’ordine di cose su cui si fondano. Bisogna

dunque considerarle sotto tutti questi punti di

vista. Tale è lo scopo che perseguo in questa mia

opera. Esaminerò tutti questi rapporti: essi

costituiscono nel loro insieme ciò che viene

chiamato lo spirito delle leggi.

C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi

La teoria delle forme di governo:

Repubblica

Democrazia Aristocrazia

Monarchia

Dispotismo

C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi

Il governo repubblicano è quello in cui tutto il

popolo, o soltanto una parte di esso, detiene il

potere sovrano; il monarchico, quello in cui

governa uno solo, ma per mezzo di leggi fisse

e stabilite; mentre nel dispotico uno solo,

senza legge e senza regola, trascina tutto con

la sua volontà e i suoi capricci. Ecco quello

che io chiamo la natura di ogni governo…

C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi

Fra la natura del governo e il suo

principio c’è questa differenza, che la sua

natura è ciò che lo fa essere quello che è,

e il suo principio ciò che lo fa agire. L’una

è la sua struttura particolare, e l’altro le

passioni umane che lo fanno muovere.

C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi

Forma di governo Principio

Democrazia Virtù

Aristocrazia Moderazione

Monarchia Onore

Dispotismo Paura

C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi

Non ci vuole molta probità perché un governo monarchico

o un governo dispotico si mantenga o si sostenga. La forza

delle leggi nell’uno, il braccio del principe sempre alzato

nell’altro, regolano e tengono a freno tutto. Ma in uno stato

popolare ci vuole una molla in più che è la VIRTU’.

(…) Gli uomini politici greci ,che vivevano in un governo

popolare, non riconoscevano altra forza che potesse

sostenerli, se non quella della Virtù. Quelli di oggi non ci

parlano che di manifatture, di commercio, di finanze, di

ricchezze e perfino di lusso.

C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi

Quando tale virtù cessa, l’ambizione entra nei cuori che

possono riceverla, e in tutti entra l’avarizia. I desideri

cambiano oggetto; quello che si amava, non lo si ama

più; si era liberi con le leggi, si vuol essere liberi contro

di esse; ogni cittadino è come uno schiavo fuggito dalla

casa del padrone. (…) Un tempo i beni dei privati

formavano il tesoro pubblico; ma ora il tesoro pubblico

diventa il patrimonio dei privati. La repubblica è un

guscio vuoto; e la sua forza non è più che il potere di

alcuni cittadini e la licenza di tutti…

C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi

Il governo aristocratico ha di per sé una certa forza che

la democrazia non ha. I nobili vi formano un corpo che,

per la sua prerogativa e il suo interesse privato, esprime

il popolo: basta che vi siano delle leggi, perché vengano

messe in esecuzione a tale scopo.

Ma per quanto questo corpo è altrettanto facile reprimere

gli altri, quanto è difficile reprimere se stesso. La natura

di questa costituzione è tale, che sembra mettere le stesse

persone sotto la potestà della legge , e insieme sottrarle

ad essa.

C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi

Ora un corpo siffatto può reprimere se stesso in due

modi soltanto: mediante una grande virtù, che faccia

sì che i nobili si trovino in qualche modo uguali al

popolo, il che può formare una grande repubblica; o

mediante una virtù minore, cioè una certa

moderazione, che rende i nobili perlomeno uguali a

se stessi, il che fa la loro conservazione.

L’anima di questi governi è dunque la

moderazione…

C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi

Il governo monarchico presuppone (…) delle

preminenze, dei ranghi e perfino una nobiltà

originaria. La natura dell’onore è di richiedere

preferenze e distinzioni; dunque, per la cosa stessa, è

al suo posto in questo governo.

L’ambizione è perniciosa in una repubblica. Produce

buoni effetti nella monarchia; dà la vita a questo

governo; e offre questo vantaggio, che in esso non è

pericolosa perché può esservi continuamente repressa.

C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi

Si direbbe che avvenga come nel sistema dell’universo, dove una

forza allontana senza posa dal centro tutti i corpi e una forza di

gravità ve li riporta. L’onore fa muovere tutte le parti del corpo

politico, le leggi con la sua azione stessa, e accade che ognuno va

verso il bene comune, credendo di andare verso i propri interessi

particolari.

E’ vero che, da un punto di vista filosofico, è un falso onore quello

che guida tutte le parti dello Stato; ma questo falso onore è

altrettanto utile al pubblico lo sarebbe quello vero ai privati che

potessero averlo. E non è già molto obbligare gli uomini a

compiere le azioni difficili, e che richiedono forza, senza altra

ricompensa che la risonanza di quelle azioni?

C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi

Come in una repubblica ci vuole la virtù, in

una monarchia l’onore, così in uno stato

dispotico ci vuole la PAURA: quanto alla

virtù, non vi è necessaria, e l’onore vi

sarebbe pericoloso

C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi

E’ vero che nelle democrazie, il popolo sembra fare ciò

che vuole: ma la libertà politica non consiste affatto nel

fare ciò che si vuole. In uno Stato, cioè in una società dove

vi sono delle leggi, la libertà può solo consistere nel fare

ciò che si deve volere, e nel non essere costretti a fare ciò

che non si deve volere. Occorre avere ben presente che

cosa sia l’indipendenza e che cosa sia la libertà. La libertà

è il diritto di fare tutto ciò che le leggi permettono: infatti,

se un cittadino potesse fare tutto ciò che esse proibiscono,

non avrebbe più libertà, poiché anche gli altri

acquisterebbero un tale potere…

C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi

La libertà politica, in un cittadino, consiste in

quella tranquillità di spirito che proviene

dall’opinione nutrita da ciascuno circa la

propria sicurezza; e perché si abbia questa

libertà, occorre che il governo sia tale che un

cittadino non debba temere un altro cittadino.

C.-L. Montesquieu, Spirito delle Leggi

Un’esperienza di secoli mostra come qualsiasi uomo

che si trovi ad avere il potere, sia portato ad

abusarne, finché non gli vengano posti dei limiti. Chi

lo direbbe! Persino la virtù ha bisogno di limiti:

perché non si possa abusare del potere, bisogna che,

per la disposizione delle cose, il potere argini il

potere. Una costituzione può essere tale che nessuno

sia costretto a fare le cose a cui la legge non lo obbliga

e a non fare quello che la legge permette…

Lezione n. 24

II SEMESTRE

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STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHEDocente Prof. Scuccimarra

J.-J. Rousseau, Sull’origine della

disuguaglianza tra gli uomini

Le caratteristiche dell’uomo naturale:

1) Amor di sé, ovvero un impulso costante a

preservare la propria vita;

2) Pietà, ovvero la compassione per le

sofferenze degli altri membri della stessa

specie

J.-J. Rousseau, Sull’origine della

disuguaglianza tra gli uomini

Le caratteristiche dell’uomo naturale:

3) Perfettibilità, ovvero la capacità non solo

di cambiare le sue qualità essenziale, ma

anche di migliorarle;

J.-J. Rousseau, Sull’origine della

disuguaglianza tra gli uomini

Le caratteristiche dell’uomo civilizzato:

Amor proprio, ovvero una preoccupazione

per se stesso, mediata dal confronto con gli

altri;

J.-J. Rousseau, Sull’origine della

disuguaglianza tra gli uomini

Mettendo (…) da parte tutti i libri scientifici che ci insegnano solo a

vedere gli uomini come si son fatti, e riflettendo sulle prime più

semplici operazioni dell’anima umana, io credo di scorgervi due principi

anteriori alla ragione: di questi, uno suscita in noi vivo interesse per il

nostro benessere e la nostra conservazione, l’altro ci ispira una

ripugnanza naturale a veder morire o soffrire ogni essere sensibile e in

particolare i nostri simili. Mi pare che dal concorso e dalla

combinazione che il nostro spirito può fare di questi due principi senza

dover ricorrere a quello della socievolezza scaturiscano tutte le norme

del diritto naturale; norme che in seguito la ragione è costretta a

ristabilire su altri fondamenti, quando per i suoi successivi sviluppi, è

giunta al risultato di soffocare la natura… (Prefazione)

J.-J. Rousseau, Sull’origine della

disuguaglianza tra gli uomini

(…) Per decreto di una provvidenza molto saggia le

facoltà che [l’uomo] aveva in potenza dovevano

svilupparsi solo con le occasioni di esercitarle, perché

non lo gravassero anzitempo di un peso superfluo per

divenire inutili e tardive al momento del bisogno. Nel

solo istinto aveva tutto ciò che gli occorreva per vivere

nello stato di natura; in una ragione coltivata ha solo ciò

che gli occorre per vivere in società…

J.-J. Rousseau, Sull’origine della

disuguaglianza tra gli uomini

Sembra a prima vista che gli uomini, in questo stato, non

avendo tra loro rapporti morali di nessuna specie o

doveri riconosciuti, non potessero essere né buoni né

cattivi, né avere vizi o virtù a meno di assumere questi

termini in senso fisico chiamando vizi nell’individuo le

qualità che possono ostacolare la sua conservazione e

virtù quelle che possono contribuirvi...

J.-J. Rousseau, Sull’origine della

disuguaglianza tra gli uomini

(…) Soprattutto non finiamo col concludere con Hobbes che l’uomo, non avendo alcuna

idea di bontà, sia naturalmente cattivo, che sia vizioso perché non conosce la virtù, che

rifiuti sempre ai suoi simili dei servizi che non crede di dover loro, e che ritenendo a

ragione di aver diritto alle cose di cui ha bisogno, immagini follemente di essere il solo

padrone di tutto l’universo. Hobbes ha visto molto bene il difetto di tutte le definizioni

moderne del diritto naturale, ma le conseguenze che ricava dalla sua definizione

dimostrano che le dà un senso non meno falso di quello delle altre. Ragionando sui

principi da lui fissati questo autore doveva dire che lo stato di natura, essendo quello in

cui la cura della nostra conservazione è meno suscettibile di recar pregiudizio alla

conservazione altrui, era, di conseguenza, il più adatto alla pace, il più conveniente al

genere umano. Mentre dice precisamente il contrario per avere introdotto

inopportunamente nella cura della conservazione dell’uomo selvaggio il bisogno di

soddisfare una molteplicità di passioni che sono opera della società e che hanno reso

necessarie le leggi.

J.-J. Rousseau, Sull’origine della

disuguaglianza tra gli uomini

(…) Ma c’è un altro principio di cui Hobbes non si è accorto, un

principio che dato all’uomo per raddolcire in certe circostanze la ferocia

dell’amor proprio, o prima che questo amore nascesse, l’istinto di

conservazione, tempesta l’ardore che nutre per il suo benessere con

un’innata ripugnanza a veder soffrire il proprio simile. Non ho alcun

timore di cadere in contraddizione accordando all’uomo la sola virtù

naturale che sia stato costretto a riconoscergli il detrattore più spinto

delle virtù umane [Mandeville]. Parlo della pietà, disposizione che ben

si adatta a esseri così deboli e soggetti a tanti mali come siamo noi; virtù

tanto più universale ed utile all’uomo in quanto precede in lui qualunque

riflessione; così naturale che anche le bestie ne hanno talvolta segni

tangibili…

J.-J. Rousseau, Sull’origine della

disuguaglianza tra gli uomini

(…) E’ assolutamente certo che la pietà è un sentimento naturale, volto a

moderare in ciascun individuo l’attività dell’amor di sé contribuendo così alla

mutua conservazione dell’intera specie. La pietà ci porta a soccorrere senza

riflettere quelli che vediamo soffrire; la pietà tiene luogo, nello stato di natura,

di leggi, di costumi e di virtù, con questo vantaggio: che nessuno è tentato di

disobbedire alla sua dolce voce; la pietà distoglierà ogni selvaggio robusto, che

appena creda di poter trovare altrove il proprio cibo, dal portar via a un debole

fanciullo o a un vecchio malato quello che si è procurato con fatica; è la pietà

che, invece della massima sublime di giustizia razionale, fai agli altri ciò che

vuoi sia fatto a te, ispira a tutti gli uomini quest’altra massima di bontà naturale,

molto meno perfetta, ma forse più utile della precedente: fai il tuo bene col

minor male possibile per gli altri… (Pt. I).

J.-J. Rousseau, Sull’origine della

disuguaglianza tra gli uomini

(…) Finché gli uomini si contentarono delle loro capanne rustiche, finché si

limitarono a cucire le loro vesti di pelli con spine di vegetali o con lische di pesce, a

ornarsi di piume e conchiglie, a dipingersi il corpo con diversi colori, a perfezionare

o abbellire i loro archi e le loro frecce, a tagliare con pietre aguzze canotti da pesca

o qualche rozzo strumento musicale; in una parola, finché si dedicarono a lavori che

uno poteva fare da solo, finché praticarono arti per cui non si richiedeva il concorso

di più mani, vissero liberi, sani, buoni, felici quanto potevano esserlo per la loro

natura, continuando a godere tra loro le gioie dei rapporti indipendenti; ma nel

momento stesso in cui un uomo ebbe bisogno dell’aiuto di un altro, da quando ci si

accorse che era utile a uno solo aver provviste per due, l’uguaglianza scomparve, fu

introdotta la proprietà, il lavoro divenne necessario, e le vaste foreste si

trasformarono in campagne ridenti che dovevano essere bagnate dal sudore degli

uomini, e dove presto si videro germogliare e crescere con le messi la schiavitù e la

miseria.… (Pt. I).

J.-J. Rousseau, Sull’origine della

disuguaglianza tra gli uomini

(…) Questa grande rivoluzione nacque dall’invenzione di due arti:

la metallurgia e l’agricoltura. (…) Da quando ci fu bisogno di

uomini per fondere e forgiare il ferro, ci vollero altri uomini per

dar da mangiare a questi. Più il numero degli operai si veniva a

moltiplicare, mentre erano le mani impiegate a fornire il

sostentamento comune, senza che ci fossero meno bocche a

consumarlo; e poiché gli uni avevano bisogno di derrate in cambio

del loro ferro, gi altri scoprirono alla fine il segreto di impiegare il

ferro per moltiplicare le derrate. Ne nacquero da un lato l’aratura e

l’agricoltura, dall’altro l’arte di lavorare i metalli e di

moltiplicarne gli usi… (Parte II)).

J.-J. Rousseau, Sull’origine della

disuguaglianza tra gli uomini

Il primo che, avendo cinto un terreno, pensò di

affermare: questo è mio, e trovò persone abbastanza

semplici per crederlo, fu il vero fondatore della società

civile. Quanti delitti, guerre, omicidi, quante miserie ed

orrori non avrebbe risparmiato al genere umano colui

che, strappando i pioli e colmando il fossato, avesse

gridato ai suoi simili: 'Guardatevi dall'ascoltare questo

impostore; siete perduti se dimenticate che i frutti sono

di tutti, e che la terra non è di nessuno!’…

J.-J. Rousseau, Sull’origine della

disuguaglianza tra gli uomini

Giunte le cose a questo punto, è facile immaginare il resto. (…) Ecco tutte

le nostre facoltà sviluppate, la memoria e l’immaginazione in gioco, l’amor

proprio risvegliato, la ragione resa attiva e lo spirito portato quasi al

culmine della perfezione che può attingere. Ecco tutte le qualità naturali in

azione, la posizione sociale e la sorte di ogni uomo stabilite non solo in

base alla consistenza dei beni e alla possibilità di servire o di nuocere, ma

anche allo spirito, alla bellezza, alla forza o alla destrezza, al merito o ai

talenti, ed essendo queste qualità le sole che potevano attirare la

considerazione, bisognò ben presto possederle o simularle. Bisognò, nel

proprio interesse, mostrarsi diversi da ciò che si era in realtà. Essere e

parere diventarono due cose del tutto diverse, e dalla distinzione

scaturirono il fasto imponente, l’astuzia ingannatrice e tutti i vizi che ne

formano il corteo….

J.-J. Rousseau, Sull’origine della

disuguaglianza tra gli uomini

D’altro lato, ecco l’uomo, che prima era libero e indipendente,

assoggettato, per così dire, a tutta la natura da una quantità di nuovi

bisogni, e soprattutto assoggettato ai suoi simili di cui diventa in certo

senso schiavo, perfino quando ne diventa il padrone: ricco ha bisogno

dei loro servizi, povero ha bisogno del loro aiuto, e la mediocrità non lo

mette in grado di non farne conto. Bisogna dunque che cerchi senza

posa di cointeressarli alla sua sorte, facendo in modo che, di fatto o in

apparenza, trovino il loro utile a lavorare per il suo utile; ciò lo rende

astuto e ipocrita con gli uni, imperioso e duro con gli altri e lo costringe

ad ingannare tutti quelli di cui ha bisogno, quando non può farli temere

e quando non trova il proprio tornaconto a servirli utilmente...

J.-J. Rousseau, Sull’origine della

disuguaglianza tra gli uomini

Infine l’ambizione che lo divora, l’assillo di elevare la propria

relativa fortuna, non tanto per un vero bisogno quanto per

collocarsi al di sopra degli altri, ispira a tutti gli uomini una

cupa inclinazione a nuocersi a vicenda, una segreta gelosia,

tanto più pericolosa in quanto, per fare il suo colpo con più

sicurezza si maschera spesso da benevolenza; in una parola,

concorrenza e rivalità da un lato, conflitto di interessi dall’altro,

e sempre il desiderio nascosto di fare il proprio interesse a

spese degli altri. Tutti questi mali sono il primo frutto della

proprietà e il corteo inseparabile della diseguaglianza

nascente...

J.-J. Rousseau, Sull’origine della

disuguaglianza tra gli uomini(…) Quando i beni ereditari si furono accresciuti in numero ed estensione fino al

punto da coprire l’intero suolo e da essere tutti confinanti tra loro, gli uni non

poterono più ingrandirsi se non a spese degli altri, e quelli che non erano del

numero perché debolezza o indolenza avevano impedito che, a loro volta,

conquistassero una sostanza, diventati poveri senza aver perduto nulla in quanto,

mentre tutto mutava intorno a loro, loro soli non erano mutati, furono costretti a

ricevere o a strappare il loro sostentamento dalle mani dei ricchi; di qui

cominciarono a nascere, a seconda dei diversi caratteri degli uni e degli altri, la

dominazione e la schiavitù, o la violenza e le rapine. I ricchi dal canto loro, avevano

appena gustato il piacere di dominare quando, affrettandosi a disprezzare tutti gli

altri e servendosi degli antichi schiavi per sottometterne di nuovi, pensarono solo ad

assoggettare i loro vicini e ad asservirli; come quei lupi affamati che, se hanno

assaggiato una volta la carne umana, rifiutano ogni altro nutrimento e vogliono solo

divorare uomini..

J.-J. Rousseau, Sull’origine della

disuguaglianza tra gli uomini

(…) A questo modo, i più potenti o i più miserabili considerando

la loro forza o i loro bisogni come una specie di diritto ai beni

altrui, diritto equivalente, secondo loro, al diritto di proprietà, la

rottura dell’uguaglianza fu seguita dal più spaventoso disordine;

così, le usurpazioni dei ricchi, il brigantaggio dei poveri, le

passioni sfrenate di tutti, soffocando la pietà naturale e la voce

ancora debole della giustizia, resero gli uomini avari, ambiziosi e

malvagi. Si levò tra il diritto del più forte e quello del primo

occupante un perpetuo conflitto che andava sempre a finire in

duelli e uccisioni. La società in sul nascere fece posto al più

orribile stato di guerra...

J.-J. Rousseau, Sull’origine della

disuguaglianza tra gli uomini

Privo di ragioni valide per giustificarsi e di forze sufficienti per

difendersi; capace di schiacciare agevolemente un singolo, ma

schiacciato lui stesso da torme di banditi; solo contro tutti, non

potendo unirsi, per via delle scambievoli gelosie, con i suoi pari

contro dei nemici uniti dalla speranza del comune saccheggio, il

ricco, incalzato dalla necessità, finì con l’ideare il progetto più

avveduto che mai sia venuto in mente all’uomo; di usare cioè a

proprio vantaggio le forze stesse che lo attaccavano, di fare dei

propri avversari i propri difensori, di ispirare loro altre massime e

di dar loro altre istituzioni che gli fossero favorevoli quanto il

diritto naturale gli era contrario..

J.-J. Rousseau, Sull’origine della

disuguaglianza tra gli uomini

In questa prospettiva, dopo aver esposto ai suoi vicini l’orrore di una situazione

che li armava tutti gli uni contro gli altri, che rendeva i loro possessi altrettanto

onerosi dei loro bisogni, dove nessuna condizione, né povera né ricca, offriva

sicurezza, inventò facilmente speciose ragioni per trarli ai suoi scopi.

«Uniamoci, disse, per salvaguardare i deboli dall’oppressione, tenere a freno gli

ambiziosi e garantire a ciascuno il possesso di quanto gli appartiene; stabiliamo

degli ordinamenti di giustizia e di pace a cui tutti, nessuno eccettuato, debbano

conformarsi, e che riparino in qualche modo i capricci della fortuna

sottomettendo senza distinzione il potente e il debole a doveri scambievoli. In

una parola, invece di volgere le nostre forze contro noi stessi, concentriamole in

un potere supremo che ci governi con leggi sagge, proteggendo e difendendo

tutti i membri dell’associazione, respingendo i comuni nemici e mantenendoci

in un’eterna concordia».

J.-J. Rousseau, Sull’origine della

disuguaglianza tra gli uominiCi volle molto meno dell'equivalente di questo discorso per trascinar

uomini rozzi, facili a sedurre, che d'altra parte avevan troppi affari da

sbrogliar fra loro per poter fare a meno d'arbitri, e troppa avarizia ed

ambizione per poter a lungo fare a meno di padroni. Tutti corsero

incontro alle loro catene, credendo assicurarsi la libertà: perché, avendo

abbastanza ragione per sentir i vantaggi d'una costituzione politica, non

avevano abbastanza esperienza per prevederne i pericoli...Tale fu o

dovette essere l'origine della società e delle leggi, che diedero nuove

pastoie al debole e nuove forze al ricco, distrussero senza scampo la

libertà naturale, fissarono per sempre la legge della proprietà e della

disuguaglianza, d'una accorta usurpazione fecero un diritto irrevocabile,

e, per il vantaggio di qualche ambizioso, assoggettarono ormai tutto il

genere umano al lavoro, alla servitù e alla miseria.

J.-J. Rousseau, Sull’origine della

disuguaglianza tra gli uominiE' qui l'ultimo termine della disuguaglianza, e il punto

estremo che chiude il circolo, e tocca il punto da cui siamo

partiti: qui tutti gli individui tornano uguali, perché non son

più nulla, e non avendo più i sudditi altra legge che la

volontà del padrone, né il padrone altra regola che le sue

passioni, le nozioni del bene e i principi della giustizia

svaniscono di nuovo: qui tutto ti riporta alla sola legge del

più forte, e in conseguenza a un nuovo stato di natura,

differente da quello da cui abbiamo preso le mosse, in quanto

quello era lo stato di natura nella sua purezza, e quest'ultimo

è il prodotto di un eccesso di corruzione

Lezione n. 25

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J.-J. Rousseau, Il contratto sociale

Chi affronta l’impresa di dare istituzioni a un popolo

deve, per così dire, sentirsi in grado di cambiare la

natura umana; di trasformare ogni individuo, che per se

stesso è un tutto perfetto e solitario, in una parte di un

tutto più grande da cui l’individuo riceve, in qualche

modo, la vita e l’essere; di alterare la costituzione

dell’uomo per rafforzarla; di sostituire un’esistenza

parziale e morale all’esistenza fisica e indipendente che

tutti abbiamo ricevuto dalla natura.

J.-J. Rousseau, Il contratto sociale

…Trovare una forma di associazione

(association) che protegga e difenda con tutta la

forza comune la persona e i beni di ciascun

associato, mediante la quale ognuno unendosi a

tutti non obbedisca tuttavia che a se stesso e resti

libero come prima.

J.-J. Rousseau, Il contratto sociale

Queste clausole, bene intese, si riducono tutte a

una sola: cioè l'alienazione totale di ciascun

associato, con tutti i suoi diritti, a tutta la

comunità; perché, in primo luogo, se ciascuno si

dà tutto intero, la condizione è uguale per tutti; e

se la condizione è uguale per tutti, nessuno ha

interesse a renderla onerosa per gli altri.

J.-J. Rousseau, Il contratto sociale

Di più, facendosi l'alienazione senza riserve, l'unione è

perfetta per quanto può essere, e nessun associato ha più

niente da rivendicare; perché, se restasse qualche diritto

ai singoli, non essendoci alcun superiore comune, che

potesse pronunciarsi fra loro e il pubblico, ciascuno,

essendo su qualche punto il proprio giudice,

pretenderebbe ben presto di esser tale su tutti; sicché lo

stato di natura persisterebbe, e l'occasione diverrebbe

necessariamente tirannica o vana.

J.-J. Rousseau, Il contratto sociale

Infine ciascuno, dandosi a tutti, non si dà a

nessuno; e siccome non c'è associato, sul quale

non si acquisti lo stesso diritto che gli si cede su

noi stessi, si guadagna l'equivalente intero di ciò

che si perde, e più forza per conservare ciò che si

ha.

J.-J. Rousseau, Il contratto sociale

Ciascuno di noi mette in comune la sua

persona e tutto il suo potere sotto la suprema

direzione della volontà generale; e noi,

come corpo, riceviamo ciascun membro

come parte indivisibile del tutto.

J.-J. Rousseau, Il contratto sociale

Immediatamente, in cambio della persona privata di ciascun

contraente, quest'atto di associazione produce un corpo

morale e collettivo, composto di tanti membri quanti voti ha

l'assemblea; il quale riceve da questo stesso atto la sua unità,

il suo io comune, la sua vita e la sua volontà. Questa persona

pubblica, che si forma così dall'unione di tutte le altre,

prendeva altra volta il nome di città e prende ora quello di

repubblica o di corpo politico, il quale è chiamato dai suoi

membri Stato, in quanto è passivo, sovrano in quanto è attivo,

potenza nei confronti coi suoi simili

J.-J. Rousseau, Il contratto socialeIn realtà ogni individuo può, come uomo, avere una volontà

particolare contraria o dissimile dalla volontà generale, che egli ha

come cittadino; il suo interesse privato può parlargli in modo del tutto

diverso dall'interesse comune; la sua esistenza assoluta, e

naturalmente indipendente, può fargli considerare ciò che deve alla

causa comune, come una contribuzione gratuita, la cui perdita

sarebbe meno dannosa agli altri, di quanto il pagamento ne sia

gravoso a lui; e considerando la persona morale, che costituisce lo

Stato come un emte di ragione, poiché questo non è un uomo, egli

godrebbe dei diritti di cittadino senza voler compiere i doveri di

suddito; ingiustizia, il cui progresso cagionerebbe la rovina del corpo

politico.

J.-J. Rousseau, Il contratto socialeAffinché dunque il patto sociale non sia una vana formula, esso

deve racchiudere tacitamente questo impegno, il quale solo può

dar forza agli altri: che chiunque rifiuterà di obbedire alla

volontà generale, vi sarà costretto da tutto il corpo; ciò non

significa altro se non che lo si costringerà ad essere libero;

perché tale è la condizione che dando ogni cittadino alla patria,

lo garantisce da ogni dipendenza personale; condizione che

forma il meccanismo e il funzionamento della macchina

politica, che sola rende legittime le obbligazioni civili, le quali

senza di ciò sarebbero assurde, tiranniche, e soggette ai più

enormi abusi.

J.-J. Rousseau, Il contratto sociale

Quando tutto il popolo delibera su tutto il popolo,

esso non considera che se stesso; e se una

relazione allora si costituisce, è dell'oggetto

intero, considerato sotto un certo aspetto, con

l'oggetto intero, considerato sotto un altro aspetto,

senza alcuna divisione del tutto. Allora l'oggetto

su cui si delibera è generale, come la volontà

deliberante. Quest'atto io chiamo una legge.

J.-J. Rousseau, Il contratto sociale

Dico dunque che la sovranità, non essendo che l'esercizio della

volontà generale, non può mai alienarsi, e che il sovrano, che non

è se non un ente collettivo, non può essere rappresentato che da

se stesso; può bensì trasmettersi il potere, ma non la volontà.

Infatti, se non è impossibile che una volontà privata si accordi su

qualche punto con la volontà generale, è impossibile almeno che

quest'accordo sia durevole e costante; perché la volontà singola

tende di sua natura alle preferenze, e la volontà generale

all'uguaglianza. E' più impossibile ancora che ci sia un garante di

tale accordo, quando pure sarebbe necessario che sempre

esistesse...

J.-J. Rousseau, Il contratto sociale

Per la stessa ragione che la sovranità è

inalienabile, essa è indivisibile; perché o la

volontà è generale o non è tale; essa o è quella

del corpo popolare o solo d'una parte. Nel primo

caso questa volontà dichiarata è un atto di

sovranità e fa legge; nel secondo non è che una

volontà particolare...

J.-J. Rousseau, Il contratto sociale

La sovranità non può essere rappresentata, per la ragione

stessa che non può essere alienata; essa consiste

essenzialmente nella volontà generale, e la volontà non

si rappresenta; o è se stessa, ovvero è un'altra non c'è

via di mezzo. I deputati del popolo non sono dunque, né

possono essere i suoi rappresentanti; non sono che i suoi

commissari: non possono concludere nulla in modo

definitivo. Ogni legge che il popolo in persona non

abbia ratificata, è nulla; non è una legge.

J.-J. Rousseau, Il contratto sociale

Credo di poter fissare come principio incontestabile che

solo la volontà generale può dirigere le forze dello Stato

secondo il fine della sua istituzione che è il bene

comune…

Ora, poiché la volontà tende sempre al bene dell’essere

che vuole, e la volontà particolare ha sempre per oggetto

l’interesse privato, mentre la volontà generale si propone

l’interesse comune, ne consegue che solo quest’ultima è,

o deve essere, il vero motore del corpo sociale.

J.-J. Rousseau, Il contratto sociale

Governo =

un corpo intermediario istituito tra i sudditi e il

corpo sovrano per la loro reciproca

corrispondenza, incaricato dell’esecuzione delle

leggi e del mantenimento della libertà sia civile

che politica.

J.-J. Rousseau, Il contratto sociale

Se il sovrano vuol governare, o se il magistrato

vuol dare leggi, o se i sudditi rifiutano

l’obbedienza, alla regola succede il disordine

(désordre), l’azione della forza e quella della

volontà non si accordano più, e lo Stato

dissolvendosi va così a finire nel dispotismo o

nell’anarchia .

J.-J. Rousseau, Il contratto sociale

L’ordine migliore e il più naturale si ha quando i più

saggi governano la moltitudine, purché si abbia la

certezza che la governeranno per il suo vantaggio e non

per il loro.

(…) Non è bene che chi fa le leggi le esegua, né che il

corpo del popolo distolga la sua attenzione dalle vedute

generali per volgerla agli oggetti particolari.

J.-J. Rousseau, Il contratto sociale

Se ci fosse un popolo di dei si governerebbe

democraticamente.

Un governo tanto perfetto non conviene agli

uomini.

J.-J. Rousseau, Discorso

sull’economia politica

Non basta dire ai cittadini: «Siate buoni»; bisogna

insegnar loro ad esserlo; e l’esempio stesso, che è sotto

questo rispetto la prima lezione, non è il solo mezzo che

va impiegato: l’amore della patria è il più efficace; infatti

(…) ogni uomo è virtuoso quando la sua volontà

particolare è conforme in tutto alla volontà generale; e

noi vogliamo di buon grado ciò che vogliono quelli che

amiamo...

J.-J. Rousseau, Discorso

sull’economia politica

Volete che gli uomini siano

virtuosi? Cominciamo, dunque, col

fare in modo che amino la patria

J.-J. Rousseau, Emilio

Ogni patriota è rigido cogli stranieri: essi non sono che

uomini e non sono niente agli occhi suoi. Questo

inconveniente è inevitabile, ma è debole. L’essenziale è

di essere buoni verso quelli coi quali vivamo. Lo

Spartano all’esterno era ambizioso, avaro, iniquo, ma

nelle sue mura regnavano i disinteresse, l’equità, la

concordia…

J.-J. Rousseau, Progetto di

costituzione per la Corsica

Ogni popolo ha o deve avere un

carattere nazionale; se gli manca,

occorre cominciare col dargliene uno…

Diderot, Voce Enciclopedia

Vi sono teste ristrette, anime malnate, indifferenti alle sorti del genere

umano e talmente immerse nella loro piccola cerchia, che non sanno

veder nulla al di là dell’interesse di questa. Costoro vogliono esser

chiamati buoni cittadini, ed io sono d’accordo; purché mi consentano di

chiamarli uomini malvagi. A sentire loro, si direbbe che un’enciclopedia

ben fatta o una storia generale delle arti dovrebbe essere null’altro che un

gran manoscritto gelosamente custodito nella biblioteca del re,

inaccessibile ad occhi che non siano i suoi; libro di Stato, non di popolo.

A che scopo divulgare le conoscenze della nazione (…)? Non è forse a

ciò ch’essa deve una parte della sua superiorità sulle nazioni rivali e

circonvicine? (…) Non si rendono conto che occupano un punto solo

della terra, e vi dureranno un solo momento: e che a tale punto e

momento sacrificano la felicità dei secoli futuri e dell’intera specie…

Fenelon, Dialogues des Morts

Ogni uomo deve infinitamente di più al genere

umano, che è la grande patria, che alla patria

particolare nella quale è nato; è dunque

infinitamente più pernicioso violare la giustizia da

popolo a popolo, che da famiglia a famiglia

all’interno dello Stato. (…) Tutte le guerre sono

guerre civili; perché è sempre l’uomo che sparge

il suo sangue…

Enciclopedia, Voce Patria

Il retore poco logico, il geografo che si occupa solo della

posizione dei luoghi, e il lessicografo volgare prendono

la patria per il luogo di nascita, quale che sia; ma il

Filosofo sa che la parola viene dal latino pater, che

rappresenta un padre e dei figli e, per conseguenza,

esprime il significato che noi leghiamo a quelle di

famiglia, di società, di Stato libero, di cui siamo membri,

e le cui leggi assicurano la nostra libertà e la nostra

felicità. Non vi è patria sotto il giogo del dispotismo…

Voltaire, Dizionario filosofico, voce Patria

Una patria è un composto di più famiglie; e, come ordinariamente si

sostiene la propria famiglia per amore di sé, quando non ci sia un

interesse contrario, così si sostiene, per lo stesso amor proprio, la

nostra città o il nostro villaggio, che chiamiamo la nostra patria. (…)

Chi arde dall’ambizione di diventare edile, tribuno, pretore, console,

dittatore, protesta di amare la propria patria, ma ama solo se stesso.

Ognuno vuol essere sicuro di poter dormire tranquillo a casa sua

senza che un altro si arroghi il potere di mandarlo a dormire altrove;

ognuno vuol esser sicuro dei suoi beni e della sua vita. E, poiché

tutti nutrono gli stessi desideri, ne viene che l’interesse particolare

diventa l’interesse generale: quando facciamo voti per la repubblica,

li facciamo in realtà per noi stessi.

Lezione n. 26

II SEMESTRE

A.A. 2018-2019

STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHEDocente Prof. Scuccimarra

Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del

cittadino (1789)

Art. 1:

Gli uomini nascono e restano liberi ed

eguali nei diritti. Le distinzioni sociali non

possono essere fondate che sull’utilità

comune.

Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del

cittadino (1789)

Art. 2:

Il fine di ogni associazione politica è la

conservazione dei diritti naturali ed

imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti

sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la

resistenza all’oppressione.

Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del

cittadino (1789)

Art. 3:

Il principio di ogni sovranità risiede

essenzialmente nella nazione. Nessun corpo,

nessun individuo può esercitare un’autorità

che non emani espressamente da essa.

Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del

cittadino (1789)

Art. 4:

La libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non

nuoce ad altri; così l’esercizio dei diritti naturali

di ciascun uomo ha come limiti solo quelli che

assicurano agli altri membri della società il

godimento di quegli stessi diritti. Questi limiti

possono essere determinati soltanto dalla legge.

Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del

cittadino (1789)

Art. 5:

La legge ha il diritto di vietare solo le azioni

nocive alla società. Tutto ciò che non è

vietato dalla legge non può essere impedito,

e nessuno può essere costretto a fare ciò che

essa non ordina.

Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del

cittadino (1789)

Art. 6:

La legge è l’espressione della volontà

generale. Tutti i cittadini hanno il diritto

di concorrere personalmente o

attraverso i loro rappresentanti alla sua

formazione.

Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del

cittadino (1789)

Art. 16:

Qualsiasi società nella quale la garanzia dei

diritti non sia assicurata, e la separazione dei

poteri non sia determinata, non possiede una

costituzione.

E.-J. Sieyès, Che cos’è il Terzo

stato

Nella prima epoca «vi è un numero più o meno

considerevole di individui isolati che vogliono unirsi tra

loro. Per questo solo fatto, essi già formano una nazione:

ne hanno già tutti i diritti; non resta che esercitarli.

Questa prima epoca è caratterizzata dal gioco delle

volontà individuali. L’associazione è opera loro. Esse

sono all’origine di ogni potere».

E.-J. Sieyès, Che cos’è il Terzo

statoLa seconda epoca è caratterizzata dall’azione della volontà

comune. Gli associati vogliono dare consistenza alla loro unione;

vogliono adempierne lo scopo. Per questo si riuniscono, e si

accordano fra loro sui bisogni pubblici e sui mezzi per

provvedervi. Il potere qui appartiene alla comunità. Le volontà

individuali ne sono sempre la fonte, e ne costituiscono gli elementi

essenziali; ma considerate separatamente non avrebbero alcun

potere. Il potere risiede esclusivamente nell’insieme. La comunità

ha bisogno di una volontà comune; senza una unità di volontà essa

non arriverà mai a costituire un tutto che vuole ed agisce. E’ anche

certo che questo tutto non ha nessun diritto che non appartenga alla

volontà comune.

E.-J. Sieyès, Che cos’è il Terzo

stato

La terza epoca si distingue dalla seconda in quanto non è più

la reale volontà comune ad agire, ma una volontà comune

rappresentativa. Sono due (…) i caratteri indelebili che le

sono propri: 1° Nel corpo rappresentativo tale volontà non è

piena ed illimitata; essa rappresenta solo una parte della

grande volontà comune nazionale. 2° I delegati non la

esercitano affatto come se si trattasse di un diritto proprio, si

tratta di un diritto che appartiene ad altri; la volontà comune è

presente in loro solo a titolo di procura.

E.-J. Sieyès, Che cos’è il Terzo

stato

La Nazione esiste prima di ogni cosa, essa è

l’origine di tutto. La sua volontà è sempre

conforme alla legge, essa è la legge stessa. Prima

di essa e al di sopra di essa non c’è che il diritto

naturale.

E.-J. Sieyès, Discorso sul veto

regioLa Francia non è, e non può essere una democrazia; non deve

assolutamente divenire uno Stato federale, composto da una

moltitudine di repubbliche, unite da un qualunque legame

politico. La Francia è e deve essere un tutt’uno, sottomesso in

ogni sua parte ad una legislazione e ad una amministrazione

comuni. Poiché è evidente che cinque o sei milioni di

cittadini attivi, ripartiti in più di venticinquemila leghe

quadrate non possono assolutamente riunirsi, è certo che essi

possono aspirare solo ad un sistema legislativo per

rappresentanza.

E.-J. Sieyès, Discorso sul veto

regio…Dunque i cittadini che nominano dei rappresentanti

rinunciano e devono rinunciare a fare essi stessi

direttamente la legge: non hanno quindi nessuna volontà

personale da imporre. Ogni influenza, ogni potere

appartengono loro esclusivamente nella persona dei

mandatari. Se imponessero delle volontà questo Stato

non sarebbe rappresentativo; sarebbe uno Stato

democratico

E.-J. Sieyès

Un deputato è deputato della Nazione tutta, tutti i cittadini sono i

suoi committenti. (…) Dunque non esiste, non può esistere per un

deputato altro mandato imperativo o voto positivo, che quello

della Nazione; egli non è tenuto a tener conto dei consigli dei suoi

diretti committenti, se non nella misura in cui questi consigli

saranno conformi al voto nazionale. Questo voto dove può essere,

dove può esprimersi se non nell’ambito della stessa Assemblea

nazionale? (…) In questo caso non si tratta di compilare uno

scrutinio democratico, ma di proporre, ascoltare, accordarsi,

modificare il proprio personale parere, fino a formare una volontà

comune…

E.-J. Sieyès

Il popolo può parlare, può agire

solo attraverso i suoi

rappresentanti

E.-J. Sieyès, Osservazioni sul rapporto del

Comitato di costituzione…Le classi infime, gli uomini più poveri, sono ben più lontani, per

intelligenza e sensibilità, dagli interessi dell’associazione, di quanto non

potessero esserlo i cittadini meno stimati degli antichi Stati liberi. Esiste

dunque fra noi una classe di uomini, cittadini di diritto, che non lo sono

di fatto. Spetta senza dubbio alla Costituzione e alle buone leggi di

ridurre il più possibile il numero degli appartenenti a questa classe. Ma è

comunque vero che vi sono uomini per altro fisicamente validi, che,

estranei a qualunque idea sociale, non sono in grado di assumere un

ruolo attivo nell’ambito della cosa pubblica. Non ci si deve permettere

di discriminarli in quanto persone, ma chi oserà trovare ingiusto che

vengano in qualche modo esclusi, non, lo ripeto, dalla protezione della

legge e dall’assistenza pubblica, ma dall’esercizio dei diritti politici?

E.-J. Sieyès, Preliminari alla costituzione

Tutti gli abitanti di un paese debbono godervi dei diritti di cittadino

passivo: tutti hanno diritto alla protezione della propria persona, della

proprietà, libertà, ecc., mentre non tutti hanno diritto di esercitare un

ruolo attivo sulla formazione dei pubblici poteri, non tutti sono

cittadini attivi. Le donne, per lo meno nella condizione attuale, i

bambini, gli stranieri, coloro che non contribuiscono minimamente a

sostenere il sistema delle pubbliche istituzioni, non devono avere

un’influenza attiva sulla cosa pubblica. Tutti possono godere dei

vantaggi della società, ma solo coloro che fanno parte del sistema

delle pubbliche istituzioni rappresentano i veri azionari della grande

impresa sociale, solo loro sono i veri cittadini attivi, i veri membri

dell’associazione

E.-J. Sieyès

Farsi/lasciarsi rappresentare è l’unica fonte della

prosperità civile… Moltiplicare gli strumenti/poteri per

soddisfare i nostri bisogni; godere di più, lavorare di

meno, questo è il naturale accrescimento della libertà

nello stato sociale. Ora, questo progresso della libertà

segue naturalmente l’istituzione del lavoro

rappresentativo

E.-J. Sieyès

Tutto è rappresentanza in uno stato sociale. Essa

è presente ovunque, nell’ordinamento privato

come nell’ordinamento pubblico; essa è la madre

dell’industria, della produzione e del commercio,

come pure di ogni progresso liberale e politico.

(…) Essa si confonde con l’essenza stessa della

vita sociale.

Lezione n. 27

II SEMESTRE

A.A. 2018-2019

STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHEDocente Prof. Scuccimarra

Necker

Questi eletti sono il vostro equivalente, con perfetta

esattezza. Il loro interesse, la loro volontà sono le vostre,

e nessun abuso di autorità, da parte di questi nuovi

menecmi vi sembrerà possibile. Che credulità. Che fede

per degli uomini in grado di pensare e di riflettere! Ed è

sempre la parola rappresentante che provoca una simile

cieca fiducia! Questo termine dà l’idea di un altro se

stesso.

Robespierre

Ovunque il popolo non eserciti la sua autorità e

non manifesti la sua volontà in prima persona, ma

tramite dei rappresentanti, se il corpo

rappresentativo non è puro e non s’identifica

completamente con il popolo, la libertà è

annientata.

Robespierre

La fonte di tutti i nostri mali è costituita dallo stato di

assoluta indipendenza in cui i rappresentanti si sono

posti da se stessi nei confronti della nazione senza averla

consultata. Non erano, per loro stessa ammissione, che

mandatari del popolo e si sono fatti sovrani,ovverosia

despoti. Il dispotismo non è altro che l’usurpazione del

potere sovrano.

Robespierre, Sui principi del governo

rappresentativo (1793)Per fare una costituzione occorre in primo luogo stabilire questa

massima incontestabile:

“che il popolo è buono e che i suoi delegati sono corruttibili; che è

nella virtù e nella sovranità del popolo che bisogna cercare una

difesa contro i vizi e i dispotismi del governo. (…) Un popolo i

cui mandatari non devono dar conto a nessuno della loro gestione,

non ha una costituzione; poiché infatti dipenderà soltanto da

costoro tradirlo impunemente o lasciarlo tradire da altri. E se

questo è il senso che si attribuisce al governo rappresentativo,

confesso che impigherò tutti gli anatemi pronunciati contro di esso

da Jean-Jacques Rousseau”.

Robespierre, Sui principi di

morale politica (1794)Qual è lo scopo cui tendiamo? Il pacifico godimento della libertà e

dell’uguaglianza; il regno di quella giustizia eterna le cui leggi

sono state incise non già sul marmo o sulla pietra, ma nel cuore di

tutti gli uomini, anche in quello dello schiavo che le dimentica e

del tiranno che le nega. Vogliamo un ordine di cose nel quale ogni

passione bassa e crudele si incatenata, nel quale ogni passione

benefica e generosa sia ridestata dalle leggi; nel quale l’ambizione

sia il desiderio di meritare la gloria e di servire la patria; ove le

distinzioni non nascano altro che dalla stessa uguaglianza; nel

quale il cittadino sia sottomesso al magistrato, e il magistrato al

popolo, e il popolo alla giustizia; .

Robespierre, Sui principi di

morale politica (1794)

Un ordine di cose nel quale la patria assicuri il

benessere a ogni individuo, e nel quale ogni individuo

goda con orgoglio della prosperità e della gloria della

patria; nel quale tutti gli animi si ingrandiscano con la

continua comunione dei sentimenti repubblicani, e con

l’esigenza di meritare la stima di un grande popolo; nel

quale le arti siano gli ornamenti della libertà che le

nobilita, il commercio sia la fonte della ricchezza

pubblica e non soltanto quella dell’opulenza mostruosa

di alcune case. .

Robespierre, Sui principi di

morale politica (1794)Noi vogliamo sostituire, nel nostro paese, la morale all’egoismo,

l’onestà all’onore, i principi alle usanze, i doveri alle

convenienze, il dominio della ragione alla tirannia della moda, il

disprezzo per il vizio al disprezzo per la sfortuna, la fierezza

all’insolenza, la grandezza d’animo alla vanità, l’amore della

gloria all’amre del denaro, le persone buone alle buone

compagnie, il merito all’intrigo, l’ingegno al bel esprit, la verità

all’esteriorità, il fascino della felicità al tedio del piacere

voluttuoso, la grandezza dell’uomo alla piccolezza dei “grandi”; e

un popolo magnanimo, potente, felice a un popolo “amabile”,

frivolo e miserabile; cioè tutte le virtù e tutti i miracoli della

repubblica a tutti i vizi e a tutte le ridicolaggini della monarchia. .

Robespierre, Sui principi di

morale politica (1794)

Noi vogliamo, in una parola, adempiere

ai voti della natura, compiere i destini

dell’umanità, mantenere le promesse

della filosofia, assolvere la provvidenza

dal lungo regno del crimine e della

tirannia.

Robespierre, Sui principi di

morale politica (1794)La democrazia non è uno Stato in cui il popolo –

costantemente riunito – regola da se stesso tutti gli affari

pubblici; e ancor meno è quello in cui centomila frazioni del

popolo, con misure isolate, precipitoso e contraddittorie,

decidono la sorte dell’intera società. Un simile governo non è

mai esistito, né potrebbe esistere se non per ricondurre il

popolo verso il dispotismo. La democrazia è uno Stato in cui

il popolo sovrano, guidato da leggi che sono il frutto della sua

opera, fa da se stesso tutto ciò che può far bene, e per mezzo

dei suoi delegati tutto ciò che non può fare da se stesso.

Robespierre, Sui principi di

morale politica (1794)

Se la forza del governo popolare in tempo di

pace è la virtù, la forza del governo popolare in

tempo di rivoluzione è ad un tempo la virtù e il

terrore. La virtù, senza la quale il terrore è cosa

funesta; il terrore, senza il quale la virtù è

impotente. (…) Il governo della rivoluzione è il

dispotismo della libertà contro la tirannia.

Sieyès, Opinione sul progetto di costituzione

(2 termidoro anno III)

I poteri illimitati sono un mostro in politica e un grave errore del

popolo francese. In avvenire esso non lo commetterà più. Voi gli

svelerete ancora una volta una grande verità troppo misconosciuta

fra noi, e cioè che esso non detiene tutti questi poteri, tutti questi

diritti illimitati che i suoi adulatori gli hanno attribuito. Quando

un’associazione politica si costituisce, non si mettono mai in

comune tutti i diritti che ogni individuo apporta alla società, tutta

la potenza della massa intera degli individui. Si mette in comune il

meno possibile sotto il nome di potere pubblico o politico e

unicamente quanto è necessario a mantenere ogni individuo

nell’ambito dei propri diritti e dei propri doveri…

Sieyès, Opinione sul progetto di costituzione

(2 termidoro anno III)

Una simile parte di potere è ben lungi dal rassomigliare alle idee

esagerate di cui si è amato abbigliare ciò che si chiama la

sovranità; e notate bene che è precisamente della sovranità del

popolo che parlo, giacché, se ve ne è una, è proprio quella. Se

questo termine ha assunto una dimensione così colossale

nell’immaginazione della gente, è solo perché lo spirito dei

Francesi, ancora colmo di superstizioni monarchiche, si è sentito

in dovere di dotarlo dell’eredità intera dei pomposi attributi e dei

poteri assoluti, che hanno fatto lo splendore delle sovranità

usurpate…

Sieyès, Opinione sul progetto di costituzione

(2 termidoro anno III)

E io dico che quando luce sarà fatta, ci saremo lasciati dietro i

tempi in cui si è creduto di sapere, in cui non si faceva che volere,

la nozione di sovranità rientrerà nei suoi giusti limiti; poiché,

ripeto ancora una volta, la sovranità del popolo non è affatto

illimitata, e molti di quei sistemi vantati e onorati, compreso

quello verso il quale si è persuasi ancora di avere le più grandi

obbligazioni, altro non parranno che concezioni monacali, dei

mediocri progetti di re-totale piuttosto che di re-pubblica,

ugualmente funesti per la libertà e rovinosi per la cosa pubblica

come per la cosa privata.

Lezione n. 28

II SEMESTRE

A.A. 2018-2019

STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHEDocente Prof. Scuccimarra

E. Burke, Reflections on the Revolution in

France(1790)

La critica dei diritti naturali:

«Questi diritti astratti, quando si introducono nella vita pratica, si

comportano come quei raggi di luce che penetrando in un mezzo denso,

vengono, per legge di natura, riflessi, ma deviati dal loro diritto cammino.

Così a contatto di un mezzo denso quale la complicata ed enorme massa

delle passioni e degli interessi umani, i diritti originari dell’uomo

subiscono una tale varietà di riflessioni e rifrazioni, che diviene assurdo

parlare di essi come se ancora mantenessero tutta la semplicità della loro

primitiva direzione. La natura dell’uomo è intricata, ed i fini della società

estremamente complessi: e quindi un potere organato semplicemente sarà

del tutto insufficiente al proposito di dirigere la natura umana, o la qualità

dei suoi affari»

E. Burke, Reflections on the Revolution in

France(1790)

L’elogio della politica empirica:

«La scienza che insegna a costruire uno Stato o a rinnovarlo o a riformarlo è una

scienza sperimentale, e come tale non si può insegnare a priori. Né basta una

breve esperienza a renderne edotti, perché gli effetti reali di cause morali non

sono sempre immediati. (…) Negli Stati esistono spesso delle cause oscure e

latenti, di poca importanza a prima vista ma da cui, a ben guardare, dipendono

essenzialmente la prosperità o la rovina dello Stato medesimo. Se la scienza di

governo è quindi una scienza pratica e volta a fini pratici, se richiede grande

esperienza, più esperienza di quanta l’uomo anche più sagace e più cauto possa

acquistare nel breve giro di una singola vita, con quanta circospezione l’uomo

dovrà accingersi al compito di abbattere un edificio, che attraverso i secoli è

servito, sia pure in modo solo passabile, ad attuare i comuni propositi di una

società!»

E. Burke, Reflections on the Revolution in

France(1790)

L’ «antica costituzione di governo»:

«È impossibile non osservare come, dalla Magna Charta fino alla

Dichiarazione dei Diritti, sia stata politica uniforme della nostra

costituzione esigere ed asserire le nostre libertà come inalienabile eredità

trasmessa a noi dai nostri antenati, e trasmissibile alla nostra posterità,

come proprietà appartenente in modo speciale al popolo di questo regno,

senza alcun riferimento a qualsiasi diritto più generale o antecedente. In

questo modo la nostra Costituzione preserva unità pur nella grande

diversità delle sue parti. Abbiamo una Corona ereditaria, un’aristocrazia

ereditaria, ed una Camera dei Comuni ed un popolo eredi di privilegi,

franchigie e libertà derivanti loro da antichissimi antenati»

E. Burke, On (…) the State of the Representation of

the Commons in Parliament (1782)

L’elogio dell’ «antica costituzione» inglese:

«La nostra costituzione è una costituzione prescrittiva; è una

costituzione la cui sola autorità consiste nel fatto di esistere da

tempo immemorabile. (…) La prescrizione è il più solido di tutti i

titoli, non solo per la proprietà, ma anche per ciò che assicura la

proprietà, per il governo. (…) E’ una presunzione in favore di ogni

schema di governo stabilito contro qualsiasi progetto non

sperimentato il fatto che una nazione abbia vissuto a lungo e sia

fiorita sotto di esso. E’ un presupposto migliore anche della scelta di

una nazione, di gran lunga migliore di ogni assetto subitaneo o

temporaneo dovuto ad una vera e propria elezione…»

E. Burke, On (…) the State of the Representation of

the Commons in Parliament (1782)

L’elogio dell’ «antica costituzione» inglese:

«Perché una nazione non è soltanto un’idea di portata locale e un momentaneo

aggregato di individui; ma è un’idea di continuità, che si estende tanto nel tempo

quanto nel numero e nello spazio. E questa non è la scelta di un giorno o di una

parte del popolo, non una scelta tumultuaria e casuale; è un’elezione deliberata di

epoche e generazioni; è una costituzione fatta di ciò che è diecimila volte

migliore della scelta, fatta da circostanze peculiari, da occasioni, temperamenti,

disposizioni e consuetudini morali, civili e sociali del popolo, che si rivelano solo

in un lungo spazio di tempo. E’ un vestito che si adatta al corpo. La prescrizione

del governo non si forma su pregiudizi ciechi e privi di senso – perché l’uomo è

un essere a volte saggio e a volte no. Un individuo è stolto; la moltitudine, in un

dato momento, quando agisce senza deliberazione è stolta; ma la specie è saggia,

e quando le si concede tempo come specie agisce sempre giustamente»

B. Constant, Discorso sulla libertà degli antichi

paragonata a quella dei moderni (1819)

Chiedetevi innanzi tutto, Signori, che cosa intendano oggi con la

parola libertà un inglese, un francese, un abitante degli Stati Uniti

d’America. Il diritto di ciascuno di non essere sottoposto che alle

leggi, di non poter essere né arrestato, né detenuto, né messo a

morte, né maltrattato in alcun modo a causa dell’arbitrio di uno o

più individui. Il diritto di ciascuno di dire la sua opinione, di

scegliere la sua industria e di esercitarla, di disporre della sua

proprietà e anche di abusarne; di andare, di venire senza doverne

ottenere il permesso e senza render conto delle proprie intenzioni

e della propria condotta…

B. Constant, Discorso sulla libertà degli antichi

paragonata a quella dei moderni (1819)

Il diritto di ciascuno di riunirsi con altri individui sia per

conferire sui propri interessi, sia per professare il culto che

egli e i suoi associati preferiscono, sia semplicemente per

occupare le sue giornate o le sue ore nel modo più conforme

alle sue inclinazioni, alle sue fantasie. Il diritto, infine, di

ciascuno di influire sulla amministrazione del governo sia

nominando tutti o alcuni dei funzionari, sia mediante

rimostranze, petizioni, richieste che l’autorità sia più o meno

obbligata a prendere in considerazione…

B. Constant, Discorso sulla libertà degli antichi

paragonata a quella dei moderni (1819)

Paragonate ora a questa libertà quella degli antichi.

Essa consisteva nell’esercitare collettivamente ma direttamente

molte funzioni dell’intera sovranità, nel deliberare sulla piazza

pubblica sulla guerra e sulla pace, nel concludere con gli stranieri i

trattati di alleanza, nel votare le leggi, nel pronunciare i giudizi;

nell’esaminare i conti, la gestione dei magistrati, nel farli

comparire dinanzi a tutto il popolo, nel metterli sotto accusa, nel

condannarli o assolverli. Ma se questo era ciò che gli antichi

chiamavano libertà, essi ritenevano compatibile con questa libertà

collettiva l’assoggettamento completo dell’individuo all’autorità

dell’insieme…

B. Constant, Discorso sulla libertà degli antichi

paragonata a quella dei moderni (1819)

Non trovate presso di loro alcuno dei godimenti che abbiamo visto

far parte della libertà dei moderni. Tutte le azioni private sono

sottoposte a una sorveglianza severa. Nulla è accordato

all’indipendenza individuale né sotto il profilo delle opinioni, né

sotto quello dell’industria, né soprattutto sotto il profilo della

religione. (…) Nelle cose che a noi sembrano più utili l’autorità

del corpo sociale si interpone e impaccia la volontà degli

individui. (…) L’autorità si intromette anche nelle relazioni più

intime. (…) Le leggi regolano i costumi e poiché i costumi

concernono tutto non v’è nulla che le leggi non regolino.

B. Constant, Discorso sulla libertà degli antichi

paragonata a quella dei moderni (1819)Così presso gli antichi l’individuo, sovrano quasi abitualmente negli

affari pubblici, è schiavo in tutti i suoi rapporti privati. Come cittadino

egli decide della pace e della guerra; come privato è limitato, osservato,

represso in tutti i suoi movimenti; come parte del corpo collettivo

interroga, destituisce, condanna, spoglia, esilia, manda a morte i suoi

magistrati o i suoi superiori; come sottoposto al corpo collettivo può a

sua volta essere privato della sua condizione, spogliato delle sue

dignità, bandito, messo a morte dalla volontà discrezionale dell’insieme

di cui fa parte. Presso i moderni, al contrario, l’individuo, indipendente

nella sua vita privata, persino negli Stati più liberi non è sovrano che in

apparenza. La sua sovranità è limitata, quasi sempre sospesa; e se, a

epoche fisse ma rare nelle quali è pur sempre circondato da precauzioni

e ostacoli, esercita questa sovranità, non lo fa che per abdicarvi.

B. Constant, Discorso sulla libertà degli antichi

paragonata a quella dei moderni (1819)(…) Noi non possiamo più godere della libertà degli antichi che si

fondava sulla partecipazione attiva e costante al potere collettivo. La

nostra libertà deve fondarsi sul pacifico godimento

dell’indipendenza privata. La parte che nell’antichità ciascuno aveva

nella sovranità nazionale non era affatto, come lo è oggi, una astratta

supposizione. La volontà di ciascuno aveva un’influenza reale:

l’esercizio di questa volontà era un piacere vivo e ripetuto. Di

conseguenza gli antichi erano disposti a fare molti sacrifici per

conservare i loro diritti politici e la loro partecipazione

all’amministrazione dello Stato. Ciascuno sentiva con orgoglio tutto

quello che valeva il suo suffragio e trovava, in questa coscienza

della sua personale importanza, un ampio consenso.

B. Constant, Discorso sulla libertà degli antichi

paragonata a quella dei moderni (1819)Questo compenso non esiste più oggi per noi. Perduto nella

moltitudine, l’individuo non avverte quasi mai l’influenza che esercita.

Mai la sua volontà si imprime sull’insieme, niente prova, ai suoi occhi,

la sua cooperazione. L’esercizio dei diritti politici ci offre dunque ormai

soltanto una parte dei godimenti che vi trovavano gli antichi e in pari

tempo i progressi della civiltà, la tendenza commerciale dell’epoca, la

comunicazione dei popoli fra loro hanno moltiplicato e variato

all’infinito i mezzi della felicità privata.

Ne segue che dobbiamo essere attaccati assai più degli antichi alla

nostra indipendenza individuale; perché gli antichi, quando

sacrificavano questa indipendenza ai diritti politici, sacrificavano il

meno per ottenere il più; mentre facendo lo stesso noi daremmo il più

per ottenere il meno.

B. Constant, Discorso sulla libertà degli antichi

paragonata a quella dei moderni (1819)

Il fine degli antichi era la divisione del potere

sociale fra tutti i cittadini di una stessa patria: era

questa che essi chiamavano libertà. Il fine dei

moderni è la sicurezza dei godimenti privati; ed

essi chiamano libertà le garanzie accordate dalle

istituzioni questi godimenti…

Lezione n. 30

II SEMESTRE

A.A. 2018-2019

STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHEDocente Prof. Scuccimarra

I. Kant, Metafisica dei costumi (1797)

Lo stato di natura:

Lo stato di pace, fra uomini che vivano l’uno accanto

all’altro, non è uno stato di natura; questo è invece uno stato

di guerra, anche se non sempre comporta lo scoppio delle

ostilità ma piuttosto la minaccia di esse. Lo stato di pace deve

dunque essere istituito, infatti l’astenersi dalle ostilità non è

ancora sicurezza, e se tale sicurezza non viene garantita a un

vicino dall’altro (ciò che può accadere solo in uno stato in cui

vi siano leggi), quello può trattare questo, al quale ha

richiesto tale garanzia, come un nemico.

I. Kant, Metafisica dei costumi (1797)

Lo stato di natura:

Se prima dell’entrata nello stato civile nessun acquisto si volesse

riconoscere anche solo provvisoriamente come legittimo, allora quello stato

stesso sarebbe impossibile. Perché, secondo la forma, le leggi nello stato di

natura contengono intorno al ‘mio’ e al ‘tuo’ le stesse condizioni prescritte

dalle leggi nello stato civile, in quanto esso sia pensato unicamente secondo

concetti puramente razionali; tutta la differenza è che nello stato civile sono

indicate le condizioni che assicurano l’esecuzione (conformemente alla

giustizia distributiva) delle leggi dello stato di natura. Se dunque non ci

fosse nemmeno provvisoriamente un ‘mio’ e un ‘tuo’ esterni nello stato di

natura, non ci sarebbero neppure doveri giuridici riguardo ad esso, né quindi

ci sarebbe alcun comando che imponesse di uscire da quello stato.

I. Kant, Metafisica dei costumi (1797)

Il postulato del diritto pubblico:

E’ dunque proprio dal diritto privato nello stato

naturale che scaturisce il postulato del diritto

pubblico: tu devi, in base al rapporto di

coesistenza che si instaura tra te e gli altri uomini,

uscire dallo stato di natura per entrare in uno stato

giuridico, vale a dire in uno stato di giustizia

distributiva.

3I. Kant, Sul detto comune (1797)

Lo stato civile:

Lo stato civile, considerato solo in quanto stato

giuridico, è fondato sui seguenti principi a priori:

1. La libertà di ogni membro della società, come

uomo;

2. L’eguaglianza di ogni membro con ogni altro,

come suddito;

3. L’indipendenza di ogni membro di un corpo

comune, come cittadino.

Martin Wight, International Theory. The Three Traditions

1) La tradizione realista: Hobbes

2) La tradizione razionalista: Grozio

3) La tradizione rivoluzionaria: Kant

Alle origini del modello «cosmopolitico»

I progetti di pace perpetua:

1) Il Grand Dessein di Enrico IV (1598);

2) William Penn, An Essay Towards the Present

and Future Peace of Europe (1693);

3) Abbè de Saint-Pierre, Projet pour rendre la

paix perpétuelle en Europe (1713);

4) Immanuel Kant, Zum ewigen Frieden (1795)

Saint-Pierre, Projet pour rendre la paix perpétuelle

en Europe (1713)

1) I sovrani che aderiscono si garantiscono

reciprocamente una sicurezza totale contro i

grandi mali delle guerre esterne e delle guerre

civili;

2) Ogni alleato contribuirà alle spese comuni

della grande alleana in proporzione alle

entrate attuali e delle spese del suo Stato;

Saint-Pierre, Projet pour rendre la paix perpétuelle

en Europe (1713)

3) Gli alleati rinunciano alla voce delle armi e

convengono di prendere la strada della conciliazione

attraverso la mediazione di un’assemblea generale

perpetua, la Dieta generale d’Europa;

4) Se la potenza condannata non ottempererà,

l’alleana si armerà e agirà contro di essa in modo

offensivo per contrastarla;

5) Queste disposizioni non possono essere modificate

se non con il consenso unanime di tutti;

I. Kant, Per la pace perpetua:

Articoli preliminari:

1. Nessun trattato di pace deve considerasi tale,

se è stato fatto con la tacita riserva di pretesti

per una guerra futura;

I. Kant, Per la pace perpetua:

Articoli preliminari:

2. Nessuno Stato indipendente (non importa se

piccolo o grande) può venire acquistato da un

altro per successione ereditaria, per via di

scambio, compera o donazione;

I. Kant, Per la pace perpetua:

Articoli preliminari:

3. Gli eserciti permanenti (miles perpetuus)

devono col tempo scomparire interamente;

I. Kant, Per la pace perpetua:

Articoli preliminari:

4. Non si devono contrarre debiti pubblici in

vista di controversie fra Stati da svolgere

all’estero;

I. Kant, Per la pace perpetua:

Articoli preliminari:

5. Nessuno Stato deve intromettersi con la

forza nella costituzione e nel governo di un

altro Stato;

I. Kant, Per la pace perpetua:

Articoli preliminari:

6. Nessuno Stato in guerra con un altro deve

permettersi atti di ostilità che renderebbero

impossibile la reciproca fiducia nella pace futura:

come, ad esempio, l’assoldare sicari ed avvelenatori,

la rottura della capitolazione, l’istigazione al

tradimento nello Stato al quale si fa la guerra, ecc…

I. Kant, Per la pace perpetua:

La guerra è (…) solo il triste mezzo necessario allo stato

di natura (dove non esiste tribunale che possa giudicare

secondo il diritto) per affermare con la forza il proprio

diritto, non potendo in tale stato esser considerata

nemico ingiusto nessuna delle due parti (perché ciò

presuppone già una sentenza giudiziaria) e decidendo

solo l’esito del combattimento (come nel cosiddetto

giudizio di Dio) da quale parte stia il diritto:

I. Kant, Per la pace perpetua:

ma tra due Stati non è concepibile una guerra punitiva

(bellum punitivum) poiché tra essi non sussiste un rapporto di

superiore ad inferiore. Ne segue che una guerra di sterminio

in cui la distruzione può colpire contemporaneamente

entrambe le parti ed ogni diritto venire soppresso, darebbe

luogo alla pace perpetua unicamente sul grande cimitero del

genere umano. Una simile guerra, e con essa l’uso dei mezzi

che vi conducono, dev’essere pertanto assolutamente vietata.

I. Kant, Per la pace perpetua:

Primo articolo definitivo:

“La costituzione civile di ogni Stato

dev’essere repubblicana”

I. Kant, Per la pace perpetua:

La costituzione fondata in primo luogo secondo i

principi della libertà dei membri di una società

(in quanto uomini), della dipendenza di tutti da

un’unica legislazione (in quanto sudditi), in terzo

luogo dell’uguaglianza di tutti (in quanto

cittadini) è quella repubblicana

I. Kant, Per la pace perpetua:

Secondo articolo definitivo:

“Il diritto internazionale deve

fondarsi su un federalismo di liberi

Stati”

I. Kant, Per la pace perpetua:

I modelli di unione internazionale:

Lo «Stato di popoli (Völkerstaat)» o

«Civitas gentium»

I. Kant, Per la pace perpetua:

«Per gli Stati, nel rapporto tra loro, è impossibile

pensare di uscire dalla condizione di della mancanza di

legge, che non contiene altro che la guerra, se non

rinunciando, esattamente come fanno i singoli individui,

alla loro libertà selvaggia (senza legge), sottomettendosi

a pubbliche leggi costrittive e formando uno Stato dei

popoli (civitas gentium), che dovrà sempre crescere, per

arrivare a comprendere finalmente tutti i popoli della

terra»

I. Kant, Per la pace perpetua:

I modelli di unione internazionale:

La «federazione di pace» o

«federazione di popoli (Völkerbund)»

I. Kant, Per la pace perpetua:

«Questa federazione non si propone la costruzione di

una potenza politica, ma semplicemente la

conservazione e la garanzia della libertà di uno Stato

preso a sé e contemporaneamente degli altri Stati

federati, senza che questi si sottomettano (come gli

individui nello stato di natura) a leggi pubbliche e alla

costrizione da esse esercitate »

I. Kant, Per la pace perpetua:

Per gli Stati che stanno tra loro in rapporto reciproco

non può esservi altra maniera razionale per uscire dallo

stato naturale senza leggi, che è soltanto stato di guerra,

se non rinunciare, come i singoli individui, alla loro

libertà selvaggia (senza leggi), consentire a leggi

pubbliche coattive e formare così uno Stato di popoli

(civitas gentium) che si estenderebbe sempre più ed

abbraccerebbe infine tutti i popoli della terra.

I. Kant, Per la pace perpetua:

Ma poiché essi, secondo la loro idea del diritto

internazionale, non vogliono ciò affatto e rigettano quindi in

ipotesi ciò che in tesi è giusto, così, in luogo dell’idea

positiva di una repubblica universale (e perché non tutto

debba andare perduto) rimane soltanto il surrogato negativo

di una lega permanente e sempre più estesa, come unico

strumento possibile che ponga al riparo dalla guerra e arresti

il torrente delle tendenze contrarie al diritto, sempre però con

il continuo pericolo che queste erompano nuovamente

I. Kant, Per la pace perpetua:

Terzo articolo definitivo:

“Il diritto cosmopolitico dev’essere

limitato alle condizioni dell’universale

ospitalità”

I. Kant, Per la pace perpetua:

…Ospitalità significa che il diritto che uno straniero ha

di non essere trattato come un nemico a causa del suo

arrivo sulla terra di un altro. Questi può mandarlo via, s

ciò non mette a repentaglio la sua vita, ma fino a quando

sta al suo posto non si deve agire verso di lui in modo

ostile. Non è un diritto di accoglienza a cui lo straniero

possa appellarsi (…) ma un diritto di visita, che spetta a

tutti gli uomini…

Lezione n. 31

II SEMESTRE

A.A. 2018-2019

STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHEDocente Prof. Scuccimarra

A. De Tocqueville, La democrazia in America

Il graduale sviluppo dell’uguaglianza delle condizioni è (…) un

fatto provvidenziale; e ne ha i caratteri essenziali: è universale,

duraturo, si sottrae ogni giorno alla potenza dell’uomo; tutti gli

avvenimenti, come anche tutti gli uomini, ne favoriscono lo

sviluppo. Sarebbe quindi saggio credere che un movimento

sociale, che ha così lontane origini, potrà essere arrestato dagli

sforzi di una generazione? C’è forse qualcuno che può pensare

che la democrazia, dopo aver distrutto il feudalesimo e aver vinto

i Re, indietreggerà poi davanti ai borghesi e ai ricchi? E’ possibile

che si arresti proprio ora che è divenuta tanto forte e i suoi

avversari tanto deboli?

A. De Tocqueville, La democrazia in America

(…) Ecco che i ranghi si confondono, che le

barriere innalzate tra gli uomini si abbassano; si

dividono le proprietà, si divide il potere, la civiltà

si diffonde, le intelligenze si uguagliano;

l’assetto sociale diviene democratico e l’impero

della democrazia si stabilisce infine facilmente

nelle istituzioni e nei costumi.

A. De Tocqueville, La democrazia in America

E’ nell’essenza stessa dei governi

democratici che il dominio della

maggioranza sia assoluto; poiché, fuori

della maggioranza, nelle democrazie, non

vi è nulla che resista…

A. De Tocqueville, La democrazia in America

I principi avevano, per così dire, materializzato la

violenza; le repubbliche democratiche dei nostri giorni

l’hanno resa del tutto spirituale, come la volontà umana

che essa vuole costringere. Sotto il governo assoluto di

uno solo, il dispotismo, per arrivare all’anima, colpiva

grossolanamente il corpo; e l’anima, sfuggendo a quei

colpi, s’elevava gloriosa al di sopra di esso; ma nelle

repubbliche democratiche, la tirannide non procede

affatto in questo modo: essa trascura il corpo e va diritta

all’anima.

A. De Tocqueville, La democrazia in America

Individualismo è un termine recente, originato da un’idea

nuova. I nostri padri non conoscevano che l’egoismo.

L’egoismo è un amore spassionato e sfrenato di se stessi,

che porta l’uomo a riferire tutto soltanto a se stesso, e a

preferire sé a tutto. L’individualismo è un sentimento

ponderato e tranquillo, che spinge ogni singolo ad

appartarsi dalla massa dei suoi simili e a tenersi in disparte

con la sua famiglia e i suoi amici; cosicché, dopo essersi

creato una piccola società per conto proprio, abbandona

volentieri la grande società a se stessa.

A. De Tocqueville, La democrazia in America

Immagino sotto quali nuovi aspetti il dispotismo potrebbe

prodursi nel mondo: vedo una folla innumerevole di uomini

simili ed uguali che non fanno che ruotare su se stessi, per

procurarsi piccoli e volgari piaceri con cui saziano il loro

animo. Ciascuno di questi uomini vive per conto suo ed è

come estraneo al destino di tutti gli altri: i figli e gli amici

costituiscono per lui tutta la razza umana; quanto al resto dei

concittadini, egli vive al loro fianco ma non li vede; li tocca

ma non li sente; non esiste che in se stesso e per se stesso, e

se ancora possiede una famiglia, si può dire per lo meno che

non ha più patria.

A. De Tocqueville, La democrazia in America

Al di sopra di costoro si erge un potere immenso e tutelare, che si

incarica di assicurare loro il godimento dei beni e di vegliare sulla loro

sorte. E’ assoluto, minuzioso, sistematico, previdente e mite.

Assomiglierebbe all’autorità paterna se, come questa, avesse lo scopo di

preparare l’uomo all’età virile, mentre non cerca che di arrestarlo

irrevocabilmente all’infanzia; è contento che i cittadini si svaghino,

purché non pensino che a svagarsi. Lavora volentieri alla loro felicità,

ma vuole esserne il solo agente ed il solo arbitro; provvede alla loro

sicurezza, prevede e garantisce i loro bisogni, facilita i loro piaceri,

guida i loro affari principali, dirige la loro industria, regola le loro

successioni, spartisce le loro eredità; perché non dovrebbe levare loro

totalmente il fastidio di pensare e la fatica di vivere?

A. De Tocqueville, La democrazia in America

E’ così che giorno dopo giorno esso rende sempre

meno utile e sempre più raro l’impiego del libero

arbitrio, restringe in uno spazio sempre più

angusto l’azione della volontà e toglie poco alla

volta a ogni cittadino addirittura la disponibilità

di se stesso. L’uguaglianza ha preparato gli

uomini a tutto questo: li ha disposti a sopportarlo

e spesso anche a considerarlo come un vantaggio

A. De Tocqueville, La democrazia in America

Le nazioni moderne non possono evitare che le

condizioni diventino uguali; ma dipende da loro

che l’uguaglianza le porti alla schiavitù o alla

libertà, alla civiltà o alla barbarie, alla prosperità

o alla miseria.

J. Stuart Mill, On Liberty (1859)

Il male più temibile non è il violento conflitto tra parti diverse della

verità, ma la silenziosa soppressione di una sua metà; finché la gente

è costretta ad ascoltare le due opinioni opposte c'è sempre speranza ;

è quando ne ascolta una sola che gli errori si cristallizzano in

pregiudizi, e la verità stessa cessa di avere effetto perché l’

esagerazione la rende falsa. E poiché poche qualità mentali sono più

rare della facoltà che permette di giudicare intelligentemente tra due

visioni contrapposte di una questione, di cui una sola ha un

difensore, le probabilità di vittoria della verità sono proporzionali

alla misura in cui ciascun suo aspetto, ciascuna opinione che ne

esprima una pur minima parte, non solo trova chi la difende, ma

viene attivamente difesa e ascoltata.

J. Stuart Mill, On Liberty (1859)

Il male più temibile non è il violento conflitto tra parti diverse della

verità, ma la silenziosa soppressione di una sua metà; finché la gente

è costretta ad ascoltare le due opinioni opposte c'è sempre speranza ;

è quando ne ascolta una sola che gli errori si cristallizzano in

pregiudizi, e la verità stessa cessa di avere effetto perché l’

esagerazione la rende falsa. E poiché poche qualità mentali sono più

rare della facoltà che permette di giudicare intelligentemente tra due

visioni contrapposte di una questione, di cui una sola ha un

difensore, le probabilità di vittoria della verità sono proporzionali

alla misura in cui ciascun suo aspetto, ciascuna opinione che ne

esprima una pur minima parte, non solo trova chi la difende, ma

viene attivamente difesa e ascoltata.

J. Stuart Mill, Considerations on Representative

Government (1861)

La parola democrazia evoca due idee assai diverse. Nel primo senso, la

parola democrazia è sinonimo di eguaglianza di tutti i cittadini e

rimanda all’idea pura secondo la quale democrazia significa, secondo la

sua stessa etimologia, governo di tutto il popolo esercitato attraverso

eguali rappresentanze. Nella seconda accezione, democrazia vuol dire

governo di privilegi a vantaggio della maggioranza nunmerica che

domina lo Stato. Questa sarebbe la inevitabile conseguenza del modo

con il quale oggi si contano i voti. Il conteggio avviene escludendo

completamente la minoranza. (…) In una democrazia in cui i cittadini

sono uguali ogni parte dovrebbe raccogliere una rappresentanza

proporzionale alla sua reale forza. (…) Uomo per uomo, la minoranza

deve essere rappresentata per intero come accade alla maggioranza. Se

questo manca il governo non postula l’uguaglianza, ma il privilegio e

l’inuguaglianza…

J. Stuart Mill, Considerations on Representative

Government (1861)

La civiltà moderna e il governo rappresentativo tendono

naturalmente a scivolare nel piano inclinato della

mediocrità. Le esclusioni legate al diritto elettorale

accrescono questa tendenza. Il loro effetto è infatti

quello di attribuire il potere a persone incapaci e inferiori

a quelle provviste di cultura. Certo gli ingegni superiori

sono qualitativamente pochi. E’ comunque importante

che anche la loro voce venga ascoltata. E’ falsa una

democrazia che non dà rappresentanza a tutti ma solo

alle maggioranze locali e cancella dal parlamento ogni

spazio riservato alla minoranza colta del paese…

J. Stuart Mill, Considerations on Representative

Government (1861)

Il voto plurimo:Ogni soggetto che non versi in una condizione di tutela ed è direttamente

interessato ai problemi, ha diritto di esprimere il proprio voto. Non è possibile

negare questo diritto se non quando il suo esercizio urta con la sicurezza della

collettività. Completamente diversa è la questione se tutti debbano vantare un

voto e un voto uguale. Quando due soggetti interessati nella stessa controversia

portano differenti opinioni, è giusto che le due vedute siano considerate di

valore eguale? Nel caso di pari virtù morali, e una è superiore all’altra per

cultura e intelligenza, o quando sono di eguale intelligenza ma l’una è superiore

all’altra per vortù, l’opinione della persona che dal punto di vista intellettuale e

morale scavalca l’altra deve prevalere sulla convinzione espressa dall’altra.

Sanciscono una assurdità le istituzioni che conferiscono alle due opinioni lo

stesso valore. La persona dotata di qualità superiore ha diritto ad esercitare una

influenza superiore. Il problema sta nell’accertare chi in concreto meriti questo

diritto…

J. Stuart Mill, Considerations on Representative

Government (1861)

Il voto plurimo:

Le persone la cui opinione merita maggiore attenzione

devono disporre di un voto più pesante. I soggetti che

dispongono di un voto meno influente non dovrebbero

sentirsi irritati per questo. La completa esclusione dal

voto è una cosa. Concedere un voto più pesante ai

soggetti più colti e aperti agli interessi comuni è un’altra.

Non si tratta di una differenza di grado, ma qualitativa.

(…) Occorre soltanto assicurarsi che questa superiore

influenza attribuita alle persone capaci venga attribuita

sulla base di motivi giusti e comprensibili…

Lezione n. 32

II SEMESTRE

A.A. 2018-2019

STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHEDocente Prof. Scuccimarra

G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito

(1806-7), Prefazione:

…Secondo il mio modo di vedere che dovrà giustificarsi soltanto

mercé l’esposizione del sistema stesso, tutto dipende

dall’intendere e dall’esprimere il vero non come sostanza, ma

altrettanto decisamente come soggetto (…), ciò che è poi lo stesso,

è l’essere che in verità è effettuale, ma soltanto in quanto la

sostanza è il movimento del porre se stesso, o in quanto essa è la

mediazione del divenir-altro-da-sé con se stesso (…). Il vero è il

divenire di se stesso, il circolo che presuppone e ha all’inizio la

propria fine come proprio fine, e che solo mediante l’attuazione e

la propria fine è effettuale.

G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito

(1806-7), Prefazione:

(…) Il vero è l’intero. Ma l’intero è soltanto

l’essenza che si completa mediante il suo

sviluppo. Dell’Assoluto si deve dire che esso è

essenzialmente risultato, che solo alla fine è ciò

che è in verità; e proprio in ciò consiste la sua

natura, nell’essere effettualità, soggetto o divenir-

se-stesso.

G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito

(1806-7), Prefazione:

(…) Che il vero sia effettuale solo come sistema,

o che la sostanza sia essenzialmente Soggetto, ciò

è espresso in quella rappresentazione che enuncia

l’Assoluto come Spirito – elevatissimo concetto

appartenente all’Età moderna e alla sua religione.

G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche

in compendio (1817):

Aufheben ha nella lingua un doppio senso: quello di conservare e

quello di far cessare, di porre un termine. Conservare ha

d’altronde un significato negativo, cioè per conservare qualcosa

bisogna che gli si tolga la sua immediatezza, che gli si sopprima la

sua esistenza, così che essa è sottomessa alle condizioni esterne.

In questo modo ciò che viene soppresso è nello stesso tempo

conservato, avendo perso solo la sua esistenza immediata, senza

essere per questo annientato. Sul piano semantico, le due

determinazioni di aufheben possono essere considerate significati

della stessa parola. E’ sorprendente che una lingua sia giunta a

usare una sola parola per due significati opposti.

G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche

in compendio (1817):

(…) Una cosa è soppressa (superata) nella

misura in cui essa è realizzata in unità con il

suo opposto: in questa determinazione, la

Cosa superata appare come riflessa e può

essere designata come «momento»…

G.W.F. Hegel, Scienza della logica (1812-16):

(…) La contraddizione (…) è la radice di ogni movimento e

vitalità; qualcosa si muove, ha un istinto e un’attività, solo in

quanto ha in se stesso una contraddizione. (…) La comune

esperienza riconosce che si dà una quantità di cose

contraddittorie, di contraddittorie disposizioni, ecc., la cui

contraddizione non sta semplicemente in una riflessione esteriore,

ma in loro stesse. E la contraddizione non è poi da prendere

semplicemente come un’anomalia che si mostri solo qua e là, ma è

il negativo nella sua determinazione essenziale, il principio di ogni

muoversi, muoversi che non consiste se non in un esplicarsi e

mostrarsi della contraddizione…

Il sistema filosofico di Hegel:

Logica Idea in sé e per sé=

Puro pensiero (tesi)

Filosofia della natura Idea fuori di sé=

Natura (antitesi)

Filosofia dello spirito Idea che ritorna in sé=

Spirito (sintesi)

Il sistema filosofico di Hegel:

Logica Dottrina dell’essere

Dottrina dell’essenza

Dottrina del concetto

Filosofia della natura Meccanica

Fisica

Organica

Il sistema filosofico di Hegel:

Filosofia dello Spirito

Spirito soggettivo Antropologia

Fenomenologia

Psicologia

Spirito oggettivo Diritto

Moralità

Eticità

Spirito assoluto Arte

Religione

Filosofia

Il sistema filosofico di Hegel:

Famiglia

Eticità Società civile

Stato

G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto (1821):

Lo Stato non esiste per i cittadini: si potrebbe dire

che esso è il fine, e quelli sono i suoi strumenti.

Peraltro tale rapporto generale di fine a mezzo

non è in questo caso adeguato. Lo Stato non è

infatti una realtà astratta che si contrapponga ai

cittadini; bensì essi sono momento come nella

vita organica, in cui nessun membro è fine e

nessuno è mezzo, (§ 258 A)

G.W.F. Hegel, Epistolario:

Gli avvenimenti più universali (…) mi suscitano le più universali

considerazioni, che mi riportano nella sfera del pensiero i particolari singoli

e prossimi, per quanto questi possano interessare il sentimento. Io considero

che lo Spirito del mondo ha dato al tempo la parola d’ordine di avanzare;

un tale comando è obbedito; questo essere si avanza irresistibile come una

falange corazzata, in ordine chiuso, e con il movimento impercettibile del

sole, attraverso ogni ostacolo; innumerevoli truppe leggere si muovono

nell’uno e nell’altro senso, e la maggior parte di esse non sa neppure di che

si tratta e non fa che incassare colpi che provengono come da una mano

invisibile. Tutte le millanterie temporeggiatrici (…) a nulla servono; (…) Il

partito più sicuro (interiormente ed esteriormente) è quello di osservare

questo gigante che si avanza

G.W.F. Hegel, Lezioni di filosofia della storia:

La bandiera dello spirito libero (…) è la bandiera sotto cui

serviamo e che teniamo alta. Il tempo, da allora fino a noi,

non ha avuto e non ha altra opera da compiere all’infuori di

quella di incorporare questo principio nel mondo (IV, 151)

…Sembra che allo spirito del mondo sia ora riuscito di

sbarazzarsi da ogni essenza estranea e oggettiva, e di

cogliersi infine come Spirito assoluto, di generare da sé ciò

che gli diviene oggettivo e, comportandosi con calma, di

tenerlo in suo potere.

G.W.F. Hegel, Lezioni di filosofia della storia:

…Sin qui è giunto lo spirito del mondo. L’ultima

filosofia è il risultato di tutte le precedenti; nulla

è perduto, tutti i principi sono conservati. Questa

idea concreta è il risultato degli sforzi dello

spirito attraverso quasi 2500 anni (…) del suo più

serio lavoro per diventare oggettivo a se stesso e

per conoscersi: Tantae molis erat se ipsam

cognoscere mentem (parafrasi virgiliana).

G.W.F. Hegel, Filosofia del diritto (1821), Prefazione:

La filosofia, poiché è lo scandaglio del razionale,

appunto per ciò è l’apprendimento di ciò ch’è presente e

reale, non la costruzione di un al di là, che sa Dio dove

dovrebbe essere, - o del quale di fatto si sa ben dire

dov’è, cioè nell’errore di un vuoto, unilaterale

raziocinare…

Ciò che è razionale è reale:

e ciò che è reale è razionale.

G.W.F. Hegel, Filosofia del diritto (1821), Prefazione:

Quel che importa allora è conoscere, nella parvenza di ciò

ch’è temporale e transeunte, la sostanza che è immanente

e l’eterno che è presente. Poiché il razionale, che è

sinonimo dell’idea, allorché esso nella sua realtà entra in pari

tempo nell’esistenza esterna, vien fuori in un’infinita

ricchezza di forme, fenomeni e configurazioni, e circonda il

suo nucleo con la scorza variopinta nella quale la coscienza

dapprima dimora, che soltanto il concetto trapassa, per

trovare il polso interno e pur nelle configurazioni esterne

sentirlo ancora battere…

G.W.F. Hegel, Filosofia del diritto (1821), Prefazione:

…Così, dunque, questo trattato, in quanto contiene la

scienza dello Stato, dev’essere null’altro, se non il

tentativo d’intendere e presentare lo Stato come cosa

razionale in sé. In quanto scritto filosofico, esso deve

restare molto lontano dal dover costruire uno Stato come

dev’essere; l’ammaestramento che può trovarsi in esso

non può giungere a insegnare allo Stato come deve

essere, ma, piuttosto, in quale modo esso deve esser

riconosciuto come universo etico.

G.W.F. Hegel, Filosofia del diritto (1821), Prefazione:

…Intendere ciò che è, è il compito della filosofia,

poiché ciò che è, è la ragione. Del resto, per quel che

si riferisce all’individuo, ciascuno è, senz’altro,

figlio del suo tempo; e anche la filosofia è il proprio

tempo appreso col pensiero. E’ altrettanto folle

pensare che una qualche filosofia precorra il suo

mondo attuale, quanto che ogni individuo si lasci

indietro il suo tempo, e salti oltre…

G.W.F. Hegel, Filosofia del diritto (1821), Prefazione:

Ciò che sta tra la ragione come spirito autocosciente, e la ragione come

realtà presente, ciò che differenzia quella ragione da questa ed in essa

non lascia trovare l’appagamento, è l’impaccio di qualche astrazione,

che non si è liberata, e non si è fatta concetto. Riconoscere la ragione

come la rosa, nella croce del presente, e quindi godere di questa – tale

riconoscimento razionale è la riconciliazione con la realtà, che la

filosofia consente a quelli, i quali hanno avvertito, una volta, l’interna

esigenza di comprendere e di mantenere, appunto, la libertà soggettiva

in ciò che è sostanziale, e al modo stesso, di stare nella libertà

soggettiva, non come in qualcosa di individuale e di accidentale, ma in

qualcosa che è in sé e per sé

G.W.F. Hegel, Filosofia del diritto (1821), Prefazione:

(…) Del resto, a dire anche una parola sulla dottrina di come dev’essere

il mondo, la filosofia arriva sempre troppo tardi. Come pensiero del

mondo, essa appare per la prima volta nel tempo, dopo che la realtà ha

compiuto il suo processo di formazione ed è bell’e fatta. Questo, che il

concetto insegna, la storia mostra, appunto, necessario: che, cioè, prima

l’ideale appare di contro al reale, nella maturità della realtà, e poi esso

costruisce questo mondo medesimo, colto nella sostanza di esso, in

forma di regno intellettuale. Quando la filosofia dipinge a chiaroscuro,

allora un aspetto della vita è invecchiato, e, dal chiaroscuro, esso non si

lascia ringiovanire, ma soltanto riconoscere: la nottola di Minerva inizia

il suo volo sul far del crepuscolo.

Lezione n. 32

II SEMESTRE

A.A. 2018-2019

STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHEDocente Prof. Scuccimarra

K. Marx, Tesi su Feuerbach (1845):

Undicesima tesi

I filosofi hanno solo interpretato il

mondo in modi diversi; si tratta però

di mutarlo.

K. Marx, L’ideologia tedesca (1846)

I presupposti da cui muoviamo non sono arbitrari, non

sono dogmi: sono presupposti reali, dai quali si può

astrarre solo nell’immaginazione. Essi sono gli individui

reali, la loro azione e le loro condizioni materiali di

vita, tanto quelle che essi hanno trovato già esistenti

quanto quelle prodotte dalla loro stessa azione. Questi

presupposti sono dunque constatabili per via puramente

empirica.

K. Marx, L’ideologia tedesca (1846)Il primo presupposto di tutta la storia umana è naturalmente l’esistenza di

individui umani viventi. Il primo dato di fatto da constatare è dunque

l’organizzazione fisica di questi individui e il loro rapporto, che ne consegue,

verso il resto della natura. Qui naturalmente non possiamo addentrarci

nell’esame né della costituzione fisica dell’uomo stesso, né delle condizioni

naturali trovate dagli uomini, come le condizioni geologiche, oro-idrografiche,

climatiche, e così via. Ogni storiografia deve prendere le mosse da queste basi

naturali e dalle modifiche da esse subite nel corso della storia per l’azione degli

uomini.

Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la

religione, per tutto ciò che si vuole; ma essi cominciarono a distinguersi dagli

animali allorché cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza, un

progresso che è condizionato dalla loro organizzazione fisica. Producendo i

loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa

vita materiale.

K. Marx, L’ideologia tedesca (1846)

Il modo in cui gli uomini producono i loro mezzi di sussistenza

dipende prima di tutto dalla natura dei mezzi di sussistenza che

essi trovano e che debbono riprodurre. Questo modo di

produzione non si deve giudicare solo in quanto è la riproduzione

dell’esistenza fisica degli individui; anzi, esso è già un modo

determinata dell’attività di questi individui, un modo determinato

di estrinsecare la loro vita, un modo di vita determinato. Come gli

individui esternano la loro vita, così essi sono. Ciò che essi sono

coincide dunque con la loro produzione, tanto con ciò che

producono quanto col modo come producono. Ciò che gli

individui sono dipende dunque dalle condizioni materiali della

loro produzione.

K. Marx, Critica del diritto pubblico hegeliano (1843)

Per la Germania, la critica della religione nell'essenziale è compiuta, e

la critica della religione è il presupposto di ogni critica. (…) Il

fondamento della critica irreligiosa è: l'uomo fa la religione, e non la

religione l'uomo. Infatti, la religione è la coscienza di sé e il

sentimento di sé dell'uomo che non ha ancora conquistato o ha già di

nuovo perduto se stesso. Ma l'uomo non è un essere astratto, posto

fuori del mondo. L'uomo è il mondo dell'uomo, Stato, società. Questo

Stato, questa società producono la religione, una coscienza capovolta

del mondo, poiché essi sono un mondo capovolto. (…) La lotta contro

la religione è dunque mediatamente la lotta contro quel mondo, del

quale la religione è l'aroma spirituale...

K. Marx, Critica del diritto pubblico hegeliano (1843)

La miseria religiosa è insieme l'espressione della miseria reale e la

protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della

creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così

come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l'oppio del

popolo.

Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol

dire esigerne la felicità reale. L'esigenza di abbandonare le illusioni

sulla sua condizione è l'esigenza di abbandonare una condizione

che ha bisogno di illusioni. La critica della religione, dunque, è, in

germe, la critica della valle di lacrime, di cui la religione è

l'aureola...

K. Marx, Critica del diritto pubblico hegeliano (1843)

Il compito della storia, una volta scomparso l’al di là della

verità, consiste quindi nello stabilire la verità dell’al di

qua. Compito della filosofia, che è al servizio della storia, è

lo smascheramento, dopo che la figura sacra

dell’estraneazione dell’uomo è già stata smascherata,

dell’autoestraneazione dell’uomo nelle figure non-sacre.

La critica del cielo si trasforma quindi nella critica della

terra, la critica della religione nella critica del diritto, la

critica della teologia nella critica della politica.

K. Marx, Critica del diritto pubblico hegeliano (1843)

Il lato più profondo di Hegel sta nel fatto di

aver sentito come un contrasto la

separazione della società civile da quella

politica. Negativo è peraltro il fatto che egli

si accontenti di avere apparentemente

dissolto questo contrasto.

K. Marx, La questione ebraica (1844)

L’elevazione politica dell’uomo al di sopra della religione partecipa di tutti i difetti e i pregi

dell’elevazione politica in generale. Lo stato in quanto stato annulla, ad esempio, la proprietà

privata, l’uomo dichiara soppressa politicamente la proprietà privata non appena esso abolisce

il censo per l’eleggibilità attiva e passiva come è avvenuto in molti stati nordamericani. (…)

Tuttavia, con l’annullamento politico della proprietà privata non solo non viene soppressa la

proprietà privata, ma essa viene addirittura presupposta. Lo stato sopprime nel suo modo le

differenze di nascita, di condizione, di educazione, di occupazione, dichiarando che nascita,

condizione, educazione, occupazione sono differenze impolitiche, proclamando ciascun

membro del popolo partecipe in egual misura della sovranità popolare, senza riguardo a tali

differenze, trattando tutti gli elementi della vita reale del popolo dal punto di vista dello stato.

Nondimeno lo stato lascia che la proprietà privata, l’educazione, l’occupazione operino nel loro

modo, cioè come proprietà privata, come educazione, come occupazione e facciano valere la

loro particolare essenza. Ben lungi dal sopprimere queste differenze di fatto, lo stato esiste

piuttosto soltanto in quanto le presuppone, sente se stesso come stato politico, e fa valere la

propria universalità solo in opposizione con questi suoi elementi.

K. Marx, La questione ebraica (1844)

Lo Stato politico perfetto è per sua essenza la vita generica dell’uomo in

quanto specie, in opposizione alla sua vita materiale. Tutti i presupposti

di questa vita egoistica continuano a sussistere al di fuori della sfera

dello Stato, nella società borghese, ma come caratteristiche della società

civile. Là dove lo Stato politico ha raggiunto il suo vero sviluppo,

l’uomo conduce non soltanto nel pensiero, nella coscienza, ma nella

realtà, una doppia vita, una celeste e una terrena, la vita nella comunità

politica nella quale egli si considera come ente comunitario, e la vita

nella società borghese nella quale agisce come uomo privato, che

considera gli altri uomini come mezzi, degrada se stesso a mezzo e

diviene trastullo di forze estranee…

K. Marx, La questione ebraica (1844)

Lo Stato politico si rapporta alla società civile nel modo

spiritualistico con cui il cielo si rapporta alla terra. Rispetto ad essa si

trova nel medesimo contrasto, e la sovrasta nel medesimo modo in

cui la religione sovrasta la limitatezza del mondo profano, cioè

dovendo insieme riconoscerla restaurarla e lasciarsi da essa

dominare. Nella sua realtà più immediata, nella società civile, l’uomo

è un essere profano. Qui, dove per sé e per gli altri vale come

individuo reale, egli è un fenomeno non vero. Viceversa, nello Stato,

dove l’uomo vale come ente generico, egli è il membro immaginario

di una sovranità immaginaria, è spogliato della sua reale vita

individuale e riempito di una universalità irreale…

K. Marx, La questione ebraica (1844)

(…) L’emancipazione politica è certamente

un grande passo in avanti, non è però la

forma ultima dell’emancipazione umana in

generale, ma è l’ultima forma

dell’emancipazione umana entro l’ordine

mondiale attuale. S’intende: noi parliamo qui

di emancipazione reale, pratica.

K. Marx, La questione ebraica (1844)

I droits de l’homme, cioè i diritti dell’uomo, sono come tali distinti dai droits du citoyen,

cioè dai diritti del cittadino. Ma chi è l’homme distinto dal citoyen? Nessun altro fuorché il

membro della società borghese. Perché dunque il membro della società borghese diventa

un uomo, l’uomo semplicemente, è perché i suoi diritti sono chiamati diritti dell’uomo?

Come ci spieghiamo questo fatto? Certo in base al rapporto tra Stato politico e società

borghese, cioè in base alla natura dell’emancipazione (soltanto) politica.

(…) Nessuno dei cosiddetti diritti dell’uomo oltrepassa (…) l’uomo egoistico, l’uomo in

quanto membro della società civile, cioè l’individuo ripiegato su se stesso, sul suo

interesse privato e sul suo arbitrio privato e isolato dalla comunità. Ben lungi dall’essere

l’uomo intesi in essi come ente che appartiene alla specie, la stessa vita della specie, la

società, appare piuttosto come una cornice esterna agli individui, come limitazione della

loro indipendenza originaria. L’unico legame che li tiene insieme è la necessità naturale, il

bisogno e l’interesse privato, la conservazione della loro proprietà e della loro persona

egoistica.

Lezione n. 33

II SEMESTRE

A.A. 2018-2019

STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHEDocente Prof. Scuccimarra

K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844

Dalla critica dell’alienazione politica

alla critica dell’alienazione economica

L'operaio diventa tanto più povero quanto maggiore è la ricchezza

che produce, quanto più la sua produzione cresce di potenza e di

estensione. L'operaio diventa una merce tanto più vile quanto più

grande è la quantità di merce che produce. La svalorizzazione del

mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del

mondo delle cose. Il lavoro non produce soltanto merci; produce se

stesso e l'operaio come una merce, e proprio nella stessa

proporzione in cui produce in generale le merci…

K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844

Questo fatto non esprime altro che questo: l'oggetto che il lavoro produce, il prodotto del

lavoro, si contrappone ad esso come un essere estraneo, come una potenza indipendente

da colui che lo produce. Il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, è

diventato una cosa, è l'oggettivazione del lavoro. La realizzazione del lavoro è la sua

oggettivazione. Questa realizzazione del lavoro appare nello stadio dell'economia privata

come un annullamento dell'operaio, l'oggettivazione appare come perdita e asservimento

dell'oggetto, l'appropriazione come estraniazione, come alienazione.

La realizzazione del lavoro si presenta come annullamento in tal maniera che l'operaio

viene annullato sino a morire di fame. L'oggettivazione si presenta come perdita

dell'oggetto in siffatta guisa che l'operaio è derubato degli oggetti più necessari non solo

per la vita, ma anche per il lavoro. Già, il lavoro stesso diventa un oggetto, di cui egli

riesce a impadronirsi soltanto col più grande sforzo e con le più irregolari interruzioni.

L'appropriazione dell'oggetto si presenta come estraniazione in tale modo che quanti più

oggetti l'operaio produce, tanto meno egli ne può possedere e tanto più va a finire sotto la

signoria del suo prodotto, del capitale.

K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844

Tutte queste conseguenze sono implicite nella determinazione che l'operaio si viene a

trovare rispetto riprodotto del suo lavoro come rispetto ad un oggetto estraneo. Infatti,

partendo da questo presupposto è chiaro che: quanto più l'operaio si consuma nel

lavoro, tanto più potente diventa il mondo estraneo, oggettivo, che egli si crea dinanzi,

tanto più povero diventa egli stesso, e tanto meno il suo mondo interno gli appartiene.

Lo stesso accade nella religione. Quante più cose l'uomo trasferisce in Dio, tanto meno

egli ne ritiene in se stesso. L'operaio ripone la sua vita nell'oggetto; ma d'ora in poi la

sua vita non appartiene più a lui, ma all'oggetto. Quanto più grande è dunque questa

attività, tanto più l'operaio è privo di oggetto. Quello che è il prodotto del suo lavoro,

non è egli stesso. Quanto più grande è dunque questo prodotto, tanto più piccolo è egli

stesso. L'alienazione dell'operaio nel suo prodotto significa non solo che il suo lavoro

diventa un oggetto, qualcosa che esiste all' esterno, ma che esso esiste fuori di lui,

indipendente da lui, a lui estraneo, e diventa di fronte a lui una potenza per se stante;

significa che la vita che egli ha dato all'oggetto, gli si contrappone ostile ed estranea.

K. Marx, L’ideologia tedesca (1846)

La divisione del lavoro:

La divisione del lavoro offre anche il primo esempio del

fatto che fin tanto che gli uomini si trovano nella società

naturale, fin tanto che esiste, quindi, la scissione fra

interesse particolare e interesse comune, fin tanto che

l’attività, quindi, è divisa non volontariamente ma

naturalmente, l’azione propria dell’uomo diventa una

potenza a lui estranea, che lo sovrasta, che lo soggioga,

invece di essere da lui dominata.

K. Marx, L’ideologia tedesca (1846)

Cioè appena il lavoro comincia ad essere diviso ciascuno ha un

sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e

dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, pescatore, o pastore, o

critico, e tale deve restare se non vuol perdere i mezzi per vivere,

laddove nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera

di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a

piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal

modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani

quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la

sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien

voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né

critico.

K. Marx, L’ideologia tedesca (1846)Questo fissarsi dell’attività sociale, questo consolidarsi del nostro proprio

prodotto in un potere obiettivo che ci sovrasta, che cresce fino a sfuggire al

nostro controllo, che contraddice le nostre aspettative, che annienta i nostri

calcoli, è stato fino ad oggi uno dei momenti principali dello sviluppo

storico. Il potere sociale, cioè la forza produttiva moltiplicata che ha origine

attraverso la cooperazione dei diversi individui, determinata nella divisione

del lavoro, appare a questi individui, poiché la cooperazione stessa non è

volontaria ma naturale, non come il loro proprio potere unificato, ma come

una potenza estranea, posta al di fuori di essi, della quale essi non sanno

donde viene e dove va, che quindi non possono più dominare e che al

contrario segue una sua propria successione di fasi e di gradi di sviluppo la

quale è indipendente dal volere e dall’agire degli uomini e anzi dirige

questo volere e questo agire…

Marx, Il Capitale (1865)

Il feticcio della merce:

Di dove sorge dunque il carattere enigmatico del prodotto di lavoro

appena assume forma di merce? Evidentemente proprio da tale

forma. L’eguaglianza dei lavori umani riceve la forma reale

dell’eguale oggettività di valore dei prodotti del lavoro, la misura

del dispendio di forza-lavoro umana mediante la sua durata

temporale riceve la forma della grandezza di valore dei prodotti del

lavoro, infine i rapporti fra i produttori, nei quali si attuano quelle

determinazioni sociali dei loro lavori, ricevono la forma di un

rapporto sociale dei prodotti del lavoro.

Marx, Il Capitale (1865)

L’arcano della forma merce consiste dunque semplicemente

nel fatto che tale forma, come uno specchio, restituisce agli

uomini l’immagine dei caratteri sociali del loro proprio

lavoro, facendoli apparire come caratteri oggettivi dei

prodotti di quel lavoro, come proprietà sociali naturali di

quelle cose, e quindi restituisce anche l’immagine del

rapporto sociale tra produttori e lavoro complessivo,

facendolo apparire come un rapporto sociale fra oggetti

esistente al di fuori di essi produttori. Mediante questo quid

pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, cose

sensibilmente soprasensibili, cioè cose sociali.

Marx, Il Capitale (1865)

Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica

di un rapporto tra cose è soltanto il rapporto sociale

determinato che esiste fra gli uomini stessi. Quindi, per

trovare un’analogia, dobbiamo involarci nella regione

nebulosa del mondo religioso. Quivi, i prodotti del cervello

umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che

stanno in rapporto tra loro e in rapporto con gli uomini. Così,

nel mondo delle merci, fanno i prodotti della mano umano.

Questo io chiamo il feticismo che s’appiccica ai prodotti del

lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è

inseparabile dalla produzione delle merci (I, I, 4)

Marx, Il Capitale (1865)

In genere, la riflessione sulle forme della vita umana, e

quindi anche l’analisi scientifica di esse, prende una strada

opposta allo svolgimento reale. Comincia post festum e

quindi parte dai risultati belli e pronti del processo di

svolgimento. Le forme che danno ai prodotti del lavoro

l’impronta di merci, e quindi sono il presupposto della

circolazione delle merci, hanno già la solidità di forme

naturali della vita sociale, prima che gli uomini cerchino di

rendersi conto, non già del carattere storico di queste forme,

che per essi anzi sono ormai immutabili, ma del loro

contenuto (Vol. I, p. 107)

Manifesto del Partito comunista (1848):

La teoria delle classi:

La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi. Liberi e

schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni,

in breve, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e

condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con

una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi

in lotta.(…) La società civile moderna, sorta dal tramonto della società feudale, non ha

eliminato gli antagonismi fra le classi. Essa ha soltanto sostituito alle antiche, nuove

classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta. La nostra epoca, l'epoca

della borghesia, si distingue però dalle altre per aver semplificato gli antagonismi di

classe. L'intera società si va scindendo sempre più in due grandi campi nemici, in due

grandi classi direttamente contrapposte l'una all'altra: borghesia e proletariato

Manifesto del Partito comunista (1848):

La teoria delle classi:

Fra tutte le classi che oggi stanno di contro alla borghesia, il proletariato

soltanto è una classe realmente rivoluzionaria. Le altre classi decadono e

tramontano con la grande industria; il proletariato è il suo prodotto più

specifico. (…) Le condizioni di esistenza della vecchia società sono già

annullate nelle condizioni di esistenza del proletariato. Il proletario è senza

proprietà; il suo rapporto con moglie e figli non ha più nulla in comune con il

rapporto familiare borghese; il lavoro industriale moderno, il soggiogamento

moderno del capitale, identico in Inghilterra e in Francia, in America e in

Germania, lo ha spogliato di ogni carattere nazionale. Leggi, morale, religione

sono per lui altrettanti pregiudizi borghesi, dietro i quali si nascondono

altrettanti interessi borghesi.

Manifesto del Partito comunista (1848):

La teoria delle classi:

Tutte le classi che si sono finora conquistato il potere hanno cercato di garantire la

posizione di vita già acquisita, assoggettando l'intera società alle condizioni della loro

acquisizione. I proletari possono conquistarsi le forze produttive della società soltanto

abolendo il loro proprio sistema di appropriazione avuto sino a questo momento, e per

ciò stesso l'intero sistema di appropriazione che c'è stato finora. I proletari non hanno da

salvaguardare nulla di proprio, hanno da distruggere tutta la sicurezza privata e tutte le

assicurazioni private che ci sono state fin qui. Tutti i movimenti precedenti sono stati

movimenti di minoranze, o avvenuti nell'interesse di minoranze. Il movimento proletario

è il movimento indipendente della immensa maggioranza. Il proletariato, lo strato più

basso della società odierna, non può sollevarsi, non può drizzarsi, senza che salti per aria

l'intera soprastruttura degli strati che formano la società ufficiale.

Manifesto del Partito comunista (1848):

La teoria delle classi:

I comunisti lottano per raggiungere i fini e gli interessi

immediati della classe operaia, ma nel movimento

presente rappresentano in pari tempo l'avvenire del

movimento. (…) Il partito comunista non cessa

nemmeno un istante di preparare e sviluppare fra gli

operai una coscienza quanto più chiara è possibile

dell'antagonismo ostile fra borghesia e proletariato.

Per la critica dell’economia politica (1859):

Forze di produzione e rapporti di produzione:

Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti

determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di

produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro

forze produttive materiali. (…) A un dato punto del loro sviluppo, le forze

produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di

produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto

l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse.

Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in

loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il

cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente

tutta la gigantesca sovrastruttura.

Per la critica dell’economia politica (1859):

(…) Una formazione sociale non perisce finché non si siano

sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e

superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che

siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali

della loro esistenza. Ecco perché l’umanità non si propone se non

quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose

dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le

condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno

sono in formazione. A grandi linee, i modi di produzione asiatico,

antico, feudale e borghese moderno possono essere designati

come epoche che marcano il progresso della formazione

economica della società.

Marx, Il CapitaleIl vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso, è questo: che

il capitale e la sua autovalorizzazione appaiono come punto di partenza e

punto di arrivo, come motivo e scopo della produzione; che la produzione è

solo produzione per il capitale, e non al contrario i mezzi di produzione

sono dei semplici mezzi per una continua estensione del processo vitale per

la società dei produttori. I limiti nei quali possono unicamente muoversi la

conservazione e l’autovalorizzazione del valore-capitale, che si fonda

sull’espropriazione e l’impoverimento della grande massa dei produttori,

questi limiti si trovano dunque continuamente in conflitto con i metodi di

produzione a cui il capitale deve ricorrere per raggiungere il suo scopo, e

che perseguono l’accrescimento illimitato della produzione, la produzione

come fine a se stessa, lo sviluppo incondizionato delle forze produttive

sociali del lavoro.

Marx, Il Capitale

Il mezzo – lo sviluppo incondizionato delle forze

produttive sociali – viene permanentemente in conflitto

con il fine ristretto, la valorizzazione del capitale

esistente. Se il modo di produzione capitalistico è quindi

un mezzo storico per lo sviluppo della forza produttiva

materiale e la creazione di un corrispondente mercato

mondiale, è al tempo stesso la contraddizione costante

tra questo suo compito storico e i rapporti di produzione

sociali che gli corrispondono (Vol. III, p. 303).

Marx, Il Capitale

La legge di caduta tendenziale del saggio del profitto:

Dato che la massa di lavoro vivo impiegato diminuisce

costantemente in rapporto alla massa di lavoro oggettivato da essa

messo in movimento (cioè ai mezzi di produzione consumati

produttivamente) anche la parte di questo lavoro vivo che non è

pagato e si oggettiva in plusvalore, dovrà essere in proporzione

costantemente decrescente rispetto al valore del capitale

complessivo impiegato. Questo rapporto tra la massa del

plusvalore e il valore del capitale complessivo impiegato

costituisce però il saggio del profitto, che dovrà per conseguenza

diminuire costantemente (Vol. III, p. 261).

Il Capitale, I, III:

La crisi di sistema:Con la diminuzione costante del numero dei magnati del capitale che usurpano

e monopolizzano tutti i vantaggi di questo processo di trasformazione, cresce la

massa della miseria, della pressione, dell’asservimento, della degenerazione,

dello sfruttamento, ma cresce anche la ribellione della classe operaia che

sempre più s’ingrossa ed è disciplinata, unita e organizzata dallo stesso

meccanismo del processo di produzione capitalistico. Il monopolio del capitale

diventa un vincolo del modo di produzione, che è sbocciato insieme ad esso e

sotto di esso. La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione

del lavoro raggiungono un punto in cui diventano incompatibili col loro

involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato. Suona l’ultima ora della

proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati. (…) La

produzione capitalistica genera essa stessa, con l’ineluttibilità di un processo

naturale, la propria negazione. E’ la negazione della negazione.

K. Marx, L’ideologia tedesca:

Il comunismo per noi non è uno stato di

cose che debba essere instaurato, un ideale

al quale la realtà dovrà conformarsi.

Chiamiamo comunismo il movimento reale

che abolisce lo stato di cose presente. Le

condizioni di questo movimento risultano

dal presupposto ora esistente.